• Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • #Chine : le drame ouïghour

    La politique que mène la Chine au Xinjiang à l’égard de la population ouïghoure peut être considérée comme un #génocide : plus d’un million de personnes internées arbitrairement, travail forcé, tortures, stérilisations forcées, « rééducation » culturelle des enfants comme des adultes…
    Quel est le veritable objectif du parti communiste chinois ?

     
    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/64324

    #Ouïghours #Xinjiang #camps_d'internement #torture #stérilisation_forcée #camps_de_concentration #persécution #crimes_contre_l'humanité #silence #matières_premières #assimilation #islam #islamophobie #internement #gaz #coton #charbon #route_de_la_soie #pétrole #Xi_Jinping #séparatisme #extrémisme #terrorisme #Kunming #peur #état_policier #répression #rééducation #Radio_Free_Asia #disparition #emprisonnement_de_masse #images_satellites #droits_humains #zone_de_non-droit #propagande #torture_psychique #lavage_de_cerveau #faim #Xinjiang_papers #surveillance #surveillance_de_masse #biométrie #vidéo-surveillance #politique_de_prévention #surveillance_d'Etat #identité #nationalisme #minorités #destruction #génocide_culturel #Ilham_Tohti #manuels_d'école #langue #patriotisme #contrôle_démographique #contrôle_de_la_natalité #politique_de_l'enfant_unique #travail_forcé #multinationales #déplacements_forcés #économie #colonisation #Turkestan_oriental #autonomie #Mao_Zedong #révolution_culturelle #assimilation_forcée #Chen_Quanguo #cour_pénale_internationale (#CPI) #sanctions

    #film #film_documentaire #documentaire

  • La Décolonisation britannique, l’art de filer à l’anglaise

    Le 24 mars 1947, Lord Mountbatten est intronisé Vice-roi des Indes dans un faste éblouissant. Alors que l’émancipation de 410 millions d’indiens est programmée, la couronne britannique tente de sauver les apparences en brillant de tous ses feux. Cinq mois de discussions entre les forces en présence aboutissent à un découpage arbitraire du territoire entre le Pakistan et l’Inde avec des conséquences désastreuses. Des violences qui sont reléguées au second plan par l’adhésion des deux nouveaux États souverains à la grande communauté du Commonwealth. Un arrangement qui ne va pas sans arrière-pensées. Mais déjà la Malaisie et le Kenya s’enflamment à leur tour. Dans les deux cas, la violence extrême de la répression qui s’abat est occultée par une diabolisation « de l’ennemi » et par une machine de propagande redoutable qui permet aux autorités de maîtriser le récit des événements.
    En 1956, la Grande-Bretagne échoue à rétablir son aura impériale après avoir été obligée d’abandonner le canal de Suez par les deux nouveaux maîtres du monde : l’URSS et les États-Unis. Le nouveau Premier ministre, Harold Macmillan, demande un « audit d’empire », pour évaluer le poids économique du maintien des colonies, car il sait que le pays n’a plus les moyens de poursuivre sa politique impérialiste. Il est prêt à y renoncer, à condition de restaurer le prestige national.
    Une décision mal vue par l’armée. En 1967 au Yémen, des unités britanniques renégates défient le gouvernement et s’adonnent à une répression féroce, obligeant la Grande-Bretagne à prononcer son retrait. En Rhodésie du Sud, c’est au tour de la communauté blanche de faire sécession et d’instaurer un régime d’apartheid. Incapable de mettre au pas ses sujets, signe de son impuissance, la couronne est condamnée à accepter l’aide du Commonwealth pour aboutir à un accord qui donne lieu à la naissance du Zimbabwe.
    Après la perte de sa dernière colonie africaine, l’Empire britannique a vécu et le dernier sursaut impérialiste de Margaret Thatcher aux Malouines n’y change rien. Jusqu’à aujourd’hui, la décolonisation demeure un traumatisme dans ces pays déstabilisés par leur ancien maître colonial tandis qu’au Royaume-Uni, la nostalgie prend le pas sur un travail de mémoire pourtant nécessaire.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/61716_0
    #film #film_documentaire #documentaire
    #colonisation #décolonisation #Inde #Pakistan #violence #Lord_Mountbatten #frontières #déplacement_de_populations #partition_de_l'Inde #Malaisie #torture #Commonwealth #Kenya #Mau_Mau #camps_d'internement #Kimathi #serment_Mau_Mau #travaux_forcés #Aden #Rhodésie_du_Sud #réserves #îles_Malouines

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  • Beyond the Camps: Beijing’s Long-Term Scheme of Coercive Labor, Poverty Alleviation and Social Control in #Xinjiang

    After recruiting a hundred or more thousand police forces, installing massive surveillance systems, and interning vast numbers of predominantly Turkic minority population members, many have been wondering about Beijing’s next step in its so-called “war on Terror” in Xinjiang. Since the second half of 2018, limited but apparently growing numbers of detainees have been released into different forms of forced labor. In this report it is argued based on government documents that the state’s long-term stability maintenance strategy in Xinjiang is predicated upon a perverse and extremely intrusive combination of forced or at least involuntary training and labor, intergenerational separation and social control over family units. Much of this is being implemented under the heading and guise of “poverty alleviation”.

    Below, the author identifies three distinct flow schemes by which the state seeks to place the vast majority of adult Uyghurs and other minority populations, both men and women, into different forms of coercive or at least involuntary, labor-intensive factory work. This is achieved through a combination of internment camp workshops, large industrial parks, and village-based satellite factories. While the parents are being herded into full-time work, their children are put into full-time (at least full day-time) education and training settings. This includes children below preschool age (infants and toddlers), so that ethnic minority women are being “liberated” and “freed” to engage in full-time wage labor. Notably, both factory and educational settings are essentially state-controlled environments that facilitate ongoing political indoctrination while barring religious practices. As a result, the dissolution of traditional, religious and family life is only a matter of time. The targeted use of village work teams and village-based satellite factories means that these “poverty alleviation” and social re-engineering projects amount to a grand scheme that penetrates every corner of ethnic minority society with unprecedented pervasiveness.

    Consequently, it is argued that Beijing’s grand scheme of forced education, training and labor in Xinjiang simultaneously achieves at least five main goals in this core region of the Belt and Road Initiative (BRI): maintain the minority population in state-controlled environments, inhibit intergenerational cultural transmission, achieve national poverty reduction goals, promote economic growth along the BRI, and bring glory to the Party by achieving all of these four aims in a way that is ideologically consistent with the core tenets of Communist thought – using labor to transform religious minority groups towards a predominantly materialist worldview, akin to the Reform Through Labor (劳改) program. Government documents outline that the transformation of rural populations from farming to wage labor should involve not just the acquisition of new skills, but also a thorough identity and worldview change in line with Party ideology. In this context, labor is hailed as a strategic means to eradicate “extremist” ideologies.

    The domestic and global implications of this grand scheme, where internment camps form only one component of a society-wide coercive social re-engineering strategy, are dramatic. Government documents blatantly boast about the fact that the labor supply from the vast internment camp network has been attracting many Chinese companies to set up production in Xinjiang, supporting the economic growth goals of the BRI.

    Through the mutual pairing assistance program, 19 cities and provinces from the nation’s most developed regions are pouring billions of Chinese Yuan (RMB) into the establishment of factories in minority regions. Some of them directly involve the use of internment camp labor, while others use Uyghur women who must then leave their children in educational or day care facilities in order to engage in full time factory labor. Another aspect of Beijing’s labor schemes in the region involve the essentially mandatory relocation of large numbers of minority workers from Xinjiang to participating companies in eastern China.

    Soon, many or most products made in China that rely at least in part on low-skilled, labor-intensive manufacturing, may contain elements of involuntary ethnic minority labor from Xinjiang.

    The findings presented below call for nothing less than a global investigation of supply chains involving Chinese products or product components, and for a greatly increased scrutiny of trade flows along China’s Belt and Road. They also warrant a strong response from not only the international community in regards to China’s intrusive coerced social re-engineering practices among its northwestern Turkic minorities, but from China’s own civil society that should not want to see such totalitarian labor and family systems extended to all of China.

    https://www.jpolrisk.com/beyond-the-camps-beijings-long-term-scheme-of-coercive-labor-poverty-allev
    #contrôle_social #travail_forcé #Chine #camps #minorités #pauvreté #Ouïghours #rééducation #Nouvelle_route_de_la_soie #Reform_Through_Labor (#劳改) #camps_d'internement

    ping @reka @simplicissimus

    • How the world learned of China’s mass internment camps
      A paradox characterizes China’s mass internment camps in Xinjiang.

      Advanced technology has allowed Chinese authorities to construct a total surveillance and mass detention regime, of which other architects of internment camps, such as the Nazis and the Soviets, could only dream.

      But technological advancements are a double-edged sword. Whereas it was years or even decades before the world knew the extent of the Nazi concentration camps and the Soviet gulag, it took only months to learn the scope and scale of what the Chinese Communist Party has been doing in Xinjiang. Why? Satellite images shared on the internet.

      The International Consortium of Investigative Journalists’ China Cables investigation gave us a unique glimpse at how the Chinese government runs this mass detention and “re-education” program and how they’ve deployed surveillance techniques to track an entire ethnic minority population. The leaked documents build substantially – and in the government’s own words – on our understanding of the situation in Xinjiang.

      But a leak from inside the Chinese government is exceedingly rare. So how have journalists used technology, advanced reporting methods, and sheer perseverance to extract information out of this remote and closely-guarded region in China’s northwest? And at what cost?

      The earliest English-language reports mentioning large internment facilities came in September 2017.

      On Sept. 10, Human Rights Watch published a report saying that the Chinese government had detained “thousands” of people in “political education facilities” since April 2017. The report cited interviews with three people whose relatives had been detained, as well as Chinese-language media reports from local Xinjiang outlets that mentioned “counter extremism training centers” and “education and transformation training centers.”

      On Sept. 11, Radio Free Asia became the first major English-language news organization to state that there were “re-education camps” in Xinjiang. The outlet’s team of Uighur-speaking reporters learned details about the camps by calling numerous local officials and police officers in Xinjiang.

      These reports raised awareness of the issue among China watchers already concerned about the situation in Xinjiang, but did not make waves among the wider public. The basic claims made in these initial reports – that many Uighurs were being put into special indoctrination facilities simply for being religious or having relatives abroad – were later corroborated. In late 2017, the number of camps and sheer scale of the detentions were still unknown; the highest estimate of the number of people detained was in the thousands.

      It was the subsequent work of two independent researchers that unveiled the true scope of China’s mass internment drive and brought the issue to the national and international spotlight. Adrian Zenz, a German researcher based at the time in Korntal, Germany, dug through obscure corners of the Chinese internet, using government procurement documents, construction bids, and public recruitment notices to calculate the first rough estimate of the number of people held in the camps. He put it somewhere between several hundred thousand and one million, in an article published in May 2018 for Jamestown Foundation. After further research, he later revised his estimate to around 1.5 million.

      Meanwhile, Shawn Zhang, a graduate student in Canada, used satellite images obtained through Google Maps to locate dozens of facilities, most newly built, that he believed were detention camps; he posted his findings in a May 2018 blog post. Zhang has now assisted many news outlets in the use of satellite imagery to locate and verify camps. The dozens upon dozens of potential sites he unearthed corroborated Zenz’s finding that the camps’ population reached the hundreds of thousands, if not more.

      In late 2017 and early 2018, several journalists from foreign media outlets were able to travel to Xinjiang and observe the expanding security state there firsthand. Megha Rajagapalan’s October 2017 dispatch for Buzzfeed painted a dark picture of the high-tech surveillance, or what she called a “21st century police state,” that had begun to blanket the city of Kashgar, in Xinjiang’s more restive southern region. The Wall Street Journal and the Associated Press both ran a series of dispatches and investigations into the camps, and Agence France-Presse revealed how local governments in Xinjiang had spent a small fortune buying surveillance technology and riot gear as the security state grew.

      There remain many unknowns. Exactly how many people are or have been detained in the camps? How many people have died while interned there? Does China plan to make detention facilities a permanent fixture of life in Xinjiang?

      These questions are not easy to answer. In addition to the sheer logistical challenge of gaining unfettered access to the region, the Chinese government has also sought to silence and punish those who have helped reveal its activities in Xinjiang. Authorities have detained the relatives of Radio Free Asia’s team of Uighur journalists. In 2018, Rajagapalan’s journalist visa was not renewed, effectively expelling her from the country. Chinese authorities have threatened Uighurs abroad who have spoken out about the camps.

      Nevertheless, reporting continues. And there remains a resolute community of journalists and activists working to bring more transparency and international scrutiny to the region.

      https://www.icij.org/investigations/china-cables/how-the-world-learned-of-chinas-mass-internment-camps
      #technologie

  • China says pace of Xinjiang ’education’ will slow, but defends camps

    China will not back down on what it sees as a highly successful de-radicalisation program in Xinjiang that has attracted global concern, but fewer people will be sent through, officials said last week in allowing rare media access there.

    Beijing has faced an outcry from activists, scholars, foreign governments and U.N. rights experts over what they call mass detentions and strict surveillance of the mostly Muslim Uighur minority and other Muslim groups who call Xinjiang home.

    In August, a U.N. human rights panel said it had received credible reports that a million or more Uighurs and other minorities in the far western region are being held in what resembles a “massive internment camp.”

    Last week, the government organized a visit to three such facilities, which it calls vocational education training centers, for a small group of foreign reporters, including Reuters.

    In recent days, a similar visit was arranged for diplomats from 12 non-Western countries, including Russia, Indonesia, India, Thailand, Kazakhstan, according to Xinjiang officials and foreign diplomats.

    https://www.reuters.com/article/us-china-xinjiang-insight/china-says-pace-of-xinjiang-education-will-slow-but-defends-camps-idUSKCN1P
    #Chine #Ouïghour #rééducation #camps #camps_d'internement

    Commentaire de Kenneth Roth sur twitter:

    The million Uighur Muslims whom China is detaining until they renounce Islam and their ethnicity, they must be happy, right? During a staged visit, they were forced to sing, in English, “If You’re Happy and You Know It, Clap Your Hands.” End of story.


    https://twitter.com/KenRoth/status/1082005177861922816

    ping @reka

    • Je découvre ce livre en lisant la #BD :
      Mémoires de viet kieu : Les linh tho, immigrés de force

      Mars 2004, Camargue. Alors qu’il couvre le conflit provoqué par la fermeture annoncée de l’usine Lustucru d’Arles, Pierre Daum, journaliste, découvre que cette usine ne fabrique pas seulement des pâtes : elle conditionne également le riz cultivé par des producteurs locaux. Il décide alors de se renseigner sur les conséquences de cette fermeture pour ces petits producteurs.

      A l’occasion de ses recherches, il visite un Musée du riz où certaines photos l’interpellent : des Vietnamiens seraient venus planter du riz en Camargue pendant la Seconde Guerre Mondiale ? Pourquoi ce fait est-il si peu connu ?

      Il entame alors une enquête minutieuse pour retrouver des témoins de cette époque, susceptibles de lui en dire davantage. Il découvre que 20.000 travailleurs indochinois ont été forcés dans les années 1940 à venir travailler en métropole pour “participer à l’effort de guerre”…

      Une enquête prenante entre deux continents, qui s’attache à un pan volontairement oublié de l’Histoire. Un Hors Série émouvant et sensible des Mémoires de Viet-Kieu.


      http://www.la-boite-a-bulles.com/book/287
      #bande_dessinée #poudrerie_d'oissel #WWII #efforts_de_guerre #prison_des_baumettes #sorgues #camps_d'internement #seconde_guerre_mondiale #deuxième_guerre_mondiale #riz #riziculture #Camargue
      #ressources_pédagogiques (notamment pour l’histoire de l’immigration en France)
      #ONS #ouvriers_non_spécialisés

    • Le site sur les immigrés de force :
      http://www.immigresdeforce.com

      Une page sur l’#exposition qui a eu lieu en 2011 à #Agde :
      http://www.immigresdeforce.com/l-exposition

      Des #fiches_pédagogiques :
      http://www.immigresdeforce.com/l-exposition/t-l-chargement/malette-p-dagogique
      ... dont une #fiche_pédagogique sur la vie dans les #camps :
      http://www.immigresdeforce.com/sites/immigresdeforce.com/files/Exposition/Documents/fiche_pedagogique_ndeg3_la_vie_dans_les_camps.pdf

      #ressources_pédagogiques

      Le #livre :
      Immigrés de force

      Après soixante-dix années de silence, voici enfin mise en lumière une page enfouie de l’histoire coloniale française : le recours, pour travailler dans l’Hexagone, à une main-d’oeuvre immigrée de force. Déjà, en 2006, le film Indigènes, de Rachid Bouchareb, avait révélé un aspect peu connu de l’utilisation des peuples colonisés lors de la Seconde Guerre mondiale. Or, à cette époque, la France n’avait pas seulement besoin de soldats, mais aussi d’ouvriers, afin de remplacer les Français mobilisés.
      Pour les travaux les plus pénibles, comme ceux du maniement des poudres dans les usines d’armement, la France fit venir en 1939 vingt mille Indochinois de sa lointaine colonie d’Extrême-Orient. Recrutés pour la plupart de force, débarqués à la prison des Baumettes à Marseille, ces hommes furent répartis à travers la France dans les entreprises relevant de la Défense nationale. Bloqués en Métropole pendant toute la durée de l’occupation allemande, logés dans des camps à la discipline très sévère, ils furent loués, pendant plusieurs années, par l’Etat français à des sociétés publiques ou privées – on leur doit le riz de Camargue –, sans qu’aucun réel salaire ne leur soit versé.
      Ce scandale se prolongea bien après la Libération. Renvoyés vers le Viêtnam au compte-gouttes à partir de 1946, ce n’est qu’en 1952 que les derniers de ces hommes purent enfin revoir leur patrie. Un millier fit le choix de rester en France.
      Après trois ans de recherches en archives et d’enquête, menée dans les banlieues de Paris et de Marseille, et jusqu’à Hanoi et aux villages les plus reculés du Viêtnam, #Pierre_Daum a réussi à retrouver vingt-cinq des derniers acteurs encore vivants de cet épisode si peu “positif” de l’histoire coloniale française. C’est leurs récits qu’il nous restitue dans ce livre.
      Journaliste au Monde puis à Libération, dont il a été le correspondant pour le Languedoc-Roussillon, Pierre Daum collabore actuellement comme grand reporter au Monde diplomatique et à quelques autres journaux.


      https://www.actes-sud.fr/catalogue/archives-du-colonialisme/immigres-de-force

      cc @franz42

    • Et trois #film #documentaire qui ont été produit suite à la sortie du livre :
      Công Binh, la longue nuit indochinoise

      En 1939, peu avant la Seconde Guerre mondiale, 20 000 jeunes Indochinois sont arrachés brutalement à leur pays et à leurs familles et embauchés de force dans les usines d’armement en France, afin de compenser le départ d’ouvriers au front. Ces ouvriers-forçats (appelés « Công Binh » ou « Linh Tho » au Viêt Nam) n’étaient désignés que par un matricule et recevaient des traitements dérisoires. Au moment de la défaite, ils furent considérés, à tort, comme des militaires, mis au ban de la société, asservis à l’occupant allemand et aux patrons collaborateurs. Ils furent aussi les pionniers de la culture du riz en Camargue. Le film se sert de témoignages d’une vingtaine de survivants ayant vécu cette expérience. Cinq d’entre eux sont décédés lors du tournage. Le film prend également appui sur l’ouvrage du journaliste Pierre Daum, Immigrés de force, publié chez Actes Sud1.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/C%C3%B4ng_Binh,_la_longue_nuit_indochinoise

      Riz amer - Des Indochinois à l’origine du riz en Camargue

      Qui connaît la véritable origine du riz en Camargue ? Après soixante-dix ans de silence, voici enfin révélée, une page enfouie de l’histoire coloniale française : le recours, pour travailler dans les rizières, à une main-d’œuvre immigrée de force. Riz amer est l’histoire des milliers d’indochinois qui ont « fait » le riz de Camargue.


      http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/42926_1
      Apparemment disponible sur youtube : https://www.youtube.com/watch?v=EXzT1HW-zOc

      Une histoire oubliée

      De 1945 à 1950, plus d’un millier d’ouvriers vietnamiens ont été envoyés par le gouvernement français pour répondre à la demande de main d’oeuvre des multiples entreprises de Lorraine. Avec le statut particulier d’"indigène", c’est-à-dire encadré par l’État, comme dans les colonies. Le film d’Ysé Tran part à la recherche de l’histoire singulière de ces hommes, arrachés à leurs villages pour les besoins de la guerre. 20 000 « travailleurs indochinois » ont débarqué à Marseille en 1939-1940 afin d’être utilisés dans les usines d’armement. Parqués dans des camps dans le Sud de la France après la capitulation de 1940, ils travaillent sans salaire, dans tous les secteurs de l’économie. À travers des témoignages de travailleurs indochinois centenaires ou presque, de leurs épouses et surtout de leurs enfants, et grâce à la découverte d’un fonds d’archives inédites, le film d’Ysé Tran dévoile enfin cette page longtemps ignorée de l’histoire ouvrière en Lorraine.

      http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/50197_1

    • Le dernier travailleur indochinois

      Ils ont relancé la production de riz en Camargue, fabriqué des cartouches ou travaillé dans les usines. C’est l’histoire oubliée de 20 000 Vietnamiens immigrés de force en 1939 par l’empire colonial français pour contribuer à l’effort de guerre. Un épisode révélé par le journaliste Pierre Daum et mis en image par le dessinateur Clément Baloup pour le grand public. Avec les deux auteurs, nous sommes partis sur les traces de ces travailleurs indochinois jusqu’à Marseille et nous avons retrouvé Thân. Centenaire, il vit toujours dans la ville où il a été débarqué en 1939, après des semaines dans la cale d’un bateau en provenance de Saïgon.


      http://www.rfi.fr/emission/20180113-le-dernier-travailleur-indochinois-than-van-tran
      reportage réalisé par @daphne

    • Liêm-Khê LUGUERN

      À l’époque de l’Indochine française, l’émigration des Vietnamiens vers la métropole est un phénomène minoritaire ; il concerne surtout des intellectuels et des étudiants venus parfaire leur formation en métropole. Les deux guerres mondiales troublent ce mouvement avec le recrutement de tirailleurs et de travailleurs indochinois en 1914, puis en 1939, permettant une incursion en métropole de dizaines de milliers de paysans indochinois. Reproduisant le précédent de la Première Guerre mondiale, au cours de laquelle 90 000 travailleurs et tirailleurs avaient été déplacés en métropole pour pallier la pénurie de maind’oeuvre, le plan Mandel, du nom du ministre des Colonies, prévoit en 1939 l’appoint de 300 000 travailleurs coloniaux à l’effort de guerre de la France. En avril 1940, 7 000 tirailleurs indochinois sur un total de 41 000 tirailleurs coloniaux sont présents sous les drapeaux en France. En juin de la même année, près de 20 000 « travailleurs indochinois » envoyés en métropole sont affectés comme ouvriers non spécialisés (ONS) dans les industries participant à la Défense nationale. La défaite de juin 1940 met fin à la réquisition et au déplacement de la main-d’oeuvre coloniale qu’il faut alors rapatrier. En 1941, le quart des « travailleurs indochinois » reprend le chemin de l’Indochine, mais la majorité reste bloquée en France par suite de l’arrêt des liaisons maritimes. À la Libération, la désorganisation de l’après-guerre et l’envoi de troupes françaises dans le cadre de la reconquête de l’Indochine retardent encore leur rapatriement, qui ne commence finalement qu’en 1946 pour s’achever en 1952. Plus d’un millier d’entre eux cependant choisirent de s’installer définitivement en France

      http://iris.ehess.fr/index.php?525
      #thèse

    • Les travailleurs indochinois en France pendant la Seconde Guerre mondiale

      En 1939, reproduisant le précédent de la Première Guerre mondiale au cours de laquelle 90 000 travailleurs et tirailleurs indochinois avaient été déplacés en métropole, le « #Plan_Mandel », du nom du ministre des Colonies, prévoit l’appoint de 300 000 travailleurs coloniaux, dont 100 000 Indochinois, à l’effort de guerre. En juin 1940, 27 000 Indochinois sont arrivés en France : 7 000 tirailleurs et 20 000 travailleurs. Après la défaite, 5 000 d’entre eux sont rapatriés mais les autres restent bloqués en métropole. A la Libération, la désorganisation de l’après-guerre et les événements qui affectent l’Indochine française, retardent encore le rapatriement de ces travailleurs requis : il ne prendra fin qu’en 1952. Pendant plus de dix ans, ces migrants ont formé une micro-société qui prolonge la société coloniale au sein même de l’espace métropolitain. Au processus d’adaptation au travail industriel, de confrontation au modernisme, s’ajoutent pour ces hommes une expérience inédite : celle d’un face-à-face direct avec la puissance coloniale en proie à la défaite, de la découverte, au-delà de la France coloniale, d’une société complexe, traversée d’antagonismes et de contradictions.

      http://www.histoire-immigration.fr/dossiers-thematiques/les-etrangers-dans-les-guerres-en-france/les-travailleurs-indochinois-en-france

    • Ni civil ni militaire : le travailleur indochinois inconnu de la Seconde Guerre mondiale

      En 1939,20 000 travailleurs indochinois requis furent acheminés vers la métropole. Dépendants du ministère du Travail, ils furent affectés comme ouvriers non spécialisés (ONS) dans les usines (en particulier les poudreries, l’aviation, les usines de munitions comme cela avait déjà été le cas en 1914) travaillant pour la Défense nationale. Bloqués en France à la suite de la défaite de juin 1940, ils n’ont pas pu, non plus, regagner la colonie à la Libération en raison de la guerre d’Indochine. Ce n’est que dix ans après leur réquisition (entre 1948 et 1952) que la majorité d’entre eux a été rapatriée, tandis qu’un millier choisit de s’installer définitivement en France. Ces derniers ont pu en 1973 faire valoir leurs années de réquisition dans le calcul de leur droit à la retraite. A la fin des années 1980, un comité de soutien aux anciens travailleurs et tirailleurs vietnamiens en France voit le jour avec le soutien de personnalités dont Madeleine Rebérioux. Appuyés par ce comité, les anciens requis rapatriés se sont mobilisés pour obtenir les mêmes droits que leurs camarades installés en France. En vain jusqu’à tout récemment.

      https://www.cairn.info/revue-le-mouvement-social-2007-2-page-185.htm

    • Les travailleurs indochinois en France de 1939 à 1948

      A l’époque de l’Indochine française, l’émigration des Vietnamiens vers la métropole est un phénomène minoritaire ; il concerne surtout des intellectuels et des étudiants venus parfaire leur formation. Cela ne doit pas cependant porter à négliger les mouvements migratoires temporaires qui correspondent aux recrutements de tirailleurs et de travailleurs indochinois en 1914, puis en 1939.

      Reproduisant le précédent de la première guerre mondiale, au cours de laquelle 90.000 travailleurs et tirailleurs indochinois avaient été déplacés en métropole pour pallier la pénurie de main-d’oeuvre (1) ; le plan Mandel, du nom du ministre des Colonies, prévoyait en 1939 l’appoint de 300.000 travailleurs coloniaux à l’effort de guerre de la France (2) En avril 1940, 7.000 tirailleurs indochinois sur un total de 41.000 tirailleurs coloniaux étaient présents sous les drapeaux en France. En juin de la même année, près de 20.000 travailleurs indochinois envoyés en métropole furent affectés comme ouvriers non spécialisés (O.N.S.) dans les industries participant à la Défense nationale (3) . La défaite de juin 1940 mit fin brutalement au déplacement de main-d’oeuvre coloniale qu’il fallut alors rapatrier. En 1941, 5.000 travailleurs indochinois retournèrent au pays mais les 15.000 restant furent bloquésen France par suite de l’arrêt des liaisons maritimes. La désorganisation de l’après-guerre, les événements qui affectèrent l’Indochine française à la Libération, retardèrent encore le rapatriement de ces travailleurs requis. Celui-là ne prit fin qu’en 1952. [5]

      Jeunes pour la plupart (ils avaient entre 20 et 30 ans) ces requis ont formé une micro-société transplantée brutalement pour une dizaine d’années hors de son univers traditionnel. Il va sans dire qu’une telle expérience ne pouvait être vécue comme une simple parenthèse et qu’elle a forcément transformé ces hommes. Au processus d’adaptation au travail industriel, de confrontation au modernisme et au phénomène d’acculturation, s’ajouta une expérience inédite, celle de la confrontation avec une puissance coloniale sur son propre sol, une puissance en proie à la défaite, aux prises avec ses contradictions, ce qui bouleversera le mythe de la mère patrie toute puissante, homogène et invincible.

      http://barthes.ens.fr/clio/revues/AHI/articles/volumes/tran.html

    • Indochine de Provence. Le Silence de la rizière

      S’il est un récit oublié, c’est bien le témoignage encombrant mais bouleversant des 20 000 travailleurs indochinois en France entre 1939 et 1952. Longtemps, l’histoire a fait silence sur le visage de ces hommes – contraints de travailler au service de la France de Vichy après la signature de l’armistice –, qui rentrèrent chez eux après des années d’exil forcé, sans la moindre indemnisation.
      Cet album-recueil, ouvert sur le récit de ces itinéraires d’exil et sur une parole qui commence à peine à circuler, établit un rapport sensible à l’histoire. Il interroge la mémoire, l’histoire, l’identité d’un département (le Vaucluse), façonné par les flux migratoires. Il pose les enjeux d’une éthique fondée sur la pensée critique revendiquée comme seule légitime pour traiter des mémoires douloureuses et oubliées du XXe siècle.

      https://www.actes-sud.fr/catalogue/etudes-historiques/indochine-de-provence
      #livre

  • Nauru, l’île dévastée

    Connaissez-vous #Nauru ? Cette île du #Pacifique est la plus petite République du monde, apparemment semblable à des dizaines d’autres. Elle fut même, dans les années 1970-1980, l’un des pays le plus riches du monde.
    Aujourd’hui, Nauru est un État en #ruine, une île littéralement dévastée. C’est le récit de cet incroyable effondrement qu’a entrepris #Luc_Folliet. Car tout commence à Nauru avec le #phosphate, ce « cadeau de Dieu », dont l’exploitation démarre au début du XXe siècle. Lorsque les Nauruans conquièrent leur indépendance, en 1968, des centaines de millions de dollars tombent dans le portefeuille du nouvel État et de ses habitants, qui adoptent un mode de vie occidental et dépensent sans compter.
    Au début des années 1990, le phosphate s’épuise. Alors, l’île se vend à qui bon lui semble. Des centaines de #banques off-shore choisissent de s’installer dans ce nouveau #paradis_fiscal. Mais rien n’y fait, Nauru devient l’un des États les plus pauvres au monde et loue sa terre à l’Australie voisine qui peut y « exporter » ses #camps_d'internement de #réfugiés. On envisage même alors l’abandon de l’île et l’#exil de ses habitants...
    Désastre écologique, faillite économique, hyperconsumérisme, maladies chroniques : l’histoire de Nauru raconte aussi notre histoire. Elle montre comment le rêve de prospérité peut, en quelques années, virer au cauchemar.

    http://www.editionsladecouverte.fr/catalogue/index-Nauru__l_ile_devastee-9782707164315.html
    #livre #richesse #pauvreté

  • In Ghana’s witch camps, the accused are never safe - latimes.com
    http://www.latimes.com/news/nationworld/world/la-fg-ghana-witch-camps-20120909,0,1098113.story

    If the chicken falls with its head down and its feet in the air, the woman is declared a witch and she must spend the rest of her days in the squalor of the camp, abandoned by her family, with just one unfortunate young relation sent by her family to care for her until she dies.

    And if the chicken collapses feet down and she’s declared innocent of witchcraft? She still must spend her remaining years in the camp, just in case some villagers don’t believe in her innocence.

    “They’re not safe when they return,” said Adwoa Kwateng-Kluvitse, Ghana director for international aid organization Action Aid, which is working to educate northern Ghanaian communities on the rights of the accused in an effort to end witchcraft accusations.

    “Even if the ritual says she’s innocent, there will be members of the community who will feel unsafe.”

    Northern Ghana has six witch camps that have been in existence for more than 100 years, accommodating 800 accused witches — almost all of them women — and 500 relatives sent by families to take care of them.

    #Ghana #femmes #camps_d'internement #sorcellerie