• #Villa_del_seminario”, la storia rimossa del campo di concentramento in #Maremma

    Nella frazione #Roccatederighi del Comune di #Roccastrada tra la fine del 1943 e la metà del 1944 vi fu un “campo di concentramento ebraico”, come scrissero i fascisti nel contratto di affitto con un vescovo vicino al regime. Da lì si partiva per #Fossoli, direzione Auschwitz. Il romanzo dello scrittore Sacha Naspini smuove la polvere.

    Roccatederighi, frazione del Comune di Roccastrada, in Maremma, tra il 28 novembre del 1943 e il 9 giugno del 1944 ospitò un campo di concentramento: vi furono rinchiusi un centinaio di ebrei, 38 dei quali poi deportati verso la Germania, da cui ritornarono solo in quattro. La struttura che ospitò il campo è la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, la “Villa del seminario” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Sacha Naspini, scrittore grossetano che a Roccatederighi (che diventa Le Case in questo e in altri dei suoi libri) ha passato l’infanzia nella casa dei nonni materni.

    Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda del campo di concentramento della Villa del seminario?
    SN In qualche modo vengo da lì e fin da ragazzino sentivo girare per casa questa faccenda: il seminario sono due grossi edifici all’imbocco del paese, dicevano là sono successe delle cose, ma erano discorsi che sfumavano nel nulla. Prima del 2008, quando in occasione della Giornata della memoria fu messa lì una lastra commemorativa, la villa del seminario era usata per fare le scampagnate, anche le braciate del 25 aprile o del 1 maggio. Ricordo io e mio fratello, con i miei nonni che andavamo nel giardino del vescovo. Pochi sapevano, così quando è uscito il libro ho ricevuto molti messaggi o mail, da parte di persone che magari oggi hanno 75 anni, che sono nate e vivono a Roccatederighi e che di quella vicenda non ne avevano mai sentito parlare. Un uomo, che abita sulla provinciale, a cento metri dal seminario e mi ha proprio scritto: “Davvero vivo davanti a un campo di concentramento?”. Perché da lì si partiva per Fossoli (Modena), proseguendo poi per Auschwitz. E negli anni Ottanta e Novanta lì i giovani della Diocesi, anche quelli della mia generazione, facevano i campi estivi.

    Sei cresciuto a Grosseto: manca ancora o si è sviluppata una memoria condivisa rispetto a quell’evento? Nel libro scrivi che la strada verso quell’edificio ormai diroccato è ancora oggi via del Seminario.
    SN C’è un rimosso, io vengo da quei massi, quella bella cartolina di Maremma, rude e vera, ma anche da quel silenzio. Non tutti i rocchigiani hanno accolto bene il mio romanzo, fa parte della mentalità di paese il sentirsi attaccati o in qualche modo svestiti, spogliati da una serie di costruzioni e difese che la gente prende nei confronti dello stare al mondo in quella routine. Questo però è un caso unico nel mondo, perché nel contratto di affitto tra Alceo Ercolani (prefetto di Grosseto per la Repubblica sociale italiana) e Paolo Galeazzi, vescovo fascista, si parla apertamente di “campo di concentramento ebraico”, cose che danno un certo sgomento. Come ricordo nelle ultime pagine del romanzo, a febbraio 2022, nel giorno in cui ho chiuso le bozze del mio libro, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna inaugurava la piazza in ricordo di Galeazzi, di cui si ricordano pastorali di chiaro stampo fascista e passeggiate a braccetto di Benito Mussolini.

    La memoria, quindi, non è né può essere condivisa.
    SN Il mio libro è stato un po’ come andare a muovere polvere sotto il tappeto. C’è anche chi mi ha detto “Io non lo sapevo, quindi non è vero”, ma la realtà è che una storica, Luciana Rocchi (dal 1993 al 2016 è stata Direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, ndr) ha scoperto negli archivi della Diocesi il contratto d’affitto, che non può essere nascosto. La notizia, frutto del lavoro di una storica, resta un po’ sottotono, in sordina. Finché un libro, “Il muro degli ebrei”, di Ariel Paggi, una ricognizione su 175 ebrei di Maremma, molti dei quali passano anche da via del Seminario, mi ha dato le mappe per scrivere davvero questa storia.
    Altri particolari sono frutto della storia familiare: mia nonna mi ha raccontato in tutte le salse l’inverno durissimo del 1943, che già da novembre si annunciava così; poi la guerra, com’era avvertita in paese, con la febbre che si alzava sempre di più man mano che avanzavano gli alleati, l’organizzazione delle prime bande partigiane, ma anche le privazioni, il razionamento. Nel dicembre del 1943 il babbo della mia nonna materna è morto di “deperimento organico”, praticamente di fame, in casa. I bottegai di Roccatederighi probabilmente non ne sapevano niente, ma hanno visto arrivare intere famiglie che si facevano auto-internare, con l’idea di trascorrere alla villa del seminario quel momento particolare, lasciar passare la guerra e tornare a casa. Il vescovo è rimasto lì per tutto il tempo, scegliendo solo alla fine di salvare alcuni ebrei, tra i più benestanti, probabilmente per ottenere una “carta verde” dal nuovo governo, a cui ha poi chiesto gli arretrati per l’affitto non pagato.
    Anche dopo il 2008, quand’è stata apposta la lastra, non c’è la giusta attenzione. Sono emersi negli anni alcuni progetti di rivalutazione dello stabile, per farne un albergo o un istituto per malati di Alzheimer, ma la villa resta in abbandono. È cambiata la sacralità del luogo: dormiresti in un albergo sapendo che è stato un campo di concentramento?

    Uno dei protagonisti della vicenda è Boscaglia, giovanissima guida di una banda partigiana.
    SN La storia di Guido Radi, “Boscaglia”, è legata a quella della partigiana Norma Parenti, due persone che vibrano ancora. Lui venne ucciso a 19 anni, il suo corpo straziato trascinato fino a Massa Marittima, dove lei andò a recuperarlo, per darne sepoltura. Sono storie che potete ritrovare, perché tutto ciò che racconto è vero, a partire dalla morte di Edoardo, il figlio di Anna, in una vicenda che richiama la strage di Istia d’Ombrone, quando 11 ragazzi vennero assassinati per rappresaglia nel marzo del 1944. All’ultima commemorazione, nel 2023, il sindaco Vivarelli Colonna, che si è presentato senza fascia tricolore, è stato contestato da cittadini che hanno assistito al comizio del sindaco girati di spalle, in silenzio.

    La storia è narrata da René, un ciabattino di 50 anni che ha perso tre dita al tornio da ragazzino. Nel libro racconti la sua rivoluzione.
    SN Presa coscienza del grande lavoro di Paggi ho voluto scrivere una storia creando questo cinquantenne fuori dai giochi, che ingoia tutta le cattiverie del paese a partire dai nomignoli per la sua menomazione, da Pistola a Settebello. L’ho voluto ciabattino, perché quello è un pezzo di guerra che si è combattuta tanto con i piedi. È una storia che potrei aver ascoltato in paese e che ho ritrovato in un libro di Cazzullo, “Mussolini il capobanda”, che parla di un ciabattino storpio di Roccastrada che ha fatto la Resistenza. Ho voluto raccontare la trasformazione di un personaggio passivo, spettatore del mondo, dovuto all’impatto con la storia con la “s” maiuscola: il suo impatto vero è quando uccidono Edoardo, suo figlioccio, quando l’amica amata Anna decide di andare nei boschi per continuare l’impegno di suo figlio e lascio a lui un compito. Per la prima volta si trova a modificare il suo sguardo sulle cose e su stesso. È un’epopea interiore. Si chiede che cosa vedano i ragazzi che vanno nei boschi, che cosa intuiscono, elementi che tornano anche nel personaggio di Simone.

    Simone, che diventa amico di Renè, è un giovane soldato che pare appoggiare la resistenza. Come l’hai costruito?
    SN Per costruire il suo personaggio mi sono agganciato alle testimonianze dei ragazzi che si ritrovavano ingabbiati in un’uniforme che non sentivano più loro. Il calvario di Simone lo porta a dire “preferisco morire dalla parte sbagliata”. Oggi mi piace trasmettere questi fuochi, quella brama di futuro ai ragazzi che incontro nelle scuole, che si infervorano di fronte a vicende che riguardano loro coetanei. Ogni romanzo offre un’immersione in una circostanza accompagnata da un’emotività particolare. “Boscaglia” aveva 19 anni quando è morto, 18 quando era andato in montagna, non lascia indifferente un ragazzo di quinta superiore.

    https://altreconomia.it/villa-del-seminario-la-storia-rimossa-del-campo-di-concentramento-in-ma
    #Italie #camp_de_concentration #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #shoah #histoire #déportation #Auschwitz #mémoire

    • Villa del seminario

      Una storia d’amore, riscatto e Resistenza.
      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni – schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Poi ecco la guerra, che cambia tutto. Ecco che Settebello scopre la Resistenza. Possibile che una rivoluzione di questo tipo possa partire addirittura dalla suola delle scarpe?
      Villa del seminario evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz.

      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce... Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento.

      René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto.

      Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna... Settebello non può più restare a guardare.

      https://www.edizionieo.it/book/9788833576053/villa-del-seminario
      #Sacha_Naspini

  • Blinne Ní Ghrálaigh: Lawyer’s closing statement in ICJ case against Israel praised

    This was the powerful closing statement in South Africa’s genocide case against Israel.

    Senior advocate #Blinne_Ní_Ghrálaigh addressed the International Court of Justice on day one of the hearing.

    ICJ: Blinne Ní Ghrálaigh’s powerful closing statement in South Africa case against Israel
    https://www.youtube.com/watch?v=ttrJd2aWF-Y&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.thenational.sco

    https://www.thenational.scot/news/24042943.blinne-ni-ghralaigh-lawyers-closing-statement-icj-case-israel

    #Cour_internationale_de_justice (#CIJ) #Israël #Palestine #Afrique_du_Sud #justice #génocide

    • Israël commet-il un génocide à #Gaza ? Le compte rendu d’une #audience historique

      Alors que les massacres israéliens à Gaza se poursuivent, l’Afrique du Sud a tenté de démontrer, jeudi 11 et vendredi 12 janvier devant la justice onusienne, qu’un génocide est en train d’être commis par Israël à Gaza.

      « Une #calomnie », selon l’État hébreu.

      Devant le palais de la Paix de #La_Haye (Pays-Bas), la bataille des #mots a commencé avant même l’audience. Jeudi 11 janvier au matin, devant la #Cour_de_justice_internationale_des_Nations_unies, des manifestants propalestiniens ont exigé un « cessez-le-feu immédiat » et dénoncé « l’#apartheid » en cours au Proche-Orient. Face à eux, des familles d’otages israélien·nes ont montré les photos de leurs proches kidnappés le 7 octobre par le Hamas.

      Pendant deux jours, devant 17 juges internationaux, alors que les massacres israéliens à Gaza continuent de tuer, de déplacer et de mutiler des civils palestiniens (à 70 % des femmes et des enfants, selon les agences onusiennes), le principal organe judiciaire des Nations unies a examiné la requête, précise et argumentée, de l’Afrique du Sud, destinée à imposer au gouvernement israélien des « #mesures
      _conservatoires » pour prévenir un génocide de la population palestinienne de Gaza.

      La première et plus urgente de ces demandes est l’arrêt immédiat des #opérations_militaires israéliennes à Gaza. Les autres exigent des mesures urgentes pour cesser les tueries, les déplacements de population, faciliter l’accès à l’eau et à la nourriture, et prévenir tout génocide.

      La cour a aussi entendu les arguments d’Israël, qui nie toute #intention_génocidaire et a martelé son « #droit_à_se_défendre, reconnu par le droit international ».

      L’affaire ne sera pas jugée sur le fond avant longtemps. La décision sur les « mesures conservatoires », elle, sera rendue « dès que possible », a indiqué la présidente de la cour, l’États-Unienne #Joan_Donoghue.

      Rien ne dit que les 17 juges (dont un Sud-Africain et un Israélien, Aharon Barak, ancien juge de la Cour suprême israélienne, de réputation progressiste mais qui n’a jamais critiqué la colonisation israélienne) donneront raison aux arguments de l’Afrique du Sud, soutenue dans sa requête par de nombreux États du Sud global. Et tout indique qu’une décision sanctionnant Israël serait rejetée par un ou plusieurs #vétos au sein du #Conseil_de_sécurité des Nations unies.

      Cette #audience solennelle, retransmise sur le site de l’ONU (revoir les débats du jeudi 11 et ceux du vendredi 12), et relayée par de nombreux médias internationaux, a pourtant revêtu un caractère extrêmement symbolique, où se sont affrontées deux lectures radicalement opposées de la tragédie en cours à Gaza.

      « Israël a franchi une limite »

      Premier à prendre la parole, l’ambassadeur sud-africain aux Pays-Bas, #Vusi_Madonsela, a d’emblée replacé « les actes et omissions génocidaires commis par l’État d’Israël » dans une « suite continue d’#actes_illicites perpétrés contre le peuple palestinien depuis 1948 ».

      Face aux juges internationaux, il a rappelé « la Nakba du peuple palestinien, conséquence de la #colonisation_israélienne qui a [...] entraîné la #dépossession, le #déplacement et la #fragmentation systématique et forcée du peuple palestinien ». Mais aussi une « #occupation qui perdure depuis cinquante-six ans, et le siège de seize ans imposé [par Israël] à la bande de Gaza ».

      Il a décrit un « régime institutionnalisé de lois, de politiques et de pratiques discriminatoires, mises en place [par Israël – ndlr] pour établir sa #domination et soumettre le peuple palestinien à un apartheid », dénonçant des « décennies de violations généralisées et systématiques des #droits_humains ».

      « En tendant la main aux Palestiniens, nous faisons partie d’une seule humanité », a renchéri le ministre de la justice sud-africain, #Ronald_Ozzy_Lamola, citant l’ancien président Nelson Mandela, figure de la lutte contre l’apartheid dans son pays.

      D’emblée, il a tenté de déminer le principal argument du gouvernement israélien, selon lequel la procédure devant la Cour internationale de justice est nulle et non avenue, car Israël mènerait une #guerre_défensive contre le #Hamas, au nom du #droit_à_la_légitime_défense garanti par l’article 51 de la charte des Nations unies – un droit qui, selon la Cour internationale de justice, ne s’applique pas aux #Territoires_occupés. « Gaza est occupée. Israël a gardé le contrôle de Gaza. [...] Ses actions renforcent son occupation : la légitime défense ne s’applique pas », insistera un peu plus tard l’avocat Vaughan Lowe.

      « L’Afrique du Sud, affirme le ministre sud-africain, condamne de manière catégorique la prise pour cibles de civils par le Hamas et d’autres groupes armés palestiniens le 7 octobre 2023. Cela étant dit, aucune attaque armée contre le territoire d’un État, aussi grave soit-elle, même marquée par la commission des #crimes atroces, ne saurait constituer la moindre justification ni le moindre prétexte, pour se rendre coupable d’une violation, ni sur le plan juridique ni sur le plan moral », de la #convention_des_Nations_unies_pour_la_prévention_et_la_répression_du_crime_de_génocide, dont est accusé l’État hébreu.

      « La réponse d’Israël à l’attaque du 7 octobre, a-t-il insisté, a franchi cette limite. »

      Un « génocide » au caractère « systématique »

      #Adila_Hassim, principale avocate de l’Afrique du Sud, s’est évertuée à démontrer méthodiquement comment Israël a « commis des actes relevant de la définition d’#actes_de_génocide », dont elle a martelé le caractère « systématique ».

      « Les Palestiniens sont tués, risquent la #famine, la #déshydratation, la #maladie, et ainsi la #mort, du fait du siège qu’Israël a organisé, de la #destruction des villes, d’une aide insuffisante autorisée à atteindre la population, et de l’impossibilité à distribuer cette maigre aide sous les #bombardements incessants, a-t-elle énuméré. Tout ceci rend impossible d’avoir accès aux éléments essentiels de la vie. »

      Adila Hassim s’est attelée à démontrer en quoi la #guerre israélienne cochait les cases du génocide, tel qu’il est défini à l’article 2 de la convention onusienne : « Des actes commis dans l’intention de détruire, en tout ou en partie, un groupe national, ethnique, racial ou religieux. »

      Le « meurtre des membres du groupe », premier élément du génocide ? Adila Hassim évoque le « meurtre de masse des Palestiniens », les « 23 000 victimes dont 70 % sont des femmes ou des enfants », et « les 7 000 disparus, présumés ensevelis sous les décombres ». « Il n’y a pas de lieu sûr à Gaza », dit-elle, une phrase empruntée aux responsables de l’ONU, répétée de nombreuses fois par la partie sud-africaine.

      Hasssim dénonce « une des campagnes de bombardement les plus lourdes dans l’histoire de la guerre moderne » : « 6 000 bombes par semaine dans les trois premières semaines », avec des « #bombes de 900 kilos, les plus lourdes et les plus destructrices », campagne qui vise habitations, abris, écoles, mosquées et églises, dans le nord et le sud de la bande de Gaza, camps de réfugié·es inclus.

      « Les Palestiniens sont tués quand ils cherchent à évacuer, quand ils n’ont pas évacué, quand ils ont pris la #fuite, même quand ils prennent les itinéraires présentés par Israël comme sécurisés. (...) Des centaines de familles plurigénérationelles ont été décimées, personne n’ayant survécu (...) Personne n’est épargné, pas même les nouveau-nés (...) Ces massacres ne sont rien de moins que la #destruction_de_la_vie_palestinienne, infligée de manière délibérée. » Selon l’avocate, il existe bien une #intention_de_tuer. « Israël, dit-elle, sait fort bien combien de civils perdent leur vie avec chacune de ces bombes. »

      L’« atteinte grave à l’intégrité physique ou mentale de membres du groupe », et la « soumission intentionnelle du groupe à des conditions d’existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle », autres éléments constitutifs du génocide ? Adila Hassim évoque « la mort et la #mutilation de 60 000 Palestiniens », les « civils palestiniens arrêtés et emmenés dans une destination inconnue », et détaille le « #déplacement_forcé de 85 % des Palestiniens de Gaza » depuis le 13 octobre, sans retour possible pour la plupart, et qui « répète une longue #histoire de #déplacements_forcés de masse ».

      Elle accuse Israël de « vise[r] délibérément à provoquer la faim, la déshydratation et l’inanition à grande échelle » (93 % de la population souffrent d’un niveau critique de faim, selon l’Organisation mondiale de la santé), l’aide empêchée par les bombardements et qui « ne suffit tout simplement pas », l’absence « d’eau propre », le « taux d’épidémies et de maladies infectieuses qui s’envole », mais aussi « les attaques de l’armée israélienne prenant pour cible le système de santé », « déjà paralysé par des années de blocus, impuissant face au nombre de blessures ».

      Elle évoque de nombreuses « naissances entravées », un autre élément constitutif du génocide.

      « Les génocides ne sont jamais annoncés à l’avance, conclut-elle. Mais cette cour a devant elle 13 semaines de #preuves accumulées qui démontrent de manière irréfutable l’existence d’une #ligne_de_conduite, et d’#intentions qui s’y rapportent, justifiant une allégation plausible d’actes génocidaires. »

      Une « #déshumanisation_systématique » par les dirigeants israéliens

      Un autre avocat s’avance à la barre. Après avoir rappelé que « 1 % de la population palestinienne de Gaza a été systématiquement décimée, et qu’un Gazaoui sur 40 a été blessé depuis le 7 octobre », #Tembeka_Ngcukaitobi décortique les propos des autorités israéliennes.

      « Les dirigeants politiques, les commandants militaires et les représentants de l’État d’Israël ont systématiquement et explicitement exprimé cette intention génocidaire, accuse-t-il. Ces déclarations sont ensuite reprises par des soldats, sur place à Gaza, au moment où ils anéantissent la population palestinienne et l’infrastructure de Gaza. »

      « L’intention génocidaire spécifique d’Israël, résume-t-il, repose sur la conviction que l’ennemi n’est pas simplement le Hamas, mais qu’il est à rechercher au cœur même de la société palestinienne de Gaza. »

      L’avocat multiplie les exemples, encore plus détaillés dans les 84 pages de la requête sud-africaine, d’une « intention de détruire Gaza aux plus hauts rangs de l’État » : celle du premier ministre, #Benyamin_Nétanyahou, qui, à deux reprises, a fait une référence à #Amalek, ce peuple que, dans la Bible (I Samuel XV, 3), Dieu ordonne d’exterminer ; celle du ministre de la défense, qui a comparé les Palestiniens à des « #animaux_humains » ; le président israélien #Isaac_Herzog, qui a jugé « l’entièreté de la nation » palestinienne responsable ; celle du vice-président de la Knesset, qui a appelé à « l’anéantissement de la bande de Gaza » (des propos condamnés par #Nétanyahou) ; ou encore les propos de nombreux élus et députés de la Knesset appelant à la destruction de Gaza.

      Une « déshumanisation systématique », dans laquelle les « civils sont condamnés au même titre que le Hamas », selon Tembeka Ngcukaitobi.

      « L’intention génocidaire qui anime ces déclarations n’est nullement ambiguë pour les soldats israéliens sur le terrain : elle guide leurs actes et leurs objectifs », poursuit l’avocat, qui diffuse devant les juges des vidéos où des soldats font eux aussi référence à Amalek, « se filment en train de commettre des atrocités contre les civils à Gaza à la manière des snuff movies », ou écoutent un réserviste de 95 ans les exhorter à « tirer une balle » sur leur « voisin arabe » et les encourager à une « destruction totale ».

      L’avocat dénonce le « manquement délibéré de la part du gouvernement à son obligation de condamner, de prévenir et de réprimer une telle incitation au génocide ».

      Après une plaidoirie technique sur la capacité à agir de l’Afrique du Sud, #John_Dugard insiste : « Gaza est devenu un #camp_de_concentration où un génocide est en cours. »

      L’avocat sud-africain #Max_du_Plessis exhorte la cour à agir face à Israël, qui « depuis des années (...) s’estime au-delà et au-dessus de la loi », une négligence du droit rendue possible par l’#indifférence de la communauté internationale, qui a su, dans d’autres conflits (Gambie, Bosnie, Ukraine) décider qu’il était urgent d’agir.

      « Gaza est devenu inhabitable », poursuit l’avocate irlandaise #Blinne_Ni_Ghralaigh. Elle énumère d’autres chiffres : « Au rythme actuel », égrène-t-elle, « 247 Palestiniens tués en moyenne chaque jour », dont « 48 mères » et « plus de 117 enfants », et « 629 blessés ». Elle évoque ces enfants dont toute la famille a été décimée, les secouristes, les enseignants, les universitaires et les journalistes tués dans des proportions historiques.

      « Il s’agit, dit-elle, du premier génocide de l’Histoire dont les victimes diffusent leur propre destruction en temps réel, dans l’espoir vain que le monde fasse quelque chose. » L’avocate dévoile à l’écran les derniers mots du docteur #Mahmoud_Abu_Najela (Médecins sans frontières), tué le 23 novembre à l’hôpital Al-Awda, écrits au feutre sur un tableau blanc : « À ceux qui survivront. Nous avons fait ce que nous pouvons. Souvenez-vous de nous. »

      « Le monde, conclut Blinne Ni Ghralaigh, devrait avoir #honte. »

      La réponse d’Israël : une « calomnie »

      Vendredi 12 janvier, les représentants d’Israël se sont avancés à la barre. Leur argumentation a reposé sur deux éléments principaux : un, la Cour internationale de justice n’a pas à exiger de « mesures conservatoires » car son armée ne commet aucun génocide ; deux, si génocide il y a, il a été commis par le Hamas le 7 octobre 2023.

      Premier à prendre la parole, #Tal_Becker, conseiller juridique du ministère des affaires étrangères israélien, invoque l’Histoire, et le génocide infligé aux juifs pendant la Seconde Guerre mondiale, « le meurtre systématique de 6 millions de juifs dans le cadre d’une destruction totale ».

      « Israël, dit-il, a été un des premiers États à ratifier la convention contre le génocide. » « Pour Israël, insiste-t-il, “#jamais_plus” n’est pas un slogan, c’est une #obligation_morale suprême. »

      Dans « une époque où on fait bon marché des mots, à l’heure des politiques identitaires et des réseaux sociaux », il dénonce une « #instrumentalisation » de la notion de génocide contre Israël.

      Il attaque une présentation sud-africaine « totalement dénaturée des faits et du droit », « délibérément manipulée et décontextualisée du conflit actuel », qualifiée de « calomnie ».

      Alors que les avocats sud-africains avaient expliqué ne pas intégrer les massacres du Hamas dans leur requête devant la justice onusienne, car « le Hamas n’est pas un État », Tal Becker estime que l’Afrique du Sud « a pris le parti d’effacer l’histoire juive et tout acte ou responsabilité palestiniens », et que les arguments avancés « ne se distinguent guère de ceux opposés par le Hamas dans son rejet d’Israël ». « L’Afrique du Sud entretient des rapports étroits avec le Hamas » et le « soutient », accuse-t-il.

      « C’est une guerre qu’Israël n’a pas commencée », dit-il en revenant longuement, images et enregistrements à l’appui, sur les atrocités commises par le Hamas et d’autres groupes palestiniens le 7 octobre, « le plus important massacre de juifs en un jour depuis la #Shoah ».

      « S’il y a eu des actes que l’on pourrait qualifier de génocidaires, [ils ont été commis] contre Israël », dit-il, évoquant le « #programme_d’annihilation » des juifs par le Hamas. « Israël ne veut pas détruire un peuple, poursuit-il. Mais protéger un peuple : le sien. »

      Becker salue les familles d’otages israéliens présentes dans la salle d’audience, et montre certains visages des 130 personnes kidnappées dont le pays est toujours sans nouvelle. « Y a-t-il une raison de penser que les personnes que vous voyez à l’écran ne méritent pas d’être protégées ? », interroge-t-il.

      Pour ce représentant de l’État israélien, la demande sud-africaine de mesures conservatoires revient à priver le pays de son droit à se défendre.

      « Israël, poursuit-il, se défend contre le Hamas, le Djihad palestinien et d’autres organisations terroristes dont la brutalité est sans limite. Les souffrances sont tragiques, sont déchirantes. Les conséquences sont parfaitement atroces pour les civils du fait du comportement du Hamas, qui cherche à maximiser les pertes de civils alors qu’Israël cherche à les minorer. »

      Becker s’attarde sur la « #stratégie_méprisable » du Hamas, une « méthode de guerre intégrée, planifiée, de grande ampleur et odieuse ». Le Hamas, accuse-t-il, « a, de manière systématique, fondu ses opérations militaires au sein de zones civiles densément peuplées », citant écoles, mosquées et hôpitaux, des « milliers de bâtiments piégés » et « utilisés à des fins militaires ».

      Le Hamas « a fait entrer une quantité innombrable d’armes, a détourné l’aide humanitaire ». Remettant en cause le chiffre « non vérifié » de 23 000 victimes (pourtant confirmé par les Nations unies), Tal Becker estime que de nombreuses victimes palestiniennes sont des « militants » qui ont pu prendre « une part directe aux hostilités ». « Israël respecte le droit », martèle-t-il. « Si le Hamas abandonne cette stratégie, libère les otages, hostilités et violences prendront fin. »

      Ponte britannique du droit, spécialiste des questions juridiques liées aux génocides, #Malcom_Shaw embraie, toujours en défense d’Israël. Son discours, technique, est parfois interrompu. Il se perd une première fois dans ses notes, puis soupçonne un membre de son équipe d’avoir « pris [sa] #plaidoirie pour un jeu de cartes ».

      Shaw insiste : « Un conflit armé coûte des vies. » Mais Israël, dit-il, « a le droit de se défendre dans le respect du #droit_humanitaire », citant à l’audience les propos de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, le 19 octobre 2023. Il poursuit : « L’#usage_de_la_force ne peut constituer en soi un acte génocidaire. » « Israël, jure-t-il, ne cible que les cibles militaires, et ceci de manière proportionnée dans chacun des cas. »

      « Peu d’éléments démontrent qu’Israël a eu, ou a, l’intention de détruire tout ou partie du peuple palestinien », plaide-t-il. Shaw estime que nombre de propos tenus par des politiciens israéliens ne doivent pas être pris en compte, car ils sont « pris au hasard et sont sortis de leur contexte », parce qu’ils témoignent d’une « #détresse » face aux massacres du 7 octobre, et que ceux qui les ont prononcés n’appartiennent pas aux « autorités pertinentes » qui prennent les décisions militaires, à savoir le « comité ministériel chargé de la sécurité nationale » et le « cabinet de guerre ».

      Pour étayer son argumentation, Shaw cite des directives (non publiques) de Benyamin Nétanyahou destinées, selon lui, à « éviter un désastre humanitaire », à proposer des « solutions pour l’approvisionnement en eau », « promouvoir la construction d’hôpitaux de campagne au sud de la bande de Gaza » ; les déclarations publiques de Benyamin Nétanyahou à la veille de l’audience (« Israël n’a pas l’intention d’occuper de façon permanente la bande de Gaza ou de déplacer sa population civile ») ; d’autres citations du ministre de la défense qui assure ne pas s’attaquer au peuple palestinien dans son ensemble.

      « La requête de l’Afrique du Sud brosse un tableau affreux, mais incomplet et profondément biaisé », renchérit #Galit_Rajuan, conseillère au ministère de la justice israélien, qui revient longuement sur les #responsabilités du Hamas, sa stratégie militaire au cœur de la population palestinienne. « Dans chacun des hôpitaux que les forces armées israéliennes ont fouillés à Gaza, elles ont trouvé des preuves d’utilisation militaire par le Hamas », avance-t-elle, des allégations contestées.

      « Certes, des dommages et dégâts ont été causés par les hostilités dans les hôpitaux, parfois par les forces armées israéliennes, parfois par le Hamas, reconnaît-elle, mais il s’agit des conséquences de l’utilisation odieuse de ces hôpitaux par le Hamas. »

      Rajuan martèle enfin qu’Israël cherche à « atténuer les dommages causés aux civils » et à « faciliter l’aide humanitaire ». Des arguments connus, que de très nombreuses ONG, agences des Nations unies et journalistes gazaouis présents sur place réfutent régulièrement, et que les journalistes étrangers ne peuvent pas vérifier, faute d’accès à la bande de Gaza.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/120124/israel-commet-il-un-genocide-gaza-le-compte-rendu-d-une-audience-historiqu

    • Gaza, l’accusa di genocidio a Israele e la credibilità del diritto internazionale

      Il Sudafrica ha chiesto l’intervento della Corte internazionale di giustizia dell’Aja per presunte violazioni di Israele della Convenzione sul genocidio del 1948. Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool, presente alla storica udienza, aiuta a comprendere il merito e le prospettive

      “Quello che sta succedendo all’Aja ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. A parlare è Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool, già nel team legale delle vittime di Gaza di fronte alla Corte penale internazionale (Icc), che ha sede sempre all’Aja.

      Non vanno confuse: l’aula di tribunale ripresa dalle tv di tutto il mondo l’11 e il 12 gennaio scorsi, infatti, con il team legale sudafricano schierato contro quello israeliano, è quella della Corte internazionale di giustizia, il massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite, che si esprime sulle controversie tra Stati. L’Icc, invece, è indipendente e legifera sulle responsabilità penali individuali.

      Il 29 dicembre scorso il Sudafrica ha chiesto l’intervento della prima per presunte violazioni da parte di Israele della Convenzione sul genocidio del 1948, nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Un’udienza storica a cui Mariniello era presente.

      Professore, qual era innanzi tutto l’atmosfera?
      TM A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità. C’erano centinaia, probabilmente migliaia di persone all’esterno della Corte, emittenti di tutto il mondo e apparati di sicurezza, inclusi droni ed elicotteri. Sentire anche le tv più conservatrici, come quelle statunitensi, parlare di Palestina e genocidio faceva comprendere ancora di più l’importanza storica dell’evento.

      In estrema sintesi, quali sono gli elementi più importanti della tesi sudafricana?
      TM Il Sudafrica sostiene che Israele abbia commesso atti di genocidio contro la popolazione di Gaza, ciò significa una serie di azioni previste dall’articolo 2 della Convenzione sul genocidio, effettuate con l’intento di distruggere del tutto o in parte un gruppo protetto, in questo caso i palestinesi di Gaza. Questi atti, per il Sudafrica, sono omicidi di massa, gravi lesioni fisiche o mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni di loro, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia, l’assedio totale all’inizio della guerra e la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza. Ciò che caratterizza un genocidio rispetto ad altri crimini internazionali è il cosiddetto “intento speciale”, la volontà cioè di voler distruggere del tutto o in parte un gruppo protetto. È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente. Sia in aula sia all’interno della memoria di 84 pagine presentata, vi sono, infatti, una serie di dichiarazioni dei leader politici e militari israeliani, che proverebbero tale intento. Come quella del premier Benjamin Netanyahu che, a inizio guerra, ha invocato la citazione biblica di Amalek, che sostanzialmente significa: “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”. O una dichiarazione del ministro della Difesa, Yoav Gallant, che ha detto che a Gaza sono tutti “animali umani”. Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità.

      Qual è stata invece la linea difensiva israeliana?
      TM Diciamo che l’impianto difensivo di Israele è basato su tre pilastri: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. Israele, inoltre, ha sollevato il tema della giurisdizione della Corte, mettendola in discussione, in quanto non vi sarebbe una disputa in corso col Sudafrica. Su questo la Corte si dovrà pronunciare, ma a tal proposito è stato ricordato come Israele sia stato contattato dal Sudafrica in merito all’accusa di genocidio e non abbia risposto. Questo, per l’accusa, varrebbe come disputa in corso.

      Che cosa chiede il Sudafrica?
      TM In questo momento l’accusa non deve dimostrare che sia stato commesso un genocidio, ma che sia plausibile. Questa non è un’udienza nel merito, siamo in una fase d’urgenza, ma di richiesta di misure cautelari. Innanzitutto chiede il cessate fuoco, poi la rescissione di tutti gli ordini che possono costituire atti di genocidio. Si domanda alla Corte di imporre un ordine a Israele per preservare tutte le prove che potrebbero essere utili per indagini future e di porre fine a tutti gli atti di cui il Sudafrica lo ritiene responsabile.

      Come valuta le due memorie?
      TM La deposizione del Sudafrica è molto solida e convincente, sia in merito agli atti genocidi sia all’intento genocidiario. E credo che anche alla luce dei precedenti della Corte lasci veramente poco spazio di manovra. Uno dei punti di forza è che fornisce anche una serie di prove in merito a quello che è successo e che sta accadendo a Gaza: le dichiarazioni dei politici israeliani, cioè, hanno ricevuto un’implementazione sul campo. Sono stati mostrati dei video di militari, ad esempio, che invocavano Amalek, la citazione di Netanyahu.

      In realtà il Sudafrica non si limita allo scontro in atto, ma parla di una sorta Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi) ininterrotto.
      TM Ogni giurista dovrebbe sempre analizzare qualsiasi ostilità all’interno di un contesto e per questo il Sudafrica fa riferimento a 75 anni di Nakba, a 56 di occupazione militare israeliana e a 16 anni di assedio della Striscia.

      Come valuta la difesa israeliana?
      TM Come detto, tutto viene ricondotto all’attacco di Hamas del 7 ottobre e a una risposta di autodifesa rispetto a tale attacco. Ma esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa -che per uno Stato occupante non può essere invocata- non può comunque giustificare un genocidio. L’altro elemento sottolineato dal team israeliano, delle misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: quanto avvenuto negli ultimi tre mesi smentisce tali dichiarazioni. Basti pensare alla privazione di beni essenziali e a tutte le informazioni raccolte dalle organizzazioni internazionali e dagli organismi delle Nazioni Unite. A Gaza non esistono zone sicure, ci sono stati casi in cui la popolazione evacuata, rifugiatasi nelle zone indicate da Israele, è stata comunque bombardata.

      Ora che cosa pensa succederà?
      TM La mia previsione è che la Corte si pronuncerà sulle misure cautelari entro la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, quando alcuni giudici decadranno e saranno sostituiti. In alcuni casi ha impiegato anche solo otto giorni per pronunciarsi. Ora ci sono delle questioni procedurali, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di Israele o del Sudafrica.

      Che cosa implica tale sostegno?
      TM La possibilità di presentare delle memorie. La Germania sosterrà Israele, il Brasile, i Paesi della Lega Araba, molti Stati sudamericani, ma non solo, si stanno schierando con il Sudafrica.

      Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha dichiarato che non si tratta di genocidio.
      TM L’Italia non appoggerà formalmente Israele dinnanzi all’Icj. La Francia sarà neutrale. I Paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte?

      Se la Corte decidesse per il cessate il fuoco, quali sarebbero le conseguenze, visto che non ha potere politico?
      TM Il parere della Corte è giuridicamente vincolante. Il problema è effettivamente di esecuzione: nel caso di un cessate il fuoco, se non fosse Israele ad attuarlo, dovrebbe intervenire il Consiglio di sicurezza.

      Con il rischio del veto statunitense.
      TM Siamo sul terreno delle speculazioni, ma se la Corte dovesse giungere alla conclusione che Israele è responsabile di un genocidio a Gaza, onestamente riterrei molto difficile un altro veto degli Stati Uniti. È difficile al momento prevedere gli effetti dirompenti di un’eventuale decisione positiva della Corte. Certo è che, quando si parla di Israele, la comunità internazionale, nel senso dei Paesi occidentali, ha creato uno stato di eccezione, che ha sempre posto Israele al di sopra del diritto internazionale, senza rendersi conto che le situazioni violente che viviamo in quel contesto sono il frutto di questo eccezionalismo anche a livello giuridico. Fino a quando si andrà avanti con questo contesto di impunità non finiranno le spirali di violenza.

      https://altreconomia.it/gaza-laccusa-di-genocidio-a-israele-e-la-credibilita-del-diritto-intern

    • La Cour internationale de justice ordonne à Israël d’empêcher un génocide à Gaza

      Selon la plus haute instance judiciaire internationale, « il existe un #risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé » aux Palestiniens de Gaza. La Cour demande à Israël de « prendre toutes les mesures en son pouvoir pour prévenir la commission […] de tout acte » de génocide. Mais n’appelle pas au cessez-le-feu.

      Même si elle n’a aucune chance d’être appliquée sur le terrain, la #décision prise vendredi 26 janvier par la plus haute instance judiciaire des Nations unies marque incontestablement un tournant dans la guerre au Proche-Orient. Elle intervient après quatre mois de conflit déclenché par l’attaque du Hamas le 7 octobre 2023, qui a fait plus de 1 200 morts et des milliers de blessés, conduit à la prise en otage de 240 personnes, et entraîné l’offensive israélienne dans la bande de Gaza, dont le dernier bilan s’élève à plus de 25 000 morts.

      La Cour internationale de justice (CIJ), basée à La Haye (Pays-Bas), a expliqué, par la voix de sa présidente, la juge Joan Donoghue, « être pleinement consciente de l’ampleur de la #tragédie_humaine qui se joue dans la région et nourri[r] de fortes #inquiétudes quant aux victimes et aux #souffrances_humaines que l’on continue d’y déplorer ». Elle a ordonné à Israël de « prendre toutes les #mesures en son pouvoir pour prévenir la commission à l’encontre des Palestiniens de Gaza de tout acte » de génocide.

      « Israël doit veiller avec effet immédiat à ce que son armée ne commette aucun des actes » de génocide, affirme l’#ordonnance. Elle « considère également qu’Israël doit prendre toutes les mesures en son pouvoir pour prévenir et punir l’incitation directe et publique à commettre le génocide à l’encontre des membres du groupe des Palestiniens de la bande de Gaza ».

      La cour de La Haye, saisie à la suite d’une plainte de l’Afrique du Sud, demande « en outre » à l’État hébreu de « prendre sans délai des #mesures_effectives pour permettre la fourniture des services de base et de l’#aide_humanitaire requis de toute urgence afin de remédier aux difficiles conditions d’existence auxquelles sont soumis les Palestiniens de la bande de Gaza ».

      Enfin, l’ordonnance de la CIJ ordonne aux autorités israéliennes de « prendre des mesures effectives pour prévenir la destruction et assurer la conservation des #éléments_de_preuve relatifs aux allégations d’actes » de génocide.

      La juge #Joan_Donoghue, qui a donné lecture de la décision, a insisté sur son caractère provisoire, qui ne préjuge en rien de son futur jugement sur le fond des accusations d’actes de génocide. Celles-ci ne seront tranchées que dans plusieurs années, après instruction.

      La cour « ne peut, à ce stade, conclure de façon définitive sur les faits » et sa décision sur les #mesures_conservatoires « laisse intact le droit de chacune des parties de faire valoir à cet égard ses moyens » en vue des audiences sur le fond, a-t-elle poursuivi.

      Elle considère cependant que « les faits et circonstances » rapportés par les observateurs « suffisent pour conclure qu’au moins certains des droits » des Palestiniens sont mis en danger et qu’il existe « un risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé ».

      Environ 70 % de #victimes_civiles

      La CIJ avait été saisie le 29 décembre 2023 par l’Afrique du Sud qui, dans sa requête, accuse notamment Israël d’avoir violé l’article 2 de la Convention de 1948 sur le génocide, laquelle interdit, outre le meurtre, « l’atteinte grave à l’intégrité physique ou mentale de membres du groupe » visé par le génocide, l’imposition de « conditions d’existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle » ou encore les « mesures visant à entraver les naissances au sein du groupe ».

      Le recours décrit longuement une opération militaire israélienne qualifiée d’« exceptionnellement brutale », « tuant des Palestiniens à Gaza, incluant une large proportion de femmes et d’enfants – pour un décompte estimé à environ 70 % des plus de 21 110 morts [au moment de la rédaction du recours par l’Afrique du Sud – ndlr] –, certains d’entre eux apparaissant avoir été exécutés sommairement ».

      Il soulignait également les conséquences humanitaires du déplacement massif des populations et de la destruction massive de logements et d’équipements publics, dont des écoles et des hôpitaux.

      Lors des deux demi-journées d’audience, jeudi 11 et vendredi 12 janvier, le conseiller juridique du ministère des affaires étrangères israélien, Tal Becker, avait dénoncé une « instrumentalisation » de la notion de génocide et qualifié l’accusation sud-africaine de « calomnie ».

      « C’est une guerre qu’Israël n’a pas commencée », avait poursuivi le représentant israélien, affirmant que « s’il y a eu des actes que l’on pourrait qualifier de génocidaires, [ils ont été commis] contre Israël ». « Israël ne veut pas détruire un peuple mais protéger un peuple : le sien. »
      Gaza, « lieu de mort et de désespoir »

      La CIJ, de son côté, a fondé sa décision sur les différents rapports et constatations fournis par des organisations internationales. Elle cite notamment la lettre du 5 janvier 2024 du secrétaire général adjoint aux affaires humanitaires de l’ONU, Martin Griffiths, décrivant la bande de Gaza comme un « lieu de mort et de désespoir ».

      L’ordonnance rappelle qu’un communiqué de l’Organisation mondiale de la santé (OMS) du 21 décembre 2023 s’alarmait du fait que « 93 % de la population de Gaza, chiffre sans précédent, est confrontée à une situation de crise alimentaire ».

      Le 12 janvier 2024, c’est l’Office de secours et de travaux des Nations unies pour les réfugiés de Palestine dans le Proche-Orient (UNRWA) qui lançait un cri d’alerte. « Cela fait maintenant 100 jours que cette guerre dévastatrice a commencé, que la population de Gaza est décimée et déplacée, suite aux horribles attaques perpétrées par le Hamas et d’autres groupes contre la population en Israël », s’alarmait-il.

      L’ordonnance souligne, en miroir, les multiples déclarations de responsables israéliens assumant une répression sans pitié dans la bande de Gaza, si nécessaire au prix de vies civiles. Elle souligne que des rapporteurs spéciaux des Nations unies ont même pu s’indigner de « la rhétorique manifestement génocidaire et déshumanisante de hauts responsables du gouvernement israélien ».

      La CIJ pointe par exemple les propos du ministre de la défense Yoav Gallant du 9 octobre 2023 annonçant « un siège complet de la ville de Gaza », avant d’affirmer : « Nous combattons des animaux humains. »

      Le 12 octobre, c’est le président israélien Isaac Herzog qui affirmait : « Tous ces beaux discours sur les civils qui ne savaient rien et qui n’étaient pas impliqués, ça n’existe pas. Ils auraient pu se soulever, ils auraient pu lutter contre ce régime maléfique qui a pris le contrôle de Gaza. »

      Et, à la vue des intentions affichées par les autorités israéliennes, les opérations militaires dans la bande de Gaza ne sont pas près de s’arrêter. « La Cour considère que la situation humanitaire catastrophique dans la bande de Gaza risque fort de se détériorer encore avant qu’elle rende son arrêt définitif », affirme l’ordonnance.

      « À la lumière de ce qui précède, poursuivent les juges, la Cour considère qu’il y a urgence en ce sens qu’il existe un risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé aux droits qu’elle a jugés plausibles avant qu’elle ne rende sa décision définitive. »

      Si la décision de la CIJ est juridiquement contraignante, la Cour n’a pas la capacité de la faire appliquer. Cependant, elle est incontestablement une défaite diplomatique pour Israël.

      Présente à La Haye, la ministre des relations internationales et de la coopération d’Afrique du Sud, Naledi Pandor, a pris la parole à la sortie de l’audience. Si elle a regretté que les juges n’aient pas appelé à un cessez-le-feu, elle s’est dite « satisfaite que les mesures provisoires » réclamées par son pays aient « fait l’objet d’une prise en compte » par la Cour, et qu’Israël doive fournir un rapport d’ici un mois. Pour l’Afrique du Sud, lancer cette plainte, a-t-elle expliqué, « était une façon de s’assurer que les organismes internationaux exercent leur responsabilité de nous protéger tous, en tant que citoyens du monde global ».

      Comme l’on pouvait s’y attendre, les autorités israéliennes ont vivement critiqué les ordonnances d’urgence réclamées par les juges de La Haye. Si le premier ministre, Benyamin Nétanyahou, s’est réjoui de ce que ces derniers n’aient pas réclamé, comme le demandait l’Afrique du Sud, de cessez-le-feu – « Comme tout pays, Israël a le droit fondamental de se défendre. La CIJ de La Haye a rejeté à juste titre la demande scandaleuse visant à nous priver de ce droit », a-t-il dit –, il a eu des mots très durs envers l’instance : « La simple affirmation selon laquelle Israël commet un génocide contre les Palestiniens n’est pas seulement fausse, elle est scandaleuse, et la volonté de la Cour d’en discuter est une honte qui ne sera pas effacée pendant des générations. »

      Il a affirmé vouloir continuer « à défendre [ses] citoyens dans le respect du droit international ». « Nous poursuivrons cette guerre jusqu’à la victoire absolue, jusqu’à ce que tous les otages soient rendus et que Gaza ne soit plus une menace pour Israël », a ajouté Nétanyahou.

      Jeudi, à la veille de la décision de la CIJ, le New York Times avait révélé que les autorités israéliennes avaient fourni aux juges de La Haye une trentaine de documents déclassifiés, censés démonter l’accusation de génocide, parmi lesquels « des résumés de discussions ministérielles datant de la fin du mois d’octobre, au cours desquelles le premier ministre Benyamin Nétanyahou a ordonné l’envoi d’aide, de carburant et d’eau à Gaza ».

      Cependant, souligne le quotidien états-unien, les documents « ne comprennent pas les ordres des dix premiers jours de la guerre, lorsqu’Israël a bloqué l’aide à Gaza et coupé l’accès à l’électricité et à l’eau qu’il fournit normalement au territoire ».

      Nul doute que cette décision de la plus haute instance judiciaire des Nations unies va renforcer les appels en faveur d’un cessez-le-feu. Après plus de quatre mois de combats et un bilan lourd parmi la population civile gazaouie, Nétanyahou n’a pas atteint son objectif d’éradiquer le mouvement islamiste. Selon les Israéliens eux-mêmes, près de 70 % des forces militaires du Hamas sont intactes. De plus, les familles d’otages toujours aux mains du Hamas ou d’autres groupes islamistes de l’enclave maintiennent leurs pressions.

      Le ministre palestinien des affaires étrangères Riyad al-Maliki s’est réjoui d’une décision de la CIJ « en faveur de l’humanité et du droit international », ajoutant que la communauté international avait désormais « l’obligation juridique claire de mettre fin à la guerre génocidaire d’Israël contre le peuple palestinien de Gaza et de s’assurer qu’elle n’en est pas complice ». Le ministre de la justice sud-africain Ronald Lamola, cité par l’agence Reuters, a salué, lui, « une victoire pour le droit international ». « Israël ne peut être exempté du respect de ses obligations internationales », a-t-il ajouté.

      De son côté, la Commission européenne a appelé Israël et le Hamas à se conformer à la décision de la CIJ. L’Union européenne « attend leur mise en œuvre intégrale, immédiate et effective », a-t-elle souligné dans un communiqué.

      La France avait fait entendre pourtant il y a quelques jours une voix discordante. Le ministre des affaires étrangères Stéphane Séjourné avait déclaré, à l’Assemblée nationale, qu’« accuser l’État juif de génocide, c’est franchir un seuil moral ». Dans un communiqué publié après la décision de la CIJ, le ministère a annoncé son intention de déposer des observations sur l’interprétation de la Convention de 1948, comme le lui permet la procédure. « [La France] indiquera notamment l’importance qu’elle attache à ce que la Cour tienne compte de la gravité exceptionnelle du crime de génocide, qui nécessite l’établissement d’une intention. Comme le ministre de l’Europe et des affaires étrangères a eu l’occasion de le noter, les mots doivent conserver leur sens », indique le texte.

      Les États-Unis ont estimé que la décision était conforme à la position états-unienne, exprimée à plusieurs reprises par Joe Biden à son allié israélien, de réduire les souffrances des civils de Gaza et d’accroître l’aide humanitaire. Cependant, a expliqué un porte-parole du département d’État, les États-Unis continuent « de penser que les allégations de génocide sont infondées » et notent « que la Cour n’a pas fait de constat de génocide, ni appelé à un cessez-le-feu dans sa décision, et qu’elle a appelé à la libération inconditionnelle et immédiate de tous les otages détenus par le Hamas ».

      C’est dans ce contexte que se déroulent des discussions pour obtenir une trêve prolongée, la deuxième après celle de novembre, qui avait duré une semaine et permis la libération de plusieurs dizaines d’otages.

      Selon les médias états-uniens, Israël a proposé une trêve de 60 jours et la libération progressive des otages encore retenu·es. Selon ce projet, a affirmé CNN, les dirigeants du Hamas pourraient quitter l’enclave. Selon la chaîne d’informations américaine, « des responsables américains et internationaux au fait des négociations ont déclaré que l’engagement récent d’Israël et du Hamas dans des pourparlers était encourageant, mais qu’un accord n’était pas imminent ».

      Le Washington Post a révélé jeudi que le président américain Joe Biden allait envoyer dans les prochains jours en Europe le directeur de la CIA, William Burns, pour tenter d’obtenir un accord. Il devrait rencontrer les chefs des services de renseignement israélien et égyptien, David Barnea et Abbas Kamel, et le premier ministre qatari Mohammed ben Abdulrahman al-Thani. Vendredi soir, l’Agence France-Presse (AFP) a affirmé qu’ils se retrouveraient « dans les tout prochains jours à Paris », citant « une source sécuritaire d’un État impliqué dans les négociations ».

      https://www.mediapart.fr/journal/international/260124/la-cour-internationale-de-justice-ordonne-israel-d-empecher-un-genocide-ga

  • #Arbe, la voragine nera nella memoria Italiana. Pagliarulo: «Ogni silenzio deve essere superato»

    Si è svolta ieri all’isola di Arbe (#Rab) in Croazia, una grande celebrazione dell’80° anniversario della Liberazione del campo di concentramento fascista. Qui durante l’occupazione italiana, iniziata nell’aprile 1941, furono deportati migliaia di civili slavi – fra cui circa duemila donne e mille bambini - prevalentemente sloveni, ma anche croati ed ebrei, che furono decimati dalla fame, dalle malattie, dalle privazioni, dai maltrattamenti. I deceduti “ufficiali” furono 1.435, ma la cifra fu con tutta probabilità molto superiore. Nessuno ha mai pagato per questi crimini e l’Italia non smette di ignorare questa tragedia.
    Sono intervenuti il Presidente della repubblica croata Zoran Milanovič e la Presidente della repubblica slovena Nataša Pirc Musar. L’iniziativa è stata promossa dai presidenti delle associazioni partigiane dei tre Paesi: Franjo Habulin (per Saba Hr Croazia), Marijan Križman (per ZZB-NOB Slovenia), Gianfranco Pagliarulo (per l’ANPI Italia), che hanno preso la parola, assieme al Sindaco di Arbe e ad un superstite del campo di concentramento.
    Per l’Anpi nazionale, oltre a Pagliarulo, erano presenti Carlo Ghezzi, Dino Spanghero, Fabio Vallon. Tra i partecipanti anche molte delegazioni di Comitati provinciali ANPI in particolare dal Friuli Venezia Giulia.
    “Oggi noi diciamo “Mai più!” - ha detto il Presidente dell’Anpi in un passaggio del suo intervento - ma sappiamo che non basta dire “Mai più!”. Occorre una piena assunzione di responsabilità da parte del mio Paese, che ho l’onore di rappresentare. Occorre affermare senza alcuna ambiguità che l’invasione italiana fu un atto criminale e che le tragedie successive furono causate soprattutto da quella invasione e aggravate da un razzismo strisciante verso le popolazioni slave. La incancellabile responsabilità politica di tutto ciò ricade sul fascismo italiano e sul nazismo tedesco in un tempo in cui dominavano in tutta Europa i nazionalismi. Ogni silenzio dev’essere superato. A maggior ragione questo è urgente, perché viviamo un tempo in cui rinascono forme vecchie e nuove di nazionalismo, razzismo, irredentismo, e persino di fascismo e di nazismo. Chi non ama tutta l’umanità non ama la sua patria. Questo era lo spirito patriottico dei partigiani italiani e dei partigiani di tutta Europa. Ecco perché dobbiamo pensare a un nuovo umanesimo mondiale in cui ci si ritrova fratelli per migliorare le condizioni di vita e di sopravvivenza sulla terra davanti alle sfide gigantesche a cui l’umanità è oggi sottoposta: lo sfruttamento sul lavoro, la povertà, la fame, le pandemie, il riscaldamento globale. Senza mai dimenticare cosa avvenne in quest’isola, nel nome di tutte le vittime, nella denuncia e nell’esecrazione dei responsabili, andiamo avanti tenendoci per mano”.

    Leggi il racconto della celebrazione, a cura di Eric Gobetti, pubblicato sul quotidiano il manifesto : https://ilmanifesto.it/campo-fascista-di-arbe-un-oblio-annunciato

    Guarda uno stralcio dell’intervista della Rete televisiva nazionale Slovena al Presidente Pagliarulo: https://www.rtvslo.si/rtv365/arhiv/174985065?s=mmc

    https://www.anpi.it/arbe-la-voragine-nera-nella-memoria-italiana-pagliarulo-ogni-silenzio-deve-esse

    #Rab #mémoire #Croatie #histoire #fascisme #Italie #Italie_fasciste #camp_de_concentration #commémoration

  • Neuruppiner Staatsanwaltschaft ermittelt noch gegen drei mutmaßliche NS-Täter
    https://www.rbb24.de/politik/beitrag/2022/01/ns-taeter-ermittlungen-ss-kz-sachsenhausen-.html

    31.01.2022 von Lisa Steger - Massenmorde in Konzentrationslagern - Neuruppiner Staatsanwaltschaft ermittelt noch gegen drei mutmaßliche NS-Täter

    Seit Monaten läuft in Brandenburg ein Prozess gegen einen 101-Jährigen, der SS-Wachmann in Sachsenhausen gewesen sein soll. Die Staatsanwaltschaft in Neuruppin ermittelt derweil gegen drei weitere noch lebende mutmaßliche SS-Leute.

    Im Zusammenhang mit den Massenmorden in Konzentrationslagern ermitteln die Behörden zurzeit gegen drei Beschuldigte - zwei Männer und eine Frau.

    Das hat der Oberstaatsanwalt Cyrill Klement von der Staatsanwaltschaft Neuruppin (Ostprignitz-Ruppin) am Montag Antenne Brandenburg vom rbb mitgeteilt. Eine Anklage gebe es noch in keinem der drei Fälle.

    In Brandenburg/Havel steht seit Monaten ein 101-Jähriger vor Gericht, der SS-Wachmann in Sachsenhausen gewesen sein soll. Der historische Gutachter ist überzeugt, dass der Richtige auf der Anklagebank sitzt - und dass er sich hätte entziehen können. Von Lisa Steger.

    Alle gehen auf die 100 Jahre zu

    Den Angaben zufolge wird ein 97 Jahre alter Mann beschuldigt, SS-Wachmann im Konzentrationslager Sachsenhausen (Oberhavel) gewesen zu sein. Ein gleichaltriger Mann soll bei der SS in Ravensbrück (Oberhavel) gedient haben. Dort sei auch die weit über 90 Jahre alte Frau tätig gewesen, die ebenfalls im Visier der Staatsanwaltschaft ist. Sie habe als Aufseherin zum SS-Gefolge gezählt.

    Die drei Hochbetagten wohnen über Deutschland verstreut. Wenn es zu Anklagen kommt und ein Landgericht die Verfahren zulässt, werden sie nicht zwingend in Brandenburg stattfinden. Offen sei zudem noch, ob die Beschuldigten transport- und verhandlungsfähig sind, so Klement.

    Das Verfahren gegen einen mutmaßlichen Wachmann des KZ Sachsenhausen in Brandenburg an der Havel gilt als der wohl letzte große Nazi-Prozess. Ein Recherche-Gespräch mit Gerichtsreporterin Lisa Steger über Schuld, Reue, Verdrängung und Traumata.

    Prozess für die Geschichtsbücher

    In Brandenburg (Havel) läuft seit Monaten ein Prozess gegen einen heute 101-jährigen Angeklagten, der als Wachmann im Konzentrationslager Sachsenhausen tätig gewesen sein soll. Josef S. wird Beihilfe zum Mord in mindestens 3.518 Fällen vorgeworfen.

    Der Prozess gilt als einer für die Geschichtsbücher, weil S. als bislang ältester und einer der letzten lebenden möglichen Beteiligten angeklagt ist. In den bisher mehr als 20 Verhandlungstagen seit Oktober 2021 hat S. eine Beteiligung an den Morden in Sachsenhausen bestritten.

    Allerdings belegen Personalakten seine Mitgliedschaft in verschiedenen SS-Totenkopfwachbataillons zwischen Oktober 1941 und Februar 1945. Zudem zeigen laut Historikern unter anderem Aussagen von Vorgesetzen des Angeklagten die Teilnahme der SS-Wachkompanien an Erschießungen von Gefangenen. Am 17. Februar wird der Prozess fortgesetzt. Ende März soll nach bisheriger Planung ein Urteil verkündet werden.

    Im KZ Sachsenhausen waren zwischen 1936 und 1945 nach Angaben der dortigen Gedenkstätte mehr als 200.000 Menschen inhaftiert. Zehntausende Häftlinge kamen dort durch Hunger, Krankheiten, Zwangsarbeit, medizinische Versuche und Misshandlungen um oder wurden Opfer systematischer Vernichtungsaktionen.

    #nazis #histoire #justice #camp_de_concentration #assassinat

    • As Anne Sudrow has shown, prisoners were assigned to a special shoe-runner commando. The prisoners were forced to test-march the shoes fashioned in the camp for 35 kilometers a day, baking in the hot sun or enduring icy cold and schlepping heavy loads along a circular track that mimicked the challenges the shoes would have to weather in quarries and mines, swamps and marshlands. Like the Scheisskommandos, the shoe-runner commandos served as a punitive assignment, reserved for those who were accused of theft or other violations of camp rules.
      […]
      What qualifies as reusable resource and what as waste are the result of historical processes, of ascription. Waste is pushed into rubbished spaces. Trashcans and waste workers disappear them. Across political regimes, across modes of production and forms of rule, proximity to wastes codes sub-status.
      […]
      Instead, I see continuities of erasure and fantasy. While we tend to champion zero waste politics as progressive, waste management and recycling are inherently conservative practices. They preserve and reproduce the existing social order by removing and reusing that which would otherwise spill into our “civilized” public and private spaces. What is more, we continue to witness the erasure of the waste workers and the constant violence of waste labor – now not in concentration camps but in the informal and formal economies of recycling that rely on the labor of predominantly poor, “expendable” populations. This violence is both slow and fast as it powers our green fantasies, fantasies that enable our continued overconsumption and our convictions that we are going to recycle our way out of the current climate pickle.

    • Der Schuh im Nationalsozialismus | Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam
      https://zzf-potsdam.de/de/publikationen/der-schuh-im-nationalsozialismus

      La chaussure sous le national-socialisme

      Anne Sudrow Der Schuh im Nationalsozialismus
      Eine Produktgeschichte im deutsch-britisch-amerikanischen Vergleich, 2010

      Ausgezeichnet mit dem Hedwig-Hintze-Preis 2010 des Verbandes der Historiker und Historikerinnen Deutschlands.

      Politik und Konsum: Die Entwicklung des »modernen Schuhs« in der Zeit des Nationalsozialismus.

      Warum wurde der Schuh im Nationalsozialismus Gegenstand wissenschaftlicher Forschung? Gab es hier technische Innovation? Wie lenkten die Nationalsozialisten die Schuhmode? In welchem Zusammenhang standen die Menschenversuche auf der »Schuhprüfstrecke« im KZ Sachsenhausen mit der Verwendung erster Kunststoffe in Schuhen? Warum raubte die SS in Auschwitz ganze »Schuhberge«? Diesen und weiteren Fragen geht die Autorin im Rahmen ihrer Produktgeschichte nach. Sie untersucht die Entstehung des »modernen Schuhs« in Deutschland und vergleicht diese - auf Grundlage internationaler Quellenrecherchen - mit Großbritannien und den USA. Als Methode wird hierfür der transnationale Produktlinienvergleich entwickelt. So werden NS-spezifische Phänomene der materiellen Kultur der Alltagsdinge nicht nur in ihrem politischen, ökonomischen und wissenschaftlichen Kontext erklärt, sondern auch in die internationale Entwicklung eingeordnet.


      Sachsenhausen concentration camp. Marker for shoe-runners-track (photograph by author [Anne Berg])

    • Anne Berg, Author at Allegra Lab
      https://allegralaboratory.net/author/anneberg

      Anne Berg is Assistant Professor of History at the University of Pennsylvania. Anne studies the histories of waste and recycling, film and cities, racism and genocide. Her first book, “On Screen and Off: Hamburg and the Making of the Nazi City” is forthcoming with University of Pennsylvania Press in April 2022. Anne’s current book project examines the disturbing connections between waste management and genocide in the Third Reich, entitled Empire of Rags and Bones: Waste and War in Nazi Germany.

  • Le souffle de Martha

    #Martha_Desrumaux est une enfant du Nord à la destinée romanesque. « Petite bonne », puis ouvrière à neuf ans, elle deviendra, à force de révolte et d’engagement, une pionnière dans les combats pour les droits sociaux dans l’entre-deux guerres. Personnage féminin emblématique du Front Populaire, Jean Renoir la met en scène dans le film La vie est à nous en 1936. Instigatrice de la lutte des mineurs contre l’occupant nazi, elle est déportée en 1942 et participe à la résistance au sein même du camp de Ravensbrück. Dès 1945, elle est désignée pour être l’une des premières femmes députées de l’Histoire de France, avant de tomber dans un relatif oubli.

    https://lcp.fr/programmes/le-souffle-de-martha-55887
    #film #film_documentaire #documentaire

    #syndicalisme #femmes_ouvrières #classe_ouvrière #lutte_des_classes #CGTU #CGT #politique #industrie_textile #France #féminisme #communisme #parti_communiste #femmes_syndicalistes_et_progressistes #meneuse_communiste #engagement_public #vierge_rouge #Louis_Manguine #marche_des_chômeurs #militantisme #guerre_civile_espagnole #brigades_internationales #Résistance #sabotage #grève #Ravensbrück #camp_de_concentration #déportation #droits_des_femmes

    Une citation :

    « Je suis Martha Desrumaux et les nazis ne m’ont pas eue »

  • Ανθρωποι και ποντίκια στη ΒΙΑΛ

    Το στρατόπεδο συγκέντρωσης της ΒΙΑΛ στη Χίο αποτελεί ντροπή όχι μόνο για την Ευρώπη, αλλά για την ίδια την ανθρωπότητα ● 1.800 πρόσφυγες, από μωρά μέχρι ηλικιωμένους ανθρώπους, ζουν σε διαλυμένες σκηνές ανάμεσα σε ποτάμια από ακαθαρσίες, βουνά από σκουπίδια, ποντίκια και κουφάρια ζώων ● Το « σταδιακό κλείσιμο » της δομής που είχε υποσχεθεί η κυβέρνηση έχει ξεχαστεί και οι άνθρωποι έχουν καταδικαστεί στην εξαθλίωση και στον εξευτελισμό.

    Ο προσφυγικός καταυλισμός ή αλλιώς το Κέντρο Υποδοχής και Ταυτοποίησης, όπως κατ’ ευφημισμόν έχει ονομαστεί, είναι ουσιαστικά ένας βούρκος. Ενας βούρκος όπου, λόγω και των σκληρών καιρικών συνθηκών, μεθοδικά η κυβέρνηση μετατρέπει σε αντικείμενα τους πρόσφυγες στερώντας τους κάθε έννοια αξιοπρέπειας και ανθρώπινης υπόστασης.

    Εχοντας εξασφαλίσει την πλήρη ανοχή -αν όχι και συνενοχή- της Ευρωπαϊκής Ενωσης και των δύο μεγάλων διεθνών οργανισμών, της Υπατης Αρμοστείας του ΟΗΕ (UNHCR) και του Διεθνούς Οργανισμού Μετανάστευσης (ΔΟΜ), με συνοπτικές διαδικασίες τούς καταδίκασε να ζουν σε συνθήκες αβίωτες ακόμα και για τα κατοικίδιά μας. Εκατοντάδες πρόσφυγες αυτή τη στιγμή στη ΒΙΑΛ προσπαθούν να επιβιώσουν σε αυτοσχέδιες σκηνές, φτιαγμένες με ό,τι διαθέσιμο υλικό βρεθεί πρόχειρο.

    Κατεστραμμένες σκηνές της Υπατης Αρμοστείας, χοντρό πλαστικό από συσκευασίες υλικών, σακούλες σκουπιδιών, απορρίμματα οικοδομών έχουν δεθεί και καρφωθεί πρόχειρα πάνω σε κλαδιά δέντρων ή ξύλα πολυκαιρισμένα και στεγάζουν την πλειονότητα των 1.800 ανθρώπων που ζουν εδώ και μήνες εγκλωβισμένοι στη ΒΙΑΛ και συγκεκριμένα στα χωράφια γύρω από το κεντρικό κτίριο.

    Ελάχιστοι είναι αυτοί που ζουν σε κοντέινερ, τα οποία πλέον στεγάζουν κυρίως υπηρεσίες και τις ελάχιστες ΜΚΟ που συνεχίζουν να δίνουν το « παρών » στην κόλαση της ΒΙΑΛ. Πού και πού μέσα στη ζούγκλα από αυτοσχέδιες σκηνές μπορεί να δεις κάποιο κοντέινερ μέσα στο οποίο συνήθως στοιβάζονται παραπάνω από δύο οικογένειες. Πρόκειται για τους τυχερούς/ές του στρατοπέδου.

    Η κυβέρνηση, θέλοντας να κατευνάσει τους κατοίκους του γειτονικού χωριού Χαλκειούς, ξήλωσε πάρα πολλά κοντέινερ υποσχόμενη το « σταδιακό κλείσιμο της ΒΙΑΛ » και τα μοίρασε δεξιά και αριστερά. Δύο από αυτά κατέληξαν στο Νοσοκομείο Χίου προκειμένου να μετατραπούν σε θαλάμους ασθενών Covid και τοποθετήθηκαν στο προαύλιο του ιδρύματος.

    Οι ελάχιστες χημικές τουαλέτες βρίσκονται στα όρια του καμπ σε ένα ανηφορικό σημείο. Πολύ συχνά υπερχειλίζουν καθώς είναι αδύνατον να εξυπηρετήσουν αυτόν τον πληθυσμό. Η πλαγιά κάτω από τις τουαλέτες είναι γεμάτη σκηνές, μέσα στις οποίες καταλήγουν τα κόπρανα και τα ούρα. Μερικές από τις τουαλέτες στερούνται πόρτας. Η μία πόρτα ξηλώθηκε και μετατράπηκε σε δομικό στοιχείο μιας καλύβας, ενώ άλλη μία χημική τουαλέτα « ιδιωτικοποιήθηκε » αφού, με τον νόμο της ζούγκλας να κυριαρχεί, μεταφέρθηκε στον αύλειο χώρο μιας σκηνής και πλέον εξυπηρετεί τις ανάγκες των ενοίκων της συγκεκριμένης φαμίλιας.

    Πρόσφατα, μέλη του Δικτύου Αλληλεγγύης Κοινωνικών Ιατρείων επισκέφτηκαν τον καταυλισμό, καταφέρνοντας να ξεπεράσουν τις αυστηρές εντολές απομόνωσης οι οποίες εκδόθηκαν δήθεν για προστασία από την εξάπλωση του κορονοϊού, αλλά με αντικειμενικό στόχο να κρατήσουν μακριά τις ανεπιθύμητες παρουσίες και κυρίως τον φωτογραφικό φακό.

    « Προχωρώντας μέσα στη ζούγκλα παρατηρούμε μπουκάλια νερού τα οποία μέσα έχουν ένα κίτρινο υγρό. Το κίτρινο αυτό υγρό είναι ούρα. Οι άνθρωποι αποφεύγουν να επισκεφτούν τις τουαλέτες και επιλέγουν να ουρούν μέσα σε μπουκάλια, τα οποία τοποθετούν έξω από τις άθλιες σκηνές τους προκειμένου να τα πετάξουν την επόμενη μέρα. Συνεχίζουμε τη δυστοπική μας περιήγηση, αλλά το βάδισμα γίνεται όλο και πιο δύσκολο. Η βροχή έχει επιδεινώσει την κατάσταση. Ισορροπούμε με δυσκολία επάνω σε σπασμένες παλέτες και οι διάδρομοι ανάμεσα στις σκηνές είναι στενοί, ίσα που χωρούν τα σώματά μας. Κάτω από τις μισοβυθισμένες στη λάσπη παλέτες περνούν ποντίκια.

    Κάποια στιγμή βγαίνουμε σε ένα σημείο πιο ανοιχτό. Εκεί ένας πρόσφυγας σκυμμένος στο χώμα προσπαθεί να καθαρίσει τα παπούτσια του από τις λάσπες, ενώ δίπλα του συνεχίζουν να περνούν ποντίκια. Ανθρωποι και ποντίκια συνυπάρχουν αρμονικά. Κανείς πια δεν διαμαρτύρεται. Οι άνθρωποι έπαψαν να τα σιχαίνονται και τα ποντίκια έπαψαν να τους φοβούνται. Παιδιά ξεπροβάλλουν μέσα από τις σκηνές σκυθρωπά. Είναι η μόνη φορά που βλέπουμε παιδιά να μην παίζουν. Τα παιδιά συνήθως παντού και πάντα, ακόμα και κάτω από τις πλέον άθλιες συνθήκες, βρίσκουν τρόπους να επιβιώνουν. Είναι ευρηματικά, μπορούν να παίζουν ώρες ολόκληρες με ένα κουτάκι από αναψυκτικό » αναφέρουν.

    Η απελπισία όμως στη ΒΙΑΛ έχει όνομα. Και πρόσωπο. Είναι του εφτάχρονου παιδιού το οποίο το μεσημέρι στις 11/2 ανέβηκε στην ταράτσα του κεντρικού κτιρίου της ΒΙΑΛ και απειλούσε να αυτοκτονήσει πέφτοντας από έξι-εφτά μέτρα ύψος. Ενα μέτρο για κάθε χρόνο ζωής που μετράει. Με την παρέμβαση κοινωνικών λειτουργών, ψυχολόγων και αστυνομικών πείστηκε να κατέβει.

    « Οι εικόνες φρίκης διαδέχονται η μία την άλλη » σημειώνουν τα μέλη του Δικτύου Κοινωνικών Ιατρείων, που κατάφεραν να βγάλουν μερικές φωτογραφίες στα κλεφτά. « Σωροί σκουπιδιών, κόπρανα, ούρα, ψόφια ζώα και παρ’ όλο που φοράμε μάσκες η δυσοσμία τις διαπερνά. “Βλέπεις τις γάτες ;” ψελλίζει ένας πρόσφυγας. “Είναι χορτάτες από τα σκουπίδια, γι’ αυτό και δεν κυνηγούν τα ποντίκια”. Στα χωράφια που βρίσκονται έξω από το κτίριο του ΚΥΤ μέσα στις λάσπες βρίσκονται κάποιες σκηνές. Από εκεί ξεπροβάλλει ένα κοριτσάκι, αναμαλλιασμένο και βρόμικο. Φοράει ένα ζευγάρι αντρικές σαγιονάρες, μεγαλύτερες από το μπόι του. Ψαχνόμαστε να του δώσουμε κάτι, αν και το ίδιο δεν μας ζητά τίποτα, απλώς μας κοιτάζει. Προσφέρουμε κάτι, περισσότερο από αμηχανία, εκείνο δεν μιλά και απομακρύνεται, μπαίνει σε μια σκηνή. Ο πατέρας κλείνει την πόρτα πίσω και αυτή είναι η μοναδική φωτογραφία πρόσφυγα που καταφέρνουμε να κλέψουμε, την πλάτη αυτού του πατέρα. Σε μια στιγμή που εκείνος δεν μας κοιτά. Τα υπόλοιπα τα ξέρουμε, δεν χρειάζονται, είναι περιττά. Οτιδήποτε επιπλέον θα ήταν φλυαρία, πλεονασμός και κίνδυνος για αυτούς τους ανθρώπους να χάσουν την αξιοπρέπειά τους. Αν ψάξετε φωτογραφία του μικρού κοριτσιού, δεν θα βρείτε. Η εξαθλίωση δεν μπορεί απλά και μόνο να απαθανατίζεται, οι άνθρωποι δεν είναι θέαμα ».
    Δεν διεκδικούν πια

    Και συνεχίζουν την περιγραφή της φρίκης : « Ολα αυτά είναι η “κανονικότητα” των στρατοπέδων συγκέντρωσης. Οι άνθρωποι που έχουν καταδικαστεί να διαμένουν σε αυτά φαίνεται πως έχουν πάψει να διεκδικούν και υπομένουν καρτερικά το τέλος. Είτε αυτό είναι η έγκριση του ασύλου, είτε η απέλασή τους, είτε ο ίδιος ο θάνατος. Οτιδήποτε από αυτά τα τρία φαντάζει καλύτερο από αυτό που βιώνουν τώρα. Και τίποτα από τα τρία δεν είναι σε θέση να το διεκδικήσουν. Εξαρτάται από τη βούληση και το “έλεος” των θυτών. Οι θύτες αστυνομικοί και εκπρόσωποι των πολυεθνικών οργανισμών και του υπουργείου, που διοικούν την κόλαση αυτή, είναι εξίσου απαθείς, μηχανικοί στις κινήσεις τους. Αυτό που κυριαρχεί ως γενική αίσθηση είναι ότι έχει δολοφονηθεί το ανθρώπινο στοιχείο και έχει απανθρωποποιηθεί η κοινωνική σύμβαση μεταξύ θυτών και θυμάτων ».
    Ο πληθυσμός

    Αυτή τη στιγμή ο πληθυσμός που στοιβάζεται στο ΚΥΤ ανέρχεται στους 1.800. Μόλις πριν από λίγες ημέρες ξεπερνούσε τις 3.000. Μέσα σε σύντομο χρονικό διάστημα δόθηκε το πράσινο φως από τον υπουργό Μετανάστευσης και Ασύλου να μετακινηθεί ένα σημαντικό μέρος προς την ηπειρωτική Ελλάδα.

    « Οι άνθρωποι αυτοί κρατούνταν εντελώς εκδικητικά στο νησί, αν και είχαν περάσει από τη διαδικασία της συνέντευξης και είχαν επίσημα αποκτήσει προσφυγικό στάτους. Ανθρωποι εγκλωβισμένοι από τις αρχές τους 2019 εντελώς αναίτια. Η εντολή αυτή της fast track μετακίνησης δεν δόθηκε επειδή ξαφνικά ο Νότης Μηταράκης απέκτησε ευαισθησίες » υποστηρίζουν τα μέλη του Δικτύου και εξηγούν :

    « Το τελευταίο διάστημα τόσο στη Χίο όσο και στα υπόλοιπα νησιά γίνεται μια προσπάθεια να πειστούν οι κάτοικοι των νησιών για την αναγκαιότητα δημιουργίας κλειστών στρατοπέδων. Κάθε φορά υποδεικνύεται και ένα διαφορετικό μέρος από τους τοπικούς άρχοντες, σε συνεννόηση με τον υπουργό, αλλά κάθε φορά οι κάτοικοι αντιδρούν. Οι αντιδράσεις αυτές προέρχονται από ανθρώπους με διαφορετικές πολιτικές και ιδεολογικές αφετηρίες. Ολες και όλοι θυμόμαστε τη μετάβαση των ΜΑΤ του Χρυσοχοΐδη πριν από περίπου έναν χρόνο και τις σκηνές πρωτόγνωρου τραμπουκισμού που έζησαν οι κάτοικοι των νησιών. Είδαμε τους άντρες των ΜΑΤ μέχρι και την τελευταία στιγμή, λίγο πριν αποβιβαστούν στο καράβι της επιστροφής, να σπάνε και να καταστρέφουν αυτοκίνητα κατοίκων του νησιού ».

    Οπως λένε οι αυτόπτες μάρτυρες, οι φωνές για κατειλημμένα χωράφια είναι προσχηματικές. Στόχο έχουν να αποπροσανατολίσουν τη συζήτηση, βάζοντας στην εξίσωση και το κόστος που πληρώνει η τοπική κοινωνία. « Αλλά κάτι τέτοιο δεν ισχύει. Οι ιδιοκτήτες αποζημιώνονται, ενώ δημιουργήθηκαν και 500 θέσεις εργασίας για ντόπιους » υποστηρίζουν. « Σε μια εποχή κατά την οποία προσπαθούν να αναθεωρήσουν την ιστορία των ναζιστικών εγκλημάτων, επιχειρούν παράλληλα να αποσιωπήσουν το αίσχος των σύγχρονων εγκλημάτων των στρατοπέδων που λειτουργούν υπό την αιγίδα της Ε.Ε. και της ελληνικής κυβέρνησης. Στο πλαίσιο αυτής της πολιτικής επιχειρούν να φιμώσουν εκείνους/ες που καταγγέλλουν, να ποινικοποιήσουν τη δημοσιοποίηση πληροφοριών και φωτογραφιών » καταλήγουν.

    Αλλωστε πρόσφατες και σε εξέλιξη είναι και οι απόπειρες ποινικοποίησης της αλληλεγγύης στη Μυτιλήνη με τη δικογραφία της αστυνομίας εναντίον 35 μελών ΜΚΟ, που ακόμα εκκρεμεί στα εισαγγελικά γραφεία ελλείψει προφανώς ισχυρών ενδείξεων που θα οδηγούσαν σε απαγγελίες κατηγοριών από τις δικαστικές αρχές.

    https://www.efsyn.gr/ellada/koinonia/286381_anthropoi-kai-pontikia-sti-bial

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    Note de Vicky Skoumbi, qui a envoyé ce message via la mailing-list Migreurop :

    J’ai essayé tant bien que mal de rectifier et de compléter la traduction automatique de ce témoignage terrifiant du centre de réception et d’identification de Chios, un camp mérite pleinement sa qualification de ’#camp_de_concentration'. Où on apprend que les résidents du camp n’attendant plus rien que le pire ont renoncé à toute réclamation et revendication, tandis qu’un petit garçon de sept ans finit par tenter de se suicider pour retrouver quelque chose de la valeur et de la dignité de la vie. La #déshumanisation systématique de réfugiés aurait même atteint même ceux qui gèrent le camp qui se comportent comme des automates. Ce témoignage est unique, car toute entrée dans le camp est interdite, et à plus forte raison toute prise de photo. Je vous prie donc de le diffuser le plus largement possible

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    The VIAL (RIC of Chios) concentration camp in Chios is a disgrace not only to Europe but to humanity itself ● 1,800 refugees, from babies to the elderly, live in dilapidated tents between rivers of dirt, mountains of rubbish, mice and animal carcasses ● The “gradual closure” of the structure promised by the government has been forgotten and people have been doomed to misery and humiliation.

    The refugee camp, or Reception and Identification Center, as it is aptly named, is essentially a swampland full of mud. A swamp where, due to the harsh weather conditions, the government methodically turns the refugees into objects, depriving them of any notion of dignity and human condition.

    Having secured the full tolerance - if not complicity - of the European Union and the two major international organizations, the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) and the International Organization for Migration (IOM), by summary proceedings sentenced them to live in conditions that would be still lifeless for our pets. Hundreds of refugees at the moment in VIAL are trying to survive in makeshift tents, made with whatever available material is found.

    Damaged UNHCR tents, thick plastic from packaging materials, rubbish bags, construction waste have been tied up and nailed to old tree branches or wood and house the majority of the 1,800 people who have been living in the north for months and trapped in the north. the main building.

    Few are those who live in containers, which now house mainly services and the few NGOs that continue to operate in the hell of the VIAL RIC. Every now and then in the jungle of makeshift tents you can see a container in which more than two families are usually stacked. These are the lucky ones of the camp.

    The government, wanting to appease the residents of the neighboring village of Chalkios, took away many containers promising the “gradual closure of VIAL” and distributed them here and there. Two of the containers ended up in Chios Hospital in order to be transformed into Covid patient’s wards and placed in the courtyard of the institution.

    The less than few chemical toilets are located on the edge of the camp on an uphill point. They often overflow as it is impossible for such a few number of toilets to serve this population. The slope below the toilets is full of tents, in which feces and urine end up. Some of the toilets do not have a door. One door was demolished and turned into a building block of a hut, while another chemical toilet was “privatized” after, with the law of the jungle prevailing, it was moved to the courtyard of a tent and now serves the needs of the occupants of this tent.

    Recently, members of the Solidarity Network of Social Clinics visited the camp, overcoming the strict isolation orders issued ostensibly to protect against the spread of the coronavirus, but whose the real objective is to keep away the unwanted presence and especially the unwanted faces [ all those who could testify and denounce publicly this horrible situation].

    "Going into the Jungle [the makeshift part of the camp] we notice bottles of water which have a yellow liquid inside. This yellow liquid is urine. People avoid going to the toilets and choose to urinate in bottles, which they place outside their miserable tents in order to throw them away the next day. We continue our dystopian tour, but walking becomes more and more difficult. The rain has worsened the situation. We have difficulty balancing on broken pallets and the corridors between the tents are narrow, just enough to fit our bodies. Mice pass under the half-submerged pallets.

    At some point we go to a more open point. There, a refugee crouching on the ground tries to clean his shoes from the mud, while mice continue to pass by. Humans and mice coexist harmoniously. No one is complaining anymore. People stopped hating them and mice stopped being afraid of them. Children emerge through the scenes sullenly. It is the only time we see children not playing. Children usually everywhere and anytime, even under the most miserable conditions, find ways to survive. They are ingenious, they can play for hours with a can of soft drink "they say.

    But despair in VIAL has a name. And a face. It belongs to a seven-year-old boy who at noon on 11/2 climbed on the roof of the main building of VIAL and threatened to commit suicide by falling from a height of six to seven meters. A meter high for every year of his life. With the intervention of social workers, psychologists and police officers, the child was persuaded to come down.

    “The images of horror follow one another,” note the members of the Network of Social Clinics, who managed to take some photos without being seen. "Piles of rubbish, feces, urine, dead animals and even though we wear masks, the stench pervades them. “Do you see cats?” cries a refugee. “They are full of garbage, that’s why they do not hunt mice.” In the fields outside the RIC building there are some tents in the mud. From there emerges a little girl, disheveled and dirty. She is wearing a pair of men’s flip flops, bigger than herself. We are looking for something to give her, even though she does not ask us for anything, she just looks at us. We offer something, more out of embarrassment, she does not speak and leaves, enters a scene. The father closes the back door and this is the only refugee photo we manage to steal, this father’s back. At a time when he is not looking at us. We know the rest, they are not needed, they are unnecessary. Anything more would be gossip, redundancy and risk for these people to lose their dignity. If you search for a photo of the little girl, you will not find it. “Poverty cannot simply be immortalized, people are not a spectacle.”

    They do not claim anymore

    And they continue to describe the horror: "All this is the ’normality’ of the concentration camps. The people who have been condemned to live in them seem to have stopped claiming and are patiently enduring the end. This could be either the approval of the asylum demand, or their deportation, or even death itself. Any of these three possibilities seems better than what they are experiencing now. And the people that are trapped at the Vial camp are not able to claim any of the three already mentioned. Their future depends on the will and the “mercy” of the perpetrators. The perpetrators, the police and the representatives of the multinational organizations and the ministry, who are responsible for the administration of this hell, are equally apathetic, moving around like automates. “What prevails as a general feeling is that the human element has been assassinated here: the social contract between perpetrators and victims has been completely dehumanized.”

    The population

    Currently the population stacked in the RIC amounts to 1,800. Just a few days ago it exceeded 3,000. A short time before, the Minister of Immigration and Asylum gave the green light to move an important part to mainland Greece.

    “These people were kept completely revengeful on the island, even though they had gone through the interview process and had officially acquired refugee status. People trapped since the beginning of 2019 completely unnecessarily. The recent order of fast track movement was not given because Notis Mitarakis suddenly became sensitive”, the members of the Network support and explain:

    “Recently, both in Chios and on the other islands, an attempt is being made to convince the inhabitants of the islands of the necessity of creating closed camps. Each time a different place is indicated by the local authorities, in consultation with the minister, but each time the residents react. These reactions come from people with different political and ideological backgrounds. We all remember the transition of Chrysochoidis [ The minister of the Police]’ riot police about a year ago and the scenes of unprecedented bullying experienced by the inhabitants of the islands. We saw the special unit’s men until the last moment, just before they disembarked on the return ship, to break and destroy cars of the island’s inhabitants”.

    According to eyewitnesses, the rumors about occupied fields are pretentious. They aim to disorient the discussion, putting in balance also the cost paid by the local community. “It is simply not true. The owners are being compensated, while 500 jobs have been created for locals”, they claim. "At a time when attempts are made to review the history of Nazi crimes, the authorities are also trying to silence the disgrace of the modern crimes of the EU-sponsored camps and the Greek government. “As part of this policy, they are trying to silence those who denounce, they try to criminalize the publication of information and photos,” they conclude.

    Attempts to criminalize solidarity in Mytilene are recent and ongoing with the brief filed by the police against 35 NGO members, which is still pending in the prosecutor’s office, apparently in the absence of strong evidence that would lead to indictments by the judicial authorities.

    #Vial #Chios #grèce #réfugiés #asile #migrations #îles #camps_de_réfugiés

    ping @isskein @karine4

  • #Roma_negata. Percorsi postcoloniali nella città
    Un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto.

    Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia: quali sono le tracce dell’avventura coloniale italiana a Roma? Roma negata è un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto e dare voce a chi proviene da quell’Africa che l’Italia ha prima invaso e poi dimenticato. Igiaba Scego racconta i luoghi simbolo di quel passato coloniale; Rino Bianchi li fotografa, assieme agli eredi di quella storia. Il risultato è una costruzione narrativa e visiva di un’Italia decolonizzata, multiculturale, inclusiva, dove ogni cittadino possa essere finalmente se stesso. Negli anni trenta del secolo scorso Asmara, Mogadiscio, Macallè, Tripoli, Adua erano nomi familiari agli italiani. La propaganda per l’impero voluta da Benito Mussolini era stata battente e ossessiva. Dai giochi dell’oca ai quaderni scolastici, per non parlare delle parate, tutto profumava di colonie. Di quella storia ora si sa poco o niente, anche se in Italia è forte la presenza di chi proviene da quelle terre d’Africa colonizzate: ci sono eritrei, libici, somali, etiopi. Il libro riprende la materia dell’oblio coloniale e la tematizza attraverso alcuni luoghi di Roma che portano le tracce di quel passato dimenticato. I monumenti infatti, più di altre cose, ci parlano di questa storia, dove le ombre sono più delle luci. Prende vita così un’analisi emozionale dei luoghi voluti a celebrazione del colonialismo italiano, attraverso un testo narrativo e delle fotografie. In ogni foto insieme al monumento viene ritratta anche una persona appartenente a quell’Africa che fu colonia dell’Italia. Scego e Bianchi costruiscono così un percorso di riappropriazione della storia da parte di chi è stato subalterno. «Volevamo partire dal Corno D’Africa, dall’umiliazione di quel colonialismo crudele e straccione, perché di fatto era in quel passato che si annidava la xenofobia del presente (…) Da Roma negata emerge quel Corno d’Africa che oggi sta morendo nel Mediterraneo, disconosciuto da tutti e soprattutto da chi un tempo l’aveva sfruttato».

    https://www.ediesseonline.it/prodotto/roma-negata

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    Citations :

    «Ma non tutte le memorie, lo stavo scoprendo con il tempo, avevano lo stesso trattamento.
    C’erano memorie di serie B e serie C. Memorie che nessuno voleva ricordare, perché troppo scomode, troppo vere.»

    (pp.16-17)

    «Ahi, il colonialismo italiano ferita mai risanata, ferita mai ricucita, memoria obliata»

    (p.18)

    «Ora la stele sta ad Axum, insieme alle sue sorelle etiopi. Ma a Piazza di Porta Capena cos’è rimasto di quel passaggio?
    Solo vuoto, solo silenzio, assenza, oblio, smemoratezza in salsa italica».

    (p.18)

    «E anche dimenticare la storia che lega Africa e Italia è un’infamia. Perché dimenticandola si dimentica di essere stati infami, razzisti, colonialisti. Italiani brava gente, ti dicono i più autoassolvendosi, e si continua beatamente a rifare gli stessi errori. Ieri i colonizzati, oggi i migranti, vittime di un sistema che si autogenera e autoassolve. Ecco perché sono ossessionata dai luoghi. E’ da lì che dobbiamo ricominciare un percorso diverso, un’Italia diversa.»

    (p.25)

    Sur le Cinema Impero :

    «Il colonialismo italiano era davanti ai loro occhi tutti i giorni con i suoi massacri, i suoi stupri, la sopraffazione dei corpi e delle menti. Era lì con la sua storia di lacrime e di sangue sparso. Era lì a testimoniare quel legame tra Africa e Italia. Un legame violento, cattivo, sporco e non certo piacevole. Anche nel nome quel cinema era violento. L’impero era quello che Benito Mussolini sognava per aver prestigio davanti alle altre potenze europee e soprattutto davanti a quell’Adolf Hitler che lo preoccupava tanto. L’imprero era quello del Mare Nostrum dove le faccette nere sarebbero state costrette a partorire balilla per la nazione tricolore. L’impero era quello che era riapparso ’sui colli fatali di Roma’. Un impero che Benito Mussolini nel discorso del 9 maggio 1936 aveva dichiarato
    ’Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani, gagliarde generazioni italiane’.
    Era la violenza delle squadracce, ma anche gli sventramenti indiscriminati del tessuto urbano delle città africane.
    L’Africa colonizzata dagli italiani si rempì così di archi di trionfo, busti pavoneggianti, palazzi improbabili. In Somalia per esempio De Vecchis, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, aveva voluto costruire una cattedrale che fosse l’esatta copia di quella di Cefalù con le sue due torri altissime. Una volta costruita alcuni somali notarono l’altezza sproporzionata delle torri rispetto ai palazzi nei dintorni e cominciarono a definire la costruzione ’la doppia erezione’. E poi come dimenticare il faro di Capo Guardafui trasformato in un fascio littorio? Asmara (ma in generale l’Eritrea) fu quella che però subì più trasformazioni di tutti. Infatti fu chiamata da più parti la piccola Roma. Tra il 1935 e il 1941 gli architetti italiani si sbizzarrirono in questa città creando uno stile assai stravagante che mischiava modernismo, futurismo e un teutonico stile littorio.»

    (pp.32-33)

    Poésie de Ulisse Barbieri (anarchico poeta direttore del giornale « Combattiamo »), Dopo il disastro :

    «No, non è patriottismo, no, per DIO!
    Al massacro mandar nuovi soldati,
    Né tener lì... quei che si son mandati
    Perché dei vostri error paghino il Fio!
    Ma non capire... o branco di cretini...
    Che i patriotti... sono gli Abissini?»

    (p.56)

    «Il Risorgimento, se vogliamo dare anche questa lettura, fu la lotta di liberazione degli italiani dal dominio straniero, dal dominio coloniale. Una liberazione portata avanti da un’élite che si era legata ad uno strano potere monarchico, quello dei Savoia, ma pur sempre una liberazione. Ecco perché il colonialismo italiano è tra quelli europei uno dei più assurdi. Gli italiani, che avevano sperimentato sulla propria pelle il giogo straniero, ora volevano sottoporre lo stesso trattamento brutale a popolazioni che mai si erano sognate di mettersi contro l’Italia. Ma l’Italia voleva il suo posto al sole. Questa espressione sarà usata nel secolo successivo da Benito Mussolini per la guerra d’Etiopia, ma disegna bene le mire espansionistiche italiane anche durante questi primi passi come nazione neocoloniale. L’Italia, questa giovincella, viveva di fatto un complesso di inferiorità verso l’altra Europa, quella ricca, che conquistava e dominava. Si sentiva da meno di Gran Bretagna e Francia. Si sentiva sola e piccolina. Per questo l’Africa si stava affacciando nei pensieri di questa Italietta provinciale e ancora non del tutto formata. L’Italia voleva contare. Voleva un potere negoziale all’interno del continente europeo. E pensò bene (anzi male, malissimo!) di ottenerlo a spese dell’Africa.»

    (pp.56-57)

    «Venne infatti collocato davanti al monumento ai caduti un leone in bronzo proveniente direttamente da Addis Abeba. Non era un leone qualsiasi, bensì il celeberrimo #Leone_di_Giuda, simbolo che suggellava il patto dell’Etiopia con Dio. Sigillo, quindi, della tribù di Giuda, dal quale discendevano molti profeti e Cristo stesso.»

    (p.61)

    #Piazza_dei_cinquecento

    «E chi lo immaginava che proprio questa piazza babilonia fosse legata alal storia del colonialismo italiano? Infatti i cinquecento citati nel nome della piazza sono i cinquecento caduti di Dogali. Non so bene quando l’ho scoperto. Forse l’ho sempre saputo. E forse anche per questo, per un caso fortuito della vita, è diventata la piazza dei somali, degli eritrei, degli etiopi e anche di tutti gli altri migranti. Una piazza postcoloniale suo malgrado, quasi per caso. Perché è qui che la storia degli italiani in Africa orientale è stata cancellata. Nessuno (tranne pochi) sa chi sono stati i cinquecento o che cosa è successo a Dogali».

    (p.68)

    «Quello che successe in quei vent’anni scerellati non era solo il frutto di Benito Mussolini e dei suoi sgherri, ma di una partecipazione allargata del popolo italiano.
    Ed è forse questo il punto su cui non si è mai lavorato in Italia. In Germania per esempio non solo ci fu il processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, ma anche un lavoro incessante e certosino sulla memoria. Nel nostro paese si preferì invece voltare pagina senza capire, interiorizzare, percorrere la memoria delle atrocità vissute e/o perpetrate. In Italia la memoria è divisa o dimenticata. Mai studiata, mai analizzata, mai rivissuta, mai ripensata. Soprattutto la storia in Italia non è mai stata decolonizzata. Il colonialismo fu inghiottito da questo oblio e quelli che furono dei punti di riferimento simbolici del fascismo furono lasciati andare alla deriva come fossero delle zattere fantasma in un fiume di non detto.»

    (p.87)

    –—
    Obelisco di Axum, sur la Piazza Capena :

    «#Piazza_di_Porta_Capena fu teatro di alcune manifestazioni, e alcune riguardarono proprio le proteste per la restituzione dell’obelisco all’Etiopia. Ma in generale si può dire che il monumento era di fatto dimenticato. Stava lì, i romani lo sapevano, ma non ci facevano più tanto caso.
    Era lì, sola, immobile, eretta, dimenticata...
    Era lì lontana da casa...
    Era lì spogliata di ogni significato.
    Era giusto uno spartitraffico. Più imponente e raffinato di altri... certo, ma non tanto dissimile dai tanti alberi spennacchiati che svolgevano la stessa funzione in giro per la città.
    Nessuno per anni si occupò della stele. Qualcuno di tanto in tanto vagheggiava una ipotetica restituzione. Ma tutto era lento, tutto sembrava quasi impossibile.»

    (p.90)
    –-> 2005 :

    «Poi i soldi si trovarono e la stele ritornò a casa tra canti e balli popolari»

    (p.95)
    Et une fois restitué...

    «Ma il vuoto, mi chiedo, non si poteva colmare?
    Improvvisamente Piazza di Porta Capena divenne invisibile. Lo era già prima con la stele. Ma almeno con lei presente capitava che qualche romano la guardasse distrattamente e si interrogasse altrettanto distrattamente. Ma senza la stele il luogo è rimasto un non detto. Tutta la storia, tutto il dolore, tutte le nefandezze sparite con un colpo di spugna.»

    (p.96)

    «Quello che mi colpisce di questa polemica, di chi era contrario a una nuova stele e chi era a favore di un monumento nel sito del fu obelisco di Axum, è la totale assenza del dibattito del colonialismo italiano.
    Nessuno, da Fuksas a La Rocca, nominò mai i crimini di guerra che l’Italia fascista aveva compiuto contro l’Africa. Nessuno sottolineò il fatto che quella stele era un bottino di guerra. Nessuno percepì quel vuoto nella piazza come un vuoto di memoria. Anche un urbanista serio e sensibile come Italo Insolera disse non a caso che di obelischi era piena la città.
    Ora un monumento è stato messo. Ne ho parlato all’inizio del nostro viaggio. Un monumento per ricordare le vittime dell’11 settembre. Due colonne anonime di cui i romani ignorano il significato.»

    (pp.97-98)

    «La memoria non è negare quello che è stato, ma rielaborare quella vita passata, contestualizzarla e soprattutto non dimenticarla.»

    (p.101)

    «E poi la democrazia non si insegna, non si esporta, non si crea dal nulla. La democrazia è un moto spontaneo dell’anima. Ognuno ha il suo modo, i suoi tempi, le sue sfumature.»

    (p.103)

    Sur l’inscription sur le #Ponte_Principe_Amedeo_di_Savoia :

    «Comandante superiore delle forze armate dell’Africa Orientale Italiana durante unidici mesi di asperrima lotta isolato alla Madre Patria circondato dal nemico soverchiante per mezzo per forze confermava la già sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico. Aviatore arditissimo instancabile animatore delle proprie truppe le guidava ovunque per terra sul mare nel cielo in vittoriose offensive in tenaci difese impegnando rilevanti forze avversarie. Assediato nel ristretto ridotto dell’#Amba_Alagi alla testa di una schiera di prodi resisteva oltre il limite delle umane possibilità in un titanico sforzo che si imponeva all’ammirazione dello stesso nemico. Fedele continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe sabauda puro simbolo delle romane virtù dell’Italia Imperiale Fascista. Africa Orientale Italiana 10 Giugno 1940, XVIII 18 maggio 1941. Motivazione della Medaglia d’Oro al valor militare conferita per la difesa dell’Impero.»

    «Ad Asmara gli abitanti del villaggio di Beit Mekae, che occupavano la collina più alta della città, furono cacciati via per creare il campo cintato, ovvero il primo nucleo della città coloniale, una zona interdetta agli eritrei. Una zona solo per bianchi. Quanti conoscono l’apartheid italiano? Quanti se ne vergognano?»

    (p.107)

    «Girando per Roma questo si percepisce molto bene purtroppo. I luoghi del colonialismo in città vengono lasciati nel vouto (Axum), nell’incuria (Dogali), nell’incomprensione (quartiere africano). Si cancella quello che è troppo scomodo. E’ scomodo per l’Italia ammettere di essere stata razzista. E’ scomodo ammettere che il razzismo di oggi ha forti radici in quello di ieri. E’ scomodo ammettere che si è ultimi anche nel prendersi le proprie responsabilità.»

    (p.107)

    «Etiopia e Eritrea avevano imbracciato le armi per una contesa sorta sul confine di Badme. Il confine era stato tracciato in modo incerto nel 1902 tra l’Italia (allora paese colonizzatore dell’Eritrea) e il regno d’Etiopia. E dopo più di un secolo Etiopia ed Eritrea si combattevano per quel mal nato confine coloniale»

    (p.112)

    «L’Europa è colpevole tutta per lo sfacelo di morte e dolore che sta riversando in uno dei mari più belli del mondo.»

    (p.124)

    «Per la maggior parte degli italiani, e dei media, erano semplicemente disperati, i soliti miserabili morti di fame (quasi un’icona, come il bambino del Biafra macilento e schelettrico), in fuga da guerra, dittatura e carestia. Una sorta di stereotipo universale, quello del disperato senza passato, senza presente e con un futuro impossibile da rivendicare.»

    (p.124)

    «Occupare uno spazio è un grido di esistenza.»

    (p.125)

    «La crisi è quando non sai che strada percorrere e soprattutto che strada hai percorso.»

    (p.125)

    «E come si fa a smettere di essere complici?
    In Somalia tutti i nomadi sanno che il miglior antidoto all’ignoranza, a quella jahilia che ci vuole muti e sordi, è il racconto. Io, che per metà vengo da questa antica stirpe di nomadi e cantastorie, so quanto valore può avere una parola messa al posto giusto. La storia va raccontata. Mille e mile volte. Va raccontata dal punto di vista di chi ha subito, di chi è stato calpestato, di chi ha sofferto la fame e la sete. La visione dei vinti, dei sopravvissuti, di chi ha combattuto per la sua libertà. Solo raccontando, solo mettendo in fila fatti, sensazioni, emozioni possiamo davvero farcela. Solo così le narrazioni tossiche che ci avvelenano la vita ci possono abbandonare. Il concetto di narrazione tossica viene dal collettivo Wu Ming:
    ’Per diventare ’narrazione tossica’, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.
    E’ sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giustificare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza.’»

    (p.128)

    –-> sur la #narration_toxique (#narrazione_tossica) :
    https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/07/storie-notav-un-anno-e-mezzo-nella-vita-di-marco-bruno

    «La madre patria era nulla senza le sue colonie, per questo amava mostrarle succubi. Si era inventata il fardello dell’uomo bianco, la civilizzazione, la missione di Dio, solo per poter sfruttare il prossimo senza sensi di colpa.»

    (p.130)

    –-

    Sur la gestion des #funérailles et de l’#enterrement des victimes du #naufrage du #3_octobre_2013 :
    https://seenthis.net/messages/971940

    #mémoire #livre #colonialisme_italien #colonisation #Italie #Rome #traces #paysage #géographie_urbaine #post-colonialisme #toponymie #monuments #mémoire #Igiaba_Scego #passé_colonial #photographie #oubli_colonial #histoire #Asmara #Erythrée #architecture #urbanisme #stele_di_dogali #Dogali #Tedali #Adua #massacre #ras_Alula #Saati #maggiore_Boretti #Ras_Alula #Tommaso_De_Cristoforis #Vito_Longo #Luigi_Gattoni #Luigi_Tofanelli #basci-buzuk #Ulisse_Barbieri #Taitù #regina_Taitù #Pietro_Badoglio #Rodolfo_Graziani #italiani_brava_gente #oubli #ponte_Amedeo_d'Aosta #Principe_Amedeo #mémoire #démocratie #troupes_coloniales #dubat #meharisti #Badme #frontières #frontières_coloniales #zaptiè #retour_de_mémoire #Affile #Ercole_Viri

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede @albertocampiphoto @olivier_aubert

    • Citation tirée du livre «#La_frontiera» de #Alessandro_Leogrande:

      «Si è acceso qualcoa dentro di me quando ho scoperto che alcuni dei campi di concentramento eretti negli ultimi anni da Isaias Afewerki per reprimere gli oppositori sorgono negli stessi luoghi dove erano disposti i vecchi campi di concentramento del colonialismo italiano.
      In particolare nelle isole di #Dahlak, cinquanta chilometri al largo di Massaua, dove le galere italiane sono state prima riutilizzate dagli occupanti etiopici e in seguito dallo stesso regime militare del Fronte.
      Il penitenziario di #Nocra, una delle isole dell’arcipelago, fu attivo dal 1887 (proprio l’anno dell’eccidio di Dogali) al 1941, come ricorda Angelo Del Boca in Italiani, brava gente? Vi furono rinchiusi prigionieri comuni, ascari da punire, detenuti politici, oppositori e, dopo l’inizio della campagna d’Etiopia nel 1935, ufficiali e funzionari dell’impero di Hailé Selassié, perfino preti e monaci. (...) L’idea di fare di Nocra e delle isole limitrofe una gabbia infernale si è tramandata nel tempo, da regime a regime»

      (p.85-86)

      –---

      Sul Campo di concentramento di Nocra

      Il campo di Nocra o carcere di Nocra fu il più grande campo di prigionia italiano nella Colonia eritrea e dal 1936 il più grande dell’Africa Orientale Italiana. Venne aperto nel 1887 e chiuso nel 1941 dagli inglesi. Era situato nell’isola di Nocra, parte dell’Arcipelago di Dahlak, a 55 chilometri al largo di Massaua. Dal 1890 al 1941 fece parte del Commissariato della Dancalia. Arrivò a detenere tra un minimo di 500 prigionieri e un massimo di 1.800[1].


      https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Nocra

      #camp_de_concentration #Tancredi_Saletta #Oreste_Baratieri

    • #Igiaba_Scego: “Scopriamo i simboli della storia coloniale a Roma per riempire un vuoto di memoria”

      Igiaba Scego, scrittrice italo somala autrice di libri come ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’, racconta e spiega i simboli del colonialismo presenti nella capitale. Spesso sconosciuti, ignorati, o lasciati nel degrado, narrano una storia che l’Italia ha rimosso: quella delle guerre coloniali che ebbero luogo anche prima del fascismo, e che oggi rappresentano il ‘vuoto di memoria’ del nostro paese. Un dibattito che si è accesso a Roma dopo la decisione di intitolare la stazione della metro C al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola e non chiamarla più #Amba_Aradam.

      A Roma da qualche settimana si parla dei simboli e dei nomi del rimosso coloniale italiano, grazie alla proposta di intitolare la stazione della metro C su via dell’Amba Aradam a Giorgio Marincola, partigiano italo-somalo morto durante la Resistenza. Una proposta diventata realtà con il voto del consiglio comunale che ha deciso che Roma non appellerà una stazione della metropolitana ‘Amba Aradam’, l’altipiano montuoso dove l’esercito italiano massacrò 20.000 uomini e donne con bombardamenti a tappeto e l’utilizzo di armi chimiche. Di questo e altro abbiamo parlato con la scrittrice Igiaba Scego.

      Quali sono i simboli coloniali a Roma che andrebbero spiegati e sui quali bisognerebbe accendere l’attenzione?

      Non sono molti ma sono collocati in punti simbolici. A Roma, tra piazza della Repubblica e la stazione Termini c’è la Stele di Dogali, a riprova che il colonialismo non è stato solo fascista ma anche ottocentesco. L’obelisco è egiziano ma ha un basamento ottocentesco dedicato alla battaglia avvenuta nel 1887 a Dogali, in Eritrea, dove una colonna italiana venne intercettata e massacrata. Da lì anche il nome di piazza dei 500 davanti la stazione Termini. Di questa battaglia ne ho parlato in due libri, ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’. E nella piazza dove c’è la Stele, s’incontra il colonialismo con le migrazioni di oggi. Questo monumento, che nessuno conosce, è tra l’altro lasciato nel degrado. C’è poi il ponte Duca d’Aosta nei pressi del Vaticano, o il Cinema Impero a Tor Pignattara, che oggi si chiama Spazio Impero. Oltre al fatto di inserire il termine ‘impero’ nel nome, la struttura è quasi uguale a un cinema che è stato realizzato ad Asmara in Eritrea. Ma la cosa che colpisce di più sono i vuoti. Negli anni ’30, venne portata da Mussolini come bottino di guerra dall’Etiopia la Stele di Axum. Questa fu posizionata a piazza di Porta Capena, dove inizia anche il libro ‘Roma negata’. Dopo la guerra, non è stata restituita subito. Nel 1960, Abebe Bikila (campione olimpionico etiope) ha vinto i Giochi di Roma correndo a piedi nudi. Ho sempre pensato che il motivo della sua vittoria non fu solo la sua capacità fisica e la sua caparbietà, ma anche il dover essere costretto a passare per ben due volte davanti la Stele sottratta al suo popolo. Sono convinta che gli abbia dato lo sprint per vincere. La Stele fu poi restituita all’Etiopia negli anni Duemila, tra mille polemiche. Il problema è che ora in quella piazza non c’è nulla, solo due colonnine che rappresentano le Torri Gemelli e di cui nessuno sa nulla. Sarebbe stato giusto ergere sì un monumento per ricordare l’11 settembre, ma soprattutto uno per ricordare le vittime del colonialismo italiano e chi ha resistito ai colonizzatori. Un monumento riparatore per avvicinare i popoli vista la storia scomoda. Quella piazza rappresenta il vuoto di memoria, è come se qualcuno avesse fotografato il rimosso coloniale".

      Quali potrebbero essere i passi da compiere per far emergere il rimosso coloniale?

      Inserirlo nei programmi scolastici e nei libri di testo. Negli ultimi anni è emersa una certa sensibilità e tanti libri sono entrati a scuola grazie agli insegnanti. Sarebbe bello però avere anche nei programmi non solo la storia del colonialismo, ma anche il punto di vista del sud globale. Mi piacerebbe che la storia italiana fosse studiata globalmente, e far emergere le connessioni dell’Italia con l’Europa, l’Africa, l’America Latina e l’Asia. Non penso solo al colonialismo, ma anche alla storia delle migrazioni italiane. Alle superiori andrebbe studiata soprattutto la storia del ‘900. L’altro giorno è scoppiata quella bomba terribile a Beirut: quanti studenti e studentesse sanno della guerra civile in Libano? Sempre nella direzione di far emergere il rimosso coloniale, sarà istituito un museo che si chiamerà ‘Museo italo – africano Ilaria Alpi’. Ma la cosa che servirebbe tantissimo è un film o una serie tv. Presto sarà tratto un film da ‘The Shadow King’, libro di Maaza Mengiste, una scrittrice etiope – americana, che parla delle donne etiopi che resistono all’invasione fascista degli anni ’30. Un libro bellissimo e importante, come è importante che la storia del colonialismo italiano sia raccontata da un prodotto culturale potenzialmente globale. Ma perché un film sul colonialismo italiano lo deve fare Hollywood e non Cinecittà? Perché c’è ancora questa cappa? Non penso a un film nostalgico, ma a una storia che racconti la verità, la violenza. Serve sia lo studio alto sia il livello popolare. Altrimenti il rischio è che diventi solo un argomento per studiosi. È bello che escano libri all’estero, ma dobbiamo fare un lavoro anche qui.

      Quali sono le figure, magari anche femminili, che dovrebbero essere valorizzate e raccontate?

      Metterei in scena la collettività. Un’idea è fare un murales. Nel Medioevo le cattedrali erano piene di affreschi, e attraverso le immagini è stata insegnata la storia della chiesa. Userei la stessa tecnica, mostrando le immagini della resistenza anche delle donne etiope e somali. Servirebbe poi creare qualcosa che racconti anche le violenze subite nel quotidiano, perché non ci sono solo le bombe e i gas, ma anche i rapporti di potere. Mio padre ha vissuto il colonialismo e mi raccontava che prima dell’apartheid in Sudafrica c’era l’apartheid nelle città colonizzate, dove c’erano posti che non potevano essere frequentati dagli autoctoni. Racconterei queste storie sui muri delle nostre città e nelle periferie. È importante ricordare ciò che è stato fatto anche lì.

      https://www.fanpage.it/roma/igiaba-scego-scopriamo-i-simboli-della-storia-coloniale-a-roma-per-riempire-
      #histoire_coloniale #mémoire #symboles

      –---

      –-> sur la nouvelle toponymie de la station de métro:
      https://seenthis.net/messages/871345

    • Citations tirées du livre « #La_frontiera » de #Alessandro_Leogrande :

      «Dopo aver letto Roma negata, il libro di Igiaba Scego sui monumenti, le targhe, le lapidi e i palazzi della capitale che ricordano il colonialismo, sono andato a vedere l’#oblisco_di_Dogali. (...) Il libro è un viaggio nelle pieghe di Roma alla ricerca delle tracce del passato coloniale.
      (...)
      Il paradosso è che la rimozione del passato coloniale riguarda esattamente quelle aree che a un certo punto hanno cominciato a rovesciare i propri figli verso l’Occidente. Sono le nostre ex colonie uno dei principali ventri aperti dell’Africa contemporanea. I luoghi di partenza di molti viaggi della speranza sono stati un tempo cantati ed esaltati come suolo italiano, sulle cui zolle far sorgere l’alba di un nuovo impero»

      (pp.80-81)

      «In realtà il mausoleo [l’obelisco di Dogali], realizzato già nel giugno 1887 dall’architetto #Francesco_Azzurri, fu inizialmente collocato nella vicina piazza dei Cinquecento, l’enorme capolinea degli autobus che sorge davanti alla stazione Termini e si chiama così in onore dei caduti di #Dogali. Ma poi, nei primi anni del regime fascista, fu spostato qualche centinaio di metri in direzione nord-ovest, verso piazza della Repubblica. Ed è lì che è rimasto»

      (pp.82-82)

      https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-frontiera

  • Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Le Führer offre une ville aux Juifs)


    Sources : United States Holocaust Memorial Museum, Ivan Vojtech Fric, https://collections.ushmm.org/search/catalog/pa1144024 et https://collections.ushmm.org/search/catalog/pa1144026
    Ce film nazi de 1944/45 a été tourné à Theresienstadt, le camp de concentration de Terezín en Tchécoslovaquie annexée, après qu’il eut été transformé artificiellement en camp de travail modèle le temps de la visite de la Croix Rouge.
    Une autre forme de l’horreur.
    Quelques fragments ont été conservés, dont, ici, un exemple sonore : https://archive.org/details/TheresienstadtDerFhrerSchenktDenJudenEineStadtFilm

    Des infos : https://fr.wikipedia.org/wiki/Theresienstadt_(film)
    #shoah #Theresienstadt #camp_de_concentration #propagande #film #national-socialisme

  • hubertus strughold le « père de la médecine spatiale »

    wikipédia,  : physiologiste allemand naturalisé américain qui a joué un rôle pionnier durant les années 1950 et 1960 dans le domaine de la médecine spatiale. Durant la Seconde Guerre mondiale et dans le cadre de son travail de recherche sur le comportement du corps humain à haute altitude et soumis à de fortes accélérations, il est suspecté d’avoir été impliqué indirectement dans des expériences médicales nazies sur des déportés du camp de Dachau ayant entraîné leur mort.
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Hubertus_Strughold
    C’est du wikipédia, autrement dit, de l’édulcoré, rien sur les centaines de déportés morts lors des expériences d’hubertus strughold et d’autres savant allemands

    A regarder sur arte jusqu’au 7/04 : Destination Lune - Les anciens nazis de la Nasa

    https://www.arte.tv/fr/videos/078690-000-A/destination-lune-les-anciens-nazis-de-la-nasa

    #usa #allemagne #nazisme #nasa #histoire #génocide #guerre #extermination #camp_de_concentration #camps_de_concentration

  • La prison de Guantanamo fait face au vieillissement de ses prisonniers afp/ebz - 26 Mai 2018 - RTS
    http://www.rts.ch/info/monde/9598574-la-prison-de-guantanamo-fait-face-au-vieillissement-de-ses-prisonniers.h

    Quand ils sont arrivés à Guantanamo, ils étaient des combattants dans la force de l’âge, capturés peu après les attentats du 11 septembre 2001. Plus de 15 ans plus tard, les détenus ont vieilli, et la prison doit s’adapter.

    Cette semaine, la Maison Blanche s’est rendue à l’évidence : en l’absence de volonté politique de régler la situation des 40 derniers prisonniers de Guantanamo, certains d’entre eux risquent d’y finir leurs jours.

    « Le centre de détention pour les détenus de grande valeur connaît des problèmes structurels et des pannes de système qui, si on ne les règle pas, pourraient représenter un risque pour les gardiens et les détenus », a indiqué la Maison Blanche dans une lettre aux élus du Congrès pour leur demander des fonds supplémentaires pour Guantanamo.

    « Il ne répond pas non plus aux besoins d’une population qui vieillit », précise le document.

    Pas d’information sur les détenus
    Le Pentagone ne publie pas d’informations sur les détenus de Guantanamo mais certains documents publiés par WikiLeaks et le New York Times permettent d’en savoir un peu plus sur eux.

    L’âge moyen des prisonniers est de 46 ans et demi. Le plus âgé est le Pakistanais Saifullah Paracha, qui aura 71 ans en août.


     #guantanamo #torture #etats-unis #prison #usa #cuba #us #terrorisme #guantánamo #cia #états-unis #prisons #vieillissement #personnes_âgées #hospice #fin_de_vie #maltraitance #civilisation #camp_de_concentration #camps #Histoire

    Adaptation des espaces
    «  Certains des espaces destinés aux rencontres avec les avocats sont maintenant équipés de rampes pour chaises roulantes », indique l’avocat d’un détenu. Des poignées ont été installées dans les toilettes pour aider les prisonniers à se relever.

    Le Comité international de la Croix-Rouge (CICR) visite Guantanamo environ quatre fois par an pour s’assurer que la prison répond aux critères internationaux et pour évaluer la façon dont les prisonniers sont traités.

    « Nous sommes activement engagés dans un dialogue avec les autorités américaines » sur les besoins médicaux des détenus, indique à l’AFP un porte-parole du CICR à Washington, Marc Kilstein.

    Les détenus âgés souffrent fréquemment de maladies chroniques qui peuvent être exacerbées par le confinement : insuffisances cardiaques, diabète, maladies du foie, problèmes cognitifs.

  • Des cochons et des hommes
    https://lundi.am/FDSEA-porcs-et-reaction-fascisante-dans-le-Tarn-et-Garonne

    Un projet d’extension d’élevage industriel de porcs suscite indignation et colère à #Septfonds, dans le Tarn-et-Garonne. En effet, la préfecture vient d’autoriser le doublement de la taille d’une exploitation agricole qui produira annuellement 6500 porcs charcutiers... Or, celle-ci se situe à l’entrée de l’ancien #camp_de_concentration de Judes où ont été enfermés de 1939 à 1942 16000 soldats républicains anti-franquistes réfugiés de la guerre d’Espagne, et à 500 mètres du mémorial qui leur rend hommage. [...]

    Car la réaction, elle aussi, s’organise. Le 8 décembre dernier à Septfonds, une dizaine d’habitant.e.s tiennent un stand et font signer une pétition contre l’extension de la porcherie. Un groupe d’hommes les invective : “Maintenant, il va falloir dégager”, arrachent la banderole, déchirent les pétitions et font voler les tracts. Ils menacent d’une gifle une conseillère municipale retraitée. “Maintenant, ce n’est que de l’intimidation, si vous recommencez ce sera pire.” Ce sont Alain Iches, président de la #FDSEA du Tarn-et-Garonne et Jean-Paul Rivière, président de la #Chambre_d’Agriculture qui prononcent ces mots. Récemment, un #maraîcher_Bio opposé au projet, voisin de Mr Jean-Paul Rivière, a subi des mesures d’intimidation odieuses sur sa ferme : les jeunes arbustes d’un verger qu’il venait de planter ont été tout simplement coupés au sécateur.

    les #manche_de_pioche sont de sortie #FNSEA #industrie_porcine #agroindustrie #intimidation #impunité

  • Eritrean Refugees deported from Sudan into Grave Danger in Eritrea

    The forcible return of the 30 Eritrean asylum-seekers is believed not to have been the first such breech of refugee law by Sudan. According to Radio Dabanga, Sudanese courts deported 104 Eritrean refugees earlier in August, and sentenced others to imprisonment for their ‘illegal infiltration into the Sudanese territory. According to HRCE’s sources from Eritrea, those forcibly returned face prison terms that ranges from six months to three years and are later sent to the army, usually to border trenches, as a continuation of their punishment. Prior to the recent deportation, over 120 returnees were detained in #Adersesr Prison, a military prison and concentration camp close to the Eritrea-Sudan border, and many more are detained in #Adi-abeto and #Adi-Nefas prisons near to the capital Asmara.

    http://hrc-eritrea.org/eritrean-refugees-deported-from-sudan-into-grave-danger-in-eritrea
    #prison #emprisonnement #camp_de_concentration #camps
    #Erythrée #réfugiés_érythréens #asile #migrations #réfugiés #Soudan #renvois #expulsions

  • Anniversaire de Kim Jong-il

    Aurélien Ducoudray signe un superbe récit, terrible et délicat, sur le « paradis » communiste du dictateur fou Kim Jong-il, vu à travers les yeux et l’intellect d’un enfant de 8 ans. Magnifiquement illustré par Mélanie Allag.


    http://www.editions-delcourt.fr/serie/anniversaire-de-kim-jong-il.html
    #BD #bande-dessinée #livre #Corée_du_nord #réfugiés #asile #migrations #prostitution #camp_de_réfugiés #famine
    cc @reka

  • Citations tirées du très bon livre « Le miel » de Slobodan Despot :

    « En arrivant à la hauteur de la sortie #Jasenovac, il éprouva un frisson. Jasenovac, c’était le célèbre camp de concentration croate où les oustachis, durant la #Seconde_Guerre_mondiale, avaient massacré à l’arme blanche des populations entières de Serbes de la Kranjina et de Bosnie. Chaque famille, dans la région de ses racines, avait vu quelqu’un des siens finir à Jasenovac. Les néomartyrs. C’était le nom que donnaient à ces malheureux les prêtres orthodoxes, évoquant une ville entière engloutie dans les fosses et le limon de la Save. Un afflux de chrétiens suppliciés comme le ciel n’en avait, soulignaient-ils, jamais vu depuis deux mille ans. D’après l’Eglise, le Jasenovac souterrain aurait été, peut-être, la deuxième ville serbe par son nombre d’habitants.
    Ces visions pathétiques et macabres lui faisaient horreur. Pourtant, il ne pouvait s’empêcher de les imaginer, ces milliers d’égorgés et d’assommés, entassés depuis un demi-siècle dans le sol, sous les fermes, sous la route, sous ses roues. Il se mit à trembler. Il était de leur sang, de leur tribu : raison suffisante pour finir comme eux sous ce régime grotesque qui s’obstinait à rejouer son passé dans una mascarada sanglante sur laquelle le monde entier fermait les yeux »

    Slobodan DESPOT, Le miel, Gallimard, 2014, p.71.

    « Lynyrd Skynyrd. Sweet Home Alabama. Un morceau qui avait bercé son adolescence, et qu’il n’avait plus entendu depuis. En un instant, comme à l’heure dernière, il revécut toutes ces vacances d’été vagabondes, sous les tentes et dans le spins. On sautait avec trois sous en poche et le sac au dos dans des trains bondés pour n’importe quelle destination côtière, on se rassemblait au coin du feu autour de mauvaises grattes, on chantait faux des chants dj’ici et d’Amérique. On était en Yougoslavie, un pays sûr, décontracté, prestigieux. On était non aligné, ouvert au monde entier. On allait partout, et sans visa. La jeunesse y faisait ce qu’elle voulait… Cocagne ! Et lui, maintenant, il roulait sur cette autouroute déserte avec ce chien de garde qui allait peut-être le fusiller tout à l’heure, juste à cause de son origine.
    Une origine à laquelle, du temps de cette musique, il ne songeait même pas ! Si on lui avait dit, alors, que ses camarades de camping n’étaient pas de la même ethnie que lui ! Quelle rigolade ! Même les Macédoniens et les Slovènes étaient de ’nôtres’ ; du reste, ils parlaient tous serbo-croate… »

    Slobodan DESPOT, Le miel, Gallimard, 2014, p.75.

    #Yougoslavie #Deuxième_guerre_mondiale #Seconde_guerre_mondiale #spomeniks
    cc @albertocampiphoto

    A Jasenovac il y a maintenant un #spomenik :


    http://rga.revues.org/2799

  • #Lety, l’ombra del massacro della popolazione Rom

    Lety, Repubblica Ceca. Questo villaggio, adagiato sulle colline della Boemia meridionale, non pare distinguersi oggi per nulla di particolare. C’è il palazzo del Comune, qualche negozio, un distributore di benzina. E un allevamento di maiali. Eppure Lety conserva uno dei segreti più tragici della Repubblica Ceca. Qui, sul sito dell’allevamento, dal 1939 fino alla fine della seconda guerra mondiale, fu attivo un lager: prima nella forma di campo di lavoro per persone “socialmente inattive”; poi in quella di campo di concentramento per la popolazione rom ceca. A Lety furono uccisi più di 300 rom. Molti altri furono mandati a morire ad Auschwitz-Birkenau. Per anni, dopo la chiusura del campo e l’insediamento del regime comunista, di Lety non si parlò più. La sua memoria venne cancellata. Quella memoria, e i suoi morti, sono stati esumati dopo la caduta del comunismo. Nuove ricerche storiche hanno illuminato “l’Olocausto rom”.

    La stessa comunità rom, ceca e internazionale, ha con forza chiesto la chiusura dell’allevamento di maiali e la costruzione di un memoriale alle vittime. Il reportage di Laser, a cura di Roberto Festa, ripercorre la storia e il dramma di Lety, la cui memoria continua a pesare sulle vicende recenti della Repubblica ceca, “cuore d’Europa” oggi alle prese con nuove polemiche sulle condizioni di vita dei “suoi” cittadini rom.


    http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/Lety-l%E2%80%99ombra-del-massacro-della-popolazione-Rom-6114940.html
    #Roms #génocide #camp_de_concentration #Slovaquie #Tchécoslovaquie
    cc @albertocampiphoto

  • #Staro_Sajmište, 1941-1944 : un #camp_de_concentration en plein coeur de #Belgrade

    L’histoire de l’ancien Parc des expositions de Belgrade, Staro Sajmište, est largement méconnue, y compris en Serbie. Le Parc des expositions est inauguré en 1937. Divers salons et manifestations culturelles et de loisirs y sont organisées jusqu’au début de la Seconde Guerre mondiale. Au cours de l’hiver 1941, après que les adultes juifs de sexe masculin sont massivement fusillés par les forces allemandes, le Parc des expositions est aménagé en camp de concentration : le Judenlager Semlin. Femmes et enfants juifs de Serbie, mais aussi réfugiés juifs d’Europe de l’Est et Rroms y sont internés jusqu’au printemps 1942. Au mois de mars, un camion à gaz arrive de Berlin. Trois mois plus tard, le 10 mai, Belgrade est déclarée Judenfrei. Le Parc des expositions est alors transformé en camp de rétention, l’Anhaltelager Semlin, le plus grand camp de prisonniers de l’Europe du Sud-est. Après la guerre, le lieu est laissé à l’abandon. Il accueille aujourd’hui des réfugiés des dernières guerres yougoslaves.

    http://balkans.courriers.info/spip.php?page=dossier&id_article=12794
    #Serbie