#caporalato

  • Una tragedia che ha delle responsabilità: due ragazzi morti di freddo ad Alba
    https://radioblackout.org/2024/12/una-tragedia-che-ha-delle-responsabilita-due-ragazzi-morti-di-freddo-

    Issa Loum, originario del Senegal, e Mamadou Saliou Diallo, della Guinea, entrambi sotto i 30 anni, hanno perso tragicamente la vita mercoledì in un casolare abbandonato ad Alba, soffocati dal monossido di carbonio di un braciere acceso per combattere il gelo. Così scrive il Collettivo Mononoke di Alba, che ha organizzato per domenica 15 dicembre […]

    #L'informazione_di_Blackout #agroalimentare #braccianti #caporalato #emergenza_freddo #lavoro #piemonte #razzismo #sfruttamento
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/12/alba.mp3

  • A Latina Satnam Singh è stato ucciso dal sistema di sfruttamento
    https://www.meltingpot.org/2024/06/a-latina-satnam-singh-e-stato-ucciso-dal-sistema-di-sfruttamento

    Il bracciante indiano buttato sul ciglio della sua abitazione da un “padrone” italiano insieme al braccio che gli era stato amputato da un macchinario agricolo è il simbolo tragico di un fenomeno capillare nel territorio laziale e in tutta la penisola. A poco più di 70 km dalla capitale, il sistema di sfruttamento bracciantile nell’Agro Pontino ha mostrato ancora una volta il suo volto più crudele. Satnam Singh, bracciante indiano, è morto lo scorso 19 giugno all’ospedale San Camillo di Roma, dove era ricoverato dopo aver perso un arto mentre lavorava in un’azienda agricola tra Borgo Santa Maria e Borgo

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  • Braccianti bambini trattati come schiavi nelle campagne di Latina

    Giovanissimi migranti sfruttati da clan mafiosi e padroncini fascisti. La denuncia di un lavoratore italiano: «Agenti e politici locali in una delle aziende già conosciute alle forze dell’ordine»

    «Nella mia esperienza l’unica legge vigente in alcune aziende dell’#Agro_Pontino è quella del padrone, che decide tutto a partire da chi deve lavorare, quante ore di lavoro deve fare e quanto dobbiamo essere pagati. Se qualcuno si lamenta non ti richiama più, oppure ti insulta o minaccia in modo brutale. L’ho visto personalmente minacciare braccianti del Bangladesh e indiani con fucili e pistole per farli tacere dopo tre mesi di lavoro svolto senza stipendio». A parlare è un bracciante italiano di origine calabrese che da poche settimane ha lasciato la provincia di Latina perché stanco di umiliazioni e violenze. Ha lavorato infatti sotto padrone nelle campagne dell’Agro Pontino da quando aveva 16 anni. Le sue mani sembrano quelle di un anziano bracciante di ottant’anni. Ne ha invece solo quarantadue.

    Mostra delle foto fatte di nascosto col suo cellulare mentre lavora sotto le serre con la schiena piegata accanto a quella di altri suoi compagni immigrati. E con le foto anche alcuni eloquenti vocali. Dichiara e dimostra, ora che è al sicuro in un paese vicino Milano, qualcosa di inaspettato anche per chi si occupa di studiare e denunciare lo sfruttamento dei braccianti italiani e immigrati della provincia di Latina da vent’anni. «Ancora in queste settimane, soprattutto il venerdì, il sabato e la domenica, arrivano anche minori a lavorare come schiavi. Sono ragazzi provenienti dal Bangladesh e dall’India. Hanno 14 anni, altre volte 15. Qualcuno arriva al massimo a 17. Non parlano italiano se non pochissime parole che il caporale indiano, su mandato di sedicenti capi della comunità indiana o bangladese, fa imparare loro per eseguire correttamente gli ordini del padrone italiano. Devono soprattutto capire quando arriva l’ordine di scappare perché si teme l’arrivo dei Carabinieri o di qualche controllo specifico».

    Sono giovanissimi immigrati che anziché frequentare corsi di formazione e di lingua, le scuole italiane come i loro coetanei o pensare a vivere in modo sereno la loro adolescenza, sono impiegati senza contratto anche per dieci o dodici ore al giorno nella raccolta delle carote, delle cipolle o dei ravanelli che garantiscono profitti illeciti a padroni e criminali italiani e immigrati e a un sistema agromafioso che, ricorda l’Eurispes, fattura ogni anno circa 24,5 miliardi di euro.

    «Il padrone li recluta parlando coi caporali o con il capo indiano della comunità per pagarli appena 4 euro l’ora. Parliamo di 40 euro al giorno per svolgere un lavoro faticoso e pericoloso. Devono infatti camminare in ginocchio per raccogliere gli ortaggi, usare coltelli affilati per tagliare cespi di insalata o i famosi cavolirapa per il mercato tedesco, e sollevare cassette molto pesanti dopo averle riempite completamente. Le loro pause, come anche le mie, sono al massimo di quaranta minuti per tutta la giornata. I dolori alla schiena, anche a quell’età, o alle ginocchia, sono molto forti e qualcuno di loro per evitare di sentire la fatica prende, come anche molti altri immigrati sfruttati, pasticche o oppio che alcuni hanno dentro i loro zaini». Si tratta di un fenomeno già denunciato nel 2014 da “In Migrazione”, riscontrato peraltro anche in molti processi in corso presso il Tribunale di Latina.

    «Sono minori che vivono in famiglie i cui genitori fanno anche loro i braccianti. Se sommi lo stipendio di padre, madre e figlio minore, tutti sfruttati nelle campagne pontine in aziende molto note, si raggiunge a malapena il salario previsto per il lavoro di un singolo bracciante con regolare contratto. Insomma, ne fai lavorare tre al prezzo di uno, minore compreso. Quando ho provato a dire al padrone che doveva trattarci bene e darci quello che ci doveva, mi ha insultato. Mi ha chiamato calabrese di merda. Una volta mi ha anche preso a calci e a schiaffi, dicendomi che potevo rivolgermi tranquillamente ai sindacati o ai giornalisti, tanto non ha paura di nessuno». Il padrone in questione, peraltro, «è noto alle forze dell’ordine, ma sembra fregarsene. Forse è protetto o si sente protetto, anche perché in azienda, soprattutto nel fine settimana, arrivavano alcuni agenti e politici locali. Si ritrovava anche con alcuni imprenditori agricoli di successo che dicevano fossero molto vicini alla camorra. Si prendevano tutti sotto braccio e pranzavano insieme, mentre io, insieme a quei ragazzi che potevano avere l’età di mio figlio, lavoravamo per loro quasi gratuitamente. E quando qualcuno di noi ha cercato di ribellarsi è finito in ospedale con la testa rotta. Il caporale infatti lo ha preso a bastonate fino a lasciarlo in terra sporco di sangue mentre il padrone faceva sparire il bastone per evitare guai».

    Non solo pratiche però, anche il linguaggio del padrone è importante. E infatti «amava farsi chiamare Mussolini, tanto che aveva fatto montare in azienda busti e adesivi inneggianti al fascismo. Quando pagava i salari, spesso in contanti, ricordava ai braccianti immigrati, minori compresi, che in Italia ci vorrebbe Mussolini o Hitler per sistemare le cose. E poi li insultava definendoli degli indiani idioti, che in Italia devono obbedire agli ordini degli italiani e ringraziare per il lavoro che lui gli garantiva. Era un fascista amico».

    Questo è probabilmente uno di quegli imprenditori che secondo il presidente del Consiglio Giorgia Meloni non deve essere disturbato, come lei stessa ha dichiarato agli industriali durante un’iniziativa pubblica. Peraltro anticipando quanto affermato di fatto anche dal neo direttore generale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro il giorno del suo insediamento. Non disturbare il manovratore, dunque, anche quando sfrutta lavoratori, ambiente e minori. È la solita dottrina di una destra che è forte con gli sfruttati, italiani e immigrati, donne e uomini, e invece attenta a non disturbare i forti, soprattutto quando sono padroni e fascisti che portano voti e consenso.

    https://ilmanifesto.it/braccianti-bambini-trattati-come-schiavi-nelle-campagne-di-latina
    #exploitation #enfants #enfance #mineurs #braccianti #Italie #Latina #agriculture #néo-esclavage #Bangladesh #Inde #migrations #caporalato

  • #Caporalato in #Friuli_Venezia_Giulia : #Gorizia è solo la punta dell’iceberg

    A fine febbraio una telefonata anonima ha fatto scoprire 30 braccianti rumeni, tra cui due minori, segregati in case fatiscenti, obbligati a lavorare per pochi euro, minacciati e picchiati. Per la Flai Cgil «il caporalato sta dove c’è ricchezza: in Friuli è rappresentata dai vigneti»

    A fine febbraio tre persone sono state arrestate a Gorizia per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera in agricoltura. Le accuse nei loro confronti sono aggravate dalle minacce, dal numero dei lavoratori coinvolti e dalla minore età di due di loro.

    Il nuovo caso di caporalato è emerso grazie a una segnalazione anonima. La guardia di finanza e la procura hanno così scoperto una trentina di persone segregate in case fatiscenti e in precarie condizioni igienico-sanitarie, costrette a lavorare come braccianti agricoli per pochi euro al giorno, minacciate e picchiate se tentavano di ribellarsi. Lavoratori e caporali sono di origine rumena.

    «Che il caporalato fosse diffuso in regione lo sapevamo già, almeno dal dicembre 2021, quando sono stati scoperti alcuni casi a Pordenone. Adesso tutti si meravigliano, ma quello che è accaduto a Gorizia è l’ennesima dimostrazione che il caporalato, come la mafia, sta dove c’è ricchezza. E la grande ricchezza a cielo aperto del Friuli, come del Veneto, sono i vigneti che da tempo hanno sostituito le vecchie coltivazioni», dice a Osservatorio Diritti Alessandro Zanotto, coordinatore regionale Flai Cgil Friuli.

    Caporalato in Italia: il fenomeno va da Sud a Nord

    Il caporalato è sempre più radicato anche al Nord. Sono 405 le aree interessate dal fenomeno lungo tutta la Penisola, di queste solo 194 si trovano al Sud.

    Le altre sono divise tra Nord e Centro. Tra le regioni del Nord, Veneto e Lombardia sono quelle più coinvolte con 44 e 21 aree individuate. Due quelle monitorate in Friuli-Venezia Giulia, a Pordenone. A cui ora si aggiunge Gorizia (dati Osservatorio Placido Rizzotto Flai Cgil).

    «L’operazione della Procura e della Guardia di finanza a Gorizia è la prova che nessuna regione, nessuna coordinata geografica è immune allo sfruttamento. Un menù tossico fatto di condizioni di lavoro umilianti e contesti di vita ripugnanti», spiega a Osservatorio Diritti Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil.

    Differenze non ce ne sono rispetto ai casi scoperti al Sud: spesso i lavoratori sono di origine straniera (nei casi scoperti a Pordenone erano pachistani, a Gorizia rumeni), i salari sono bassissimi, contratti non ce ne sono e neppure diritti.

    Anche se al Nord può capitare che ci si avvalga di società di somministrazione di manodopera o di consulenti del lavoro locali, «che danno una parvenza di legalità, ma che in realtà sono apparati schiavistici. A Gorizia poi erano coinvolti anche due minorenni e i lavoratori erano tutti di origine rumena, quindi cittadini europei. Una vicenda che smentisce la retorica sul permesso di soggiorno», afferma Bilongo.

    Caporalato in Friuli Venezia Giulia

    I casi scoperti in Friuli-Venezia Giulia, in particolare nel territorio di Pordenone (su cui il VI Rapporto Agromafie e Caporalato della Flai Cgil ha acceso i riflettori), sono «solo la punta dell’iceberg in un territorio che si vanta di avere come pilastro della propria società la rettitudine, ma che il caporalato riesce a scalfire ugualmente. E lo stesso numero di vertenze aperte sul territorio è paradigmatico dell’ampiezza del fenomeno», dice Bilongo.

    Anche Zanotto parla di punta dell’iceberg quando racconta dei casi scoperti in regione, in particolare a Pordenone: «In quel caso erano coinvolti lavoratori pachistani, rinchiusi in case in campagna o in centro, alcuni senza permesso di soggiorno. Anche il caporale era pachistano. Ma le vere menti sono locali. È ipocrita chi dice di non sapere e di non vedere: noi li vediamo, questi ragazzi e ragazze, lavorare nei vigneti alle potature, a novembre e dicembre, tutti i giorni, anche i sabati e le domeniche, dalla mattina presto alla sera tardi. Ragazzi e ragazze che arrivano attraverso la rotta dei Balcani e che vengono sfruttati nelle nostre campagne».

    La legge contro il caporalato esiste, ma va applicata

    Ma come si combatte il caporalato? Per Bilongo la risposta è semplice: applicando la normativa di cui l’Italia si è dotata.

    «La legge 199 del 2016 sul caporalato prevede un impianto repressivo, ma anche di prevenzione. E se i dati sui contenziosi non accennano ad arretrare nonostante le forze a contrasto insufficienti, la prevenzione, purtroppo, non decolla», dice il sindacalista.

    Bilongo, in particolare, fa riferimento alla Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo autonomo istituito dalle legge 116/2014 che punta ad arginare il caporalato in agricoltura attraverso la creazione di una lista di imprese virtuose.

    La legge sul caporalato del 2016 ha potenziato la Rete, prevedendo l’istituzione di sezioni territoriali in ogni provincia. Ma a fine 2021, le sezioni attivate sono solo 21. E le aziende iscritte alla Rete sono 5.978 su un potenziale di 250 mila (dati Osservatorio Placido Rizzotto – Quaderno n. 1 Geografia del caporalato).

    Qual è il motivo di numeri così bassi? «Il caporalato è una via facile per avere manodopera da discount ed è ormai una modalità consolidata. Eppure la soluzione è lì perché se un’azienda non ha niente da rimproverarsi può iscriversi alla rete ed essere certificata come sana. Dobbiamo rivendicare la necessità di fare prevenzione attraverso la Rete», afferma Bilongo.

    In Friuli-Venezia Giulia ci stanno provando, ma, come precisa Zanotto, «spesso le controparti partecipano agli incontri ma poi finisce lì. Eppure ciò che vediamo noi dovrebbero vederlo anche loro e rendersi conto che chi utilizza questa forma di manodopera rappresenta una concorrenza sleale per le aziende in regola».
    Sindacato di strada: ecco come si combatte il caporalato oggi

    Nei luoghi di lavoro, in quelli di aggregazione o di preghiera, nelle piazze dove avvengono gli ingaggi giornalieri, la Flai Cgil da alcuni anni ha scelto di reinventarsi come sindacato di strada per poter incontrare i lavoratori, distribuire materiale informativo e contratti in diverse lingue, segnalare i servizi del territorio, sostenere chi vuole denunciare.

    «A Pordenone è stato grazie al lavoro del sindacato di strada che abbiamo scoperto quello che stava e sta accadendo», dice Zanotto.

    Con il camper dei diritti – presente in Campania, Sardegna, Puglia, Piemonte, Basilicata, Calabria, Sicilia, Veneto – sono stati avvicinati molti lavoratori che, per paura o problemi di natura logistica, non riuscivano a entrare in contatto con il sindacato.

    «I braccianti agricoli lavorano dall’alba al tramonto e quando rientrano il sindacato è chiuso. Abbiamo rovesciato il paradigma andando loro incontro per intercettare bisogni, farci carico delle criticità, infondere consapevolezza. Questo significa recarsi di notte nei luoghi da cui partono per andare nei campi, o la domenica nei mercati o in moschea. È un lavoro costoso ma efficace. Nel 2018 a Latina quasi 5 mila braccianti indiani sono scesi in piazza. Il coraggio per farlo è il frutto del lavoro del sindacato di strada che, per anni, ha presidiato quella zona», conclude Bilongo.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2023/04/03/caporalato-friuli-venezia-giulia
    #Italie #exploitation #main_d'oeuvre #travail #agriculture #braccianti #migrations #vignobles #migrants_roumains #Pordenone #loi #legge_199 #industrie_agro-alimentaire

    • Exploitation, vulnérabilité et résistance : le cas des #ouvriers_agricoles indiens dans l’Agro Pontino

      De nombreuses représentations trompeuses continuent à peser sur l’exploitation des ouvriers agricoles étrangers en Italie, rendant difficile la compréhension du phénomène et l’intervention sur ses causes réelles. Cet article tente de questionner les principaux lieux communs sur le sujet, en analysant un cas particulièrement éclairant : celui de la communauté #Pendjabi de #religion_sikh employée sur l’Agro Pontino, dans le Latium. Cette étude de cas permet, d’une part, de faire ressortir les conditions d’exploitation systémiques, masquées derrière des mécanismes apparemment légaux ; de l’autre, il révèle que même les individus les plus vulnérables peuvent résister à l’exploitation et revendiquer activement leurs droits.

      https://www.cairn.info/revue-confluences-mediterranee-2019-4-page-45.htm

    • #In_migrazione

      In Migrazione è una Società Cooperativa Sociale nata nel 2015 dalla volontà di persone impegnate nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia.

      Diversi percorsi professionali e umani che hanno attraversato un ampio spaccato di esperienze diverse e che con In Migrazione si sono uniti per dare vita ad un soggetto collettivo, innovativo, aperto e trasparente.

      Una Cooperativa nata per sperimentare nuovi progetti di qualità e innovative metodologie al fine di interpretare e concretizzare percorsi d’aiuto efficaci verso i migranti che vivono nel nostro Paese situazioni di disagio e difficoltà. Esperienze concrete che sappiano diventare buone pratiche riproducibili, per contribuire a migliorare quel sistema di accoglienza e inclusione sociale degli stranieri.

      Le nostre ricerche e le concrete sperimentazioni progettuali mettono al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni.

      Mettiamo a disposizione queste esperienze e le nostre metodologie alle altre associazioni, cooperative, Enti pubblici e privati, professionisti e volontari del settore, convinti che nel sociale non possano e non debbano esistere copyright.

      https://www.inmigrazione.it

    • Progetto “Dignità-Joban Singh”, contro la schiavitù dei braccianti

      Una serie di sportelli di accoglienza, ascolto e sostegno, ma anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Un progetto per dare voce alle vittime di lavoro schiavo, in memoria del giovane di origini indiane, morto suicida il 6 giugno 2020 a Sabaudia

      Si chiama Dignità-Joban Singh ed è il progetto in corso organizzato dall’associazione Tempi Moderni contro le varie forme di schiavismo e sfruttamento che mortificano e riducono in schiavitù migliaia di persone, immigrati e italiani, indiani e africani, uomini e donne, in questa Italia fondata sul lavoro ma anche su una persistente presenza di razzisti, violenti, mafiosi e di sfruttatori che mortificano la democrazia ed esprimono chiaramente la loro natura predatoria.

      Joban Singh, di appena 25 anni e residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, il 6 giugno scorso è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.

      Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi.

      In questa Italia ci sono, secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%.

      Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. È questo un sistema che produce lo schiavismo contemporaneo, come più volte il “Rapporto Italia”, ancora dell’Eurispes, ha messo in luce.

      Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità.

      Si registrano dunque casi più numerosi, ancora secondo l’Eurispes, nell’agricoltura e pastorizia, a danno di polacchi, bulgari, rumeni, originari dell’ex U.R.S.S., africani e, in misura crescente, pakistani e indiani; nell’edilizia, a danno di europei dell’Est; nel settore tessile e manifatturiero, a danno di cinesi; nel lavoro domestico (soprattutto come badanti), a danno di soggetti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’ex U.R.S.S., dall’Asia e dall’America del Sud.

      Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno.

      In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza.

      Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela.

      Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione.

      Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.

      Un progetto che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei neoschiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un futuro diverso, migliore.

      https://www.nigrizia.it/notizia/progetto-dignita-joban-singh-contro-la-schiavitu-dei-braccianti

    • Marco Omizzolo

      Marco Omizzolo is a sociologist, researcher and journalist, who has been documenting and denoucing human rights violations against Sikh migrant workers exploited in the fields in the province of Latina (central Italy). In a context where “agrimafia” is rampant and many farms are controlled by criminal organisations, migrants have to work for up to 13 hours a day in inhumane conditions and under the orders of “caporali” (gangmasters), they earn well below the minimum wage and they have to live in cramped accommodation. To document their situation, Marco has worked undercover in the fields and he also went to Punjab (India) to follow an Indian human trafficker, where he investigated the connections between human trafficking and the system of agrimafia. Marco is also one of the founders of InMigrazione, an organisation that supports migrant workers informing them about their rights, helping them organise and fight for labour rights, and giving them the legal support they might need. In 2016, Marco and some Sikh activists managed to organise the first mass strike in Latina, joined by over 4000 workers.

      Because of his work - and particularly because of his investigations denouncing the criminal organisations involved in the agribusiness and the local food industry - Marco Omizzolo has been receiving serious threats. His car has been repeatedly damaged, he is often under surveillance and he has been forced to relocate because of the threats received.

      https://www.frontlinedefenders.org/en/profile/marco-omizzolo

    • The Indian migrants lured into forced labor on Mussolini’s farmland

      Gurinder Dhillon still remembers the day he realized he had been tricked. It was 2009, and he had just taken out a $16,000 loan to start a new life. Originally from Punjab, India, Dhillon had met an agent in his home village who promised him the world.

      “He sold me this dream,” Dhillon, 45, said. A new life in Europe. Good money — enough to send back to his family in India. Clothes, a house, plenty of work. He’d work on a farm, picking fruits and vegetables, in a place called the Pontine Marshes, a vast area of farmland in the Lazio region, south of Rome, Italy.

      He took out a sizable loan from the Indian agents, who in return organized his visa, ticket and travel to Italy. The real cost of this is around $2,000 — the agents were making an enormous profit.

      “The thing is, when I got here, the whole situation changed. They played me,” Dhillon said. “They brought me here like a slave.”

      On his first day out in the fields, Dhillon climbed into a trailer with about 60 other people and was then dropped off in his assigned hoop house. That day, he was on the detail for zucchini, tomatoes and eggplant. It was June, and under the plastic, it was infernally hot. It felt like at least 100 degrees, Dhillon remembers. He sweated so much that his socks were soaked. He had to wring them out halfway through the day and then put them back on — there was no time to change his clothes. As they worked, an Italian boss yelled at them constantly to work faster and pick more.

      Within a few hours of that first shift, it dawned on Dhillon that he had been duped. “I didn’t think I had been tricked — I knew I had,” he said. This wasn’t the life or the work he had been promised.

      What he got instead was 3.40 euros (about $3.65) an hour, for a workday of up to 14 hours. The workers weren’t allowed bathroom breaks.

      On these wages, he couldn’t see how he would ever repay the enormous loan he had taken out. He was working alongside some other men, also from India, who had been there for years. ”Will it be like this forever?” he asked them. “Yes,” they said. “It will be like this forever.”

      Ninety years ago, a very different harvest was taking place. Benito Mussolini was celebrating the first successful wheat harvest of the Pontine Marshes. It was a new tradition for the area, which for millennia had been nothing but a vast, brackish, barely-inhabited swamp.

      No one managed to tame it — until Mussolini came to power and launched his “Battle for Grain.” The fascist leader had a dream for the area: It would provide food and sustenance for the whole country.

      Determined to make the country self-sufficient as a food producer, Mussolini spoke of “freeing Italy from the slavery of foreign bread” and promoted the virtues of rural land workers. At the center of his policy was a plan to transform wild, uncultivated areas into farmland. He created a national project to drain Italy’s swamps. And the boggy, mosquito-infested Pontine Marshes were his highest priority.

      His regime shipped in thousands of workers from all over Italy to drain the waterlogged land by building a massive system of pumps and canals. Billions of gallons of water were dredged from the marshes, transforming them into fertile farmland.

      The project bore real fruit in 1933. Thousands of black-shirted Fascists gathered to hear a brawny-armed, suntanned Mussolini mark the first wheat harvest of the Pontine Marshes.

      "The Italian people will have the necessary bread to live,” Il Duce told the crowd, declaring how Italy would never again be reliant on other countries for food. “Comrade farmers, the harvest begins.”

      The Pontine Marshes are still one of the most productive areas of Italy, an agricultural powerhouse with miles of plastic-covered hoop houses, growing fruit and vegetables by the ton. They are also home to herds of buffalo that make Italy’s famous buffalo mozzarella. The area provides food not just for Italy but for Europe and beyond. Jars of artichokes packed in oil, cans of Italian plum tomatoes and plump, ripe kiwi fruits often come from this part of the world. But Mussolini’s “comrade farmers” harvesting the land’s bounty are long gone. Tending the fields today are an estimated 30,000 agricultural workers like Dhillon, most hailing from Punjab, India. For many of them — and by U.N. standards — the working conditions are akin to slave labor.

      When Urmila Bhoola, the U.N. special rapporteur on contemporary slavery, visited the area, she found that many working conditions in Italy’s agricultural sector amounted to forced labor due to the amount of hours people work, the low salaries and the gangmasters, or “caporali,” who control them.

      The workers here are at the mercy of the caporali, who are the intermediaries between the farm workers and the owners. Some workers are brought here with residency and permits, while others are brought fully off the books. Regardless, they report making as little as 3-4 euros an hour. Sometimes, though, they’re barely paid at all. When Samrath, 34, arrived in Italy, he was not paid for three months of work on the farms. His boss claimed his pay had gone entirely into taxes — but when he checked with the government office, he found his taxes hadn’t been paid either.

      Samrath is not the worker’s real name. Some names in this story have been changed to protect the subjects’ safety.

      “I worked for him for all these months, and he didn’t pay me. Nothing. I worked for free for at least three months,” Samrath told me. “I felt so ashamed and sad. I cried so much.” He could hardly bring himself to tell his family at home what had happened.

      I met Samrath and several other workers on a Sunday on the marshes. For the Indian Sikh workers from Punjab, this is usually the only day off for the week. They all gather at the temple, where they pray together and share a meal of pakoras, vegetable curry and rice. The women sit on one side, the men on the other. It’s been a long working week — for the men, out in the fields or tending the buffaloes, while the women mostly work in the enormous packing centers, boxing up fruits and vegetables to be sent out all over Europe.

      Another worker, Ramneet, told me how he waited for his monthly check — usually around 1,300 euros (about $1,280) per month, for six days’ work a week at 12-14 hours per day. But when the check came, the number on it was just 125 euros (about $250).

      “We were just in shock,” Ramneet said. “We panicked — our monthly rent here is 600 euros.” His boss claimed, again, that the money had gone to taxes. It meant he had worked almost for free the entire month. Other workers explained to me that even when they did have papers, they could risk being pushed out of the system and becoming undocumented if their bosses refused to issue them payslips.

      Ramneet described how Italian workers on the farms are treated differently from Indian workers. Italian workers, he said, get to take an hour for lunch. Indian workers are called back after just 20 minutes — despite having their pay cut for their lunch hour.

      “When Meloni gives her speeches, she talks about getting more for the Italians,” Ramneet’s wife Ishleen said, referring to Italy’s new prime minister and her motto, “Italy and Italians first.” “She doesn’t care about us, even though we’re paying taxes. When we’re working, we can’t even take a five-minute pause, while the Italian workers can take an hour.”

      Today, Italy is entering a new era — or, some people argue, returning to an old one. In September, Italians voted in a new prime minister, Giorgia Meloni. As well as being the country’s first-ever female prime minister, she is also Italy’s most far-right leader since Mussolini. Her supporters — and even some leaders of her party, Brothers of Italy — show a distinct reverence for Mussolini’s National Fascist Party.

      In the first weeks of Meloni’s premiership, thousands of Mussolini admirers made a pilgrimage to Il Duce’s birthplace of Predappio to pay homage to the fascist leader, making the Roman salute and hailing Meloni as a leader who might resurrect the days of fascism. In Latina, the largest city in the marshes, locals interviewed by national newspapers talked of being excited about Meloni’s victory — filled with hopes that she might be true to her word and bring the area back to its glory days in the time of Benito Mussolini. One of Meloni’s undersecretaries has run a campaign calling for a park in Latina to return to its original name: Mussolini Park.

      During her campaign, a video emerged of Meloni discussing Mussolini as a 19-year-old activist. “I think Mussolini was a good politician. Everything he did, he did for Italy,” she told journalists. Meloni has since worked to distance herself from such associations with fascism. In December, she visited Rome’s Jewish ghetto as a way of acknowledging Mussolini’s crimes against humanity. “The racial laws were a disgrace,” she told the crowd.

      A century on from Italy’s fascist takeover, Meloni’s victory has led to a moment of widespread collective reckoning, as a national conversation takes place about how Mussolini should be remembered and whether Meloni’s premiership means Italy is reconnecting with its fascist past.

      Unlike in Germany, which tore down — and outlawed — symbols of Nazi terror, reminders of Mussolini’s rule remain all over Italy. There was no moment of national reckoning after the war ended and Mussolini was executed. Hundreds of fascist monuments and statues dot the country. Slogans left over from the dictatorship can be seen on post offices, municipal buildings and street signs. Collectively, when Italians discuss Mussolini, they do remember his legacy of terror — his alliance with Adolf Hitler, anti-Semitic race laws and the thousands of Italian Jews he sent to the death camps. But across the generations, Italians also talk about other legacies of his regime — they talk of the infrastructure and architecture built during the period and of how he drained the Pontine Marshes and rid them of malaria, making the land into an agricultural haven.

      Today in the Pontine Marshes, which some see as a place brought into existence by Il Duce — and where the slogans on one town tower praise “the land that Mussolini redeemed from deadly sterility” — the past is bristling with the present.

      “The legend that has come back to haunt this town, again and again, is that it’s a fascist city. Of course, it was created in the fascist era, but here we’re not fascists — we’re dismissed as fascists and politically sidelined as a result,” Emilio Andreoli, an author who was born in Latina and has written books about the city’s history, said. Politicians used to target the area as a key campaigning territory, he said, but it has since fallen off most leaders’ agendas. And indeed, in some ways, Latina is a place that feels forgotten. Although it remains a top agricultural producer, other kinds of industry and infrastructure have faltered. Factories that once bustled here lie empty. New, faster roads and railways that were promised to the city by previous governments never materialized.

      Meloni did visit Latina on her campaign trail and gave speeches about reinvigorating the area with its old strength. “This is a land where you can breathe patriotism. Where you breathe the fundamental and traditional values that we continue to defend — despite being considered politically incorrect,” she told the crowd.

      But the people working this land are entirely absent from Meloni’s rhetorical vision. Marco Omizzolo, a professor of sociology at the University of Sapienza in Rome, has for years studied and engaged with the largely Sikh community of laborers from India who work on the marshes.

      Omizzolo explained to me how agricultural production in Italy has systematically relied on the exploitation of migrant workers for decades.

      “Many people are in this,” he told me, when we met for coffee in Rome. “The owners of companies who employ the workers. The people who run the laborers’ daily work. Local and national politicians. Several mafia clans.”

      “Exploitation in the agricultural sector has been going on for centuries in Italy,” Giulia Tranchina, a researcher at Human Rights Watch focusing on migration, said. She described that the Italian peasantry was always exploited but that the system was further entrenched with the arrival of migrant workers. “The system has always treated migrants as manpower — as laborers to exploit, and never as persons carrying equal rights as Italian workers.” From where she’s sitting, Italy’s immigration laws appear to have been designed to leave migrants “dependent on the whims and the wills of their abusive employers,” Tranchina said.

      The system of bringing the workers to Italy — and keeping them there — begins in Punjab, India. Omizzolo described how a group of traffickers recruits prospective workers with promises of lucrative work abroad and often helps to arrange high-interest loans like the one that Gurinder took out. Omizzolo estimates that about a fifth of the Indian workers in the Pontine Marshes come via irregular routes, with some arriving from Libya, while many others are smuggled into Italy from Serbia across land and sea, aided by traffickers. Their situation is more perilous than those who arrived with visas and work permits, as they’re forced to work under the table without contracts, benefits or employment rights.

      Omizzolo knows it all firsthand. A Latina native, he grew up playing football by the vegetable and fruit fields and watching as migrant workers, first from North Africa, then from India, came to the area to work the land. He began studying the forces at play as a sociologist during his doctorate and even traveled undercover to Punjab to understand how workers are picked up and trafficked to Italy.

      As a scholar and advocate for stronger labor protections, he has drawn considerable attention to the exploitative systems that dominate the area. In 2016, he worked alongside Sikh laborers to organize a mass strike in Latina, in which 4,000 people participated. All this has made Omizzolo a target of local mafia forces, Indian traffickers and corrupt farm bosses. He has been surveilled and chased in the street and has had his car tires slashed. Death threats are nothing unusual. These days, he does not travel to Latina without police protection.

      The entire system could become even further entrenched — and more dangerous for anyone speaking out about it — under Meloni’s administration. The prime minister has an aggressively anti-migrant agenda, promising to stop people arriving on Italy’s shores in small boats. Her government has sent out a new fleet of patrol boats to the Libyan Coast Guard to try to block the crossings, while making it harder for NGOs to carry out rescue operations.

      At the end of February, at least 86 migrants drowned off the coast of Calabria in a shipwreck. When Meloni visited Calabria a few weeks later, she did not go to the beach where the migrants’ bodies were found or to the funeral home that took care of their remains. Instead, she announced a new policy: scrapping special protection residency permits for migrants.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      The idealistic image of the harvest was powerful propaganda at the time. Not shown were the workers, brought in from all over the country, who died of malaria while digging the trenches and canals to drain the marsh. It also stands in contrast to today’s reality. Workers are brought here from the other side of the world, on false pretenses, and find themselves trapped in a system with no escape from the brutal work schedule and the resulting physical and mental health risks. In October, a 24-year-old Punjabi farm worker in the town of Sabaudia killed himself. It’s not the first time a worker has died by suicide — depression and opioid addiction are common among the workforce.

      “We are all guilty, without exception. We have decided to lose this battle for democracy. Dear Jaspreet, forgive us. Or perhaps, better, haunt our consciences forever,” Omizzolo wrote on his Facebook page.

      Talwinder, 28, arrived on the marsh last year. “I had no hopes in India. I had no dreams, I had nothing. It is difficult here — in India, it was difficult in a different way. But at least [in India] I was working for myself.” His busiest months of the year are coming up — he’ll work without a day off. And although the mosquitoes no longer carry malaria, they still plague the workers. “They’re fatter than the ones in India,” he laughs. “I heard it’s because this place used to be a jungle.”

      Mussolini’s vision for the marsh was to turn it into an agricultural center for the whole of Italy, giving work to thousands of Italians and building up a strong working peasantry. Today, vegetables, olives and cheeses from the area are shipped to the United States and sold in upmarket stores to shoppers seeking authentic, artisan foods from the heart of the old world. But it comes at an enormous price to those who produce it. And under Meloni’s premiership, they only expect that cost to rise.

      “These days, if my family ask me if they should come here, like my nephew or relatives, I tell them no,” said Samrath. “Don’t come here. Stay where you are.”

      https://www.codastory.com/rewriting-history/indian-migrants-italy-pontine-marshes

  • Nella città delle piattaforme

    Sullo sfondo del lavoro precario del #delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme

    Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.

    Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”

    Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.

    L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.

    Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.

    Come esclude la città

    Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.

    In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.

    Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.
    Un posto «dal quale partire e tornare»

    Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.

    Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.

    Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.

    I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».

    La mozione del consiglio comunale

    Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.

    La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.

    Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.

    https://irpimedia.irpi.eu/nella-citta-delle-piattaforme

    #ubérisation #uber #géographie_urbaine #urbanisme #villes #urban_matters #espace_public #plateformes_numériques #Milan #travail #caporalato #uber_eats #riders #algorithme #colonisation_urbaine #espace_urbain #Glovo #Deliveroo #cloud_kitchen #Kuiri #dark_store #magazzini_urbani #JustEat #starting_point

  • Le nocciole turche (e chi le raccoglie) ostaggio del mercato

    La Turchia primo produttore globale. Ieri il presidente Erdogan ha annunciato il prezzo base per il 2022. Produttori e sindacati denunciano i guasti del monopolio Ferrero.

    La Turchia è il numero uno a livello mondiale nella produzione della nocciola. Seguita in seconda posizione dall’Italia. Ma nel 2021, mentre in Italia la produzione calava del 70%, in Turchia si registrava un aumento radicale. Una crescita che tuttavia non si è tradotta in un equo e proporzionale guadagno per i produttori. Nel 2015 la Turchia ha prodotto 240.134 tonnellate di nocciola e dalla vendita ha incassato circa 3 miliardi di dollari; nel 2021 la produzione è salita a 344.370 tonnellate, eppure l’incasso è sceso a 2.2 miliardi. Secondo le analisi di mercato, le inchieste giornalistiche e i report dei sindacati la situazione è il risultato del monopolio che l’azienda italiana Ferrero ha costruito negli anni in Turchia, in collaborazione con il governo centrale.

    ALI EKBER YILDIRIM, che scrive sul portale di notizie Dunya, sostiene che questa situazione è dovuta al fatto che a stabilire il prezzo della nocciola è la stessa Ferrero, che controlla circa il 70% del mercato nazionale. Ovviamente il fatto che dal 2003, gradualmente, lo Stato abbia deciso di non comprare più dai contadini le nocciole a prezzo garantito – è la prima volta che accade dalla fondazione della Repubblica – limitandosi a stabilire un prezzo minimo, ha permesso all’acquirente principale di arrivare a controllare il mercato più velocemente e a dettare le sue regole.

    «L’approccio che utilizza Ferrero nell’interfacciarsi con i produttori è quello di creare dei contratti stagionali, ovvero Ferrero scrive sul contratto il prezzo e le condizioni d’acquisto, ma qualora qualcosa non andasse come previsto, sarebbe facilmente il produttore a uscirne penalizzato». A parlare della situazione è Seyit Aslan, segretario generale del più grande sindacato del comparto alimentare, Gida-Is. «In questo settore – prosegue – i fattori naturali generano la quantità e la qualità del prodotto. Per esempio se parliamo del nord della Turchia, si tratta di una zona soggetta a vari fenomeni climatici estremi, quindi alla fine del raccolto il produttore si trova spesso a dover gestire notevoli perdite economiche».

    «NEL 2021 – PROSEGUE ASLAN – la nostra delegazione sindacale insieme ad alcuni membri del ministero del Lavoro ha fatto un grosso lavoro di monitoraggio sul campo. Le condizioni di lavoro sono estremamente precarie, i lavoratori prima di tutto sono stagionali e senza contratto, le loro condizioni abitative consistono semplicemente in tende, senza una lavanderia e nemmeno un servizio igienico. Ci sono parecchi lavoratori minorenni che nel periodo di impiego non seguono il ciclo scolastico. Ovviamente nelle zone di produzione non esiste nessun tipo di controllo».

    Il leader sindacale sottolinea il fatto che lungo la costa del Mar Nero per raccogliere le nocciole arrivano tanti lavoratori dal sud-est del paese. Sono spesso cittadini poveri e curdi che subiscono in questo periodo di lavoro numerosi atti di discriminazione. Secondo Aslan ciò che si vede nei media turchi è una piccolissima parte di quello che devono affrontare questi lavoratori, che per via di un’opportunità lavorativa di breve durata non si sentono di denunciare gli abusi. Nella raccolta delle nocciole in Turchia è dominante il sistema del caporalato, denuncia Aslan. Inoltre le persone qui sono obbligate a produrre o le nocciole o il tè, perché nella regione ormai impera il sistema della monocoltura.

    «IL SISTEMA CONTRATTUALE che ha deciso di adottare Ferrero, senza nessun tipo di intervento dello Stato, in questi ultimi due anni possiamo dire che è diventato un elemento estremamente penalizzante – aggiunge Aslan – considerando la profonda crisi economica. Per esempio i fertilizzanti, il costo del lavoratore e le tasse sono molto più alte rispetto agli anni precedenti. Dunque è evidente che la Ferrero abbia costruito un monopolio nel settore in Turchia adottando dei meccanismi dannosi».

    Da quando è entrata nel mercato turco, l’azienda italiana ha comprato diversi piccoli attori del settore, alcuni dal passato discutibile, e anche questo l’ha aiutata a diventare il numero uno del settore. Nel 2018 il partito politico Mhp e successivamente nel 2021 il Chp hanno chiesto al Comitato antitrust di aprire un’indagine perché avevano registrato «comportamenti e scelte mafiose» da parte della Ferrero.

    IERI IL PRESIDENTE ERDOGAN nella città di Ordu ha comunicato il prezzo d’acquisto della nocciola, visto il periodo della raccolta: 54 lire turche al chilo (2,95 euro). Secondo Aslan e secondo i produttori con la crisi economica profonda e con queste condizioni di lavoro estremamente precarie la cifra dovrebbe essere al di sopra della soglia delle 80 lire (4,35 euro).

    Questa è la condizione in cui si trova il produttore numero uno delle nocciole, grazie a un governo che crea le basi dello sfruttamento. Pian piano la produzione agricola viene distrutta e la dignità umana calpestata.

    https://ilmanifesto.it/le-nocciole-turche-e-chi-le-raccoglie-ostaggio-del-mercato

    #Turquie #noisettes #Ferrero #multinationales #globalisation #mondialisation #industrie_agro-alimentaire #Nutella #prix #monopole #conditions_de_travail #travail #caporalato #monoculture #agriculture

  • "L’estate di qualche anno dopo la chiamaro «L’estate delle lamiere» per via di un bracciante del Sud morto assassinato proprio mentre cercava di recuperarne alcune, di lamiere, e costruirsi qualcosa che assomigliasse a una casa. #Soumaila_Sacko, si chiamava. Ora a lui e a tutti gli altri hanno dedicato in nomi di vie, piazze o parchetti fatiscenti; i caduti di una guerra assurda e incredibile"

    in : Espérance H. Ripanti, “Lamiere”, in Igiaba Scego (a cura di), Future, il domani narrato dalle voci di oggi , effequ, 2019, p.200.

    #toponymie #toponymie_politique #migrations #caporalato #toponymie_migrante

    –-> ceci dit, j’ai pas trouvé sur la toile des rues dédiées à cette personne, ouvrier agricole assassiné en Italie :
    https://www.etui.org/fr/themes/sante-et-securite-conditions-de-travail/hesamag/cancer-et-travail-sortir-de-l-invisibilite/soumalia-sacko-visage-d-une-autre-europe

  • OutCross (#Black_Mediterranean)

    OutCross (Black Mediterranean) is wall-installation that provides a mapping of the main elements of the so-called gangmaster system of exploitation within the agricultural supply chain. By providing a backdrop for the video Radio Ghetto Relay, it places this system and the testimonies of the tomato harvesters broadcasted on Radio Ghetto Voci Libere, within a context of European neo-imperialism.


    https://www.alessandraferrini.info/copy-of-outcross
    #exploitation #tomates #agriculture #installation #art_et_politique #néo-impérialisme #Alessandra_Ferrini

    ping @postcolonial @cede


  • Exploités, battus, drogués : le calvaire des ouvriers agricoles étrangers en Italie
    https://www.letemps.ch/economie/exploites-battus-drogues-calvaire-ouvriers-agricoles-etrangers-italie

    Selon l’ONU, 400 000 travailleurs agricoles étaient exposés à l’exploitation en 2018 alors que 100 000 d’entre eux vivaient dans des conditions inhumaines. Le mois dernier, un jeune Malien est mort après une journée au travail au champ par des températures dépassant les 40°

    Pendant six longues années, Balbir Singh a touché une paye misérable, vécu dans une épave de caravane et s’est nourri des déchets alimentaires qu’il volait aux porcs ou que jetait son patron, un agriculteur italien. L’histoire de ce ressortissant indien est particulièrement sordide mais, comme lui, ils sont des dizaines de milliers d’ouvriers agricoles à connaître des conditions de vie et de travail proches de l’esclavage.


    « Je travaillais 12-13 heures par jour, y compris le dimanche, sans vacances, sans repos. Et il (le propriétaire de la ferme) me payait 100, 150 euros », par mois, raconte Balbir Singh à l’AFP. Le salaire minimum des employés agricoles en Italie est d’environ 10 euros l’heure.

    Appel à l’aide lancée sur Facebook
    L’homme a été libéré dans la région de Latina, au sud de Rome, le 17 mars 2017 après avoir lancé un appel au secours sur Facebook et Whatsapp à des responsables de la communauté indienne locale et à un militant italien des droits humains. Les policiers l’ont trouvé dans une caravane, sans gaz, ni eau chaude, ni électricité. Il mangeait les restes que son employeur jetait aux ordures ou donnait aux poulets et aux cochons.

    « Quand j’ai trouvé un avocat disposé à m’aider, (l’agriculteur) m’a dit « je vais te tuer, je creuserai un trou, je te jetterai dedans et je le refermerai ». Il avait une arme, je l’ai vue », se souvient-il. Il était parfois battu et ses papiers d’identité lui avaient été confisqués. Son ancien employeur est maintenant jugé pour exploitation. Singh, lui, vit dans un lieu tenu secret, par peur de représailles.

    Sous la coupe de « caporali »
    Le rapporteur spécial des Nations unies sur les formes contemporaines d’esclavage estimait en 2018 que plus de 400 000 ouvriers agricoles en Italie étaient exposés à l’exploitation et que près de 100 000 vivaient dans des « conditions inhumaines ». Le mois dernier, un Malien de 27 ans est mort dans les Pouilles (sud-est) après une journée de travail aux champs par des températures dépassant 40°C.

    Dans la région d’Agro Pontino, tapissée d’entreprises maraîchères et floricoles, réputée pour sa mozzarella produite à base de lait de buffle, les Indiens sont présents depuis les années 1980. Le sociologue Marco Omizzolo, le militant des droits humains qui a contribué à affranchir Balbir Singh, estime entre 25 000 et 30 000 le nombre d’Indiens vivant aujourd’hui dans la région, en majorité des Sikhs du Pendjab.

    Ils vivent sous la coupe de « caporali », des intermédiaires sans scrupules qui recrutent de la main d’oeuvre servile pour le compte des propriétaires. En général, les ouvriers se voient offrir un contrat mais ils ne reçoivent qu’une fraction de ce qui leur est dû. « Tu peux travailler 28 jours, ils n’en consignent que quatre sur ton bulletin de salaire, donc à la fin du mois tu reçois 200, 300 euros », explique Marco Omizzolo à l’AFP.

    Le salaire doublé à 5 euros l’heure
    La réalité est encore plus sombre : une récente enquête de police a mis en évidence la consommation à grande échelle d’opiacés parmi les Indiens. Un médecin arrêté dans la station balnéaire de Sabaudia est soupçonné d’avoir prescrit à 222 ouvriers agricoles indiens plus de 1500 boîtes de Depalgos, un traitement normalement réservé aux patients souffrant d’un cancer. « Le médicament est censé les aider à travailler plus longtemps aux champs en soulageant la douleur et la fatigue », précise à l’AFP le procureur en chef de Latina, Giuseppe De Falco.

    Le Parlement s’est saisi du fléau de l’exploitation des travailleurs agricoles. Une loi anti-« caporali » de 2016 a par exemple permis de poursuivre l’employeur de Singh. Mais pour les syndicats, les contrôles de l’inspection du travail sont encore trop rares. Le sociologue Marco Omizzolo, qui travaille avec le groupe de réflexion Eurispes, a passé des années à enquêter sur les abus dans la filière agroalimentaire dans la région de Latina. Il a vécu pendant trois mois à Bella Farnia, un village majoritairement occupé par des Indiens, travaillant incognito dans les champs.

    Lui aussi vit désormais sous protection policière, après avoir été la cible de menaces de mort. En 2019, il a été fait chevalier de l’ordre du Mérite par le président Sergio Mattarella, en reconnaissance de son « travail courageux ». Trois ans plus tôt, il a contribué, avec le syndicat Flai Cgil, à l’organisation de la toute première grève des travailleurs indiens d’Agro Pontino. Depuis, leur salaire est passé de 2,5-3 euros à 5 euros l’heure. La moitié du minimum légal.

    #italie #agriculture #travail #exploitation #tomates #caporalato #néo-esclavage #esclavage #esclavage_moderne #supermarchés #caporali #agroalimentaire #union_européenne

  • Je note pour pas l’oublier : mes amis qui ne plaisantent ni avec la cuisine napolitaine ni avec la qualité du café, me recommandent le bouquin : On va déguster l’Italie ; du panettone aux spaghetti al ragù de Scorsese ; tutta la cucina italiana, de François-Régis Gaudry et al.

    Il paraît que c’est vraiment très très bien, bourré d’informations que seuls les locaux de l’étape sont censés connaître, mais c’est déjà épuisé. Va falloir attendre une réimpression…

    Sinon, les mêmes amis sont passés cet été à Montpellier, et voyant qu’on mangeait des Barilla (d’ailleurs, sur leurs conseils d’il y a vingt ans), nous ont conseillé de passer à la marque Rummo. Et on confirme : c’est le jour et la nuit.

  • #Esperanto, inventare l’avvenire coltivando un terreno confiscato alla camorra

    In un terreno confiscato alle mafie nella provincia di #Caserta, la cooperativa Esperanto porta avanti un progetto di agricoltura sociale che favorisce l’inserimento lavorativo di vittime del caporalato e altre persone in situazioni di difficoltà che qui hanno trovato il posto giusto per inventare il proprio avvenire.

    Cosa accade quando una persona è sul proprio sentiero? Quando fa quello che ama e lo fa solamente per un suo ideale e senza chiedere un compenso per il tempo investito? Succede l’inaspettato, succede la meraviglia.

    Penso che non ci sia altro modo per iniziare quest’articolo e per presentare #Gennaro_Ferilli, 58 anni, originario di Pozzuoli (NA), per lavoro sociologo e dirigente di un centro per l’impiego per mestiere, per amore presidente di Altro mondo Flegreo e fondatore della Cooperativa Esperanto (https://www.italiachecambia.org/mappa/esperanto).

    Gennaro inizia sette anni fa a creare un progetto di economia sociale. Facendo parte, attivamente, di R.E.S (Reti di Economia Solidale) attua percorsi di “buone pratiche del consumo etico” coinvolgendo #GAS (#Gruppi_di Acquisto_Solidale) e mercati di contadini. Si affianca poi ai Missionari Comboniani di #Castel_Volturno (CE) per offrire un sostegno concreto ai migranti attraverso il progetto agroalimentare #Green_Hope, che consiste nella riqualificazione di un terreno dei Missionari di 3000 metri sul quale attivare borse lavoro, per offrire un’opportunità di riscatto alla terra e ai migranti prevalentemente africani.

    Parliamo di un territorio molto particolare e di difficile gestione. Castel Volturno, provincia di Caserta, ha subito modifiche enormi negli ultimi cinquant’anni e da piccolo paese di contadini è diventato un luogo pregno di illegalità. Qui vi è un numero elevatissimo di migranti che vivono in grave situazione di disagio, la camorra locale è stata affiancata dalla mafia nigeriana ed entrambe si occupano di tratta delle persone, gestione della prostituzione, caporalato, spaccio di droga, appalti e smaltimenti rifiuti.
    Le case sono per lo più abusive e la #Terra_dei_Fuochi ha dato il colpo finale ad una cittadina già martoriata.

    Dopo Green Hope, Gennaro, collaborando con U.E.P.E (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna), crea il secondo progetto per offrire lavoro ad ex detenuti in esecuzione alternativa e da qui, nasce l’idea di richiedere un terreno confiscato alla camorra. Con “#Effetto_Larsen-Aps”, altra cooperativa ad indirizzo sociale che lavorava già su terreni confiscati, fanno richiesta per avere anche loro un bene. Passano tre anni, prima di ricevere risposta affermativa. Corre l’anno 2018 quando nasce così la Cooperativa Esperanto.

    Il terreno confiscato è di circa 10 ettari nel Comune di #Cancello_ed_Arnone (CE) ed è intitolato alla memoria di #Michele_Landa, vittima innocente della camorra. I figli di Landa ancora chiedono risposte, ancora si domandano perché il padre, guardia giurata che il 6 settembre 2006 si trovava a svolgere il suo lavoro a Pescopagano (PZ) davanti ad un ripetitore telefonico, fu ucciso, poi bruciato nella sua macchina e non trovato prima di tre giorni. Si parlò di agguato della Camorra, la quale aveva scoperto il redditizio cavallo di ritorno delle apparecchiature telefoniche, ma ancora tutto è nell’ombra dell’omertà.

    Su questo terreno parte un progetto di Economia Solidale, “#La_Buona_Terra_Campania”, basato su una filiera Etica e partecipata. Esperanto e altre associazioni del luogo collaborano per combattere le #agromafie.

    Nel 2018/19 firmano il Patto con #DESBRI (#Distretto_dell’economia_solidale_della_Brianza) il quale fa parte della rete RES Lombardia, questo sancisce l’accordo dell’acquisto dei prodotti da parte del Nord, in quei territori così martoriati. Si parla in particolare della “Pummarola” e soprattutto si parla di trasparenza. Prezzi etici , prodotti biologici, garanzie partecipate, rilevazione dei costi di produzione, comunicazione trasparente e fiducia.
    Nel 2020 si aprono le porte ad altre reti: Bari, Pesaro, Bergamo, Varese e Milano attraverso i GAS locali, poi di seguito i circoli di #Libera_Terra in Piemonte.

    Durante gli anni, organizzano tour in tutta Italia per presentare la “#Buona_Terra_Campania” di cui “Esperanto” è il fulcro, fulcro di questa cooperazione territoriale in cui vi sono tre produttori agricoli e cinque trasformatori, ognuno dei quali in zona Campana. Testimonianza attiva del rafforzamento territoriale che questi progetti stanno creando.

    Con il tempo arrivano nuove idee, nuove culture. Nasce la coltivazione del grano “#Senatore_Cappelli” con la sua regale trasformazione in pasta 100% biologica, la quale viene venduta soprattutto nella rete di #Libera_Terra.
    Quest’anno lavorano con “#Co_Energia”, un’ Associazione nazionale di secondo livello, nata per avviare progetti di economia sociale, nella quale fluiscono varie cooperative impegnate in questo settore. Inoltre stanno avviando un nuovo progetto legato all’olio.

    “Esperanto” è composta da due lavoratori stagionali (un migrante e una persona del posto) e da tre soci volontari. Quando a Gennaro chiedo perché lo fa, la sua risposta è senza tentennamenti: «Credo nella sostenibilità ambientale e sociale, credo che praticare questo, migliori e soprattutto dia senso all’esistenza. Sono nato come un consumatore critico, questo mi gratificava ma non bastava. Volevo di più, volevo portare il mio contributo, volevo lottare con armi naturali in un territorio dalla difficile gestione. Volevo creare cooperazione, volevo che le persone si aiutassero, che diventassero solidali le une con le altre, volevo che l’individualismo fosse sostituito dal senso civico della collettività, volevo perseguire i miei ideali in questa realtà così contraddittoria dove la Mafia, la Camorra non ha problemi a farsi vedere e sentire, dove il recupero, il lavoro, l’integrazione e l’abbattimento delle barriere, possono essere l’unica chiave di lettura per il cambiamento».

    «L’agricoltura sociale – continua Gennaro – è un ambito del Welfare in forte sviluppo e io ho deciso di usarla come strumento di svolta. Oggi quando mi guardo intorno e indietro mi stupisco e meraviglio piacevolmente di quanto i miei sogni perseguiti con tenacia, siano diventati realtà. Sicuramente una realtà molto più grande di quello che potessi sperare».

    Gennaro ha da poco presentato un progetto per #Confagricoltura sugli orti sociali: «Se dovessi vincerlo realizzerei un altro sogno nel cassetto».
    Chiediamo a Gennaro se teme ritorsioni. «Alla camorra ancora non do fastidio, sono piccolo, ma non ho paura».

    https://www.italiachecambia.org/2020/11/esperanto-inventare-avvenire-coltivando-terreno-confiscato-camorra
    #coopérative #tomates #cooperativa_esperanto #alternative #coopérative_Esperanto #camorra #confiscation #mafia #Italie #agriculture #agriculture_sociale #caporalato #agromafia #travail

    –—

    Pour la petite histoire... c’est à cette coopérative qu’on a fait un achat groupé ici à Grenoble... Hier soir sont arrivés 2200 bouteilles de coulis de tomates !
     :-)
    Si d’autres personnes en France sont intéressées, je peux vous mettre en contact !
    Leur page FB :
    https://www.facebook.com/coopesperanto

  • Sicilia, ucciso per aver difeso i #braccianti dai caporali: la storia di Adnan

    #Adnan_Siddique, pakistano di 32 anni è stato ucciso la sera del 3 giugno scorso a #Caltanissetta, nella sua abitazione di via San Cataldo. La sua colpa? Quella di essersi fatto portavoce di alcuni braccianti vittime di caporalato. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, la vittima qualche mese fa aveva accompagnato un suo connazionale a sporgere denuncia, perché quest’ultimo non era stato pagato per il lavoro prestato e alla richiesta di chiarimenti sarebbe stato aggredito. Da allora aveva iniziato a ricevere minacce, tutte denunciate. Fino alla sera dell’omicidio. Adesso sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione tra datori di lavoro e connazionali, per procacciare manodopera nel settore agricolo. In cambio avrebbero trattenuto una percentuale sulla loro paga.

    Ieri è stata eseguita l’autopsia su cadavere dal medico legale. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri. Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, e Imrad Muhammad Cheema, 40 anni e il connazionale Muhammad Mehdi, 48 anni, arrestato per favoreggiamento. Restano in carcere i primi quattro, il quinto è stato rimesso in libertà con l’obbligo di firma. Secondo la ricostruzione dei carabinieri la vittima, che per lavoro si occupava di riparazione e manutenzione di macchine tessili, aveva presentato denuncia per minaccia nei confronti dei suoi carnefici. Intanto, dall’autopsia è emerso che la vittima è stata colpita con cinque coltellate in diverse parti del corpo: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. I carabinieri, poche ore dopo il delitto, hanno trovato anche il coltello, lungo 30 centimetri, utilizzato dai presunti assassini.

    Adnan Siddique era arrivato in Italia dal Pakistan cinque anni fa con la speranza di costruirsi un futuro. A Lahore, metropoli pakistana di oltre 11 milioni di abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta lavorava come manutentore di macchine tessili e si era fatto degli amici.

    “Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola. E con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro. In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano”, riporta l’Ansa. Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.

    https://www.tpi.it/cronaca/sicilila-ucciso-difeso-braccianti-caporali-20200608616384
    #caporalato #décès #meurtre #assassinat #agriculture #Italie #Sicile

  • #Coronavirus fears for Italy’s exploited African fruit pickers

    As panic buyers empty supermarket shelves across the world, are the agricultural workers who fill them being protected?

    As Italy’s north struggles to contain the spread of coronavirus, fears are growing in the south for thousands of migrant workers, mostly from Africa, who pick fruit and vegetables for a pittance and live in overcrowded tent camps and shantytowns.

    The health infrastructure in the south is not as advanced as that in the north, and a vast infection outbreak could be devastating.

    “Coronavirus cases have steadily increased also in other regions in Italy over the past weeks,” said public health expert Nino Cartabellotta. “There is a delay of around five days compared with the north, although we are witnessing the same growth curve across the country.”

    In the north, foreign farm workers hailing from Eastern Europe have returned to their home countries, choosing to risk poverty over disease, and there are no new arrivals.

    But fruit pickers in the south are stuck in camps, often lacking water and electricity and facing exploitation.

    Italy is not alone.

    Migrant workers are exploited across the European Union, forced to work endless hours and denied minimum wage or safety equipment, research by the EU Agency for Fundamental Rights shows.

    Now, the coronavirus pandemic endangers them further.

    In 2016, Coldiretti, a farmers’ group, estimated that there were around 120,000 migrant workers in Italy, mostly from Africa and Eastern Europe.

    Some 2,500 African crop pickers work in Calabria’s Gioia Tauro plain, a farming hot spot in the south known for tangerines, oranges, olives and kiwis and for being an infamous mafia stronghold.

    Agricultural employers often work by the “caporalato”, an illegal employment system in which labourers are exploited for little pay.

    Two weeks ago, the region had no known coronavirus cases. Today, there are at least 169.

    Last summer, the largest shantytown in the plain was shut down. Italian civil defence built a new camp with running water and electricity a few metres away from the old informal settlement, but equipped it with just 500 beds.

    This tent camp was eventually sanitised on Sunday, after repeated calls from humanitarian associations and the town’s mayor.

    Although hygiene conditions are better than in the nearby slums, strongly advised social distancing measures are almost impossible to implement.

    After the old shantytown was evacuated, its residents were not provided alternative housing, save for a small tent camp, forcing many to look for new improvised shelters somewhere else.

    In the neighbouring towns of Taurianova and Rizziconi, two overcrowded slums hosting 200 people each have emerged. Migrants live in shacks built from cardboard, wood, plastic and scrap metal.

    Potable water and electricity are nowhere to be found. Workers build makeshift toilets or simply relieve themselves in the fields.

    “This requires an immediate intervention from the authorities to put these people in a condition of safety and dignity,” Francesco Piobbichi, who works with Mediterranean Hope FCEI, a project run by Italy’s Evangelical Church Federation, told Al Jazeera. "These workers are key to fill supermarkets’ shelves with fresh fruits and vegetables. We cannot deny them protection amid the emergency.

    “Our protracted attempt of dismantling the slums now needs a drastic acceleration. We are telling the civil defence, the government and regional councils they need to provide these workers with a housing solution as soon as possible to avoid the spread of the infection.”

    There are some 35,000 empty houses in the agricultural plain. Aid agencies say that instead of investing in more camps, workers should be allowed to use these homes.

    Hand sanitiser has been distributed at settlements, said Andrea Tripodi, mayor of San Ferdinando, adding he also managed to secure gloves and finalised the purchase of cameras with a thermal scanning system to quickly identify people with a fever - one of the coronavirus symptoms.

    “We certainly need more measures and other devices amid this health emergency, also to prevent social tension from rising,” Tripodi said. “We are doing everything we can. We are also collecting soaps and shampoos to distribute among the workers. But we are left alone.”

    Aid groups, meanwhile, are busy raising awareness.

    “But it is really complex to explain to them that they need to wash their hands for about 25 seconds when they lack water in their settlements because the prefecture dismantled their camp’s illegal connection,” Piobbichi said, adding that the current nationwide lockdown restricts the movement of both aid workers and migrants.

    In the southern province of Foggia, 500 kilometres north of Gioia Tauro, thousands pick tomatoes, olives, asparagus, artichokes and grapes in the country’s largest agricultural plain.

    “The situation has become a race against the clock,” said Alessandro Verona, a health worker with the humanitarian group INTERSOS. “We are expecting a peak of the pandemic in Apulia towards the end of the month or beginning of the next.”

    Apulia has more than 200 infected patients. But like in Calabria, no infection has yet been confirmed among the migrant workers.

    “We are making blanket prevention activities across all settlements. We have reached around 500 people so far. Still, this is not enough.”

    In many of these settlements, water shortages are common and in emergencies people resort to farm water.

    “The only efficient prevention measure is to take these people out of the ghettos as soon as possible, especially from the most crowded ones. If not, we will face an unmanageable situation. But only the government and the institutions are capable of such a thing,” Verona said.

    In southern Campania, migrant workers are still gathering near large roundabouts of busy roads to meet their bosses. The region has now more than 650 infected patients.

    Jean d’Hainaut, cultural mediator with the anti-exploitation Dedalus cooperative, said among the people his association supports, many are waiting for their asylum requests to be completed - meaning they lack a residency permit and cannot access basic healthcare.

    Italy grants residency permits to migrant workers possessing contracts. But lengthy bureaucratic processes mean permits frequently arrive late, often towards their expiration. This process has been suspended amid the pandemic.

    In November 2018, Italy passed the so-called “migration and security decree” drafted by former Italian interior minister and far-right League party leader, Matteo Salvini - a move that pushed hundreds of vulnerable asylum seekers onto streets.

    The document cracked down on asylum rights by abolishing the “humanitarian protection” - a residence permit issued for those who do not qualify for refugee status or subsidiary protection but were deemed as vulnerable.

    “Over 90 percent of the people we meet at the roundabouts hail from Africa’s sub-Saharan countries. We are talking about a couple of hundred of workers, though numbers are difficult to pin down precisely,” d’Hainaut says.

    “We have been distributing a safety kit among workers for the past couple of years,” he says. “This has now turned to be very useful as it includes gloves, paper-made protective clothing and protective masks.”

    The agency has decided to remain on the street to keep offering its services to the migrant workers whose daily job means survival.

    “Last Thursday, I only saw around 20 people waiting for recruiters. The information campaign has been successful. Still, demand for workers has also decreased. I’ve asked the municipality to help distribute food,” d’ Hainaut.

    “This would further limit people’s presence on the street. I’d feel more reassured to tell workers to stay home while providing them with something to eat.”

    https://www.aljazeera.com/indepth/features/coronavirus-fears-italy-exploited-african-fruit-pickers-200318154351889.h
    #Italie #travail #exploitation #tomates #Campania #fruits #Gioia_Tauro #Calabre #Calabria #caporalato #Taurianova #Rizziconi #campement #baraccopoli #légumes #Pouilles #prévention

  • Mafia nei mercati ortofrutticoli. Sud Pontino epicentro della filiera criminale

    Le mafie hanno da tempo deciso di insediarsi e condizionare non solo i processi produttivi agricoli del Paese ma anche quelli commerciali. Per questa ragione quando riescono a mettere le mani sui grandi mercati ortofrutticoli del Paese o sul sistema della logistica, finiscono col condizionare l’intera filiera agricola italiana e internazionale, trasformandola in un pericoloso collettore di interessi criminali.
    Si tratta di un avanzamento importante e pericoloso della strategia delle agromafie italiane che non deve essere sottovalutata e che è annualmente analizzato dal dossier Agromafie di Eurispes. Proprio nell’ultima edizione è presente un focus specifico sulle mafie dei mercati ortofrutticoli e della logistica che è, peraltro, in perfetta coerenza con quanto, ai primi di agosto, ha rilevato la Dia di Catania con riferimento alla consorteria criminale che ha legato insieme alcune delle famiglie mafiose e camorristiche più importanti e pericolose d’Italia.
    La Dia di Catania, infatti, ha ufficialmente confiscato 10 milioni di euro a #Vincenzo_Enrico_Auguro_Ercolano, figlio di #Giuseppe_Ercolano, considerato da molti il reggente di un sodalizio criminale assai pericoloso tra la mafia siciliana e la camorra. «Le indagini – dichiara la Dia – hanno riguardato i vertici dei clan camorristici dei #Casalesi e dei #Mallardo di Giuliano (Napoli), alleati con le famiglie siciliane dei #Santapaola ed #Ercolano, operanti del territorio catanese con diramazioni anche all’estero». Un network criminale che stritola e soffoca lo stato di diritto, la legalità, i diritti di milioni di persone e di aziende e che ogni consumatore paga ogni volta che si reca a fare la spesa. Secondo ancora la Dia, la società intestata a Vincenzo Ercolano, la #Geotrans, avrebbe gestito il trasporto dell’ortofrutta con modalità tipicamente mafiose.
    Questa confisca, dunque, contribuisce a disarticolare la logistica mafiosa che operava nel territorio nazionale e che schiacciava la libertà degli imprenditori onesti locali, di aziende agricole e dei lavoratori. L’operazione della Dia contrasta anche la costituzione di un nuovo sodalizio criminale che rischia di articolare e consolidare un’organizzazione mafiosa nuova, capace di intrecciare competenze e metodi di intervento originali, non più in competizione tra i vari clan ma in coordinamento tra di loro, sino a dare vita ad un direttorio in cui le diverse organizzazioni concordano strategie e obiettivi. Una sorta di “Quinta Mafia” che esprime la pervasività di questa organizzazione criminale nel sistema economico ed istituzionale, sino a diventare avanguardia di un modello mafioso avanzato.
    Si tratta di una riflessione che emerge anche da alcune importanti inchieste giudiziarie, a partire da quelle denominate “#Sud_Pontino” del 2006 e “#Caronte” del 2014. Ancora una volta, grazie alla Dia, epicentro di questa filiera criminale è risultato il #Mercato_Ortofrutticolo_di_Fondi (#MOF), nel Sud Pontino. Una realtà più volte indagata dalla Magistratura che spesso è riuscita a dimostrare l’influenza su di esso delle varie mafie. Si pensi all’inchiesta “#Bilico”, oppure “#La_Paganese” o “#Aleppo”. Tutte prove di una collusione pericolosa tra un sistema nevralgico per l’agricoltura nazionale, quale il Mercato di Fondi e le mafie.
    Un settore, dunque, quello della logistica e dei mercati ortofrutticoli, che la sociologa Fanizza ha recentemente analizzato in una pubblicazione d’inchiesta sociologica molto avanzata (Caporalato. An authentic Agromafia. Mimesys International, 2019) e che, secondo gli studi di Eurispes, è ormai arrivato a contare 24,5 miliardi di euro l’anno. Un business che deve essere aggredito con sempre maggiore efficienza affinché quelle risorse tornino ai loro legittimi proprietari ossia i cittadini italiani onesti.

    https://www.leurispes.it/mafia-nei-mercati-ortofrutticoli-sud-pontino-epicentro-della-filiera-crimi

    #mafia #agriculture #Italie #marchés #logistique #commerce #agro-mafia #agromafia #industrie_agro-alimentaire
    ping @albertocampiphoto

    • #Caporalato. An Authentic Agromafia

      The essay investigates the effects produced by criminal networks involved in the production and harvest of agricultural products. Focused on the analysis of caporalato, it explores the enslavement of immigrant agricultural labourers and territorial segregation practices. Moreover, it deals with the topic of the agromafias’ role and discusses matters related to the deregulation of the agricultural market, as well as the general crisis of the agroindustries.
      Because caporalato has become a methodological instrument in the framework known as globalization of the farmlands, this essay tries to evaluate the complex relationship between the agromafias’ power and the operational conditions of Italy’s local economies. The authors then explore elements of the extremely pervasive criminal network, that determines productive trends of entire agricultural departments, with the intention of denouncing the dangerous socio-cultural drift that mafia-like criminal organizations are creating in Europe.

      http://mimesisinternational.com/caporalato-an-authentic-agromafia
      #livre

  • #Agromafie e #caporalato: 430 mila lavoratori a rischio sfruttamento

    L’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil fotografa la situazione nel suo quarto rapporto «Agromafie e caporalato». Un fenomeno che si estende dal Sud al Nord Italia. Tra giornate lavorative di 12 ore e pagate una manciata di euro

    https://www.flai.it/osservatoriopr
    #mafia #agriculture #exploitation #travail #Italie #agromafia

    Pour télécharger le #rapport (c’est la troisième édition):


    https://www.flai.it/osservatoriopr/ilrapporto
    –-> La principale attività dell’Osservatorio è la redazione del rapporto Agromafie e Caporalato, un rapporto biennale sull’infiltrazione delle mafie nella filiera agroalimentare e sulle condizioni di lavoro nel settore. Dopo la prima (2012) e la seconda (2014) edizione, a Maggio del 2016 è stato presentato il terzo rapporto Agromafie e Caporalato, ormai un lavoro di inchiesta e ricerca diventati in pochi anni un riferimento per chiunque voglia approfondire il tema delle Agromafie e delle condizioni di lavoro in agricoltura.

    • ‘Agromafia’ Exploits Hundreds of Thousands of Agricultural Workers in Italy

      In Italy, over 400,000 agricultural labourers risk being illegally employed by mafia-like organisations, and more than 132,000 work in extremely vulnerable conditions, enduring high occupational suffering, warns the fourth report on Agromafie and Caporalato.

      The report, released this July by the Italian trade union for farmers, Flai Cgil, and the research institute Osservatorio Placido Rizzotto, sheds light on a bitter reality that is defined by the report itself as “modern day slavery”. The criminal industry is estimated to generate almost five billion euros.

      “The phenomenon of ‘Caporalato’ is a cancer for the entire community,” Roberto Iovino from Osservatorio Placido Rizzotto, told IPS. “Legal and illegal activities often intertwine in the agro-food sector and it ultimately becomes very difficult to know who is operating in the law and who is not.”

      The criminal structure is called Caporalato or Agromafia when it touches a number of aspects of the agri-food chain. It is administered by ‘Caporali’, who decide on working hours and salaries of workers. The phenomenon is widespread across Italy. From Sicilian tomatoes, to the green salads from the province of Brescia, to the grape harvest used for producing the ‘Franciacorta’ sparkling wine in Lombardia, to the strawberries harvested in the region of Basilicata—many of these crops would have been harvested by illegally-employed workers, according to the report.

      Miserable salaries and excessive working hours

      The average wages of the exploited, warns the report, range between 20 and 30 euros per day, at an hourly rate of between three to four euros. Many reportedly work between eight to 14 hours per day, seven days a week. The majority of the collected testimonies show that many workers are paid less than their actual time worked and their salaries are 50 percent lower than the one outlined by the national contract for farmers.

      In some areas like Puglia or Campania in southern Italy, most salaries are paid on a piecework basis or per task.

      Some workers reported to Flai-Cgil that they were paid only one euro per hour and that they had to pay 1.5 euros for a small bottle of water, five euros for the transportation to reach the field and three euros for a sandwich at lunchtime each day. Day labourers are also required to pay between 100 to 200 euros for rent, often in abandoned, crumbling facilities or in remote and less-frequented hotels.

      The money was paid to the ‘Caporale’ or supervisor.

      According to the report, a ‘Caporale’ earns between 10 to 15 euros a day per labourer under their management, with each managing between 3,000 to 4,000 agricultural workers. It is estimated that their average monthly profit fluctuates between tens to hundreds of thousands of euros per month, depending on their position in the pyramid structure of the illegal business. It is alleged in the report that no tax is paid on the profits and this costs the state in lost income and also impacts on companies operating within the law.

      “Those people [‘Caporali’] are not naive at all,” one of the workers told the trade union’s researchers. “They know the laws, they find ways of counterfeiting work contracts and mechanisms to [circumvent] the National Social Security Institute.” The institute is the largest social security and welfare institute in Italy.

      “They have a certain criminal profile,” the worker explained.

      Migrant victims

      The ‘Caporali’ are not just Italians but Romanians, Bulgarians, Moroccans and Pakistanis, who manage their own criminal and recruiting organisations. The report warns that recruitment not only takes place in Italy but also in the home countries of migrants like Morocco or Pakistan.

      In 2017, out of one million labourers, 286,940 were migrants. It is also estimated that there are an additional 220,000 foreigners who are not registered.

      African migrants also reportedly receive a lower remuneration than that paid to workers of other nationalities.

      These victims of Agromafia live in a continuous state of vulnerability, unable to claim their rights. The report points out that some workers have had their documents confiscated by ‘Caporali’ for the ultimate purpose of trapping the labourers. It also highlights the testimonies of abuse, ranging from physical violence, rape and intimidation. One Afghan migrant who asked to be paid after months without receiving any pay, said that he had been beaten up because of his protests.

      The report also estimates that 5,000 Romanian women live in segregation in the Sicilian countryside, often with only their children. Because of their isolation many suffer sexual violence from farmers.

      Luana told Flai-Cgil of her abuse. “He offered to accompany my children to school, which was very far to reach on foot,” she said. “If I did not consent to this requests, he threatened not to accompany them any more and even to deny us drinking water.”

      “We have to put humanity first, and then profit”

      Many of the victims hesitate to report their exploiters because they are fearful of losing their jobs. A Ghanaian boy working in Tuscany told Flai-Cgil that Italians have explained to him how to lay a complaint, but he holds back because he still has to send money to his family.

      During the report release Susanna Camusso, secretary general of the country’s largest trade union, CGIL, said: “We must rebuild the culture of respect for people, including migrants. These are people who bend their backs to collect the food we eat and who move our economy.

      “We must help these people to overcome fear, explaining to them that there is not only the monetary aspect to work. A person could be exploited even if he holds a decent salary. We have to put humanity first, and then profit .”

      http://www.ipsnews.net/2018/07/agromafia-exploits-hundreds-thousands-agricultural-workers-italy

    • Is Italian Agriculture a “Pull Factor” for Irregular Migration—and, If So, Why?

      In discussions on irregular migration in Europe, undeclared work is generally viewed as a “pull factor”—positive aspects of a destination-country that attract an individual or group to leave their home—for both employers as well as prospective migrants, and especially in sectors such as agriculture. A closer examination of the agricultural model, however, reveals that structural forces are driving demand for work and incentivizing exploitation. This is particularly evident in Southern Italy, a region famous for its produce, where both civil society organizations and the media have documented exploitation of migrant workers. A closer examination of EU and member states efforts to avoid exploitation is needed.

      In Is Italian Agriculture a ‘Pull Factor’ for Irregular Migration—and, If So, Why?, a new study, authors from the Open Society Foundations’ European Policy Institute and the European University Institute look at how Europe’s Common Agricultural Policy, the practices of supermarket chains, organized crime, and gang-master recruitment practices contribute to migrant exploitation. The study further recommends a closer examination of EU member state efforts to counter exploitation and offers an overview of private sector practice’s intended to combat exploitation—such as the provision of information on workers’ rights, adequate housing and transport, and EU-wide labeling schemes, among others.

      https://www.opensocietyfoundations.org/reports/italian-agriculture-pull-factor-irregular-migration-and-if-s
      #rapport #pull-factor #facteur_pull

    • #Reggio_Calabria, pagavano i braccianti meno di un euro a ora per lavorare dall’alba al tramonto: cinque arresti

      Con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione e istigazione alla corruzione, i carabinieri hanno arrestato cinque persone a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria.


      https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/05/reggio-calabria-pagavano-i-braccianti-meno-di-euro-allora-per-lavorare-dallalba-al-tramonto-5-arresti/5015030

  • #The_harvest

    Gurwinder viene dal #Punjab, da anni lavora come bracciante delle serre dell’Agro Pontino. Da quando è arrivato in Italia, vive insieme al resto della comunità #sikh in provincia di Latina. Anche Hardeep è indiana, ma parla con accento romano, e si impegna come mediatrice culturale.
    Lei, nata e cresciuta in Italia, cerca il riscatto dai ricordi di una famiglia emigrata in un’altra epoca, lui è costretto, contro le norme del suo stesso credo, ad assumere metanfetamine e sostanze dopanti per reggere i pesanti ritmi di lavoro e mandare i soldi in India.

    La storia di Gurwinder è rappresentativa di un vasto universo di sfruttamento: un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare, senza pause, attraversa oggi l’Italia intera. Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole; chiamano padrone il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati, violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi tenta di reagire.
    The Harvest racconta tutto questo: la vita delle comunità Sikh stanziate stabilmente nella zona dell’Agro Pontino e il loro rapporto con il mondo del lavoro. I membri di queste comunità vengono principalmente impiegati come braccianti nell’agricoltura della zona. Gli episodi di sfruttamento (caporalato, cottimo, basso salario, violenza fisica e verbale) sono stati rilevati in numerosi casi, quasi sempre da associazioni che operano sul territorio locale. A fianco di questi fenomeni è inoltre cresciuto in maniera esponenziale l’uso di sostanze dopanti per sostenere i faticosi ritmi del lavoro nei campi. Sostanze che, nello specifico, si compongono di metanfetamine, oppiacei e antispastici.
    La questione dello sfruttamento del lavoro agricolo e in particolare della manodopera migrante diventa centrale ogni qualvolta si avvicina la stagione estiva, ricevendo attenzione dai media e portando alla ribalta questioni cruciali come quella del caporalato. Ciò nonostante questa attenzione è ciclica e il fenomeno passa in secondo piano con l’arrivo dell’autunno.
    The Harvest affronta la questione attraverso una lente innovativa che coniuga lo stile del documentario con quello del musical, utilizzato come espediente narrativo per raccontare la fatica del lavoro nei campi e l’utilizzo di sostanze. Attraverso una ricerca musicale e cinematografica il film vuole far emergere una determinata condizione che sarebbe altrimenti difficile da portare all’attenzione del pubblico senza toni retorici o didascalici. Trovare una forma artistica innovativa per narrare una realtà brutale, ma che tende a nascondersi nelle pieghe della quotidianità, è il nodo stilistico che il film affronta.

    Un docu-musical che, per la prima volta, unisce il linguaggio del documentario alle coreografie delle danze punjabi, raccontando l’umiliazione dei lavoratori sfruttati dai datori di lavoro e dai caporali. Due storie che si intrecciano nel corso di una giornata, dalle prime ore di luce in cui inizia il lavoro in campagna alla preghiera serale presso il tempio della comunità.
    Un duro lavoro di semina, fatto giorno dopo giorno, il cui meritato raccolto, tra permessi di soggiorno da rinnovare e buste paga fasulle, sembra essere ancora lontano.

    https://www.silenzioinsala.com/photos/4693/locandina4693.jpeg
    https://www.theharvest.it/il-film
    #film #caporalato #Italie #Inde #agriculture #exploitation #travail #film #documentaire

  • Caporalato e macellazione carne: cosa c’è dietro al cotechino di Natale

    In alcuni casi i salumi arriveranno sulle nostre tavole a Natale attraverso appalti illegali, contratti irregolari e giornate lavorative di 13 ore. Negli impianti di macellazione della carne si diffonde il nuovo caporalato. La denuncia arriva dalla Flai Cgil dell’Emilia Romagna


    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/12/18/caporalato-macellazione-carne
    #caporalato #travail #exploitation #Italie #industrie_de_la_viande #viande #alimentation

  • #Caporalato: ecco il vero costo dei vestiti

    «Presso le nostre sedi arrivano numerosissime testimonianze di veri e propri fenomeni di caporalato industriale che coinvolgono sia lavoratori del territorio, sia numerosi immigrati»: la Cgil Filctem denuncia le condizioni dei lavoratori nel settore della moda

    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/10/02/caporalato-vestiti-abbigliamento-moda
    #mode #Italie #industrie_textile #migrations #travail #exploitation #esclavage_moderne

  • Le catene della distribuzione - video d’inchiesta 2016

    Il trailer della video inchiesta di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello, finalista della quinta edizione del Premio Morrione. Tutor: Toni Capuozzo. Tema dell’inchiesta il rapporto tra la grande distribuzione organizzata e il sistema dell’agroalimentare.

    https://www.youtube.com/watch?v=ByRDdv2bptY

    #agriculture #Italie #caporalato #vidéo #agro-business #supermarchés #travail #exploitation #supermarché
    cc @albertocampiphoto —> come trovare il film/DVD? Non riesco a capire...

    • Migrants treated as modern slaves in Italian fields

      Many migrants are forced to work in Italian fields over the summer for as many as 12 hours a day for almost no pay. At night, they sleep in tents under unhygienic conditions and are even forced to go without food.


      http://www.infomigrants.net/en/post/4236/migrants-treated-as-modern-slaves-in-italian-fields

    • ’An employer? No, we have a master’: the Sikhs secretly exploited in Italy

      After years of arduous, badly paid work in the fields of southern Italy, Singh reported his employer to the police. But in a country where justice moves at a glacial pace, abused migrant workers have scant incentive to come forward

      https://www.theguardian.com/global-development/2017/dec/22/sikhs-secretly-exploited-in-italy-migrant-workers?CMP=twt_gu
      #sikh #inde #migrants_indiens #Pontina

    • Caporalato in agricoltura, Legacoop: «Finte cooperative per coprire lo sfruttamento»

      Il caporalato in agricoltura è una pratica criminale diffusa, emersa anche in Romagna. Qualche giorno fa il personale della Flai Cgil, attraverso la campagna «Ancora in campo», si è recato tra i filari in cerca di lavoratori sfruttati o irregolari. «L’utilizzo di finte cooperative e di società costituite allo scopo per offrire manodopera a basso costo con turni di lavoro massacranti, retribuzioni misere e la privazione dei diritti dei lavoratori, in gran parte stranieri sottoposti a vessazioni di ogni tipo, rappresentano le modalità con le quali si diffonde il fenomeno - spiegano da Legacoop Romagna - Di fronte a tutto ciò, torniamo a esprimere una totale condanna del fenomeno e un apprezzamento per le istituzioni e le organizzazioni d’impresa e sindacali che tentano di contrastarlo. La privazione dei diritti del lavoro e lo sfruttamento sono fomentati dalla profonda difficoltà economica in cui versano sempre più persone e dall’allentamento delle politiche di tutela dell’agricoltura, lasciata sempre più in balia di mercati volatili e una burocrazia soffocante».

      «Purtroppo vengono utilizzate anche false cooperative per coprire lo sfruttamento, cosa per noi doppiamente inaccettabile - commenta Stefano Patrizi, responsabile del settore agroalimentare di Legacoop Romagna - Si tratta di società registrate e spesso con sede legale fuori dall’Emilia-Romagna, in territori ben definiti. Ci aspettiamo che le Prefetture rafforzino ulteriormente la collaborazione con gli Enti Locali e le associazioni per contrastare il fenomeno: la filiera agricola di qualità italiana non può permettersi di venire macchiata dal mancato rispetto dei diritti fondamentali del lavoro. A tal proposito occorre anche accrescere le premialità, a partire dalla Politica Agricola Comune, per le imprese che dimostrano di saper rispettare adeguatamente il lavoro».

      http://www.ravennatoday.it/economia/caporalato-in-agricoltura-legacoop-finte-cooperative-per-coprire-lo-sfr

      #Emilie-Romagne #Romagne #coopérative

    • La morte dei braccianti riguarda tutti noi consumatori

      I due tragici incidenti sulle strade della Capitanata, in cui sono morti sedici lavoratori in tre giorni, riporta agli onori delle cronache il tema del lavoro in agricoltura e delle condizioni in cui si svolge, spesso demandato a eserciti di braccianti stranieri pagati a cottimo e in balia della piaga del caporalato.

      La raccolta del pomodoro – ma ancor di più quella dei finocchi, degli asparagi, dei broccoli – è affidata a questi lavoratori, che si muovono su furgoni scalcinati guidati da caporali o caposquadra lungo le strade del foggiano in cerca di un impiego a giornata.

      La legge contro il caporalato del 2016 ha avuto l’indubbio merito di portare la questione all’attenzione dell’opinione pubblica e di svolgere un’azione deterrente su quegli imprenditori agricoli che sfruttavano i braccianti. Ma è rimasta largamente inapplicata sulle azioni da intraprendere per arginare veramente il fenomeno. Se non si prevedono alloggi per i braccianti stagionali e trasporti verso i campi, se non si mette in piedi un approccio in cui la domanda e l’offerta di lavoro siano regolamentate, se non si riformano i centri per l’impiego del tutto non funzionanti, i lavoratori continueranno a vivere nei cosiddetti ghetti e a muoversi su furgoncini malridotti, insicuri e gestiti in parte dai caporali.

      Il caporalato è un effetto della mancata organizzazione, non una causa. È un meccanismo di intermediazione informale che prospera grazie all’assenza di un sistema di organizzazione del lavoro in agricoltura.

      C’è poi un altro tema che riguarda tutti noi nella nostra quotidianità: quello del cibo a basso costo. Il pomodoro raccolto a mano dai braccianti morti nei giorni scorsi finisce nelle passate che sono poi vendute a prezzi irrisori nei supermercati. Molte insegne della grande distribuzione organizzata (Gdo) operano un’azione di strozzamento e di riduzione dei prezzi che non può non ripercuotersi sugli anelli a monte della filiera.

      I contratti capestro, le aste online al doppio ribasso, i listing fee e le altre pratiche sleali della Gdo hanno effetti devastanti sugli operatori agricoli, che non riescono a far reddito e di conseguenza cercano di tagliare i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro.

      Rispondendo sul sito di settore Gdoweek alla nostra inchiesta sulle aste online del pomodoro, il gruppo Eurospin ha sostenuto che “il mercato è cattivo” e che loro devono fare l’interesse del consumatore.

      L’interesse del consumatore deve essere anche quello di sostenere attivamente una filiera agroalimentare sana, senza sfruttamento. In cui i diversi attori – i braccianti, gli operatori agricoli, gli industriali trasformatori – riescano tutti a vivere dignitosamente del proprio lavoro. Perché quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando.


      https://www.internazionale.it/opinione/stefano-liberti/2018/08/07/morte-braccianti-consumatori

      #sottocosto

    • #Eurospin, 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro comprate #sottocosto ! La denuncia di Terra! Onlus e Flai Cgil

      31,5 centesimi: è il prezzo che Eurospin avrebbe pagato per ciascuna delle 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro comprate durante un’asta online al doppio ribasso. Un prezzo insostenibile per la maggior parte dei produttori e trasformatori, diretta conseguenza di pratiche discutibili applicate da alcuni gruppi della grande distribuzione, che contribuiscono a mantenere i prezzi bassissimi e allo stesso tempo mandano in crisi il settore agricolo.

      A riaccendere i riflettori sul mondo delle aste è un comunicato congiunto dell’associazione Terra! Onlus e del sindacato Flai Cgil. Le aste al doppio ribasso della Grande distribuzione costringono i fornitori ad un gioco d’azzardo senza vincitori – dichiarano Fabio Ciconte, direttore di Terra! e Ivana Galli, Segretaria Generale della Flai Cgil – Si tratta di una pratica sleale che deve essere vietata per legge, perché impoverisce tutta la filiera agroalimentare”.

      Nelle aste al doppio ribasso il contratto di fornitura viene assegnato all’azienda che offre il prezzo più basso dopo due gare, e la base d’asta della seconda gara è il prezzo minore raggiunto durante la prima. Questo metodo spinge le aziende trasformatrici del pomodoro a vendere sottocosto il prodotto, quando ancora i pomodori non sono stati raccolti. Di fatto, sono i supermercati che, utilizzando lo strumento delle aste, stabiliscono i prezzi del pomodoro e altri generi alimentari quando ancora sono nei campi, minimizzando – o azzerando – i margini di agricoltori e trasformatori, e favorendo lo sfruttamento del lavoro nei campi e il caporalato.

      In Italia, quasi tre quarti degli acquisti alimentari sono effettuati in supermercati e discount, che schiacciano i guadagni dei fornitori con una serie di imposizioni, come sconti fuori contratto, promozioni e la richiesta di contributi per un migliore posizionamento sugli scaffali. Ma il più pericoloso resta il meccanismo dell’asta al doppio ribasso, che Terra! Onlus e Flai Cgil, insieme all’associazione daSud, avevano già denunciato con la campagna #ASTEnetevi, sottoscritta da Federdistribuzione, Conad e Mipaaf, ma non da Eurospin, che continua ad utilizzarlo. Ora si chiede il rispetto del patto sottoscritto e una definitiva messa fuori legge di queste gare.

      Eurospin ha risposto alle accuse dicendo che “In un mercato veloce, competitivo e fluido, che pianifica poco (al massimo a tre-cinque anni, e noi lo facciamo), le aste online possono anche mettere in difficoltà alcuni operatori, produttori o agricoltori, ma noi dobbiamo fare l’interesse del consumatore”. “Per questo usiamo questo approccio soprattutto per quei prodotti commodity che non hanno caratteri di innovazione e di distintività: perché c’è differenza tra i diversi pelati e noi ne teniamo conto. Le aste insomma funzionano per i prodotti base, non certo per articoli semilavorati con un loro valore aggiunto intrinseco e una qualità che i nostri clienti vogliono ritrovare sempre nei nostri punti di vendita. E questo ci porta a instaurare rapporti continuativi e duraturi con molti produttori partner. Sempre nel nome del consumatore”.

      Secondo gli autori della segnalazione si tratta di una risposta inaccettabile. Per questo hanno lanciato il tweetstorm ore 16 contro chi promuove “la spesa intelligente” sulla pelle degli agricoltori.


      https://ilfattoalimentare.it/eurospin-passata-pomodoro-sottocosto.html
      #tomates #coulis_de_tomates #enchères #prix #agriculture

      signalé par @wizo

    • Castrovillari, i caporali senza umanità: davano acqua inquinata alle “scimmie”

      “Domani mattina le scimmie le mandiamo lì. Restiamo 40 persone”. Sono alcune delle frasi intercettate dai finanzieri di Cosenza che questa mattina hanno eseguito sessanta misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta denominata “Demetra”, che ha individuato due gruppi dediti allo sfruttamento illecito della manodopera e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nella piana di Sibari.

      I “caporali”, appartenenti al primo sodalizio criminale, composto da 47 persone, gestivano i rapporti con le aziende. I braccianti percepivano 80 centesimi a cassetta di agrumi raccolte e tendenzialmente a questo tipo di lavoro erano destinati pakistani o uomini provenienti dall’Africa. Per la raccolta delle fragole venivano impiegate, invece, donne dell’est Europa che ottenevano come compenso 28 euro al giorno, ai quali venivano detratti i costi di trasporto e vitto, nonostante le condizioni di lavoro fossero comunque disumane.

      “Ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua. Nel canale, gliele riempiamo nel canale…”, dice una delle persone intercettate al telefono mentre chiede come dare da bere ai lavoratori impegnati nei campi. La soluzione viene subito trovata con qualche bottiglia vuota da riempire proprio nel canale. E l’acqua ovviamente tutto era tranne che potabile…

      http://www.iacchite.blog/castrovillari-i-caporali-senza-umanita-davano-acqua-inquinata-alle-scimmi

  • Rifiuti, prostituzione e caporali: l’inferno di Rosarno

    Viaggio nel #ghetto più grande d’Italia. Più di 2500 migranti ammassati nella baraccopoli della Piana di #Gioia_Tauro. Il rapporto dei Medici per i diritti umani (Medu) si chiama “#Terraingiusta” e racconta “le condizioni spaventose” in cui vivono gli ospiti della spianata in provincia di #Reggio_Calabria


    http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/12/news/rifiuti_droga_e_caporali_l_inferno_di_rosarno_viaggio_nel_ghetto_piu_gran
    #déchets #prostitution #caporalato #Rosarno #rapport #Italie #Calabre

    • Magdalena, che difende i braccianti dal caporalato

      #Magdalena_Jarczak è arrivata in Italia nel 2001, in cerca di lavoro. Ha passato mesi d’inferno nelle campagne pugliesi. Ma ha avuto il coraggio di ribellarsi ai caporali e oggi è diventata la paladina dei braccianti senza diritti


      http://www.donnamoderna.com/news/italia/braccianti-agricoli-caporalato-magdalena-jarczak

    • Red gold and blood money: the fight to end modern slavery in Italy’s agricultural sector

      For #Yvan_Sagnet, a Cameroonian migrant working in a tomato field in Puglia, Italy, the last straw came on a hot summer’s day in 2011. The harvest was in full swing. Teams of undocumented labourers were busy working at 42°C with no access to water or toilet facilities.


      https://www.equaltimes.org/red-gold-and-blood-money-the-fight?lang=en
      #tomate #Pouilles

    • Rosarno, otto anni dopo: nella baraccopoli degli immigrati, senza acqua corrente né elettricità

      Il #ghetto di #San_Ferdinando è rimasto lo stesso, uomini che vivono nel fango e in condizioni igieniche pessime in attesa di una giornata di lavoro a cottimo. Lì dove il 7 gennaio del 2010 era scoppiata una rivolta non è cambiato niente

      http://www.corriere.it/video-articoli/2017/12/28/rosarno-otto-anni-dopo-baraccopoli-immigrati-senza-acqua-corrente-ne-elettricita/e7b13272-ebe2-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98.shtml

    • “Bastonati e investiti dagli italiani”. Nell’inferno di Rosarno che attende Salvini

      Nelle baraccopoli 2.500 braccianti vivono in condizioni disumane. Emergency: “Almeno 30 colpiti volontariamente dagli automobilisti”

      http://www.lastampa.it/2018/03/17/italia/cronache/bastonati-e-investiti-dagli-italiani-nellinferno-di-rosarno-che-attende-salvini-XfsEbYNLD5vD2hPYq9aoKJ/pagina.html

    • Caporalato, i nuovi schiavisti minacciano #Marco_Omizzolo. Ma lui non si arrende

      Lui si chiama Marco Omizzolo, sociologo, giornalista, responsabile scientifico della associazione In Migrazione. Da anni studia, scrive e denuncia le infiltrazioni della camorra nell’agro-pontino, ricostruisce la catena del malaffare e della corruzione, ricostruisce e documenta la tragedia del caporalato e le nuove forme della schiavitù che segnano le esistenze di migliaia di esseri umani, a prescindere dal colore della pelle e da luogo di nascita.

      I nuovi schiavisti non fanno distinzione tra bianchi, gialli e neri, inseguono solo l’odore dei soldi. Marco Omizzolo, e con lui altri coraggiosi cronisti di quella terra, non ha solo scritto e descritto, ma è anche andato, accompagnato da un avvocato, e dai sindacalisti della Cgil, davanti ai caporali, e poi li ha denunciati e ha contribuito a mettere in moto indagini e inchieste che hanno infastidito chi ha bisogno del buio per realizzare profitti e affari che, spesso, si intrecciano con lo spaccio della droga e lo sfruttamento della prostituzione.


      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/18/caporalato-i-nuovi-schiavisti-minacciano-marco-omizzolo-ma-lui-non-si-arrende/4233199
      #résistance

    • A Rosarno, la tendopoli delle donne

      Becky Moses, giovane nigeriana, muore carbonizzata in un ennesimo incendio scoppiato nella tendopoli di San Ferdinando a Rosarno. Questa volta è una donna, non è una bracciante e non raccoglie arance. Finora il popolo della tendopoli innalzato alle cronache è maschio, bracciante impiegato nella raccolta degli agrumi.

      Le immagini che ci accompagnano dalla famosa rivolta del 2010 sono di centinaia di migranti uomini africani scesi in piazza, per le vie del paese, pieni di rabbia, per protestare contro le violenze fisiche subite, lo sfruttamento nei campi e la vita da bestie vissuta in casupole fatiscenti sparse nelle campagne della piana di Rosarno e Gioia Tauro. In seguito alla rivolta l’anno dopo viene allestita la prima tendopoli a San Ferdinando, lontano dal paese, nella zona industriale, fatta di capannoni vuoti e abbandonati realizzati con la legge 488, ma le cui attività produttive non sono mai partite.

      Rosarno è da tempo conosciuta come la tendopoli più grande di Italia. Nei periodi di raccolta delle arance, da ottobre a marzo, vi vivono circa 2.500 immigrati e tanti di loro oggi vi risiedono in modo permanente anche tutto l’anno. Da anni si ricercano soluzioni, si investono finanziamenti ma di fatto si moltiplicano solo campi mai del tutto attrezzati. Inconcepibilmente l’ultima tendopoli è stata costruita priva di spazi dove poter cucinare mentre era previsto un servizio di catering, scelta insensata se pensiamo che ad abitare questa tendopoli vi sono una ventina di etnie con culture sul cibo tra loro diversissime. Il cibo, come si sa, è uno degli elementi che permette di mantenere la propria identità. E le persone, nei loro processi migratori, hanno bisogno di poter continuare a prepararsi un pasto secondo le proprie usanze e culture, e molte volte questo contribuisce un po’ ad alleviare le sofferenze che le migrazioni portano con sé, a rimanere ancorati alle proprie identità e radici culturali.

      Nei giorni che hanno proceduto le festività dell’ultimo Natale, Blessing è arrivata nella nostra comunità dopo essere stata presa in una retata della polizia mescolata con maman e sfruttatori che costringevano lei e altre ragazze a prostituirsi in strada. Anch’essa passata dalla tendopoli di Rosarno e poi spostata in altri luoghi della Calabria. Blessing ha dormito per due giorni interi, come se il suo corpo e la sua mente avessero avuto bisogno di allontanare da sé mesi e mesi di violenze e soprusi. Al suo risveglio abbiamo preparato insieme la cena di Natale per tutti, lei il suo piatto nigeriano e io quello calabrese. Ore e ore in cucina e lentamente lievitava quel sapore della vita che nutre identità diverse e dignità uguali.

      Così a San Ferdinando i migranti della nuova tendopoli vanno a cucinare e mangiare nella vecchia tendopoli, dove pur vivendo condizioni di grande degrado, con tende e baracche costruite con legni e plastiche riciclate, preferiscono continuare a preparare con fornelli e bracieri improvvisati i pasti secondo le loro usanze. E come in tutti gli slum qui pullula la vita, tra docce e latrine a cielo aperto, cumuli di rifiuti e spazzatura, dormitori con materassi messi direttamente sulla terra battuta, spazi di vita che non conoscono intimità.

      La tendopoli è anche un luogo di mercato, dove crescono piccoli business, minime attività commerciali avviate tra chi vende carne, chi ripara biciclette, chi gestisce piccoli night, chi vende bevande. Però il cibo viene condiviso, e chi non ne ha viene qui a cercarlo. Si forma così una sorta di “cittadella” tra persone che non sempre parlano la stessa lingua, una cittadella dove si può nascere e si può anche morire. Ma è anche un luogo di violenze, soprusi e sfruttamenti dove il più forte prevarica sul più debole.

      Alla tendopoli non arrivano più soltanto braccianti per la stagione agrumicola, spesso arrivano migranti richiedenti asilo in fase di ricorso contro il diniego da parte delle Commissioni territoriali. L’incertezza sulla regolarità di soggiorno non tocca solo i richiedenti asilo in fase di ricorso ma pure i titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro e che in assenza di una forma contrattuale rischiano di non vedersi rinnovato il documento. Sono migranti che vivono condizioni di forte precarietà sia in termini abitativi che lavorativi. Vi è un ritorno in agricoltura anche di lavoratori stranieri che vivevano e lavoravano nel nostro Nord ma che con la crisi delle attività produttive hanno perduto il lavoro. Altri arrivano non sapendo in quale altro luogo andare, cercando un riparo, e trovando un sostegno tra i migranti dello stesso paese o continente. La tendopoli diventa così un luogo di mera sopravvivenza.

      Arrivata in Italia Becky era stata ospite in un progetto Sprar. Alcune settimane prima, però, si è vista rifiutare la richiesta di asilo politico e ha dovuto lasciare il progetto. In alcune realtà territoriali anche se hai fatto ricorso sei comunque costretta ad andar via. Ha cercato cosi, come altri, un appoggio presso i connazionali che vivono stabilmente nella tendopoli di San Ferdinando.

      La tendopoli per alcuni è un luogo di sosta, un momento di transito per proseguire altrove il viaggio, prima di spostarsi in altri territori come Castelvolturno, Foggia, Falerna, Sibari e adoperarsi nella raccolta agricola di altri prodotti stagionali come il pomodoro o la cipolla. Per le donne è un modo di cambiare il territorio dove prostituirsi, assecondando maman e sfruttatori che hanno bisogno continuamente di “nuova merce”. Per altri il viaggio termina qui, in questo luogo non luogo, e qui possono rimanere anche per anni.

      Negli ultimi due anni la tendopoli di San Ferdinando ha visto aumentare la presenza femminile. Prima le donne si contavano sulla punta delle dita, adesso ce ne sono circa un centinaio, quasi tutte giovanissime e per lo più nigeriane. Campavano nella parte dove è scoppiato l’incendio che ha ucciso Becky e gravemente ustionato due sue connazionali. In gran parte né le donne e né gli uomini nigeriani occupano la filiera di coloro che vanno a lavorare nei campi. Molti uomini sono dediti a imbastire le fila dei traffici di droga e dai proventi della prostituzione possono investire sempre più nello spaccio di cocaina. Le donne nella tendopoli sono, quasi tutte, costrette a prostituirsi sia dentro la tendopoli che nei pressi dei paesi vicini o in altre città calabresi raggiungibili in treno. E fanno quest’attività per 10 o 12 ore al giorno. Se devono raggiungere altre città partono la mattina per tornare la sera. Nelle stazioni da Lamezia Terme, Vibo Valentia, Gioia Tauro puoi incontrare in certe ore queste donne che regolarmente vanno e vengono in treno. In tendopoli i clienti sono gli uomini che la abitano, altrove i clienti sono italiani. I prezzi cambiano; per gli africani il costo è di 10 euro, per i vicini clienti italiani sono 20 euro; ma questi prezzi possono arrivare fino a 30-50 euro nei pressi delle città e secondo le prestazioni. Alcune di queste ragazze finiscono per risiedere nei paesi o nelle città.

      Tessy è originaria di Benin City (Nigeria), la città da cui proviene la maggior parte delle nigeriane. Dopo aver attraversato il Niger è giunta a Saba (Libia) dove è rimasta per 5 mesi chiusa in una casa, violentata e costretta con altre ragazze a prostituirsi, per poi essere imbarcata verso l’Italia. Approdata in Sicilia è stata trasferita in un centro di accoglienza del nord. Dopo alcuni giorni vi è stata prelevata da connazionali e trasferita a Foggia, dove una maman le porta i vestiti e le indica i luoghi in cui dovrà prostituirsi e le regole da osservare. Dopo qualche mese viene spostata a Rosarno nella tendopoli, che Tessy definisce una connection house, il nome col quale si indica un luogo di transito. Vi resta per un certo tempo prima di venire ritrasferita a Lamezia Terme, dove l’attende la maman con casa e programma di lavoro su strada. Per sette mesi è sottoposta ininterrottamente alla prostituzione fino a una retata notturna dei carabinieri, quando viene arrestata insieme ad altre sei ragazze oltre la baby maman, un brother e uno sfruttatore italiano. A seguito di vari colloqui con operatori antitratta, decide di denunciare i suoi sfruttatori e di entrare in un sistema di protezione per vittime di tratta.

      La responsabile del poliambulatorio di Emergency di Polistena che eroga prestazioni sociali e sanitarie a donne migranti presenti nella tendopoli racconta che alcune di esse arrivano al poliambulatorio accompagnate da connazionali. Forse tra loro vi sono anche maman, probabilmente sono quelle stesse a richiedere la visita e garantire il trasporto dalla tendopoli. È un servizio tra tanti altri che viene offerto per mantenere “in forma e salute” i loro “oggetti di produzione” (ovviamente a pagamento, aggiungendolo al debito già contratto nel paese di origine dove le ragazze vengono sottoposte a riti voodoo e mantenute sotto ricatto e altre forme di violenza, fisica e psicologica, fino a quando il debito contratto non verrà sanato. Solitamente il debito iniziale va dai 25 ai 30 mila euro). La funzione delle maman può essere duplice, a volte è lei a organizzare insieme ad altri connazionali il viaggio delle ragazze dalla Nigeria fino al luogo di destinazione dove essa stessa provvederà a far prostituire e a sfruttare le ragazze; altre volte sono considerate come baby maman e non sono altro che ragazze che sono state anch’esse vittime di tratta, a servizio dell’organizzazione che le sottopone a compiti di controllo per la consegna dei proventi della prostituzione al trafficante.

      La rendita garantita da una donna su strada è alta. Si stima che le organizzazioni criminali possano guadagnare, da una donna vittima di tratta immessa nel giro della prostituzione, un profitto fino a 150 mila euro in un anno. Svolgendo una ricerca in Calabria, abbiamo calcolato circa mille donne in strada da Rosarno a Gioia Tauro, da Lamezia Terme ad Amantea, dalla piana di Sibari al litorale jonico del Crotonese. Ovviamente i numeri non sono esaustivi della realtà. Basta un dato per capire la dimensione del fenomeno: 150 milioni di euro di guadagno all’anno, un grande business criminale sulla pelle di mille donne disperate.

      Glory racconta: sono arrivata a Rosarno che non sapevo parlare italiano e neppure lo comprendevo. Mi avevano istruita, ai clienti che mi fermavano su strada avrei dovuto mostrare due o tre dita in segno di 20 o 30 euro e dare tutti i soldi alla mia maman per iniziare a pagare il mio debito.

      Qualcuno la chiama “mafia nera” questa organizzazione criminale nigeriana che sta diventando simile alle mafie nostrane. Questa rete ha messo radici in buona parte dell’Europa ed è strutturata in confederazione di gruppi a volte divisi ma pronti a coalizzarsi. In Calabria si constata la presenza di due grandi organizzazioni, denominate “Black Axe” e “Eiye”. Oltre a essere violentissime, si caratterizzano per l’uso dei rituali magico-religiosi riferiti al voodo. Alcuni dicono che superano le modalità violente della ‘drangheta. Per l’affiliazione all’organizzazione utilizzano simboli che ricordano le nostre mafie, ci si entra per cooptazione e gli adepti devono dimostrare di saper agire con spietatezza e crudeltà. Nel mercato clandestino si occupano della bassa fascia della prostituzione, un settore in cui le nostre cosche criminali non intervengono da tempo. Fatti e indagini ci dicono però che stanno entrando sempre più negli affari di droga, grazie anche alle loro reti internazionali. Non dimentichiamo che il porto di Gioia Tauro, il più grande d’Italia e tra i più rilevanti di Europa e del Mediterraneo, è considerato la porta principale di entrata della droga nel nostro continente.

      A chi è utile la tendopoli di Rosarno? È una domanda a cui difficilmente potremmo rispondere se non con il rischio di darne letture circoscritte, punti di vista che ne ignorano altri. Nel corso degli anni i flussi dei finanziamenti arrivati per la tendopoli, non hanno cambiato nulla, il “modus operandi” è sempre lo stesso. Le strutture sono concepite come emergenziali e temporanee, la tendopoli è una misura “ponte” limitata nel tempo per offrire risposte a persone che non possono usufruire immediatamente di una abitazione, ma di fatto diventa permanente. E vi è anche il rischio che molti di questi soldi possano essere utilizzati da clan mafiosi attraverso ditte di costruzione e manutenzione a loro sottomesse, per il completamento dei diversi lavori. Rosarno è uno tra i vari comuni calabresi che è stato sciolto per mafia. Il lavoro nella piana di Rosarno è caratterizzato dalle forme di un’agricoltura assistita, sfruttata dalle multinazionali e dalla grande distribuzione che vi fa sopra ingenti profitti comprando gli agrumi a bassissimo costo. Oggi dei migranti che vivono a Rosarno meno della metà è occupata in agricoltura, oltretutto essi sono sottoposti a turni e ciascuno può fare al massimo due o tre giornate a settimana. San Ferdinando è divenuta lentamente non solo una tendopoli del “tempo della raccolta delle arance”, ma uno slum, un campo, una favela, una bidonville – cioè un insediamento umano densamente popolato con condizioni di vita di forte degrado, e a forte rischio sociale e sanitario. Oltre all’agricoltura vi si vive di occupazioni informali, un brulicare di attività rivolte all’interno e all’esterno dell’insediamento. La prostituzione è una di queste.

      Se la tendopoli non è più per tutti un luogo di transito o di “transumanza”, allora per chi vi rimane stabilmente, che vita può esserci in un contesto come questo? E queste persone aspirano ancora a qualcosa? Resta difficile a persone come noi, noi europei, cogliere la drammaticità della sopravvivenza che spinge a rimanere in luoghi simili quando ogni fatica di poter cambiare è stata troncata. È lo spazio di una umanità espulsa, e questi spazi degli espulsi, come sottolinea Saskia Sassen, “esigono con forza di essere riconosciuti sul piano concettuale. Sono tanti, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono realtà concettualmente sotterranee che devono essere portate alla luce. Sono potenzialmente i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza.”

      Tra i diseredati e gli espulsi vi sono persone che nonostante le sofferenze a cui sono state sottoposte nelle condizioni più degradanti, riescono ancora a esprimere una capacità di fronteggiare le situazioni dinanzi a circostanze avverse. Anche quando i loro corpi sono stati abusati, violati, schiavizzati hanno avuto la forza e l’energia di non abbrutire, di rimanere ancorati alla vita e di riemergere con capacità vitali tali da mutare il corso delle proprie esistenze e da far tornare nella loro vita quotidiana le aspirazioni sopite o nuovi orizzonti. Spesso si tratta di donne, di donne che hanno ben chiaro che “la vita passata non si dimentica”.

      Faith ventenne, uscita dalla strada, lavora in pizzeria. Sta facendo anche un corso per pizzaiola. Vuole ritornare nei prossimi anni in Nigeria e aprire una pizzeria. “Sai, ho letto che a Lagos stanno aprendo delle pizzerie e che vanno molto bene. La mia pizza sarà di gusto nigeriano-italiano”. E pure Mercy, tornata alla vita dopo un lungo periodo in cui è stata sottoposta a tratta e sfruttamento sessuale, mi racconta di sua figlia oggi diciottenne: “Sai, è tanto brava a scuola, sta finendo le superiori e vuole prendere medicina. Sono orgogliosa di questa mia figlia che sa quello che vuole. Farò di tutto per aiutarla a mantenersi agli studi.”

      http://gliasinirivista.org/2018/04/rosarno-la-tendopoli-delle-donne
      #femmes

    • Shattered dreams: life in Italy’s migrant camps - a photo essay

      Photographer #Sean_Smith went to Camp San Ferdinando and #Campobello in southern Italy to meet the residents.
      When Matteo Salvini took over as Italy’s interior minister in June, he made one thing clear: the “good times” for asylum seekers and migrants were over.

      But at the San Ferdinando ghetto in southern Italy the “good times” never properly arrived in the first place. This was home to Sacko Soumayla, a 29-year-old Malian trade unionist who was fighting for the rights of migrant workers. Soumayla was shot in the head by an Italian while rummaging for metal to repair his makeshift home.

      It is also home to almost 1,000 migrants, who live in 400 shacks resembling cargo containers. These homes are cobbled together with metal, wood and plastic. They are scorching in the summer and bitterly cold in winter.

      Almost all of the inhabitants are from sub-Saharan Africa. They are forced to work for little more than €2 an hour picking “made in Italy” delicacies such as olives and tomatoes. They have been called “new slaves”, and their limbo is San Ferdinando.

      The San Ferdinando camp was established in about 2010. Migrants from all over the country descended on the countryside around Rosarno, in southern Calabria, a stronghold of the ruthless local Mafia, the ‘Ndrangheta.

      The shacks began to increase in number and San Ferdinando was transformed into a shantytown. Some shacks function as a repair shop for the bicycles that migrants use to reach the fields, others serve as butcher shops or taverns.

      The days are monotonous. With no electricity in the camp it is not easy for the residents to idle away the time. Some fill their days with repairing their shack, while others prepare meals, usually with rice and chicken.

      Thierno shares his shack with Osmane. They both arrived from Senegal in 2015. Thierno, whose wife died during childbirth, has a daughter who lives with her grandmother back at home.

      In Senegal he owned a small factory with five employees. Over the years, Thierno has attempted to turn his dwelling into his notion of “home”. He built a makeshift porch outside his front door, and sourced materials from a nearby dump, such as using car seats from abandoned vehicles as sofas.

      In the kitchen, made from wooden planks and complete with a gas hob, there is a small table with two chairs. Dinner is served here for everyone. The rule is to offer a meal to anyone unable to earn money during the week.

      Thierno’s shack is a meeting point for friends returning home from the fields in the late afternoon. One of them wears a shirt bearing the face of Sacko, the man from Mali killed in June.

      There’s just enough time to smoke a few cigarettes, and chat about their condition. A frequent point of discussion is the exhausting wait that forces them to put their lives on hold while the authorities evaluate their asylum requests.

      Thierno says: “It’s a maze with no way out. To obtain a permit of stay you must have residence, but many of us have no stable home. Some years ago the authorities decided to recognise San Ferdinando as an official residence.

      “It was a brilliant idea for the authorities, who in doing so found a way to keep us out of the cities. San Ferdinando was subsequently transformed into a bona fide ghetto, which every year continues to attract migrants who simply want to request refugee status, and in the meantime they slowly become slaves for the farmers.”

      This is not the Europe that Thierno and his friends dreamed about, nor is it the Italy for which they risked death in the desert, torture in Libya, or drowning at sea, to reach. What’s more, it is not easy for them to admit to their family members back home that their dreams have been shattered.

      In the evening, while a small fire glows to light their shacks, it’s time to phone relatives back home. Asuma Yaw, a 45-year-old Ghanaian, lives next door to Thierno. He left Ghana in 2015 in search of work in Europe and to pay for his daughter’s university education.

      He says: “I left for her, I’m old now. My only hope is my daughter. What would I say to her if one day she told me that she wanted to come to Europe? I’d tell her to have her paperwork in order to avoid falling into a trap like this.”

      The number of informal migrant labour camps is increasing, according to local rights groups.

      In Sicily, a group of about 15 migrants live in a factory in the countryside around Campobello di Mazara in western Sicily. They are survivors of an illegal camp like San Ferdinando, which for four years had housed exploited African migrants during the olive harvest. That camp was razed by the authorities because of mounting concerns about health.

      Today, the survivors of that camp have moved into abandoned buildings in the surrounding countryside. They’ve made repeated requests to the local council to provide public housing they can rent. But the locals have closed their doors.

      According to trade unions and associations, more than a dozen illegal camps have been destroyed in Italy over the past three years. In March 2017, the authorities dismantled a settlement in Rignano Garganico, the largest migrant labour camp in Europe accommodating 3,000 workers . A year earlier, bulldozers had destroyed camps in Nardò, Salento, and Borreano, Basilicata.

      Despite all this, new camps continue to spring up, sometimes on the ruins of the demolished shantytowns. The truth is simple, according to the Italian Union of farmers (UILA), 36% of workers employed in the agricultural sector are foreigners, mainly from Africa.

      Without them, Italy’s agricultural sector would implode. Without Thierno, Asuma, and more than 10,000 other migrants who are exploited in the fields, the ‘‘good times’’ for Salvini’s Italy would be over.


      https://www.theguardian.com/world/2018/oct/10/life-in-italy-migrant-camps-a-photo-essay?CMP=share_btn_tw
      #photographie

    • Il pomodoro? Troppo spesso è sfruttamento

      “Spolpati”, il report dell’associazione onlus Terra!, accusa: ogni anno in Italia sono prodotte cinque milioni di tonnellate di pomodori su soli 70mila ettari. Ma gli effetti negativi sull’ambiente, sul sociale e sulla qualità dei prodotti porteranno grandi guai

      http://www.lastampa.it/2017/05/26/scienza/ambiente/il-caso/il-pomodoro-troppo-spesso-sfruttamento-xfVstgIbdDzpIXtAXfAC8M/pagina.html

      Lien pour télécharger le #rapport:
      http://www.filierasporca.org/wp-content/uploads/2016/11/Terzo-Rapporto-Filierasporca_WEB1.pdf

    • Caporalato, a un anno dalla legge «non è cambiato quasi nulla»

      La lotta allo sfruttamento del lavoro agricolo fatica a raccogliere risultati nonostante ci sia una legge, un protocollo nazionale e una rete del lavoro agricolo di qualità. Preoccupa la situazione in provincia di Foggia: nuovi ghetti e pochi controlli. La denuncia di Giovanni Mininni (Flai Cgil): “Buona legge ma inapplicata. Una sconfitta per lo stato”

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/545527/Caporalato-a-un-anno-dalla-legge-non-e-cambiato-quasi-nulla

    • Nei ghetti foggiani è calato il silenzio sui nuovi schiavi

      Il ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, è imponente. Oggi, la pista dell’ex aeroporto militare, a ridosso del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (#Cara), ospita circa 3 mila migranti. Secondo le forze dell’ordine, forse, molti di più. A riguardo, non esistono dati ufficiali. Non ci sono numeri, censimenti, registri. È una situazione al limite, che le istituzioni, a vari livelli, non riescono a gestire.


      http://www.terredifrontiera.info/ghetto-borgo-mezzanone

    • Lavoratrici romene sfruttate in Sicilia: nulla è cambiato

      Sono trascorsi mesi dalle denunce di Observer e Guardian sullo stato di semi-schiavitù di centinaia di lavoratrici romene in Sicilia. Da allora qualcosa si è mosso, nulla è però cambiato.

      Sono passati cinque mesi dalle rivelazioni dell’Observer e del Guardian in cui emergeva l’avvilente e cruda realtà di migliaia di donne romene sfruttate nei campi siciliani e spesso vittime di abusi da parte dei datori di lavoro. Cinque mesi in cui si sono succeduti clamore, sdegno, incontri, visite d’urgenza, operazioni di polizia e contatti Roma-Bucarest sia a livello politico che associativo. Cinque mesi in cui, però, la situazione sul campo sembra essere rimasta quasi invariata. Resta il timore di denunciare, resta il bisogno di lavorare e di mandare più soldi possibile a casa, resta la mancanza di una vera e propria task force o di un punto di riferimento per coloro che pur a fatica ne volessero uscire.
      Accordi

      Alcuni passi, però, sono stati fatti. Tra questi collaborazione diretta tra gli Ispettorati del lavoro di Romania e Italia, dialogo tra ministeri, uno sportello informativo per i romeni presso il centro polifunzionale del comune di Vittoria, una campagna informativa e di prevenzione già in campo e che è in procinto di essere ampliata. Lo ha spiegato l’ambasciatore romeno in Italia George Bologan, che è stato in visita a Catania e Ragusa a metà luglio. “La tutela della dignità umana come valore universale è interesse comune dei nostri stati – ha dichiarato dopo la visita - ho incontrato le autorità pubbliche e i rappresentanti della società civile e potrei affermare che qualcosa si è fatto e sono fiducioso in quello che di positivo si fa. Ho incontrato anche cittadini romeni e italiani che lavorano insieme senza problemi, con regolare contratto di lavoro e hanno tutti i benefici previsti dalla legge. Sono buoni esempi da seguire. Il lavoro nero, lo sfruttamento, sono come una cancrena che deve essere eliminata per salvaguardare l’intero corpo sociale”.

      Le migliaia di lavoratrici impiegate nei campi e nelle serre, però, restano sostanzialmente nella stessa situazione. Anche se subito dopo le notizie apparse sui giornali il governo romeno aveva raggiunto un’intesa per collaborare con le autorità italiane per fermare abusi e sfruttamenti tra Ragusa e Vittoria, non è ancora chiaro quale sia in Romania il ministero incaricato di trovare soluzioni e spingere le autorità italiane ad avviare strategie per interrompere il circolo vizioso in atto. Complice una breve crisi di governo in Romania, in cui il premier Sorin Grindeanu è stato sconfessato dal suo stesso partito, resta in sospeso la decisione su chi abbia il budget per avviare i progetti, se il ministero per i Romeni all’estero, se la Giustizia o gli Interni. Grindeanu, infatti, aveva chiesto subito dopo le rivelazioni stampa, che venisse redatto un piano sulla situazione con dati e suggerimenti e che successivamente si sarebbe provveduto a decidere il ministero competente. Ma la scelta resta ancora in sospeso.
      Una comunità d’accoglienza

      Secondo i dati emersi dalle indagini della stampa britannica delle circa 5.000 donne che lavorano nel settore agricolo nel ragusano, un terzo è duramente sfruttato e spesso vittima di abusi sessuali da parte dei datori di lavoro, con il tacito assenso di mariti che vivono alle spalle della moglie. Don Beniamino Sacco, che da anni denuncia quanto avviene nelle campagne della zona, ha le idee ben precise su cosa non rompe questo circolo e su cosa potrebbe, invece, essere d’aiuto. “Quello che succede nelle campagne è un mondo sommerso. Come al solito quando esplode una notizia c’è stato clamore, ma poi tutto torna nel dimenticatoio. Negli incontri con le autorità il mio suggerimento è stato quello di costruire una comunità, un punto di appoggio, di riferimento che possa fare da parafulmine per coloro che vogliono uscire da questa situazione – ha dichiarato Don Sacco – la Chiesa ortodossa potrebbe avere questo ruolo.

      "Fino ad ora è stata la Chiesa cattolica ad accogliere i pochi disperati che hanno voluto denunciare - continua Don Sacco - ma i romeni non sono uniti e non c’è chi li tiene uniti per risolvere questo problema. Le romene, che hanno sostituito i tunisini nei campi, sono costrette a lavorare, a guadagnare, per poter mandare il denaro ai figli lasciati a casa. Spesso hanno accanto un marito violento e che non le difende dalle aggressioni del datore di lavoro. Un andazzo che mortifica la dignità della persona. E in questo caso c’è chi non si pone il problema e chi difficoltosamente denuncia”. Nel concreto “con padre Nicolae (il giovane prete ortodosso che gira per le campagne per sostenere la comunità) stiamo cercando di acquistare un terreno per creare un punto di raccolta per la comunità. Sarebbe un passo importante”.
      20 euro al giorno

      Secondo le stime della polizia italiana nel settore agricolo siciliano lavorano oltre 7.500 donne, la maggior parte romene, e moltissime sono in condizioni di sfruttamento.

      Le ragioni di questa presenza massiccia dipendono da un lato dalla necessità dei datori di lavoro di assumere forza lavoro comunitaria, dall’altro, da parte delle lavoratrici, dalla chimera di una paga 56 euro al giorno per otto ore, come previsto dalla legge. Ma la realtà è ben diversa e le lavoratrici percepiscono, nonostante quanto sia stato accordato sulla carta, al massimo 20 euro al giorno, sotto continue minacce e violenze.


      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Lavoratrici-romene-sfruttate-in-Sicilia-nulla-e-cambiato-181825
      #Roumanie #femmes

    • Le “schiave” romene dietro ai pomodori di Ragusa

      Nelle campagne della Sicilia vi sono centinaia di donne emigrate dalla Romania per lavoro e ridotte in una sorta di «schiavitù» contemporanea. La vicenda è approdata al Parlamento europeo, dove diversi deputati vogliono spingere l’Ue a intervenire.

      Silvia Dumitrache mi mette in guardia: “Spero che lei abbia un bel po’ di tempo per ascoltare” la storia di quello che è successo negli ultimi undici anni in Italia, paese membro dell’Unione europea.

      Alla fine chiedo il permesso di abbassare il telefono: avevo ascoltato non una storia da incubo, ma la quotidianità di molte donne romene emigrate. La schiavitù esiste ancora. Ed è tanto più terribile in quanto, molto spesso, è accettata.

      “Tutto comincia in Romania”, racconta Dumitrache, presidente dell’Associazione delle donne romene in Italia” (Adri), “a Botosani, in una delle zone più arretrate del paese, da dove le donne hanno cominciato a emigrare nel 2007. L’esodo non si è mai interrotto. Vanno a raccogliere i pomodori in Italia, a Ragusa. E spesso partono senza sapere a cosa vanno incontro. Quello che è più triste è che anche quando qualcuna di loro riesce a scappare da quell’inferno, finisce sempre per tornarci, obbligata in qualche modo dalla spirale dei debiti, dai vicini a cui ha chiesto un prestito, e che la spingono a partire di nuovo per riavere i loro soldi”.

      Il filo del racconto si dipana, sempre più terrificante, come se fosse tratto dai vecchi romanzi che parlano di schiavi. Lo scandalo non è nuovo, riemerge periodicamente e si gonfia come una bolla di sapone. Ci sono le retate della polizia, le visite delle autorità, e a volte si intravede qualche barlume di speranza.
      Un sordida vicenda alle porte dell’Europa

      Gli ingredienti di questa brutta storia proprio davanti alla nostra porta? In Sicilia? Il banale affare della produzione dei pomodori a Ragusa, che con il tempo è diventata la più grande esportatrice di pomodori italiani in Europa, è anche una delle più sordide vicende del nostro continente.

      All’inizio c’è stata l’adesione della Romania all’Unione europea, nel 2007. E un’ondata massiccia di forza lavoro è arrivata sui mercati d’Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna. Donne partite per lavorare, ma che una volta arrivate a Ragusa vengono obbligate a prestare servizi sessuali ai padroni per poter conservare il proprio posto di lavoro. “La forza lavoro che arrivava dalla Romania era più la accomodante, la più disposta ad accettare compromessi”, spiega Silvia Dumitrache.

      “Le donne romene sono già tenute in una sorta di stato di schiavitù dai loro uomini, vengono picchiate… Molte di loro se ne vanno dalla Romania proprio per sfuggire a queste violenze. Raccontano che, anche se sono sfruttate, almeno in Italia guadagnano qualche soldo. Poi c’è un altro aspetto: in questo tipo di lavoro, se accettano le richieste di favori sessuali da parte dei padroni, possono tenersi vicini i figli, mentre se dovessero fare le badanti non sarebbe possibile”. Ma il lavoro nei campi, sotto la soffocante sorveglianza dei padroni? E gli anni in cui un osservatore attento avrebbe potuto farsi delle domande sul numero abnorme di aborti compiuti all’ospedale di Vittoria?

      Poi sono arrivati gli articoli. Prima pubblicati sulla stampa italiana, poi dal Guardian. È uscito un libro, Voi li chiamate clandestini , e i fatti sono stati raccontati dall’ong italiana Proxima.

      Di questa storia sono al corrente sia la polizia sia la procura, ma senza grandi risultati, perché in Italia le risorse di queste istituzioni sono piuttosto ridotte. Come racconta Silvia Dumitrache, per sollevare il problema c’è stato bisogno – per ironia della sorte – delle proteste di alcuni padroni, preoccupati perché sul mercato internazionale i prodotti etichettati Ragusa venivano boicottati a causa dallo scandalo scoppiato. “Le loro pressioni, che si sono concretizzate in un opera di lobbismo a livello europeo, hanno smosso le cose. Da allora sono cominciati gli arresti, a danno della mafia, che di fatto controlla questa situazione. Ma non basta ancora”.

      Gli eventi, finiti più volte sotto i riflettori dei mezzi d’informazione europei, hanno catturato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, delle istituzioni europee. In qualche modo era prevedibile, dato che la legislazione in questo settore esiste ma non è sufficientemente applicata.

      Su richiesta di alcuni deputati europei, la commissione del parlamento europeo per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, Femm – di cui ha fatto parte anche l’attuale premier romena, Viorica Dancila, deputa europea fino al gennaio del 2018 – ha intrapreso una visita a Ragusa . Molti eurodeputati hanno presentato un’interpellanza alla Commissione europea e i governi romeno e italiano hanno avviato un tavolo di lavoro bilaterale sul tema.

      Sul piano politico europeo sono seguite risoluzioni, gruppi di lavoro, interpellanze; a livello locale, invece, ci sono stati arresti e retate. Le visite bilaterali italo-romene si sono intensificate e, nel mese di maggio, il governo romeno ha lanciato il programma “Parti informato!”, che punta a dare informazioni a chi desidera emigrare. “Inoltre”, osserva il deputato europeo Emilian Pavel , “il ministero del Lavoro e romeno e il ministero romeno per la Diaspora hanno adottato provvedimenti congiunti con il ministero del Lavoro italiano”. Emilian Pavel, membro del Gruppo dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al Parlamento europeo è solo uno dei deputati che dall’autunno scorso continuano a battersi per mettere fine ai casi di schiavitù che sopravvivono in pieno XXI secolo.
      Boicottaggio paneuropeo contro i prodotti che provengono da Ragusa?

      “Certe rivelazioni producono necessariamente reazioni forti, e i deputati del Parlamento europeo sono estremamente sensibili e attenti a questioni del genere. Non è ancora troppo tardi per pensare di organizzare un boicottaggio paneuropeo contro i prodotti che arrivano da luoghi dove si pratica la schiavitù o che sono il frutto di tali pratiche. Tenere un essere umano, una donna, in schiavitù, è un’umiliazione per ogni essere umano”, dice Emilian Pavel.

      “Le istituzioni europee possono e devono agire conformemente alla loro missione e ai trattati. Sicuramente ci sono cose che possono essere fatte a livello europeo, come monitorare l’applicazione della legislazione europea attualmente in vigore, fare pressioni per accelerare l’implementazione di tutti gli accordi internazionali. Ma soprattutto bisogna dare appoggio concreto alle vittime! Questi fatti devono arrivare davanti ai giudici. Purtroppo è un traguardo difficile, e possiamo comprendere a livello umano che le vittime di schiavitù, dopo anni di umiliazioni, difficilmente avranno la forza per cercare di portare i colpevoli davanti alla giustizia. Io faccio parte della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del parlamento europeo; lottiamo contro le discriminazioni di genere e facciamo pressioni sugli stati affinché applichino la Convenzione di Istanbul, approvata nel 2011 dal Consiglio d’Europa, sulla prevenzione e la lotta alle violenze domestiche e contro le donne”.

      Secondo l’eurodeputato Pavel, tuttavia, una delle cause che più hanno contribuito a creare un simile problema è l’esistenza stessa del lavoro nero. Molte donne si sono ritrovate in questa situazione perché le autorità italiane non sono riuscite a combattere con successo il lavoro nero. “Il principio è semplice. È tanto semplice in via di principio quanto è terribile nella vita reale. Il lavoro in nero porta agli abusi, fa crescere le disuguaglianze, è causa di tragedie. Dobbiamo essere tutti molto più determinati nel combatterlo”, afferma.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Le-schiave-romene-dietro-ai-pomodori-di-Ragusa-187940