• Migranti, cinquemila euro per la libertà. È la cifra che verrà chiesta per non finire nei Cpr a chi arriva da Paesi sicuri

    Firmato il decreto delegato per la gestione delle procedure accelerate di frontiera. Chi può pagare non verrà trattenuto in attesa dell’esito della richiesta di asilo.

    Cinquemila euro per non finire in un Cpr. Adesso il governo Meloni si è inventata una sorta di cauzione da pagare per evitare il trattenimento previsto dal decreto Cutro per i migranti che arrivano da Paesi cosiddetti sicuri e dovrebbero essere rinchiusi in speciali centri per il rimpatrio nei luoghi d frontiera in attesa del rapido esame della richiesta di asilo.

    https://www.repubblica.it/cronaca/2023/09/22/news/migranti_cinquemila_euro_liberta_cpr_paesi_sicuri-415419543

    #procédure_accélérée #frontières #Italie #détention_administrative #rétention #CPR #décret #5000_EUR #chantage #caution #decreto_Cutro #décret_Cutro #5000_euros

    • I richiedenti asilo paghino 5mila euro per evitare il Centro per il rimpatrio

      Decreto legge pubblicato in Gazzetta Ufficiale, garanzia finanziaria per chi arriva

      Una garanzia finanziaria di quasi 5mila euro dovrà essere versata dal richiedente asilo che non vuole essere trattenuto in un Centro fino all’esito dell’esame del suo ricorso contro il rigetto della domanda.

      La prevede un decreto del ministero dell’Interno pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale che fissa a 4.938 euro l’importo che deve garantire al migrante, per il periodo massimo di trattenimento (4 settimane), «la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi».

      La disposizione si applica a chi è nelle condizioni di essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura alla frontiera e proviene da un Paese sicuro. Allo straniero, si legge, «è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria».

      La normativa, già in vigore, prevede il trattenimento durante lo svolgimento della procedura in frontiera, «al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato», per i richiedenti asilo in una serie di casi. Il decreto - firmato, oltre che dal ministro Matteo Piantedosi, anche dai titolari di Giustizia (Carlo Nordio) ed Economia (Giancarlo Giorgetti) - richiama inoltre la direttiva del ministro dell’Interno dell’1 marzo 2000, in cui si dispone che «lo straniero, ai fini dell’ingresso sul territorio nazionale, indichi l’esistenza di idoneo alloggio nel territorio nazionale, la disponibilità della somma occorrente per il rimpatrio, nonchè comprovi la disponibilità dei mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona».

      La misura della garanzia finanziaria si applica al richiedente asilo direttamente, alla frontiera o nelle zone di transito, che è stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli e a chi proviene da un Paese sicuro «fino alla decisione dell’istanza di sospensione».

      La garanzia deve essere versata «in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi». Dovrà inoltre essere prestata «entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico». Nel caso in cui lo straniero «si allontani indebitamente - prosegue il testo - il prefetto del luogo ove è stata prestata la garanzia finanziaria procede all’escussione della stessa»

      https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/09/22/un-richiedente-asilo-paghi-5mila-euro-per-evitare-il-centro-per-il-rimpatrio_25
      #garantie_financière #garantie #pays_sûr

    • Cinquemila euro, il prezzo della libertà per i migranti

      Aprirà a #Pozzallo, in provincia di Ragusa, la prima struttura di detenzione dei richiedenti asilo. Come funzioneranno questi nuovi centri e la cauzione di cinquemila euro per uscirne

      “Nei mesi scorsi abbiamo chiesto di aumentare i posti per la prima accoglienza, così hanno costruito un nuovo hotspot a Pozzallo che può ospitare trecento migranti. Solo ora abbiamo capito che una parte di questo centro diventerà una struttura di reclusione per il rimpatrio accelerato di persone che arrivano da paesi considerati sicuri, in base a quanto previsto dal decreto Cutro”, spiega Roberto Ammatuna, sindaco di Pozzallo.

      Nella cittadina in provincia di Ragusa sarà aperto il primo centro di trattenimento per richiedenti asilo in Italia: ottantaquattro posti riservati a chi proviene da paesi definiti sicuri come la Tunisia. Realizzata in quaranta giorni, la struttura è formata da diversi container e si trova in un’area recintata con inferriate e filo spinato. Avrebbe dovuto aprire il 24 settembre, invece probabilmente sarà pronta il 27 settembre. “Al momento ci sono un centinaio di persone nell’hotspot, ma ancora nessuno nel centro di trattenimento per l’espulsione”, chiarisce Ammatuna.

      “All’inizio ho avuto dei dubbi su questo tipo di strutture”, spiega il sindaco, “specie perché l’hotspot a ridosso dell’area portuale ha 220 posti, ma oggi le persone ospitate sono più di quattrocento. Per me il governo dovrebbe investire sull’accoglienza. Ma ora non possiamo fare altro che collaborare e stare con gli occhi aperti per capire cosa succederà nel nuovo centro di Pozzallo”. Secondo Ammatuna, negli anni le strutture di detenzione hanno creato solo problemi, violando i diritti umani. “Io sono un sindaco di frontiera”, dice Ammatuna. “Vedremo che succede, ma staremo attenti al rispetto della dignità delle persone”.

      Trattenimento all’arrivo

      Il progetto pilota di Pozzallo è stato confermato dal ministro dell’interno Matteo Piantedosi, che il 24 settembre ha detto: “La prima struttura di trattenimento di richiedenti asilo provenienti da paesi sicuri, come la Tunisia” servirà a “fare in modo che si possano realizzare velocemente, entro un mese, procedure di accertamento per l’esistenza dei presupposti dello status di rifugiato”.

      Ed è a questa struttura – non ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) – che si applicherà il decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 21 settembre. Tra le altre cose, il testo prevede che un richiedente asilo possa evitare di essere recluso se è disposto a versare una fideiussione di circa cinquemila euro.

      “La garanzia non riguarda le persone nei Cpr, cioè i cittadini espulsi per irregolarità acclarata nella loro condizione di soggiorno o per pericolosità accertata”, ha chiarito Piantedosi.

      Quella di Pozzallo, ha proseguito il ministro, è “una scommessa” che prevede la possibilità di trattenere le persone, “l’alternativa è la garanzia anche di carattere economico per sottrarsi al trattenimento, se la cosa funzionerà e la porteremo avanti in maniera più estesa risolverà una situazione annosa”.

      Secondo Gianfranco Schiavone, esperto di accoglienza e presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste, “al momento c’è una grande confusione, gli annunci del governo sono lontani dalla realtà”.

      “La prima cosa da verificare è che questo trattenimento dei richiedenti asilo che provengono da paesi cosiddetti sicuri sia in linea con quanto previsto dalla legge e che sia autorizzato da un giudice”, spiega Schiavone. Il timore è invece che sia privo di base giuridica, “come ha dimostrato per anni la situazione nell’hotspot di Lampedusa”. Per questo l’Italia è già stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, ricorda l’esperto.

      “Non basta il fatto di provenire da un paese considerato sicuro per essere trattenuti”, spiega Schiavone. A dirlo è anche la normativa europea, in particolare la direttiva 33 e la direttiva 32: la detenzione “non può essere automatica e generalizzata”. “Il semplice fatto di arrivare da paesi considerati sicuri non è un motivo sufficiente per giustificare la privazione della libertà”, sottolinea l’esperto.

      La cauzione

      Il decreto del 21 settembre introduce una cauzione di 4.938 euro per i richiedenti asilo che provengono da paesi terzi considerati sicuri, e che quindi hanno un’alta probabilità che le loro domande di asilo siano rigettate. Devono versarla se vogliono evitare di essere reclusi all’arrivo, come previsto dal decreto immigrazione del 19 settembre e dal decreto Cutro, approvato dal governo di Giorgia Meloni in seguito al naufragioavvenuto al largo delle coste di Steccato di Cutro, in Calabria, lo scorso febbraio, e convertito in legge a maggio.

      Uno dei punti principali del decreto Cutro era la creazione di centri di detenzione in cui fare un esame “accelerato” delle domande d’asilo, la cosiddetta “procedura di frontiera”. Secondo il testo, se un richiedente asilo arriva da un paese considerato sicuro dal governo sarà trasferito dall’hotspot in un centro di detenzione, in attesa che la sua domanda d’asilo sia esaminata. La procedura “accelerata” dovrebbe portare a una risposta entro 28 giorni. Al momento i paesi considerati sicuri sono quindici, tra cui la Tunisia, la Costa d’Avorio e la Nigeria.

      Fare una fideiussione bancaria di quasi cinquemila euro permetterebbe ai migranti di evitare la detenzione. La cifra è stata calcolata stimando le spese di alloggio per un mese, quelle quotidiane e quelle per il volo di rimpatrio, secondo quanto riportato nel decreto. Ma la misura è stata accusata di essere contraria alla costituzione e alle leggi nazionali e internazionali sul diritto d’asilo.

      Secondo il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, si tratta di “una norma manifesto, odiosa, ma inapplicabile, dietro la quale si nascondono procedure accelerate che cancellano il diritto d’asilo e rendono le garanzie della difesa applicabili solo sulla carta, anche a causa dell’uso generalizzato delle videoconferenze, e delle difficoltà per i difensori di ottenere tempestivamente la documentazione relativa al richiedente asilo da assistere in sede di convalida o per un ricorso contro la decisione di rigetto della domanda”.

      Con quest’ultimo atto il governo sembra voler fare concorrenza ai trafficanti

      Secondo Caterina Bove, avvocata ed esperta d’immigrazione dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), prevedere questa fideiussione è contrario ai principi della costituzione italiana sulla libertà personale: “La fideiussione richiesta è talmente alta che difficilmente un richiedente asilo potrà versarla. L’assenza di risorse finanziarie non può comportare il trattenimento, l’accoglienza dev’essere garantita a tutti, non solo a chi può permettersi di pagare. Questo è quello che dicono le direttive europee”.

      Bove dice che la Corte di giustizia dell’Unione europea si è espressa su questo: “In una sentenza del 14 maggio 2020 ha già escluso che un richiedente asilo possa essere trattenuto perché non ha le garanzie finanziarie richieste”.

      “Sfido a trovare una persona che arrivi dalla Libia, dalla Tunisia o dalla rotta balcanica, capace di attivare una fideiussione di quel valore in Italia o in qualsiasi altro paese nel tempo previsto dal decreto”, ha commentato Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci.

      “Con quest’ultimo atto”, conclude Miraglia, “il governo sembra voler fare concorrenza ai trafficanti, e non per proporre vie legali per venire in Italia, cosa che sarebbe auspicabile, ma chiedendo soldi per liberare i migranti dai centri di detenzione, proprio come fanno le milizie in Libia e non solo”.

      Cpr e rimpatri

      Il decreto approvato dal governo il 19 settembre prevede anche l’estensione della durata massima dei tempi di trattenimento degli stranieri nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).

      In Italia questi centri sono stati istituiti nel 1998 e nel corso degli anni sono stati gradualmente chiusi a causa di problemi strutturali e per le numerose denunce di violazione dei diritti umani e di trattamenti inumani. Ma dal 2o17 sono stati riaperti e c’è il progetto di espanderli. Il governo Meloni ha promesso di costruirne uno in ogni regione, suscitando polemiche e sconcerto negli amministratori locali, che conoscono i costi e i problemi sanitari e di ordine pubblico legati a queste strutture.

      Andrea Oleandri, direttore di Cild, che ha curato un rapporto sui Cpr definendoli Buchi neri, spiega che i centri sono stati gradualmente chiusi perché sono inefficienti e molto costosi: “L’ultimo bando di gara del ministero dell’interno ci dice che dieci centri per il rimpatrio costano allo stato più di cinquanta milioni di euro. Al momento ne sono attivi nove, perché nel frattempo il Cpr di Torino è stato chiuso. Noi l’abbiamo definito un affare, perché la gestione di questi centri è privata. E la detenzione amministrativa spesso è nelle mani di grandi multinazionali, che tagliano le spese a discapito dei servizi.L’anno scorso sono passate nei centri circa cinquemila persone e solo tremila sono state rimpatriate”.

      Nei Cpr finiscono le persone che sono trovate sul territorio italiano senza avere il permesso di soggiorno in regola. Nelle strutture si dovrebbe procedere alla loro identificazione ed eventuale espulsione. “Sono persone che non hanno commesso reati”, spiega Oleandri. La durata massima del trattenimento è stata più volte modificata, ma gli esperti sostengono che non abbia alcuna influenza sul tasso di rimpatri.

      Come spiega Oleandri: “La questione non è nei tempi, quanto nell’inutilità dei Cpr”. Secondo il rapporto di Cild, solo una persona su due fra quelle trattenute è rimpatriata, perché gli accordi di rimpatrio con i paesi di origine sono pochi, una situazione che prescinde dalla durata del trattenimento.

      “Nel 2014 il tempo massimo che si poteva stare in un Cpr era di diciotto mesi, ma il tasso di rimpatrio delle persone che ci finivano era del 50 per cento, come quando la durata era di novanta giorni. I migranti sono rimpatriati subito, se ci sono degli accordi. Altrimenti non si possono rimpatriare, quindi rimangono nel centro fino allo scadere dei tempi e poi sono rilasciati”, spiega Oleandri. “Trattenere persone che non sono rimpatriabili è inutile e anche illegittimo”, continua.

      “Sembra che il governo abbia ritirato fuori i Cpr in un momento di difficoltà per far vedere che sta facendo qualcosa sul tema dell’immigrazione, che tuttavia è molto più complesso e non c’entra molto con i centri d’espulsione”, conclude Oleandri.

      https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/annalisa-camilli/2023/09/26/centri-reclusione-migranti-cinquemila-euro

  • Grèce : au moins 78 morts dans un naufrage, le plus meurtrier de l’année dans le pays

    Au moins 78 migrants se sont noyés mercredi dans le naufrage de leur embarcation en mer méditerranée, dans le sud-ouest de la Grèce, tandis que 104 ont pu être secourus par les garde-côtes grecs. Selon des médias locaux, le bateau transportait au moins 600 personnes. Les recherches se poursuivaient mercredi pour tenter de retrouver d’autres survivants. Il s’agit du naufrage le plus meurtrier de l’année en Grèce.

    Au moins 78 personnes ont trouvé la mort dans un naufrage dans la nuit de mardi 13 à mercredi 14 juin au large de la Grèce. Quelques 104 naufragés ont pu être secourus par les garde-côtes grecs et transférés vers la ville de Kalamata, un port situé au sud ouest du pays.

    Les chaînes de télévision grecques ont montré les images de rescapés, couvertures grises sur les épaules et masques hygiéniques sur le visage, descendre d’un yacht portant l’inscription Georgetown, la capitale des îles Caïmans. D’autres étaient évacués sur des civières. Quatre d’entre eux ont été conduits à l’hôpital de Kalamata en raison de symptômes d’hypothermie.

    D’après les informations délivrées par les autorités grecques, les exilés sont majoritairement originaires d’Égypte, de Syrie et du Pakistan. Selon les premières informations, le bateau aurait quitté Tobrouk, à l’est de la Libye, en direction de l’Italie, vendredi 9 juin.

    600 migrants à bord du bateau

    Le nombre de passagers présents sur le bateau n’a pas été confirmé par les autorités grecques. Mais des médias locaux parlent d’au moins 600 personnes, ce qui laisse craindre la disparition de centaines de naufragés.

    L’opération de sauvetage se poursuivait mercredi après-midi dans les eaux internationales situées au large de la ville grecque de Pylos. Elle implique six navires des garde-côtes, un avion et un hélicoptère militaires ainsi qu’un drone de Frontex, l’agence européenne de surveillance des frontières.

    https://twitter.com/alarm_phone/status/1668913096667144193

    La Grèce a connu de nombreux naufrages d’embarcations de migrants, souvent vétustes et surchargées, mais il s’agit jusqu’ici du bilan humain le plus lourd depuis un précédent le 3 juin 2016 au cours duquel au moins 320 personnes avaient péri ou disparu.

    L’embarcation avait été repérée une première fois mardi par les garde-côtes italiens, qui ont alerté leurs homologues grecs et européens. Les migrants à bord « ont refusé toute aide », selon les autorités grecques. La plateforme d’aide aux migrants en mer, Alarm Phone, a signalé sur Twitter avoir été alertée le même jour par des exilés en détresse, non loin du lieu du naufrage.

    Selon une journaliste basée en Grèce, chaque passager avait payé 4 500 dollars (environ 4 000 euros) la traversée.

    Une année particulièrement meurtrière

    Depuis un an, on observe de plus en plus de départs de bateaux de migrants depuis l’est de la Libye. « Ce n’est pas inhabituel que des bateaux fassent cette route. Les départs depuis l’est de la Libye sont plus fréquents » depuis l’été dernier, expliquait l’an dernier à InfoMigrants Frederico Soda, chef de mission Libye auprès de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). Les exilés prennent désormais la mer depuis cette zone, afin d’éviter les interceptions des garde-côtes libyens, qui se concentrent à l’ouest du pays.

    Mais la traversée n’est pas sans risque. L’est de la Libye est considérablement plus éloigné de l’Italie que la partie ouest, d’où embarquent la majorité des migrants. À titre d’exemple, 1 200 km séparent les deux villes côtières de Tobrouk (à l’Est) et Tripoli (à l’Ouest), situé en-dessous de la Sicile. Un trajet démarré depuis l’est de la Libye est ainsi « beaucoup plus long », précisait encore Federico Soda.

    La route méditerranéenne reste la plus meurtrière au monde. En 2022, 2 406 migrants ont péri dans cette zone maritime, soit une augmentation de 16% sur un an, selon le dernier rapport de l’OIM. Et l’année 2023 risque d’établir un nouveau record : depuis janvier, ce sont déjà 1 166 personnes qui ont péri ou ont disparu dans ces eaux, dont 1030 en Méditerranée centrale. Un tel nombre n’avait pas été observé depuis 2017.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/49667/grece--au-moins-78-morts-dans-un-naufrage-le-plus-meurtrier-de-lannee-
    #Pylos #Grèce #naufrage #asile #migrations #décès #morts #tragédie #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #14_juin_2023 #Méditerranée #Mer_Méditerranée #13_juin_2023

    • Après le naufrage en Grèce, les autorités grecques et européennes sous le feu des critiques

      À la suite de l’annonce de la disparition de plusieurs centaines de personnes dans un naufrage survenu mercredi au large de la Grèce, des dirigeants européens ont fait part de leurs condoléances. Ils ont reçu de nombreuses critiques condamnant les politiques migratoires européennes.

      C’est sans doute le naufrage le plus meurtrier depuis 2013. Mercredi 14 juin, vers 2h du matin, un bateau surchargé de migrants a fait naufrage au large de Pylos, dans le sud-ouest de la Grèce. Au moins 78 personnes sont mortes dans le drame et des centaines d’autres sont toujours portées disparues. Selon les témoignages des rescapés, qui ont donné des chiffres différents, entre 400 et 750 exilés se trouvaient sur le bateau parti de Tobrouk, dans l’est de la Libye.

      À la suite de ce drame, de nombreuses personnalités politiques grecques et européennes ont exprimé leur émotion sur les réseaux sociaux. La présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen s’est dit « profondément attristée par la nouvelle du naufrage au large des côtes grecques et par les nombreux décès signalés ». « Nous devons continuer à travailler ensemble, avec les États membres et les pays tiers, pour éviter de telles tragédies », a-t-elle ajouté.

      Ylva Johansson, commissaire européenne aux Affaires intérieures, s’est quant à elle dit « profondément affectée par cette tragédie meurtrière au large des côtes grecques ». « Nous avons le devoir moral collectif de démanteler les réseaux criminels. La meilleure façon d’assurer la sécurité des migrants est d’empêcher ces voyages catastrophiques... », a également indiqué la responsable.

      Les messages de soutien des deux dirigeantes ont entraîné de très nombreuses critiques d’internautes. Des défenseurs des droits des migrants, avocats et journalistes ont notamment dénoncé le « cynisme » des autorités européennes, les accusant de promouvoir une politique migratoire européenne dure.

      « Vies innocentes »

      La classe politique grecque a également réagi au drame. En campagne électorale en vue des législatives du 25 juin, l’ancien Premier ministre conservateur, Kyriakos Mitsotakis, a décidé d’annuler un rassemblement électoral prévu pour la fin de journée à Patras, le grand port de cette région du Péloponnèse, a annoncé son parti Nouvelle Démocratie (ND).

      « Nous sommes tous choqués par le tragique naufrage survenu aujourd’hui dans les eaux internationales de la Méditerranée, au sud-ouest du Péloponnèse. Je suis attristé par la perte de tant de vies innocentes », a-t-il déclaré sur Twitter.

      Ce responsable politique s’est par ailleurs entretenu au téléphone avec le Premier ministre par intérim, Ioannis Sarmas. Il a également décrété trois jours de deuil dans le pays.

      Sur les réseaux sociaux, l’ancien Premier ministre n’a pas non plus été épargné par des internautes l’accusant d’hypocrisie face au drame de Pylos. Le dirigeant a mené une politique très dure envers les exilés durant ses quatre années à la tête du gouvernement. Athènes a été à de très nombreuses reprises accusée de pratiquer des refoulements illégaux de migrants en mer Égée et dans la région de l’Evros.
      Des bateaux escortés hors des SAR zones

      De nombreux membres d’organisations internationales ont également réagi au drame de Pylos. Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut-commissariat des nations unies aux réfugiés (HCR), en charge de la Méditerranée de l’ouest et centrale s’est dit « très attristé par cette nouvelle tragédie ». Le responsable a également confié son inquiétude « de voir ces derniers mois certains États côtiers escorter des bateaux en mauvais état en dehors de leur zone SAR pour s’assurer qu’ils atteignent d’autres zones SAR ».

      De son côté, Federico Soda, directeur du département des urgences à l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), a plaidé pour la mise en place de « mesures concrètes pour donner la priorité à la recherche et au sauvetage » et de « voies d’accès sûres pour les migrants ».

      L’agence européenne de surveillance des frontières (Frontex) s’est, quant à elle, déclarée « profondément touchée » par le drame. Dans le même message posté sur Twitter, l’agence assure que son avion de surveillance a repéré le bateau le mardi 13 juin au matin et affirme avoir « immédiatement informé les autorités compétentes ».

      Selon les autorités portuaires grecques, un avion de surveillance de Frontex avait effectivement vu le bateau mardi mais il n’est pas intervenu car les passagers ont « refusé toute aide ».

      Les ONG actives dans l’aide aux exilés ont également fait part de leur effroi face au drame de Pylos. Interrogé par Libération, le président de SOS Méditerranée France, François Thomas, a condamné une « nouvelle tragédie insupportable ». « Il n’existe aucune solidarité européenne. Les moyens de sauvetage sont de moins en moins importants, alors que l’Europe a des moyens. Quand est-ce que tout cela va s’arrêter ? », a-t-il dénoncé.

      Médecins sans frontières (MSF), qui intervient en Méditerranée centrale avec son navire humanitaire le Geo barents , a déclaré être « attristé et choqué » par le drame survenu mercredi. L’ONG précise que ses équipes en Grèce se tiennent prêtes à intervenir pour aider autant que possible les rescapés.

      Enquête ouverte

      Enfin, le pape François, très sensible à la thématique migratoire, est « profondément consterné » par le naufrage, a rapporté jeudi le Vatican dans un communiqué.

      « Sa sainteté le pape François envoie ses prières sincères pour les nombreux migrants qui sont morts, leurs proches et tous ceux qui ont été traumatisés par cette tragédie », peut-on lire dans un télégramme signé par le N.2 du Saint-Siège, le cardinal Pietro Parolin, et publié par le Vatican.

      Les opérations de secours se poursuivaient jeudi matin pour tenter de retrouver des survivants. Des moyens aériens et maritimes sont déployés mais les espoirs s’amenuisent à mesure que le temps passe. Jusqu’à présent, 104 personnes ont pu être secourues mais Athènes redoute que des centaines d’autres ne soient portées disparues, d’après les témoignages des survivants.

      Une enquête a été ouverte par la justice grecque sur le sauvetage de l’embarcation. La Cour suprême grecque a également ordonné une enquête pour définir les causes du drame qui a choqué le pays.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/49698/apres-le-naufrage-en-grece-les-autorites-grecques-et-europeennes-sous-

    • “They are urgently asking for help”: the SOS that was ignored

      The Hellenic Coast Guard attributed its failure to proceed to a rescue mission of the migrants before their trawler sunk to their refusal to receive assistance. International law experts, as well as active and former Coast Guard officials, refute the argument. And emails sent by the Alarm Phone group to authorities which are in Solomon’s possession, prove that the passengers of the vessel had sent out an SOS – one that was ignored.

      The first recovered bodies of the people who lost their lives 80 km southwest of Pylos between the 13th and 14th of June are transferred to the cemetery of Schisto. At least 78 dead and hundreds remain missing. 104 people have been rescued so far, while the search for survivors continues.

      But critical questions about possible mishandling by the Hellenic Coast Guard of the tragedy that led to the deadliest shipwreck recorded in recent years in the Mediterranean remain.

      The same goes for the responsibilities of Greece and Europe, whose policies have diverted asylum seekers to the deadly Calabria route, which bypasses Greece (for obvious reasons), while also failing to establish legal and safe routes.
      “Denied assistance“

      In the briefings and timeline of the events leading up to the tragedy, the HCG attributes the failure to rescue the migrants before the sinking of the fishing boat to their repeated “refusal to receive assistance” in their communications with the vessel.

      The HCG had been aware of the vessel since the early morning hours of Tuesday, 13/6, and was, according to its own log, in contact with the vessel from as early as 14:00 local time. But no rescue action was undertaken, because “the trawler did not request any assistance from the Coast Guard or Greece,” the HCG reported.

      The same argument is repeated at 18:00: “Repeatedly the fishing boat was asked by the merchant ship if it required additional assistance, was in danger or wanted anything else from Greece. They replied, “we want nothing more than to continue to Italy”.

      But does this absolve the Coast Guard of responsibility?

      International law experts as well as former and active members of the Coast Guard question the legal and humanitarian basis of this argument, even if there was indeed a “refusal of assistance”. And they point out to Solomon that the rescue operation should have begun immediately upon detection of the fishing vessel. For the following reasons, among others:

      - The vessel was obviously overloaded and unseaworthy, with the lives of the peopled on board, who did not even have life-saving equipment, being in constant danger.

      – Accepting a denial of rescue or other intervention by the HCG could make sense only if the vessel carried a state flag, had proper documents, had a proper captain and was safe. None of these applies in the case of the sunk trawler.

      - Coast Guard officials had to objectively assess the situation and take the necessary actions regardless of how the passengers of the trawler – or, to be precise, whoever the Coast Guard was in contact with- themselves assessed their own situation.

      - The fishing vessel was undoubtedly in a state of distress that mandated its rescue at the latest from the moment the Coast Guard received, through Alarm Phone, an SOS message, which was transmitted to the group by the passengers. This SOS call is not mentioned anywhere in the Coast Guard’s communications.

      Proof the Coast Guard knew of the danger

      In its own chronology of events, Watch the Med-Alarm Phone says it contacted the authorities at 17:53 local GR time.

      The email to the competent authorities, which is available to Solomon, indicates the coordinates where the overloaded vessel was located. It states that there are 750 people on board, including many women and children, and includes a telephone number for contacting the passengers themselves.

      “They are urgently asking for help,” the email reads.

      From this message, it follows also that FRONTEX, the HQ of the Greek Police and the Ministry of Citizen Protection, as well as the Coast Guard in Kalamata, were also informed.

      The message was also communicated to the UNCHR in Greece and Turkey, to NATO, as well as to Greece’s Ombudsman.

      Listen to the interview given to Solomon by Maro, an Alarm Phone member:

      https://www.youtube.com/watch?v=bV4SptggF2U&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwearesolomon.com%2F

      Solomon contacted the Hellenic Coast Guard, asking detailed questions: why was there no rescue operation after the migrants’ distress signal via Alarm Phone? Does a refusal to rescue exculpate the HCG? Why was the vessel (for security and identification purposes) not even checked, given it was not flying a flag? Why was the operation launched only after the vessel sank?

      A spokesman for the HCG did not answer the specific questions but instead referred to the Coast Guard’s press release.

      Solomon also contacted UNHCR, which confirmed receipt of the email.

      “Our Office was indeed notified yesterday (ed. note: 13/06) afternoon in correspondence received from Watch The Med – Alarm Phone, which referred to a vessel in distress southwest of the Peloponnese with a large number of passengers. We immediately informed the competent Greek authorities requesting urgent information about the coordination of a search and rescue operation to bring the people to safety”.

      “Please be informed that Frontex has immediately relayed the message to the Greek authorities,” Frontex responded to Alarm Phone’s message, in an email seen by Solomon.

      “Duty of rescue, not stand by and watch”

      The Coast Guard had to treat the incident as a vessel in distress from the very first moment and take all measures to rescue the people, explains Nora Markard, Professor of International Public Law and International Human Rights at the University of Münster.

      “As soon as the distress call was received via Alarm Phone, there was clearly distress. But when a ship is so evidently overloaded, it is in distress as soon as it leaves port, because it is unseaworthy. Even if the ship is still moving. And when there is distress, there is a duty to rescue, not to stand by and watch.

      International law defines distress as a situation where there is a reasonable certainty that a vessel or a person is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance.

      “That requires an objective assessment. If a captain completely misjudges the situation and says the ship is fine, the ship is still in distress if the passengers are in grave danger by the condition of the ship,” Dr. Markard explains.

      International law unambiguously states that, on receiving information ‘from any source’ that persons are in distress at sea, the master of a ship that is in a position to render assistance must ‘proceed with all speed to their assistance’.

      In this particular case, the fishing vessel was not flying a flag, so the incident does not even fall under the category of respect for the sovereignty of the flag state.

      “When a ship doesn’t fly a flag at all, as it appears to be the case here, the law of the sea gives other states a right to visit the ship. This includes the right to board the ship to check it out,” says Markard.

      Apart from the distress call itself, the Hellenic Coast Guard, therefore, had the additional authority to examine the situation.

      “All ships and authorities alerted of the distress have an obligation to rescue, even if the ship in distress is not in their territorial waters but at high sea. Search and rescue zones often include waters that belong to the high sea,” explains Markard.

      “If the distress occurs in a state’s search and rescue zone, that state also has an obligation to coordinate the rescue. For example, it can requisition merchant ships to render assistance.”
      Coast Guard officer: “This was the definition of a vessel in distress”

      A former senior officer of the Greek Coast Guard with vast relevant experience seconds this and raises additional questions.

      Speaking to Solomon on condition of anonymity, he explained that the vessel was manifestly unseaworthy and the people on board in danger. Even a refusal to accept assistance was not a reason to leave it to its fate.

      The same official also points out there were delays in the response of the HCG (“valuable time was lost”) and an inadequate force of assets. He confirmed that refusal of assistance would only make sense in the case of a legal, documented, seaworthy and flagged vessel. “This was the definition of a vessel in distress”.

      Similar statements regarding the claims of the Greek Coast Guard were made by retired admiral of the Coast Guard and international expert, Nikos Spanos, to Greece’s public broadcaster ERT:

      “It’s like saying I can just watch you drown and do nothing. We don’t ask the crew on a boat in distress if they need help. They absolutely need help, from the moment the boat is adrift.”

      https://wearesolomon.com/mag/focus-area/migration/they-are-urgently-asking-for-help-the-sos-that-was-ignored

    • Chi c’era a bordo della barca naufragata al largo della Grecia

      Moshin Shazad, 32 anni, era un uomo con l’espressione seria, due figli piccoli, la moglie e la madre da mantenere. Per questo aveva deciso di partire da Lalamusa, una città nel Punjab, in Pakistan. Non riusciva a trovare un lavoro stabile e le bocche da sfamare erano diventate troppe, dopo la nascita del secondo figlio. Voleva raggiungere il cugino, Waheed Ali, che dal 2019 vive in Norvegia.

      È partito con altri quattro ragazzi, quattro amici, tra cui Abdul Khaliq e Sami Ullah. Ha telefonato al cugino poco dopo essere salito sul peschereccio stracarico che è partito da Tobruk, in Libia, ed è naufragato il 14 giugno, a 47 miglia da Pylos, in Grecia. “Diceva che sarebbe arrivato in Italia”, racconta Waheed Ali, che ora sta cercando il cugino tra i 108 sopravvissuti, di cui molti sono stati sistemati in un magazzino abbandonato di Kalamata, in Grecia, mentre una trentina sono stati trasferiti in ospedale. Molti erano in ipotermia. Ma Shazad potrebbe anche essere tra i dispersi.

      Shawq Muhammad al Ghazali, 22 anni, era uno studente originario di Daraa, in Siria, ed era rifugiato in Giordania, dove al momento vivono la sua famiglia e suo zio Ibhraim al Ghazali. Il ragazzo era partito da Amman per la Libia, e da lì, da Tobruk, si era imbarcato per raggiungere l’Europa. “Non ho sue notizie dall’8 giugno, il giorno della partenza dalla Libia”, dice lo zio. Secondo molti familiari, le autorità greche non stanno aiutando le famiglie ad avere notizie dei parenti o a capire se sono tra i vivi o tra i dispersi.

      I superstiti sono per lo più siriani (47) ed egiziani (43), poi ci sono dodici pachistani e due palestinesi, secondo le autorità greche. Tutti uomini. “Non riesco a sapere se è sopravvissuto, sono io che sto dando notizie alla famiglia in Pakistan, ma sono disperato, non riesco a capire e a sapere nulla. Del naufragio ho saputo dalla televisione”, afferma Waheed Ali.

      L’imbarcazione su cui viaggiavano Moshin Shazad e gli altri era partita da Tobruk l’8 giugno, era diretta in Italia, lungo una rotta da cui sono arrivati nel 2023 la metà dei migranti partiti dalla Libia.

      “Secondo le prime testimonianze sarebbe corretta la stima di 700-750 persone a bordo, tra cui almeno quaranta bambini, che probabilmente erano nella stiva. Se questi numeri fossero confermati, si tratterebbe del secondo naufragio più grave avvenuto nel Mediterraneo dopo quello dell’aprile 2015”, racconta Flavio Di Giacomo, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Settantotto corpi sono stati recuperati finora in mare al largo della penisola del Peloponneso. Ma l’Oim ha affermato di “temere che altre centinaia di persone” siano annegate. Il portavoce della guardia costiera greca Nikos Alexiou ha detto che l’imbarcazione è naufragata, dopo che le persone si sono spostate bruscamente su un lato. L’imbarcazione è affondata in quindici minuti.

      Frontex li aveva avvistati
      Secondo le autorità greche, un aereo di sorveglianza dell’agenzia europea Frontex aveva avvistato la barca il 13 giugno. In un comunicato Frontex ha confermato di avere visto l’imbarcazione in mattinata, alle 9.47 del giorno precedente al naufragio e di averlo comunicato alle autorità preposte al soccorso, cioè alla guardia costiera greca. Anche la guardia costiera italiana e due mercantili avevano segnalato alle autorità greche l’imbarcazione in difficoltà. Ma secondo la guardia costiera greca, i passeggeri dell’imbarcazione “hanno rifiutato qualsiasi aiuto”, perché i migranti si stavano dirigendo verso l’Italia.

      “Nel pomeriggio, una nave mercantile si è avvicinata alla barca e le ha fornito cibo e rifornimenti, mentre i (passeggeri) hanno rifiutato ogni ulteriore assistenza”, ha detto la guardia costiera greca in un comunicato. Una seconda nave mercantile in seguito ha offerto più rifornimenti e assistenza. Ma anche questa volta sono stati rifiutati, secondo i greci.

      In serata, una motovedetta della guardia costiera ha raggiunto la nave “e ha confermato la presenza di un gran numero di migranti sul ponte”, è scritto nel comunicato delle autorità greche. “Ma hanno rifiutato qualsiasi assistenza e hanno detto che volevano continuare in Italia”. Tuttavia le leggi internazionali sul soccorso in mare avrebbero imposto in ogni caso ai greci di intervenire per le condizioni in cui l’imbarcazione stava navigando. Diverse testimonianze contestano la versione delle autorità greche.

      Il motore della barca si è rotto poco prima delle 23 (gmt) del 13 giugno, da quel momento la barca è andata alla deriva. I naufraghi hanno chiesto aiuto, telefonando alla rete di volontari Alarmphone, già dal 13 giugno, dicendo di avere contattato anche “la polizia”. L’attivista Nawal Soufi, che vive in Italia, ha raccontato che i migranti con cui era in contatto telefonico le hanno detto che alcune imbarcazioni si sono avvicinate, distribuendo delle bottigliette di acqua.

      “Il 13 giugno 2023, nelle prime ore del mattino, i migranti a bordo di una barca carica di 750 persone mi hanno contattata comunicandomi la loro difficile situazione. Dopo cinque giorni di viaggio, l’acqua era finita, il conducente dell’imbarcazione li aveva abbandonati in mare aperto e c’erano anche sei cadaveri a bordo. Non sapevano esattamente dove si trovassero, ma grazie alla posizione istantanea del telefono Turaya (telefono satellitare, ndr), ho potuto ottenere la loro posizione esatta e ho allertato le autorità competenti”, scrive Soufi, condividendo la sua ricostruzione su Facebook.

      “La situazione si è complicata quando una nave si è avvicinata all’imbarcazione, legandola con delle corde su due punti della barca e iniziando a buttare bottiglie d’acqua. I migranti si sono sentiti in forte pericolo, poiché temevano che le corde potessero far capovolgere la barca e che le risse a bordo per ottenere l’acqua potessero causare il naufragio. Per questo motivo, si sono leggermente allontanati dalla nave per evitare un naufragio sicuro”, continua l’attivista nel suo post.

      “Durante la notte, la situazione a bordo dell’imbarcazione è diventata ancora più drammatica. Io sono rimasta in contatto con loro fino alle 23 ore greche, cercando di rassicurarli e di aiutarli a trovare una soluzione”. Fino all’ultima chiamata in cui “l’uomo con cui parlavo mi ha espressamente detto: ‘Sento che questa sarà la nostra ultima notte in vita’”, conclude. Il parlamentare greco Kriton Arsenis, che ha parlato con i sopravvissuti a Kalamata, ha confermato la versione dell’attivista Soufi e ha dichiarato che l’imbarcazione si è ribaltata dopo essere stata trainata con delle corde dai greci. Secondo Arsenis, i greci volevano spingere l’imbarcazione di migranti nelle acque di ricerca e soccorso italiane.

      https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2023/06/15/naufragio-grecia
      #Frontex

    • Grecia, strage di Pylos. «Nessuna pace per gli assassini»

      Mentre il mare inghiotte i corpi e lo Stato rinchiude i sopravvissuti si riempiono le strade delle città greche

      Da tempo, definiamo la politica migratoria europea “necropolitica”, ovvero – seguendo Achille Mbembe – una politica che crea le condizioni strutturali per produrre la morte di un gruppo di persone.

      Un’architettura di morte, che vediamo ogni giorno nel regime europeo del confine, sempre più legale, sofisticata, diffusa. Ci accorgiamo ora che ci hanno tolto anche la morte, nel senso che personalmente e collettivamente – noi “vivi” – le diamo, facendo esperienza di quella degli altri, vicini e lontani. Ci hanno tolto anche la morte perché hanno tolto il lutto a chi ha perso una persona cara, la possibilità di piangere un corpo morto, la possibilità di conoscerne il nome, di sapere chi, dove, quando, quanti.

      Probabilmente non sapremo mai quante persone sono affogate nella strage avvenuta tra martedì 13 e mercoledì 14 giugno ad 80 chilometri al largo del porto di Pylos. Gli stessi migranti, al telefono con l’attivista Nawal Soufi, parlavano di 750 persone a bordo, di cui molti bambini. La Guardia costiera ellenica dice 646. Le foto e le informazioni disponibili fino ad ora confermano quest’ordine di grandezza, ma le cifre sono destinate a rimanere indicative. Il naufragio è avvenuto nella zona con il mare più profondo di tutto il Mediterraneo: circa 60 km a sud-ovest di Pylos si trova la Fossa di Calipso, una depressione che supera i 5.000 metri di profondità. Gli esperti dicono che il recupero dei corpi sarà quindi particolarmente difficoltoso, il mare li inghiottirà per sempre. Ad oggi, sono solo 104 i superstiti, difficilmente questo numero aumenterà.

      Oltre la produzione della morte si situa forse l’annullamento, l’annientamento della persona (della vita). Sono parole che, chiaramente, richiamano il nazismo. Non sapere chi, non sapere quanti, non poter riavere i corpi – massivamente e sistematicamente – è qualcosa che, credo, si avvicina all’annientamento.

      I dettagli che iniziano a trapelare dipingono un quadro dei fatti che non solo seppellisce ogni retorica della “tragica fatalità”, ma svela le responsabilità dirette della HCG (Hellenic Coast Guard) nel causare il “capovolgimento” della barca. Come ricostruito dall’attivista Iasonas Apostolopoulos, sulla base delle dichiarazioni del parlamentare Kriton Arsenis, che ha potuto parlare con i sopravvissuti a Kalamata, la HCG avrebbe legato il peschereccio con delle corde e provato a trascinarlo. Sarebbe stato proprio questo tentativo di rimorchio a far ribaltare la barca. Queste ricostruzioni si allineano con i primi racconti di Nawal Soufi.

      https://twitter.com/ABoatReport/status/1669301668259741696/history

      Evidentemente, la differenza – se esiste – tra uccidere e lasciar morire sfuma: non è “solo” indifferenza complice, non è “semplicemente” girarsi dall’altra parte. L’omissione di soccorso è la punta dell’iceberg di un sistema complesso – quello dei confini europei – progettato per annientare la vita. Sistema di cui la guardia costiera è solo un tassello. Non è l’Europa che finge di non vedere, è l’Europa che, strutturalmente, con delle politiche precise e radicate nel tempo, produce morte.

      La versione ufficiale della HCG descrive invece il capovolgimento come frutto di una maldestra manovra – in mare piatto – del peschereccio stesso. Dall’altra parte, puntano tutto sulla colpevolizzazione delle vittime: “Ripetevano costantemente di voler salpare per l’Italia e di non volere alcun aiuto dalla Grecia”, si ribadisce ossessivamente nel comunicato. Ma è assodato che questo improbabile “non volevano essere aiutati”, secondo il diritto del mare, non giustifica il mancato soccorso, come chiarito dall’ordine degli avvocati di Kalamata – che si è offerto di supportare gratuitamente i sopravvissuti. Così come è assodato che la HCG sapeva tutto dalla mattina di martedì 13 giugno, alla luce dell’avvistamento da parte del velivolo di Frontex e degli SOS diffusi da Alarm Phone – pubblicati da wearesolomon – e inoltrati anche ad UNCHR, NATO, e al difensore civico greco.

      Ma non lasciamo non detti: probabilmente l’HCG voleva trascinare il peschereccio in zona SAR maltese o italiana. Questa volontà è stata più forte di quella di salvare 750 vite umane in evidente pericolo. Forse anche per questo, ai giornalisti è stato impedito di parlare con i sopravvissuti. Dopo delle pressioni, è stato permesso solo ai parlamentari.

      Come da copione, nove di loro, egiziani, sono stati arrestati accusati di traffico di esseri umani ed omicidio 1, mentre la maggior parte (71 persone) è stata trasferita nel campo di Malakasa 2, nel “centro di accoglienza e identificazione”: una struttura chiusa, controllata, isolata, priva di supporto psicologico e assistenza medica adeguata. Sono siriani, egiziani, pakistani e palestinesi. Non devono poter raccontare, devono capire che non c’è pietà, che nulla gli sarà concesso.

      Nel porto di Kalamata, sembra di rivivere i giorni di Cutro: arrivano i familiari da tutta Europa e non solo. Alcuni trovano i propri cari, molti non li troveranno. Nessun aiuto da parte dello Stato, nessuna informazione, dicono. Non c’è pace per i vivi, non c’è pace per i morti. Finora sono stati recuperati ed identificati 78 corpi, saranno trasportati con dei camion frigorifero al cimitero di Schisto.

      Intanto, si riempiono le strade della Grecia. Dal porto di Pylos ad Atene, Salonicco, Patrasso, Karditsa, Kalamata, migliaia di persone si sono messe in marcia. Ad Atene, giovedì sera, una marea umana si è scontrata con i soliti gangster in divisa.

      La risposta dello Stato è sempre la stessa, anche con i solidali. Sono piazze commosse ma piene di rabbia. Una rabbia degna. Puntano chiaramente il dito verso gli assassini: non solo la guardia costiera, ma lo Stato greco, l’Unione Europea, Frontex, questo sistema coloniale e razzista.

      Domenica 18 giugno nel pomeriggio un altro corteo, chiamato dalla Open Assembly Against Pushbacks and Border Violence, si muoverà dal Pireo verso gli uffici di Frontex: l’agenzia europea non potrà giocare la parte dei “buoni” che avevano segnalato per tempo la barca in pericolo.

      Dalle strade, si leva una promessa: non dimentichiamo, non perdoniamo.

    • Did migrants reject help before deadly Greek wreck, or beg for it? Coast guard, activists disagree

      This undated handout image provided by Greece’s coast guard on Wednesday, June14, 2023, shows scores of people covering practically every free stretch of deck on a battered fishing boat that later capsized and sank off southern Greece. A fishing boat carrying migrants trying to reach Europe capsized and sank off Greece on Wednesday, authorities said, leaving at least 79 dead and many more missing in one of the worst disasters of its kind this year.(Hellenic Coast Guard via AP)
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      This undated handout image provided by Greece’s coast guard on Wednesday, June14, 2023, shows scores of people covering practically every free stretch of deck on a battered fishing boat that later capsized and sank off southern Greece. A fishing boat carrying migrants trying to reach Europe capsized and sank off Greece on Wednesday, authorities said, leaving at least 79 dead and many more missing in one of the worst disasters of its kind this year.(Hellenic Coast Guard via AP)

      This much is clear: On June 9, an old steel fishing trawler left eastern Libya for Italy, carrying far too many people.

      As many as 750 men, women and children from Syria, Egypt, the Palestinian territories and Pakistan were on board, fleeing hopelessness in their home countries and trying to reach relatives in Europe.

      Five days later, the trawler sank off the coast of Greece in one of the deepest parts of the Mediterranean Sea. Only 104 people, all men, survived. The remains of 78 people were recovered.

      There are still more questions than answers about what led up to one of the worst shipwrecks in recent Mediterranean history.

      Activists, migration experts and opposition politicians have criticized Greek authorities for not acting earlier to rescue the migrants, even though a coast guard vessel escorted the trawler for hours and watched helplessly as it sank.

      Below is a timeline of events based on reports from Greek authorities, a commercial ship, and activists who said they were in touch with passengers. They describe sequences of events that at times converge, but also differ in key ways.

      The Greek Coast Guard said that the overcrowded trawler was moving steadily toward Italy, refusing almost all assistance, until minutes before it sank. This is in part supported by the account of a merchant tanker that was nearby.

      But activists said that people on board were in danger and made repeated pleas for help more than 15 hours before the vessel sank.

      International maritime law and coast guard experts said that conditions on the trawler clearly showed it was at risk, and should have prompted an immediate rescue operation, regardless of what people on board may have said.

      Much of these accounts could not immediately be independently verified.

      Missing from this timeline is the testimony of survivors, who have been transferred to a closed camp and kept away from journalists.

      All times are given in Greece’s time zone.

      FIRST CONTACT

      Around 11 a.m. on Tuesday, Italian authorities informed Greece that a fishing trawler packed with migrants was in international waters southwest of the Peloponnese. Greece said the Italian authorities were alerted by an activist.

      Around the same time, human rights activist Nawal Soufi wrote on social media that she had been contacted by a woman on a boat that had left Libya four days earlier.

      The migrants had run out of water, Soufi wrote, and shared GPS coordinates through a satellite phone showing they were approximately 100 km (62 miles) from Greece.

      “Dramatic situation on board. They need immediate rescue,” she wrote Tuesday morning.

      Over the course of the day, Soufi described some 20 calls with people on the trawler in a series of social media posts and a later audio recording. The Associated Press could not reach Soufi.

      A surveillance aircraft from the European Border and Coast Guard Agency Frontex spotted the overcrowded trawler at 11:47 p.m. and notified Greek authorities, the agency told AP. On Saturday, Frontex told AP its plane had to leave the scene after 10 minutes due to a fuel shortage but that it had also shared with Greece details and photos of the “heavily overcrowded” trawler.

      DIFFERING ACCOUNTS OF CONDITIONS ON BOARD

      At 2 p.m., Greek authorities established contact with someone on the trawler. The vessel “did not request any assistance from the Coast Guard or from Greece,” according to a statement.

      But activists said that people on the boat were already in desperate need by Tuesday afternoon.

      At 3:11 p.m., Soufi wrote, passengers told her that seven people were unconscious.

      Around the same time, Alarm Phone, a network of activists with no connection to Soufi who run a hotline for migrants in need of rescue, said they received a call from a person on the trawler.

      “They say they cannot survive the night, that they are in heavy distress,” Alarm Phone wrote.

      At 3:35 p.m., a Greek Coast Guard helicopter located the trawler. An aerial photo released showed it packed, with people covering almost every inch of the deck.

      From then until 9 p.m., Greek authorities said, they were in contact with people on the trawler via satellite phone, radio, and shouted conversations conducted by merchant vessels and a Coast Guard boat that arrived at night. They added that people on the trawler repeatedly said they wanted to continue to Italy and refused rescue.

      MERCHANT SHIPS BRING SUPPLIES

      At 5:10 p.m., Greek authorities asked a Maltese-flagged tanker called the Lucky Sailor to bring the trawler food and water.

      According to the company that manages the Lucky Sailor, people on the trawler “were very hesitant to receive any assistance,” and shouted that “they want to go to Italy.” Eventually, Eastern Mediterranean Maritime Limited wrote in a statement, the trawler was persuaded to accept supplies.

      Around 6 p.m., a Greek Coast Guard helicopter reported that the trawler was “sailing on a steady course and heading.”

      But at 6:20 p.m., Alarm Phone said that people on board reported that they were not moving, and that the “captain” had abandoned the trawler in a small boat.

      “Please any solution,” someone on board told Alarm Phone.

      The Greek authorities’ account suggested the trawler stopped around that time to receive supplies from the Lucky Sailor.

      At 6:55 p.m., Soufi wrote, migrants on board told her that six people had died and another two were very sick. No other account so far has mentioned deaths prior to the shipwreck, and the AP has not been able to verify this.

      Around 9 p.m., Greek authorities asked a second, Greek-flagged, merchant vessel to deliver water, and allowed the Lucky Sailor to leave.

      Then, at around 10:40 p.m., a Coast Guard boat from Crete reached the trawler, and remained nearby until it sank. According to the Coast Guard, the vessel “discreetly observed” the trawler from a distance. Once again, the Coast Guard said, the trawler did not appear to have any problems and was moving “at a steady course and speed.”

      THE FINAL HOURS

      According to Soufi’s account, attempts to deliver supplies may have contributed to the trawler’s troubles.

      Shortly after 11 p.m., she wrote that the trawler began rocking as its passengers tried to catch water bottles from another vessel. According to people on board, ropes were tied to the ship, destabilizing it and causing a “state of panic,” she said.

      The report from the Lucky Sailor said no lines were tied to the trawler, and supplies were delivered in watertight barrels tied to a rope.

      “Those on board the boat caught the line and pulled,” the company managing the Lucky Sailor told the AP.

      The other merchant vessel did not immediately reply to the AP’s questions.

      A spokesman for the Greek Coast Guard said late Friday that its vessel had briefly attached a light rope to the trawler at around 11 p.m. He stressed that none of the vessels had attempted to tow the trawler.

      Commander Nikos Alexiou told Greek channel Ant1 TV that the Coast Guard wanted to check on the trawler’s condition, but people on board again refused help and untied the rope before continuing course.

      Soufi’s last contact with the trawler was at 11 p.m. She said later in a voice memo that “they never expressed the will to continue sailing to Italy,” or refused assistance from Greece. “They were in danger and needed help.”

      THE WRECK

      According to authorities, the trawler kept moving until 1:40 a.m. Wednesday, when its engine stopped. The Coast Guard vessel then got closer to “determine the problem.”

      A few minutes later, Alarm Phone had a final exchange with people on the trawler. The activists were able to make out only: “Hello my friend … The ship you send is …” before the call cut off.

      At 2:04 a.m., more than 15 hours after Greek authorities first heard of the case, the Coast Guard reported that the trawler began rocking violently from side to side, and then capsized.

      People on deck were thrown into the sea, while others held onto the boat as it flipped. Many others, including women and children, were trapped below deck.

      Fifteen minutes later, the trawler vanished underwater.

      In the darkness of night, 104 people were rescued, and brought to shore on the Mayan Queen IV, a luxury yacht that was sailing in the vicinity of the shipwreck. Greek authorities retrieved 78 bodies. No other people have been found since Wednesday.

      As many as 500 people are missing.

      https://apnews.com/article/migrants-shipwreck-rescue-greece-coast-guard-c160027a00d1ad2f859b97e3e8e7643

    • Après le naufrage, des survivants dénoncent les gardes-côtes grecs et Frontex

      La version officielle grecque sur l’un des pires naufrages en Méditerranée est mise à mal par les témoignages de survivants. Le rôle de Frontex, l’agence européenne chargée des frontières extérieures, est également pointé du doigt. Une enquête a été ouverte.

      Plus de quatre jours après le naufrage d’un bateau de pêche en provenance de Libye, où s’étaient embarquées jusqu’à 750 personnes – notamment des ressortissantes et ressortissants égyptiens, syriens et pakistanais –, l’espoir est mince de retrouver des survivant·es au large des côtes sud de la Grèce.

      Les questions sont nombreuses en particulier sur l’action des gardes-côtes grecs, accusés par certains témoignages d’avoir provoqué l’accident. La Cour suprême grecque a ordonné une enquête sur les circonstances du drame, l’un des pires naufrages en Méditerranée avec des centaines de morts. Pour l’heure, 104 personnes ont été rescapées et 78 corps récupérés.

      Jeudi après-midi, Kriton Arsenis, ancien eurodéputé, a rencontré des survivants dans le port de Kalamata, sur la péninsule du Péloponnèse, en tant que membre de la délégation de Mera25, le parti de Yánis Varoufákis. « Les réfugiés nous ont dit que l’embarcation a chaviré pendant qu’elle était tirée par le bateau des gardes-côtes », a-t-il raconté.

      « Les survivants nous disent que le bateau a basculé alors qu’il faisait l’objet d’une manœuvre où il était tiré par les gardes-côtes helléniques, a déclaré de son côté Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut Commissariat aux réfugiés pour la Méditerranée occidentale et centrale. Ils nous disent qu’il était tiré non pas vers les côtes grecques, mais en dehors de la zone de secours en mer grecque. »

      Ces témoignages vont à l’encontre de la version officielle, qui, jusqu’à vendredi, expliquait que les gardes-côtes n’étaient pas intervenus.

      La Grèce est régulièrement accusée de refouler des migrant·es en mer, provoquant la crainte, derrière une aide supposée, d’être en réalité éloigné·es du territoire – une pratique illégale au regard du droit international maritime et de la Convention de Genève, qui doivent permettre à toute personne en situation de détresse d’être secourue et acheminée vers un port dit « sûr » et de pouvoir, si elle le souhaite, déposer une demande d’asile dans le pays qu’elle tentait de rallier.

      En mai dernier, des révélations du New York Times ont mis en lumière cette pratique, grâce à une vidéo d’un « push-back » prise sur le fait. Mediapart avait documenté un cas semblable en 2022, qui avait provoqué la mort de deux demandeurs d’asile.
      Le patron de Frontex sur place

      Le rôle de Frontex, l’agence européenne chargée des frontières extérieures, est également mis en question, car selon les autorités portuaires grecques, un avion de surveillance de Frontex avait repéré le bateau mardi après-midi mais les secours ne sont pas intervenus car les passagers ont « refusé toute aide ». Son patron Hans Leijtens s’est rendu à Kalamata pour établir les faits et « mieux comprendre ce qui s’est passé car Frontex a joué un rôle » dans ce naufrage « horrible ».

      « On ne demande pas aux personnes à bord d’un bateau à la dérive s’ils veulent de l’aide […], il aurait fallu une aide immédiate », a affirmé pour sa part à la télévision grecque ERT Nikos Spanos, expert international des incidents maritimes. D’après Alexis Tsipras, le chef de l’opposition grecque de gauche, qui s’est entretenu avec des rescapés, « il y a eu un appel à l’aide ».

      Le HCR et l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), deux agences des Nations unies, se sont félicités des enquêtes « qui ont été ordonnées en Grèce sur les circonstances qui ont conduit au chavirement du bateau et à la perte de tant de vies », tout en rappelant que « le devoir de secourir sans délai les personnes en détresse en mer est une règle fondamentale du droit maritime international ».

      Le HCR et l’OIM ont rappelé vendredi que depuis le début de l’année, au moins 72 778 migrants sont arrivés en Europe (dont 54 205 en Italie), par les routes migratoires en Méditerranée orientale, centrale, et occidentale ou par le nord-ouest de l’Afrique. Dans le même temps, au moins 1 037 migrants sont morts ou portés disparus.

      Neuf Égyptiens ont été arrêtés dans le port de Kalamata. Ils sont âgés de 20 à 40 ans et soupçonnés de « trafic illégal » d’êtres humains. Parmi les suspects, qui devraient comparaître lundi devant le juge d’instruction, figure le capitaine de l’embarcation qui a chaviré, d’après une source portuaire à l’AFP.

      Areti Glezou, travailleuse sociale au sein de l’ONG grecque Thalpo était en première ligne aux côtés des rescapés. Manifestement choquée, elle se souviendra longtemps de certains détails à glacer le sang. « Un homme me racontait qu’il a nagé pendant deux heures au côté de corps d’enfants avant d’être secouru. » Elle s’arrête, reprend son souffle et, les larmes aux yeux, elle poursuit : « Oui, ça, ils me l’ont tous dit, les cales étaient remplies de femmes et d’enfants. » Aucun n’aura été retrouvé vivant.

      Plus de 120 Syriens se trouvaient à bord et un grand nombre d’entre eux sont portés disparus, ont indiqué vendredi à l’AFP des membres de leurs familles et des militants locaux. La plupart sont originaires de la province instable de Deraa dans le sud du pays. Berceau du soulèvement antirégime déclenché en 2011, elle est revenue sous le contrôle des forces gouvernementales en juillet 2018. Plusieurs d’entre eux ont gagné la Libye, d’où était parti le bateau, en transitant par des pays voisins comme le Liban, la Jordanie ou encore l’Arabie saoudite.

      Vendredi matin, on a cependant vu des larmes de joie sur le port de Kalamata. Des deux côtés des barrières qui entourent le hangar où logent les rescapés, deux frères se sont aperçus. Fardi a retrouvé Mohamed vivant. Le grand a retrouvé le petit. Autour d’eux les sourires fleurissent sur les visages. Pour quelques brefs instants, journalistes, humanitaires et hommes en uniformes redeviennent d’abord des êtres humains. Comme un rayon de lumière qui illumine soudain un océan de tristesse.

      Une demi-heure plus tard, des bus viennent chercher les rescapés pour les emmener au camp de Malakasa dans la région d’Athènes. Le hangar est désormais vide.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/170623/apres-le-naufrage-des-survivants-denoncent-les-gardes-cotes-grecs-et-front

    • Naufrage de migrants en Méditerranée : ce que l’on sait sur les responsabilités des garde-côtes grecs

      Depuis le naufrage dramatique qui a fait 78 morts et possiblement plusieurs centaines d’autres mercredi 14 juin, les critiques ciblent l’absence d’intervention préalable des gardes-côtes grecs. Ces derniers rejettent la faute sur les passagers du navire.

      Le naufrage d’un bateau de migrants mercredi 14 juin avec des centaines de personnes à bord, au large de la Grèce, a soulevé de nombreuses questions sur les responsabilités des autorités. Voici ce que l’on sait depuis que ce chalutier vétuste a chaviré et coulé dans les eaux internationales, faisant au moins 78 morts.
      L’opération de sauvetage

      Les garde-côtes grecs ont affirmé mercredi matin « avoir été prévenus mardi par les autorités italiennes concernant un bateau avec à bord un grand nombre d’étrangers ». Des patrouilleurs grecs ont été mobilisés pour le repérer. « C’est un appareil aérien de Frontex [la décriée agence européenne de gardes-frontières, ndlr] qui a le premier repéré le bateau mardi après-midi, puis deux bateaux qui naviguaient dans la zone », selon les garde-côtes.

      Nawal Soufi, une bénévole travaillant pour la ligne téléphonique d’assistance à des migrants en danger Alarm Phone, assure sur son compte Facebook avoir reçu un SOS d’un bateau avec 750 personnes à bord en provenance de Libye.

      A 22 h 40 mardi, le chalutier notifie une panne du moteur. Le patrouilleur à proximité « a immédiatement tenté d’approcher le chalutier pour déterminer le problème », ont noté les garde-côtes. Vingt-quatre minutes plus tard, le patron du patrouilleur a annoncé par radio que le bateau avait chaviré. Il a coulé en quinze minutes.
      La défausse grecque contre les migrants

      Selon les garde-côtes grecs, « il n’y a pas eu de demande d’aide » des personnes à bord du bateau de pêche. « Après de nombreux appels du centre opérationnel des garde-côtes grecs pour les secourir, la réponse du bateau de pêche a été négative », selon le communiqué. « La salle des opérations […] a été en contact répété avec le bateau de pêche. Ils ont constamment répété qu’ils souhaitaient naviguer vers l’Italie », selon la même source.

      Le porte-parole du gouvernement a également expliqué vendredi que « les garde-côtes se sont rapprochés du bateau, ils ont jeté une corde pour le stabiliser, mais les migrants ont refusé l’aide ». « Ils disaient ‘‘No help, Go Italy’’ [’’Pas d’aide, on va en Italie’’, ndlr] », a-t-il ajouté.

      Pour sa part, le porte-parole de la police portuaire Nikolaos Alexiou a souligné qu’on ne pouvait « pas remorquer un bateau avec un si grand nombre de gens à bord par la force, il faut qu’ils coopèrent ».

      Selon un réfugié syrien en Allemagne, Reber Hebun, arrivé en Grèce pour retrouver son frère de 24 ans, survivant du naufrage, « les garde-côtes grecs n’ont rien fait pour les aider au début alors qu’ils étaient près d’eux », a-t-il dit après avoir parlé avec son frère. « Un bateau commercial a donné de l’eau et de la nourriture et tout le monde s’est précipité, le bateau a été déstabilisé à ce moment », selon lui.
      Les critiques envers les garde-côtes grecs

      Des experts et des ONG ont mis en cause les garde-côtes grecs qui auraient dû intervenir quoi qu’il arrive, selon eux. Pour Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR) pour la Méditerranée centrale et occidentale, « l’argument grec selon lequel les personnes ne voulaient pas être secourues pour poursuivre leur route vers l’Italie ne tient pas ». « C’est aux autorités grecques qu’il incombait de procéder ou, au moins, de coordonner une opération de sauvetage, en utilisant soit leurs propres navires de sauvetage soit en faisant appel à tout autre bateau sur zone, y compris à des navires marchands », a-t-il jugé. « Selon le droit maritime international, les autorités grecques auraient dû coordonner plus tôt cette opération de sauvetage, dès lors que Frontex avait repéré ce bateau en détresse », a-t-il poursuivi.

      « On ne demande pas aux personnes à bord d’un bateau à la dérive s’ils veulent de l’aide […] il aurait fallu une aide immédiate », a critiqué pour sa part Nikos Spanos, expert international des incidents maritimes.

      Hans Leijtens, le patron de Frontex, s’est rendu jeudi à Kalamata pour chercher à « mieux comprendre ce qui s’est passé car Frontex a joué un rôle » dans cet « horrible » naufrage.

      Vendredi, l’ONU a demandé des investigations rapides et des mesures « urgentes et décisives » pour éviter de nouveaux drames. « Il doit avoir une enquête approfondie sur les événements qui se sont déroulés au cours de cette tragédie. Et j’espère que nous pourrons trouver des réponses et apprendre de l’expérience », a souligné Jeremy Laurence, porte-parole du Haut-Commissariat aux droits de l’homme.
      Des centaines de personnes à bord

      78 corps ont jusqu’ici été retrouvés en mer au large des côtes de la péninsule du Péloponnèse, selon les garde-côtes grecs, et 104 personnes ont pu être secourues à temps. Mais le bilan serait en réalité bien plus lourd. Le porte-parole du gouvernement grec, Ilias Siakantaris, avait assuré mercredi que des informations non confirmées faisaient état de 750 personnes à bord du chalutier. L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) « redoute que des centaines de personnes supplémentaires » se soient noyées « dans l’une des tragédies les plus dévastatrices en Méditerranée en une décennie ».

      Parmi les personnes qui se trouvaient à bord, figuraient notamment plus 120 Syriens, et un grand nombre d’entre eux sont portés disparus, ont déploré vendredi des membres de leurs familles et des militants locaux. La plupart de ces migrants sont originaires de la province instable de Deraa dans le sud de la Syrie. Plusieurs d’entre eux ont gagné la Libye, d’où était parti le bateau, en transitant par des pays voisins comme le Liban, la Jordanie ou encore l’Arabie Saoudite, selon les mêmes sources.

      Les recherches se poursuivent mais les espoirs de retrouver des survivants s’amenuisent, trois jours après le drame. De nombreuses femmes et enfants auraient voyagé dans la cale du navire, qui a sombré dans une zone de la Méditerranée de plusieurs milliers de mètres de profondeur, la fosse Calypso.

      Par ailleurs, 9 personnes de nationalité égyptienne soupçonnées d’être des passeurs ont été arrêtées à la suite du drame.

      https://www.liberation.fr/international/europe/naufrage-de-migrants-en-mediterranee-ce-que-lon-sait-sur-les-responsabili

    • Message de Vicky Skoumbi envoyé sur la mailing-list de Migreurop, le 18 juin 2023 :

      une vidéo glaçante avec un #témoignage de survivants qui fait état de la #responsabilité criminelle des #garde-côtes_grecs, avec la traduction d’un post d’Iasonas Apostolopoulos

      https://www.facebook.com/519820384/videos/5877893008981441

      « Les garde-côtes grecs se sont approchés de nous et nous ont lancé une corde bleue. Ils ont commencé à nous remorquer. La façon dont ils nous tiraient n’était pas correcte. Nous criions. Le navire a alors commencé à prendre de la gîte sur la gauche, les garde-côtes se sont tournés vers le côté opposé et notre navire a commencé à prendre de la gîte sur le côté et à couler.

      Nous essayions de grimper sur le bateau, nous voulions survivre.

      Les garde-côtes ont détaché la corde. Nous criions à l’aide. Ils ont fait tourner leur navire, créant une grosse vague, et notre bateau a complètement chaviré. Les personnes qui se trouvaient sur le côté du bateau se sont retrouvées en dessous. Nous pouvions entendre les gens dans la cale frapper sur la tôle en fer.

      Le bateau a complètement coulé ».

      –—

      Le journaliste Fallah Elias de la chaîne allemande WDR a partagé sur Twitter le témoignage absolument choquant et horrifiant d’un naufragé secouru.

      https://twitter.com/falahelias/status/1670127871170322432

      Dans la vidéo, d’autres survivants pakistanais confirment que les garde-côtes grecs ont fait couler le bateau en le remorquant.

      Ni une, ni deux, ni trois, de nombreux témoignages désignent le gouvernement grec et les garde-côtes comme les seuls responsables du naufrage et de la noyade de centaines de personnes à Pylos. Au lieu de les secourir, ils ont tiré le bateau avec une corde jusqu’à ce qu’il chavire. Probablement pour les faire sortir de la zone de sauvetage grecque.

      Selon certaines informations, une centaine d’enfants figureraient parmi les morts.

      Si tout cela est vrai, il s’agit du plus grand homicide de l’histoire de l’Europe d’après-guerre.

      NE LAISSONS PAS L’AFFAIRE ÊTRE ÉTOUFFÉE !

      https://twitter.com/falahelias/status/1670127871170322432?s=46&t=0dqDdxigZeccg_TvNxhfAA

    • Möglicherweise waren Push-Backs der Küstenwache Schuld am Bootsunglück in Griechenland

      Es gibt Vorwürfe, dass das Boot mit Geflüchteten vor Griechenland wegen Push-Backs der griechischen Küstenwache gesunken ist. WDR-Journalist Bamdad Esmaili berichtet im Interview, was Überlebende des Unglücks erzählen.

      Nach dem Bootsunglück vor Griechenland mit hunderten Toten gibt es schwere Vorwürfe gegen die griechische Küstenwache, das Unglück verursacht zu haben. Die Rede ist von so genannten Push-Backs. Darunter versteht man Maßnahmen, mit denen flüchtende Menschen daran gehindert werden, die Grenze zu übertreten und einen Asylantrag zu stellen. In der EU-Grundrechte-Charta wird das Recht auf Asyl gemäß der Genfer Flüchtlingskonvention allerdings garantiert.

      Die Küstenwache weist den Vorwurf von Push-Backs zurück - jetzt soll die europäische Polizeibehörde Europol ermitteln. WDR-Journalist Bamdad Esmaili ist in Griechenland und hat mit seinem Team mit Überlebenden sprechen können.

      WDR: Es gibt Vorwürfe gegen die griechische Küstenwache. Worum geht es da?

      Bamdad Esmaili: Es geht darum, dass es Vorwürfe gibt, dass die griechische Küstenwache dieses Boot in die Richtung von italienischem Gewässer gezogen hat - dass sie es sozusagen gepushbackt hat. Diesen Vorwurf hatten wir bislang nur gehört, gestern Abend gelang es meinem Kollegen, der arabisch spricht, dann mit ungefähr zehn überlebenden Geflüchteten zu sprechen. Sie haben unabhängig voneinander berichtet, dass dieses Boot tatsächlich gezogen wurde - nicht nur einmal, nicht nur zweimal, sondern insgesamt dreimal. Und dabei ist das Schiff dann ins Wanken gekommen und ist gesunken.

      WDR: Das heißt, das Ziehen dieses Bootes, der Versuch es nach Italien zu ziehen und damit aus der Zuständigkeit Griechenlands herauszuholen, ist für dieses Unglück - so scheint es zumindest im Moment - verantwortlich?

      Esmaili: Das ist der Vorwurf, der im Raum steht. Das muss natürlich erstmal bewiesen werden. Die Griechen lehnen das vehement ab und dementieren das. Sie sagen nach wie vor immer noch, dass sie Hilfe angeboten haben und das Schiff habe diese Hilfe nicht gewollt, weil sie demnach nach Italien wollten.

      WDR: Wir können davon ausgehen, dass es jetzt eine größere Untersuchung geben wird. Wie wird in Griechenland darüber diskutiert, was hören Sie da?

      Esmaili: Das ist zum Politikum geworden, weil nächste Woche Parlamentswahlen in Griechenland sind. Vor allem die Opposition nutzt dieses Thema jetzt aus und kritisiert die Regierung. Und es ist für drei Tage eine Staatstrauer angeordnet worden. Es gibt auch Proteste, Kundgebungen, es gab einen Trauermarsch in Athen, also das ist ein Riesenthema hier in Griechenland.

      WDR: Sie haben erwähnt, dass Sie mit Überlebenden sprechen konnten. Wie haben diese denn die Situation auf dem Schiff beschrieben? Abgesehen von der Frage, ob sie gezogen wurden und damit das Unglück ausgelöst wurde.

      Esmaili: Man muss sich das so vorstellen: Ein Schiff, das 30 Meter lang ist, war völlig überfüllt. Die Überlebenden erzählen uns, dass sie von den Schleppern gehört haben, dass 747 Personen auf diesem Schiff waren. Deswegen ist auch immer von knapp 750 Personen die Rede und die waren überall: Unten, oben auf dem Deck, seit Tagen unterwegs, ohne Nahrung, ohne Wasser. Da kann man sich vorstellen, wie die Stimmung auf dem Schiff war.

      WDR: Das heißt, man muss davon ausgehen, dass das Unglück zu hunderten Toten geführt hat. Was geschieht jetzt mit den Menschen, die gerettet wurden - auch mit denen, mit denen Sie gesprochen haben?

      Esmaili: Wir sind jetzt in Malakasa in der Nähe von Athen und dort sind 71 Personen untergebracht, die kommen ganz normal ins Asylverfahren. Knapp 30 Personen sind noch in Kalamata im Krankenhaus, die werden behandelt und dann kommen sie vermutlich auch ins ganz normale Asylverfahren.

      WDR: Ganz normale Asylverfahren nach dem, was sie erlebt haben, das ist sicherlich auch eine schwierige Situation. Wurde die Suche nach Überlebenden denn inzwischen eingestellt?

      Esmaili: Das kann ich so nicht bestätigen. Wir haben gestern Abend noch gehört, dass noch weiter gesucht wird, aber natürlich kann man nach so vielen Tagen und bei so vielen Menschen davon ausgehen, dass man kaum noch Überlebende aus dem Meer retten kann. Rund 100 Kinder sollen auch mit an Bord gewesen sein.

      https://www1.wdr.de/nachrichten/bootsunglueck-mittelmeer-interview-bamdad-esmaili-100.html

    • Frontex statement following tragic shipwreck off Pylos

      We are shocked and saddened by the tragic events that unfolded off the coast of Greece. The Frontex Executive Director, who travelled to Greece after learning about the tragedy, has offered any support the authorities may need.

      People smugglers have once again trifled with human lives by forcing several hundred migrants on a fishing boat not designed to fit such a number of people. Many were trapped underneath the deck. Our thoughts go out to the families of the victims.

      On 13 June before noon, a Frontex plane spotted the fishing vessel inside the Greek search and rescue region in international waters. The ship was heavily overcrowded and was navigating at slow speed (6 knots) direction north-east.

      Frontex immediately informed the Greek and Italian authorities about the sighting, providing them with information about the condition of the vessel, speed and photos.

      The plane kept monitoring the vessel, constantly providing updates to all relevant national authorities until it ran out of fuel and had to return to base.

      As a Frontex drone was to patrol the Aegean on the same day, the agency offered to provide additional assistance ahead of the planned and scheduled flight. The Greek authorities asked the agency to send the drone to another search and rescue incident south off Crete with 80 people in danger.

      The drone, after attending to the incident south off Crete, flew to the last known position of the fishing vessel. The drone arrived at the scene four hours later at 04:05 (UTC) in the morning, when a large-scale search and rescue operation by Greek authorities was ongoing and there was no sign of the fishing boat. No Frontex plane or boat was present at the time of the tragedy.

      https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-statement-following-tragic-shipwreck-off-pylos-dJ5l9p

      –-
      Commentaire de Lena K. sur twitter :

      This might be important. According to Frontex, they offered a drone to fly over the location of the Pylos shipwreck in the evening of 13th, but the Greek authorities decided to send it to another distress incident south of Crete. Convenient (for both).

      https://twitter.com/lk2015r/status/1670143075040088068

    • Naufrage en Grèce : le bateau dérivait, contrairement à la version des garde-côtes

      Que s’est-il passé dans les heures précédant le terrible naufrage au large du Péloponnèse ? Les garde-côtes grecs affirment que le chalutier bondé faisait route vers l’Italie à une vitesse régulière et n’avait pas besoin d’être secouru. Une enquête de la BBC affirme le contraire : le chalutier était à l’arrêt et nécessitait une aide urgente.

      Version contre version. Depuis le terrible naufrage du mercredi 13 juin au large de la Grèce, qui a coûté la vie à au moins 500 personnes (https://www.infomigrants.net/fr/post/49759/au-moins-200-pakistanais-parmi-les-victimes-du-naufrage-en-grece), les autorités grecques campent sur leurs positions : le chalutier, qui comptait au moins 700 exilés à bord, n’était pas en danger imminent. Du moins, pas dans les heures précédant le naufrage.

      Selon le communiqué officiel du Premier ministre grec (https://www.primeminister.gr/2023/06/14/32002), Kyriakos Mitsotakis, le bateau, parti de Tobrouk en Libye, naviguait en direction de l’Italie. « À 15h35, le navire de pêche a été repéré par l’hélicoptère de la Garde côtière [grecque] naviguant à vitesse régulière », peut-on lire sur le communiqué. Il avait été repéré pour la première fois vers 11h du matin, et depuis, les autorités grecques le surveillait à distance. Pourquoi ne pas le secourir immédiatement ? Parce qu’il ne semblait pas en difficulté, se défendent les Grecs. « Le navire navigu[ait] avec un cap et une vitesse constantes », écrivent-ils dans leur rapport.

      Cette ligne de défense sera la même tout au long de la journée. À partir de 15h30 jusqu’à 21h, les autorités helléniques affirment avoir été à de nombreuses reprises en communication avec le bateau via téléphone satellite. À chaque fois, les garde-côtes notent que le chalutier navigue à vitesse régulière. Et que les exilés ne réclament aucune aide. « Les migrants criaient : ’Pas d’aide, on va en Italie’ », expliquait déjà vendredi 16 juin le porte-parole des garde-côtes grecs, Nikos Alexiou.

      Dans un autre communiqué publié le 19 juin (https://www.hcg.gr/el/drasthriothtes/dieykriniseis-anaforika-me-eyreia-epixeirhsh-ereynas-kai-diaswshs-allodapwn-se-d), Athènes maintient sa position et affirme que le bateau a parcouru une distance de 24 nautiques marins - soit 44 km - depuis le moment où il a été repéré jusqu’à son naufrage.

      « Le navire ne bouge pas »

      Seulement, l’enquête menée par la BBC (https://www.bbc.com/news/world-europe-65942426) contredit la version grecque. Grâce aux coordonnées GPS des autres navires présents dans la zone méditerranéenne, la BBC est arrivée à la conclusion que le bateau n’a pas bougé entre 18h et 21h, mardi 13 juin. Un premier chalutier – le Lucky sailor – s’en est approché, sur ordre des garde-côtes grecs, à 18h pour lui fournir des vivres et de l’eau. Trois heures plus tard, c’est au même point de coordonnées maritimes qu’un second navire – le Faithfull Warrior - s’est rendu pour un autre ravitaillement.

      Et la BBC de continuer. « Une vidéo – qui aurait été tournée depuis le Faithful Warrior – prétend montrer des vivres livrés au navire via une corde dans l’eau. La BBC a vérifié ces images et a découvert que le navire - qui ne bouge pas – correspond à la forme du navire de migrants en détresse. Les conditions météorologiques correspondent à celles signalées à l’époque. »

      Pourtant, dans le dernier communiqué du 19 juin, les Grecs ne parlent pas d’immobilisation du navire. « Dans la soirée, le navire de patrouille côtière [...] est arrivé dans la région et a repéré [le chalutier] se déplaçant par ses propres moyens, à faible vitesse », maintiennent-ils.

      Et d’insister. Lors des deux ravitaillements, le navire a dans un premier temps poursuivi sa route avant de finalement s’arrêter. « Une fois le processus [de ravitaillement] terminé, les occupants du bateau ont commencé à jeter les fournitures à la mer », notent-ils encore dans leur document.

      « Navire secoué par le vent et les vagues »

      Enfin, à 22h40, les garde-côtes affirment s’être approché du chalutier tout en restant « à distance ». Là encore, ils ne détectent aucun problème de navigation. Et proposent de l’aide au navire en difficulté. « [Le chalutier] s’est de nouveau arrêté quelques minutes à l’approche [de la garde-côtière] puis a continué son chemin ».

      Entre le dernier ravitaillement et l’immobilisation du chalutier - à cause d’une panne mécanique -, une distance d’environ 6 mille nautiques (11 km) a été parcouru. À aucun moment, selon Athènes, le navire n’a donc été immobile.

      À l’échelle de la Méditerranée, ces dizaines de mille nautiques parcourus par le chalutier ne signifie pas qu’il naviguait de plein gré, insiste la BBC. Mais plutôt qu’il se déplaçait à peine « ce que l’on peut attendre d’un navire en détresse secoué par le vent et les vagues dans la partie la plus profonde de la mer Méditerranée », explique la BBC. Selon le média, les garde-côtes auraient donc dû procéder au sauvetage.

      Vers 2h du matin, dans la nuit du mardi à mercredi, le bateau fera naufrage. Le bilan provisoire fait toujours état de 78 morts, et des centaines de disparus.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/49764/naufrage-en-grece--le-bateau-derivait-contrairement-a-la-version-des-g

    • Il video di Frontex e quel barcone stracarico in balia del mare

      Nel video di Frontex il barcone stracarico di migranti in navigazione tra la Libia, da dove era partito quattro giorni prima, e l’Europa. Le immagini sono state registrate il 13 giugno alle ore 9.48 Utc. Il naufragio è avvenuto la notte tra il 13 e il 14 giugno.

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=Drz5OVIkWi0&embeds_referring_origin=https%3A%2F%2Fw

      Salgono a 80 le vittime accertate del tragico naufragio avvenuto a sud del Peloponneso, in Grecia, la settimana scorsa. I soccorsi hanno recuperato i corpi di altri due uomini a largo di Pylos. Le persone tratte in salvo sono ancora 104, mentre mancano all’appello almeno 600 persone, tra cui 100 bambini che al momento del naufragio si trovavano nella stiva. I corpi sono stati trasportati nel porto di Kalamata. Proseguono intanto le ricerche della Guardia costiera.

      Il racconto di un sopravvissuto

      «La Guardia costiera greca ci ha detto che ci avrebbe portato in acque italiane, che ci stavano spingendo. Era una nave da guerra. Poi la nostra barca si è ribaltata. Sono finito in mare, urlavo, non hanno fatto nulla per salvarci. Ho cercato di rimanere a galla per mezz’ora poi quando sono arrivate le barche della Guardia costiera mi sono allontanato perchè avevo paura. Ho visto la luce di una nave commerciale in lontananza e l’ho raggiunta». E’ la testimonianza-choc che sta circolando in queste ore su twitter. Si Tratta di un sopravvissuto siriano che racconta cosa è successo quella notte, fra martedì e mercoledì di una settimana fa, quando il barcone, partito dalla Libia, si è inabissando portandosi dietro almeno 600 persone (fra cui 100 bambini).

      La ricostruzione della Guardia costiera greca
      «In totale, il peschereccio ha percorso una distanza di circa 30 miglia nautiche dal momento del rilevamento al momento dell’affondamento» ha dichiarato la Guardia costiera greca in un comunicato. «Il chiarimento», precisa la nota, arriva a seguito delle «pubblicazioni della stampa internazionale e nazionale» secondo cui il peschereccio sovraffollato non si è mosso per almeno 7 ore prima di capovolgersi. «Nelle ore pomeridiane» di martedì 13 giugno, l’imbarcazione dei migranti «è stata avvicinata da una nave cisterna per fornire assistenza», continua il comunicato della Guardia costiera costiera sul naufragio del peschereccio a largo di Pylos. Nel testo si specifica nuovamente che i migranti a bordo avevano fatto resistenza e che poi il peschereccio si è fermato ed «è iniziato il rifornimento di viveri». Dalle ricostruzioni delle autorità elleniche si legge anche che una seconda nave cisterna si è impegnata ad avvicinarsi all’imbarcazione dei migranti per fornire provviste, ma il peschereccio avrebbe fatto resistenza e si sarebbe spostato verso ovest. Alla fine, la nave cisterna ha iniziato la procedura di rifornimento ma al termine di questa i migranti «hanno iniziato a gettare le provviste in mare». «L’intero processo di rifornimento di provviste agli occupanti del peschereccio da parte delle due navi commerciali è durato in totale più di quattro ore e trenta minuti», aggiunge la Guardia costiera, specificando che «nelle ore serali» è arrivata nella zona una loro motovedetta e «ha avvistato il peschereccio che si muoveva autonomamente, a bassa velocità». Secondo la ricostruzione delle autorità elleniche, la motovedetta «ha avviato una procedura di avvicinamento all’imbarcazione per accertarsi delle condizioni attuali del natante e dei suoi occupanti», mentre «la nave si è fermata di nuovo per alcuni minuti durante l’avvicinamento da parte della motovedetta e poi ha continuato la sua rotta».
      «Dal momento in cui è stato completato il processo di rifornimento fino all’immobilizzazione del peschereccio a causa di un guasto meccanico, il peschereccio ha percorso una distanza di circa 6 miglia nautiche» conclude la Guardia costiera greca.

      Islamabad: 300 cittadini pachistani annegati a Pylos
      Più di 300 pachistani sono annegati nel naufragio del peschereccio al largo delle coste greche del Peloponneso: il numero delle vittime è stato reso noto dal presidente del Senato di Islamabad Muhammad Sadiq Sanjrani inviando le condoglianze alle famiglie. Lo scrive la Cnn. «I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con voi e preghiamo che le anime defunte trovino la pace eterna», ha detto Sanjrani. «Questo devastante incidente sottolinea l’urgenza di affrontare e condannare l’esecrabile traffico illegale di esseri umani». Le autorità greche non hanno ancora confermato il bilancio delle vittime pakistane.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/naufragio-in-grecia-la-versione-dei-greci

    • A survivor of #Pylos shipwreck shared harrowing details:

      ➡️Two people died from thirst and hunger on the 4th and 5th days of the journey
      ➡️On the 4th day, people started drinking from the boat engine’s water. On the 5th day, a state of “slow death” was announced

      ➡️On 16 June, they started calling for any coastguard as they didn’t know they were in the Greek waters.
      ➡️A luxury yacht provided 4 boxes of water for almost 750 people & this created tension between people due to thirst.

      ➡️A giant Greek ship threw ropes to people & towed the boat. Then, they started throwing water bottles at them leading to an imbalance in the boat
      ➡️The boat started sinking. We started to beg to be rescued and showed them the dead bodies but the ship wasn’t qualified for rescue

      ➡️Around sunset, a Greek military ship with masked people wearing black approached, towed them with only one blue robe & increased their ship’s speed
      ➡️That was when the ship capsized. People started shouting as they sink. People on the Greek military ship were just watching
      Full testimony here:
      https://www.youtube.com/watch?v=IOzLIXa1cQ8

      https://twitter.com/ecre/status/1670739249417560064

    • I superstiti del naufragio di Pylos accusano la Guardia costiera greca

      Nella notte tra il 13 e il 14 giugno le autorità greche avrebbero tentato di trainare il peschereccio partito dalla Libia con a bordo oltre 700 persone, provocandone l’inabissamento. Le testimonianze dei sopravvissuti, confinati subito dopo aver toccato terra, smontano la versione di Atene. Le vittime sarebbero almeno 643

      Secondo diverse testimonianze dei sopravvissuti il peschereccio con oltre 700 persone a bordo è affondato al largo delle coste greche, nelle prime ore di mercoledì 21 giugno, durante un tentativo fallito di rimorchio da parte della Guardia costiera greca. L’accusa è contenuta nelle dichiarazioni rilasciate da alcuni naufraghi all’autorità giudiziaria di Kalamata, città meridionale greca –visionate dall’Ap news (https://apnews.com/article/greece-migrant-shipwreck-smugglers-9daf86915e8bd89a1697dd1ee75504ac) e dal quotidiano ellenico Kathimerini- che smentiscono la versione delle autorità greche secondo cui la barca non sarebbe stata scortata nelle sue ultime ore di navigazione e non ci sarebbe stato alcun tentativo di abbordarla.

      “La nave greca ha gettato una corda ed è stata legata alla nostra prua -ha spiegato Abdul Rahman Alhaz, 24 anni, palestinese che è riuscito a salvarsi-. Dopo hanno iniziato a muoversi e a tirare, per poco più di due minuti. Noi gridavamo ‘Stop, stop’ perché la barca era sovraccarica. Poi ha cominciato a inclinarsi”.

      L’inabissamento del peschereccio partito dalla Libia avrebbe provocato almeno 643 vittime, secondo quanto è stato possibile ricostruire dalle testimonianze dei 104 sopravvissuti. Sarebbero 100 i bambini, sempre secondo i racconti di chi si è salvato dal naufragio, che con le donne erano stipati nella stiva della nave. Sulle dinamiche dell’incidente, però, fin da subito erano emersi versioni contrastanti.

      Un’inchiesta realizzata dalla BBC (https://www.bbc.com/news/world-europe-65942426) mostra che il peschereccio sovraffollato non si è mosso per almeno sette ore prima di capovolgersi mentre la guardia costiera, invece, nel comunicato stampa rilasciato successivamente al naufragio sottolinea che dalle 15.30 all’1.40 la navigazione è proseguita a “velocità e rotta costante”. La versione della BBC si basa sui dati di Marin traffic, che traccia i movimenti delle imbarcazioni nel Mediterraneo, e che confermerebbe che le navi inviate dalle autorità greche per fornire supporto all’imbarcazione carica di naufraghi siano intervenute tutte nella stessa zona e che quindi la nave avrebbe percorso “meno di poche miglia nautiche, come ci si può aspettare da una nave colpita dal vento o dalle onde nella parte più profonda del Mar Mediterraneo”. Inoltre, sempre secondo la testata inglese, la foto dell’imbarcazione pubblicata dai guardacoste ellenici giovedì 15 giugno, riferita a poche ore prima del capovolgimento, dimostra che la nave era ferma e soprattutto smentisce la versione secondo cui le stesse autorità “avevano osservato da una distanza discreta il susseguirsi dei fatti”.

      “Abbiamo lanciato una richiesta di soccorso il giorno prima del naufragio verso le 8 del mattino -ha raccontato un sopravvissuto alla Ong Consolidated rescue group- (https://www.youtube.com/watch?v=IOzLIXa1cQ8

      ). Non sapevamo neanche che fossimo in Grecia”. Alle 9.47 del mattino Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere europee, ha comunicato alle autorità italiane e greche la presenza di un peschereccio sovraffollato e la Centrale operativa di Roma intorno alle 11 ha comunicato la posizione della nave, nel Sud del Peloponneso, al centro operativo di Atene. Alle 13.50 da Mitilini si è alzato un elicottero della Guardia costiera greca diretto verso il peschereccio, raggiunto verso le 15.35. Le stesse autorità greche, intanto, stavano chiedendo alle imbarcazioni che navigavano nell’area di cambiare rotta. “Una barca ci ha rifornito di quattro boxes d’acqua da sei bottiglie l’una: le persone si colpivano per prenderla -continua il sopravvissuto-. Questa nave ci ha lanciato una corda per avvicinarci ma ci ha detto che non era loro compito salvarci e che presto sarebbe arrivata la Guardia costiera”. La situazione a bordo era tesa, racconta sempre l’uomo intervistato dal Consolidated rescue group, al quarto giorno di navigazione non c’era né acqua né cibo, due persone erano morte e giacevano sul vascello: al quinto giorno, quello precedente al naufragio, qualcuno beveva dal motore perché l’acqua era finita. Ma anche nel racconto dell’uomo quello che succede al calar del sole di martedì scorso, dopo l’intervento delle navi civili, ripercorre le testimonianze di decine di altri naufraghi. “La Guardia costiera, una volta arrivata, ci ha detto di seguirli così l’Italia ci avrebbe salvato. Lo abbiamo fatto per mezz’ora, poi il motore si è rotto. Erano vestiti di nero e mascherati, senza segni militari. Ci hanno tirati con una corta e poi sono ripartiti, la nave ha perso stabilità e poco dopo è affondata”.

      Da Atene le autorità hanno dichiarato che i naufraghi hanno più volte rifiutato il loro intervento perché volevano proseguire verso l’Italia. Diverse testimonianze dei naufraghi smentiscono questa versione. Nawal Soufi, attivista rifugiata indipendente che quel giorno ha lanciato per prima l’Sos per la barca in avaria, ha dichiarato di essere stata in contatto con le persone sulla barca fino alle 23 di martedì. “L’uomo con cui stavo parlando mi ha detto espressamente: ‘Sento che questa sarà la nostra ultima notte viva’”, ha scritto. Poco prima di mezzanotte il motore si è spento.

      El Pais (https://english.elpais.com/international/2023-06-20/greece-imposes-silence-around-shipwreck-of-overcrowded-migrant-boat.) ha accusato le autorità greche di “imporre il silenzio” ai sopravvissuti al naufragio. Durante la loro permanenza nel porto di Kalamata, i 104 naufraghi avevano infatti mobilità limitata e scarso accesso alle comunicazioni: la Guardia costiera, secondo quanto ricostruito dal quotidiano spagnolo, li avrebbe confinati all’interno di un complesso recintato da cui non è stato permesso loro di uscire. Successivamente, venerdì 16 giugno, sono stati trasferiti a Malakasa, un campo per richiedenti asilo vicino ad Atene. Ma anche in questa nuova sistemazione la possibilità di uscire e avere contatti con l’esterno è risultata limitata

      Intanto martedì 20 giugno il tribunale di Kalamata ha convalidato l’arresto di nove uomini di origine egiziana accusati di essere i membri dell’equipaggio: omicidio colposo, naufragio e partecipazione a un’organizzazione criminale sono i capi d’accusa. L’avvocato Athanassios Iliopoulos, che rappresenta un presunto trafficante di 22 anni, ha dichiarato all’Associated Press che tutti e nove i sospettati hanno negato le accuse in tribunale affermando di essere essi stessi naufraghi. Iliopoulos ha detto che il suo cliente ha riferito di aver venduto il suo camion preso in prestito dai suoi genitori per raccogliere 4.500 euro per il viaggio. Anche in Pakistan, dove è stato proclamato il lutto nazionale per le vittime del naufragio, l’ufficio del primo ministro Shehbaz Sharif ha annunciato che sono state arrestate dieci persone accusate di far parte dell’organizzazione. “Intensificheremo gli sforzi nella lotta contro le persone coinvolte nell’atroce crimine della tratta di esseri umani”, ha dichiarato il capo del governo. Per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “è urgente agire”, sottolineando che l’Ue dovrebbe aiutare i Paesi africani come la Tunisia, da cui molte persone partono, a stabilizzare le loro economie. Non ha in questo caso menzionato la Libia, luogo da cui il peschereccio del naufragio è partito.

      La Grecia è stata più volte accusata di violare sui propri confini le norme sul salvataggio in mare e i diritti delle persone in transito. A maggio 2023 un’inchiesta del New York Times ha mostrato, con tanto di video ad alta definizione, le autorità greche riportare indietro verso le coste turche decine di profughi già arrivati sul territorio, tra cui anche bambini, lasciando alla deriva l’imbarcazione. Altro che attività di search and rescue. Il portale di inchiesta Solomon (https://wearesolomon.com/mag/focus-area/migration/just-007-of-819m-border-budget-to-greece-earmarked-for-search-and-resc) ha ricostruito come degli 819 milioni di euro forniti ad Atene all’interno del “Fondo di gestione delle frontiere europee” appena lo 0,07% (neanche 600mila euro) sarà destinato allo sviluppo delle attività di ricerca e soccorso in mare. La maggior parte del denaro riguarda invece l’approvvigionamento di attrezzature di deterrenza come droni, veicoli di ogni tipo, termocamere, elicotteri e sistemi di sorveglianza automatizzati. Tutto ciò che non è servito per salvare 640 persone.

      https://altreconomia.it/i-superstiti-del-naufragio-di-pylos-accusano-la-guardia-costiera-greca

    • Greece shipwreck survivors were ’abandoned for 10 minutes’

      Survivors of the June 14 shipwreck off Greece have made serious accusations against the country’s Coast Guard in witness statements.

      Statements gathered from some of the 104 survivors of a recent shipwreck off Greece contain serious accusations against the Greek Coast Guard.

      Search operations for more corpses continue after the fishing vessel, which is believed to have been carrying up to 800 migrants, capsized last week south of Greece’s Peloponnese.
      Survivors blame Greek Coast Guard

      “When the ship capsized, the Coast Guard cut the rope and continued on its way. It went farther away as we were all screaming. After 10 minutes, they came back with small boats to pick up people but they did not go as far as the ship itself. They only picked up those who managed to swim away,” one survivor told the Greek newspaper Kathimerini, recounting the last minutes of shipwreck that left at least 82 dead and hundreds missing.

      Surviving witnesses have been questioned by the Kalamata port authority.

      Every person interviewed confirmed — with slight variations in their reconstructions — that the shipwreck had been caused by a Greek Coast Guard patrol boat.

      One of the survivors said the Coast Guard’s attempt to tow the overcrowded fishing vessel created turbulence in the water that eventually caused the ship to capsize.

      “They tried to pull it using force for two or three minutes and everyone whistled to try to make them stop, since they were pulling it strongly and creating waves,” one said.

      Another added that, “for the first few minutes we went forward, but then the Coast Guard turned to the right and the ship overturned.”
      Polemics inflame political conflict prior to vote

      These witness statements run counter to the Coast Guard’s official version. Captains aboard the patrol boat say they only hooked up to the vessel for a few minutes to check the situation onboard before the ship wrecked.

      The situation has inflamed political conflict ahead of Greece’s government elections, which will be held Sunday.

      https://www.infomigrants.net/en/post/49846/greece-shipwreck-survivors-were-abandoned-for-10-minutes

    • They knew the boat could sink. Boarding it didn’t feel like a choice.

      The story of how as many as 750 migrants came to board a rickety blue fishing trawler and end up in one of the Mediterranean’s deadliest shipwrecks is bigger than any one of the victims. But for everyone, it started somewhere, and for #Thaer_Khalid_al-Rahal it started with cancer.

      The leukemia diagnosis for his youngest son, 4-year-old Khalid, came early last year. The family had been living in a Jordanian refugee camp for a decade, waiting for official resettlement after fleeing Syria’s bitter war, and doctors said the United Nations’ refugee agency could help cover treatment costs. But agency funds dwindled and the child’s case worsened. When doctors said Khalid needed a bone-marrow transplant, the father confided in relatives that waiting to relocate through official channels was no longer an option. He needed to get to Europe to earn money and save his son.

      “Thaer thought he didn’t have a choice,” said his cousin, Abdulrahman Yousif al-Rahal, reached by phone in the Jordanian refugee camp of Zaatari.

      In Egypt, the journey for #Mohamed_Abdelnasser, 27, started with a creeping realization that his carpentry work could not earn enough to support his wife and two sons.

      For #Matloob_Hussain, 42, it began the day his Greek residency renewal was rejected, sending him back to Pakistan, where his salary helped put food on the table for 20 extended family members amid a crippling economic crisis.

      “Europe doesn’t understand,” said his brother Adiil Hussain, interviewed in Greece where they had lived together. “We don’t leave because we want to. There is simply nothing for us in Pakistan.”

      On Matloob’s earlier journey to Europe, he had been so scared of the water that he kept his eyes closed the whole time. This time, the smugglers promised him they would take him to Italy. They said they would use “a good boat.”

      The trawler left from the Libyan port city of #Tobruk on June 8. Just 104 survivors have reached the Greek mainland. Eighty-two bodies have been recovered, and hundreds more have been swallowed by the sea.

      As the Mediterranean became a stage for tragedy on June 14, a billionaire and several businessmen were preparing for their own voyage in the North Atlantic. The disappearance of their submersible as it dove toward the wreckage of the Titanic sparked a no-expenses-spared search-and-rescue mission and rolling headlines. The ship packed with refugees and migrants did not.

      About half the passengers are believed to have been from Pakistan. The country’s interior minister said Friday that an estimated 350 Pakistanis were on board, and that many may have died. Of the survivors from the boat, 47 are Syrian, 43 Egyptian, 12 Pakistani and two Palestinian.

      Some of the people on the trawler were escaping war. Many were family breadwinners, putting their own lives on the line to help others back home. Some were children. A list of the missing from two towns in the Nile Delta carries 43 names. Almost half of them are under 18 years old.

      This account of what pushed them to risk a notoriously dangerous crossing is based on interviews with survivors in Greece and relatives of the dead in Pakistan, Jordan and Egypt, as the news sent ripples of distress throughout communities from North Africa to South Asia. Some people spoke on the condition of anonymity, because they feared being drawn into government crackdowns on human smuggling networks.

      Rahal’s family said they do not know how he contacted the smugglers in Libya, but remember watching as he creased under the fatigue and shame of having to ask anyone he could for the thousands of dollars they were requesting for safe passage to Italy.

      Thirteen men left from El Na’amna village, south of the Egyptian capital, Cairo, in the hope of achieving the same. Ten miles away in Ibrash, another village, Abdelnasser left the house as he usually did for his 2 a.m. factory shift but joined a packed car to Libya instead, along with 29 other young men and boys. “He told us nothing,” said his father, Amr. “We would have stopped him.”

      Many of the families said the departures caught them by surprise and that local intermediaries working for the smugglers later communicated with relatives in Egypt to gather the requested funds.

      In El Na’amna, several people said the figure was $4,500 per person — a sum impossibly high for most rural Egyptians. In Ibrash, Abdelnasser’s uncle said, two of the delegates who arrived to collect the money were disguised in women’s dress. Another woman did the talking. She collected the money, photographed receipts, and then told the family that the deal was done.

      ‘He said the boat was very bad’

      The time spent waiting in Libya was harder than the migrants expected, said family members who spoke with them throughout that period. The port city of Tobruk had become a transit hub for people, and the migrants reported that the smugglers treated them like goods to be traded. The lucky ones rented cramped apartments where they could wait near the bright blue sea.

      Travelers who had arranged to meet their intermediaries in the city of Benghazi were transported in large refrigerator trucks to the desert. One survivor described a house there “with a big yard and big walls and people at the door with guns.” It was so busy that people slept in the yard outside. Inside, a 24-year-old Pakistani migrant, Bilal Hassan, tried to lighten the mood by reciting Punjabi poetry. He is smiling in the video he sent his family, but other men in the room look tense.

      Some migrants told their families they were getting anxious and didn’t trust their smugglers. Others sent brief messages to reassure and say that they were fine.

      Rahal spoke to his wife, Nermin, every day. A month passed with no news of onward passage and his mood darkened. He worried about Khalid. In Jordan, the boy kept asking when he would see his father again. “I don’t know,” Rahal texted in reply. When one smuggler’s offer fell through, he found another who promised to get the job done faster. In voice messages to his cousin, he sounded tired.

      “I’ll manage to get the money,” he said.

      His last call to his wife was June 8. Men from the smuggling network were yelling at the migrants to pack together as closely as possible in rubber dinghies that would take them to the trawler. Up ahead, the blue fishing boat looked like it was already full.

      Matloob Hussein, the Pakistani who had lived in Greece, called his brother from the trawler. “He said the boat was very bad,” Adiil recounted. “He said they had loaded people on the boat like cattle. He said he was below deck and that he preferred it so he didn’t have to see that he was surrounded by water.”

      When Adiil asked why his brother hadn’t refused to board, Matloob said the smugglers had guns and knives. As the boat pulled out of Tobruk’s concrete port, he told Adiil he was turning his phone off — he did not expect to have a signal again until they arrived.

      After the calls to loved ones stopped, from the foothills of Kashmir to the villages of the Nile Delta, families held their breath.

      It felt, said one relative, like a film that had just stopped halfway through.

      In hometowns and villages, waiting for news

      News of the blue trawler’s capsize trickled out on the morning of June 14. The coast guard’s initial report said that at least 17 people had drowned while noting that more than 100 had been saved. On the Greek mainland, relatives waited for updates in the baking sun outside a migrant reception center. Back in hometowns and villages, some people kept their cellphones plugged into the power sockets so they did not risk missing a call.

      The residents of El Na’amna and Ibrash didn’t know what to do. Police arrested a local smuggler but provided no updates on the whereabouts of the missing. Rumors swirled that most were dead. The mother of 23-year-old Amr Elsayed described a grief so full that she felt as if she were burning.

      A Pakistani community leader in Greece, Javed Aslam, said he was in direct contact with more than 200 families asking for news. Accounts from survivors suggested that almost all the Pakistani passengers, along with many women and children, had been stuck on the lower levels of the boat as it went down.

      Adiil came looking for his brother. He was turned away from the hospital where survivors had been treated, but left his details anyway. Outside the Malakasa reception center, where the survivors were staying, 15 miles north of Athens, several Pakistanis seemed to know Matloob as “the man in the yellow T-shirt.” No one had seen him since the wreck.

      Perhaps it was crazy, Adiil said Thursday, but somehow he still had hope. He had registered his DNA with the local authorities and he had spoken to other families there every day. Now he didn’t know what to do with himself. His eyes were red from crying. He carried creased photographs of his brother in his pocket.

      In one image, Matloob is standing with his dark-eyed daughter, 10-year-old Arfa. Adiil had told the girl that her father was in the hospital, but that fiction was weighing more on him by the day as she kept asking why they couldn’t speak.

      Khalid had been asking for his father, too, but no one knew how to make a 4-year-old understand something they barely understood themselves.

      Nermin, relatives said, was “in bad shape.” She had a funeral to organize without a body. But first she had to take Khalid to the hospital for his biopsy, to learn how far the cancer had spread.

      https://www.washingtonpost.com/world/2023/06/24/greek-migrant-boat-victims

    • ‘If they had left us be, we wouldn’t have drowned:’ CNN investigation raises questions about Greek coast guard’s account of shipwreck tragedy

      The hull of the fishing trawler lifted out of the water as it sank, catapulting people from the top deck into the black sea below. In the darkness, they grabbed onto whatever they could to stay afloat, pushing each other underwater in a frantic fight for survival. Some were screaming, many began to recite their final prayers.

      “I can still hear the voice of a woman calling out for help,” one survivor of the migrant boat disaster off the coast of Greece told CNN. “You’d swim and move floating bodies out of your way.”

      With hundreds of people still missing after the overloaded vessel capsized in the Mediterranean on June 14, the testimonies of those who were onboard paint a picture of chaos and desperation. They also call into question the Greek coast guard’s version of events, suggesting more lives could have been saved, and may even point to fault on the part of Greek authorities.

      Rights groups allege the tragedy is both further evidence and a result of a new pattern in illegal pushbacks of migrant boats to other nations’ waters, with deadly consequences.

      This boat was carrying up to 750 Pakistani, Syrian, Egyptian and Palestinian refugees and migrants. Only 104 people have been rescued alive.

      CNN has interviewed multiple survivors of the shipwreck and their relatives, all of whom have wished to remain anonymous for security reasons and the fear of retribution from authorities in both Greece and at home.

      One survivor from Syria, whom CNN is identifying as Rami, described how a Greek coast guard vessel approached the trawler multiple times to try to attach a rope to tow the ship, with disastrous results.

      “The third time they towed us, the boat swayed to the right and everyone was screaming, people began falling into the sea, and the boat capsized and no one saw anyone anymore,” he said. “Brothers were separated, cousins were separated.”

      Another Syrian man, identified as Mostafa, also believes it was the maneuver by the coast guard that caused the disaster. “The Greek captain pulled us too fast, it was extremely fast, this caused our boat to sink,” he said.

      The Hellenic Coast Guard has repeatedly denied attempting to tow the vessel. An official investigation into the cause of the tragedy is still ongoing.

      Coast guard spokesman Nikos Alexiou told CNN over the phone last week: “When the boat capsized, we were not even next to (the) boat. How could we be towing it?” Instead, he insisted they had only been “observing at a close distance” and that “a shift in weight probably caused by panic” had caused the boat to tip.

      The Hellenic Coast Guard has declined to answer CNN’s specific requests for response to the survivor testimonies.

      Direct accounts from those who survived the wreck have been limited, due to their concerns about speaking out and the media having little access to the survivors. CNN interviewed Rami and Mostafa outside the Malakasa migrant camp near Athens, where journalists are not permitted entry.

      The Syrian men said the conditions on board the migrant boat deteriorated fast in the more than five days after it set off from Tobruk, Libya, in route to Italy. They had run out of water and had resorted to drinking from storage bottles that people had urinated in.

      “People were dying. People were fainting. We used a rope to dip clothes into the sea and use that to squeeze water on people who had lost consciousness,” Rami said.

      CNN’s analysis of marine traffic data, combined with information from NGOs, merchant vessels and the European Union border patrol agency, Frontex, suggests that Greek authorities were aware of the distressed vessel for at least 13 hours before it eventually sank early on June 14.

      The Greek coast guard has maintained that people onboard the trawler had refused rescue and insisted they wanted to continue their journey to Italy. But survivors, relatives and activists say they had asked for help multiple times.

      Earlier in the day, other ships tried to help the trawler. Directed by the Greek coast guard, two merchant vessels – Lucky Sailor and Faithful Warrior – approached the boat between 6 and 9 p.m. on June 13 to offer supplies, according to marine traffic data and the logs of those ships. But according to survivors this only caused more havoc onboard.

      “Fights broke out over food and water, people were screaming and shouting,” Mostafa said. “If it wasn’t for people trying to calm the situation down, the boat was on the verge of sinking several times.”

      By early evening, six people had already died onboard, according to an audio recording reviewed by CNN from Italian activist Nawal Soufi, who took a distress call from the migrant boat at around 7 p.m. Soufi’s communication with the vessel also corroborated Mostafa’s account that people moved from one side of the boat to the other after water bottles were passed from the cargo ships, causing it to sway dangerously.

      The haunting final words sent from the migrant boat came just minutes before it capsized. According to a timeline published by NGO Alarm Phone they received a call, at around 1:45 a.m., with the words “Hello my friend… The ship you send is…” Then the call cuts out.

      The coast guard says the vessel began to sink at around 2 a.m.

      The next known activity in the area, according to marine traffic data, was the arrival of a cluster of vessels starting around 3 a.m. The Mayan Queen superyacht was the first on the scene for what soon became a mass rescue operation.

      A responsibility to rescue

      Human rights groups say the authorities had a duty to act to save lives, regardless of what people on board were saying to the coast guard before the migrant boat capsized.

      “The boat was overcrowded, was unseaworthy and should have been rescued and people taken to safety, that’s quite clear,” UNHCR Special Envoy for the Central Mediterranean Vincent Cochetel told CNN in an interview. “There was a responsibility for the Greek authorities to coordinate a rescue to bring those people safely to land.”

      Cochetel also pointed to a growing trend by countries, including Greece, to assist migrant boats in leaving their waters. “That’s a practice we’ve seen in recent months. Some coastal states provide food, provide water, sometimes life jackets, sometimes even fuel to allow such boats to continue to only one destination: Italy. And that’s not fair, Italy cannot cope with that responsibility alone.”

      Survivors who say the coast guard tried to tow their boat say they don’t know what the aim was.

      There have been multiple documented examples in recent years of Greek patrol boats engaging in so-called “pushbacks” of migrant vessels from Greek waters in recent years, including in a CNN investigation in 2020.

      “It looks like what the Greeks have been doing since March 2020 as a matter of policy, which is pushbacks and trying to tow a boat to another country’s water in order to avoid the legal responsibility to rescue,” Omer Shatz, legal director of NGO Front-LEX, told CNN. “Because rescue means disembarkation and disembarkation means processing of asylum requests.”

      Pushbacks are state measures aimed at forcing refugees and migrants out of their territory, while impeding access to legal and procedural frameworks, according to the Berlin-based European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR). They are a violation of international law, as well as European regulations.

      And such measures do not appear to have deterred human traffickers whose businesses prey on vulnerable and desperate migrants.

      In an interview with CNN last month, then Greek Prime Minister Kyriakos Mitsotakis denied that his country engaged in intentional pushbacks and described them as a “completely unacceptable practice.” Mitsotakis is widely expected to win a second term in office in Sunday’s election, after failing to get an outright majority in a vote last month.

      A series of Greek governments have been criticized for their handling of migration policy, including conditions in migrant camps, particularly following the 2015-16 refugee crisis, when more than 1 million people entered Europe through the country.

      For those who lived through last week’s sinking, the harrowing experience will never be forgotten.

      Mostafa and Rami both say they wish they had never made the journey, despite the fact they are now in Europe and are able to claim asylum.

      Most of all, Mostafa says, he wishes the Greek coast guard had never approached their boat: “If they had left us be, we wouldn’t have drowned.”

      https://edition.cnn.com/2023/06/23/europe/greece-migrant-boat-disaster-investigation-intl-cmd/index.html
      #témoignage

    • Greece shipwreck survivors faced ’unacceptable’ conditions on arrival in country

      NGOs say survivors of sinking are being held in a closed centre with limited access to psychological support

      Survivors of the Pylos shipwreck, which has left an estimated 500 people missing, faced an “unacceptable” reception in Greece and continue to be held in conditions unsuitable for vulnerable people, NGO workers say.

      The overloaded fishing trawler carrying an estimated 750 people capsized and sank in front of the Greek coastguard last week, following an allegedly botched attempt by the coastguard to tow the vessel.

      The survivors, put at 104 and all men - as no women or children are said to have survived the wreck - were taken to Kalamata, a city on the Peloponnese peninsula, where they were kept in a storage warehouse for two to three days before being transferred to an asylum registration facility at Malakasa, north of Athens.

      “We witnessed an unacceptable reception of extremely vulnerable people in Kalamata,” Eleni Spathanaa, a volunteer lawyer for Refugee Support Aegean, an organisation providing legal advice for the survivors of the wreck, told Middle East Eye.

      Survivors slept on mattresses on the warehouse floor, and the area around it was ringed with fencing. A video posted on Twitter showed a Syrian teenager attempting to embrace his brother through the bars.

      According to Spathanaa, in the first few days no concerted effort was made by authorities to facilitate contact with the survivors’ families, although the Greek Red Cross was providing some access to mobile phones.

      A suffocating experience

      The survivors were transported to a registration facility in Malakasa on 16 and 17 June.

      According to Spathanaa, conditions at #Malakasa are not much of an improvement on those at Kalamata. Survivors are housed in shared shipping containers, and, as at #Kalamata, the facility is ring-fenced, with access severely restricted.

      The prison-like conditions came as a shock.

      “We witnessed... people devastated [and in] shock. They could not even understand where they were,” said Spathanaa. "I could not understand why they were put in a closed centre. Of course, these conditions are not suitable for people who have just survived a shipwreck.

      “These people were [contained], after such a suffocating experience - all of them have lost friends, some of them close relatives... they cannot even conceive what has happened.”

      According to Spathanaa, some of the survivors’ basic needs are not being met at the facility, with some reporting that requests for extra clothing to keep warm at night have been refused. Requests for tea, coffee and cigarettes were also reportedly denied.

      Spathanaa and her colleagues also found that, despite suffering from acute distress, the survivors were being “fast-tracked” through the process of registration for asylum applications.

      “This was quite problematic because most of the people [we met] had not even seen a lawyer before passing through this process,” she said.

      Emergency psychological and medical aid at the facility is being provided by the NGO Doctors Without Borders (MSF). “We saw a lot of distress,” MSF head of mission Sonia Balleron told MEE. “The medical team is clear that [the survivors] are all potentially at risk of PTSD [post-traumatic stress disorder].”

      The team have reported treating chemical burns, injuries from exposure to the sun and sea water, as well as hypo-glycaemic shock (the effect of low blood sugar), due to the people aboard the boat being deprived of food for up to six days.

      According to Balleron, many of the survivors are suffering from sleep disorders and night terrors in the wake of the disaster.

      “What we hear mostly... is people [recalling] seeing their friends dying in front of their eyes,” said Balleron. “They also talk about not knowing who survived and who died, which is causing a lot of stress. Families are calling a lot to try to understand if their relatives are among the survivors or not.”
      A political choice

      For Spathanaa, the conditions experienced by the survivors of the wreck on arrival in Kalamata and Malakasa are no accident, but a “political choice”.

      At the end of 2022, the ESTIA accommodation scheme, an EU funded housing programme for vulnerable asylum seekers, was terminated. The programme, which was started in 2015, was intended to assist families with children, people with disabilities and survivors of torture with suitable housing and medical care.

      When it closed on 16 December, vulnerable asylum seekers were transferred from ESTIA accommodation to remote camps with as little as 24 hours’ notice. Human rights groups warned that the curtailment of the scheme could exacerbate isolation of asylum seekers and “re-traumatise” survivors of violence and torture.

      “We have these vulnerable survivors, and we don’t have the option of sheltering them in dignified and suitable conditions,” said Spathanaa. “I don’t think if the shipwreck’s passengers were tourists, that they would treat them like that. They wouldn’t put them in a warehouse.”

      This is not lost on the international community. Social media posts in the wake of the disaster have highlighted the discrepancy in the efforts by the Greek coastguard to prevent last week’s wreck with the resources expended on recovering the missing Titan submarine in the Atlantic Ocean.

      Widespread protests in Greece over the authorities’ inaction to the disaster have also highlighted the inequities that play out in the waters of the Mediterranean: on 18 June, two cruise ships were greeted at Thessaloniki port with a banner reading: “Tourists enjoy your cruise in Europe’s biggest migrants cemetery.”

      https://www.middleeasteye.net/news/greece-shipwreck-survivors-unacceptable-conditions-upon-arrival
      #emprisonnement #survivants

    • On the night of June 14, Captain Richard Kirkby is piloting the Mayan Queen IV, a luxury yacht belonging to a Mexican multibillionaire, through the calm, black waters of the Mediterranean when he receives an emergency call. “Ship sinking. Large number of people. Vessels in the vicinity are requested to initiate search and rescue operations.” The crew hears the screams from people drowning before they can see them.

      The shipwreck that takes place that night would turn out to be the deadliest in the Mediterranean in many years. Around 750 people are thought to have been on board the fishing boat that went down off the coast of the Peloponnese. When the Mayan Queen IV reaches the site at 2:55 a.m., only the lights of another ship can be seen. They belong to the Greek Coast Guard, vessel LS 920 – according to investigation files that DER SPIEGEL and its partners have acquired.

      But the Greeks cannot be reached via radio. So three crew members from the Mayan Queen IV climb into a life boat and start searching for survivors, constantly heading toward the cries for help. They stay as quiet as they can so as not to miss a single voice. Ultimately, they will pull 15 people out of the water.

      Early in the morning, the Greek Coast Guard requests permission to bring additional survivors on board. The Greek vessel is too small to safely bring all the survivors to shore. But the Mayan Queen IV – a ship with four decks, tinted windows and a helicopter landing pad – is large enough. At 7:20 a.m., the yacht sets course for Kalamata. On board are 100 of a total of 104 survivors – migrants wrapped in silver emergency blankets cowering where the super-rich are normally sunning themselves.
      Survivors if the shipwreck in the port of Kalamata: “Ship sinking. Large number of people.”

      Hundreds of refugees don’t survive this night – despite the fact that the Greek Coast Guard arrived at the site several hours before the accident. As early as the morning of the previous day, an Italian agency had sent them a warning and a non-governmental organization had forwarded an SOS from the fishing boat. Even the European Union border control agency Frontex had identified the ship’s plight and offered additional assistance. How can it be that hundreds of migrants died anyway? It is a question that has plagued the Greek Coast Guard for the last two weeks.

      The accusations that survivors have leveled at the Greeks are serious: Did the Coast Guard leave the people to their fate for too long? Were they trying to pull the ship into Italian waters – as some testimony seems to indicate? Perhaps to keep hundreds of migrants from landing in Greece?

      A team of reporters from DER SPIEGEL joined forces with the nonprofit newsroom Lighthouse Reports, investigative journalism consortium Reporters United, the Spanish newspaper El País, the Syrian investigative reporting outlet Siraj and the German public broadcaster ARD to explore these questions. The reporters interviewed survivors, many of whom had already turned to the aid organization Consolidated Rescue Group. They examined leaked investigative reports, videos and geodata and spoke with sources inside Frontex.

      The reporting indicates that, at the very least, the Greek Coast Guard may have made grave errors. Sixteen refugees have accused the Greeks, for example, of causing the fishing boat to capsize, while seven are convinced that Greek rescue attempts were hesitant at best – which would mean they were willing to accept the deaths of hundreds of people. There are also serious doubts about the willingness of Greek authorities to thoroughly investigate the disaster. The leaked investigation reports raise questions as to whether Greek officials may have altered testimony in their favor.

      One of those who survived, we’ll call him Manhal Abdulkareem, tells his story in mid-June from the Greek camp Malakasa. He requests that we not use his real name or even describe him out of fear of how the Greek authorities might react. What he has to say does not paint them in a positive light.

      The Syrian once worked as a stonemason in Jordan. Last spring, he decided to risk the crossing to Italy. He traveled to Libya and boarded the vessel in the port city of Tobruk on June 9. Abdulkareem is one of hundreds of people who crowded onto the vessel, and he was one of the lucky ones: He was able to buy himself a place on deck. Later, it would save his life.

      Other refugees crowded into the boat’s cold storage room. According to survivors, women and children were below decks, many of them from Pakistan. For them, the belly of the ship would turn into a coffin.

      Abdulkareem’s account of the initial days onboard the ship is consistent with the stories told by other survivors. He says that they began running out of water on the third of five days onboard, that the motor cut out on several occasions and that the captain seemed to have lost his orientation. The goal of reaching Italy was more distant than ever.

      The Greek Coast Guard was also aware of the dire situation onboard the fishing boat. On the morning of June 13, they received the first warning from the Italian Coast Guard. Frontex agents filmed the ship from the air at midday. At 5:13 p.m. local time, the non-governmental organization Alarmphone wrote an email to the Greek authorities. The email noted that there were 750 people on the ship. “They are requesting urgent assistance.”

      At the time of the call for help, the fishing vessel was around 80 kilometers (50 miles) off the coast of the Peloponnese. Nevertheless, the Greek Coast Guard sent a ship that was anchored in far-away Crete.

      At least two freighters supplied the fishing vessel with water, but they didn’t take anyone onboard. Abdulkareem and other survivors say that by this point, two passengers on the boat had already died. The Greek Coast Guard ship only arrived at 10:40 p.m.

      There are two versions for what then took place.

      Manhal Abdulkareem reports that the Greek Coast Guard escorted their ship for a time, until the fishing boat’s engine again cut out. Then, he says, the Coast Guard attached a rope to the vessel. “We thought they knew what they were doing,” says Abdulkareem.

      The Coast Guard, he says, towed the vessel at a rapid speed, first to the right, then the left, and then back to the right – and then it capsized. Fifteen additional survivors tell a similar story. Some believe the behavior of the Coast Guard was accidental. Others think it was intentional.

      When the vessel capsized, there were people trapped inside its hull. One survivor says he heard them knocking. Those who were on deck jumped into the water. “People were falling on us,” says one man from Egypt. Some clung to the sinking vessel, while others grabbed in a panic for anything that was floating, including other people.

      “I know how to swim, but that wasn’t enough,” Abdulkareem would later say. He says he had to avoid others so that he wouldn’t be pulled down into the depths. Four survivors say that the Coast Guard put those in the water in even greater danger by maneuvering in such a way that created large waves.

      While still in the water, Abdulkareem began searching for his brother, but was unable to find him. As the vessel was sinking, say survivors, the Greek Coast Guard ship pulled back to a distance of hundreds of meters.

      Abdulkareem and six others accuse the Greeks of delayed rescue efforts and only launching inflatable dinghies after significant time had passed. Some estimate that several minutes passed before they took any action at all. Others say the delay was fully half an hour. “They could have saved many people,” says a survivor from Syria. Abdulkareem’s brother still hasn’t been found.

      The Greek Coast Guard has a competing account for what took place. According to an official log from June 14, their ship reported on the evening prior to the disaster that the refugees were “on a stable course” – a claim that video evidence and tracking data refute. The people on board, according to the official account, rejected assistance because they “wanted nothing more than to continue onward to Italy.” If the Greek Coast Guard is to be believed, the fishing boat capsized shortly after 2 a.m. The first official log provides no cause for the accident.

      Later, the Greek government spokesman said that the Coast Guard had attached a rope to the boat. But only to “stabilize” the vessel. By the time of the accident, the rope had already been cast off, the spokesman said, and the fishing vessel had never been towed. The rope, he insists, was not the cause of the shipwreck. In an interview with CNN, a Coast Guard spokesman speculated that panic may have broken out onboard, leading to the boat listing to one side.

      There is no proof for either version. But doubts about the Greek account are significant, even within Frontex. At the agency’s headquarters in Warsaw, EU border guards can follow in real time what is taking place on the EU’s external borders. In this case, the agents must have realized early on the danger that the migrants were in.

      On two occasions – at 6:35 p.m. and at 9:34 p.m. – they offered to send the airplane back to the ship that the migrants had already seen at midday. It was refueled and ready to take off, according to an internal memo that DER SPIEGEL has obtained. But the Greek Rescue Coordination Center in Piraeus, Frontex says, ignored the offer. The plane remained on the ground.

      The only other available aircraft, a Frontex drone, was initially sent to another distress call, according to Frontex. It only arrived at the scene after the fishing vessel had sunk. In Brussels, hardly anyone believes that the rebuff of Frontex was an accident. Many see a pattern: Greek authorities systematically send away Frontex units, says one Brussels official. That happens particularly often, the official says, in situations that later turn out to be controversial.

      The mistrust with which Athens now finds itself confronted – even from EU institutions – has a lot to do with previous violations of international law on the Aegean. The Greek Coast Guard has repeatedly towed groups of refugees back into Turkish waters – before then abandoning them on life rafts with no means of propulsion.

      Proof for such pushbacks has become so overwhelming that the Frontex fundamental rights officer recently recommended that the organization suspend cooperation with the Greek Coast Guard. The “strongest possible measures” are necessary to ensure that the Greeks once again begin complying with applicable law, reads an internal memo that DER SPIEGEL has obtained. Joint missions can only be resumed once a new basis for trust has been established, the memo continues.

      The skepticism has become so great that Frontex has even sent a team to Greece to question survivors itself. Two Frontex officials say that the results of investigations conducted thus far seem to contradict the Greek version of events. One Greek lawyer is even demanding an official state investigation of the Coast Guard for manslaughter through failure to render aid.

      Most survivors, though, don’t believe that the Greek state will investigate the role played by its own Coast Guard. The treatment they received in the days following the catastrophe was too poor for such optimism.

      Sami Al Yafi, a young Syrian, is one of them. He, too, has asked that his real name not be printed out of fear of the Greek authorities. He accuses the Coast Guard of manipulating his statement. He claims to have clearly testified that the Coast Guard had caused the ship to capsize, but he was unable to find that statement in the transcript of his interview. An additional survivor says that he had a similar experience.

      There are also corresponding inconsistencies in the investigation file. In six instances, according to the file, survivors said nothing about a tow rope in their first interview with the Coast Guard – or at least there is no mention of such in the minutes taken by the Coast Guard. Later, in interviews with public prosecutors, they then accused the Coast Guard of causing the capsizing by towing the vessel.

      Moreover, the minutes taken by the Greek Coast Guard frequently include the exact same formulations. According to those minutes, four survivors used exactly the same words in describing the events – despite the fact that the interviews were led by different interpreters. In one case, a member of the Coast Guard apparently acted as an interpreter.

      When approached for comment, Greek officials said they were unable to comment on the accusations. The accounts, they said, are part of a confidential investigation. They said they were also unable to comment on the actions of the Coast Guard.

      Manhal Abdulkareem, the man who lost his brother, isn’t satisfied. “We are a group of 104 survivors,” he says. All of them know, he says, who caused the boat to capsize.

      On at least one occasion, Greek officials have been found guilty of accusations similar to those that have now been lodged by Abdulkareem and other survivors. It was left up to the European Court of Human Rights to pass that verdict. Last year, the court found that the Greek Coast Guard in 2014 towed a refugee boat until it capsized. Three women and eight children died in that incident. Then, too, the Coast Guard claimed that panic had broken out onboard the vessel and that the refugees themselves had caused the boat to capsize. It is the exact same story they are currently telling.

      https://www.spiegel.de/international/europe/new-accusations-against-the-greek-coast-guard-we-thought-they-knew-what-they

    • Everyone Knew the Migrant Ship Was Doomed. No One Helped.

      Satellite imagery, sealed court documents and interviews with survivors suggest that hundreds of deaths were preventable.

      From air and by sea, using radar, telephone and radio, officials watched and listened for 13 hours as the migrant ship Adriana lost power, then drifted aimlessly off the coast of Greece in a slowly unfolding humanitarian disaster.

      As terrified passengers telephoned for help, humanitarian workers assured them that a rescue team was coming. European border officials, watching aerial footage, prepared to witness what was certain to be a heroic operation.

      Yet the Adriana capsized and sank in the presence of a single Greek Coast Guard ship last month, killing more than 600 migrants in a maritime tragedy that was shocking even for the world’s deadliest migrant route.

      Satellite imagery, sealed court documents, more than 20 interviews with survivors and officials, and a flurry of radio signals transmitted in the final hours suggest that the scale of death was preventable.

      Dozens of officials and coast guard crews monitored the ship, yet the Greek government treated the situation like a law enforcement operation, not a rescue. Rather than send a navy hospital ship or rescue specialists, the authorities sent a team that included four masked, armed men from a coast guard special operations unit.

      The Greek authorities have repeatedly said that the Adriana was sailing to Italy, and that the migrants did not want to be rescued. But satellite imagery and tracking data obtained by The New York Times show definitively that the Adriana was drifting in a loop for its last six and a half hours. And in sworn testimony, survivors described passengers on the ship’s upper decks calling for help and even trying to jump aboard a commercial tanker that had stopped to provide drinking water.

      On board the Adriana, the roughly 750 passengers descended into violence and desperation. Every movement threatened to capsize the ship. Survivors described beatings and panic as they waited for a rescue that would never come.

      The sinking of the Adriana is an extreme example of a longtime standoff in the Mediterranean. Ruthless smugglers in North Africa cram people onto shoddy vessels, and passengers hope that, if things go wrong, they will be taken to safety. But European coast guards often postpone rescues out of fear that helping will embolden smugglers to send more people on ever-flimsier ships. And as European politics have swung to the right, each new arriving ship is a potential political flashpoint.

      So even as passengers on the Adriana called for help, the authorities chose to listen to the boat’s captain, a 22-year-old Egyptian man who said he wanted to continue to Italy. Smuggling captains are typically paid only when they reach their destinations.

      The Greek Ministry of Maritime Affairs said it would not respond to detailed questions because the shipwreck was under criminal investigation.

      Despite many hours of on-and-off surveillance, the only eyewitnesses to the Adriana’s final moments were the survivors and 13 crew members aboard the coast guard ship, known as the 920. A Maritime Ministry spokesman has said that the ship’s night-vision camera was switched off at the time. Court documents show that the coast guard captain gave the authorities a CD-ROM containing video recordings, but the source of the recordings is unclear, and they have not been made public.

      Prime Minister Kyriakos Mitsotakis of Greece defended the coast guard during comments in Brussels this past week, calling its critics “profoundly unfair.” The sinking has brought rare public criticism from officials in the European Union, which has remained silent as the Greek government has hardened its stance toward migrants.

      In Greece, nine Egyptian survivors from the Adriana were arrested and charged with smuggling and causing the shipwreck. In sworn testimonies and interviews, survivors said that many of the nine brutalized and extorted passengers. But interviews with relatives of those accused paint a more complicated picture. At least one of the men charged with being a smuggler had himself paid a full fee of more than $4,000 to be on the ship.

      Collectively paying as much as $3.5 million to be smuggled to Italy, migrants crammed into the Adriana in what survivors recalled was a hellish class system: Pakistanis at the bottom; women and children in the middle; and Syrians, Palestinians and Egyptians at the top.

      An extra $50 or so could earn someone a spot on the deck. For some, that turned out to be the difference between life and death.

      Many of the passengers, at least 350, came from Pakistan, the Pakistani government said. Most were in the lower decks and the ship’s hold. Of them, 12 survived.

      The women and young children went down with the ship.
      Setting Sail

      Kamiran Ahmad, a Syrian teenager, a month shy of his 18th birthday, had arrived in Tobruk, Libya, with hopes for a new life. He had worked with his father, a tailor, after school. His parents sold land to pay smugglers to take him to Italy, praying that he would make it to Germany to study, work and maybe send some money home.
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      “We had no choice but to send him by sea,” his father said in an interview.

      But as the Adriana set sail at dawn on June 9, Kamiran was worried. His cousin, Roghaayan Adil Ehmed, 24, who went with him, could not swim. And the boat was overcrowded, with nearly twice as many passengers as he had been told.

      No life vests were available, so Roghaayan paid $600 to get himself, Kamiran and a friend to an upper deck.

      They were part of a group of 11 young men and boys from Kobani, a mainly Kurdish city in Syria devastated by more than decade of war. The group stayed in dingy, rented rooms in Beirut, Lebanon, then flew to Egypt and on to Libya.

      The youngest, Waleed Mohammad Qasem, 14, wanted to be a doctor. When he heard that his uncle Mohammad Fawzi Sheikhi was going to Europe, he begged to go. On the flight to Egypt, the two smiled for a selfie.

      Haseeb ur-Rehman, 20, a motorcycle mechanic from the Pakistan-administrated Kashmir, felt he had to leave home to help his family survive. Together with three friends, he paid $8,000 and left for Libya.

      He was one of the few Pakistanis who managed to snatch a spot on deck.

      The journey, if all went well, would take three days.

      As early as the second day, survivors recalled, the engine started breaking down.
      Lost

      By Day 3, food and clean drinking water had run out. Some migrants put dried prunes in seawater, hoping the sweetness would mellow the saltiness. Others paid young men $20 for dirty water.

      Unrest spread as it became clear that the captain, who was spending most of his time on a satellite phone, had lost his way.

      When Pakistanis pushed toward the upper deck, Egyptian men working with the captain beat them, often with a belt, according to testimony. Those men, some of whom are among the nine arrested in Greece, emerged as enforcers of discipline.

      Ahmed Ezzat, 26, from the Nile Delta, was among them. He is accused of smuggling people and causing the shipwreck. In an interview, his brother, Islam Ezzat, said that Ahmed disappeared from their village in mid-May and re-emerged in Libya weeks later. He said a smuggler had sent someone to the family home to collect 140,000 Egyptian pounds, or $4,500, the standard fee for a spot on the Adriana.

      Islam said he did not believe Ahmed had been involved in the smuggling because he had paid the fee. He said the family was cooperating with the Egyptian authorities. Ahmed, like the others who have been charged, has pleaded not guilty.
      ‘They Will Rescue You’

      By Day 4, according to testimonies and interviews, six people in the hold of the ship, including at least one child, had died.

      The next day, June 13, as the Adriana lurched toward Italy between engine breakdowns, migrants on deck persuaded the captain to send a distress call to the Italian authorities.

      The Adriana was in international waters then, and the captain was focused on getting to Italy. Experts who study this migratory route say that captains are typically paid on arrival. That is supported by some survivors who said their fees were held by middlemen, to be paid once they had arrived safely in Italy.

      The captain, some survivors recalled, said the Italian authorities would rescue the ship and take people to shore.

      Just before 1 p.m., a glimmer of hope appeared in the sky. A plane.

      Frontex, the European Union border agency, had been alerted by the Italian authorities that the Adriana was in trouble and rushed to its coordinates. There was no doubt the ship was perilously overloaded, E.U. officials said, and unlikely to make it to any port without help.

      Images of the rusty blue fishing boat appeared in the Frontex command center in Warsaw, where two German journalists happened to be touring, a Frontex spokesman said. The Adriana was a chance to showcase the agency’s ability to detect ships in distress and save lives.

      Now that Frontex had seen the ship, which was in Greece’s search-and-rescue area of international waters, the Greek authorities would surely rush to help.

      Two hours later, a Greek Coast Guard helicopter flew past. Its aerial photographs show the ship’s upper decks crammed with people waving their hands.

      Nawal Soufi, an Italian activist, fielded calls from frantic migrants.

      “I’m sure that they will rescue you,” she told them. “But be patient. It won’t be immediate.”
      Mayday

      Around 7 p.m. on June 13, almost seven hours after Frontex spotted the Adriana, the Greek authorities asked two nearby commercial tankers to bring the migrants water, food and diesel to continue their journey, according to video recordings and court documents.

      A crucial part of the Greek authorities’ explanation for not rescuing the Adriana is their claim that it was actively sailing toward Italy. When the BBC, using data from neighboring vessels, reported that the Adriana had been practically idle for several hours before it sank, the Greek government noted that the ship had covered 30 nautical miles toward Italy since its detection by Frontex.

      But satellite imagery and data from the ship-tracking platform MarineTraffic show that the Adriana was adrift for its final seven hours or so. Radar satellite imagery from the European Space Agency shows that by the time the Greeks summoned the commercial ships, the Adriana had already reached its closest point to Italy.

      From then on, it was drifting backward.

      The first tanker, the Lucky Sailor, arrived within minutes. The second, the Faithful Warrior, arrived in about two and a half hours. The captain of the Faithful Warrior reported that some passengers had thrown back supplies and screamed that they wanted to continue to Italy. How many people actually rejected help is unclear, but they included the Adriana’s captain and the handful of men who terrorized the passengers, according to survivors’ testimonies and interviews.

      Others were placing distress calls. Alarm Phone, a nonprofit group that fields migrant mayday calls, immediately and repeatedly told the Greek authorities, Frontex and the United Nations refugee agency that people on the Adriana were desperate to be rescued. Several passengers testified that they had tried to jump aboard the Faithful Warrior. But the migrants said that the frenzy only destabilized the Adriana, so the Faithful Warrior withdrew.

      As night fell, the Faithful Warrior’s captain told the Greek control center that the Adriana was “rocking dangerously.”

      Radio transmission records show that, over five hours, the Greek control center transmitted five messages across the Mediterranean using a channel reserved for safety and distress calls.

      Henrik Flornaes, a Danish father of two on a yacht far from the area, said he heard two mayday relay signals that night. They provided coordinates near the location of the Adriana, he said.

      A mayday relay directs nearby ships to begin a search and rescue.

      But the Greek Coast Guard itself mounted no such mission at this point.
      An End Foretold

      As midnight of June 14 approached, the Greek Coast Guard vessel 920, the only government ship dispatched to the scene, arrived alongside the Adriana.

      The presence of the 920 did not reassure the migrants. Several said in interviews that they were unsettled by the masked men. In the past, the Greek government has used the coast guard to deter migration. In May, The Times published video footage showing officers rounding up migrants and ditching them on a raft in the Aegean Sea.

      The mission of the 920 is unclear, as is what happened after it arrived and floated nearby for three hours. Some survivors say it tried to tow the Adriana, capsizing it. The coast guard denied that at first, then acknowledged throwing a rope to the trawler, but said that was hours before it sank.

      To be sure, attempts to remove passengers might have backfired. Sudden changes in weight distribution on an overcrowded, swaying ship could have capsized it. And while the 920 was larger was than the Adriana, it was not clear if had space to accommodate the migrant passengers.

      But Greece, one of the world’s foremost maritime nations, was equipped to carry out a rescue. Navy ships, including those with medical resources, could have arrived in the 13 hours after the Frontex alert.

      Exactly what capsized the ship is unclear. The coast guard blames a commotion on the ship. But everyone agrees that it swayed once to the left, then to the right, and then flipped.

      Those on deck were tossed into the sea. Panicking people stepped on each other in the dark, desperately using each other to come up for air, to stay alive.

      At the water’s surface, some clung to pieces of wood, surrounded by drowned friends, relatives and strangers. Others climbed onto the ship’s sinking hull. Coast guard crew members pulled dozens of people from the sea. One person testified that he had initially swum away from the 920, fearing that the crew would drown him.

      Waleed Mohammad Qasem, the 14-year-old who wanted to be a doctor, drowned. So did his uncle, who had posed with him for a selfie. The ship’s captain also died.

      Hundreds of people, including the women and young children, inside the Adriana stood no chance. They would have been flipped upside down, hurled together against the ship as the sea poured in. The ship took them down within a minute.

      Haseeb ur-Rehman, the Pakistani motorcycle mechanic on the top deck, survived. “It was in my destiny,” he said from a migrant camp near Athens. “Otherwise, my body would have been lost, like the other people in the boat.”

      Near the end, Kamiran Ahmad, the teenager who had hoped to study in Germany, turned to his cousin Roghaayan. From the migrant center in Greece, the older cousin remembered his words: “Didn’t I tell you we were going to die? Didn’t I tell you we were already dead?”

      Both went into the water. Kamiran’s body has not been recovered.

      https://www.nytimes.com/2023/07/01/world/europe/greece-migrant-ship.html

  • La Tunisia rifiuta i respingimenti collettivi e le deportazioni di migranti irregolari proposti da #Meloni e #Piantedosi

    1.Il risultato del vertice di Tunisi era già chiaro prima che Giorgia Meloni, la presidente della Commissione europea Von del Leyen ed il premier olandese Mark Rutte incontrassero il presidente Saied. Con una operazione di immagine inaspettata, il giorno prima del vertice, l’uomo che aveva lanciato mesi fa la caccia ai migranti subsahariani presenti nel suo paese, parlando addirittura del rischio di sostituzione etnica, si recava a Sfax, nella regione dalla quale si verifica la maggior parte delle partenze verso l’Italia, e come riferisce Il Tempo, parlando proprio con un gruppo di loro, dichiarava : “ Siamo tutti africani. Questi migranti sono nostri fratelli e li rispettiamo, ma la situazione in Tunisia non è normale e dobbiamo porre fine a questo problema. Rifiutiamo qualsiasi trattamento disumano di questi migranti che sono vittime di un ordine mondiale che li considera come ‘numeri’ e non come esseri umani. L’intervento su questo fenomeno deve essere umanitario e collettivo, nel quadro della legge”. Lo stesso Saied, secondo quanto riportato dalla Reuters, il giorno precedente la visita, aggiungeva che di fronte alla crescente mobilità migratoria “La soluzione non sarà a spese della Tunisia… non possiamo essere una guardia per i loro paesi”.

    Alla fine del vertice non c’è stata una vera e propria conferenza stampa congiunta, ma è stata fatta trapelare una Dichiarazione sottoscritta anche da Saied che stabilisce una sorta di roadmap verso un futuro Memorandum d’intesa (MoU) tra la Tunisia e l’Unione europea, che si dovrebbe stipulare entro il prossimo Consiglio europeo dei capi di governo che si terrà a fine giugno. L’Ue e la Tunisia hanno dato incarico, rispettivamente, al commissario europeo per l’Allargamento Oliver Varheliy e al ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar di stilare un memorandum d’intesa (Memorandum of Understanding, MoU) sul pacchetto di partnership allargata, che dovrebbe essere sottoscritto dalla Tunisia e dall’Ue “prima di fine giugno”. Una soluzione che sa tanto di rinvio, nella quale certamente non si trovano le richieste che il governo Meloni aveva cercato di fare passare, già attraverso il Consiglio dei ministri dell’Unione europea di Lussemburgo, restando poi costretto ad accettare una soluzione di compromesso, che non prevedeva affatto -come invece era stato richiesto- i respingimenti collettivi in alto mare, delegati alla Guardia costiera tunisina, e le deportazioni in Tunisia di migranti irregolari o denegati, dopo una richiesta di asilo, giunti in Italia dopo un transito temporaneo da quel paese.

    Secondo Piantedosi, “la Tunisia è già considerata un Paese terzo sicuro da provvedimenti e atti ufficiali italiani” e “La Farnesina ha già una lista formale di Stati terzi definiti sicuri. Sia in Africa, penso al Senegal, così come nei Balcani”. Bene che nella sua conferenza stampa a Catania, censurata dai media, non abbia citato la Libia, dopo avere chiesto la collaborazione del generale Haftar per bloccare le partenze verso l’Italia. Ma rimane tutto da dimostrare che la Tunisia sia un “paese terzo sicuro”, soprattutto per i cittadini non tunisini, generalmente provenienti dall’area subsahariana, perchè il richiamo strumentale che fa il ministro dell’interno alla lista di “paesi terzi sicuri” approvata con decreti ministeriali ed ampliata nel corso del tempo, riguarda i cittadini tunisini che chiedono asilo in Italia, e che comunque possono fare valere una richiesta di protezione internazionale, non certo i migranti provenienti da altri paesi e transitati in Tunisia, che si vorrebbero deportare senza troppe formalità, dopo procedure rapide in frontiera. Una possibilità che ancora non è concessa allo stato della legislazione nazionale e del quadro normativo europeo (in particolare dalla Direttiva Rimpatri 2008/115/CE), che si dovrebbe comunque modificare prima della entrata in vigore, ammsso che ci si arrivi prima delle prossime elezioni europee, del Patto sulla migrazione e l’asilo recentemente approvato a Lussemburgo.

    La Presidente della Comissione Europea, nella brevissima conferenza stampa tenuta dopo la chiusura del vertice di Tunisi ha precisato i punti essenziali sui quali si dovrebbe trovare un accordo tra Bruxelles e Tunisi, Fondo monetario internazionale permettendo. Von der Leyen ha confermato che la Ue è pronta a mobilitare 900 milioni di euro di assistenza finanziaria per Tunisi. I tempi però non saranno brevi. “La Commissione europea valuterà l’assistenza macrofinanziaria non appena sarà trovato l’accordo (con il Fmi) necessario. E siamo pronti a mobilitare fino a 900 milioni di euro per questo scopo di assistenza macrofinanziaria. Come passo immediato, potremmo fornire subito un ulteriore sostegno al bilancio fino a 150 milioni di euro”. Come riferisce Adnkronos, “Tunisi dovrebbe prima trovare l’intesa con il Fondo Monetario Internazionale su un pacchetto di aiuti, a fronte del quale però il Fondo chiede riforme, che risulterebbero impopolari e che la leadership tunisina esita pertanto ad accollarsi”. Secondo Adnkronos, L’Ue intende “ripristinare il Consiglio di associazione” tra Ue e Tunisia e l’Alto Rappresentante Josep Borrell “è pronto ad organizzare il prossimo incontro entro la fine dell’anno”, ha sottolineato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen al termine dell’incontro. L’esecutivo comunitario è pronto ad aiutare la Tunisia con un pacchetto basato su cinque pilastri, il principale dei quali è costituito da aiuti finanziari per oltre un miliardo di euro. Il primo è lo sviluppo economico. “Sosterremo la Tunisia, per rafforzarne l’economia. La Commissione Europea sta valutando un’assistenza macrofinanziaria, non appena sarà trovato l’accordo necessario. Siamo pronti a mobilitare fino a 900 milioni di euro per questo scopo. E, come passo immediato, potremmo fornire altri 150 milioni di euro di sostegno al bilancio“. “Il secondo pilastro – continua von der Leyen – sono gli investimenti e il commercio. L’Ue è il principale investitore straniero e partner commerciale della Tunisia. E noi proponiamo di andare oltre: vorremmo modernizzare il nostro attuale accordo commerciale. C’è molto potenziale per creare posti di lavoro e stimolare la crescita qui in Tunisia. Un focus importante per i nostri investimenti è il settore digitale. Abbiamo già una buona base“. Sempre secondo quanto riferito da Adnkronos, “La Commissione Europea sta lavorando ad un memorandum di intesa con la Tunisia nelle energie rinnovabili, campo nel quale il Paese nordafricano ha un potenziale “enorme”, mentre l’Ue ne ha sempre più bisogno, per alimentare il processo di elettrificazione e decarbonizzazione della sua economia, spiega la presidente. L’energia è “il terzo pilastro” del piano in cinque punti che von der Leyen ha delineato al termine della riunione”.

    Quest’anno l’Ue “fornirà alla Tunisia 100 milioni di euro per la gestione delle frontiere, ma anche per la ricerca e il soccorso, la lotta ai trafficanti e il rimpatrio”, annuncia ancora la presidente. Il controllo dei flussi migratori è il quarto pilastro del programma che von der Leyen ha delineato per i rapporti bilaterali tra Ue e Tunisia. Per la presidente della Commissione europea, l’obiettivo “è sostenere una politica migratoria olistica radicata nel rispetto dei diritti umani. Entrambi abbiamo interesse a spezzare il cinico modello di business dei trafficanti di esseri umani. È orribile vedere come mettono deliberatamente a rischio vite umane, a scopo di lucro. Lavoreremo insieme su un partenariato operativo contro il traffico di esseri umani e sosterremo la Tunisia nella gestione delle frontiere”.

    Nel pacchetto di proposte comprese nel futuro Memorandum d’intesa UE-Tunisia, che si dovrebbe sottoscrivere entro la fine di giugno, rientrerebbero anche una serie di aiuti economici all’economia tunisina, in particolare nei settori dell’agricoltura e del turismo, e nuove possibilità di mobilità studentesca, con programmi tipo Erasmus. Nulla di nuovo, ed anche una dotazione finanziaria ridicola, se si pensa ai 200 milioni di euro stanziati solo dall’Italia con il Memorandum d’intesa con la Tunisia siglato da Di Maio per il triennio 2021-2023. Semmai sarebbe interessante sapere come stati spesi quei soldi, visti i risultati sulla situazione dei migranti in transito in Tunisia, nelle politiche di controllo delle frontiere e nei soccorsi in mare.

    2. Non è affatto vero dunque che sia passata la linea dell’Italia per due ragioni fondamentali. L’Italia chiedeva una erogazione immediata degli aiuti europei alla Tunisia e una cooperazione operativa nei respingimenti collettivi in mare ed anche la possibilità di riammissione in Tunisia di cittadini di paesi terzi ( non tunisini) giunti irregolarmente nel nostro territorio, o di cui fosse stata respinta la domanda di protezione nelle procedure in frontiera. Queste richieste della Meloni (e di Piantedosi) sono state respinte, e non rientrano nel Memorandum d’intesa che entro la fine del mese Saied dovrebbe sottoscrivere con l’Unione Europea (il condizionale è d’obbligo).

    Gli aiuti europei sono subordinati all’accettazione da parte di Saied delle condizioni poste dal Fondo Monetario internazionale per l’erogazione del prestito fin qui rifiutato dal presidente. Un prestito che sarebbe condizionato al rispetto di paramentri monetari e di abbattimento degli aiuti pubblici, e forse anche al rispetto dei diritti umani, che in questo momento non sono accettati dal presidente tunisino, ormai di fatto un vero e proprio autocrate. Con il quale la Meloni, ormai lanciata verso il presidenzialismo all’italiana, si riconosce più di quanto non facciano esponenti politici di altri paesi europei. Al punto che persino Mark Rutte, che nel suo paese ha attuato politiche migratorie ancora più drastiche di quelle propagandate dal governo italiano, richiama, alla fine del suo intervento, l’esigenza del rispetto dei diritti umani delle persone migranti, come perno del nuovo Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione Europea.

    Per un altro verso, la “lnea dell’Italia”, dunque la politica dei “respingimenti su delega”, che si vorrebbe replicare con la Tunisia, sul modello di quanto avviene con le autorità libiche, delegando a motovedette, donate dal nostro paese e coordinate anche dall’agenzia europea Frontex, i respingimenti collettivi in acque internazionali, non sembra di facile applicazione per evidenti ragioni geografiche e geopolitiche.

    La Tunisia non e’ la Libia (o la Turchia), le autorità centrali hanno uno scarso controllo dei punti di partenza dei migranti e la corruzione è molto diffusa. Sembra molto probabile che le partenze verso l’Italia continueranno ad aumentare in modo esponenziale nelle prossime settimane. Aumentare le dotazioni di mezi e i supporti operativi in favore delle motovedette tunisine si è già dimostrata una politica priva di efficacia e semmai foriera di stragi in mare. Sulle stragi in mare neppure una parola dopo il vertice di Tunisi. Non è vero che la diminuzione delle partenze dalla Tunisia nel mese di maggio sia conseguenza della politica migratoria del governo Meloni, risultando soltanto una conseguenza di un mese caratterizzato da condizioni meteo particolarmente sfavorevoli, come ha riconosciuto anchel’OIM e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), e come tutti hanno potuto constatare anche in Italia. Vedremo con il ritorno dell’estate se le partenze dalla Tunisia registreranno ancora un calo.

    La zona Sar (di ricerca e salvataggio) tunisina si limita alle acque territoriali (12 miglia dalla costa) ed i controlli affidati alle motovedette tunisine non si possono svolgere oltre. Difficile che le motovedette tunisine si spingano nella zona Sar “libica” o in quella maltese. Continueranno ad intercettare a convenienza, quando i trafficanti non pagheranno abbastanza per corrompere, ed i loro interventi, condotti spesso con modalità di avvicinamento che mettono a rischio la vita dei naufraghi, non ridurranno di certo gli arrivi sulle coste italiane di cittadini tunisini e subsahariani. Per il resto il futuribile Memorandum d’intesa Tunisia-Libia, che ancora e’ una scatola vuota, e che l’Unione europea vincola al rispetto dei diritti umani, dunque anche agli obblighi internazionali di soccorso in mare, non può incidere in tempi brevi sui rapporti bilaterali tra Roma e Tunisi, che sono disciplinati da accordi bilaterali che si dovrebbero modificare successivamente, sempre in conformità con la legislazione ( e la Costituzione) italiana e la normativa euro-unitaria. Dunque non saranno ogettto di nuovi accordi a livello europeo con la Tunisia i respingimenti collettivi vietati dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e non si potranno realizzare, come vorrebero la Meloni e Piantedosi, deportazioni in Tunisia di cittadini di altri paesi terzi, peraltro esclusi dai criteri di “connessione” richiesti nella “proposta legislativa” adottata dal Consiglio dei ministri dell’interno di Lussemburgo. E si dovranno monitorare anche i respingimenti di cittadini tunisini in Tunisia, dopo la svolta autoritaria impressa dall’autocrate Saied che ha fatto arrestare giornalisti e sindacalisti, oltre che numerosi membri dei partiti di opposizione. In ogni caso non si dovranno dimenticare le condanne ricevute dall’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, proprio per i respingimenti differiti effettuati ai danni di cittadini tunisini (caso Khlaifia). Faranno morire ancora centinaia di innocenti. Dare la colpa ai trafficanti non salva dal fallimento politico e morale nè l’Unione Europea nè il governo Meloni.

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    Saied, inaccettabili centri migranti in Tunisia

    (ANSA) – TUNISI, 11 GIU – Il presidente tunisino Kais Saied, nel suo incontro con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen e del primo ministro olandese Mark Rutte “ha fatto notare che la soluzione che alcuni sostengono segretamente di ospitare in Tunisia migranti in cambio di somme di denaro è disumana e inaccettabile, così come le soluzioni di sicurezza si sono dimostrate inadeguate, anzi hanno aumentato le sofferenze delle vittime della povertà e delle guerre”. Lo si legge in un comunicato della presidenza tunisina, pubblicato al termine dell”incontro. (ANSA).

    2023-06-11 18:59

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    ANSA/Meloni e l”Ue incassano prima intesa ma Saied alza posta

    (dell”inviato Michele Esposito)

    (ANSA) – TUNISI, 11 GIU – Una visita lampo, una dichiarazione congiunta che potrebbe portare ad un cruciale memorandum d”intesa, un orizzonte ancora confuso dal continuo alzare la posta di Kais Saied. Il vertice tra Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni, Mark Rutte e il presidente tunisino potrebbe segnare un prima e un dopo nei rapporti tra l”Ue e il Paese nordafricano. Al tavolo del palazzo presidenziale di Cartagine, per oltre due ore, i quattro hanno affrontato dossier a dir poco spigolosi, dalla gestione dei migranti alla necessità di un”intesa tra Tunisia e Fmi. La luce verde sulla prima intesa alla fine si è accesa. “E” un passo importante, dobbiamo arrivare al Consiglio europeo con un memorandum già siglato tra l”Ue e la Tunisia”, è l”obiettivo fissato da Meloni, che ha rilanciato il ruolo di prima linea dell”Italia nei rapporti tra l”Europa e la sponda Sud del Mediterraneo. Nel Palazzo voluto dal padre della patria tunisino, Habib Bourguiba, von der Leyen, Meloni e Rutte sono arrivati con l”ideale divisa del Team Europe. I tre, di fatto, hanno rappresentato l”intera Unione sin da quando, a margine del summit in Moldavia della scorsa settimana, è nata l”idea di accelerare sul dossier tunisino. I giorni successivi sono stati segnati da frenetici contatti tra gli sherpa. Il compromesso, iniziale e generico, alla fine è arrivato. L”Ue sborserà sin da subito, e senza attendere il Fondo Monetario Internazionale, 150 milioni di euro a sostegno del bilancio tunisino. E” un primo passo ma di certo non sufficiente per Saied. Sulla seconda parte del sostegno europeo, il pacchetto di assistenza macro-finanziaria da 900 milioni, l”Ue tuttavia non ha cambiato idea: sarà sborsato solo dopo l”intesa tra Saied e l”Fmi. Intesa che appare ancora lontana: poco dopo la partenza dei tre leader europei, la presidenza tunisina ha infatti invitato il Fondo a “rivedere le sue ricette” ed evitare “diktat”, sottolineando che gli aiuti da 1,9 miliardi, sotto forma di prestiti, “non porteranno benefici” alla popolazione. La difficoltà di mettere il punto finale al negoziato tra Ue e Tunisia sta anche in un altro dato: la stessa posizione europea è frutto di un compromesso tra gli Stati membri. Non è un caso, ad esempio, che sia stato Rutte, portatore delle istanze dei Paesi del Nord, a spiegare come la cooperazione tra Ue e Tunisia sulla gestione dei flussi irregolari debba avvenire “in accordo con i diritti umani”. La dichiarazione congiunta, in via generica, fa riferimento ai principali nodi legati ai migranti: le morti in mare, la necessità di aumentare i rimpatri dell”Europa degli irregolari, la lotta ai trafficanti. Von der Leyen ha messo sul piatto sovvenzioni da 100 milioni di euro per sostenere i tunisini nel contrasto al traffico illegale e nelle attività di search & rescue. Meloni, dal canto suo, ha annunciato “una conferenza su migrazione e sviluppo in Italia, che sarà un ulteriore tappa nel percorso del partenariato” tra l”Ue e Tunisi. Saied ha assicurato il suo impegno sui diritti umani e nella chiusura delle frontiere sud del Paese, ma sui rimpatri la porta è aperta solo a quella per i tunisini irregolari. L”ipotesi che la Tunisia, come Paese di transito sicuro, ospiti anche i migranti subsahariani, continua a non decollare. “L”idea, che alcuni sostengono segretamente, che il Paese ospiti centri per i migranti in campo di somme di danaro è disumana e inaccettabile”, ha chiuso Saied. La strada, insomma, rimane in salita. La strategia dell”Ue resta quella adottata sin dalla prima visita di un suo commissario – Paolo Gentiloni – lo scorso aprile: quella di catturare il sì di Saied con una partnership economica ed energetica globale e di lungo periodo, in cui la migrazione non è altro che un ingranaggio. Ma Tunisi, su diritti e rule of law, deve fare di più. “L”Ue vuole investire nella stabilità tunisina. Le difficoltà del suo percorso democratico si possono superare”, ha detto von der Leyen. Delineando la mano tesa dell”Europa ma anche la linea rossa entro la quale va inquadrata la nuova partnership. (ANSA).

    2023-06-11 19:55

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    Statement 11 June 2023 Tunis
    The European Union and Tunisia agreed to work together on a comprehensive partnership package (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/statement_23_3202)

    European Commission – Statement
    The European Union and Tunisia agreed to work together on a comprehensive partnership package
    Tunis, 11 June 2023

    Building on our shared history, geographic proximity, and strong relationship, we have agreed towork together on a comprehensive partnership package, strengthening the ties that bind us in a mutually beneficial manner.
    We believe there is enormous potential to generate tangible benefits for the EU and Tunisia. The comprehensive partnership would cover the following areas:

    - Strengthening economic and trade ties ,

    - A sustainable and competitive energy partnership

    - Migration

    - People-to-people contacts

    The EU and Tunisia share strategic priorities and in all these areas, we will gain from working together more closely.
    Our economic cooperation will boost growth and prosperity through stronger trade and investment links, promoting opportunities for businesses including small and medium sized enterprises. Economic support, including in the form of Macro Financial Assistance, will also be considered. Our energy partnership will assist Tunisia with the green energy transition, bringing down costs and creating the framework for trade in renewables and integration with the EU market.
    As part of our joint work on migration, the fight against irregular migration to and from Tunisia and the prevention of loss of life at sea, is a common priority, including fighting against smugglers and human traffickers, strengthening border management, registration and return in full respect of human rights.
    People-to-people contacts are central to our partnership and this strand of work will encompass stronger cooperation on research, education, and culture, as well as developing Talent Partnerships, opening up new opportunities for skills development and mobility, especially for youth.

    Enhanced political and policy dialogue within the EU-Tunisia Association Council before the end of the year will offer an important opportunity to reinvigorate political and institutional ties, with the aim of addressing common international challenges together and preserving the rules-based order.
    We have tasked the Minister of Foreign Affairs, Migration and Tunisians Abroad and the
    Commissioner for Neighbourhood and Enlargement to work out a Memorandum of Understanding on the comprehensive partnership package, to be endorsed by Tunisia and the European Union before the end of June.

    https://www.a-dif.org/2023/06/11/la-tunisia-rifiuta-i-respingimenti-collettivi-e-le-deportazioni-di-migranti-i

    #Tunisie #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Memorandum_of_Understanding (#MoU) #Italie #frontières #externalisation_des_frontières #réadmission #accord_de_réadmission #refoulements_collectifs #pays_tiers_sûr #développement #aide_au_développement #conditionnalité_de_l'aide #énergie #énergies_renouvelables

    #modèle_tunisien

    • EU offers Tunisia over €1bn to stem migration

      Brussels proposes €255mn in grants for Tunis, linking longer-term loans of up to €900mn to reforms

      The EU has offered Tunisia more than €1bn in a bid to help the North African nation overcome a deepening economic crisis that has prompted thousands of migrants to cross the Mediterranean Sea to Italy.

      The financial assistance package was announced on Sunday in Tunis after Ursula von der Leyen, accompanied by the prime ministers of Italy and the Netherlands, Giorgia Meloni and Mark Rutte, met with Tunisian president Kais Saied. The proposal still requires the endorsement of other EU governments and will be linked to Tunisian authorities passing IMF-mandated reforms.

      Von der Leyen said the bloc is prepared to mobilise €150mn in grants “right now” to boost Tunisia’s flagging economy, which has suffered from surging commodity prices linked to Russia’s invasion of Ukraine. Further assistance in the form of loans, totalling €900mn, could be mobilised over the longer-term, she said.

      In addition, Europe will also provide €105mn in grants this year to support Tunisia’s border management network, in a bid to “break the cynical business model of smugglers and traffickers”, von der Leyen said. The package is nearly triple what the bloc has so far provided in migration funding for the North African nation.

      The offer of quick financial support is a boost for Tunisia’s embattled president, but longer-term support is contingent on him accepting reforms linked to a $1.9bn IMF package, a move Saied has been attempting to defer until after presidential elections next year.

      Saied has refused to endorse the IMF loan agreement agreed in October, saying he rejected foreign “diktats” that would further impoverish Tunisians. The Tunisian leader is wary of measures such as reducing energy subsidies and speeding up the privatisation of state-owned enterprises as they could damage his popularity.

      Meloni, who laid the groundwork for the announcement after meeting with Saied on Tuesday, has been pushing Washington and Brussels for months to unblock financial aid for Tunisia. The Italian leader is concerned that if the north African country’s economy imploded, it would trigger an even bigger wave of people trying to cross the Mediterranean.

      So far this year, more than 53,000 migrants have arrived in Italy by boat, more than double compared with the same period last year — with a sharp increase in boats setting out from Tunisia one factor behind the surge.

      The agreement was “an important step towards creating a true partnership to address the migration crisis,” Meloni said on Sunday.

      In February, Saied stoked up racist violence against people from sub-Saharan African countries by saying they were part of a plot to change Tunisia’s demographic profile.

      His rhetoric has softened in an apparent bid to improve the image of the deal with the EU. Visiting a camp on Saturday, he criticised the treatment of migrants “as mere numbers”. However, he added, “it is unacceptable for us to play the policeman for other countries”.

      The Tunisian Forum for Economic and Social Rights think-tank criticised the EU’s visit on Sunday as “an attempt to exploit [Tunisia’s] political, economic and social fragility”.

      The financial aid proposal comes days after European governments agreed on a long-awaited migration package that will speed up asylum proceedings and make it easier for member states to send back people who are denied asylum.

      The package also includes proposals to support education, energy and trade relations with the country, including by investing in Tunisia’s renewable energy network and allowing Tunisian students to take part in student exchange programme Erasmus+.

      The presence of the Dutch prime minister, usually a voice for fiscally conservative leaders in the 27-strong bloc, indicated that approval of the package would not be as difficult to achieve as other foreign funding requests. The Netherlands, while not a frontline country like Italy, has also experienced a spike in so-called secondary migration, as many of the people who arrive in southern Europe travel on and apply for asylum in northern countries.

      Calling the talks “excellent”, Rutte said that “the window is open, we all sense there’s this opportunity to foster this relationship between the EU and Tunisia”.

      https://www.ft.com/content/82d6fc8c-ee95-456a-a4e1-8c2808922da3

    • Migrations : les yeux doux de #Gérald_Darmanin au président tunisien

      Pour promouvoir le Pacte sur la migration de l’Union européenne, le ministre de l’Intérieur en visite à Tunis a flirté avec les thèses controversées de Kais Saied, présentant le pays comme une « victime » des flux de réfugiés.

      Quand on sait que l’on n’obtiendra pas ce que l’on désire de son hôte, le mieux est de porter la faute sur un tiers. Le ministre français de l’Intérieur, Gérald Darmanin, a fait sienne cette stratégie durant sa visite dimanche 18 et lundi 19 juin en Tunisie. Et tant pis pour les pays du Sahel, victimes collatérales d’un échec annoncé.

      Accompagné de son homologue allemande, Nancy Faeser, le premier flic de France était en Tunisie pour expliquer au président tunisien Kais Saied le bien-fondé du Pacte sur la migration et l’asile en cours de validation dans l’Union européenne. Tel quel, il pourrait faire de la Tunisie un pays de transit ou d’établissement pour les migrants refoulés au nord de la Méditerranée. La Tunisie n’a jamais accepté officiellement d’être le gardien des frontières de l’Europe, même du temps du précédent président de la République, Béji Caïd Essebsi – officieusement, les gardes-côtes ont intercepté plus de 23 000 migrants de janvier à mai. Ce n’est pas le très panarabisant Kais Saied qui allait céder.

      Surtout que le chef de l’Etat aux méthodes autoritaires avait déjà refusé pareille proposition la semaine dernière, lors de la visite de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, accompagnée de Giorgia Meloni et Mark Rutte, chefs du gouvernement italien et néerlandais, malgré les promesses de plus d’un milliard d’euros d’aides à long terme (des projets budgétés de longue date pour la plupart). Kais Saied avait encore réitéré son refus au téléphone le 14 juin à Charles Michel, le président du Conseil européen.
      « Grand remplacement »

      Peu de chance donc que Gérald Darmanin et Nancy Faeser, « simples » ministres de l’Intérieur aient plus de succès, bien que leurs pays pèsent « 40 % du budget de l’Union européenne », comme l’a malicieusement glissé le ministre français. Alors pour ne pas repartir complètement bredouille, le locataire de la place Beauvau a promis du concret et flirté avec les thèses très controversées de Kais Saied.

      La France a promis une aide bilatérale de 25,8 millions d’euros pour « acquérir les équipements nécessaires et organiser les formations utiles, des policiers et des gardes-frontières tunisiens pour contenir le flux irrégulier de migrants ». Darmanin a surtout assuré que la Tunisie ne deviendra pas « la garde-frontière de l’Union européenne, ce n’est pas sa vocation ». Au contraire, il a présenté l’ancienne puissance carthaginoise comme une « victime » du flux migratoire.

      « Les Tunisiens qui arrivent de manière irrégulière sur le territoire européen sont une portion très congrue du nombre de personnes qui traversent à partir de la Tunisie la Méditerranée pour venir en Europe. Il y a beaucoup de Subsahariens notamment qui prennent ces routes migratoires », a ajouté le ministre de l’Intérieur français. Un argument martelé depuis des mois par les autorités tunisiennes. Dans un discours reprenant les thèses du « grand remplacement », Kais Saied, le 21 février, avait provoqué une campagne de haine et de violence contre les Subsahariens. Ces derniers avaient dû fuir par milliers le pays. Sans aller jusque-là, Gérald Darmanin a joué les VRP de Kais Saied, déclarant qu’« à la demande de la Tunisie », la France allait jouer de ses « relations diplomatiques privilégiées » avec ces pays (Côte d’Ivoire, Sénégal, Cameroun, notamment) pour « prévenir ces flux ». Si les migrants arrivant par bateaux en Italie sont, pour beaucoup, des Subsahariens – le nombre d’Ivoiriens a été multiplié par plus de 7 depuis le début de l’année par rapport à l’an dernier à la même période –, les Tunisiens demeurent, selon le HCR, la première nationalité (20 %) à débarquer clandestinement au sud de l’Europe depuis 2021.
      Préférence pour Giorgia Meloni

      Gérald Darmanin a quand même soulevé un ancien contentieux : le sort de la vingtaine de Tunisiens radicalisés et jugés dangereux actuellement présents sur le territoire français de façon illégale. Leur retour en Tunisie pose problème. Le ministre français a affirmé avoir donné une liste de noms (sans préciser le nombre) à son homologue tunisien. En attendant de savoir si son discours contribuera à réchauffer les relations avec le président tunisien – ce dernier ne cache pas sa préférence pour le franc-parler de Giorgia Meloni, venue deux fois ce mois-ci – Gérald Darmanin a pu profiter de prendre le café avec Iheb et Siwar, deux Tunisiens réinstallés dans leur pays d’origine via une aide aux retours volontaires mis en place par l’Office français de l’immigration et de l’intégration. En 2022, les Tunisiens ayant eu recours à ce programme étaient… 79. Quand on est envoyé dans une guerre impossible à gagner, il n’y a pas de petite victoire.

      https://www.liberation.fr/international/afrique/migrations-les-yeux-doux-de-gerald-darmanin-au-president-tunisien-2023061
      #Darmanin #France

    • Crisi economica e rimpatri: cosa stanno negoziando Ue e Tunisia

      Con l’economia del Paese nordafricano sempre più in difficoltà, l’intreccio tra sostegno finanziario ed esternalizzazione delle frontiere si fa sempre più stretto. E ora spunta una nuova ipotesi: rimpatriare in Tunisia anche cittadini di altri Paesi

      Durante gli ultimi mesi di brutto tempo in Tunisia, il governo italiano ha più volte dichiarato di aver compiuto «numerosi passi avanti nella difesa dei nostri confini», riferendosi al calo degli arrivi di migranti via mare dal Paese nordafricano. Ora che il sole estivo torna a splendere sulle coste del Sud tunisino, però, le agenzie stampa segnalano un nuovo «aumento delle partenze». Secondo l’Ansa, durante le notti del 18 e 19 giugno, Lampedusa ha contato prima dodici, poi altri quindici sbarchi. Gli arrivi sono stati 18, con 290 persone in totale, anche tra la mezzanotte e le due del 23 giugno. Come accadeva durante i mesi di febbraio e marzo, a raggiungere le coste siciliane sono soprattutto ivoriani, malesi, ghanesi, nigeriani, sudanesi, egiziani. I principali porti di partenza delle persone che raggiungono l’Italia via mare, nel 2023, si trovano soprattutto in Tunisia.

      È durante questo giugno piovoso che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è atterrata a Tunisi non una ma ben due volte, con l’intento di negoziare quello che ha tutta l’aria di uno scambio: un maggior sostegno finanziario al bilancio di una Tunisia sempre più in crisi in cambio di ulteriori azioni di militarizzazione del Mediterraneo centrale. Gli aiuti economici promessi da Bruxelles, necessari perché la Tunisia eviti la bancarotta, sono condizionati alla firma di un nuovo accordo con il Fondo monetario internazionale. Il prezzo da pagare, però, sono ulteriori passi avanti nel processo di esternalizzazione della frontiera dell’Unione europea. Un processo già avviato da anni che, come abbiamo raccontato nelle precedenti puntate di #TheBigWall, si è tradotto in finanziamenti alla Tunisia per un valore di 59 milioni di euro dal 2011 a oggi, sotto forma di una lunga lista di equipaggiamenti a beneficio del ministero dell’Interno tunisino.

      Che l’Italia si stia nuovamente muovendo in questo senso, è stato reso noto dalla documentazione raccolta tramite accesso di richiesta agli atti da IrpiMedia in collaborazione con ActionAid sull’ultimo finanziamento di 12 milioni di euro approvato a fine 2022. A dimostrarlo, è anche l’ultima gara d’appalto pubblicata da Unops, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Servizi di Progetto, che dal 2020 fa da intermediario tra il inistero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale italiano (Maeci) e il ministero dell’Interno tunisino, per la fornitura di sette nuove motovedette, in scadenza proprio a giugno.

      Le motovedette si sommano al recente annuncio, reso noto da Altreconomia a marzo 2023, della fornitura di 100 pick-up Nissan Navara alla Guardia nazionale tunisina. Con una differenza, però: Roma non negozia più da sola con Tunisi, ma si impone come mediatrice tra il Paese nordafricano e l’Unione europea. Secondo le informazioni confidenziali diffuse da una fonte diplomatica vicina ai negoziati Tunisia-Ue, la lista più recente sottoposta dalla Tunisia alla Commissione europea includerebbe anche «droni, elicotteri e nuove motovedette per un totale di ulteriori 200 milioni di euro». Durante la visita del 19 giugno, anche la Francia ha annunciato un nuovo sostegno economico a Tunisi del valore di 26 milioni di euro finalizzato a «contrastare la migrazione».

      Il prezzo del salvataggio dalla bancarotta sono i migranti

      Entro fine giugno è attesa la firma del nuovo memorandum tra Unione europea e Tunisia. Ad annunciarlo è stata la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, arrivata a Tunisi l’11 giugno insieme a Giorgia Meloni e a Mark Rutte, il primo ministro olandese.

      La visita ha fatto seguito al Consiglio dell’Ue, il vertice che riunisce i ministri competenti per discutere e votare proposte legislative della Commissione in cui sono stati approvati alcuni provvedimenti che faranno parte del Patto sulla migrazione e l’asilo. L’intesa, che dovrebbe sostituire anche il controverso Regolamento di Dublino ma deve ancora essere negoziata con l’Europarlamento, si lega alle trattative con la Tunisia. Tra i due dossier esiste un parallelismo tracciato dalla stessa Von Der Leyen che, a seguito del recente naufragio di fronte alle coste greche, ha dichiarato: «Sulla migrazione dobbiamo agire in modo urgente sia sul quadro delle regole che in azioni dirette e concrete. Per esempio, il lavoro che stiamo facendo con la Tunisia per stabilizzare il Paese, con l’assistenza finanziaria e investendo nella sua economia».

      Nel frattempo, in Tunisia, la situazione economica si è fatta sempre più complicata. Il 9 giugno, infatti, l’agenzia di rating Fitch ha declassato il Paese a “-CCC” per quanto riguarda l’indice Idr, Issuer default ratings, ovvero il misuratore della capacità di solvenza di aziende e fondi sovrani. Più è basso, più è alta la possibilità, secondo Fitch, che il Paese (o la società, quando l’indice Idr si applica alle società) possa finire in bancarotta. Colpa principalmente delle trattative fallite tra il governo di Tunisi e il Fondo monetario internazionale (Fmi): ad aprile 2023, il presidente Kais Saied ha rifiutato pubblicamente un prestito da 1,9 miliardi di dollari.

      Principale ragione del diniego tunisino sono stati i «diktat», ha detto Saied il 6 aprile, imposti dal Fmi, cioè una serie di riforme con possibili costi sociali molto alti. Al discorso, sono seguite settimane di insistente lobbying da parte italiana, a Tunisi come a Washington, perché si tornasse a discutere del prestito. Gli aiuti promessi da Von Der Leyen in visita a Tunisi (900 milioni di euro di prestito condizionato, oltre ai 150 milioni di sostegno bilaterale al bilancio) sono infatti condizionati al sì dell’Fmi.

      La Tunisia, quindi, ha bisogno sempre più urgentemente di sostegno finanziario internazionale per riuscire a chiudere il bilancio del 2023 e a rispettare le scadenze del debito pubblico estero. E le trattative per fermare i flussi migratori si intensificano. A giugno 2023, come riportato da AnsaMed, Meloni ha dichiarato di voler «risolvere alla partenza» la questione migranti, proprio durante la firma del Patto sull’asilo a Bruxelles. Finanziamenti in cambio di misure di controllo delle partenze, quindi. Ma di che tipo? Per un’ipotesi che tramonta, un’altra sembra prendere corpo.
      I negoziati per il nuovo accordo di riammissione

      La prima ipotesi è trasformare la Tunisia in un hotspot, una piattaforma esterna all’Unione europea per lo smistamento di chi avrebbe diritto a una forma di protezione e chi invece no. È un’idea vecchia, che compariva già nelle bozze di accordi Ue-Tunisia fermi al 2018, dove si veniva fatto esplicito riferimento ad «accordi regionali di sbarco» tra Paesi a Nord del Mediterraneo e Paesi a Sud, e a «piattaforme di sbarco […] complementari a centri controllati nel territorio Ue». All’epoca, la Tunisia rispose con un secco «no» e anche oggi sembra che l’esito sarà simile. Secondo una fonte vicina alle trattative in corso per il memorandum con l’Ue, «è improbabile che la Tunisia accetti di accogliere veri e propri centri di smistamento sul territorio».

      L’opinione del presidente tunisino Kais Saied, infatti, è ben diversa dai toni concilianti con i quali ha accolto i rappresentanti politici europei, da Meloni ai ministri dell’Interno di Francia (Gérald Darmanin) e Germania (Nancy Faeser), questi ultimi incontrati lo scorso 19 giugno. Saied ha più volte ribadito che «non saremo i guardiani dell’Europa», provando a mantenere la sua immagine pubblica di “anti-colonialista” e sovranista.

      Sotto la crescente pressione economica, esiste comunque la possibilità che il presidente tunisino scenda a più miti consigli e rivaluti l’idea della Tunisia come hotspot. In questo scenario, i Paesi Ue potrebbero rimandare in Tunisia non solo persone tunisine a cui è negata la richiesta d’asilo, ma anche persone di altre nazionalità che hanno qualche tipo di legame (ancora tutto da definire nei dettagli) con la Tunisia. Il memorandum Tunisia-Ue, quindi, potrebbe includere delle clausole relative non solo ai rimpatri dei cittadini tunisini, ma anche alle riammissioni di cittadini di altri Paesi.

      A sostegno di questa seconda ipotesi ci sono diversi elementi. Il primo è un documento della Commissione europea sulla cooperazione estera in ambito migratorio, visionato da IrpiMedia, datato maggio 2022, ma anticipato da una bozza del 2017. Nel documento, in riferimento a futuri accordi di riammissione, si legge che la Commissione avrebbe dovuto lanciare, «entro la fine del 2022», «i primi partenariati con i Paesi nordafricani, tra cui la Tunisia». Il secondo elemento è contenuto nell’accordo raggiunto dal Consiglio sul Patto. Su pressione dell’Italia, la proposta di legge prevede la possibilità di mandare i richiedenti asilo in un Paese terzo considerato sicuro, sulla base di una serie di fattori legati al rispetto dei diritti umani in generale e dei richiedenti asilo più nello specifico.
      I dubbi sulla Tunisia, Paese terzo sicuro

      A marzo 2023 – durante il picco di partenze dalla Tunisia a seguito di un violento discorso del presidente nei confronti della comunità subsahariana nel Paese – la lista dei Paesi di origine considerati sicuri è stata aggiornata, e include ormai non solo la Tunisia stessa, sempre più insicura, come raccontato nelle puntate precedenti, ma anche la Costa d’Avorio, il Ghana, la Nigeria. Che rappresentano ormai le prime nazionalità di sbarco.

      In questo senso, aveva attirato l’attenzione la richiesta da parte delle autorità tunisine a inizio 2022 di laboratori mobili per il test del DNA, utilizzati spesso nei commissariati sui subsahariani in situazione di regolarità o meno. Eppure, nel contesto la situazione della comunità subsahariana nel Paese resta estremamente precaria. Solo la settimana scorsa un migrante di origine non chiara, ma subsahariano, è stato accoltellato nella periferia di Sfax, dove la tensione tra famiglie tunisine in situazioni sempre più precarie e subsahariani continua a crescere.

      Malgrado un programma di ritorno volontario gestito dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), continua a esistere una tendopoli di fronte alla sede dell’organizzazione internazionale. La Tunisia, dove manca un quadro legale sul diritto di asilo che tuteli quindi chi viene riconosciuto come rifugiato da UNHCR, continua a non essersi dotata di una zona Sar (Search & Rescue). Proprio a questo fa riferimento esplicito la bozza del nuovo patto sull’asilo firmato a Bruxelles. Una delle condizioni richieste, allora, potrebbe essere proprio quella di notificare all’Organizzazione marittima internazionale (Imo) una zona Sar una volta ottenuti tutti gli equipaggiamenti richiesti dal ministero dell’Interno tunisino.

      https://irpimedia.irpi.eu/thebigwall-crisi-economica-rimpatri-cosa-stanno-negoziando-ue-tunisia
      #crise_économique #UE #externalisation

    • Pour garder ses frontières, l’Europe se précipite au chevet de la Tunisie

      Alors que le régime du président #Kaïs_Saïed peine à trouver un accord avec le #Fonds_monétaire_international, la Tunisie voit plusieurs dirigeants européens — notamment italiens et français — voler à son secours. Un « soutien » intéressé qui vise à renforcer le rôle de ce pays comme garde-frontière de l’Europe en pleine externalisation de ses frontières.

      C’est un fait rarissime dans les relations internationales. En l’espace d’une semaine, la présidente du Conseil italien, Giorgia Meloni, aura effectué deux visites à Tunis. Le 7 juin, la dirigeante d’extrême droite n’a passé que quelques heures dans la capitale tunisienne. Accueillie par son homologue Najla Bouden, elle s’est ensuite entretenue avec le président Kaïs Saïed qui a salué, en français, une « femme qui dit tout haut ce que d’autres pensent tout bas ». Quatre jours plus tard, c’est avec une délégation européenne que la présidente du Conseil est revenue à Tunis.

      Accompagnée de la présidente de la Commission européenne #Ursula_von_der_Leyen et du premier ministre néerlandais #Mark_Rutte, Meloni a inscrit à l’agenda de sa deuxième visite les deux sujets qui préoccupent les leaders européens : la #stabilité_économique de la Tunisie et, surtout, la question migratoire, reléguant au second plan les « #valeurs_démocratiques ».

      Un pacte migratoire

      À l’issue de cette rencontre, les Européens ont proposé une série de mesures en faveur de la Tunisie : un #prêt de 900 millions d’euros conditionné à la conclusion de l’accord avec le Fonds monétaire international (#FMI), une aide immédiate de 150 millions d’euros destinée au budget, ainsi que 105 millions pour accroitre la #surveillance_des_frontières. Von der Leyen a également évoqué des projets portant sur l’internet à haut débit et les énergies vertes, avant de parler de « rapprochement des peuples ». Le journal Le Monde, citant des sources bruxelloises, révèle que la plupart des annonces portent sur des fonds déjà budgétisés. Une semaine plus tard, ce sont #Gérald_Darmanin et #Nancy_Faeser, ministres français et allemande de l’intérieur qui se rendent à Tunis. Une #aide de 26 millions d’euros est débloquée pour l’#équipement et la #formation des gardes-frontières tunisiens.

      Cet empressement à trouver un accord avec la Tunisie s’explique, pour ces partenaires européens, par le besoin de le faire valoir devant le Parlement européen, avant la fin de sa session. Déjà le 8 juin, un premier accord a été trouvé par les ministres de l’intérieur de l’UE pour faire évoluer la politique des 27 en matière d’asile et de migration, pour une meilleure répartition des migrants. Ainsi, ceux qui, au vu de leur nationalité, ont une faible chance de bénéficier de l’asile verront leur requête examinée dans un délai de douze semaines. Des accords devront également être passés avec certains pays dits « sûrs » afin qu’ils récupèrent non seulement leurs ressortissants déboutés, mais aussi les migrants ayant transité par leur territoire. Si la Tunisie acceptait cette condition, elle pourrait prendre en charge les milliers de subsahariens ayant tenté de rejoindre l’Europe au départ de ses côtes.

      Dans ce contexte, la question des droits humains a été esquivée par l’exécutif européen. Pourtant, en mars 2023, les eurodéputés ont voté, à une large majorité, une résolution condamnant le tournant autoritaire du régime. Depuis le mois de février, les autorités ont arrêté une vingtaine d’opposants dans des affaires liées à un « complot contre la sûreté de l’État ». Si les avocats de la défense dénoncent des dossiers vides, le parquet a refusé de présenter sa version.

      L’allié algérien

      Depuis qu’il s’est arrogé les pleins pouvoirs, le 25 juillet 2021, Kaïs Saïed a transformé la Tunisie en « cas » pour les puissances régionales et internationales. Dans les premiers mois qui ont suivi le coup de force, les pays occidentaux ont oscillé entre « préoccupations » et compréhension. Le principal cadre choisi pour exprimer leurs inquiétudes a été celui du G 7. C’est ainsi que plusieurs communiqués ont appelé au retour rapide à un fonctionnement démocratique et à la mise en place d’un dialogue inclusif. Mais, au-delà des proclamations de principe, une divergence d’intérêts a vite traversé ce groupement informel, séparant les Européens des Nord-Américains. L’Italie — et dans une moindre mesure la France — place la question migratoire au centre de son débat public, tandis que les États-Unis et le Canada ont continué à orienter leur communication vers les questions liées aux droits et libertés. En revanche, des deux côtés de l’Atlantique, le soutien à la conclusion d’un accord entre Tunis et le FMI a continué à faire consensus.

      La fin de l’unanimité occidentale sur la question des droits et libertés va faire de l’Italie un pays à part dans le dossier tunisien. Depuis 2022, Rome est devenue le premier partenaire commercial de Tunis, passant devant la France. Ce changement coïncide avec un autre bouleversement : la Tunisie est désormais le premier pays de départ pour les embarcations clandestines en direction de l’Europe, dans le bassin méditerranéen. Constatant que la Tunisie de Kaïs Saïed a maintenu une haute coopération en matière de #réadmission des Tunisiens clandestins expulsés du territoire italien, Rome a compris qu’il était dans son intérêt de soutenir un régime fort et arrangeant, en profitant de son rapprochement avec l’Algérie d’Abdelmadjid Tebboune, qui n’a jamais fait mystère de son soutien à Kaïs Saïed. Ainsi, en mai 2022, le président algérien a déclaré qu’Alger et Rome étaient décidées à sortir la Tunisie de « son pétrin ». Les déclarations de ce type se sont répétées sans que les autorités tunisiennes, d’habitude plus promptes à dénoncer toute ingérence, ne réagissent publiquement. Ce n’est pas la première fois que l’Italie et l’#Algérie — liées par un #gazoduc traversant le territoire tunisien — s’unissent pour soutenir un pouvoir autoritaire en Tunisie. Déjà, en 1987, Zine El-Abidine Ben Ali a consulté Rome et Alger avant de déposer le président Habib Bourguiba.

      L’arrivée de Giorgia Meloni au pouvoir en octobre 2022 va doper cette relation. La dirigeante d’extrême droite, élue sur un programme de réduction drastique de l’immigration clandestine, va multiplier les signes de soutien au régime en place. Le 21 février 2023, un communiqué de la présidence tunisienne dénonce les « menaces » que font peser « les hordes de migrants subsahariens » sur « la composition démographique tunisien ». Alors que cette déclinaison tunisienne de la théorie du « Grand Remplacement » provoque l’indignation, — notamment celle de l’Union africaine (UA) — l’Italie est le seul pays à soutenir publiquement les autorités tunisiennes. Depuis, la présidente du Conseil italien et ses ministres multiplient les efforts diplomatiques pour que la Tunisie signe un accord avec le FMI, surtout depuis que l’UE a officiellement évoqué le risque d’un effondrement économique du pays.

      Contre les « diktats du FMI »

      La Tunisie est en crise économique au moins depuis 2008. Les dépenses sociales engendrées par la révolution, les épisodes terroristes, la crise du Covid et l’invasion de l’Ukraine par la Russie n’ont fait qu’aggraver la situation du pays.

      L’accord avec l’institution washingtonienne est un feuilleton à multiples rebondissements. Fin juillet 2021, avant même la nomination d’un nouveau gouvernement, Saïed charge sa nouvelle ministre des Finances Sihem Namsia de poursuivre les discussions en vue de l’obtention d’un prêt du FMI, prélude à une série d’aides financières bilatérales. À mesure que les pourparlers avancent, des divergences se font jour au sein du nouvel exécutif. Alors que le gouvernement de Najla Bouden semble disposé à accepter les préconisations de l’institution financière (restructuration et privatisation de certaines entreprises publiques, arrêt des subventions sur les hydrocarbures, baisse des subventions sur les matières alimentaires), Saïed s’oppose à ce qu’il qualifie de « diktats du FMI » et dénonce une politique austéritaire à même de menacer la paix civile. Cela ne l’empêche pas de promulguer la loi de finances de l’année 2023 qui reprend les principales préconisations de l’institution de Bretton Woods.

      En octobre 2022, un accord « technique » a été trouvé entre les experts du FMI et ceux du gouvernement tunisien et la signature définitive devait intervenir en décembre. Mais cette dernière étape a été reportée sine die, sans aucune explication.

      Ces dissensions au sein d’un exécutif censé plus unitaire que sous le régime de la Constitution de 2014 trouvent leur origine dans la vision économique de Kaïs Saïed. Après la chute de Ben Ali, les autorités de transition ont commandé un rapport sur les mécanismes de corruption du régime déchu. Le document final, qui pointe davantage un manque à gagner (prêts sans garanties, autorisations indument accordées…) que des détournements de fonds n’a avancé aucun chiffre. Mais en 2012, le ministre des domaines de l’État Slim Ben Hmidane a avancé celui de 13 milliards de dollars (11,89 milliards d’euros), confondant les biens du clan Ben Ali que l’État pensait saisir avec les sommes qui se trouvaient à l’étranger. Se saisissant du chiffre erroné, Kaïs Saïed estime que cette somme doit être restituée et investie dans les régions marginalisées par l’ancien régime. Le 20 mars 2022, le président promulgue une loi dans ce sens et nomme une commission chargée de proposer à « toute personne […] qui a accompli des actes pouvant entraîner des infractions économiques et financières » d’investir l’équivalent des sommes indument acquises dans les zones sinistrées en échange de l’abandon des poursuites.

      La mise en place de ce mécanisme intervient après la signature de l’accord technique avec le FMI. Tandis que le gouvernement voulait finaliser le pacte avec Washington, Saïed mettait la pression sur la commission d’amnistie afin que « la Tunisie s’en sorte par ses propres moyens ». Constatant l’échec de sa démarche, le président tunisien a préféré limoger le président de la commission et dénoncer des blocages au sein de l’administration. Depuis, il multiplie les appels à un assouplissement des conditions de l’accord avec le FMI, avec l’appui du gouvernement italien. Le 12 juin 2023, à l’issue d’une rencontre avec son homologue italien, Antonio Tajani, le secrétaire d’État américain Anthony Blinken s’est déclaré ouvert à ce que Tunis présente un plan de réforme révisé au FMI.

      Encore une fois, les Européens font le choix de soutenir la dictature au nom de la stabilité. Si du temps de Ben Ali, l’islamisme et la lutte contre le terrorisme étaient les principales justifications, c’est aujourd’hui la lutte contre l’immigration, devenue l’alpha et l’oméga de tout discours politique et électoraliste dans une Europe de plus en plus à droite, qui sert de boussole. Mais tous ces acteurs négligent le côté imprévisible du président tunisien, soucieux d’éviter tout mouvement social à même d’affaiblir son pouvoir. À la veille de la visite de la délégation européenne, Saïed s’est rendu à Sfax, deuxième ville du pays et plaque tournante de la migration clandestine. Il est allé à la rencontre des populations subsahariennes pour demander qu’elles soient traitées avec dignité, avant de déclarer que la Tunisie ne « saurait être le garde-frontière d’autrui ». Un propos réitéré lors de la visite de Gérald Darmanin et de son homologue allemande, puis à nouveau lors du Sommet pour un nouveau pacte financier à Paris, les 22 et 23 juin 2023.

      https://orientxxi.info/magazine/pour-garder-ses-frontieres-l-europe-se-precipite-au-chevet-de-la-tunisie

    • Perché oggi Meloni torna in Tunisia

      È la terza visita da giugno: l’obiettivo è un accordo per dare al paese aiuti economici europei in cambio di più controlli sulle partenze di migranti

      Nella giornata di domenica è previsto un viaggio istituzionale in Tunisia della presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, insieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al primo ministro olandese #Mark_Rutte. Per Meloni è la terza visita in Tunisia in poco più di un mese: era andata da sola una prima volta il 6 giugno, e poi già insieme a von der Leyen e Rutte l’11 giugno.

      Il motivo delle visite è stata una serie di colloqui con il presidente tunisino, l’autoritario Kais Saied, per firmare un “memorandum d’intesa” tra Unione Europea e Tunisia che ha l’obiettivo di fornire un aiuto finanziario al governo tunisino da circa un miliardo di euro. Questi soldi si aggiungerebbero al prestito del Fondo Monetario Internazionale (#FMI) da 1,7 miliardi di euro di cui si parla da tempo e che era stato chiesto dalla Tunisia per provare a risolvere la sua complicata situazione economica e sociale.

      Il memorandum, di cui non sono stati comunicati i dettagli, secondo fonti a conoscenza dei fatti impegnerebbe la Tunisia ad applicare alcune riforme chieste dall’FMI, e a collaborare maggiormente nel bloccare le partenze di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Italia via mare.

      Nell’incontro dell’11 giugno le discussioni non erano andate benissimo, e avevano portato solo alla firma di una dichiarazione d’intenti. La visita di domenica dovrebbe invece concludersi con una definizione degli accordi, almeno nelle intenzioni dei leader europei. «Speriamo di concludere le discussioni che abbiamo iniziato a giugno», aveva detto venerdì la vice portavoce della Commissione Europea Dana Spinant annunciando il viaggio di domenica.

      Il memorandum d’intesa prevede che l’Unione Europea offra alla Tunisia aiuti finanziari sotto forma di un prestito a tassi agevolati di 900 milioni di euro – da erogare a rate nei prossimi anni – oltre a due contributi a fondo perduto rispettivamente da 150 milioni di euro, come contributo al bilancio nazionale, e da 100 milioni di euro per impedire le partenze delle imbarcazioni di migranti. Quest’ultimo aiuto di fatto replicherebbe su scala minore quelli dati negli anni scorsi a Libia e Turchia affinché impedissero con la forza le partenze di migranti e richiedenti asilo.

      Dell’accordo si è parlato molto criticamente nelle ultime settimane per via delle violenze in corso da tempo nel paese, sia da parte della popolazione locale che delle autorità, nei confronti dei migranti subsahariani che transitano nel paese nella speranza di partire via mare verso l’Europa (e soprattutto verso l’Italia). Da mesi il presidente Kais Saied – che negli ultimi tre anni ha dato una svolta autoritaria al governo del paese – sta usando i migranti come capro espiatorio per spiegare la pessima situazione economica e sociale in cui si trova la Tunisia.

      Ha più volte sostenuto che l’immigrazione dai paesi africani faccia parte di un progetto di «sostituzione demografica per rendere la Tunisia un paese unicamente africano, che perda i suoi legami con il mondo arabo e islamico». Le sue parole hanno causato reazioni razziste molto violente da parte di residenti e polizia nei confronti dei migranti, con arresti arbitrari e varie aggressioni. L’ultimo episodio è stato segnalato all’inizio di luglio, quando le forze dell’ordine tunisine hanno arrestato centinaia di migranti provenienti dall’Africa subsahariana e li hanno portati con la forza in una zona desertica nell’est del paese al confine con la Libia.

      https://www.ilpost.it/2023/07/16/tunisia-meloni

    • Firmato a Tunisi il memorandum d’intesa tra Tunisia e Ue, Meloni: «Compiuto passo molto importante»

      Saied e la delegazione Ue von der Leyen, Meloni e #Rutte siglano il pacchetto complessivo di 255 milioni di euro per il bilancio dello Stato nordafricano e per la gestione dei flussi migratori. 5 i pilastri dell’intesa

      E’ stato firmato il Memorandum d’intesa per una partnership strategica e globale fra Unione europea e Tunisia. L’Ue ha diffuso il video della cerimonia di firma, alla quale erano presenti la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il premier dell’Olanda Mark Rutte e il presidente tunisino Kais Saied. Al termine della cerimonia di firma è iniziato l’incontro fra i tre leader europei e Saied, a seguito del quale sono attese dichiarazioni alla stampa. L’incontro si svolge nel palazzo presidenziale tunisino di Cartagine, vicino Tunisi. Per raggiungere questo obiettivo Bruxelles ha proposto un pacchetto di aiuti (150 milioni a sostegno del bilancio dello Stato e 105 milioni come supporto al controllo delle frontiere), su cui era stato avviato un negoziato.

      «Il Team Europe torna a Tunisi. Eravamo qui insieme un mese fa per lanciare una nuova partnership con la Tunisia. E oggi la portiamo avanti». Lo scrive sui social la Presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, postando foto con lei, Meloni, Rutte e Saied.

      E nella conferenza stampa congiunta con Saied, Meloni e Rutte la presidente ha affermato che la Ue coopererà con la Tunisia contro i trafficanti di migranti.

      «Abbiamo raggiunto un obiettivo molto importante che arriva dopo un grande lavoro diplomatico. Il Memorandum è un importante passo per creare una vera partnership tra l’Ue e la Tunisia». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni al termine dell’incontro con Kais Saied nel palazzo di Cartagine. L’intesa va considerata «un modello» perle relazioni tra l’Ue e i Paesi del Nord Africa.

      L’obiettivo iniziale era di firmare un Memorandum d’intesa entro lo scorso Consiglio europeo, del 29 e 30 giugno, ma c’è stato uno slittamento. L’intesa con l’Europa, nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbe anche facilitare lo sblocco del finanziamento del Fondo monetario internazionale da 1,9 miliardi al momento sospeso, anche se in questo caso la trattativa è tutta in salita.

      Anche oggi, nel giorno della firma del Memorandum di Intesa tra Unione europea e Tunisia, a Lampedusa - isola simbolo di migrazione e di naufragi - sono sbarcati in 385 (ieri quasi mille). L’obiettivo dell’accordo voluto dalla premier Meloni e il presidente Saied è soprattutto arginare il flusso incontrollato di persone che si affidano alla pericolosa via del mare per approdare in Europa. Un problema che riguarda i confini esterni meridionali dell’Unione europea, come ha sempre sottolineato la presidente del Consiglio, che oggi arriverà a Tunisi per la seconda volta, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e con il collega olandese Mark Rutte.

      Le dichiarazioni della premier Giorgia Meloni

      «Oggi abbiamo raggiunto un risultato estremamente importante, il memorandum firmato tra Tunisia e Ue è un ulteriore passo verso la creazione di un vero partenariato che possa affrontare in modo integrato la crisi migratoria e lo sviluppo per entrambe le sponde del Mediterraneo».

      Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel punto stampa dopo la firma del Memorandum.

      «Il partenariato con la Tunisia- ha aggiunto Meloni- rappresenta per noi un modello per costruire nuove relazioni con i vicini del Nord Africa. Il memorandum è un punto di partenza al quale dovranno conseguire diversi accordi per mettere a terra gli obiettivi che ci siamo dati».

      Infine la presidente del Consiglio ha ricordato che «domenica prossima 23 luglio a Roma ci sarà la conferenza internazionale sull’immigrazione che avrà come protagonista il presidente Saied e con lui diversi capi di Stato e governo dei paesi mediterranei. E’ un altro importante passo per affrontare la cooperazione mediterranea con un approccio integrato e io lo considero come l’inizio di un percorso che può consentire una partnership diversa da quella che abbiamo avuto nel passato».

      Le dichiarazioni della Presidente della Commisisone Europea

      Per Ursula Von der Leyen l’accordo odierno è «un buon pacchetto di misure», da attuare rapidamente «in entrambe le sponde del Mediterraneo» ma ha anche precisato che «L’ assistenza macrofinanziaria sarà fornita quando le condizioni lo permetteranno».

      La Presidente ha elencato i 5 pilastri del Memorandum con la Tunisia:

      1) creare opportunità per i giovani tunisini. Per loro «ci sarà una finestra in Europa con l’#Erasmus». Per le scuole tunisine stanziati 65 milioni;

      2) sviluppo economico della Tunisia. La Ue aiuterà la crescita e la resilienza dell’economia tunisina;

      3) investimenti e commercio: "La Ue è il più grande partner economico della Tunisia. Ci saranno investimenti anche per migliorare la connettività della Tunisia, per il turismo e l’agricoltura. 150 milioni verranno stanziati per il ’#Medusa_submarine_cable' tra Europa e Tunisia;

      4) energia pulita: la Tunisia ha «potenzialità enormi» per le rinnovabili. L’ Europa ha bisogno di «fonti per l’energia pulita. Questa è una situazione #win-win. Abbiamo stanziato 300 milioni per questo progetto ed è solo l’inizio»;

      5) migranti: «Bisogna stroncare i trafficanti - dice Von der Leyen - e distruggere il loro business». Ue e Tunisia coordineranno le operazioni Search and Rescue. Per questo sono stanziati 100 milioni di euro.

      Le dichiarazioni del Presidente Kais Saied

      «Dobbiamo trovare delle vie di collaborazione alternative a quelle con il Fondo Monetario Internazionale, che è stato stabilito dopo la seconda Guerra mondiale. Un regime che divide il mondo in due metà: una metà per i ricchi e una per i poveri eche non doveva esserci». Lo ha detto il presidente tunisino Kais Saied nelle dichiarazioni alla stampa da Cartagine.

      «Il Memorandum dovrebbe essere accompagnato presto da accordi attuativi» per «rendere umana» la migrazione e «combattere i trafficanti. Abbiamo oggi un’assoluta necessità di un accordo comune contro la migrazione irregolari e contro la rete criminale di trafficanti».

      «Grazie a tutti e in particolare la premier Meloni per aver risposto immediatamente all’iniziativa tunisina di organizzare» un vertice sulla migrazione con i Paesi interessati.

      https://www.rainews.it/articoli/2023/07/memorandum-dintesa-tra-unione-europea-e-tunisia-la-premier-meloni-von-der-le
      #memorandum_of_understanding #développement #énergie #énergie_renouvelable #économie #tourisme #jeunes #jeunesse #smugglers #traficants_d'êtres_humains #aide_financière

    • La Tunisie et l’Union européenne signent un partenariat sur l’économie et la politique migratoire

      La présidente de la Commission européenne s’est réjouie d’un accord destiné à « investir dans une prospérité partagée », évoquant cinq piliers dont l’immigration irrégulière. La Tunisie est un point de départ pour des milliers de migrants vers l’Europe.

      L’Union européenne (UE) et la Tunisie ont signé dimanche 16 juillet à Tunis un protocole d’accord pour un « partenariat stratégique complet » portant sur la lutte contre l’immigration irrégulière, les énergies renouvelables et le développement économique de ce pays du Maghreb. La présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, s’est réjouie d’un accord destiné à « investir dans une prospérité partagée », évoquant « cinq piliers », dont les questions migratoires.

      La Tunisie est un point de départ pour des milliers de migrants qui traversent la Méditerranée vers l’Europe. Les chefs de gouvernement italien, Giorgia Meloni, et néerlandais, Mark Rutte, accompagnaient la dirigeante européenne après une première visite il y a un mois, pendant laquelle ils avaient proposé ce partenariat.

      Il s’agit « d’une nouvelle étape importante pour traiter la crise migratoire de façon intégrée », a dit Mme Meloni, qui a invité le président tunisien, Kais Saied, présent à ses côtés, à participer dimanche à Rome à un sommet sur les migrations. Celui-ci s’est exprimé à son tour pour insister sur le volet de l’accord portant sur « le rapprochement entre les peuples ».

      « Nouvelles relations avec l’Afrique du Nord »

      Selon Mme Meloni, le partenariat entre la Tunisie et l’UE « peut être considéré comme un modèle pour l’établissement de nouvelles relations avec l’Afrique du Nord ». M. Rutte a pour sa part estimé que « l’accord bénéficiera aussi bien à l’Union européenne qu’au peuple tunisien », rappelant que l’UE est le premier partenaire commercial de la Tunisie et son premier investisseur. Sur l’immigration, il a assuré que l’accord permettra de « mieux contrôler l’immigration irrégulière ».

      L’accord prévoit une aide de 105 millions d’euros pour lutter contre l’immigration irrégulière et une aide budgétaire de 150 millions d’euros alors que la Tunisie est étranglée par une dette de 80 % de son produit intérieur brut (PIB) et est à court de liquidités. Lors de sa première visite, la troïka européenne avait évoqué une « assistance macrofinancière de 900 millions d’euros » qui pouvait être fournie à la Tunisie sous forme de prêt sur les années à venir.

      Mme von der Leyen a affirmé dimanche que Bruxelles « est prête à fournir cette assistance dès que les conditions seront remplies ». Cette « assistance » de l’UE est conditionnée à un accord entre la Tunisie et le Fonds monétaire international (FMI) pour un nouveau crédit du Fonds, un dossier qui est dans l’impasse depuis des mois.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/07/16/la-tunisie-et-l-union-europeenne-signent-un-partenariat-sur-l-economie-et-la

    • Les députés reprochent à la Commission européenne d’avoir signé un accord avec un « cruel dictateur » tunisien

      Des eurodéputés ont dénoncé mardi le protocole d’accord signé par l’UE avec la Tunisie.

      L’accord a été conclu dimanche après une réunion à Tunis entre le président tunisien Kaïs Saïed et la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen, accompagnée de la Première ministre italienne Giorgia Meloni et du Premier ministre néerlandais Mark Rutte.

      Le texte, qui doit encore être précisé, prévoit l’allocation d’au moins 700 millions d’euros de fonds européens, dont certains sous forme de prêts, dans le cadre de cinq piliers : la stabilité macroéconomique, l’économie et le commerce, la transition verte, les contacts interpersonnels et les migrations.

      Ursula von der Leyen a présenté le mémorandum comme un « partenariat stratégique et global ». Mais les eurodéputés ont adopté un point de vue très critique sur la question. Ils dénoncent les contradictions entre les valeurs fondamentales de l’Union européenne et le recul démocratique en cours en Tunisie. Ils ont également déploré l’absence de transparence démocratique et de responsabilité financière.

      La figure de Kaïs Saïed, qui a ouvertement diffusé des récits racistes contre les migrants d’Afrique subsaharienne a fait l’objet des reproches de la part des parlementaires.

      https://twitter.com/sylvieguillaume/status/1681221845830230017

      « Il est très clair qu’un accord a été conclu avec un dictateur cruel et peu fiable », a dénoncé Sophie in ’t Veld (Renew Europe). « Le président Saïed est un dirigeant autoritaire, ce n’est pas un bon partenaire, c’est un dictateur qui a augmenté le nombre de départs ».

      S’exprimant au nom des sociaux-démocrates (S&D), Birgit Sippel a accusé les autorités tunisiennes d’abandonner les migrants subsahariens dans le désert « sans nourriture, sans eau et sans rien d’autre », un comportement qui a déjà été rapporté par les médias et les organisations humanitaires.

      « Pourquoi la Tunisie devrait-elle soudainement changer de comportement ? Et qui contrôle l’utilisation de l’argent ? » interroge Birgit Sippel, visiblement en colère.

      « Nous finançons à nouveau un autocrate sans contrôle politique et démocratique au sein de cette assemblée. Ce n’est pas une solution. Cela renforcera un autocrate en Tunisie », a-t-elle ajouté.

      https://twitter.com/NatJanne/status/1680982627283509250

      En face, la Commissaire européenne en charge des Affaires intérieures Ylva Johansson, a évité toute controverse et a calmement défendu le mémorandum UE-Tunisie. La responsable suédoise a souligné que le texte introduit des obligations pour les deux parties.

      « Il est clair que la Tunisie est sous pression. Selon moi, c’est une raison de renforcer et d’approfondir la coopération et d’intensifier le soutien à la Tunisie », a-t-elle répondu aux députés européens.

      Selon Ylva Johansson, 45 000 demandeurs d’asile ont quitté la Tunisie cette année pour tenter de traverser la « route très meurtrière » de la Méditerranée centrale. Cette « augmentation considérable » suggère un changement du rôle de la Tunisie, de pays d’origine à pays de transit, étant donné que « sur ces 45 000, seuls 5 000 étaient des citoyens tunisiens ».

      « Il est très important que notre objectif principal soit toujours de sauver des vies, d’empêcher les gens d’entreprendre ces voyages qui finissent trop souvent par mettre fin à leur vie, c’est une priorité », a poursuivi la Commissaire.

      Les députés se sont concentrés sur les deux enveloppes financières les plus importantes de l’accord : 150 millions d’euros pour l’aide budgétaire et 105 millions d’euros pour la gestion des migrations, qui seront toutes les deux déboursées progressivement. Certains eurodéputés ont décrit l’aide budgétaire, qui est censée soutenir l’économie fragile du pays, comme une injection d’argent dans les coffres privés de Kaïs Saïed qui serait impossible à retracer.

      « Vous avez financé un dictateur qui bafoue les droits de l’homme, qui piétine la démocratie tunisienne que nous avons tant soutenue. Ne nous mentez pas ! », s’est emporté Mounir Satouri (les Verts). « Selon nos analyses, les 150 et 105 millions d’euros sont une aide au Trésor (tunisien), un versement direct sur le compte bancaire de M. Kaïs Saïed ».

      https://twitter.com/alemannoEU/status/1680659154665340928

      Maria Arena (S&D) a reproché à la Commission européenne de ne pas avoir ajouté de dispositions supplémentaires qui conditionneraient les paiements au respect des droits de l’homme.

      « Nous donnons un chèque en blanc à M. Saïed, qui mène actuellement des campagnes racistes et xénophobes, soutenues par sa police et son armée », a déclaré l’eurodéputée belge.

      « Croyez-vous vraiment que M Saïed, qui a révoqué son parlement, qui a jeté des juges en prison, qui a démissionné la moitié de sa juridiction, qui interdit maintenant aux blogueurs de parler de la question de l’immigration et qui utilise maintenant sa police et son armée pour renvoyer des gens à la frontière (libyenne), croyez-vous vraiment que M. Saïed va respecter les droits de l’homme ? Madame Johansson, soit vous êtes naïve, soit vous nous racontez des histoires ».

      Dans ses réponses, Ylva Johansson a insisté sur le fait que les 105 millions d’euros affectés à la migration seraient « principalement » acheminés vers des organisations internationales qui travaillent sur le terrain et apportent une aide aux demandeurs d’asile, comme l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), bien qu’elle ait admis que certains fonds seraient en fait fournis aux agents tunisiens sous la forme de navires de recherche et de sauvetage et de radars.

      https://twitter.com/vonderleyen/status/1680626156603686913

      « Permettez-moi d’insister sur le fait que la Commission européenne, l’UE, n’est pas impliquée dans le refoulement de ressortissants de pays tiers vers leur pays d’origine. Ce que nous faisons, c’est financer, par l’intermédiaire de l’OIM, les retours volontaires et la réintégration des ressortissants de pays tiers », a souligné la Commissaire.

      « Je ne suis pas d’accord avec la description selon laquelle la Tunisie exerce un chantage. Je pense que nous avons une bonne coopération avec la Tunisie, mais il est également important de renforcer cette coopération et d’augmenter le soutien à la Tunisie. Et c’est l’objectif de ce protocole d’accord ».

      https://fr.euronews.com/my-europe/2023/07/18/les-deputes-reprochent-a-la-commission-europeenne-davoir-signe-un-accor

  • Proudhon et Cham
    http://anarlivres.free.fr/pages/nouveau.html#cham

    Grâce à un amical concours, nous avons pu numériser les albums de caricatures de Proudhon par Cham (« La Banque-Proudhon et autres banques socialistes » et « Proudhon en voyage »), le troisième était déjà disponible sur Internet Archive (« Proudhoniana. Album dédié aux propriétaires »). Cham (fils du Noé de la Bible) est le pseudo d’Amédée Charles Henri de Noé, dessinateur avec Honoré Daumier du journal satirique « Le Charivari ». Son trait est assez sommaire mais il est extrêmement prolifique, inventif, et suit parfaitement les évolutions politiques de son journal. Anti-monarchiste sous le roi Louis-Philippe, « Le Charivari » va saluer avec satisfaction l’avènement de la République le 24 février 1848. Depuis deux jours, sous l’impulsion des libéraux et des républicains, une partie du peuple de Paris – frappé de plein fouet par la crise économique et sociale – s’est soulevée et a pris le contrôle de la capitale (...)

    #Proudhon #Cham #anarchisme #caricature #révolution1848 #Charivari

  • Le artiste e designer iraniane che sostengono la protesta nelle piazze

    Da più di due mesi migliaia di giovani scendono in piazza contro il regime di Teheran. Una pagina Instagram (https://www.instagram.com/iranianwomenofgraphicdesign) condivide sui social network illustrazioni che rappresentano i gesti simbolici delle manifestazioni: dal taglio dei capelli agli hijab dati alle fiamme. “Continuate a mantenere alta l’attenzione su quello che succede in Iran”

    https://altreconomia.it/con-le-loro-opere-artiste-e-designer-iraniane-sostengono-la-protesta-ne

    #art_et_politique #Iran #Iranian_Women_of_Graphic_Design #design #dessin #caricatures #dessin_de_presse #instagram

  • Un dessin de #Herji, avec ce commentaire de l’auteur :
    « Mon premier dessin pour Vigousse, sur le difficile sujet des viols de guerre pratiqués par l’armée russe en Ukraine »

    –-> pour la petite histoire, Herji a été un étudiant « à moi » à Genève et puis « mon » stagiaire quand je travaillais à Vivre Ensemble...

    #viols #Ukraine #viols_de_guerre #dessin_de_presse #caricature #Russie

  • #Colonia_per_maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere

    Quella degli italiani che combatterono o lavorarono nelle colonie africane del fascismo è una storia poco e mal conosciuta. Questo libro intende fornire un contributo di conoscenza sui comportamenti e i sentimenti di quanti, militari o civili, furono coinvolti nella colonizzazione dell’Etiopia (1935-41). Attraverso lo studio di memorie e diari inediti, ma anche della propaganda e della letteratura coloniale coeva, il volume indaga sul significato del colonialismo per gli italiani in termini di identità maschile, sia sul piano dell’esperienza vissuta che su quello dell’immaginario e della rappresentazione, pubblica e privata. Partendo dall’ipotesi della conquista coloniale come «terapia» per arginare la «degenerazione» del maschio e, in questa chiave, dal mito dell’Africa come luogo di frontiera e «paradiso dei sensi», il saggio intreccia l’analisi dei modelli maschili e delle politiche coloniali del fascismo con la ricostruzione delle esperienze quotidiane e delle percezioni di sé degli italiani. In particolare, sulla scia di molti studi coloniali stranieri focalizzati sulle variabili di genere e razza, l’analisi si sofferma sulla sfera dei complessi e multiformi contatti con gli uomini e le donne della società locale. Ne emerge un quadro articolato e contraddittorio, un complesso di relazioni tra colonizzatori e colonizzati sicuramente caratterizzato da gerarchie e razzismo, ma anche da rapporti amicali, erotici e omoerotici, paternalistici e, talora, paterni.
    Come scrive Luisa Passerini nella prefazione, questo libro è un «contributo originale [...] a un tema di grande rilevanza, che permette di comprendere meglio sia la complessità del passato recente della nazione sia le difficoltà di fare i conti con il suo retaggio coloniale».

    http://www.ombrecorte.it/vecchio/more.asp?id=129&tipo=documenta

    #colonialisme #colonisation #Italie_coloniale #colonialisme_italien #genre #femmes #livre #masculinité #identité_masculine

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien:
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    • La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une #sexualité sur ordonnance (1), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      PARTIE 1

      Le 9 mai 1936, à Rome, dans un discours retransmis par des milliers de haut-parleurs dans toute l’Italie, Mussolini annonce la conquête de l’Éthiopie. Du Palais de Venise où il est acclamé par une foule en liesse, le Duce prétend donner au monde une leçon de civilisation, célébrant le combat de l’Italie contre « l’arbitraire cruel », « l’esclavage millénaire » et la victoire de la justice sur la barbarie. La veille, dans un climat analogue, le Duce s’est adressé aux organisations féminines du régime, et a remercié les femmes d’avoir soutenu l’héroïsme de leurs frères, fils et maris en résistant aux sanctions décrétées par la Société des Nations1. Quelques mois plus tôt pour la journée de la « Foi », des cohortes de femmes avaient offert leur alliance, le don de l’anneau nuptial symbolisant l’engagement de toute la nation dans l’aventure coloniale.

      Cette communion des genres sur l’autel de l’impérialisme fasciste ne doit pas masquer que la guerre d’Éthiopie fut un pic d’exaltation de la virilité par un régime qui l’avait élevée à des sommets jamais atteints2. « Rappelez-vous que la passion des colonies est la plus masculine, la plus fière et la plus puissante qu’un Italien puisse nourrir ; aimez-les plus encore pour les sacrifices qu’elles nous ont coûtés et qu’elles nous coûteront que pour les richesses qu’elles pourront nous apporter. Préparez-vous à mesurer dans les colonies votre force de dominateur et votre pouvoir de condottiere » exhortait le maréchal Rodolfo Graziani, devenu vice-Roi d’Éthiopie en juin 19363. Guerre coloniale et fasciste, le conflit éthiopien fut pensé comme un temps fort dans la stratégie destinée à créer un « homme nouveau fasciste »4. Soldats et colons étaient invités par le Duce, le maréchal Graziani et les élites fascistes à se comporter en peuple dominateur et impitoyable. Tous les moyens furent bons pour écraser un adversaire aussi mal équipé que déterminé : emploi de gaz asphyxiants, bombardements, massacres de civils, anéantissement des élites5. L’Éthiopie fut le théâtre d’une violence extrême. Soldats et hiérarques expérimentèrent l’hubris guerrière, comme aux meilleurs temps du squadrisme, l’infériorité présumée des indigènes autorisant une cruauté particulière. Dans son journal, l’intellectuel et hiérarque fasciste Giuseppe Bottai déplorait des épisodes de barbarie dont s’étaient principalement rendus coupables des officiers et dirigeants : « Le mouton des classes moyennes devient un petit lion, confondant l’héroïsme et la cruauté »6. Starace, le secrétaire national du parti fasciste, n’avait pas hésité à donner l’exemple, se livrant à des exercices de tir sur des prisonniers tandis que des soldats prenaient la pose près de cadavres ou brandissaint des restes humains comme des trophées.

      En dépit de discours affichant un humanisme à l’italienne, les autorités fascistes ne réprimèrent pas ces pratiques barbares des combattants, jugeant plus important de modifier les comportements sur un autre terrain : celui de la sexualité. Quelques mois après le début des hostilités, les relations des Italiens avec les femmes éthiopiennes devinrent, aux yeux des élites fascistes, une véritable « question » politique et une bataille prioritaire du régime.

      Les Éthiopiennes, obscurs objets de désir

      Préparée par plusieurs décennies d’idéologie nationaliste, la conquête de l’Éthiopie avait suscité de nombreuses attentes au sein de la population italienne. Au désir des plus démunis d’accéder à la propriété foncière s’ajoutaient des motivations plus complexes où se mêlaient confusément, comme dans d’autres contextes coloniaux, exotisme et érotisme. La beauté légendaire des femmes de la région n’était pas pour rien dans l’attrait de cet Eldorado, l’espoir de les posséder apparaissant aussi légitime que la prétention à s’emparer des terres.
      Photographies d’Éthiopiennes forcément dénudées, comme dans la plupart des représentations des femmes africaines jusqu’aux années Trente, romans populaires publicités et chansons avaient aussi contribué, avant et pendant la conquête, à répandre le stéréotype de créatures à la sensualité exacerbée, offertes au plaisir de l’homme blanc7. Dans l’Italie puritaine qui n’autorisait la nudité que dans l’art, les poitrines des Éthiopiennes nourrissaient tous les fantasmes. « Les Italiens avaient hâte de partir. L’Abyssinie, à leurs yeux, apparaissait comme une forêt de superbes mamelles à portée de main » se souvient Léo Longanesi8. Pendant la guerre, de nombreux dessins humoristiques véhiculés par la presse ou des cartes postales opposaient l’image d’un peuple d’hommes arriérés et sauvages et de femmes séduisantes et avenantes9. Dans un registre qui se voulait humoristique, le dessinateur Enrico De Seta, sur une carte intitulée « Bureau de poste », montrait un soldat devant un guichet postal. Il s’apprêtait à expédier un curieux colis : une femme abyssine empaquetée dans une couverture, dont dépassaient la tête et les pieds10 !

      En 1935, la chanson Faccetta Nera, (Petite frimousse noire) avait accompagné les troupes en campagne. Composée d’abord en dialecte romain, la chanson était devenue très populaire dans sa version italienne11. Les paroles étaient à l’image des sentiments complexes des colonisateurs à l’égard des femmes africaines : volonté de possession et de domination, promesse de libération et de civilisation, désir et fascination. « Facetta Nera, Belle abyssine, attends et espère, l’heure est prochaine. Quand nous serons près de toi nous te donnerons une autre loi et un autre roi. Notre loi est esclavage d’amour, notre slogan est liberté et devoir etc. »12.

      L’imaginaire des romanciers ou chansonniers n’était pas sans rapport avec une certaine réalité des rapports hommes femmes en Éthiopie. Tandis qu’en Italie les interdits pesant sur la sexualité des femmes étaient encore très forts, l’Éthiopie offrait aux femmes, surtout aux Amharas, une liberté plus grande, les relations hors mariage n’étant pas frappées d’opprobre comme dans les sociétés catholiques européennes. Non seulement le concubinage était une pratique qui n’était pas réprouvée par l’entourage – le mariage dämòs permettait aux femmes une forme d’union contractuelle temporaire- mais il pouvait s’inscrire, comme l’ont révélé des travaux récents, du point de vue des Éthiopiennes, dans le cadre d’une stratégie d’élévation sociale, voire d’émancipation13. La pratique du madamismo était répandue, en Somalie et en Érythrée, y compris parmi les fonctionnaires et militaires de haut grade14. En Érythrée, le fonctionnaire Alberto Pollera, pour convaincu qu’il fût des bienfaits de la colonisation, et en dépit de ses responsabilités, n’en avaient pas moins six enfants de deux femmes érythréennes15. Comme l’écrit Giulia Barrera : « The madamato was a set of relationships grounded in the material basis of colonialism and shaped by colonial discourse but it was lived out by concrete individuals : by men who participated in very different ways in the colonial enterprise and by women who were note merely passive victims »16.

      Pour les 300 000 pionniers et soldats présents après la conquête, certains subirent, effectivement, le « doux esclavage » mentionné par la chanson. Même quand la fascination n’était pas au rendez-vous, le concubinage s’imposait presque par défaut, représentant « la véritable institution des rapports sexuels sous le colonialisme »17. En dépit de la propagande visant à les attirer, bien peu de femmes de métropole avaient accepté de s’installer sur place, craignant l’insécurité ou des conditions de vie précaire. Peu après la conquête, un navire de 2000 épouses et fiancées fut appareillé à destination de l’Empire18. En 1938, 10 000 Italiennes avaient accepté de participer à l’aventure coloniale, dont la moitié dans la capitale de l’Empire. Le régime avait également cherché à installer des prostituées blanches recrutées dans la péninsule mais, là encore, l’offre était restée largement inférieure à la demande19. Les hommes continuaient de fréquenter assidûment les sciarmute, les prostituées indigènes, que les autorités s’efforçaient contrôler. Parmi les 1500 femmes autorisées à faire le commerce du sexe à Addis Abeba, et contrôlées lors de visites médicales, les autorités distinguaient trois catégories, identifiables à la couleur d’un petit drapeau affiché sur leur tucul, l’habitation traditionnelle : jaune pour les officiers, verte pour les soldats et travailleurs, noir pour les troupes coloniales. Cette prostitution encadrée et hiérarchisée ne couvrait pas davantage les besoins et certains responsables militaires s’indignaient des longues files d’attente devant les bordels indigènes. Restaient enfin les prostituées occasionnelles ou clandestines, présentes sur l’ensemble du territoire.

      Entre l’exploitation sexuelle des indigènes et la chasteté existait toute une gradation de comportements. Le concubinage fut l’un d’entre-eux qui présentait, avant d’être placé hors la loi, de nombreux avantages pour les colons. Avant la conquête de l’Éthiopie, dans les colonies italiennes d’Afrique noire, Somalie et Érythrée, il était fréquent que des fonctionnaires de l’administration coloniale ou des militaires vivent avec des femmes africaines. Les compagnes des Italiens étaient nommées les madame et le concubinage le madamismo. Ces unions donnaient souvent lieu à la naissance d’enfants métis qui eurent la possibilité, à partir de 1933, en vertu de la « Loi organique pour l’Érythrée et la Somalie » d’obtenir la nationalité italienne20. En Érythrée, en 1935, on comptait 1000 métis sur une population de 3500 Italiens21. Pour les colons, la mise en ménage avec des Éthiopiennes, résultait de motivations diverses, parfois concomitantes, qui n’excluaient pas le sentiment amoureux : disposer d’une compagne pour partager le quotidien et les tâches ménagères, disposer d’une partenaire sexuelle stable et plus sûre que des prostituées. Le journaliste Indro Montanelli, enrôlé comme volontaire en Éthiopie à l’âge de 23 ans, fut nommé à la tête d’un bataillon d’indigènes Érythréens. Il dit avoir « acheté » à son père pour 500 lires, une jeune fille de douze ans. Pratique répréhensible en métropole mais diffusée dans les colonies, celle-ci était justifiée en ces termes : « mais à douze ans [en Afrique] les jeunes filles sont déjà des femmes ». À son départ, il revendit la jeune fille « petit animal docile » à un officier de haut rang, lequel disposait déjà d’un « petit harem »22 Selon son témoignage, la jeune fille était musulmane.

      Avant que le racisme ne devînt doctrine officielle du fascisme, les points de vue sur les unions mixtes étaient partagés. Lidio Cipriani s’alarmait du métissage alors que les démographes Corrado Gini ou Domenico Simonelli y voyait une opportunité de régénération des populations européennes et, pour le second, un facteur de peuplement pour les colonies23. Dans la presse coloniale, les unions mixtes n’étaient pas encore dénoncées24. En février 1936, dans l’Illustrazione coloniale, Lorenzo Ratto opposait l’attitude raciste des colonisateurs britanniques à la tradition « romaine » de fraternisation avec les populations vaincues. Réprouvant le métissage avec les « nègres », il admettait les unions mixtes avec les Éthiopiennes, racialement supérieures : « les plus belles filles de race sémitico-éthiopiennes, facilement sélectionnables sur les plateaux éthiopiens pourront être choisies par les pionniers du Génie militaire rural pour faire partie de nos colonies en tant qu’épouses légitimes (…) »25.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure de L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      « Éloge des femmes italiennes » discours prononcé le 8 mai 1936, in B. Mussolini, Édition définitive des œuvres de B. Mussolini, ed. Flammarion, vol. XI, 1938, p. 69-71. [↩]
      Voir G. L. Mosse, L’image de l’homme. L’invention de la virilité moderne, Pocket, Agora, p. 179-203. B., Spackman, Fascist Virilities : Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, 1996. [↩]
      Cité par F. Le Houérou, L’épopée des soldats de Mussolini en Abyssinie. 1936-1938. Les ensablés, L’Harmattan, 1994, p. 50. [↩]
      M.-A. Matard-Bonucci, P. Milza, L’Homme nouveau entre dictature et totalitarisme, Fayard, 2004. [↩]
      A. Sbacchi, Legacy of Bitterness. Ethiopia end fascist Italy, 1935-1941, The Read Sea Press, 1997. Voir en particulier le chapitre 3, “Poison gas and atrocities in the Italo-Ethiopian War, 1935-1936”, p. 55-85. A. Del Boca (dir.) , I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori riuniti, 1996. G. Rochat, « L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-1937 », in Italia contemporanea, 1975, n. 118, pp. 3-38. Plus généralement, voir l’œuvre considérable d’A. Del Boca, de R. Pankhurst. Voir aussi A. Mockler, Haile Selassie’s war : The Italian Ethiopian campaign, 1936-41, Oxford University Press, 1984, rééd. Grafton Books, 1987. [↩]
      G. Bottai, Diario 1935-1944, Ed . Bur, 2001, p. 102, note du 16 mai 1936. [↩]
      Sur la littérature coloniale : G. Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palerme, Sellerio, 1984. R. Bonavita, « Lo sguardo dall’alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali nella narrativa esotica », in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologne, 1994, p. 53-62. [↩]
      Cité par A. Petacco, Faccetta nera, Mondadori, ed. 2008, p. 191. [↩]
      Voir les vignettes reproduites dans le catalogue La Menzogna della Razza, p. 156-157. Sur l’iconographie coloniale : A. Mignemi., Immagine coordinata per un impero, GEF, 1984, Novara. G. Campassi, M.-Teresa Sega, « Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale » in Rivista di storia e teoria della fotografia, vol. 4, n° 5, 1983, p. 54-62. [↩]
      L. Goglia, « Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-1936 : il negro nemico selvaggio e il trionfo della civiltà di Rome » dans le catalogue de l’exposition La menzogna della Razza, cit. p. 27-40. L’image décrite est située dans le catalogue, à la p. 175. [↩]
      S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, GLF, Editori Laterza, Bari-Laterza, 2007, p. 161-162. [↩]
      Le texte de la chanson est publié par A. Petacco, op. cit., p. 189-190. [↩]
      Après avoir été ignorée dans leur dimension raciste et sexiste, les relations hommes-femmes ont été analysées en privilégiant la clef de lecture de l’oppression coloniale puis du genre. Voir G. Campassi, « Il madamato in Africa orientale : relazioni tra italiani e indigene come forma di agressione coloniale » in Miscellanea di storia delle esplorazioni, Genova, 1987, p. 219-260. Giulia Barrera, dans une étude pionnière, se place du point de vue des femmes érythréennes livrant une vision plus complexe des rapports de genre dans ce contexte : G. Barrera, Dangerous Liaisons, Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, PAS Working Paper, Program of african Studies, Northwestern University, Evanston Illinois, USA, 1996. [↩]
      Carlo Rossetti « Razze e religioni nei territori dell’Impero », L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, Rome, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. L’auteur était le chef du Bureau des études du Ministère de l’Afrique italienne. [↩]
      B. Sorgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Torino, Bollato Boringhieri, 2001. [↩]
      G. Barrera, Ibid., p. 6. [↩]
      Voir A. Gauthier, “Femmes et colonialisme” in M. Ferro (dir.), Le livre noir du colonialisme. XVIe-XXIe siècle : de l’extermination à la repentance, Poche, Pluriel, Hachette, 2006, p. 759-811. La citation est à la p. 802. Voir également A.-L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power : Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley : University of California press, 2002. [↩]
      Article de Carlo Rossetti, Capo dell’Ufficio studi del Ministero dell’Africa italiana, « Razze e religioni eni territori dell’Impero », in L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. [↩]
      Sur la prostitution, A. Del Boca, La caduta cit. p. 244-245. Pankhurst, R. « The history of prostitution in Ethiopia », Journal of Ethiopian Studies, 12, n° 2, p. 159-178. [↩]
      À condition, disait le texte de loi, que les intéressés « se montrent dignes de la nationalité italienne par leur éducation, culture et niveau de vie ». Loi du 6 juillet 1933, n° 999. [↩]
      Chiffre cité par A. Del Boca, op. cit., p. 248. [↩]
      Le témoignage de I. Montanelli est cité par E. Biagi in 1935 e dintorni, Mondadori, 1982, 58-61. [↩]
      Sur C. Gini, M.-A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste op. cit., p. 74-75. D. Simonelli, La demografia dei meticci, 1929. [↩]
      Avant la guerre d’Éthiopie, on ne trouve pas de textes dénonçant les méfaits du métissage dans la presse coloniale. Voir le mémoire de maîtrise inédit de F. Marfoli, La vision des Éthiopiens sous le fascisme : étude de quatre revues coloniales italiennes, dir. O. Dumoulin, Université de Rouen, sept-oct 2001. [↩]
      Illustrazione coloniale, Fev. 1936, n.2, « Metodo romano per colonizzare l’Etiopia ». [↩]

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      PARTIE 2
      La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une sexualité sur ordonnance (2), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      Le spectre du #métissage

      La proclamation de l’Empire représenta un tournant dans l’histoire du racisme et de la doctrine fasciste. Jusque-là, la domination des Italiens sur les populations coloniales s’était traduite par un racisme colonial assez banal. En Libye, aucune législation sur le métissage n’avait été adoptée et les Arabes étaient autorisés à fréquenter les bordels des Européens. À une économie propre au racisme qui valorisait les populations arabes par rapport aux habitants d’Afrique noire s’ajoutaient des facteurs objectifs limitant les risques de procréation des couples mixtes : les femmes italiennes y étaient plus nombreuses et les mariages « à court terme » n’existaient pas1.

      Dans la radicalisation raciste de l’été 1936, il est difficile de savoir si la question sexuelle fit office de catalyseur ou servit de révélateur. Mussolini était ulcéré depuis longtemps par l’idée même des couples mixtes. En avril 1934, il avait exigé de retirer de la circulation le roman Amour noir : « Il s’agit des amours d’un Italien avec une négresse. Inadmissible de la part d’une nation qui veut créer un Empire »2. Deux jours après la proclamation de l’Empire, le chef du gouvernement ordonna à Badoglio et Graziani de n’autoriser aucun Italien civil ou militaire à rester plus de six mois sans femme en Éthiopie pour prévenir « les terribles et prévisibles effets du métissage »3. Échafaudant de grands projets d’expansion économique pour l’Empire, Mussolini avait expliqué, à la même époque, au baron Aloisi, chef de cabinet du Ministère des affaires étrangères, son intention d’y envoyer « beaucoup d’Italiens, mais avec l’obligation d’emmener leurs femmes, car il faut absolument éviter le danger d’une race de métis qui deviendraient nos pires ennemis »4. En juin 1936, Facetta Nera tomba en disgrâce peu après avoir subi les assauts du journaliste à succès, Paolo Monelli. Dans un article intitulé « Donne e buoi dei paesi tuoi », et peut-être écrit sur ordonnance, il mettait au défi l’auteur de la chanson de partager quelques jours de l’existence d’une « facetta nera », « une de ces abyssines crasseuses, à la puanteur ancestrale qui puent le beurre rance qui dégouline à petites gouttes dans le cou ; détruites dès l’âge de vingt ans par une tradition séculaire de servage amoureux et rendues froides et inertes dans les bras de l’homme ; pour une beauté au visage noble cent ont les yeux chassieux, les traits durs et masculins, la peau variolée »5. La plume haineuse vitupérait le romantisme à l’eau de rose de la chanson et dénonçait l’incitation à fréquenter les « petites négresses puantes », qui conduisait au métissage et au « délit contre la race ». En rupture avec le climat de badinage et de libertinage qui avait accompagné la conquête de l’Éthiopie, l’article était en phase avec l’évolution idéologique de l’époque. En novembre 1936, devant le Grand Conseil du fascisme Mussolini affirma la nécessité « d’affronter le problème racial et de l’introduire dans la littérature et la doctrine fascistes »6.

      À cette date, la constitution d’un corpus de littérature et de propagande raciste était en bonne voie. Depuis plusieurs mois, le roman d’aventure de la conquête coloniale occupait les pages des journaux. À partir de mai 1936, s’insinua bientôt la figure d’épouvante du métis, en métropole comme dans les colonies, dans les feuilles fascistes comme dans la presse dite d’information7. Non seulement le métissage portait atteinte au prestige de la race mais le métis était présenté tantôt comme un délinquant en puissance, tantôt comme un malheureux. Un haut fonctionnaire du Ministère de l’Afrique italienne brossait un tableau assez sombre : « On a assez vu, en Érythrée et en Somalie, des officiers et fonctionnaires, parfois de grade élevé, vivre maritalement avec des femmes indigènes donnant naissance à une catégorie d’infortunés ; leur paternité italienne n’empêchait pas, une fois le père rentré en métropole, et si les missionnaires n’intervenaient pas, qu’il vive son adolescence dans le milieu de la race maternelle. Ces malheureux étaient évités par les Blancs et méprisés par les Indigènes8.

      Pour la bataille de la race on fit appel à des racistes patentés tels Lidio Cipriani, lequel agitaient depuis le début des années Trente l’épouvantail du métissage entre races supérieures et inférieures9. Ses multiples expéditions « du Cap au Caire » l’avaient imposé comme spécialiste des populations africaines, par des reportages dans des journaux grand public et dans l’Illustrazione italiana10. En 1937, il devint le directeur de l’Institut et du musée d’anthropologie de Florence, l’un des plus renommés d’Italie. Il s’imposa comme l’un des acteurs de premier plan de la croisade contre le métissage jouant un rôle important dans la principale revue du racisme militant, La Difesa della razza, lancée à l’été 193811. Il mit à la disposition de la revue ses collections de photographies des populations africaines12.

      La Difesa della Razza excella dans l’invention de procédés de photomontages destinée à matérialiser visuellement le métissage. Un quart des couvertures interpellait les lecteurs sur ce thème. L’une d’entre elles montrait l’addition d’un faciès de femme blanche et d’homme noir dont il résultait un masque grotesque. Une autre accolait une tête de blanche et d’Africain : de cet étrange Janus, surgissait une tête de mort édentée. Deux mains, l’une blanche, l’autre noire s’enlaçaient laissant choir une fleur fanée. Plus classique, la couverture de mai 1940, mettait en présence une Ève africaine offrant le fruit défendu à un « aryen ». Un cactus, au premier plan signalait, une fois encore, le danger de la fusion des races13.Le Parti fasciste suscita sa propre littérature sur le sujet. En 1939, parut Le problème des métis sous l’égide de l’institut fasciste de l’Afrique italiennes14. « Dieu a créé les blancs, le diable les mulâtres » pouvait-on lire en exergue15. En Afrique, le Parti fasciste fit campagne pour changer les mentalités. Guido Cortese, secrétaire du faisceau d’Addis Abeba, interprétait fidèlement le nouveau cours politique16 : « Le folklore, celui des nus, des pleines lunes, des longues caravanes et des couchers de soleil ardents, des amours folles avec l’indigène humble et fidèle, tout cela représente des choses dépassées, qui relèvent du roman de troisième ordre. Il serait temps de détruire tout de suite les romans, illustrations et chansonnettes de ce genre afin d’éviter qu’ils donnent naissance à une mentalité tout autre que fasciste ».

      Réformer les pratiques sexuelles des Italiens dans l’Empire

      Le 19 avril 1937, un décret-loi fut adopté pour sanctionner les rapports « de nature conjugale » entre citoyens italiens et sujets de l’Empire, passibles de un à cinq ans de prison17. La loi frappait les Italiens seuls et non les sujets de l’Empire – une situation qui serait bientôt considérée comme injuste par certains fascistes qui réclameraient un durcissement de la loi18. Avec les mesures pour la défense de la race qui installèrent l’antisémitisme d’État à l’automne 1938, la question était affrontée dans le cadre de la partition entre citoyens, ou non, de race italienne. Les juifs, comme les sujets de l’Empire, n’appartenaient pas à la race italienne. Dans ce cadre, les mariages entre individus de race différente étaient interdits : même si elle s’appliquait à l’Empire, la loi visait principalement les unions mixtes impliquant des juifs, très fréquentes, alors que celles-ci prolongeaient rarissimement une situation de madamismo.

      Dans l’Empire les troupes d’occupation et les colons pouvaient continuer à fréquenter les maisons closes et les très nombreuses prostituées africaines, les sciarmute19. En juin 1939, une nouvelle loi précisait et aggravait la précédente, la répression des couples mixtes et du métissage s’intégrant dans un texte plus large de défense du prestige de la race20. Tout délit, quel qu’il fût, était passible d’une peine plus lourde (un quart à un tiers) s’il y avait atteinte au prestige de la race italienne, ou lorsqu’il était commis en présence d’un indigène ou en complicité avec celui-ci. La loi reconduisait les dispositions de 1937 sanctionnant les relations de nature conjugale entre Italiens et sujets de l’Empire mais une disposition nouvelle marquait le franchissement d’un seuil dans la lutte contre le métissage. L’article 11, « Inchiesta relativa ai meticci » invitait les Procureurs à diligenter une enquête, en présence d’un enfant métis, probablement conçu après l’entrée en vigueur de la loi d’avril 1937. Le texte annonçait (art 20, Meticci) des dispositions à venir concernant la position des métis dans l’Empire. En mai 1940, de nouvelles dispositions assimilaient les métis à des sujets africains, interdisant aux pères italiens de les reconnaître. À l’instar des mesures antisémites, les lois coloniales ignoraient le statut de métis, par crainte sans doute que l’invention d’une catégorie juridique n’installe durablement le phénomène.

      La répression s’exerça de plusieurs façons. Plusieurs officiers furent rapatriés en métropole et parfois radiés des cadres de l’armée21. S’agissant des civils, il incombait à la police et à la justice de mettre un terme à des agissements qualifiés par le Duce de « scandaleux » et de « criminels ». Une « police » du madamismo était habilitée à distribuer des « billets jaunes » de mise en garde22.

      Plusieurs procès furent attentés à des Italiens pour réprimer le délit de madamismo23. Un premier jugement fut rendu en septembre 1937. Plusieurs dizaines d’autres procès suivirent devant les tribunaux d’Addis Abeba, Asmara, Gondar, Harar. Le nombre de procès peut sembler anecdotique en regard d’un phénomène qui concernait plusieurs milliers d’individus. Mais les textes des décisions de justice sont cependant riches d’enseignements quant à la façon dont les juges interprétaient la loi. La difficulté consistait dans l’établissement du délit, avec ce que cela supposait d’atteintes à la vie privée des individus. Confronté à un premier procès pour madamismo, en novembre 1938, le Tribunal de Gondar admettait la difficulté à juger en regard du caractère récent de la jurisprudence constituée. Il résumait efficacement la ligne de conduite suivie par les juges dans la plupart des procès : « Compte-tenu des jugements rendus par les autres Tribunaux de l’Empire, ce Tribunal entend diriger l’enquête vers la recherche des preuves matérielles telle que la vie commune menée pendant un certain temps et caractérisée par des rapports sexuels réitérés ; il s’agit aussi de déceler, sur le plan moral ou psychique, les éléments attestant d’un lien spirituel particulier qui ressemble d’une façon ou d’une autre à notre affectio maritalis24. À l’évidence, le fait d’avoir des relations sexuelles avec des Africaines n’était pas en cause. Plusieurs sentences laissaient transparaître la compréhension des juges à l’égard des « besoins sexuels » des expatriés, de la nécessité d’un « défoulement physiologique ». Les rapports sexuels occasionnels avec une domestique dès lors qu’elle ne vivait pas sous le même toit n’étaient pas condamnés25.

      Le sexe était toléré avec les indigènes pourvu qu’il fût dénué de tout affect. Dans une affaire de madamismo, les juges de Gondar estimaient que l’accusé -que son attachement manifeste à la femme accablait- n’aurait pas été coupable « s’il s’était servi de la femme seulement comme prostituée en lui payant le prix d’accouplements occasionnels puis en la congédiant après avoir satisfait ses besoins sexuels »26. En dépit de l’affichage d’un tel cynisme, certains juges prétendaient imposer une morale dans le commerce sexuel entre homme blancs et femmes noires, s’indignant parfois des pratiques de certains colons27. Deux Italiens furent ainsi condamnés pour atteinte au prestige de la race, pour avoir partagé une seule chambre à coucher avec deux Éthiopiennes. « Sans nul doute, l’acte sexuel accompli en présence de tiers offense la pudeur et dénote une pudeur inférieure à celle qui existe chez les peuples civilisés, et en particulier au sein du peuple italien du fait de la conjonction heureuse des principes du fascisme et des enseignements moraux du catholicisme. Cela est d’autant plus répréhensible si l’on tient compte de la réserve notoire des femmes indigènes en matière de sexualité. »28

      Comment statuer sur l’existence de rapports sexuels dès lors qu’ils n’étaient plus « de simples échanges destinés à assouvir une pulsion physique »29. Comment établir la réalité d’une relation de nature conjugale ? La cohabitation prolongée constituait donc une présomption importante qui ne fut pas toujours considérée comme suffisante pour l’établissement des faits. Le caractère passionnel de certaines relations était considéré comme preuve de culpabilité. Quelques procès avaient été motivés par des plaintes de femmes contre la violence dont elles avaient été victimes30. La violence contre les femmes n’intéressait pas les juges en tant que telle mais en ce qu’elle révélait une dépendance affective des accusés, en proie à la jalousie. Plusieurs affaires trahissaient le manque de confiance des Italiens à l’égard de leurs compagnes31. Les recommandations de fidélité sexuelle étaient prises pour l’aveu d’une affection coupable. Les cadeaux étaient considérés comme des indices à charge : le caractère utilitaire de certains présents pouvait être plaidé mais ceux qui n’étaient manifestement destinés qu’à faire plaisir, enfonçaient les accusés32. Tous les éléments « à charge » étaient réunis dans une affaire jugée en septembre 1939. Une Africaine avait été embauchée pour 150 lires par mois comme domestique par un homme dont elle partageait le couvert et la couche. L’homme était subjugué par cette femme au point de vanter ses qualités dans son entourage, de lui offrir des parfums. Il était allé la rechercher quand elle l’avait abandonné pour épouser un « homme de sa race ». Pour les juges, la culpabilité était flagrante : « Cohabitation, table commune, confiance et tendresse, jalousie réciproque, cadeaux de coquetterie et non utilitaires font de la petite servante une compagne de vie, ce qu’est justement l’épouse »33. Les marques de tendresse ou d’attention particulière à l’égard des indigènes étaient particulièrement suspectes : raccompagner une femme chez elle le soir, la désigner comme sa femme34, lui rendre visite lorsqu’elle était malade35.

      « L’affection », la passion qualifiée parfois « d’enivrement » étaient en revanche répréhensibles. Le mot « amour » n’était jamais employé, tant les juges considéraient cette éventualité comme improbable ou inconvenante. En janvier 1939, un homme fut condamné à un an et demi de prison pour madamismo. Facteur aggravant, l’homme avait avoué aimer la femme indigène36. Il avait admis lui avoir fait des cadeaux, à elle et à sa mère. Espérant fonder un foyer, il avait préparé une lettre au Roi pour demander à l’épouser. Les juges diagnostiquaient un cas « macroscopique d’ensablement »37, « car ici, le blanc ne désire pas simplement la Vénus noire en la tenant à ses côtés pour des raisons de tranquillité et pour bénéficier de rapports faciles et sûrs mais c’est l’âme de cet Italien qui est troublée ; il est entièrement dévoué à la jeune noire qu’il veut élever au rang de compagne de sa vie et qu’il associe à tous les évènements, y compris hors sexualité, de sa vie38. »

      La lutte contre le métissage inaugura bien, sur le plan juridique, la mise en œuvre d’un racisme biologique fondé sur le principe de la pureté du sang. En ce sens, elle marquait un changement radical dans les conceptions qui avaient prévalu jusque-là en matière de citoyenneté et d’identité, dans l’Empire comme en métropole. Toutefois, ces mesures furent adoptées pour répondre à une question de gouvernance coloniale locale : il n’était pas encore question d’une politique globale de la race -à aucun moment, des mesures analogues ne furent envisagées pour prévenir les métissages arabo-italiens en Libye, autre importante colonie de peuplement italienne- ni de mesures visant les juifs39.

      La partie qui se jouait en Éthiopie concernait autant l’Italie que la corne de l’Afrique. Le front pionnier de l’Empire ramenait sur le devant de la scène les projets de révolution anthropologique et de construction de l’homme nouveau et les difficultés à les mettre en œuvre.

      Sexe, race et totalitarisme fasciste.

      Une fois l’Empire proclamé, le rêve colonial et l’utopie fasciste de l’homme nouveau se trouvèrent en contradiction, non sur le terrain de la violence mais sur celui de la sexualité. Objets de désir, d’abord instrumentalisées par la propagande, les « Vénus noires » furent bientôt diabolisées, leur fréquentation n’étant autorisée que dans le cadre d’une relation proscrivant tout affect. En organisant la prostitution en terre coloniale, le fascisme heurtait la morale en usage dans la péninsule, suscitait la réprobation du Vatican, mais se comportait comme la plupart des puissances coloniales confrontées à la demande sexuelle des troupes en campagne40.

      En revanche, en menant la lutte contre le madamismo à un niveau d’État, le fascisme se singularisait par une démarche fusionnant racisme et totalitarisme, la doctrine de la race venant au secours du projet de révolution anthropologique du régime. D’un côté, en traquant le concubinage des Italiens et des Africaines, les responsables fascistes cherchaient à prévenir le métissage au nom de conceptions racistes qui n’étaient guère originales en contexte colonial41. Mais le régime pourchassait aussi d’autres démons, les défauts supposés d’un peuple que le Duce voulait transformer : le sentimentalisme, un certain humanisme et des comportements jugés aux antipodes de la virilité fasciste.

      Dans la métropole, la volonté d’orienter les comportements affectifs et sexuels était à l’œuvre depuis plusieurs années. La famille et la procréation devaient borner l’horizon amoureux des Italiens. Dans cette perspective, l’homosexualité -masculine seulement- fut réprimée par le code pénal de 1931. En décembre 1926 une taxe sur le célibat fut adoptée, les célibataires ne cessant par la suite d’être montrés du doigt et pénalisés, par exemple dans leur carrière lorsqu’ils étaient fonctionnaires. Paolo Orano intellectuel proche du pouvoir assimilait le célibat à une forme « de fuoruscitismo » civil et social42.

      S’agissant du couple, il n’était guère besoin de légiférer sur les rapports hommes femmes tant la domination des premiers allait de soi. Toutefois, certains fascistes rêvaient aussi de marquer les relations amoureuses au sceau du totalitarisme fasciste. Dès 1915, le nationaliste Giovanni Papini, l’une des sources d’inspiration du fascisme, recommandait dans Maschilità de se libérer de la famille, du romantisme et de l’amour, opposant les femmes et hommes, le miel et la pierre, et dénonçant l’amour comme un asservissement43. Pour un régime qui érigeait la famille en absolu et qui s’appuyait sur l’Église pour gouverner, il semblait difficile, après 1922, de souscrire à la totalité de ce programme. Paolo Orano proposait une voie de compromis étant entendu que sous le fascisme, « L’État entre avec méthode et énergie au cœur de la moralité individuelle et domestique, car il est le maître de la vie sociale ». Il convenait de se libérer de l’idée bourgeoise suivant laquelle l’amour devait précéder le mariage et en finir avec les illusions romantiques et égoïstes de l’amour comme fin en soi. Le couple devenait une forme d’association tendue vers la procréation dont l’amour était une conséquence et non un préalable44.

      Cette philosophie des rapports homme femme inspira la politique fasciste en Éthiopie. L’éloignement, de plus fortes contraintes pour les hommes dans un contexte de guerre puis d’occupation permettaient, en théorie, de contrôler plus efficacement les comportements amoureux. Dans l’économie licite des pratiques sexuelles deux solutions s’offraient aux soldats colons fascistes, célibataires par force : la chasteté, le colonisateur cédant la place à une forme de moine soldat, ou la pratique d’une sexualité déconnectée de tout sentiment.

      Ceux qui firent le premier choix furent une minorité. Certains hommes mariés mirent un point d’honneur à résister à la tentation du sexe qui « était au cœur de toutes les préoccupations »45. Brandissant l’étendard de la fidélité au mariage, ils justifiaient l’obligation de chasteté et la frustration sexuelle par la morale, les valeurs du catholicisme, la loi fasciste et une répulsion d’ordre raciste46. Laissant femme et enfants dans la péninsule, Nicola Gattari était venu en Éthiopie comme soldat et y était resté pour se faire une situation, comme patron de camion. Dans certaines lettres adressées à sa femme bien-aimée, il abordait ce sujet délicat47 « Je suis un homme jeune plein de désirs mais qui peut les satisfaire ? Ces femmes noires puantes auprès de qui des milliers d’hommes de tous les âges contractent des infections ? Non, ma chérie, ton Nicola reviendra comme il est parti, je te le jure (…) Pense à nos retrouvailles, comme notre étreinte sera belle ! » Répondant à son épouse qui lui avait demandé, sans trop y croire, s’il était tombé amoureux d’une petite noire, il réaffirmait sa constance : … « Oui, je passerai peut-être pour un imbécile par rapport à d’autres et je dois admettre que ma volonté de rester fidèle aux liens sacrés du mariage doit être le fait d’un résident sur mille en Afrique. Si je me suis amouraché d’une petite négresse ? Je pourrais te répondre que pour conquérir une de ces pouilleuses il n’y a pas besoin d’être amoureux car ce sont des filles faciles : 5 lires suffisent et l’affaire est conclue ».

      La prostitution constituait donc une porte de sortie. Celle-ci ne bloquait pas nécessairement l’appel du concubinage, le passage de la condition de sciarmutta à celle de madama étant fréquente chez les femmes éthiopiennes48. En allant inspecter les chambres à coucher, en suscitant les confessions intimes lors des procès, l’État avait, en effet, pénétré « au cœur de la moralité individuelle et domestique ». De trop nombreuses barrières rendaient l’entreprise difficile dans la métropole : elle fut tentée, au nom de la lutte contre le métissage, dans l’Empire. Par leurs recommandations concernant les échanges avec les indigènes, les juges inventaient un idéal-type, celui d’une sexualité émancipée de tout sentiment, ramenée en définitive, à la « masculinité » exaltée par Papini.

      Quel fut l’impact des procès et des condamnations qui en résultèrent ? Le traitement judiciaire de la question permit aux juges de montrer leur zèle fasciste. Les sentences des procès furent autant de leçons de racisme et de fascisme, infligées peut-être surtout pour l’exemple à des hommes de milieux modestes49. En infligeant une peine d’un an et demi de prison à un prévenu manifestement amoureux d’une Éthiopienne le juge prétendait lui « éclaircir les idées »50.La répression installa un climat de peur parmi certains colons, à en juger par les comportements des couples qui se cachaient et d’amants qui se réunissaient une fois la nuit tombée51.

      En janvier 1939, l’anthropologue raciste Lidio Cipriani, était modérément optimiste : « Malheureusement l’obscénité des rapports sexuels entre Blancs et indigènes continue, mais il semblerait que les mesures racistes aient conduit à une diminution sensible des cas de fécondation indésirables … Il est probable que le blanc commence désormais à se rendre compte de l’inconvénient qu’il y a à s’abandonner sans vergogne à une femme de couleur »52. Toutefois, la plupart des témoignages invitent à penser que la loi contre le madamismo ne fut guère respectée, y compris par ceux qui devaient imposer l’ordre fasciste, et notamment les carabiniers53. En Érythrée, on dénombrait 10 000 les femmes africaines vivant avec des Italiens en 1935 et 15 000 en 194054.

      La question du sexe et du métissage, comme d’autres mesures destinées à réformer les comportements en profondeur traçait les limites de l’emprise fasciste sur les esprits et de sa capacité à façonner les mœurs.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure deL’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      C. Ipsen, Demografia totalitaria, Il Mulino, p. 256. [↩]
      Propos rapporté par le Baron Pompeo Aloisi, chef de cabinet du ministre des affaires étrangères à partir de juillet 1932 : Journal (25 juillet 1932-14 juin 1936), Plon, Paris, 1957, p. 185. [↩]
      Télégramme de Mussolini à Badoglio et Graziani, in La menzogna cit., p. 20. [↩]
      B Aloisi, Journal, cit., p. 382. La conversation est datée du 8 mai. [↩]
      L’article parut dans La Gazzetta del popolo de Turin, le 13 juin 1936. [↩]
      G. Bottai, Diario 1936-1943, op. cit., p. 115. 19 novembre 1936. Rien ne prouve qu’à cette date, Mussolini songeait aussi à l’antisémitisme. [↩]
      La presse coloniale fut particulièrement mobilisée : en janvier 1940, Africa italiana sortait un numéro spécial « Discipline et tutelle des races dans l’Empire ». Un mois plus tard, la même revue traitait du rôle de la femme italienne dans l’Empire. [↩]
      C. Rossetti, Ibid. [↩]
      L. Cipriani, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, 1932. Sur le personnage, voir : R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 161-163. [↩]
      In Africa, dal Capo al Cairo est le titre du livre publié en 1932, Florence, Bemporad. [↩]
      Sur le rôle de cette revue dans le dispositif propagandiste raciste, M. A. Bonucci, L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Perrin, 2007. [↩]
      P. Chiozzi, “Autoritratto del razzismo : le fotografie di Lidio Cipriani in La menzogna della razza, cit., p. 91-94. [↩]
      Les couvertures évoquées sont respectivement celles des numéros : A. III, 14-20/05/40
      A. III, 11- 5/04/40 ; A. IV, 3-5/12/40 ; A. III, 8-20/02/1940. [↩]
      G. Masucci, Il problema dei meticci, Istituto Fascista dell’Africa italiana, 1939, XVII. [↩]
      Un compte-rendu figure dans Razza e Civiltà, A. I, n°1, 23 mars 1940, p. 107. [↩]
      G. Cortese, Problemi dell’Impero, Pinciana, Rome, 1937. Cité in F. Le Houerou, op. cit., p.95. [↩]
      Décret-Loi (RDL) du 19 avril 1937, n°880, « Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi » [↩]
      Voir la position de Giovanni Rosso, « Il reato di madamismo nei confronti dell’indigena che abbia una relazione di indole coniugale con un cittadino italiano » in Razza e Civiltà, An I, n°1, p. 131-139. [↩]
      Voir A. Del Boca, La caduta dell’Impero, op. cit., p. 243-245. [↩]
      RDL n°1004 du 29 juin 1939. [↩]
      A. Del Boca évoque plusieurs cas, in La caduta cit. , p. 246-247. [↩]
      F. Le Houerou, op. cit., p. 95. [↩]
      La Revue Razza e Civiltà, publiée à partir de mars 1940 : il s’agissait de l’organe du Conseil Supérieur et de la Direction générale pour la Démographie et la race. Dans le cadre de la rubrique « Giurisprudenza e legislazione razziale » a publié de nombreux extraits des décisions judiciaires. Les analyses présentées ci-dessus se fondent sur l’analyse de 28 cas présentés par la revue. La moitié conclut au délit de madamismo ou d’atteinte à la dignité raciale. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Président Maistro, Accusé Spano. RC, An I, n.1 p. 128-131. [↩]
      Sentence du 7 février 1939, accusé Venturiello, Pres. Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Accusé Spano, Président Maistro RC, An I, n.1 p. 1p. 130. [↩]
      Voir Sentence de la Cour d’Appel d’Addis Abeba, 4 avril 1939, accusé Isella, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 552. [↩]
      Sentence du 21 décembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusés Lauria et Ciulla, Pres. Morando, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Accusé Melchionne, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. « I congressi carnali perdono il carattere d’incontro a mero sfogo fisiologico ». [↩]
      Ainsi, le procès contre G. Spano a été suscité par une plainte de sa concubine auprès des carabiniers. Sentence du tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, RC, An I, n°1, p. 128. [↩]
      Cour d’Appel d’Addis Abeba, Sentences du 31 janvier 1939, Accusé Seneca, Pres Guerrazzi ; 3. janvier 1939 Accusé Marca, Pres. Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548 et 551. [↩]
      Des cadeaux sont mentionnés dans plusieurs affaires. [↩]
      Sentence du 5 septembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Fagà, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 547. [↩]
      Sentence du 14 février 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Autieri, Pres Carnaroli , RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Giuliano, Pres Carnaroli RC, A. I, n°5-6-7, p. 550. [↩]
      L’expression utilisée est « volerle bene ». [↩]
      On désignait comme insabbiati, « ensablés », les hommes restés vivre en Éthiopie, souvent aux côtés d’une Africaine. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Seneca, Pres Guerrazzi , RC, A. I, n°5-6-7, p 548-549 [↩]
      Outre que le métissage semblait inspirer moins de crainte s’agissant des Arabes que des populations d’Afrique noire, des raisons tenant au contexte proprement libyen expliquent un tel choix : présence plus nombreuse de femmes italiennes en Libye ; statut différent du mariage dans ce pays par rapport à l’Éthiopie. Cf. C. Ipsen, op. cit, p. 256. [↩]
      Au demeurant, en métropole aussi, le fascisme avait une politique visant à contrôler la prostitution sans l’interdire définitivement. Sur la duplicité du gouvernement italien qui réprima la présence de prostituées dans la rue et mais la tolérait dans des bordels soumis à un contrôle policier et sanitaire : V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Tascabili Marsili, p. 73-74. [↩]
      V. Joly écrit : « Les amours exotiques doivent être éphémères. Les femmes indigènes ne sont que des substituts qu’imposent la solitude et l’éloignement de la promise qui attend en métropole, simple rêve parfois. Elles ne doivent pas plus être sentimentales tant est vive la crainte du « métissage » affaiblissement pour la race du vainqueur », in « Sexe, guerre et désir colonial » in F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman, Amours, guerres et sexualité 1914-1945, Gallimard, BDIC, 2007, 62-69. [↩]
      La formule est de Paolo Orano in « Famiglia, razza, potenza », Il fascismo, vol. II, Pinciana, Rome, XVIII, p. 391-429. Le fuoruscitismo désignait l’exil antifasciste. [↩]
      Maschilità, Firenze, Libreria della Voce, 1915. [↩]
      P. Orano, Ibid. [↩]
      A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, La caduta dell’Impero, Rome-Bari, Laterza, 1982, p. 243. [↩]
      A. Del Boca donne quelques exemples parmi lesquels celui du Résident de Bacco ou encore le témoignage d’un Consul de la Milice. Ibid. p. 250. [↩]
      Ces lettres ont été publiées par S. Luzzatto, La strada per Adis Abeba. Lettere di un camionista dall’Impero (1936-1941), Paravia. Scriptorium, 2000 : Les citations sont aux pages 85 et 144. [↩]
      G. Barrera, op. cit. p. 26. [↩]
      Les sentences des procès ne permettent pas toujours de connaître la profession des accusés. Reste que l’impression dominante est celle de procès attentés à des hommes de condition modeste, issus du prolétariat ou d’une basse classe moyenne. Sur la sociologie des colons éthiopiens, F. le Houérou, op. cit., p. 115-135. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusé Seneca, Président Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548-549. [↩]
      Autant qu’on puisse en juger par les allusions contenues dans certaines sentences à la crainte de perquisitions de la police pendant la nuit pour constater le délit. [↩]
      Archivio Centrale dello Stato (Rome) MCP, Gab., b. 151, lettre du 18/01/1939. Dans une autre lettre de l’hiver 1939, à une époque où il propose, il est vrai, ses services comme « consulente razziale nell’Impero », Cipriani revient sur la question (Lettre de Cipriani à Landra du 31/01/39, in ACS, MCP, Gab., b. 151). [↩]
      F. Le Houérou a recueilli 35 témoignages dont la plupart émanent des « ensablés », les Italiens restés sur place souvent après avoir vécu avec une Madama. Par sa nature, la population interviewée amplifie peut-être la réalité du phénomène. Voir en particulier, op. cit. p. 97-105. [↩]
      Chiffres cités par G. Barrera, op. cit., p. 43. [↩]

      http://dormirajamais.org/conquete-2

      via @olivier_aubert à qui je dis #merci (@olivier_aubert —> j’ai déplacé la référence ici, car plus appropriée qu’ici : https://seenthis.net/messages/972185)

      #femmes #stéréotypes #caricature #dessin_de_presse #passion #condottiere #squadrisme #désir #Faccetta_Nera #imaginaire #Amharas #concubinage #mariage_dämòs #union_contractuelle_temporaire #madamismo #Somalie #Erythrée #Ethiopie #doux_esclavage #rapports_sexuels #sciarmute #prostitution #bordels #exploitation_sexuelle #Loi_organique_pour_l’Erythrée_et_la_Somalie #Indro_Montanelli #racisme #fascisme #unions_mixtes #Difesa_della_Razza #photographie

  • Mort de #Blessing, 20 ans, à la frontière : un témoin sort de l’ombre pour accuser les gendarmes

    La Nigériane #Blessing_Matthew a été retrouvée noyée dans les Alpes en 2018, après que des gendarmes ont tenté de l’interpeller. Alors qu’un non-lieu a été prononcé, un témoin clé parle aujourd’hui pour la première fois et met en cause les forces de l’ordre. Mediapart l’a rencontré. Une sœur de Blessing et l’association Tous migrants demandent la réouverture du dossier. Révélations.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/300522/mort-de-blessing-20-ans-la-frontiere-un-temoin-sort-de-l-ombre-pour-accuse
    #décès #morts_aux_frontières #asile #migrations #frontières #Hautes-Alpes #Briançon #La_Vachette #Briançonnais #France #gendarmes #border_forensics #mourir_aux_frontières #Blessing

    Une enquête à laquelle je suis très fière d’avoir contribué :-)

    voir aussi ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/957606

    • L’enquête sur le site de Border Forensics :
      Introduction

      La mort de Blessing Matthew - Une contre-enquête sur la violence aux frontières alpines

      Le 9 mai 2018, le corps d’une jeune femme noire est découvert dans la rivière de la Durance, bloquée par la retenue d’eau du barrage de Prelles, situé sur la commune de Saint-Martin-de-Queyrières en aval de Briançon, dans les Hautes-Alpes françaises.

      Une enquête a été ouverte, permettant d’identifier la jeune femme quelques jours plus tard comme étant Blessing Matthew, âgée de 21 ans et originaire du Nigeria. Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai alors que la gendarmerie mobile tentait de l’interpeler avec ses deux compagnons de route, Hervé S. et Roland E, dans le village de La Vachette, à 15 kilomètres de la frontière franco-italienne.

      Au-delà de la douleur de sa famille et de ses deux compagnons de route, la mort de Blessing a suscité une vive émotion dans le Briançonnais. Elle a concrétisé les craintes, exprimées à plusieurs reprises par la société civile, concernant la militarisation de la frontière haute-alpine et ses conséquences dangereuses pour les personnes en migration. C’est le premier cas documenté de personne en exil décédée depuis 2015 dans le Briançonnais - 2 autres personnes y ont trouvé la mort depuis.

      Le 14 mai 2018, Tous Migrants, une association défendant les droits des migrant·es dans le Briançonnais, a transmis un signalement concernant la mort de Blessing au procureur de la République de Gap, en lui exposant les faits rapportés par une des personnes qui l’accompagnaient le jour de sa disparition. Ce signalement a été suivi d’une plainte, déposée le 25 septembre 2018 par une des sœurs de Blessing, Christiana Obie, auprès du procureur de la République de Gap pour « mise en danger de la vie d’autrui » et « homicide involontaire ».

      Le 10 décembre 2018, l’officier de police judiciaire en charge de l’enquête a transmis au tribunal de Gap la synthèse des résultats de celle-ci, qui conclut que les éléments constitutifs des infractions alléguées ne sont pas démontrés.

      Le 3 mai 2019, la sœur de Blessing et Tous Migrants se sont constitués partie civile dans une nouvelle plainte. Le 18 juin 2020, le tribunal de Gap a déclaré la plainte irrecevable et prononcé un non-lieu ab initio. L’ordonnance du juge d’instruction a été confirmée par la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble le 9 février 2021.

      Jusqu’à ce jour, le processus judiciaire n’a pas permis de faire la lumière sur les circonstances qui ont mené à la mort de Blessing, ni de déterminer qui en est responsable. Mais la famille de Blessing n’a pas abandonné sa quête de vérité et de justice : selon les mots de Christiana Obie, « ma sœur continuera à hurler » tant que la vérité ne sera pas connue et que la justice n’aura pas été faite.

      C’est pour soutenir cette demande de vérité et de justice de la famille de Blessing que Border Forensics a mené une contre-enquête, en collaboration avec Tous Migrants et grâce à la contribution d’un de ses compagnons de route, Hervé. Les enjeux de notre enquête vont également au-delà du cas de Blessing. Son décès représente un cas parmi les 46 mort·es en migration à la frontière franco-italienne répertorié·es depuis 2015. Or, comme pour Blessing, aucune responsabilité n’a été déterminée pour ces morts. Les pratiques de mise en danger à la frontière des personnes en exil ont ainsi pu être perpétuées sans entraves. C’est également pour contribuer à mettre fin à cette impunité, et pour que ces pratiques cessent, que nous avons mené cette enquête.

      https://www.borderforensics.org/fr/investigations/blessing-investigation

      Avec 3 #vidéos produites :

      1) le témoignage in situ d’un des compagnons de route de Blessing, Hervé :
      https://vimeo.com/714978117

      2) une interview des deux soeurs de Blessing et Hervé :
      https://vimeo.com/715094941

      3) une partie de la vidéo qui reconstruit les déclarations contradictoires des gendarmes :
      https://vimeo.com/715020037

      #Alpes #montagne #frontière_sud-alpine #violent_borders #reconstitution

    • Une émission de A l’air libre dédiée à l’enquête :
      Mort de Blessing Matthew : les gendarmes mis en cause

      Le 7 mai 2018, la jeune migrante Blessing Matthew est morte noyée près de Briançon. La justice a prononcé un non-lieu à l’égard des gendarmes. De nouveaux éléments mis au jour par Border Forensics pourraient aboutir à une réouverture de l’enquête.

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=175&v=uYFiMVXFY28&feature=emb_logo

      https://www.mediapart.fr/journal/france/300522/mort-de-blessing-matthew-les-gendarmes-mis-en-cause

    • Newsletter de Tous Migrants, 30.05.2022

      Quatre ans après sa mort,
      nous demandons toujours vérité et justice pour Blessing !

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      Le 9 mai 2018, le corps d’une jeune femme est découvert dans la Durance au barrage de Prelles, une dizaine de kilomètres en aval de Briançon (Hautes-Alpes, France). La jeune femme est identifiée quelques jours plus tard comme étant Blessing Matthew, âgée de 21 ans et originaire du Nigeria. Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai, entre 4 heures et 5 heures du matin, alors que des gendarmes mobiles tentaient de l’interpeler avec ses deux compagnons de route, Hervé S. et Roland E, dans le hameau de La Vachette, situé au pied du col de Montgenèvre, à proximité de la frontière franco-italienne.
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      ­Au-delà de la douleur de sa famille et de ses deux compagnons de route, la mort de Blessing a suscité une vive émotion dans le Briançonnais. Elle a concrétisé les craintes, maintes fois exprimées par la société civile, concernant la militarisation de la frontière haute-alpine et ses conséquences dangereuses pour les personnes exilées. C’est le premier cas documenté de personne exilée décédée dans le Briançonnais, depuis la décision du gouvernement français de rétablir les contrôles fixes aux frontières en 2015.
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      Ce drame intervient dans un contexte de très vives tensions.

      Le 22 avril 2018, alors que le groupuscule suprémaciste Génération Identitaire occupe le col de l’Échelle, trois personnes venues manifester leur solidarité avec les personnes exilées sont arrêtées et placées en détention provisoire. Le même jour, le ministre de l’Intérieur, Gérard Collomb, décide de l’envoi de renforts immédiats des forces de l’ordre à la frontière. C’est ainsi qu’est déployé dans le Briançonnais, le 24 avril, un escadron de gendarmerie mobile de Drancy dont plusieurs membres seraient impliqués dans la poursuite et la chute dans la Durance de Blessing Matthew.

      Les témoignages des personnes exilées recueillis à Briançon attestent fréquemment de pratiques de course-poursuites, de mise en danger, et de violences physiques et verbales de la part des gendarmes mobiles, de la police aux frontières et des militant·es de Génération Identitaire. C’est dans ce contexte que survient la disparition de Blessing Matthew, le 7 mai 2018, puis la découverte de son corps deux jours plus tard.

      Le 14 mai 2018, suite à la mort de Blessing, Tous Migrants adresse un signalement auprès du Procureur de la République de Gap, exposant les faits rapportés par les personnes qui l’accompagnaient le jour de sa disparition, ainsi que les possibles infractions des forces de l’ordre : mise en danger délibérée de la vie d’autrui, homicide involontaire, violence volontaire, non-assistance à personne en danger, discrimination d’une personne en raison de son apparence. Ce signalement est suivi par le dépôt d’une plainte, le 25 septembre 2018, par la famille de Blessing.

      Un an plus tard, un communiqué de presse du procureur de Gap, transmis le 7 mai 2019, informe que le parquet a classé sans suite cette enquête au motif d’absence d’infraction. Suite à cela, l’association Tous Migrants se constitue partie civile pour soutenir la demande de vérité et de justice de la famille de Blessing. Le 15 novembre 2019, le procureur de Gap prend des réquisitions de non-recevabilité de cette constitution de partie civile, et de non-lieu ab initio concernant la plainte de la sœur de Blessing. Ces réquisitions sont confirmées par l’ordonnance du 18 juin 2020 du doyen des juges d’instruction du tribunal de Gap, puis par la décision du 9 février 2021 de la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble.

      La démarche en justice de Tous Migrants aux côtés de la famille de Blessing a au moins permis à l’association de prendre connaissance du dossier d’enquête du procureur, et notamment des déclarations des gendarmes mobiles. Tous Migrants a analysé ces déclarations et constaté leurs nombreuses incohérences, contradictions et zones d’ombres, notamment au regard de la topographie des lieux, des conditions de visibilité et du déroulement des événements. L’association a également constaté que les gendarmes enquêteurs ne semblent pas avoir examiné en détail ces incohérences et contradictions, ni cherché à clarifier les zones d’ombre, ni tenté de reconstituer le déroulement précis des faits et gestes des gendarmes mobiles. Bien au contraire, ils ont délivré un récit qui nous parait occulter ces incohérences, contradictions et zones d’ombre au profit d’un plaidoyer pro domo.

      Tous Migrants a alors contacté Border Forensics afin que leur équipe de chercheur·es puisse mobiliser les méthodes d’analyse spatio-temporelle développées dans le cadre des enquêtes déjà menées auparavant, notamment en Méditerranée. Border Forensics a mené sa propre contre-enquête, en collaboration avec Tous Migrants et grâce à la contribution fondamentale d’un des compagnons de route de Blessing Matthew, Hervé S. L’analyse de Border Forensics, a permis, grâce au témoignage précis et cohérent d’Hervé S. in situ, de confirmer et de préciser la reconstitution des événements. Selon ce témoignage, en poursuivant Blessing, les gendarmes l’ont mise en danger, menant à sa chute dans la Durance et à sa mort.

      De plus, Border Forensics a réalisé une analyse spatio-temporelle des déclarations des gendarmes qui a fait émerger les nombreuses omissions, contradictions et zones d’ombre de l’enquête de police judiciaire concernant les conditions qui ont mené à la mort de Blessing. L’analyse produite remet ainsi en cause les conclusions de l’enquête de police judiciaire disculpant les gendarmes.

      Le témoignage d’Hervé S. et l’analyse spatio-temporelle des déclarations des gendarmes mobiles, constituent des éléments nouveaux qui permettent à la famille de Blessing de demander la réouverture de l’instruction judiciaire, ce que vient de faire Maître Vincent Brengarth.

      Seule la réouverture de l’instruction pourra déterminer de manière définitive les événements ayant mené à la mort de Blessing et d’établir les responsabilités. Quatre ans après le drame, il est urgent que la justice française réponde enfin à la demande de vérité et justice de la famille de Blessing. « Ma soeur continuera de hurler et hurler » tant que justice ne sera pas faite, dit sa soeur Christiana Obie.

      Nous rappelons qu’à ce jour, que ce soit pour la mort de Blessing ou pour d’autres personnes exilées décédées à cette frontière, aucune responsabilité n’a été déterminée. Les pratiques de mise en danger à la frontière des personnes en exil par les forces de l’ordre ont ainsi pu être perpétrées sans entrave.

      Une dizaine de jours après la disparition de Blessing Matthew, le 18 mai 2018, une seconde personne exilée a été trouvée morte à quelques kilomètres seulement de La Vachette : il s’agit de Mamadi Condé, un homme de 43 ans, de nationalité guinéenne. Depuis la mort de Blessing et de Mamadi, et du fait de l’aggravation de la politique de militarisation de la frontière et de refoulements systématiques des personnes exilées aux mépris de leurs droits, cinq autres décès et une disparition certaine sont survenues dans le même secteur, entre les Hautes-Alpes françaises et la Vallée de Suse côté italien : Mohamed Fofana (25 mai 2018), Douala Gakou (15 novembre 2018), Tamimou Derman (7 février 2019), Mohamed Ali Bouhamdi (7 septembre 2019), Mohammed Mahayedin (22 juin 2021), Fathallah Belafhail (2 janvier 2022), Ullah Rezwan Sheyzad (26 janvier 2022). S’ajoutent toutes les personnes gravement blessées, parfois mutilées et handicapées à vie.

      C’est également pour que cessent les pratiques mortifères de contrôle des frontières, et l’impunité pour celles-ci, que nous nous battons pour que que justice soit rendue pour la mort de Blessing.
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    • Décès de Blessing Matthew : sa famille, Tous Migrants et Border Forensics réclament justice

      (Revue de Presse) Lundi 30 mai, Tous Migrants et Border Forensics ont organisé une conférence de presse au Centre International de Culture Populaire, avec l’appui de VoxPublic, afin de réclamer vérité et justice autour du décès de Blessing Matthew. Nigériane et âgée de 21 ans, la jeune migrante avait été retrouvée morte le 9 mai 2018 dans la Durance, en amont de Briançon (Hautes-Alpes). Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai 2018, alors que des gendarmes mobiles tentaient de l’interpeller. Tous Migrants s’était alors immédiatement constituée partie civile, mais le procureur de Gap avait classé l’affaire sans suite.

      Aujourd’hui, Tous Migrants avec la famille de Blessing Matthew demandent la réouverture de l’enquête, sur la base d’un nouveau témoignage à même de rebattre toutes les cartes. Leur avocat, Me Vincent Brengarth, a déposé vendredi 27 mai une demande de réouverture de l’instruction. Partenaire de Tous Migrants dans ce combat, l’ONG Border Forensics a comparé les différentes versions des gendarmes et le témoignage, et a annoncé, reconstitutions à l’appui, avoir repéré de nombreuses incohérences et contradictions dans les dépositions des gendarmes et dans le dossier . Pour la toute première fois, des associations réunies ont réussi à documenter la possible responsabilité des forces de l’ordre dans le décès d’une personne exilée.

      La conférence de presse, tenue en présentiel au CICP et retransmise en ligne, a réuni pas moins de 70 à 80 personnes dont une quinzaine de journalistes, ainsi que des responsables associatifs, et politiques ainsi que des universitaires et chercheurs. Avec beaucoup d’émotion, Tous Migrants et Border Forensics ont présenté leurs revendications et les éléments avancés pour la réouverture du dossier. Christiana Oboe, la sœur de Blessing, était présente par visioconférence et a délivré un message poignant à une assemblée bouleversée par la force de ses propos. Elle demande la vérité, la justice, et formule le vœu que de tels drames ne se reproduisent plus.

      https://www.voxpublic.org/Sa-famille-Tous-Migrants-et-Border-Forensics-reclament-justice-pour-Bless

      déjà signalé par @simplicissimus ici :
      https://seenthis.net/messages/962883

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      sur la même page, la revue de presse tenue par Vox Public...

    • Mort d’une exilée à la frontière franco-italienne : un témoignage pointe la responsabilité des forces de l’ordre

      Un témoignage inédit pourrait relancer l’enquête sur la mort de Blessing Matthew, jeune réfugiée nigériane décédée dans des circonstances troubles dans les Alpes. Sa famille et l’association Tous Migrants espèrent la réouverture du dossier.

      En mai 2018, Blessing Matthew, jeune femme nigériane, est retrouvée noyée dans la Durance, à quelques pas de la frontière entre la France et l’Italie. Elle est la première personne exilée décédée dans le Briançonnais (Hautes-Alpes). Âgée de seulement 21 ans, elle essayait de fuir les forces de l’ordre lorsqu’elle est tombée dans la rivière, qui, près de sa source, prend des allures de torrent avant de traverser les Alpes provençales. Jusqu’à présent, les circonstances de la noyade de la jeune femme restaient troubles, sans que l’on sache si les forces de l’ordre présentes dans les environs ont directement joué un rôle.

      Depuis ce jour, sa famille et l’association Tous Migrants tentent de retracer les événements qui ont conduit à son décès. « Un parcours du combattant pour obtenir la vérité », regrette Vincent Brengarth, leur avocat. L’enjeu est de savoir si les forces de l’ordre ont été témoins de la scène, ou même si elles peuvent être tenues responsables de la noyade. Dans le dossier, clos définitivement en février 2021, les récits des agents présents divergent, tant sur les lieux que sur l’heure de la tentative de contrôle. Entre ces témoignages contradictoires et une enquête pénale close hâtivement, connaître le fin mot de l’affaire semblait vain.

      Jusqu’à ce dernier rebondissement : le compagnon de route de Blessing, Hervé, décide de témoigner sur les circonstances de sa mort. Le 30 mai 2022, l’association Tous Migrants et Border Forensics – organisation de recherche de preuves dans des cas de morts aux frontières – organisent une conférence de presse pour présenter de nouveaux éléments. Non seulement le témoignage d’Hervé est inédit, mais il vient appuyer les analyses spatiales et temporelles de Border Forensics. Tout semble coller. Les gendarmes pourraient être tenus responsable de la mort de la Nigériane de 21 ans. Reste à rouvrir le dossier pénal.
      Un témoignage clé sur la responsabilité des forces de l’ordre

      Même avec cette avancée de taille, quatre ans plus tard, l’affaire est toujours aussi douloureuse à répéter. La voix de Michel Rousseau, de Tous Migrants, tremble en racontant la nuit des événements : « Le 7 mai 2018, entre 4 et 5 heures du matin, trois personnes exilées marchent sur la route en direction de Briançon. À l’entrée du hameau de La Vachette, des torches s’allument dans la nuit. Puis, des cris : « Police, police ». Elles courent en direction de l’église. L’un arrive à se cacher. Blessing était poursuivie par des gendarmes. Elle a traversé un jardin où Hervé était lui aussi caché. Il la voit, elle fuit, éclairée par les torches des gendarmes. Et puis, elle s’est retrouvée bloquée par la rivière ... » Sa voix s’arrête dans un sanglot.

      En partenariat avec Tous Migrants, l’organisation Border Forensics publie le 30 mai une analyse fine et complète des événements. Le dossier, particulièrement détaillé, est le fruit d’un an de travail. Dans l’une des vidéos publiées, ses équipes retournent dans le petit village de La Vachette avec Hervé. L’homme, sous couvert d’anonymat et capuche sur la tête, parcourt le village, racontant chaque étape de cette course-poursuite nocturne. Arrivé dans un jardin près de l’église, il se serait caché dans les herbes hautes.

      Blessing, elle, était encore poursuivie par deux gendarmes. Il raconte les entendre crier : « Arrête toi, si tu t’arrêtes pas, on va tirer. » Elle court jusqu’au bout du jardin, jusqu’à la rivière, où il entend la jeune femme dire « Leave me, leave me » (« Lâchez-moi, lâchez-moi »), puis tomber. Il l’entend de nouveau. Son cri, « Help me, help me » (« Aidez-moi, aidez-moi »), se fait de plus en plus lointain, comme emporté par le courant. Cette nuit-là, aucun secours n’a été appelé, aucun des gendarmes ne semble avoir tenté de secourir Blessing. Son corps sera retrouvé 13 km en aval, bloqué dans une retenue d’eau.

      Le témoignage d’Hervé est, selon l’avocat de la famille de Blessing et de Tous Migrants, « de nature à rebattre totalement les cartes ». « Son récit éclaire les incohérences du dossier, ajoute l’avocat Vincent Brengarth. On comprend mieux les contradictions des témoins. » Si l’on en croit ce déroulé, les gendarmes pourraient alors être accusés de « non-assistance à personne en danger », si ce n’est d’ « homicide involontaire ».
      « Blessing a été traitée comme une citoyenne de seconde zone »

      Hervé n’a pas été entendu dans le dossier. L’homme, sans papiers, ne s’est pas présenté aux forces de l’ordre. « C’est compliqué pour une personne exilée de faire confiance à la police », euphémise Michel Rousseau, pour expliquer ce silence de quatre ans. L’avocat Vincent Brengarth complète : « La justice n’était même pas en capacité de le convoquer, aucun élément dans le dossier ne donnait son identité précise. » Son témoignage, couplé aux éléments réunis par Border Forensics, pourraient constituer un motif de réouverture de l’enquête. La demande a été déposée auprès du procureur de la République ce 27 mai.

      « C’est un dossier exceptionnel, d’une exceptionnelle gravité, souligne l’avocat. Blessing a été traitée comme une citoyenne de seconde zone. Comme si le devoir de vérité n’était pas le même pour tout le monde. » Dans ce dossier, c’est la première fois que l’on renseigne la possible implication de la police ou de la gendarmerie dans la mort d’une personne exilée. Un premier espoir pour faire justice dans les 46 morts de migrants - décomptées par Border Forensics - à la frontière franco-italienne depuis 2015. « On veut montrer qu’on peut documenter ces morts aux frontières, que c’est possible, que l’on peut obtenir vérité et justice », espère Agnès Antoine, de Tous Migrants.

      La sœur de Blessing vient interpeller les journalistes présents ce 30 mai. Christiana Obie se tient droite devant son écran d’ordinateur, mais sa webcam peine à cacher ses joues brillantes de larmes. « Ma sœur n’est plus. Elle est morte. Mais je veux travailler à ce que ce la prochaine victime ne soit pas la vôtre. Je veux éviter à d’autres de ressentir la douleur que ressent ma famille aujourd’hui. »

      Blessing a été la première victime des politiques répressives aux frontières, mais elle n’a malheureusement pas été la dernière. Quelques jours après la découverte de son corps, Mamadi Condé, guinéen de 43 ans, est retrouvé mort, non loin de La Vachette. La liste est longue, et elle ne prend pas en compte les blessés, handicapés à vie et traumatisés par cette traversée dangereuse. Dès décembre 2017, des associations, via le Collectif Citoyen de Névache, écrivaient au président de la République leurs craintes et leur colère quant au traitement des migrants : « Devons nous attendre des morts pour que nos institutions réagissent humainement ? »

      Un appel dans le vide. Les années suivantes, dans les Hautes-Alpes et sur le versant italien des montagnes, ont été meurtrières, du fait de la répression et de la militarisation de la zone. Les associations s’accordent pour dire que 2018 a marqué l’apogée de ces épisodes de répression aveugle et de traitements « inhumains ». « Les vols, les violences envers les exilés, c’était quotidien en 2018 », dénonce la militante associative Agnès Antoine. Comme elle, beaucoup ont observé ce durcissement sur le terrain, lors des maraudes. « Cette politique ne pouvait qu’aboutir à ce genre de drame. »

      Cristina Del Biaggio, enseignante-chercheuse spécialiste des migrations et collaboratrice de Border Forensics dans leurs recherches, ajoute : « La mort de Blessing n’est pas un cas isolé, elle est le fait d’une conjoncture entre politiques et pratiques policières. »

      Lorsque la jeune nigériane les a franchies, les Alpes étaient déjà devenues une zone « transformée en environnement hostile par nos politiques migratoires ». Elles le sont toujours. Rien qu’en janvier 2022, les montagnes ont encore vu deux victimes. Fathallah Belafhail, marocain de 31 ans, et Ullah Rezwan Sheyzad, 15 ans, venu d’Afghanistan, sont décédés en essayant de rejoindre une nouvelle vie.

      https://basta.media/mort-de-Blessing-Matthew-a-la-frontiere-franco-italienne-un-temoignage-poin

    • La mort neuve de Blessing Matthew

      Personne ne fera revenir Blessing Matthew à la vie. Elle est morte noyée dans la Durance le 7 mai 2018 après avoir été coursée par les gendarmes. Une mort « accidentelle » d’après la justice qui avait, le 9 février 2021 déclarée un « non lieu » pour clore le procès intenté aux gendarmes par par sa famille et l’association « Tous Migrants » pour homicide involontaire, en quelque sorte une mort sans responsable, une mort anonyme parmi les 46 migrant.es décédé.es sur la frontière depuis la militarisation de celle-ci.
      Blessing Matthew était nigériane, elle portait un nom anglais que l’on pourrait traduire par « celle qui est bénie », ou encore par « bénédiction ». Elle était migrante et recherchait une terre « bénie ». Elle n’a trouvé ni liberté, ni égalité, ni fraternité encore moins de bénédiction. La mort, glaçante d’effroi, horrible dans sa suffocation nocturne, l’attendait au hameau de la Vachette.
      Un « non-lieu » comme une immense injustice. Pourtant, il y avait un lieu, la Durance. Pourtant, il y avait lieu, matière à poursuivre, rien qu’en considérant les témoignages contradictoires des gendarmes : elle est passée par là, non par ici et nous ailleurs ! Il y avait un témoin, son camarade de fuite mais il n’a pas pu parler, refoulé sans ménagement en Italie. L’Italie en tant que « non-lieu » pour l’oubli, un ailleurs voulu comme définitif sans un « au revoir » possible.
      « La seule chose que je veux, c’est la justice » affirme lors de la conférence de presse du 30 mai, la sœur de Blessing. « Que la justice se remette en route » demande Michel Rousseau au nom de « Tous Migrants ». Rouvrir l’instruction pour mettre la justice dans son cheminement véritable, celui de l’enquête impartiale. Des faits nouveaux le permettent.
      D’abord, le témoignage d’Hervé, celui qui fuyait avec elle, aussi apeuré qu’elle, mais qui a réussi à se cacher. Un témoin capital pour donner une « mort neuve » à Blessing Matthew. Ensuite, le travail méthodique, digne d’une enquête policière, mené par « Border Forensics » suit, point par point, les recoupements, les contradictions entre les récits des gendarmes et celui d’Hervé. Cette enquête est visible sur leur site : https://www.borderforensics.org.
      Le parquet de Gap a tous les éléments pour rouvrir l’instruction. Le fera-t-il ? Le devoir de justice le réclame : il est impossible de voler une deuxième fois la réalité de sa mort à Blessing Matthew.

      https://alpternatives.org/2022/06/02/la-mort-neuve-de-blessing-matthew

    • Réouverture de l’instruction dans l’affaire Blessing Matthew : le parquet de Gap ne se considère pas « compétent »

      Proches et association de la jeune nigériane morte noyée dans la Durance en mai 2018, à Val-des-Prés, espèrent rouvrir l’instruction judiciaire avec des « charges nouvelles ».

      dimanche 12 juin, le procureur de la République de Gap a fait savoir au Dauphiné Libéré « qu’après étude de la demande », il « considère que le parquet de Gap n’est pas compétent pour traiter la requête en réouverture d’une information judiciaire sur charges nouvelles » dans l’affaire de la mort de Blessing Matthew.

      Le 27 mai dernier, les avocats de la sœur de la jeune exilée, morte noyée dans la Durance le 7 mai 2018 à La Vachette (Val-des-Prés), et de l’association Tous migrants avaient déposé auprès du parquet gapençais une demande de « reprise de l’information judiciaire sur charges nouvelles ». Blessing Matthew, une Nigériane de 20 ans, était décédée après une tentative d’interpellation par des gendarmes mobiles alors qu’elle tentait de rejoindre Briançon depuis l’Italie avec deux autres personnes migrantes.

      Des nouveaux éléments à charge contre les gendarmes selon les proches de la victime

      Les proches de Blessing Matthew et Tous migrants ont toujours pointé l’action des forces de l’ordre comme étant responsable du décès de la jeune femme. Néanmoins, après une plainte classée sans suite, la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble avait confirmé en février 2021 un non-lieu dans cette affaire.

      Fin mai, association et proche espéraient rouvrir l’instruction avec le témoignage – inédit jusqu’ici – d’Hervé S., l’un des migrants présents la nuit du drame ; et avec une contre-enquête menée par l’ONG Border Forensics.

      « Seul le procureur général est compétent »

      Cependant, le procureur de Gap Florent Crouhy a décidé de ne pas trancher lui-même la réouverture ou non de l’instruction. « En effet, ce dossier a fait l’objet d’un non-lieu par arrêt de la chambre de l’instruction de la cour d’appel de Grenoble en date du 9 février 2021, rappelle-t-il.

      https://www.ledauphine.com/faits-divers-justice/2022/06/12/reouverture-de-l-instruction-dans-l-affaire-blessing-matthew-le-parquet-

      #compétence

    • Mort de Blessing Matthew : le procureur de Gap se dit incompétent pour rouvrir une information judiciaire

      La migrante nigériane avait été retrouvée morte dans la Durance en 2018 lors d’un contrôle de gendarmerie après avoir franchi la frontière italienne. La justice a décidé par deux fois de prononcer un non-lieu dans ce dossier.

      Me Vincent Brengarth a annoncé la couleur fin mai, évoquant « un témoignage de nature à rebattre totalement les cartes » dans l’affaire Blessing Matthew. L’avocat de la sœur de la migrante nigériane, qui s’était noyée dans la Durance (Hautes-Alpes) lors d’un contrôle de gendarmerie en 2018, affirme avoir retrouvé un des témoins de la scène, dont le récit inédit diffère de la version des forces de l’ordre.

      À la lumière de ce témoignage, l’avocat a effectué une « demande de réouverture d’information judiciaire » auprès du procureur de la République de Gap. Interrogé par BFM DICI, Florent Crouhy a indiqué ce dimanche qu’il se déclarait incompétent pour traiter la requête émise par Me Vincent Brengarth, rappelant que ce dossier « a fait l’objet d’un non-lieu par arrêt de la chambre de l’instruction de la cour d’appel de Grenoble en date du 9 février 2021 ».

      La justice a à deux reprises estimé qu’aucun élément ne permettait d’étayer les accusations d’homicide involontaire, de mise en danger de la vie d’autrui et de non-assistance à personne en danger visant les gendarmes.

      L’avocat redirigé vers le procureur de la cour d’appel

      Selon Florent Crouhy, « seul le procureur général est compétent pour apprécier l’opportunité d’une réouverture sur charges nouvelles et en saisir la chambre de l’instruction ». Le procureur de la République de Gap précise ainsi avoir invité Me Vincent Brengarth à se rapprocher du procureur général de la cour d’appel de Grenoble pour lui faire part du nouveau témoignage.

      Celui-ci provient d’Hervé, un membre du « groupe d’exilés pourchassés par les gendarmes » après avoir été expulsés vers l’Italie, a annoncé Me Vincent Brengarth lors d’une conférence de presse suivie par l’Agence France-Presse (AFP) au moment du dépôt de la requête.

      « Il a vu que Blessing Matthew cherchait à se cacher. Il y a eu de façon évidente un contact avec l’un des gendarmes. (...) Il dit : ’J’ai vu le (gendarme) la saisir par le bras, elle se débattait, ils se tiraillaient’ », a-t-il développé.

      « Que justice soit rendue »

      Des paroles qui jettent à ses yeux une lumière sur « les différentes incohérences » qui se dégagent des récits des gendarmes. Et l’avocat de surenchérir : « On a le sentiment que les investigations n’ont jamais véritablement été menées à leur terme ».

      Christiana Obie Darko, la sœur de la victime, s’était également exprimée au cours de cette conférence de presse, fin mai : « Tout ce que je veux, c’est que justice soit rendue pour ma sœur, pour qu’elle puisse reposer en paix ».

      Avant l’apparition de la version d’Hervé, le parquet de Gap avait affirmé que « les circonstances précises dans lesquelles (Blessing Matthew) aurait chuté dans la Durance demeurent inconnues en l’absence de témoignage direct ».

      https://www.bfmtv.com/bfm-dici/mort-de-blessing-matthew-le-procureur-de-gap-se-dit-incompetent-pour-rouvrir-

  • Suisse : Ils doivent laisser leur place aux Ukrainiens

    L’accueil des Ukrainiens et Ukrainiennes à #Genève se répercute sur d’autres réfugié·es. Une députée intervient.

    Genève s’apprête à prendre en charge entre 4000 et 15’000 Ukrainiens et Ukrainiennes.

    L’accueil risque d’être compliqué au-delà du premier millier et des alternatives sont à l’étude, indiquait Christophe Girod, directeur général de l’Hospice général, la semaine passée sur Léman Bleu. Les alternatives en question auraient-elles déjà été trouvées ? Des résident·es, majoritairement des hommes célibataires, du centre d’hébergement collectif de Rigot, situé avenue de France, ont reçu l’ordre de déménager au début de cette semaine afin de faire de la place pour les nouvelles et nouveaux venus.

    Avec effet immédiat

    Sur place, la surprise est totale. « Je ne comprends pas. Mon cousin est apprenti, il est en Suisse depuis six ans, et il a reçu cette semaine une visite des responsables de #Rigot qui lui ont dit qu’il devait vider son appartement parce que des Ukrainiens allaient arriver », explique un parent logé lui aussi dans le centre. Et les résident·es n’ont apparemment pas eu voix au chapitre. « On nous a dit que c’était obligatoire. La moitié des chambres ont été vidées et des gens se retrouvent à deux dans des chambres prévues pour une seule personne. »

    D’après les témoignages recueillis, l’#Hospice_général aurait expliqué aux personnes concernées qu’il s’agit d’une décision fédérale, laissant entendre que la Confédération est intervenue dans la gestion cantonale du flux de réfugié·es d’Ukraine. Selon Samuel*, dont plusieurs amis sont logés dans le #centre_de_Rigot, le directeur de l’Hospice général aurait aussi évoqué la construction de bâtiments modulables ou encore la transformation de salles de gymnastique en locaux d’urgence. « Ils déplacent les personnes sans se demander si elles parlent la même langue ou ont des affinités. Un de mes amis s’est retrouvé à partager une chambre pour une personne avec un résident souffrant de problèmes psychiatriques. »

    Terre d’asile à deux vitesses ?

    Françoise Nyffeler a déposé jeudi soir une question urgente au Grand Conseil visant à clarifier cette situation. « Dans le milieu de la défense des réfugiés, on entendait dire qu’un tel accueil était impossible, et tout à coup on arrive à mobiliser des moyens pour traiter 1200 dossiers par jour, s’étonne l’élue d’Ensemble à gauche. Bien sûr qu’il faut trouver de la place pour les Ukrainiens, mais pas au détriment des autres réfugiés. »

    La députée s’inquiète de l’existence de « réfugiés de première classe » à la faveur desquels d’autres, pourtant présents depuis des années, pourraient être opportunément déplacés. Elle s’interroge également sur le sort des Afghanes et Afghans présent·es en Ukraine : « Bénéficieront-ils chez nous des mêmes droits que les Ukrainiens ? ». La situation ne surprend pas Alain Bolle, directeur du CSP Genève. « On craignait que ça arrive avec l’afflux de réfugiés ukrainiens. »

    Optimisation des #logements

    L’Hospice général reconnaît qu’un maximum de places doivent être trouvées pour accueillir les familles nouvellement arrivées. « Pour optimiser les logements à disposition dans les centres d’hébergement collectif et libérer des places pour des familles, nous devons procéder à des #rocades, explique Bernard Manguin, son chargé de communication. Les rocades sont faites de façon à ce que les gens gardent leur cadre de vie et leurs habitudes, dans le centre d’hébergement et dans le quartier. Elles sont annoncées à l’avance, afin que les personnes aient le temps de s’y préparer. » Personne ne devra quitter les centres d’hébergement, assure le porte-parole.

    Pourtant, certains résidents affirment avoir reçu l’ordre de déménager d’ici à quelques jours. D’autres établissements pourraient d’ailleurs être concernés, puisqu’au foyer de la #Seymaz, un courrier de l’#Hospice_général annonce une prochaine réunion « en vue d’une réorganisation ». La lettre avertit que les résident·es absent·es pourraient être sanctionné·es.

    https://lecourrier.ch/2022/03/20/ils-doivent-laisser-leur-place-aux-ukrainiens
    #déménagement #Suisse #réfugiés_ukrainiens #Ukraine #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #racisme

    –-
    ajouté à cette métaliste sur les formes de racisme qui ont émergé avec la guerre en Ukraine :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Ukrainer ja, Afghanen nein: Der Grenzbahnhof #Buchs ist Schauplatz unserer Willkommenskultur – und wie sie sich verändert hat

      Afghanen wurden hier noch im Januar aus den Zügen geholt. Ukrainerinnen hingegen dürfen durchfahren, von ihnen ist am Grenzbahnhof Buchs nichts zu sehen. Das ist kein Zufall. Ein Rückblick auf 150 Jahre Schweizer Willkommenskultur.

      Etwas talaufwärts, nach Sargans links um die Ecke, liegt Maienfeld, das Heidiland. Benannt nach jenem Roman, der weltweit das Bild der Schweiz prägte: mit Heidi, Alpöhi, Geissenpeter, den saftigen Matten und den weissen Bergen unter blauem Himmel. Ein Sehnsuchtsort für Touristen genauso wie für Verfolgte und Vertriebene aus aller Welt.
      Doch anders als wohlhabende Feriengäste gelangen Flüchtlinge kaum je ins Heidiland. Sie stranden vielmehr an einem gesichtslosen Grenzbahnhof. Zum Beispiel in Buchs, St.Gallen: einer Bahnstation in einem Industriequartier mit fensterlosen Bauten, einer Recyclinghalle, der in Beton gegossenen Bus-Station auf dem Vorplatz und einer Industriebrache mit Kies, Unkraut und Stumpengleis. Kein Postkartensujet.
      Und doch ein Ort, der eben so typisch ist für die Schweiz wie das Heidiland. Kaum wo lässt sich die wechselvolle Geschichte der eidgenössischen Flüchtlings- und Migrationspolitik nachzeichnen wie hier. Die einen wurden als Helden begrüsst. Andere hinter Stacheldraht in der Desinfektionsanlage entlaust und bürokratisch erfasst. Von den Nazis verfolgte Juden versuchten, versteckt im Güterzug in Sicherheit zu gelangen. Manche von ihnen vergraben in Kohletransporten – auch um der direkten Rückweisung an der Schweizer Grenze zu entgehen.
      Für Kaiserin Sissi stand sogar Portier Rohrer stramm
      Erbaut wurde der Bahnhof 1858, etwas abseits des Dorfes, weil die Bauersleute von der Bahn zunächst nichts wissen wollten. Der Anschluss an die weite Welt folgte 1884 mit der direkten Anbindung an die neue Arlbergbahn. Sie brachte den wirtschaftlichen Aufschwung. Güterzüge mit Schlachtvieh aus Ungarn, Weinbeeren aus der Türkei und Holz aus Serbien kamen hier an. «Da waren auch die Sammelwagen mit den Auswanderern aus den Oststaaten, deren Ziel Amerika war: Fremde, armselig reisende Menschen, deren Sprache niemand verstehen konnte», heisst es in einem Beitrag des «Werdenberger Jahrbuchs» über das Jahr 1890.
      Adlige reisten durch, der König von Bulgarien, Balkanfürsten mit ihrem Hofstaat. Ja, selbst Kaiserin Elisabeth, die Sissi, erfrischte sich auf ihren regelmässigen Durchreisen im Bahnhofbuffet: «Da stand selbst der Portier Rohrer stramm, Vorstand Gasser hielt bahndienstliche Ordnung, der österreichische Zollinspektor Lutz, ein liebenswürdiger, fein gebildeter Mann, erwartete in Galauniform und mit einem Paradedegen an der Seite die Kaiserin und machte die Honneurs», heisst es im Jahrbuch. Es war eine Blütezeit, der Aufstieg Buchs’ als das «Tor zum Osten».
      Für viele Flüchtlinge hingegen wurde Buchs zum Nadelöhr in die Schweiz – je nach Herkunft und politischer Grosswetterlage. Denn in ihrer Flüchtlingspolitik war die Schweiz nie neutral. Das zeigt sich gerade in diesen Tagen wieder. Die kriegsvertriebenen Ukrainerinnen und ihre Kinder brauchen in Buchs nicht auszusteigen. Sie profitieren von der Reisefreiheit, die ukrainischen Staatsangehörigen schon vor dem russischen Angriff auf ihr Land in ganz Europa gewährt wurde. Sie brauchen kein Visum, fahren in Buchs durch und lassen sich später wahlweise in Zürich, Altstätten oder sonst einem Bundesasylzentrum registrieren, um vom Schutzstatus S zu profitieren. Tausende von Gastfamilien bieten ihnen Unterkunft an.
      «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns»
      Wie anders die Bilder noch im Winter: Junge Männer aus Afghanistan, die von den Grenzbehörden aus dem Nachtzug aus Wien geholt werden, müssen sich auf Perron 4 in Reih und Glied aufstellen. Danach werden sie ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs (POB) geführt und asylrechtlich erfasst. So schildert es das «St.Galler Tagblatt» im Januar in einer Reportage. Das POB hat der Kanton Anfang Jahr eröffnet, um die Registrierung gemäss den Regeln des Dublin-Abkommens der sogenannt illegal eingereisten Personen zu beschleunigen. An jenem Januarmorgen sind es rund 30 junge Afghanen.
      Die Ukrainerinnen und die Afghanen sind lediglich die letzten beiden von sehr vielen verschiedenen Flüchtlingsgruppen, die im Laufe der Jahrzehnte am Grenzbahnhof vorbeigekommen sind. Einer, der diese Geschichten kennt, über sie in der Lokalzeitung berichtet hat, ist Hansruedi Rohrer, langjähriger Fotoreporter des «Werdenberger und Obertoggenburgers» sowie Buchser Stadtchronist. Der 72-Jährige führt ein Archiv mit Tausenden von Bildern und kaum weniger Geschichten. Rohrer ist Buchser, durch und durch. Und ausgesprochen sesshaft: Ein einziges Mal unternahm er eine Reise ins Ausland mit Übernachtung – nach München für eine Reportage. Sonst beschränken sich seine Auslandvisiten auf Kinobesuche ennet dem Rhein im liechtensteinischen Schaan. «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns», sagt Rohrer.
      Auf einem Rundgang vom Bahnhof durch das Industriequartier zeigt er die Schauplätze: Die Rheinbrücke, wo die Züge über eine Rechtskurve in die Schweiz einfahren, die ehemaligen Standorte eines Auffanglagers und eines Aufnahmezentrums. Er erzählt von den ersten Flüchtlingen, die 1871 in Buchs angekommen seien, notabene aus Westen: Soldaten der Bourbaki-Armee, die im Jura über die Grenze gekommen waren und auf die Schweiz verteilt wurden. «Man sammelte damals in unserem Städtchen warme Kleider und Schuhe für sie.»
      Kriegsinternierte skandieren: «Evviva la Svizzera!»
      Rohrer händigt von ihm verfasste Artikel und Archivtexte über die Weltkriege aus. Über das «Flüchtlingsjahr 1915 in Buchs» etwa: Nach Ausbruch des Krieges wurden die italienischen Familien, die in Österreich gelebt hatten, als Angehörige eines nun plötzlich feindlichen Staates interniert und über die Schweiz in ihre Heimat abgeschoben. In Buchs gelangten sie auf Schweizer Boden. Im grossen Auswanderersaal, der seit Kriegsbeginn unbenutzt blieb, wurde ein Verpflegungsstand eingerichtet: «Für die ersten Transporte wurden zunächst 50 Zentner Brot und 2000 Liter Milch bereitgestellt. Die einheimischen Bäcker und Metzger hatten als Lieferanten alle Hände voll zu tun», heisst es in Rohrers Artikel. Bezahlt habe dies später die italienische Regierung. Und bei der Abfahrt aus Buchs riefen die italienischen Heimreisenden aus dem Zug: «Evviva la Svizzera!»
      Weniger zu erfahren ist, wie im Zweiten Weltkrieg jüdische Flüchtlinge an der Grenze abgewiesen wurden. Immerhin finden sich Arbeiten von Studentinnen über einzelne jüdische Flüchtlingsfamilien, die versteckt in Güterzügen über Buchs in die Schweiz einreisten. Besser dokumentiert ist der Ansturm von Flüchtlingen, die sich kurz vor dem Zusammenbruch des Nazireichs aus deutscher Kriegsgefangenschaft befreiten und in der Schweiz Zuflucht suchen wollten. Die Gegend zwischen dem Städtchen Feldkirch in Österreich und der Grenze glich Ende April 1945 «einem Heerlager, in dem Tausende und Abertausende sich zusammendrängten, um noch die Grenze passieren zu können, ehe sie aufs Neue durch die letzten kriegerischen Handlungen in diesem nun plötzlich zur Front gewordenen Gebiet in den Mahlstrom des Verderbens gerissen wurden», so wird im «Werdenberger Jahrbuch» ein Zeitzeuge zitiert.
      Mit einer Rangierlokomotive und ein paar alten österreichischen Waggons zog man in Buchs kurzerhand einen Pendelverkehr auf, um die Flüchtlinge in die Schweiz zu holen. Beim Bahnhof wurden die Ankömmlinge «hinter die Stacheldrähte des Auffanglagers praktiziert. Man wusste ja keineswegs, mit was für ansteckenden Krankheiten diese Leute behaftet waren, und darum sollte ein Kontakt mit der Zivilbevölkerung so gut als möglich vermieden werden.» Die Flüchtlinge wurden verpflegt, registriert und «durch die Desinfektionsräume geschleust», so der Zeitzeuge. Danach ging es mit dem Zug weiter ins Landesinnere, etwa ins Hallenstadion Zürich. An einzelnen Tagen kamen so über 3500 Flüchtlinge in Buchs an.
      Grosser Bahnhof für die Opfer des Kommunismus
      Wie viel herzlicher fiel da der Empfang der Flüchtlinge aus Ungarn 1956 aus. In der Buchser Stadtchronik, die Hansruedi Rohrer heute nachführt und verwaltet, findet sich ein Bericht vom 9. November 1956: «Kurz nach zwei Uhr nachmittags traf ein Sonderzug mit 364 Flüchtlingen in Buchs ein. Eine grosse Menschenmenge hatte sich zur Ankunft auf dem Bahnhof eingefunden, um den Flüchtlingen in herzlicher Weise Sympathie und Willkomm zu entbieten.» Freilich wurden auch die Ungarinnen und Ungarn im Barackenlager des Grenzsanitätsdienstes aufgenommen, einer «notwendigen sanitarischen Untersuchung unterzogen» und verpflegt. Später reisten sie weiter an verschiedene Orte in der Schweiz.
      In jenen Tagen profilierte sich der Bahnangestellte Peter Züger, der seit 1950 am Grenzbahnhof tätig war, in besonderer Weise: Züger sprach Ungarisch und begrüsste die Flüchtlinge über die Lautsprecheranlage in ihrer Sprache. Diese reagierten laut Jahrbuch «mit Akklamation, Freudentränen und lautstarken Zurufen Eljen- eljen! (hoch -hoch!)». Die Stimmung gegenüber den Opfern des Sowjetregimes war vergleichbar zur heutigen Situation mit den Ukrainerinnen: Die Bevölkerung in der Schweiz solidarisierte sich mit den Opfern des russischen Angriffs.
      Dazu erhielt sie 1968 noch einmal Gelegenheit, als nach der Niederschlagung des Prager Frühlings tschechische und slowakische Flüchtlinge in Buchs eintrafen. Auch sie erhielten einen warmen Empfang. Auf einem Plakat bei der neu errichteten Auffangstation etwas südlich des Bahnhofs hiess es: «Wir bewundern euren Mut und eure Tapferkeit.» In der Zeitung wurde rapportiert: «Die Bevölkerung von Buchs hat in den letzten Tagen wiederholt Blumen in die Auffangstelle gebracht und für die Neuankömmlinge ein Kinderzimmer eingerichtet.»
      Niemand winkt den bosnischen Flüchtlingen zu
      Flüchtlingsbewegungen gab es seither immer wieder: die Boatpeople aus Vietnam 1979, die Polen 1982. Stets waren auch Rotkreuzmitarbeiterinnen vor Ort, die sich um Kinder, Verletzte, Kranke und Schwache kümmerten. Von einem grossen Bahnhof wie 1956 aber konnte kaum mehr je die Rede sein. Als im Juli 1992 ein Zug mit 1000 bosnischen Flüchtlingen eintrifft, berichtet der «Werdenberger und Obertoggenburger» von einer peinlichen Situation: Als die «müden und matten» Flüchtlinge den Personen am Bahnhof zuwinken, erwidert niemand diese schüchternen Grüsse. Der Grund: «Das Gelände, auf das der Flüchtlingszug einfährt, ist nämlich von Sicherheitskräften von Polizei, Feuerwehr und Bahn abgeriegelt. Im Innenraum befinden sich nur mehrere Dutzend Journalisten und viele Helfer. Und von denen winkt niemand.»
      In den letzten beiden Jahrzehnten, mit der Personenfreizügigkeit, hat Buchs viel von seinem Charakter als Grenzbahnhof verloren. Die Zollstation ist weg, das Bahnhofbuffet sowieso. Flüchtlinge kommen immer noch, sei es aus Syrien oder wie bis vor kurzem vor allem aus Afghanistan. Doch mit dem Zoll sind die Szenen von Ankunft, Betreuung und Kontrolle aus dem Bahnhofgebiet verschwunden. Sogenannt illegal Einreisende werden diskret ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs im Industriegebiet oder das Bundesasylzentrum in Altstätten gebracht. Ein Willkommensakt der anonymen Art. Wie viele aus der Ukraine über Buchs einreisen – niemand weiss es.

      https://www.tagblatt.ch/schweiz/migration-grenzbahnhof-buchs-schauplatz-unserer-willkommenskultur-ld.227072

      #réfugiés_afghans

    • Ils sont réfugiés – et bienvenus

      Fuyant la guerre, des dizaines de milliers d’Ukrainiens ont trouvé refuge en Suisse. L’accueil non bureaucratique qui leur est réservé témoigne de la solidarité de la Suisse, mais révèle aussi les zones d’ombre de sa politique d’asile

      « La nuit, dans mes rêves, je vois ma datcha », relate Alexander Volkow. Il rêve des vignes dont il devrait prendre soin à cette saison. Mais cet ingénieur en métallurgie retraité de Kramatorsk se trouve à 2500 kilomètres de sa maison de vacances, dans un petit village bernois dont il ignorait même l’existence il y a peu : Mittelhäusern. Alexander Volkow est ukrainien, et le chemin qu’il a parcouru jusqu’ici – hormis sa destination, due au hasard – ressemble à celui de millions d’autres personnes arrivées d’Ukraine. Avec sa belle-fille Julia et son petit-fils Sergueï, il a fui sa ville du Donbass sous le feu des missiles, fui la guerre, la mort, la destruction et la misère. En Suisse, les autorités en matière de réfugiés lui ont finalement notifié que lui et sa famille avaient « reçu une invitation pour Mittelhäusern ». Une chance dans leur détresse : « Des gens chaleureux nous ont accueillis ». Malgré la cordialité de la famille d’accueil, Alexander Volkow est toujours, dans sa tête, dans le Donbass assiégé, à Kramatorsk : « Chaque matin, nous commençons par chercher à savoir ce qui est encore debout, si notre maison est encore debout ». En même temps, il est hanté par cette question : vaut-il mieux une « bonne guerre », qui fera beaucoup de victimes, ou une « mauvaise paix », qui entraînera plusieurs années d’incertitude et de discorde dans son sillage ?

      Il n’est pas le seul à se poser de telles questions. Quand il se promène, appuyé sur sa canne, à travers le village, il rencontre par exemple Anhelina Kharaman, qui est elle aussi hébergée chez des particuliers, avec sa mère et sa fille. Elle vient de Marioupol, cette ville en ruines au sud de l’Ukraine. Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna, un couple de Dnipro, séjournent eux aussi à Mittelhäusern pour l’instant. Et eux aussi parlent du jardin dont il faudrait s’occuper pour qu’il donne des récoltes suffisantes pour l’hiver.

      Une vague de solidarité

      Une douzaine de réfugiés ukrainiens vivent en ce moment à Mittelhäusern, une douzaine sur les plus de 50 000 femmes, enfants et personnes âgées qui sont arrivés en Suisse au cours des trois premiers mois de la guerre. Depuis la Deuxième Guerre mondiale, la Suisse n’avait jamais connu un tel afflux de réfugiés en si peu de temps. Les personnes déplacées ont bénéficié d’une vague de solidarité : la population a rassemblé du matériel de secours, fourni de l’aide et proposé des logements privés. Cela rappelle les grands mouvements de solidarité du passé, par exemple quand les troupes soviétiques ont envahi la Hongrie, en 1956, ou la Tchécoslovaquie, en 1968. La Suisse avait alors aussi accueilli les réfugiés d’Europe de l’Est à bras ouverts.

      Face à l’invasion russe en Ukraine, le Conseil fédéral a activé au mois de mars, peu après le début de la guerre, le statut de protection S. Sur le papier, cette catégorie de réfugiés existe déjà depuis les années 1990. À l’époque, le conflit armé faisant rage en ex-Yougoslavie avait contraint de nombreuses personnes à prendre la fuite. Toutefois, ce statut de protection spécifiquement prévu pour les personnes déplacées n’avait encore jamais été appliqué, pas même pendant la guerre en Syrie, qui a également jeté sur les routes des millions d’individus.

      Le statut de protection S offre aux personnes concernées de précieux avantages : il leur suffit de s’annoncer auprès des autorités, sans devoir faire une demande d’asile effective. Elles peuvent chercher immédiatement un emploi, faire venir leur famille en Suisse et voyager librement, y compris à l’étranger. Tout cela reste refusé aux réfugiés issus d’autres régions en conflit. Les Afghans, les Syriens, les Érythréens, les Éthiopiens ou les Irakiens doivent passer par la procédure d’asile ordinaire et n’ont le droit ni de travailler ni de voyager jusqu’à la décision officielle. Cela s’applique également aux personnes accueillies temporairement en Suisse parce qu’il ne peut être exigé d’elles qu’elles retournent dans leur pays.

      L’aide aux réfugiés exige l’égalité de traitement

      Les organisations d’aide aux réfugiés saluent l’accueil généreux et pragmatique des dizaines de milliers de réfugiés ukrainiens, mais revendiquent l’égalité de traitement pour toutes les personnes fuyant des conflits violents. « Pour les réfugiés, que la guerre qu’ils fuient soit une guerre née de l’agression d’un autre État ou une guerre civile entre deux camps d’un seul et même pays importe peu », note Seraina Nufer, co-responsable du département Protection de l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés. Des experts du droit de la migration trouvent eux aussi choquant que les déplacés de guerre issus d’autres pays ne soient pas traités de la même manière et ne puissent, par exemple, faire venir leur famille en Suisse qu’après une période d’attente de trois ans. Toutefois, la volonté de la majorité politique fait défaut pour une facilitation de l’asile en Suisse. La crainte d’un effet d’« appel d’air » est trop grande.
      Des angoisses existentielles croissantes

      Toutefois, même pour les réfugiés ukrainiens, la vie quotidienne en Suisse n’est pas paradisiaque. Il y a tout d’abord la vive inquiétude pour les proches qui sont restés dans la zone de guerre – les maris, les pères et les fils mobilisés dans l’armée. À cela s’ajoutent des angoisses existentielles. Seule une minorité de réfugiés possède des connaissances linguistiques suffisantes pour trouver rapidement un emploi en Suisse. Les personnes sans ressources peuvent demander l’aide sociale d’asile. Mais les prestations de celle-ci sont inférieures de 30 à 40 % à l’aide que les Suisses en situation de détresse financière reçoivent ordinairement. En d’autres termes, les aides étatiques ne suffisent guère à subvenir aux besoins quotidiens. On trouve donc de plus en plus d’Ukrainiens faisant la queue devant les organisations d’aide alimentaire parmi les autres personnes dans le besoin. Les organisations d’aide aux réfugiés mettent en garde contre une précarisation des personnes concernées et critiquent la culture d’accueil « bon marché » d’une Suisse pourtant fortunée.

      Les familles suisses qui ont généreusement accueilli chez elles plus de 20 000 réfugiés pendant au moins trois mois font aussi des sacrifices financiers. Selon les cantons, elles ne reçoivent que des indemnités symboliques, et peu de soutien au quotidien dans la plupart des cas. « De nombreuses familles d’accueil se sentent abandonnées », note Christoph Reichenau, co-initiateur du mouvement d’entraide Ukraine-Hilfe Bern. L’organisation a ouvert un centre d’écoute pour les réfugiés et les familles d’accueil près de la gare de Berne. Elle organise aussi des cours de langue et réunit sur son site web les nombreuses offres de soutien bénévole. La solidarité au sein de la population reste élevée, relate Christoph Reichenau. Mais des perspectives claires et un renforcement des structures sont nécessaires, souligne-t-il, « afin que la disposition spontanée à aider devienne un soutien permanent ».
      Pas de retour rapide en vue

      Les autorités tablent elles aussi sur le fait que les réfugiés ukrainiens resteront en Suisse plus d’un an. Un retour rapide dans les villes ukrainiennes bombardées semble de plus en plus improbable. À la clôture de la rédaction, à la mi-mai, les attaques russes sur le pays n’avaient pas faibli. Face à l’afflux croissant de réfugiés – la Confédération s’attend à ce que leur nombre atteigne entre 80 000 et 120 000 personnes au total d’ici l’automne –, les autorités doivent non seulement trouver davantage de lieux d’hébergement, mais aussi clarifier les perspectives des réfugiés en Suisse. Si cela ne tenait qu’à eux, Alexander Volkow, Anhelina Kharaman, Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna rentreraient à Kramatorsk, Marioupol ou Dnipro pour s’occuper de leur maison et de leur jardin. Pour l’heure, Lilia Nahorna cultive de jeunes pousses en pot : ainsi, elle pourra ramener les plantes chez elle facilement. Chez elle, en Ukraine.

      https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/ils-sont-refugies-et-bienvenus

      #permis_S

  • La « forteresse européenne » au pilori

    La Suisse entend renforcer sa participation au contrôle des #frontières_extérieures de l’Europe. Mais l’augmentation des capacités de l’agence de protection des frontières Frontex fait débat. Le 15 mai, le peuple se prononcera dans les urnes. Un non pourrait irriter encore davantage Bruxelles.


    « Pour moi, Frontex est avant tout synonyme de violence », avoue Malek Ossi. Ce Syrien de 28 ans a gagné la Suisse via la Turquie il y a six ans et fait partie de l’organisation « Migrant Solidarity Network », qui a lancé le référendum contre l’augmentation de la #contribution de la Suisse à l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes Frontex. Malek Ossi a raconté au magazine en ligne « Republik » l’odyssée qui l’a mené en Suisse par la « route des Balkans ». « Je sais ce que cela signifie d’avoir derrière soi l’armée turque, et devant la police grecque. » Avec des dizaines d’autres réfugiés, il s’est caché dans la forêt pendant une semaine avant d’oser franchir le fleuve frontalier Evros, alors gardé par les autorités grecques et des agents de Frontex. Tandis que Malek Ossi a finalement réussi à gagner l’Europe, beaucoup d’autres échouent dans leur tentative d’atteindre les frontières extérieures de l’UE. Les récits de migrants refoulés par les polices des frontières sont innombrables. Certains cas attestent que les gardes-côtes grecs, en mer Égée, ont repoussé des canots pneumatiques remplis de réfugiés dans les eaux turques.

    Ces refoulements sont contraires à la Convention européenne des droits de l’homme et à la Convention relative au statut des réfugiés de Genève, d’après lesquelles les réfugiés doivent pouvoir déposer une demande d’asile et ont droit à une procédure fondée sur le droit. En d’autres termes, les demandeurs d’asile doivent au minimum être entendus. Des organisations de défense du droit d’asile et des droits humains reprochent à Frontex de tolérer des pushback illégaux perpétrés par les forces de police nationales, voire d’y être mêlée. Une commission d’enquête du Parlement européen a ainsi demandé davantage de surveillance et de transparence.

    Une obligation pour tous les États de Schengen

    Le rôle de Frontex aux frontières de l’Europe a fait parler de lui l’automne dernier au Parlement fédéral. En tant que membre de l’espace Schengen, la Suisse contribue depuis 2011 à l’agence européenne de protection des frontières, et doit par conséquent cofinancer l’augmentation de son budget. Frontex prévoit de mettre sur pied une réserve de 10 000 agents d’ici 2027. Jusqu’ici, la Suisse a versé près de 14 millions de francs par année. Ce montant doit passer à 61 millions de francs par année d’ici 2027. Le PS et les Verts s’y sont opposés, arguant que Frontex entend constituer une véritable « armée » aux frontières pour isoler la « forteresse européenne ». La majorité du Conseil national et du Conseil des États s’est toutefois avérée favorable à un engagement plus fort de la Suisse, avançant que notre pays profite, après tout, de la protection des frontières de l’espace Schengen.

    Oui, les noyades en Méditerranée sont une « honte pour l’Europe », a déclaré le conseiller national vert’libéral Beat Flach. Tout en soulignant que ce n’est pas la faute de Frontex, mais que l’agence est, au contraire, « un moyen d’éviter cela à l’avenir ». Le conseiller fédéral Ueli Maurer a fait remarquer que la Suisse pourra mieux exiger le respect des droits fondamentaux si « elle fait front avec les autres ». Son parti anti-européen, l’UDC, est toutefois divisé sur la question. Les uns saluent le renforcement du contrôle des frontières de Schengen contre la « migration économique », tandis que les autres préféreraient investir ces millions supplémentaires dans la protection des frontières suisses.
    Contre la « militarisation des frontières »

    Le peuple devra trancher, car une alliance d’environ 30 organi­sations a lancé un référendum. Les activistes de « Migrant Solidarity Network » s’opposent fondamentalement au régime de protection frontalier de l’UE, à leurs yeux « symbole de militarisation des frontières ». Amnesty International n’est pas de leur côté. L’organisation de défense des droits humains plaide plutôt pour la consolidation des forces qui, au sein de l’UE, veulent obliger Frontex à « faire de la protection des migrants la priorité au lieu de faire peser une menace supplémentaire sur eux ». Dans les faits, ce sont surtout les pays d’Europe de l’Est qui opèrent des pushback à leurs frontières.

    « Soit on fait partie de Schengen, soit on n’en fait pas partie, avec toutes les conséquences que cela implique. »

    Fabio Wasserfallen

    Politologue à l’université de Berne

    Le 15 mai, le peuple suisse ne votera pas sur le principe de la participation de la Suisse à la protection des frontières européennes. Néanmoins, le référendum pourrait avoir un impact sur la participation de la Suisse à l’espace Schengen, relève Fabio Wasserfallen, politologue à l’université de Berne. « Soit on fait partie de Schengen, soit on n’en fait pas partie, avec toutes les conséquences que cela implique. » Si, d’après lui, la Suisse ne doit pas s’attendre à une exclusion immédiate en cas de non du peuple, « elle serait cependant invitée à proposer rapidement une solution ». Bruxelles pourrait s’irriter du fait que la Suisse ne soit plus vue comme une « partenaire fiable », explique Fabio Wasserfallen. Les relations déjà tendues entre les deux parties pourraient ainsi devenir encore plus compliquées.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/la-forteresse-europeenne-au-pilori

    #référendum #Suisse #frontex #votations #migrations #asile #frontières #réfugiés

    • Le site web des référendaires :

      No Frontex

      La violence, la misère et la mort sont devenues quotidiennes aux frontières extérieures de l’Europe. Les personnes réfugiées et migrantes sont privées de leurs droits, battues et expulsées. En tant que garde-frontière et garde-côte européen, Frontex a sa part de responsabilité. Frontex manque de transparence. Frontex détourne le regard. Frontex participe à des violations des droits humains. Pourtant, Frontex est largement déployée à travers l’Europe.

      Le 15 mai, un vote populaire décidera si la Suisse doit participer à cette extension de Frontex. Nous disons OUI à la liberté de mouvement pour tou·te·s et NON à Frontex.

      https://frontex-referendum.ch/fr

    • Interviews: Transnational action in support of upcoming referendum on Switzerland’s funding for Frontex

      To find out more about the Abolish Frontex! network and the upcoming Swiss referendum on whether the country should increase its financial contributions to the EU border agency, we spoke to Luisa Izuzquiza of Frag den Staat and Abolish Frontex! and to Lorenz Nagel, a member of Watch the Med/AlarmPhone and the Migrant Solidarity Network that proposed and campaigned for the Swiss referendum.

      Across the weekend of 22-24 April, three days of action organised by the Abolish Frontex! network in support a no vote in the Swiss referendum on Frontex funding, to be held on 15 May 2022, led to initiatives in Belgium, Germany, Italy, the Netherlands and Switzerland itself. These actions included workshops, demonstrations and actions to raise awareness about systemic problems connected to the border regime, migration management and the militarisation of borders.

      Luisa’s and Lorenz’s answers represent their personal views and not those of the organisations with which they are involved.

      We started by asking about themselves and their activity in this context.

      Luisa: “I would define myself as a freedom of information activist and I have been working on freedom of information since 2014, with a special focus on Frontex and borders since 2016. With my then partner in activism and now my actual colleague Arne Semsrott, we started working on Frontex because for a transparency activist I think it’s a very clear target and it’s quite easy to see that they need some work, specifically to make their actions more transparent – on the one hand because Frontex clearly has quite an obstructive approach to transparency and they have a heavily embedded culture of secrecy within the agency, and at the same time they are a huge agency in terms of size, power and budget that is quite reluctant to accountability so I think the freedom of information activism and Frontex-oriented work was quite a natural match to make, so we do research around Frontex, we do campaigning and we do litigation.”

      Lorenz: “On the one hand, I am active in the transnational network Watch the Med/AlarmPhone that has a lot to do with the things that are ongoing, on the fortification of Europe and the militarisation of the border regime and within that, also Frontex, and on the other hand I am also doing research on the topic of externalisation and the militarisation of the border regime as well, so I have these two roles.”

      We then asked Luisa to tell us about the transnational Abolish Frontex! campaign and how it is structured, and Lorenz about the initiation of, and signature collection for, the Swiss referendum, as well as whether any political parties supported it.

      Luisa: “The AF! campaign was born a bit less than a year ago, in June 2021. It is a decentralised campaign that is organised in an autonomous way with different national chapters that come together to debate strategy and to coordinate around the demands that the campaign is based on. To date, it includes over 100 organisations from all around Europe and beyond Europe as well, because one of the aims was always to involve groups that are active in the periphery of Europe and also beyond Europe, because of course this topic affects everyone.

      “Where is it more active? It’s interesting, because that has shifted quite a lot since the launch of the campaign, and as the campaign was growing. For instance, at the very beginning we had a very strong German focus and a very strong German chapter, because there were already quite a lot of groups, NGOs and activist movements already organised in Germany, and there was a good awareness of Frontex and its role, so it was a very natural thing to organise, and as time has gone on we have also seen a large chapter grow, for example, in Italy, which is growing and is very active. It’s interesting to see how certain focuses become activated and then suddenly grow very quickly, and how the interest is the same in countries where Frontex operates in a very obvious way and also in countries which technically do not have any interaction with Frontex but, of course, it is in their interest as well. … In the Netherlands, we have groups that have been organising for instance around the anti-arms trade movement so, yes, it’s another area in which it is very active.”

      Lorenz: “When it comes to the Swiss referendum, it is important to know about the Swiss context, that there is a semi-direct democratic system that allows to propose referendums on the decisions that are taken within the parliament. This was also the beginning, there was a parliamentary decision to go with the Frontex increase, to take over this new reform that was decided upon in 2019 and, unsurprisingly, I would say, none of the big parties, also on the left, did propose the referendum themselves.

      “This then brought different correctors and groups from non-parliamentary networks that are involved in one way or another in migration struggles, to think of whether this could be an option. After some initial discussions, on the initiative of the Migrant Solidarity Network, which is a small, self-organised network of activists, we decided to propose the referendum, also as a protest note in direction of the parliamentary actors who, once again, remained inactive. I think this is interesting in a historical perspective, because since Switzerland joined the Schengen area in 2009, there have been several reforms and several increased rounds that led to this explosion of today’s agency, as we know it, and it was always more or less agreed upon in Switzerland without great parliamentary resistance.

      “This has a lot to do, obviously, with questions around Schengen and the guillotine clause that is assigned to it [a reference to the referendum held in 2020 on whether or not to end Swiss participation in free movement within the Schengen area], but this criticism has explicitly existed in non-parliamentary circles for many years towards the political parties. This was in September, when we decided to take this step. We were a rather small group of people from mainly self-organised organisations and then, step by step, this No Frontex community or committee (however we want to call it) started to grow, and first it was the young parties of the left-wing parliamentary actors (the young socialists and greens) who joined, and later the so-called mother parties, so the Social Democrats and the Green party officially supported the referendum…

      “This does not necessarily mean supporting it with the same goals as the initiators. I think there are a lot of differences, but yes, they supported it. I think in the end it is important to say, when it comes to this No Frontex committee, that from the very beginning until now, is that it stayed a very small core group of people that are (most or almost all) from self-organised networks and migrant communities. I think this also speaks about, when we speak about the role of the bigger parties, even though they do have a lot of resources and possibilities, they stayed quite distant, on the one hand obviously because of their different views on the topic, but also because it is not on their main agenda, the topic of Frontex and the militarisation of the border regime, again, because it is very much linked to the question of Schengen membership.

      “The experience of signature collection was interesting for many of us. It was quite difficult when it started, also because it started during the time of corona when physical interactions in the public space were somehow limited anyways, and the daily circle of movement of individuals was much smaller than under normal circumstances, but step by step we tried to mobilise through local committees, asking them to call for orange waves or for orange weekends because we chose this orange campaign colour, and this started somehow to become a thing… so, more and more people started to go out in the streets to collect signatures and I think what we realised then, is that we had to start from the very beginning.

      “We decided in the very beginning that one of our main goals was to intervene with progressive or radical perspectives into the public debate, so that we don’t only want to call for a stop to the expenses, but also we wanted to call in favour of freedom of movement for all. So this was our slogan from the start... NO to Frontex, yes to freedom of movement for all, and to put forward this perspective. We were quite far away from bringing this perspective easily to the broader public, because for many people who we talked to in the streets, we had to first explain what Frontex is and why it potentially is a problem. This was on the one hand very interesting, and obviously also very needed, because if we imagine the size of this agency and the consequences of the policy it stands for, then I think that to push for public knowledge is really right at the beginning of pushing for broader resistance.”

      Next, we asked about the Abolish Frontex! days of action in support of the referendum, and about whether the important informative and awareness-raising work by the Swiss campaign means that even if the referendum doesn’t succeed, the exercise would have been worthwhile.

      Luisa: “These days of action were conceived and planned in support of the Swiss referendum which will take place on 15 May, mainly because, I think, the whole network is very excited and just in awe of how far the campaign for no Frontex in Switzerland has come. It’s an incredible step and a very important one, so the network wanted to organise just to support this initiative and to help make it visible, and hopefully to inspire other actions similar to the Swiss one in other countries, which if it happens (as you said) in the Dutch case, that would be amazing. So, that was the focal point and the way in which the actions are themed is around national contributions to Frontex, and how European countries are involved in what Frontex is, what it does and how they actually make it possible. I think that a lot of times, when we speak of Frontex, we think of this abstract force that we really don’t know how it works, who decides, who makes it, and of course it is member states, it’s our own governments which are actually supporting Frontex, taking decisions within Frontex and so on. So the main thread of these action days will be national contributions. We have focused a lot on the contributions in terms of equipment and officers and how these are in fact the actual backbone of Frontex operations without which Frontex operations could not, to date, function.

      “I think this is something that is not very well known to most people, that it’s countries ‘donating’ equipment and officers to Frontex. We want to highlight this, we want to bring it to the public’s attention and we want to show dissent and call for an end to these contributions. There will be actions in the next three days in different countries, in Germany, Belgium, the Netherlands, Italy, and the actions vary depending on the national context. So, in some countries you will have a workshop, just to learn what Frontex is, how it works and what member states’ involvement is. In other countries it will be a demonstration, so it really depends on what the need in each country is, which I think is a reason why it’s great to have different national chapters. In terms of scale and impact, I think that working on a topic on which there is very little public awareness, the main thing we would like to achieve is to inform people about how these contributions work and try to mobilise citizens to ask their government to stop these contributions, because they are contributions to violence, essentially, and hopefully that is a good result that we can achieve.”

      Lorenz: “That still is a big goal and maybe also a big outcome of the efforts of the last couple of months. On the one hand, we forced parliamentary actors to position themselves, and also forced them into a very uncomfortable decision. We came from a situation where it had become normal to just accept this big explosion, this increase of the mandate and everything. It also came after a lot of years of normalisation of border violence, which, especially in Switzerland, is broadly accepted, or maybe not accepted but ignored by the Swiss public, because it is so easy to hide behind the geographical location of Switzerland, saying, “yes ok, but we are not at the external borders”, while it is clear that Switzerland is a strong driving force for many causes of migration, on the one hand, and also a very stable supporter of the policy of deterrence, ever since.

      “In that way, I think we also forced a broader public to at least get in touch with the topic. If they like it or not, whatever their position is, that definitely was interesting. But I think all of us, sometimes, are also a bit sceptical and ask ourselves, ‘should we have done more?’, ‘could we have done more?’, ‘how could we have intervened better?’

      In the end it was a mix of what is possible, so we tried to push migrant voices, we tried to break a bit with the narrative that only non-migrant communities talk on the matter, and this on the one hand happened very much, but on the other hand there would have been a lot of space for improvement, and the other big thing was to reach a broader public, which I think we did, because all the main newspapers had to write about it and they had to take into account our demands which means the claim of freedom of movement for all, even though it was obviously not specified what would potentially be meant by it… I think many debates that did happen did really nourish a hopefully sustainable mobilisation and it was clearly (and still is) very positive from my point of view, for example, that a church alliance against Frontex has been built, and I think this is remarkable and good to see, and it reaches a circle [that] from our positions and with the language that we usually use, and the actions we usually pursue, it reaches a circle that we do not really address.”

      We asked if this focus on budgets and resources can inform a debate about what individual states can do to rein in Frontex, about the aim to “abolish” Frontex and plans to enhance its human rights compliance, and about whether managing to collect enough signatures to force a referendum was a surprise, and whether it is likely to win.

      Luisa: “I like this particular topic just because it is so tangible. A lot of times when we talk of accountability and what can we do with Frontex and what type of disciplinary action can exist and so on… it’s all framed in a way that is so vague and seems very “meta”, whereas this is just so tangible, you can put a number to the amount of resources you are giving every year and you can put a moment in time when these negotiations happen and you can just withdraw these resources and the impact is immediate, you’re just not giving them the equipment they need to conduct human rights violations, to enforce violence... even if you see it just as a slap on the wrist,… with the budget, it comes from the EU institutions so it’s hard; but this is just straightforward, and I think it’s good to highlight a straightforward solution because sometimes everything around Frontex is purposely portrayed as very complex and unattainable when it’s not really that way.”

      “In the moment when we started building this campaign, Frontex was often in the news for wrongdoing and of course when you have these instances of violence being exposed there is always the question of ‘what can we do about it’, and the usual dichotomy between reform and abolition appears, so our reading of the situation was that reform doesn’t really make sense because it assumes from the point of departure that the original idea of Frontex was a good one and it was a virtuous idea, and then it somehow got corrupted and went wrong and now we are paying the consequences. If we just fix this, then we can go back to this virtuous idea of a border police force that does no wrong.

      “For us, actually, what we see from Frontex every time there is what we call a ‘scandal’, is actually Frontex working precisely in the way that it is built and intended to work and you cannot really dissociate a border police force and the idea of violence, because they are inevitably linked. So, this is why we framed the campaign around abolition, understanding it as a systemic issue, but also because abolition is not just about dismantling the things that we don’t want to exist because they cause harm and endanger lives, but also about the building of alternatives and thinking, if we didn’t have this thing that we think is dangerous for society, then what could we build instead and what would it take and how can these resources be divested and invested into something that creates safety for all? Frontex is just working in the way that it is meant to work. I don’t believe in a border police force that does not cause any violence, it’s quite simply impossible, and you can have more explicit or less explicit violence, but it’s violence nonetheless.

      “So, this idea of Frontex just conducting internal investigations and hiring fundamental rights officers and so on, these are essentially patches which, even if you did want to consider reform, I think they are completely insufficient, just because you are giving the police force the power to police itself and, in democratic terms, even if you believe in reform as a way forward, it’s incredibly dangerous. As a transparency activist I see this very often because, for example, Frontex decides whether to release information about their own human rights violations and, of course, the outcome is that they refuse access to over 80% of the questions that they get and this is what happens when you give the perpetrator the power to evaluate and discipline itself. This is not how it’s meant to work. I think that it’s creating a dangerous system that just creates grounds for abuse in the future and we will see each other having these conversations again in a matter of five years when the mechanisms have failed and they have endangered the life of many, many more people.”

      Lorenz: “To be honest, before Christmas we were probably not sure if we would come through, I mean we had 100 days to collect 50,000 signatures, during corona, with a small group and without enthusiastic support from the bigger players, let’s say. It was a tough one, and then I think that over Christmas something changed, maybe also because of the alarming messages that we sent out. They caused something, and there was a change and it started to be really moving, and active, and one could also feel it and then, all of a sudden, these letters started coming in, and then, finally, I mean it was really on point, it was really close, we realised it would pass in the last two days, but on the last day we were still sorting out letters and it was needed that we did that. This was already a very big success, and it pushed the debate and now, in the time afterwards, I think we had the opportunity to, on our side, deepen our arguments and bring them to a wider public debate. From that point of view, it was a very positive surprise that it came through.

      “When it comes to the outcome, I think it would be nothing other than a wonder, considering that we are already talking about holy things, if we would succeed. But I think we knew this from the beginning, that it would be very hard. Also, in the last few weeks the discussion, quite naturally, did not really focus on Frontex but on other issues of migration around the Russian war in Ukraine, so we know that this will be a very tough road to go down and that most likely, maybe not most likely, but the chances are high that it will not get through.

      “This, however, should not be our primary orientation, because in the end it is the orientation of the parliamentary actors and voters and I think what we wanted to do was to embed a topic into its broader field, to bring into the debate the daily resistance that is happening against the migration regime, to shed light on the situation at the EU external borders, to also strengthen anti-racist networks and to create new alliances and to build at least a knowledge ground to create new alliances, and I think that already by doing 50 events, having events in bigger towns but also in smaller villages, and doing collective action days, I think this already activated a lot of people, so I think this is good, also to show that we do intervene in the public debate and that we use these instruments that there are in the ways that we think are useful, and to show the ones in power that we will try different means to go after them in order to counteract this current migration regime.”

      The following questions raised the issue that the initial Frontex Regulation, approved in 2004, was already problematic from a human rights perspective, and how the Ukraine conflict represents both a problem and an opportunity, because the European response revealed that previous narratives were laden with lies regarding the risks posed by refugees.

      Luisa: “I think it’s the problem of just creating conditions that are liable to be abused and then giving these conditions to a law enforcement actor, it’s quite obviously a recipe for disaster and it seems we haven’t learned anything from the past years. Now, we are having these conversations about Frontex accountability and what went wrong in terms of how do we find ourselves seeing all these pushback allegations and no one knew anything and nobody did anything, when Frontex theoretically already has mechanisms in place to deal with this sort of situations, and yet none of them actively prevented violence like this. Of course, when you build the control mechanisms within the actor that is supposed to be controlled, then it’s over. Self-control is not a thing that you want to put your bet on, especially when working on such a sensitive issue like the lives of people already in a vulnerable situation. But there is just no learning from this, and we see the same cycles of policy just being repeated, but then you also see the level of danger escalating and it’s just a very dangerous recipe.”

      Lorenz: “Yes. We wrote a text on our blog about it [the welcome given to Ukranian refugees] on our webpage and one of our spokespersons, Malik, who is also part of AlarmPhone and originally comes from Syria, who crossed into Europe in 2015 with the March of Hope. He, I think, formulated it in a very smart and very sensitive way where he said that yes, of course, it hurts, these double standards hurt because they are nothing but racist… and when a minister in Switzerland says that they treat Ukrainians with another security standard because they still need to uphold security standards for people from Syria and Afghanistan due to terrorist threats, then it’s obviously something that makes you think of everybody who had to endure the journey and the violence linked to it some years ago, and at the same time he said, but, what this crisis shows, is that the border regime is only based on political decisions, nothing of the arguments that have been given to us in the last years are true, not that there is not enough money, not that it is needed because we cannot handle an influx of people, all of that are just lies and we now have the possibility to demand the solidarity that the people from Ukraine rightfully receive for everybody.

      “This, from my point of view, has to be the position. Then, I think, regarding Frontex, that you can start playing around with their role, saying ‘ok, you [will] have in 2027 10,000 border guards and €1.2 billion as a budget, with this invested in a humanitarian sense, a lot could be done, you could not talk of any kind of problems anymore.’ As the Defund Frontex campaign showed, you could finance a whole fleet in the Mediterranean with that money, or with a third of that money. So, I think it’s important from which direction you look at this. I found that what he [Malik] says was quite interesting because he did not lose himself in an argument of frustration, but he tried to turn it around and say, it’s time to demand what we demand ever since.”

      We then turned to the systemic problem of Frontex’s analytical and advisory roles, and about whether the campaign for a Swiss referendum can be considered a success, regardless of its outcome, due to the way it has shed light on the problematic structural aspects of Frontex.

      Luisa: “I think there is one specific area of concern for me regarding Frontex’s analytical capabilities and how this is instrumentalised, because of the way in which Frontex is constructed. I find this interesting because it works so efficiently for them. You have in one actor a triple role that is just cyclical: so, you have an actor that has an analysis that we don’t really know exactly how this happens, so we don’t really understand what are their sources and how they do these metrics, what sort of factors they take into account, but anyways they have an analysis of the situation at the European borders and a diagnosis. So this is one of the roles. They have another role, which is that they are also in charge of prescribing their solution, which, of course, because they are who they are, is always going to be ‘we need more border control’. We have seen this prescribed solution being exactly the same at very different moments in time at the EU level, we see this way before 2015, we see this in 2016 in the middle of what was labelled as the refugee crisis, we see this also at a moment when arrivals were dropping drastically and we see it again now as well, at a moment when we have a war at our borders and great numbers of arrivals because of this dramatic situation.

      “So it’s always the same recipe, whatever the analysis is, but this is their role as well. And then of course they have another third role, which is, at the end of the day, as the recipients of the benefits that the solutions that are proposing will carry, which means, of course, that if you need more border control, then you need a stronger Frontex. Hence, after all of these regulatory changes for greater powers, greater budget, this is how you basically have an agency that was born with a €5m budget and a tiny staff, and in a matter of a decade it’s skyrocketing its budget, its power, its staff, the ability to get its own equipment, it’s building its own autonomy and it is just this vicious circle where you have the analytical, the prescription and the beneficiary working all the time in such a non-contested way, because you see the media reproducing their analysis, you see policymakers reproducing the solutions that they are prescribing and everyone cheers. Frontex is just working for its own self-benefit, building itself up, and that, to me, is of great concern, because even if you think of it in democratic terms, we would never have this at any other point in what you would call theoretical policymaking, this is not independent analysis, this is not an independent prescription of solutions, and it is a big conflict of interests that has the effects we are seeing now.

      “This, to me, is a great source of concern and I think it is something that we need to have a big chat about, because it is not only about what Frontex actually does on the ground, which is very visible and very tangible because it’s so raw, like pushbacks or someone dying in a case of non-assistance at sea, for example. But it’s actually more about how Frontex builds itself up, and the more it does so, the more difficult it will then become to hold it to account.”

      Lorenz: “From my point of view, [the campaign for a referendum can] definitely [be considered a success]. I’m an overly positive person so I think there may be other people within the committee who have different opinions. It’s also a fact that it cost a lot of resources especially if you are a small group, and it also demands a lot of discussions when a committee is so newly put together. I think when looking back or when looking at the moment, at this stage where we are now until mid-May, there will be 40+ events, there will be bus tours into small cities and into market places, there will be big events in the city and there will be a huge appearance on the 1st of May. So I do think that there were many connections points, for example, with the climate movement that took a very strong position against Frontex and also to link the militarisation of the border regime on the one hand to the causes of migration, but also to the destruction of nature due to the militarisation of the physical border regime, and also feminist positions on the patriarchal logic of militarisation, so I think this has all had very good and needed effects, that from my point of view are very valuable.

      “So, yes, of course, I think that regardless of the result there are positive outcomes, not least because it also, again, shows the very blind spots of this seemingly inclusive democracy where still one third of all people are excluded from it due to a racist migration and asylum system. So, I think the ones who are affected, they are on the one hand excluded from the right to vote but also they are often also excluded from the debate, because who is debating in public, especially in the places with a lot of reach? It will not be the people affected by the migration regime. So, I think that there were and are discussions going on that are needed and I think that the referendum is a very good instrument to use from time to time – not always and not too much – to intervene or to make a stand.”

      Finally, we enquired about the supposed neutrality of Frontex as a potential problem, and about how the Frontex referendum fits within the wider mobilisation across Europe.

      Luisa: “You also see this dynamic play into many other aspects of what Frontex does, for example in the research and innovation part of it, they have acquired the capability of advising where European research funds need to be invested. That is extremely interesting but it’s also very dangerous because, once again, they have a self-serving interest in what needs to be investigated and they will not advise the European Commission to invest in technologies to prevent the loss of life at sea or they will not encourage for example the European Commission to invest in studies around better visa granting systems and how we can make that more efficient to create safe routes for arrival. They will ask the European Commission to invest in facial recognition technology that they can then purchase and use for greater surveillance. So, it’s the fact that we have independent advice from someone that is everything but independent and extremely self-serving, which is very concerning, for sure.”

      Lorenz: “I think there are links at many levels. I think, for us, from the beginning, it was very important to embed the referendum within a broader network of resistance against the border regime. This, on the one hand, obviously means the self-organised daily resistance by people on the move against border regimes, the ones who do protests or ignore the border regime by continuing to cross. It is also meant as a sign [of solidarity] towards people on the move. This is also something that Malik said, when he was in 2015 on the road and they knew that there is a strong resistance movement within the cities, this gave them strength and motivation. This, for sure, is one side of it.

      “Then, of course, it [the referendum campaign] also stands in solidarity with all the work on the topic that has been done before. The demands are very much inspired from international networks like Watch the Med/AlarmPhone and others. Also, the knowledge that we use that we were able to build up on was very strongly also linked to networks like Abolish Frontex! and I think also many people involved are linked in one way or another to either local self-organised groups or networks that organise against the migration system or the camp systems, or are part of transnational networks or structures that to try to organise against the deterrence regime.

      “So, for sure this is very interconnected and for us it was very important to do that and not to behave as if we had produced this from scratch but that we obviously build upon very diverse and developing networks and practices of resistance that exist along all migration routes, I think, and this we tried to include somehow in the communication, obviously, and this was also a challenge because of course on the one hand we need to address the Swiss public with this fact, as you said, that millions per year are spent for this brutal and deadly regime for an army in its war against migration and on the other hand we also wanted to bring the realities on the external borders to the Swiss public, so it was always an act of balance on what to focus and which arguments to follow up on. I think this is how in the end we came to where we now are.”

      A last question for Lorenz was how the referendum can contribute to attempts to oppose problematic practices by member states, such as pushbacks and violence, often supported by the Commission and Frontex.

      Lorenz: “I find it difficult to say. What I hope, what we do is to make visible who is responsible for this. This is still one of the main goals, I think that one of the strengths of Frontex is that it seems a faraway agency that is hardly graspable and that it also has by its monitoring and reporting mechanism system a corrector. It was built not to be controlled, which makes it very easy to organise around Frontex this kind of horrible regime, while everybody, maybe, in a personal exchange would say ‘yes, this is a horrible regime, but we don’t have anything to do with it’.

      “So what we wanted to do (and still want to do) is to make this connection clear, and to make it very clear that there is this a responsibility in society, in parliamentary politics and obviously also in the private sector in all of that, and so, to bring this responsibility to where it belongs, and to confront people with that and to maybe make people feel uncomfortable, because in that way maybe they start to realise that they put this system in practice, which is completely inhuman and based on a systematisation of violence.

      “I think it is like many other strategies to counteract the migration regime, I think this is an additional one, and one that we could use to put effective pressure on the ones in power and to put them in a position where they have to talk in public about what is happening, and I think this is something that is not necessarily comfortable and that we definitely should use if we can.

      “Within that, media also have to report about it to a certain degree, which also means that at least some of them start to dig deeper, which also brings out the needed points and also the direct involvement, for example, that Switzerland can have. At the moment still there is a loud demand out there that Switzerland needs to make public the roles of their representatives on the executive board had on the matter that was examined by the OLAF anti-corruption agency, and obviously they do not do that, so you can also point to the channel of problems that you have with the security and surveillance institutions of the state that are highly intransparent even though they are involved in the most fundamental areas of human rights. So also at that level of demands it is an important and excellent opportunity.”

      https://www.statewatch.org/news/2022/april/interviews-transnational-action-in-support-of-upcoming-referendum-on-swi

    • #Référendum sur Frontex : la perspective des droits humains

      Le 15 mai, les citoyen·ne·s suisses voteront sur la reprise du règlement de l’UE sur le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes. Le nouveau règlement de l’UE a été approuvé par le Parlement à travers un arrêté fédéral et vise au développement et à l’extension de l’agence européenne de surveillance des frontières Frontex. Par cette adoption, la Suisse augmenterait fortement ses contributions financières et en personnel à l’agence européenne de surveillance des frontières.

      Frontex fait l’objet de vives critiques depuis des années, car l’agence a participé à plusieurs reprises à des refoulements illégaux et à des violations des droits humains, notamment par des autorités nationales de protection des frontières. Un référendum a donc été lancé contre le projet de loi reprenant le nouveau règlement de l’UE par le comité « No Frontex Referendum », sur l’initiative de l’organisation Migrant Solidarity Network.
      De quoi s’agit-il ?

      Le règlement de l’UE 2019/1896 relatif au corps européen de garde-frontières et de garde-côtes remplace les règlements de l’UE 1052/2013 et 2016/1624, et renforce du même coup Frontex en tant qu’autorité européenne de surveillance des frontières. Le Parlement européen et le Conseil de l’Union européenne expliquent que ces efforts sont motivés par les lacunes existantes dans le contrôle des frontières extérieures de l’espace Schengen. Selon eux, le cadre de l’Union dans les domaines du contrôle aux frontières extérieures, du retour, de la lutte contre la criminalité transfrontalière et de l’asile doit encore être amélioré.

      La réforme de Frontex comprend l’attribution d’un mandat plus important, la constitution d’une réserve permanente de 10 000 spécialistes d’ici 2027, l’engagement de 40 conseiller·ière·s en matière de droits fondamentaux pour soutenir l’office des droits fondamentaux, l’acquisition de navires, d’aéronefs et de véhicules ainsi que la promotion du système européen de surveillance des frontières EUROSUR, qui doit surveiller et empêcher la migration irrégulière à l’aide de moyens techniques.

      La réforme de l’agence européenne de surveillance des frontières entraîne une augmentation du budget et donc proportionnellement de la contribution de la Suisse, ce qu’elle fournit depuis 2011 à Frontex sur les plans financier et en personnel. En reprenant le nouveau règlement de l’UE, les 6 postes à plein temps actuellement mis à contribution par la Suisse augmenteraient progressivement pendant 5 ans pour atteindre un maximum de 40 postes à plein temps. La contribution financière passerait de 24 millions de francs en 2021 à un montant estimé à 61 millions de francs en 2027.
      Des violations des droits humains par Frontex

      L’agence européenne pour la gestion des frontières Frontex est impliquée depuis de nombreuses années dans des violations des droits humains aux frontières extérieures de l’UE. Ainsi, Amnesty International a documenté que Frontex collabore avec les garde-côtes libyen·ne·s, ce qui permet d’intercepter les personnes qui fuient en Méditerranée et de les ramener sous la contrainte dans des centres de détention libyens. De plus, l’agence européenne aide les autorités croates à la frontière extérieure de l’UE à repérer les personnes qui tentent de franchir la frontière de manière irrégulière. Des investigations ont également révélé que Frontex participe à des refoulements (« push-backs ») illégaux en Grèce. Selon l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés, ces pratiques entrent « en contradiction flagrante avec le droit européen et les obligations de droit international public ». Selon le principe de non-refoulement du droit international public, les personnes ne peuvent pas être expulsées si elles risquent d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou toute autre forme de violation sévère des droits humains.

      Afin de déterminer si elles ont besoin d’une protection, les personnes concernées doivent avoir accès à une procédure d’asile équitable et conforme à l’État de droit. Or, c’est précisément ce « droit de chercher asile et de bénéficier de l’asile en d’autres pays pour échapper à la persécution », ancré dans la Déclaration universelle des droits de l’homme (art. 14, par. 1 DUDH) qui est refusé à de nombreuses personnes par l’approche privilégiée par Frontex, à savoir repousser les personnes hors des frontières extérieures de l’UE. Selon la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe, il est urgent de mettre un terme aux refoulements aux frontières de l’Europe. Dans une recommandation, elle appelle les gouvernements à augmenter la transparence et la responsabilité, notamment en renforçant les mécanismes qui permettent d’exercer un contrôle indépendant des opérations de surveillance des frontières, et enjoint les parlementaires à se mobiliser pour empêcher l’adoption de propositions législatives qui autoriseraient les refoulements ainsi que pour abolir toutes les dispositions en ce sens qui seraient déjà en vigueur

      L’efficacité du « système de responsabilité », censé tenir compte du bilan préoccupant de Frontex en matière de droits humains, doit également être remise en question. Depuis 2011, Frontex a mis en place un système de signalement, des observateur·trice·s pour les retours forcés, des responsables des droits fondamentaux, un forum de consultation, un mécanisme de plaintes individuelles (en 2016) et un·e observateur·trice des droits fondamentaux (en 2019). Ces mécanismes ne sont en réalité que de la poudre aux yeux : en 2020, lorsque des député·e·s européen·ne·s se sont inquiété·e·s des tirs et des décès, la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, a indiqué qu’aucun incident grave n’avait été signalé, acceptant les justifications des autorités grecques. L’absence d’infractions signalées a également été utilisée par le directeur de Frontex, Fabrice Leggeri, pour justifier le rejet des recommandations du Commissariat aux droits fondamentaux et des gouvernements nationaux pour nier leurs pratiques illégales.

      Enfin, Frontex n’intervient pas seulement aux frontières extérieures de l’UE, mais est également responsable de la planification et de l’exécution des renvois dans l’ensemble de l’espace Schengen. De nombreux rapports témoignent de la violence et des violations des droits humains dont a fait preuve l’agence lors de ces renvois. Frontex exerce en outre une pression sur les pays non-membres de l’UE pour qu’ils réadmettent les réfugié·e·s expulsé·e·s. Au total, Frontex travaille avec plus de 20 pays en dehors de l’UE et poursuit l’externalisation de la gestion des réfugiées et de l’immigration de l’UE.
      Des garanties insuffisantes dans le projet de loi

      La Suisse a une part de responsabilité dans le droit européen en matière de migration et d’asile et dans le respect des droits humains en Europe, et doit ainsi revoir sa participation automatique à Frontex. Avec le projet de loi soumis au vote le 15 mai 2022, les moyens investis par la Suisse dans l’agence sont disproportionnés par rapport aux ressources mises à disposition pour les mécanismes de protection. C’est précisément pour cette raison que le projet de loi Frontex devrait être accompagné de mesures compensatoires lors de la procédure parlementaire. La Commission de la politique de sécurité du Conseil des États a reconnu en mai 2021 que la reprise des développements de Frontex nécessitait d’importantes mesures compensatoires « dans l’esprit de la tradition humanitaire de la Suisse », et a donc demandé une extension du contigent de réinstallation, afin de permettre à davantage de personnes fuyant des régions en crise de venir demander l’asile en Suisse. Cette demande avait déjà été formulée par l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés lors de la procédure de consultation. La commission a également proposé de renforcer les voies de recours des requérant·e·s d’asile par le biais d’un mécanisme de traitement des plaintes et la possibilité de recourir à un conseil juridique. Les Chambres fédérales ayant rejeté ces mesures, la loi soumise au vote ne prévoit aucune mesure compensatoire humanitaire importante. Si le référendum est accepté et le projet de loi rejeté, ce dernier pourrait être à nouveau débattu au Parlement ; en ce sens, le référendum offre à la Suisse une chance de trouver des compensations humanitaires à la politique migratoire européenne menaçant les droits humains.

      Les appels pour réformer Frontex ne viennent pas seulement de Suisse. Pour dénoncer ces pratiques contraires aux droits humains, le Parlement européen a demandé le gel d’environ 12% du budget de l’agence de surveillance des frontières en octobre 2021. Fin mars 2022, la commission du contrôle budgétaire de l’UE a décidé de prolonger cette décision, Frontex ne remplissant toujours pas les conditions pour une décharge du budget. Ses membres se sont appuyé·e·s sur les constatations de l’Office européen de lutte antifraude (OLAF), qui a fait état de harcèlement, de refoulements illégaux et d’autres mauvaises conduites de Frontex. La commission de l’UE demande que les violations de l’État de droit par Frontex soient traitées immédiatement. Un rejet par le peuple suisse du projet en discussion pourrait renforcer ces voix au Parlement européen et ainsi mettre la pression sur l’UE, les États Schengen et sur l’agence Frontex elle-même pour enfin engager les réformes nécessaires et mettre fin aux violations des droits humains commises dans le cadre de cette politique sécuritaire.
      Quels sont les risques ?

      Si elle n’adopte pas le règlement de l’UE sur le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes, la Suisse pourrait être exclue des accords d’association à Schengen et Dublin. Ceci est possible sur le plan contractuel, car l’accord d’association à Schengen (AAS) oblige en principe la Suisse à reprendre les développements de l’acquis de Schengen, et donc également du règlement UE 2019/1896, dans un délai de deux ans. Si la Suisse ne reprend pas l’acte ou ne le fait pas dans le délai prévu, l’accord cesse automatiquement d’être applicable après six mois (art. 7, al. 4, let. a et c, AAS). Un comité mixte, composé de représentant·e·s du gouvernement suisse, du Conseil de l’Union européenne et de la Commission européenne, dispose alors de 90 jours pour trouver une solution commune. S’il n’y parvient pas ou ne respecte pas le délai prévu, l’accord Schengen devient automatiquement caduc après trois mois (art. 7, al. 4, AAS). En raison de la petite « clause guillotine », l’accord d’association à Dublin serait alors également dissous, selon Sarah Progin-Theuerkauf, professeure de droit européen et de droit des migrations à l’Université de Fribourg.

      Rainer J. Schweizer, professeur de droit public, de droit européen et de droit international public à l’Université de Saint-Gall, rappelle quant à lui que la Suisse a repris depuis 2008 environ 370 actes juridiques de l’UE dans le cadre de Schengen et de Dublin, et que l’interdépendance de nombreuses institutions telles que la police, la justice, les autorités douanières et fiscales ne permet pas d’exclure automatiquement la Suisse des accords d’association à Schengen et Dublin par la « clause guillotine ». Un accord global de sortie sur le modèle de l’accord de sortie du Brexit serait en effet nécessaire ; aussi, c’est le moment de discuter des améliorations possibles dans le cadre de l’engagement de la Suisse auprès de Frontex.

      Une certaine marge de manœuvre existe en pratique : jusqu’à présent, l’UE a toujours attendu la votation lorsque des référendums ont été lancés contre les développements de Schengen, notamment lors de la transposition de la directive européenne sur les armes dans la législation suisse sur les armes ou encore de l’introduction des passeports biométriques. Comme la mise en œuvre de ces évolutions législatives était jusqu’à présent toujours prévisible, l’UE a renoncé à des sanctions. Le délai de deux ans est déjà dépassé dans le cadre du développement actuel de l’acquis de Schengen, comme il a été notifié à la Suisse le 15 novembre 2019, ce qui signifie que le délai de reprise a déjà expiré le 15 novembre 2021. En cas d’acceptation du référendum, il est donc tout à fait possible que l’UE accorde à la Suisse un certain laps de temps pour adapter le projet de loi et mettre en œuvre le règlement européen sur Frontex avec un peu de retard. Le 15 mai 2022, le peuple suisse se prononcera en effet sur la mise en œuvre nationale du règlement de l’UE, et non sur l’accord de Schengen ou l’accord d’association à Dublin en soi. Il faut toutefois que la Suisse communique rapidement la suite de la procédure à l’UE.
      Le point de vue des droits humains

      Alors que les contrôles aux frontières ont été abolis entre les États membres de l’UE, Dublin et de l’espace Schengen et que la libre circulation des personnes prévaut, l’immigration en provenance de l’extérieur de ces frontières est abordée comme un problème de sécurité et exclusivement sous l’aspect de la migration et de l’immigration illégales. Cette politique de repli sécuritaire, incarnée et déployée par Frontex, se fait au détriment des droits humains et favorise les discours racistes. Aussi, la Suisse ne doit pas soutenir ou même encourager ce système sans se poser de questions.

      Un retrait de la Suisse des accords d’association à Schengen/Dublin peut être considéré comme contre-productif dans la mesure où elle perdrait également son influence sur la politique européenne des réfugié·e·s et sur l’orientation de Frontex. Il ne faut toutefois pas oublier qu’elle participe elle-même à la politique d’asile critiquable de l’Europe sur la base de l’accord d’association à Dublin. La Suisse expulse régulièrement des personnes vers des États où elles risquent de subir de graves atteintes à leurs droits humains sur la base du règlement Dublin III notamment, et a déjà été critiquée à plusieurs reprises par les organes de traités de l’ONU.

      Si le référendum est accepté, la Suisse pourrait déclencher un débat sur la scène internationale et introduire des demandes plus exigeantes vis à vis de Frontex. L’agence européenne de surveillance des frontières doit à la fois assurer une plus grande sécurité pour les personnes en quête de protection, se positionner clairement contre les refoulements illégaux et mettre en place un système de responsabilité permettant de surveiller et de signaler les violations des droits fondamentaux et en garantissant l’indépendance et l’effectivité du mécanisme de plaintes individuelles.

      Compte tenu des violations des droits humains aux frontières extérieures de l’UE dont Frontex assume une part de responsabilité et vu l’insécurité alarmante planant sur les personnes en quête de protection, la reprise du nouveau règlement de l’UE sans mesure de compensation humanitaires au niveau national est inacceptable du point de vue des droits humains. Le « pays des droits humains » qu’est la Suisse a le devoir de contrebalancer la politique migratoire européenne restrictive en augmentant notamment le contingent de réinstallation, en facilitant le regroupement familial, en réintroduisant l’asile dans les ambassades ou en accueillant davantage de personnes en fuite ; accepter le référendum, et ainsi refuser le projet de loi actuel, représente une occasion pour amorcer ce changement.

      https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/prises-de-position/referendum-frontex-prise-position

    • #Frontex : #mensonge politique, effet boomerang, révolution

      Voir plus loin. Voilà ce que propose #Marie-Claire_Caloz-Tschopp dans un essai qu’elle met à disposition sur son site desexil.com (https://desexil.com/frontex) et qui propose de relire des philosophes politiques pour penser l’après votation sur la loi Frontex. « L’écho que rencontre une action de minoritaires courageux suffit à montrer que s’interroger sur Frontex implique, dans la suite de la votation suisse du 15 mai 2022, de reprendre l’initiative sur l’Europe en luttant pour une #hospitalité_politique constituante pour l’Europe et la planète. » Elle souligne au passage combien le système de #démocratie_semi-directe est mal connu des populations européennes. La « mise en garde » de la commissaire européenne aux affaires intérieures Ylva Johansson interviewée le 7 mai dans les journaux de Tamedia sur la votation faussement présentée comme un « pour ou contre Schengen » vient une fois de plus le confirmer (voir notre vrai/faux : https://asile.ch/2022/05/03/no-frontex-7-arguments-phares-decryptes)

      https://asile.ch/2022/05/09/desexil-frontex-mensonge-politique-effet-boomerang-revolution

      #votation #Suisse #démocratie_directe

    • Oui à une Europe des droits humains

      Un front composé de dix organisations de défense des droits humains et des migrant·es, d’une trentaine de parlementaires fédéraux et cantonaux, de personnalités du monde académique et de professionnel·les et militant·es du domaine de la migration appelle à refuser l’augmentation du financement de Frontex.

      Frontex est l’agence de garde-frontières et de garde-côtes de l’Union européenne. Elle a été fondée en 2005. Depuis lors, son budget a augmenté de 7000 %, passant de 6 millions à 11 milliards d’euros pour la période 2021-2027. Le 15 mai prochain, la population suisse doit décider s’il est nécessaire d’augmenter le financement suisse à Frontex de quelque 24 à 61 millions de francs.

      Le Conseil fédéral, les milieux économiques et une partie de la presse à grand tirage tentent d’accréditer la thèse selon laquelle la Suisse serait exclue de l’accord d’association à l’espace Schengen en cas de non le 15 mai prochain. Or, loin d’entraîner une telle conséquence, un rejet permettrait simplement au Parlement suisse de reprendre la main sur ce dossier afin de proposer une loi plus respectueuse des droits humains. En effet, la Suisse peut tout à fait assortir la participation suisse à cette agence de conditions. Et ce d’autant plus que les revendications des référendaires sont largement partagées par les parlementaires européens, tous bords confondus. Par ailleurs, aucun gouvernant européen ne menace aujourd’hui la Suisse de telles conséquences parce que l’Union européenne n’a pas intérêt à voir la Suisse, au cœur du continent, sortir de Schengen qui est, rappelons-le, un outil de coopération sécuritaire réciproque.

      Non, la question que posent les référendaires est très simple. Il s’agit de décider si l’agence Frontex, telle qu’elle fonctionne encore aujourd’hui, est compatible avec notre obligation d’offrir une politique d’asile digne et humaine aux personnes fuyant la persécution.

      La réponse, pour nous, est clairement non. Au lieu de protéger les demandeurs d’asile à leur arrivée et de les aiguiller dans les filières prévues à cet effet, Frontex participe directement ou indirectement à des renvois illégaux et à des atteintes aux droits humains en contradiction avec nos valeurs humanistes et le droit international.

      La violation par cette agence des droits fondamentaux des migrants en Grèce a été par exemple largement dénoncée par les ONG. Il en va de même des opérations de renvoi de migrants par la Hongrie, en dépit d’un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne qui les juge incompatibles avec le droit européen. Beaucoup d’opérations connues sous le nom de « prévention au départ » sont en fait des refoulements illégaux vers des pays comme la Libye accusés de traite, tortures et emprisonnements arbitraires.

      Les témoignages et rapports faisant état de pratiques totalement inadaptées, de violences ainsi que de traitements illégaux et dégradants infligés aux migrants, se multiplient.

      L’Office européen de lutte antifraude a mis en évidence des actes de harcèlement, de mauvaise conduite ainsi que la lenteur de recrutement des officiers de protection pourtant tellement indispensables. Le parlement européen, comme les référendaires en Suisse, est très préoccupé par cette situation. C’est pourquoi, il pris la décision de geler 12% du budget de l’institution.

      La situation est tellement chaotique au sein de cette agence que le directeur exécutif de l’agence, Fabrice Leggeri, a fini par donner sa démission, au grand soulagement des responsables européens. Car outre les pratiques illégales, le fonctionnement de cette agence ne répond plus depuis longtemps aux règles minimales de bonne gouvernance.

      Voter NON à l’augmentation de la participation suisse à Frontex ce n’est pas s’exclure de l’Union européenne mais au contraire participer activement au débat européen sur la façon dont nous entendons accompagner les flux migratoires.

      Nous estimons que le droit pour une personne persécutée de déposer une demande d’asile dans nos pays doit être pleinement garanti. Construire une forteresse autour de l’Europe sans assurer de filière officielle de dépôt de demande d’asile, par exemple au travers notre réseau d’ambassades, n’est pas acceptable et met en péril nos valeurs ainsi que le droit international.

      La mission prioritaire de Frontex est de protéger les frontières du continent contre le trafic et le crime, y compris en col blanc. Sa mission ne doit pas être de bloquer l’arrivée de demandeurs d’asile en mettant la vie de personnes cherchant refuge en danger.

      Nous demandons que Frontex se conforme, dans son fonctionnement, au principe selon lequel tout individu cherchant protection puisse soumettre une demande d’asile sur notre sol.

      Il en va de nos valeurs en tant que démocraties, respectueuses des droits fondamentaux et de l’Etat de droit. Il en va aussi de notre cohérence face au droit international qui doit être défendu autant en Ukraine qu’en Suisse.

      Votons massivement non à l’augmentation du financement de Frontex !

      Signataires :

      Frontex Referendum, Solinetz, Droitsfondamentaux.ch, Forum civique, Emmanuel Deonna (Député, GE, PS), Nicolas Walder (Conseiller national, GE,Verts), Christian Dandrès (Conseiller national, Genève, PS), Gabriel Barta (Membre de la Commission Migration et Genève internationale, Ge, PS), Tobia Schnebli (Président du Parti du travail, Genève), Kaya Pawlowska (Chargée de projet, PS Suisse), Jean Ziegler (ancien conseiller national, Genève), Samson Yemane (Conseiller communal, Lausanne, PS), Philippe Borgeaud (Professeur honoraire, Université de Genève), Florio Togni (Président, Stop Exclusion, GE), Carol Scheller (Membre du Comité unitaire No Frontex, GE), Maryelle Budry (Conseillère municipale, Ensemble à Gauche, GE), Alexis Patino, (Groupe Migration UNIA Genève), Aude Martenot (Députée, GE, Ensemble à Gauche,), Pierre Eckert (Député, GE, Les Verts), Marie-Claire Calloz-Tschopp (Collège internationale de Philosophie, Genève, desexil.com), Droit de Rester Neuchâtel, Ada Marra, (Conseillère nationale, VD, PS), Stéfanie Prezioso, (Conseillère nationale, GE, Ensemble à Gauche), Ilias Panchard (Conseiller communal, Lausanne, Les Verts), Graziella de Coulon (Collectif Droit de Rester, Lausanne), Yan Giroud (Co-président de la section vaudoise de la Ligue suisse des droits de l’homme), Cathy Day (Présidente de la section genevoise de la Ligue suisse des droits de l’homme), Marc Morel (Membre du comité, Ligue suisse des droits de l’homme), Delphine Klopfenstein-Broggini (Conseillère nationale, GE, Les Verts), José Lilo (Auteur, acteur & metteur en scène), Brigitte Berthouzoz (Membre du comité, Ligue suisse des droits de l’homme, Genève), Thomas Bruchez (Vice-président de la Jeunesse socialiste suisse), Marianne Ebel (Présidente, Marche mondiale des femmes, Suisse), Mireille Senn (militante syndicale et des droits humains), Alexandre Winter (Pasteur de l’église protestante de Genève), Jérôme Richer (auteur et metteur en scène), Ricardo Espinosa (Directeur IAHRA, Genève), Anna Gabriel Sabate (Secrétaire régionale UNIA Genève), Helena Verissimo de Freitas (Secrétaire régionale adjointe UNIA Genève), Sophie Guignard (Secrétaire générale de Solidarités sans frontières), Nicolas Morel (militant PS, Lausanne), Sophie Malka (Comité de Vivre Ensemble), Apyio Amolo Brandle (Conseillère communale, Schlieren, PS), Giada de Coulon, (Comptoir des médias, Vivre Ensemble), Carine Carvalho Arruda (Députée au Grand Conseil vaudois), Raphaël Mahaim (Conseiller national, Vaud, Les Vert·e·s), Carlo Sommaruga (Conseiller aux Etats (GE, PS), Lisa Mazzone (Conseillère aux Etats, GE, Les Verts), Isabelle Paquier-Eichenberger, (Conseillère nationale, GE, Les Vert·e·s), Sibel Arslan (Conseillère nationale, Bâle, les Vert.e.s), Marionna Schlatter (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Denis de la Reussille (Conseiller national, NE, Parti ouvrier Populaire/Parti du Travail), Laurence Fehlmann Rielle (Conseillère nationale, GE, PS), Jean-Charles Rielle (Député au Grand Conseil, GE, PS), Samuel Bendahan (Conseiller national, VD, PS), Sophie Michaud Gigon (Conseillère nationale, VD, PS), Valerie Piller-Carrard (Conseillère nationale, Fribourg, PS), Baptiste Hurni (Conseiller national, NE, Les Verts), Christophe Clivaz (Conseiller national, VS, Les Verts), Samira Marti (Conseillère nationale, Bâle, SP), Katharina Prelicz-Huber (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Kurt Egger (Conseiller national, Turgovie, Les Verts), Florence Brenzikoger, (Conseillère nationale, Bâle, Les Verts), Michael Töngi, (Conseiller national, LU, Les Verts,), Katharina Prelicz-Huber (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Les Verte.s Section Jura, Christian Huber (Président des Verts de la ville et de la région de Saint-Gall), Nina Vladović, (Président de la Commission de la Migration Syndicat SSP), Brigitte Crottaz (Conseillère nationale, VD, PS), Balthasar Glaettli (Conseiller national, ZH, Les Verts), Élisabeth Baume-Schneider, (Conseillère aux Etats (PS, Jura), Felix Wettstein (Conseiller national, Soleure, Les Verts), Pierre-Alain Fridez (Conseiller national, Jura, PS), Charles Heller (Chercheur à l’Institut des hautes études internationales et du développement, Genève), Danièle Warynski (Maître d’Enseignement, Haute école de travail social, Genève), Jeunesse socialiste genevoise, Solikarte Kollektiv, Rachel Klein, Ronja Jansen (Présidente, Jeunesse socialiste suisse), Jean-Marie Mellana (Comité PS Ville de Genève), Wahba Ghaly (Conseiller municipal, PS, Vernier), Oriana Bruecker (Conseillère municipale, PS, GE), Diego Cabeza (Président du SIT), Davide de Filippo (co-secrétaire général du SIT et président de la CGAS), Jean-Luc Ferrière (co-secrétaire général du SIT), Umberto Bandiera (syndicaliste SIT et responsable de la commission de solidarité internationale de la CGAS).

      https://lecourrier.ch/2022/05/09/oui-a-une-europe-des-droits-humains/?msclkid=b51beebfd06d11eca1e2d8ca091db432

    • No Frontex | Droits fondamentaux : le Conseil fédéral devra rendre des comptes

      En faisant croire à la population que la votation portait sur une acceptation ou un refus de l’Europe de Schengen, le Conseil fédéral a réussi à faire peur à une majorité de la population, y compris parmi des personnes soucieuses du respect des droits fondamentaux et qui n’ont glissé qu’un « oui » « de raison » dans l’urne. Mais le débat sur Frontex n’est pas clos, estime le comité référendaire genevois No Frontex [1]. Le Conseil fédéral a pris un engagement dans cette campagne en affirmant que le « Oui » permettra d’améliorer « de l’intérieur » le respect des droits fondamentaux. Ce faisant, il reconnait la co-responsabilité de la Suisse dans les pratiques de Frontex : la mort de plusieurs dizaines de milliers d’hommes, de femmes et d’enfants aux frontières extérieures de l’Europe, les refoulements illégaux de personnes à protéger, l’absence de contrôle véritablement indépendant du respect des droits humains et l’opacité de la plus grosse agence de l’Union européenne. Les autorités fédérales devront désormais rendre des comptes. L’attention ne faiblira pas.

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      Frontex et violations des droits fondamentaux : le Conseil fédéral devra rendre des comptes

      Comité référendaire genevois NO FRONTEX

      Communiqué de presse – 15.05.2022

      Le comité référendaire genevois No Frontex a pris note avec déception du résultat du vote d’aujourd’hui. Mais il n’est pas surpris. En faisant croire à la population que la votation portait sur une acceptation ou un refus de l’Europe de Schengen, le Conseil fédéral a réussi à faire peur à une majorité de nos concitoyennes et concitoyens, y compris chez des personnes soucieuses du respect des droits fondamentaux et qui n’ont glissé qu’un « oui » dit « pragmatique » ou « de raison » dans l’urne. Mais le débat n’est pas clos.

      Le Conseil fédéral a pris un engagement dans cette campagne en affirmant que le « Oui » permettra d’améliorer « de l’intérieur » le respect des droits fondamentaux par l’agence européenne du corps des garde-côtes et garde-frontières. Ce faisant, il reconnait la coresponsabilité de la Suisse dans les pratiques de Frontex : la mort de plusieurs dizaines de milliers d’hommes, de femmes et d’enfants aux frontières extérieures de l’Europe, les refoulements illégaux de personnes à protéger, l’absence de contrôle véritablement indépendant du respect des droits humains et l’opacité de la plus grosse agence de l’Union européenne ont été mis en lumière.

      Tel est le mérite de la campagne référendaire lancée par un petit collectif de personnes migrantes autour et de citoyen·nes solidaires et engagé·es : avoir fait des agissements de Frontex un débat de politique suisse. Les actes commis aux frontières extérieures de Europe le sont aussi au nom de la Suisse et les autorités fédérales devront désormais rendre des comptes. L’attention ne faiblira pas. L’opposition démocratique non plus.

      Frontex, complice de violences et de morts en mer et sur terre

      Les révélations de ces dernières semaines ont souligné ce que l’on sait depuis longtemps : Frontex ne sauve pas, mais est complice de la violence aux frontières extérieures de l’Europe. Frontex ne dispose pas de navires de sauvetage en mer en Méditerranée, mais observe depuis les airs comment les gens se noient. Dans d’autres cas, les bateaux qui coulent sont signalés aux soi-disant garde-côtes libyens, qui ramènent de force les personnes en fuite en Libye. La structure Frontex ne renforce pas les droits humains, mais considère les personnes migrantes comme un danger et mène une guerre violente à leur encontre. Différentes recherches dans les médias prouvent que Frontex est impliquée dans des pushbacks et les dissimule sciemment. Les plaintes juridiques contre Frontex se multiplient, le Parlement européen a voté contre la décharge du budget de Frontex. Le 29 avril, le chef de Frontex, Fabrice Leggeri, a démissionné.

      Les partisan.es de Frontex continuent de prétendre que l’agence peut être améliorée. C’est faux : les violations systématiques des droits de l’homme continueront en raison de sa mission de fermeture des frontières européennes.

      Cloisonner les frontières c’est renforcer les réseaux criminels et faire le jeu d’Etats autoritaires

      Or, la migration est un fait, pas une menace. Les gens continueront à quitter leurs pays et à chercher refuge et sécurité en Europe. En cloisonnant les frontières, en érigeant des murs, les autorités européennes – et la Suisse, membre de Frontex depuis 2011 – font le jeu d’États autoritaires, renforcent les réseaux criminels de passeurs, alimentent l’industrie de l’armement. Au lieu de protéger des hommes, femmes et enfants, elles les rendent plus vulnérables. Combien de femmes et d’hommes ont été abusé·es sexuellement voire victimes de traite d’êtres humains durant leur parcours de par l’absence de voie légale sûre d’accès à une protection internationale ?

      Cette politique sape les valeurs de démocratie et de respect des droits humains que revendiquent l’Europe et la Suisse. Au lieu de dépenser des millions à faire la guerre aux personnes en exil, l’Europe ferait mieux d’investir dans le sauvetage et une politique d’accueil digne.

      Le référendum No Frontex : indispensable pour dénoncer les violences

      Le comité genevois du référendum contre Frontex tient ici à saluer les activistes et les organisations de base qui se sont formés autour du Migrant Solidarity Network. Ceux-ci ont lancé seuls le référendum et l’ont porté jusqu’au bout. Beaucoup des militant·es concerné·es n’ont mêmes pas le droit de vote. Ils et elles ont montré qu’ils et elles ont leur place dans ce pays et que leur voix doit être écoutée.

      Le comité genevois regrette aussi le refus des grandes organisations nationales telles que l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés et Amnesty suisse de soutenir le référendum. En laissant la liberté de vote, ils ont légitimé les voix des partisan.nes du oui. Alors qu’un non le 15 mai aurait permis de reprendre les débats au Parlement suisse et de renforcer les voix progressistes européennes qui se battent à Bruxelles contre la politique actuelle de fermeture des frontières.

      Le comité genevois, composé de tous les partis de gauche, des syndicats, de la plupart des organisations de défense des droits des personnes migrantes, est fier d’avoir pu soutenir et participer à cette campagne, qui ne s’arrêtera pas le 15 mai !

      https://asile.ch/2022/05/15/84483

    • D’autant plus maintenant : Un double NON le 15 mai, pour tous ceux qui peuvent voter et ceux qui devraient pouvoir voter

      Il est enfin parti. La démission du directeur exécutif de l’agence européenne de surveillance des frontières Frontex, Fabrice Leggeri, était attendue depuis longtemps et constitue pourtant une surprise. Car depuis l’annonce des premières accusations contre l’agence à l’automne 2020, Leggeri était collé à son poste, ne montrait aucune conscience du problème ni de l’injustice et pouvait apparemment compter sur le fait que ni les Etats membres de l’UE ni la Commission européenne n’avaient intérêt à affaiblir l’agence en faisant tomber son directeur exécutif. Car l’agence se trouve actuellement dans une phase décisive de sa transformation en la première unité de police européenne en uniforme.

      Cette rupture significative dans le projet européen est également l’objet du référendum suisse sur Frontex le 15 mai 2022. Ce n’est qu’en apparence qu’il s’agit d’augmenter la contribution suisse à l’agence à 61 millions de francs. La véritable question est de savoir si une agence qui échappe déjà à tout contrôle démocratique et qui agit en toute impunité aux frontières de l’Europe doit encore recevoir des compétences et du personnel supplémentaires. La démission de Leggeri a encore renforcé ce point.

      Mais la Commission européenne tente aujourd’hui de présenter la démission du directeur exécutif comme un coup de pouce libérateur et affirme que la responsabilité des multiples scandales est à rechercher uniquement dans la personne du directeur exécutif. C’est bien sûr tout aussi faux que la menace d’une exclusion de Schengen si la Suisse votait contre l’extension des compétences et du budget de l’agence. Mais cela souligne la pression intense avec lequel la Commission veut faire avancer le développement massif de l’agence et empêcher tout débat. C’est aussi pour cette raison qu’elle a constamment soutenu Leggeri au cours des 18 derniers mois, lorsque les médias ont multiplié les révélations d’investigation sur l’agence.

      Mais fin avril 2022, la pression est devenue trop forte. Le conseil d’administration, c’est-à-dire l’organe chargé de superviser et de contrôler l’agence, qui a seul le pouvoir de révoquer le directeur exécutif et au sein duquel les États participants et la Commission sont représentés, disposait depuis des semaines d’un rapport de plus de 200 pages de l’OLAF, l’autorité européenne de lutte contre la corruption. Ce rapport n’a pas été rendu public jusqu’à présent, mais il a été dit à plusieurs reprises qu’il prouvait les manquements de plusieurs personnes à la tête de Frontex. Le rapport s’est surtout penché sur la question de savoir si Frontex était impliquée dans les pushbacks - c’est-à-dire les refoulements illégaux et souvent violents de personnes en quête de protection aux frontières de l’Europe - ou du moins si elle était au courant de cette pratique des unités nationales de protection des frontières, mais qu’elle dissimulait ces connaissances et tolérait et soutenait ainsi implicitement la violence. En outre, le rapport semble également porter sur des accusations de comportement incorrect et de harcèlement au sein de l’agence. D’après ce que l’on sait jusqu’à présent, Leggeri, mais aussi son chef de bureau Thibault de La Haye Jousselin, auraient adopté un style de direction très autoritaire, qui visait à centraliser encore plus le pouvoir et les compétences autour du directeur exécutif et qui laissait peu de place à la contradiction ou à la discussion. La question de savoir si des fonds ont été utilisés de manière abusive est également en suspens. En bref, les reproches donnent l’image d’une agence incontrôlable, qui s’est rendue autonome et qui ne se sent pas non plus liée par le droit européen.

      Combattu dès le début

      Les mouvements européens de lutte contre le racisme et de solidarité avec les migrants, les ONG ainsi que la recherche critique ont regardé Frontex avec méfiance depuis sa création en 2004. En effet, il y a près de vingt ans déjà, il s’est avéré que l’européanisation de la politique migratoire et frontalière par le traité d’Amsterdam (1997), et en particulier la création de l’agence Frontex, a marqué le début d’une évolution problématique pour plusieurs raisons. D’une part, l’agence mettait en réseau des acteurs issus des milieux policiers, militaires et des services de renseignement et, d’autre part, elle les mettait en relation avec des entreprises d’armement qui découvraient le domaine d’activité du contrôle européanisé et technicisé des frontières, qui s’était développé dans les années 2000. Dans le même temps, l’agence est devenue un acteur de plus en plus puissant du contrôle des migrations, mais elle a dépolitisé cette question profondément politique en arguant qu’elle ne s’adressait qu’aux techniques de gestion européenne des frontières. Enfin, l’Agence est également devenue un organe exécutif européen qui n’est encadré ni par les pouvoirs législatif et judiciaire, ni par un régime de contrôle propre. Dès le départ, l’agence a donc constitué un exemple pertinent du déficit démocratique souvent constaté dans l’Union européenne, sous la forme d’un exécutif qui s’autonomise.

      Dès le début, il a toutefois été difficile de relier cette critique assez abstraite à la pratique de l’agence. En effet, par construction, l’Agence restait plutôt en retrait. Le travail quotidien de contrôle et de surveillance des frontières continuait d’être effectué par les institutions de protection des frontières des États membres. Et les opérations supplémentaires de l’Agence à différents endroits aux frontières de l’Europe ont été coordonnées et financées par l’Agence, mais elles ont à nouveau été menées par les États membres.

      Mais le fait d’agir en arrière-plan ne signifie en aucun cas que l’Agence n’a pas exercé d’influence. Le lancement d’Eurosur - le système européen de surveillance des frontières - en 2013 est le résultat d’une étude de faisabilité de l’Agence sur la mise en réseau de différentes technologies de surveillance des frontières, comme les drones ou les satellites. L’influence de l’Agence a été encore plus grave en 2014, lorsque l’Italie a dû mettre fin à l’opération militaro-humanitaire Mare Nostrum en Méditerranée centrale sous la pression de l’Union européenne. L’objectif officiel de l’opération était de mettre fin à la mort des migrants en Méditerranée, ce qui a été temporairement réalisé. Mais au bout d’un an, Mare Nostrum a pris fin et a été remplacée par l’opération Triton de Frontex, qui a de nouveau donné la priorité à la protection des frontières extérieures de l’UE par rapport à la protection des vies humaines. Le nombre de morts en Méditerranée a aussitôt augmenté.

      Frontex, vainqueur de la crise

      De manière surprenante, l’agence a toutefois été absente pendant des mois durant l’été de la migration 2015. Début 2015, Leggeri avait pourtant averti que des centaines de milliers de migrants attendaient en Libye de pouvoir entreprendre la traversée vers l’Italie. Il a ainsi prouvé d’une part que les capacités de prévision de la soi-disant analyse des risques, tant vantées par l’agence, étaient dans le meilleur des cas douteuses, et d’autre part que sa déclaration devait être considérée comme une tentative ciblée d’influence politique et déloyale. Mais par la suite, on n’a plus beaucoup entendu parler de l’agence, ce qui, rétrospectivement, apparaît certainement comme un coup de chance. Un scénario dans lequel l’agence aurait tenté d’empêcher les mouvements migratoires par tous les moyens à sa disposition n’aurait pu conduire qu’à la misère, à la violence et à la mort.

      Pourtant, Frontex a été le principal bénéficiaire de ces mois mouvementés. En décembre 2015, la Commission européenne a proposé une extension massive des compétences de l’agence. Au lieu de sa fonction de coordination, elle devrait désormais diriger la nouvelle construction d’un corps de garde-frontières et de garde-côtes européens et a reçu pour cela son nouveau nom d’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes. Le nouveau règlement codifiait en outre la manière dont la gestion des frontières (en anglais : border management) devait être effectuée dans l’Union européenne et attribuait à l’Agence les premières fonctions de surveillance. Un deuxième élargissement des compétences, encore plus large, a eu lieu en 2019. Le nouveau règlement n’a pas seulement fusionné Frontex avec Eurosur, dotant ainsi l’agence d’un système technique complet de surveillance des frontières. L’agence a surtout reçu les compétences et le budget nécessaires pour constituer une réserve permanente de 10.000 gardes-frontières européens d’ici 2027.

      On ne soulignera jamais assez l’importance de ce nouveau règlement pour l’intégration européenne. En effet, pour la première fois de son histoire, l’Union européenne se dote d’un organe d’exécution en uniforme, qui devra intervenir quotidiennement aux frontières de l’Europe. L’introduction de ces insignes de l’État, qui font habituellement l’objet de discussions minutieuses au sein du projet européen, s’est pourtant faite sans grand débat, sur la base d’un article plutôt vague du traité de Lisbonne, qui reconnaît à l’UE la compétence de prendre des mesures pour une gestion commune des frontières. On peut douter qu’il s’agisse là d’une autorisation de passer sous silence d’importantes questions constitutionnelles telles que la légitimité démocratique et une séparation des pouvoirs efficace.

      Nouvelles méthodes

      Mais même au-delà de ces grandes questions constitutionnelles, une alliance d’activistes, de chercheurs critiques et de journalistes avait commencé bien avant à documenter le fait que le système européen de contrôle des frontières conduisait à la violence et à la mort.

      En 2008 déjà, une première manifestation a eu lieu devant le siège de l’agence à Varsovie[1] , tandis que le Noborder Camp 2009 sur l’île grecque de Lesbos a provoqué les garde-côtes grecs à faire une démonstration en plein jour dans le port de Mytilène sur la manière dont ils procèdent lors des pushbacks.[2] La protestation et la critique de la politique migratoire européenne, que ce soit à l’intérieur ou à l’extérieur des frontières de l’Europe, ont de plus en plus englobé la critique de Frontex et ont ainsi permis à l’agence de se faire connaître d’un plus large public. Les médias s’intéressent de plus en plus à cette institution inhabituelle de l’Union européenne.

      Les travaux de Forensic Architecture/Forensic Oceanography ont représenté une percée importante, car ils ont pu retracer minutieusement dans certains cas, comme en 2012 dans le cas du Left-To-Die Boot, comment certaines actions et omissions dans le système multi-acteurs du régime frontalier européen ont produit une catastrophe à l’issue fatale.[3] Mais ce travail a surtout permis de plausibiliser la nouvelle possibilité d’exposer la violence de la frontière européenne à la lumière d’un public critique.

      Depuis 2014, le réseau Alarmphone[4] a documenté des cas de refoulement de personnes en quête de protection, d’abord en Méditerranée centrale, puis dans la mer Égée. Le Border Violence Monitoring Network[5] a documenté à son tour des indications et des témoignages de pushbacks violents aux frontières terrestres, par exemple à la frontière terrestre gréco-turque ou aux frontières entre la Croatie et la Bosnie-Herzégovine. Ce travail de documentation systématique a créé des bases de données alternatives sur les événements aux frontières de l’Europe, qui ont permis de nouvelles approches de recherche.

      Les activités de liberté de l’information de Luisa Izuzquiza et Arne Semsrott (Semsrott et Izuzquiza 2018) se sont avérées être une innovation méthodologique similaire. Ceux-ci avaient commencé à demander de plus en plus de documents à l’agence, en se basant sur la législation européenne sur la liberté d’information. Ainsi, des archives de documents internes à l’Agence ont lentement vu le jour, mais surtout, la connaissance de ces nouvelles méthodes et possibilités s’est répandue.

      De nouveaux résultats issus de la recherche sont venus s’y ajouter. En 2018, la juriste Melanie Fink a pu démontrer que même un contrôle juridique externe des actions de l’agence par des tribunaux nationaux ou européens était de facto impossible (Fink 2018). Toujours en 2018, ma collègue Lena Karamanidou et moi-même avons pu démontrer que la nouvelle agence élargie n’était pas soumise à des obligations de responsabilité et de transparence importantes. Les mécanismes internes de l’agence, censés garantir le respect des droits fondamentaux dans les opérations de l’agence ou permettre un contrôle a posteriori, se sont révélés essentiellement inefficaces et sans conséquence (Karamanidou et Kasparek 2020). Dans mon ethnographie de l’agence, j’ai en outre pu montrer que cette construction d’une agence européenne renvoyait à un art de gouverner européen technocratique, poursuivi de manière ciblée par la Commission depuis les années 2000 (Kasparek 2021).

      Ainsi, à partir de 2017, les indices selon lesquels Frontex favorisait ou soutenait des pratiques nationales de gestion des frontières contraires au droit international des réfugiés, à la Charte européenne des droits fondamentaux et au droit européen se sont multipliés. Il était également clair qu’il existait des obstacles juridiques et administratifs importants pour demander des comptes à l’agence.

      Scandales

      La démission de Leggeri a prouvé que les critiques adressées à l’agence après l’été de la migration étaient justifiées. L’extension massive des compétences et du budget de l’agence en l’absence de contrôle et de surveillance a accéléré une évolution dans laquelle l’agence et en particulier son directeur exécutif semblaient avoir le sentiment d’être intouchables et que la fin - c’est-à-dire l’arrêt de l’immigration vers l’Europe - justifiait tous les moyens - en particulier des pushbacks violents. Cela s’est également manifesté par le fait que l’agence a apparemment commencé à agir en dehors du droit et de la loi dans d’autres activités.

      La création d’un environnement de travail toxique au sein de l’agence, comme décrit ci-dessus, semble être le moindre des reproches. Leggeri a aussi délibérément empêché le recrutement de 40 observateurs des droits fondamentaux, comme l’exigeait le règlement de 2019. Il s’est montré si insolent que même la Commission a perdu patience avec lui, ce qui a donné lieu à un échange de lettres qui vaut le détour.[6] On a également l’impression que la direction de l’Agence a délibérément évincé la responsable du service des droits fondamentaux de l’Agence. Celle-ci avait exigé à plusieurs reprises le retrait de Frontex des opérations au cours desquelles des violations des droits fondamentaux avaient été manifestement commises. Mais Leggeri n’a pas voulu accéder à ces demandes. La directrice a alors été refroidie selon toute apparence, son poste est effectivement resté vacant pendant de nombreux mois et n’a été pourvu qu’à l’automne 2020 par un proche du directeur exécutif.

      Le processus de création de la réserve permanente de l’Agence, c’est-à-dire des 10.000 gardes-frontières jusqu’en 2027, a également été mis à mal de manière fabuleuse.[7] Les candidats ont d’abord été informés qu’ils seraient recrutés, mais le lendemain, ils ont reçu une réponse négative par e-mail. Une fois arrivés à Varsovie, ils ont été parqués dans une caserne de la police des frontières polonaise et oubliés. Et comme on a omis de mettre en place un concept d’hygiène, le coronavirus s’est propagé parmi les nouvelles recrues. L’agence n’a pas non plus mis en place de règles permettant aux membres de la réserve de posséder, de porter et de transporter des armes à feu en transit. De plus, l’agence aurait dépensé des millions pour un logiciel dysfonctionnel sans jamais se retourner contre les fabricants.

      En automne 2020, les premiers rapports des médias,[8] , ont abordé ces événements,[9] mais surtout la question de l’implication de l’agence dans les pushbacks. Il n’est pas clair si ce sont ces rapports qui ont attiré l’attention de l’OLAF, l’autorité anti-corruption. En tout cas, début décembre 2020, l’OLAF a perquisitionné les bureaux de Leggeri et de son chef de bureau, a saisi de nombreux documents, a mis les locaux sous scellés et a interrogé des collaborateurs de l’agence. C’est ainsi qu’a commencé l’enquête de l’OLAF, qui a abouti au rapport de plus de 200 pages qui a finalement entraîné la démission de Leggeri.

      Le chemin a toutefois été long pour y parvenir. Le conseil d’administration de l’agence a rapidement lancé une enquête interne sur les allégations, mais n’a pu ni confirmer ni infirmer certaines d’entre elles. Il semble que l’agence n’ait pas fourni tous les documents nécessaires à son propre conseil d’administration. L’enquête menée par le Frontex Scrutiny Working Group au sein de la commission LIBE du Parlement européen a également abouti à un résultat ambivalent, à savoir que l’implication directe de l’agence dans les pushbacks n’a pas pu être confirmée, mais que l’agence était définitivement au courant des pushbacks et ne faisait rien pour les éviter. En outre, la Médiatrice européenne a mené plusieurs enquêtes.

      Leggeri a affirmé pendant tout ce temps que les accusations étaient injustifiées et a prétendu avec audace qu’il n’y avait pas du tout de pushbacks en mer Egée par exemple. Et ce, alors que même le HCR estime qu’il y a plusieurs centaines de cas par an.[10] Leggeri a refusé toute tentative de clarification et n’a fait des concessions que lorsqu’il ne pouvait plus faire autrement. En avril 2022, l’OLAF a finalement terminé le rapport en question et l’a remis au conseil d’administration de l’agence. Il y est resté plusieurs semaines, jusqu’à ce que d’autres rapports des médias[11] puissent montrer, grâce à une combinaison intelligente de demandes de liberté d’information sur une base de données interne de l’agence et de documentations activistes, que Frontex ne se contente pas de tolérer et d’accepter tacitement les pushbacks en mer Égée, mais qu’elle efface aussi systématiquement ces connaissances de ses propres bases de données. À ce stade, la pression était définitivement trop forte. Le conseil d’administration, qui s’est réuni quelques jours après ces révélations importantes, a décidé d’ouvrir une procédure disciplinaire contre Leggeri. Ce dernier a anticipé cette décision en démissionnant.

      Le droit européen s’applique-t-il aux frontières de l’Europe ?

      A l’occasion de sa démission, Leggeri s’est adressé une dernière fois à ses collaborateurs. Dans une lettre, il se plaint qu’au cours des deux dernières années, un nouveau récit sur l’agence a été établi. Il maintient que le mandat du règlement de 2019 l’a chargé de créer le premier service en uniforme de l’UE afin d’aider les États membres à gérer les frontières. Mais le nouveau récit est que Frontex doit être transformé en une sorte d’agence des droits fondamentaux ("that Frontex’s core mandate should be transformed in practice into a sort of Fundamental Rights Body"), qui doit observer ce que font les États membres à la frontière extérieure de l’UE. Mais cela n’est pas compatible avec lui, raison pour laquelle il a été contraint de démissionner.

      C’est au plus tard ce mépris affiché pour la validité des droits fondamentaux dans l’Union européenne qui a rendu Leggeri inacceptable en tant que directeur exécutif d’une agence européenne. Car il n’est évidemment pas acceptable que le directeur d’une agence européenne considère les droits fondamentaux comme une imposition et refuse de les défendre. Mais sur le fond, Leggeri renvoie effectivement à une tension qui a caractérisé dès le début le régime européen des migrations et des frontières. Avec la création d’une politique frontalière européenne commune et d’une frontière européanisée par les accords de Schengen et surtout par le traité d’Amsterdam (1997), l’UE avait également tenté de se détacher d’un modèle de violence nationale et souveraine à la frontière. La professionnalisation de la gestion des frontières, notamment par le biais de Frontex, l’introduction de méthodes d’analyse des risques prétendument basées sur la connaissance, la codification de la frontière par le Code frontières Schengen, mais surtout la promesse d’une frontière hautement technologique qui serait déjà effective bien au-delà de la ligne frontalière proprement dite grâce à des bases de données en réseau et des technologies de surveillance, constituaient l’offre européenne aux États membres.

      L’été de la migration 2015 a toutefois révélé l’insuffisance d’une telle approche européanisée. Plusieurs États membres, comme la Grèce, la Hongrie et la Pologne, sont revenus à l’ancien mode de gestion souveraine des frontières nationales. Cela impliquait également l’idée que l’État était le seul à pouvoir décider de l’accès au territoire national et à l’imposer par la force si nécessaire. Le lent échec de l’accord UE-Turquie, qui avait mis fin en 2016 à l’été de la migration, la migration de fuite forcée à la frontière entre la Biélorussie et la Pologne, la lente augmentation des franchissements non autorisés de la frontière dans les Balkans ont donc conduit ces dernières années à une normalisation et une systématisation insidieuses de cette violence sous la forme des pushbacks.

      Mais ce qui est fatal actuellement, c’est que ces anciennes rationalités se sont combinées avec les nouvelles technologies de surveillance pour former une machine de pushbacks systématiques et quotidiens. La coopération de l’agence Frontex, dirigée par le directeur exécutif Leggeri, avec les institutions nationales de protection des frontières illustre précisément ce lien. Souvent, Frontex ne fournit que les informations sur les embarcations ou les groupes de personnes en mouvement que l’agence obtient grâce à ses capacités de surveillance. L’agence laisse ensuite le travail sale et illégal des pushbacks aux institutions des États membres, comme les garde-côtes grecs ou même des unités aussi douteuses que les soi-disant garde-côtes libyens, une milice de la guerre civile libyenne qui s’est reconvertie dans le contrôle de l’immigration suite à une incitation financière de l’UE. Et comme nous l’avons montré dans un autre article, le retour aux anciennes conceptions de ce qui constitue une protection efficace des frontières peut également être observé dans le processus d’élaboration du règlement de 2019 (Kasparek et Karamanidou 2022).

      Est-ce vraiment trop demander que d’exiger d’une agence européenne d’application de la loi qu’elle soit tenue de faire respecter le droit européen en vigueur aux frontières de l’Europe ? Ce n’est qu’une question rhétorique en apparence, car c’est précisément l’exigence banale à laquelle Leggeri ne voulait plus répondre. Les pushbacks, l’internement disproportionné de personnes en quête de protection, la violence à l’encontre des réfugiés ne sont pas autorisés par le droit européen et sont même souvent passibles de poursuites pénales. L’agence est consciente de ces violations quotidiennes du droit européen, mais elle soutient et couvre les auteurs dans un prétendu geste de solidarité européenne.

      Cela signifie toutefois que la crise de l’État de droit dans l’UE a une troisième scène : les frontières de l’Europe. En effet, ni Frontex ni la Commission, qui auraient pu depuis longtemps exiger le respect du droit européen par le biais de procédures d’infraction, ne semblent se sentir compétentes pour défendre l’État de droit européen également aux frontières de l’Europe. Cette constellation pose déjà un problème du point de vue de la démocratie libérale.

      Defund Frontex

      Dans mon livre "Europa als Grenze. Eine Ethnographie der Grenzschutz-Agentur Frontex" (Kasparek 2021), je retrace également la longue ligne de co-développement entre le projet européen et la frontière européenne. Selon moi, la misère fondamentale de la politique migratoire européenne réside dans le fait que l’UE a décidé, il y a environ deux décennies, de concevoir la politique migratoire en premier lieu par le biais de la technologie de la frontière et donc de l’externaliser. Or, la politique migratoire est toujours une politique sociale et aurait dû être négociée en fonction de l’avenir des sociétés européennes. Au lieu de cela, on a créé une agence prétendument apolitique et axée sur la technique, qui s’est entre-temps autonomisée et représente un danger non seulement pour l’État de droit en Europe, mais aussi pour le caractère démocratique du projet européen.

      Une réforme fondamentale de l’Agence est donc indispensable. Le cœur de la réforme doit être un retrait de compétences et de budget, par exemple pour enfin créer et financer un mécanisme civil européen de sauvetage en mer. De même, la tâche du premier accueil et de l’enregistrement des personnes en quête de protection aux frontières de l’Europe ne doit pas être confiée à des gardes-frontières. En outre, l’agence doit être contrainte de rendre public son modèle interne de production de connaissances, appelé analyse des risques, et de le faire vérifier de manière indépendante. Car, comme j’ai pu le montrer, son modèle est imprégné de présupposés anti-migrants. Mais le point le plus important de la réforme doit effectivement être que l’agence doit se soumettre aux droits fondamentaux et aux lois en vigueur dans l’UE et les faire respecter de manière proactive aux frontières de l’Europe. Ainsi, la violence aux frontières de l’Europe, la guerre non déclarée contre les personnes en quête de protection, pourrait enfin prendre fin et l’imbrication européenne fatale entre politique migratoire et frontière pourrait être supprimée.

      La démission de Leggeri n’est certainement pas de nature à résoudre ces problèmes structurels de la politique européenne des frontières et de l’immigration, ni même du projet européen dans son ensemble. Un débat fondamental sur la manière dont l’Europe veut se positionner par rapport au reste du monde est désormais nécessaire. Mais un tel débat ne viendra pas tout seul, il est déjà clair que la Commission, par exemple, est très prompte à faire porter toute la responsabilité à la seule personne de Leggeri, étouffant ainsi dans l’œuf les débats structurels sur l’avenir des frontières européennes. Mais si vous pensez qu’un tel débat est nécessaire (et que vous avez la nationalité suisse), vous devriez voter NON le 15 mai.[12]

      Littérature

      Fink, Melanie. 2018. Frontex and Human Rights : Responsibility in ’Multi-Actor Situations’ Under the ECHR and EU Public Liability Law. First Edition. Oxford Studies in European Law. Oxford & New York : Oxford University Press.

      Karamanidou, Lena, et Bernd Kasparek. 2020. „Fundamental Rights, Accountability and Transparency in European Governance of Migration : The Case of the European Border and Coast Guard Agency FRONTEX“. RESPOND Working Paper 2020/59. RESPOND Working Papers - Global Migration : Consequences and Responses.

      Kasparek, Bernd. 2021. Europa als Grenze. Eine Ethnographie der Grenzschutz-Agentur Frontex. Kultur und soziale Praxis. Bielefeld : transcript Verlag.

      Kasparek, Bernd, et Lena Karamanidou. 2022. „What is in a name ? Die europäische Grenzschutzagentur Frontex nach dem Sommer der Migration“. Dans Von Moria bis Hanau - Brutalisierung und Widerstand, par Valeria Hänsel, Karl Heyer, Matthias Schmidt-Sembdner, et Nina Violetta Schwarz. Grenzregime 4. Berlin Hamburg : Assoziation A.

      Semsrott, Arne, et Luisa Izuzquiza. Letter. 2018. „Recommendations for Greater Transparency of Frontex Activities“, 26. November 2018.

      https://transversal.at/blog/d-autant-plus-maintenant-un-double-non-le-15-mai

  • Des Africains témoignent de leurs difficultés à passer les frontières pour sortir d’Ukraine

    Depuis le début de l’opération militaire russe en Ukraine, des centaines de milliers de personnes résidant en Ukraine ont tenté de quitter le pays ces derniers jours et les témoignages d’Africains se multiplient concernant les difficultés de passer la frontière polonaise.

    « Il y a eu des informations regrettables (selon lesquelles) la police ukrainienne et le personnel de sécurité refusent de laisser les Nigérians monter dans les bus et les trains » pour la Pologne, a déclaré le porte-parole de la présidence nigériane Garba Shehu. « Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans faveur », a-t-il insisté.

    M. Shehu a déclaré que selon d’autres informations, des fonctionnaires polonais ont refusé l’entrée en Pologne à des citoyens nigérians en provenance d’Ukraine. Depuis le début de l’offensive russe, la situation est compliquée à la frontière terrestre à cause de l’afflux de personnes fuyant les combats.

    Pour beaucoup d’Africains, le passage vers la Pologne a été bloqué du côté ukrainien et certains ont pu franchir la frontière en descendant un peu plus au sud, par la #Slovaquie. C’est le cas de Patrice, menuisier camerounais qui a quitté Kharkiv.

    "C’est très difficile. Très difficile au niveau de la frontière de la #Pologne. On refusait beaucoup les Noirs, on ne les acceptait pas du tout et on faisait juste passer des Blancs. Nous sommes ensuite arrivé au niveau de la frontière en Slovaquie, c’était parfait."

    De son côté, l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska, a rejeté les accusations de racisme. « Tout le monde reçoit un traitement égal. Je peux vous assurer que, selon les informations dont je dispose, certains ressortissants nigérians ont déjà franchi la frontière avec la Pologne », a-t-elle réagi auprès des médias locaux.

    Selon elle, les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et les restrictions liées au Covid-19 ont été levées. Les Nigérians disposent d’un délai de 15 jours pour ensuite quitter le pays, a-t-elle ajouté.

    Comme des centaines de milliers de personnes, de nombreux Africains - pour la plupart étudiants - tentent de fuir l’Ukraine pour rejoindre les pays voisins, notamment la Pologne. C’est notamment le cas de Mike, qui vit à Kharkiv.

    "Ça bombarde de partout, les transports en commun ne fonctionnent plus, les métros ont été transformé en abri anti-bombes."

    https://www.rfi.fr/fr/europe/20220228-guerre-ukraine-africains-temoignent-difficult%C3%A9s-passer-fronti%C3%A

    #racisme #réfugiés #guerre #Ukraine #Africains #étudiants #frontières #fermeture_des_frontières #catégorisation #tri #réfugiés_ukrainiens

    –-

    Les formes de #racisme qui montrent leur visage en lien avec la #guerre en #Ukraine... en 2 fils de discussion sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Les étudiants tunisiens s’organisent pour quitter l’Ukraine en guerre

      Environ 800 étudiants tunisiens sont encore bloqués en Ukraine. Les premières évacuations ont eu lieu vendredi 25 février dans la soirée, mais beaucoup restent encore à évacuer vers les pays voisins.

      Les étudiants tunisiens sont encore présents un peu partout en Ukraine. Une partie est à Odessa, au sud du pays. C’est le cas de Myriam. Ce samedi matin, elle a pu prendre un bus en direction la Roumanie.

      « Nous sommes environs 25 dans le bus, raconte Myriam. Il y a des Algériens et des Marocains aussi. On a même des animaux avec nous, deux chiens et un chat. On ne pouvait pas les abandonner. Il a fallu se battre pour qu’ils nous laissent monter. Ils voulaient nous envoyer en Moldavie. On avait peur de rester bloqués là-bas, il n’y a pas d’avions. Ça fait quatre jours que nous ne dormons pas. Nous étions une vingtaine à être cachés dans un sous-sol. Nous avions très peu d’informations. »

      Myriam et les autres Tunisiens d’Odessa ont pu organiser leur évacuation avec l’aide d’Amine Smiti. Il travaille pour une agence privée qui se charge d’aider les étudiants tunisiens à s’installer à l’étranger. Mais depuis le début de la guerre en Ukraine, il est membre de la cellule de crise mise en place par le ministère des Affaires étrangères tunisien.

      Amine Smiti explique comment il organise le départ des étudiants et les difficultés auxquelles il fait face : « En coordination avec les services de sécurité en Ukraine, j’ai pu avoir deux chemins sûrs pour évacuer à travers la Moldavie et la Roumanie. C’est difficile de trouver des bus, car les militaires les ont réquisitionnés pour rassembler les civils qui se sont engagés. Avec mon frère, et par nos propres moyens, on a réussi à trouver des bus, des taxis et des voitures privées. Les ambassadeurs et le ministère des Affaires étrangères se chargent d’assurer aux Tunisiens de ne pas passer plus de quatre ou cinq heures aux frontières. Personnes n’y est resté bloqué. Sans leur intervention aucun tunisien n’aurait pu quitter l’Ukraine. »
      Situation compliquée pour les Tunisiens de Dnipro

      Vendredi, trente Tunisiens ont pu rejoindre la Moldavie. Aujourd’hui, Amine Smiti dit pouvoir en faire évacuer encore une centaine. Les étudiants d’Odessa devraient tous être évacués d’ici à la fin du week-end. Mais la situation est plus compliquée pour les 227 Tunisiens bloqués à Dnipro. La ville étant située à plus de 900 km des frontières voisines, il est difficile d’assurer un chemin sécurisé pour leur évacuation.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220226-les-%C3%A9tudiants-tunisiens-s-organisent-pour-quitter-l-ukraine-en-gue

    • Exode à la frontière Ukraine-Pologne : « Ils nous refoulent juste parce qu’on est Noirs ! »

      De nombreux Africains fuyant la guerre en Ukraine ont affirmé sur les réseaux sociaux avoir été recalés à la frontière polonaise en raison de leur couleur de peau. À la gare de Lviv, dans l’ouest de l’Ukraine, France 24 a rencontré plusieurs #étudiants africains ayant été refoulés sans raison au poste-frontière de Medyka. Des discriminations démenties par Kiev et Varsovie.

      Des civils sont-ils empêchés de fuir la guerre en Ukraine en raison de leur #couleur_de_peau ? Des Africains affirment en tout cas avoir été refoulés à la frontière avec la Pologne tandis que d’autres personnes, blanches, étaient autorisées à passer. Des discriminations qui pourraient venir ternir le grand élan de solidarité affiché par les pays de l’Union européenne, tandis que des centaines de milliers de réfugiés continuent à affluer vers les frontières polonaise, hongroise, slovaque et roumaine de l’Ukraine.

      Le blocage de la frontière polonaise pour les Africains n’est pas total car certains groupes ont pu passer, ce qui suggère plutôt un filtrage arbitraire des gardes-frontières locaux.

      Mais lors d’un reportage dimanche 27 février à la gare de Lviv, grande ville de l’ouest de l’Ukraine située à environ 80 kilomètres de la frontière polonaise, France 24 a rencontré plusieurs étudiants africains qui affirment avoir été empêchés de pénétrer en Pologne par les gardes-frontières ukrainiens.

      « On nous a bloqués à la frontière, on nous a dit que les Noirs ne rentrent pas. Pourtant, on voyait les Blancs rentrer... », se remémore ainsi Moustapha Bagui Sylla, un Guinéen qui étudiait la médecine en Ukraine. Le jeune homme a fui sa résidence universitaire de Kharkiv dès les premiers bombardements pour se lancer dans une folle course vers l’ouest.

      Comme des dizaines de milliers de civils ukrainiens, il a enduré des heures de marche à pied et d’attente dans le froid sur la route de Medyka en Pologne. Mais son périple s’est heurté à l’intransigeance des gardes-frontières ukrainiens, qui lui ont intimé l’ordre de rebrousser chemin.

      Un étudiant nigérian en train de faire la queue pour acheter des billets de train a décrit une scène similaire au même endroit. Son groupe, qui comprenait des femmes, est resté bloqué devant les grilles du poste-frontière tandis que les gardes ukrainiens faisaient passer des Blancs.

      « Ils ne laissent pas passer les Africains. Les Noirs qui n’ont pas de passeports européens ne passent pas... Ils nous refoulent juste parce qu’on est noirs ! », s’exclame Michael. « On est tous humains, on est nés comme ça, ils ne devraient pas nous discriminer sur la couleur de notre peau. »

      Selon Moustapha Bagui Sylla, les gardes ukrainiens ont justifié leur refoulement par des instructions de leurs homologues polonais, qui leur auraient dit « qu’il n’y avait plus de place pour les migrants » en Pologne.

      Varsovie a fermement démenti toute discrimination. « Je ne sais pas ce qui se passe du côté ukrainien, mais nous admettons tout le monde quelle que soit la nationalité. Cela fait deux jours que je démens de fausses allégations comme ça », a affirmé à France 24 Anna Michalska, porte-parole des gardes-frontières polonais. Un deuxième communiqué polonais a confirmé qu’aucun visa n’était requis, que les cartes d’identité ou passeports, même périmés, étaient acceptés.

      Un responsable des gardes-frontières ukrainiens a également démenti ces informations en insistant qu’il n’y avait aucune nationalité favorisée plus qu’une autre pour passer la frontière. La principale restriction de sortie du territoire vise actuellement les hommes de nationalité ukrainienne âgés de 18 à 60 ans, qui sont mobilisés pour défendre le pays face à l’invasion russe.

      « Je ne sais pas ce qu’il s’est passé, ces personnes ont peut-être été refoulées parce qu’elles essayaient de griller la priorité dans la file d’attente », a ajouté Andriy Demchenko, porte-parole des gardes-frontières ukrainiens.

      La situation humanitaire du côté ukrainien du poste-frontière de Medyka est extrêmement précaire pour tous les déplacés, comme l’a illustré un de nos récents reportages. Selon un document interne de la Commission européenne cité par Le Figaro, il faut désormais entre vingt et soixante-dix heures pour franchir les postes-frontières de la Pologne.

      Pour les principaux concernés, ces refoulements arbitraires ressemblent à une double peine. Être renvoyé au statut de migrant économique est une véritable douche froide pour ces jeunes Africains venus faire des études avancées, avec des papiers en règle et de brillantes perspectives d’emploi. Dimanche, la plupart des Africains coincés à la gare de Lviv cherchaient désormais à fuir par la Roumanie, la Hongrie, ou la Slovaquie.

      https://www.france24.com/fr/europe/20220228-exode-%C3%A0-la-fronti%C3%A8re-ukraine-pologne-ils-nous-refoulent
      #refoulement #Blancs #Noirs #filtrage

    • Nigerian Students Fleeing Ukraine Stranded at Poland Border

      Nigerian students in Ukraine are being subjected to a tormenting reality following the Russian invasion of Ukraine on Thursday.

      In a series of tweets, the students have detailed their painful experiences, ranging from trekking long distances to escape the situation at hand, to experiencing racism in the face of danger.

      Many Nigerians walked between 14 and 25 kilometres to seek refuge in Poland. But despite trekking for hours, Poland refused them entry.

      Kachi_Nate, a Twitter user, said his friend in Ukraine could not enter Poland because she’s black.

      “She just told me they’re not letting any Black into Poland without a visa. These are students who are legally in Ukraine. They didn’t even check their documents; just turned them back,” he said.

      “We spoke on a call. She said they turned all blacks without a visa back. As long as you don’t have a visa to Poland, you can’t enter. Also, they didn’t check any other document to confirm their status as international students. She’s walking 3-4 hours back to Lviv.”

      On Thursday, Ukraine’s interior ministry said men between the ages of 18 and 60 are banned from leaving the country. Nigerians are protesting this order by heading to Poland.

      Reacting, a Nigerian said, “Nigerians living in Ukraine shouldn’t be mandated to fight or partake in a war they do not understand. There’s a reason they left in the first place. Why are they being turned back from entering Poland?”

      Some angry parents blamed the inability of Nigerian students to enter Poland on the federal government.

      “Parents are claiming the Nigerian Embassy in Poland should have informed the government there so they could approve the arrival of Nigerians. They’re taking Ukrainians in and, I think, Indians too, because the Indian Embassy in Poland said so,” a Twitter user said.

      Others say they are still subjected to racism. Nzekiev, a Twitter user, said when the train to Poland got to where he was, he and two other Africans entered first. But a few minutes later, the police came in and dragged them down from their cabin, as only Ukrainians were allowed.




      “I don’t blame them, though. I blame African leaders,” he said. “In the train stations here in Kyiv, children first, women second, white men third, and the remaining space is occupied by Africans. This means that we have waited many hours for trains here and couldn’t enter because of this. Majority of Africans are still waiting to get to Lviv.”

      On Thursday, the Russian military launched an offensive against Ukraine with land support from Belarus.

      This came minutes after Russian President Vladimir Putin declared war on Ukraine, claiming Russia was invited by the Donbas People’s Republic.

      Following this development, the House of Representatives of the Federal Republic of Nigeria promised to help Nigerian students in Ukraine.

      In a tweet on Thursday, they offered “to shoulder the immediate evacuation of Nigerian students from Ukraine”.

      The House of Representatives said the committee on the Nigerian Ministry of Foreign Affairs would jet out to Ukraine on Friday.

      However, over 24 hours after the federal government said they would help, students are still stuck in the web of the Russian-Ukraine war.

      It is estimated that over 4,000 Nigerian students are in Ukraine, making them the second most populated group of international students in the country.

      https://fij.ng/article/nigerian-students-fleeing-ukraine-stranded-at-poland-border

    • Ukraine : 436 Marocains ont réussi à fuir le pays via les postes frontières

      Un total de 436 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine via les postes frontaliers vers lesquels l’ambassade du Maroc à Kiev avait précédemment annoncé qu’ils devaient se rendre.

      Selon les données exclusives obtenues par Hespress Fr, 251 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine vers la Roumanie, dont 97 sont arrivés hier, samedi, et 154 ce dimanche 27 février.

      Par ailleurs, 130 Marocains ont traversé via la Pologne, dont 60 sont arrivés ce dimanche et 70 samedi, tandis que 46 Marocains ont quitté le pays vers la Slovaquie, dont 29 sont arrivés ce dimanche et 17 samedi. De même, 9 Marocains ont pu quitter l’Ukraine vers la Hongrie, dont 9 sont arrivés ce dimanche et un seul arrivé samedi.

      Il convient de rappeler que des milliers de Marocains sont toujours sur les routes essayant d’atteindre les pays voisins de l’Ukraine, et se mettre à l’abri des bombardements intensifs. Le nombre d’étudiants marocains en Ukraine est estimé, à lui seul, à près de 9.000.

      https://fr.hespress.com/250799-ukraine-436-marocains-ont-reussi-a-fuir-le-pays-via-les-postes-f

    • Guerre en Ukraine : la détresse d’étudiants africains livrés à eux-mêmes

      En Ukraine, des étudiants africains vivent la guerre au rythme des Ukrainiens. Ils sont nombreux à être sans nouvelle de leurs ambassades. Isolés, sans plan d’évacuation ni numéro d’urgence à contacter, ils vivent très mal la situation et appellent leurs gouvernements à organiser leur rapatriement. Témoignages dans les villes de Kharkiv et de Loutsk.

      « Nous ne recevons aucune information, aucune directive. Tout ce que j’ai comme réconfort, c’est mon papa et ma maman qui m’appellent. »

      À 23 ans, Lilian se sent bien seul dans son appartement de la grande ville industrielle de Kharkiv. La ville n’est pas tombée aux mains des troupes russes, mais des combats intenses se poursuivent dans la zone, selon le Pentagone. Comme de nombreux étudiants africains, Lilian n’a reçu aucun signe de la part des autorités camerounaises depuis le début de l’invasion russe.

      « Je me sens isolé parce que je n’ai aucune nouvelle de mon ambassade. J’ai même envie de dire de nos ambassades, car je ne suis pas le seul Africain dans ce cas. Pourtant, je sais que l’ambassade kenyane a par exemple pris des nouvelles de ses ressortissants, leur disant que s’ils se rendent à la frontière avec la Pologne, à Lviv, ils seront pris en charge là-bas. Nous, nous n’avons rien. »

      Depuis deux jours, le quotidien de l’étudiant camerounais en master de management s’est transformé en cauchemar. Dans la nuit de mercredi à jeudi, à 4 heures du matin, le tremblement des vitres de son immeuble et les bombardements le tirent de son sommeil.

      « Avant ça, tout était calme. On ne savait pas que l’on pouvait se réveiller comme ça, du jour au lendemain, avec la boule au ventre », explique Lilian, la voix monocorde.

      Pour tromper l’angoisse de l’isolement, le jeune homme a proposé à l’un de ses amis camerounais de quitter sa chambre étudiante pour venir vivre avec lui.

      « Il est venu avec moi car c’est mieux qu’être seul », explique-t-il.

      Depuis deux jours, les deux amis ont dû s’adapter au danger imminent. Faute de pouvoir fermer l’oeil la nuit, ils profitent des moments d’accalmie, dans la journée, pour pouvoir se reposer un peu. À la moindre sirène, les jeunes hommes « courent » dans le sous-sol du bâtiment. C’est là qu’ils ont décidé de passer toutes leurs nuits.

      « Les gares et les banques sont fermées, les métros sont à l’arrêt, les bus aussi. Les bombardements se déroulent à une extrémité de la ville. Cela fait deux jours que des gens dorment dans les métros », décrit Lilian.

      À 23 ans, l’étudiant camerounais est réaliste. « Mes parents ont peur pour moi, j’ai peur aussi. On ne sait pas de quoi sera fait le lendemain. Après m’être fait réveiller par des bombardements, je m’attends à peu près à tout », argue-t-il.

      Ce qu’attend le ressortissant camerounais, c’est un plan d’évacuation de la part de son pays.

      « Je ne demande pas de l’aide gratuite. Je peux me payer un billet d’avion pour me rendre au Cameroun. Mais sans communication ni plan d’ évacuation, je suis livré à moi-même ici. »

      Amadou, un étudiant sénégalais de 32 ans, a lui reçu un mail de la part de son ambassade située en Pologne.

      « Au début, je me sentais isolé. Mais jeudi soir, dans la nuit, nous avons reçu un mail venant de l’ambassade du Sénégal en Pologne. Elle a demandé à ceux souhaitant rentrer au Sénégal, de franchir la frontière polonaise. C’est la seule alternative actuellement ».

      Sur un groupe de conversation WhatsApp, des étudiants africains de toutes les nationalités s’échangent conseils et expériences par centaines de messages. Tous souhaitent sortir du pays mais dans la plupart des villes ukrainiennes, louer une voiture ou trouver un taxi est devenu un véritable « parcours du combattant ».

      L’étudiant en master de tourisme le confirme lui-même. Il cherche aussi à quitter Loutsk. La ville n’est pas très loin de la frontière polonaise, mais il attend un ami pour entreprendre son périple. Ce dernier habitait à Kiev et a eu du mal à trouver un transport. Les prix ont explosé.

      « Trouver un transport, c’est le plus grand souci actuellement. Les prix qui ne dépassaient pas les 25 dollars atteignent maintenant les 1.000 dollars pour voyager de Kiev à Varsovie », explique l’étudiant sénégalais.

      Son ami est finalement parvenu à quitter la capitale pour Lviv, mais ce dernier ne trouve pas le moyen de se rendre à Loutsk. Il n’a plus donné de nouvelles à Amadou depuis un jour. Son portable est éteint.

      « Loutsk est un peu plus sûre que les autres villes. Il n’y a pas d’affrontements ici donc les gens viennent. Comme à Lviv, Rivne… »

      Malgré un calme apparent, les sirènes retentissent plusieurs fois par jour dans la ville.

      « C’est difficile de dormir. Les sirènes n’arrêtent pas de retentir. Quand je les entends, je me précipite, je cours pour trouver un abri. C’est la psychose. Les supermarchés, les banques, les pharmacies sont prises d’assaut. Il y a des pénuries pour tout », explique Amadou.

      Natif de Bakel, à l’est du Sénégal près de la frontière avec la Mauritanie et le Mali, Amadou n’a qu’une idée en tête, partir.

      « Tout ce que je désire, c’est rentrer chez moi. Ou au moins franchir la frontière polonaise et me rendre dans l’espace Schengen pour être un peu plus protégé », dit-il.

      "Il y a de la peur, de l’angoisse, de la fatigue. Parfois, l’information n’est pas claire, on ne comprend pas ce que l’on doit faire, la langue ukrainienne n’est pas facile à comprendre pour tout le monde. Il faut vraiment vivre en Ukraine pour comprendre ce qu’il se passe ici. Je n’ai pas vraiment les mots", confesse Amadou.

      Il lance aussi un appel aux autorités sénégalaises. Il a peut-être été contacté par son ambassade en Pologne, mais il n’est pas rassuré par le passage de la frontière polonaise. L’inconnu l’effraie. D’autant que des rumeurs circulent sur les réseaux sociaux et dans les différents groupes de conversations observés.

      « Le problème en Pologne, c’est que beaucoup de monde cherche déjà à traverser la frontière. Nous ne savons donc pas quand nous serons autorisés à la franchir une fois sur place, et quel sort nous sera réservé. Je n’ai pas été là-bas mais j’ai entendu qu’ils nous traitent différemment et qu’ils séparent les Ukrainiens des étrangers. Ça nous fait peur, on ne sait pas quel sort nous attend en Pologne. Je veux que les autorités nous récupèrent une fois la frontière passée, qu’ils organisent notre rapatriement ou qu’ils nous trouvent un abri là-bas », déclare Amadou.

      Sa peur est partagée par de nombreux expatriés africains résidant en Ukraine. Tous lancent un appel à leurs gouvernements pour organiser leur rapatriement.

      https://information.tv5monde.com/info/guerre-en-ukraine-la-detresse-d-etudiants-africains-livres-eux

    • Guerre en Ukraine : des milliers d’étudiants arabes coincés sur place cherchent désespérément à fuir

      Plus de 10 000 étudiants arabes se sont retrouvés pris au piège du conflit en Ukraine. Leur rapatriement est un casse-tête pour leurs gouvernements et une difficile traversée pour les concernés livrés à eux-mêmes

      Trois jours après le début de l’invasion russe en Ukraine, le nombre de réfugiés ou déplacés grandit rapidement. Les ressortissants étrangers sont aussi menacés par l’avancée de l’envahisseur. C’est le cas de plus de 10 000 étudiants arabes, pris au piège sur place. Les Marocains forment le principal contingent d’étudiants en Ukraine, prisée pour les études de médecine et d’ingénierie. Au moins 8 000 étudiants y résident habituellement.
      Des « scènes traumatisantes »

      Parmi ces étudiants, Rania Oukarfi, 23 ans. Elle a pris la route vers la Moldavie, peu après le début de l’invasion. Jointe par téléphone, elle raconte avoir vu des « scènes traumatisantes ». Selon elle, « l’ambassade n’aide pas, on essaie d’appeler, aucune réponse ».

      Nassima Aqtid, 20 ans, étudiante en pharmacie, est bloquée à Kharkiv où les combats font rage. « J’ai pensé quitter la ville mais c’est impossible, la frontière la plus proche est celle de la Russie », explique-t-elle. « J’ai quitté le Liban à cause de l’effondrement » économique, raconte sur place Samir, 25 ans. Pour lui, la situation est plus critique. Pour gagner la Pologne, il doit traverser toute l’Ukraine.

      Livrés à eux-mêmes

      Des jeunes Syriens et Irakiens sont dans la même situation. Ali Mohammad, un étudiant en ingénierie de 25 ans, appelle constamment son ambassade sans succès depuis Chernivtsi (à l’ouest), proche de la frontière roumaine. « On est partis d’Irak pour changer de mode de vie, la guerre, les galères. On est venus en Ukraine, et c’est la même chose », déclare-t-il par téléphone. Selon un responsable gouvernemental, l’Irak compte 5 500 ressortissants en Ukraine dont 450 étudiants.

      Faute de directives de leurs pays, les ressortissants égyptiens ne savent que faire, comme le confie Saad Abou Saada, 25 ans, étudiant en pharmacie à Kharkiv. « L’ambassade n’a encore rien fait. Je ne sais pas où aller. » Il loge dans sa résidence universitaire qui hébergeait d’autres étrangers « partis sans (lui) ». La moitié des ressortissants du pays sont des étudiants en majorité inscrits à Kharkiv.

      Les États s’organisent

      Depuis le début de la guerre, l’Irak, la Tunisie, l’Égypte et la Libye tentent de préparer la sortie de leurs ressortissants vers des pays limitrophes. Le Maroc les a invités à se rendre à des points d’accès frontaliers avec la Roumanie, la Hongrie, et la Slovaquie. La Tunisie, qui ne dispose pas d’ambassade en Ukraine, va envoyer en Pologne et en Roumanie des avions pour rapatrier ses ressortissants qui souhaitent partir parmi les 1 700 vivant en Ukraine. Tunis a pris contact avec l’ONU et la Croix-Rouge internationale pour l’aider à les évacuer par voie terrestre, ce qui reste très risqué.

      La Libye a prévu des points de ralliement en Ukraine et des évacuations vers la Slovaquie pour une diaspora estimée à près de 3 000 personnes. L’Algérie, liée à la Russie par des accords militaires, s’est distinguée en n’appelant pas à ses ressortissants à quitter le pays. Mais elle les a exhortés à « une extrême prudence ».

      https://www.sudouest.fr/international/guerre-en-ukraine-des-milliers-d-etudiants-arabes-coinces-sur-place-cherche

    • Guerre en Ukraine : le difficile exode des étudiants africains

      Après de multiples accusations de comportements racistes aux frontières, l’Union africaine s’est élevée contre tout « traitement différent inacceptable ».

      Jusqu’au déclenchement de l’invasion russe en Ukraine, Theresia Kabimyama était étudiante en ingénierie à Odessa, ville portuaire située au bord de la mer Noire. Mais du jour au lendemain, la guerre a poussé cette jeune Congolaise à fuir le pays où elle avait élu domicile. Un voyage éprouvant en bus – faute de pouvoir trouver une place à bord d’un train – l’a menée jusqu’à Lviv, la grande ville de l’ouest, à 800 kilomètres de là, puis à la frontière avec la Pologne, où elle a finalement pu entrer dimanche 27 février.« C’était un cauchemar, franchement, les policiers n’ont pas du tout été sympas avec les étrangers, surtout les Noirs ; ça nous insultait de tous les noms, ça braquait les armes sur nous, ça nous bousculait », rapporte-t-elle au téléphone.Alors que de nombreux Africains, pour la plupart étudiants, tentent comme des centaines de milliers d’Ukrainiens de rejoindre vaille que vaille les pays voisins, les accusations de comportements racistes aux frontières se sont multipliées ces derniers jours. Des vidéos partagées sur les réseaux sociaux sous le hashtag #AfricansinUkraine montrent des scènes de fortes tensions et des Africains empêchés de monter à bord de trains quittant le pays.

      Hervé Offou, un étudiant ivoirien en médecine à Dnipro, une ville de l’est de l’Ukraine, vient d’en faire l’amère expérience. A Lviv où il venait d’arriver, alors qu’il voulait prendre le train avec d’autres étrangers, un policier s’est énervé : « Enlevez les singes d’ici », s’est écrié l’agent, selon le récit de l’étudiant qui assure avoir failli en venir aux mains. Il a finalement décidé de marcher près de 40 km, lundi matin, pour rejoindre la frontière avec la Pologne, en compagnie de plusieurs compatriotes.« Choquant et raciste »« Là aussi les étrangers sont mis à l’écart. Personne ne s’approche de nous, c’est difficile », relate Davy, un ami ivoirien d’Hervé. Kader Niekiema, un étudiant burkinabé de 28 ans à l’université de Lviv, a vécu la même situation, cette fois à la frontière avec la Hongrie. « Il y avait deux files, une pour les Européens, l’autre pour les Africains, c’était la panique, les gardes-frontières ukrainiens nous ont insultés et repoussés, ça a failli dégénérer », raconte le jeune homme par téléphone.Face à la multiplication de ce type de témoignages, l’Union africaine (UA) a publié lundi un communiqué en forme de mise en garde. Appliquer un « traitement différent inacceptable » aux Africains serait « choquant et raciste » et « violerait le droit international », ont souligné le chef de l’Etat sénégalais Macky Sall, président en exercice de l’institution, et le président de la Commission de l’UA, Moussa Faki Mahamat.« Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans favoritisme », avait déjà réclamé la veille Garba Shehu, un porte-parole de la présidence nigériane, rapportant qu’« un groupe d’étudiants nigérians qui se sont vus refuser à de multiples reprises l’entrée en Pologne ont fini par comprendre qu’ils n’avaient pas d’autre choix que de traverser de nouveau l’Ukraine pour essayer de sortir du pays via la Hongrie ». Avec quelque 4 000 ressortissants en Ukraine, les Nigérians constituent l’un des plus importants contingents d’étudiants africains dans le pays. Selon les dernières statistiques disponibles de l’Unesco, près de 13 000 étudiants originaires d’Afrique – y compris du Maghreb – étaient recensés en Ukraine en 2019.En Afrique du Sud également, les autorités ont haussé le ton. Le ministère des affaires étrangères affirme avoir reçu des témoignages et des vidéos montrant des Sud-Africains et plus généralement des Africains placés dans des files séparées des Ukrainiens et des Européens aux postes-frontières. « Ils ont été poussés, bousculés et parfois mis en joue pendant que les soldats ukrainiens leur disaient que la priorité était donnée aux femmes et aux enfants ukrainiens et européens », explique le porte-parole du ministère, Clayson Monyela.« Chaos » suscité par l’éclatement de la guerrePrésent sur place, l’ambassadeur sud-africain en Ukraine, Andre Groenewald, a contacté le ministère ukrainien des affaires étrangères pour s’insurger. « Si c’est ainsi que doivent être traités les Africains, nous nous en souviendrons après le conflit », dénonce M. Monyela qui ajoute que « la situation s’est légèrement améliorée »depuis les protestations sud-africaines.

      Ces accusations de racisme ont été rejetées notamment par l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska. « Tout le monde reçoit un traitement égal », a-t-elle déclaré à des médias locaux, affirmant que les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et que les restrictions liées au Covid-19 ont été levées.Des dispositions confirmées par l’ambassadeur du Sénégal pour la Pologne, l’Ukraine et la République tchèque, Papa Diop. Celui-ci rapporte que le ministère polonais des affaires étrangères a convié, le 15 février, un groupe d’ambassadeurs africains, en prévision du déclenchement des hostilités. « Lors de cette réunion de crise, les autorités polonaises nous ont informés qu’en cas de conflit, elles n’exigeraient pas de visa européen et de passe sanitaire aux ressortissants non européens », détaille-t-il.

      A l’en croire, les frictions des derniers jours sont le résultat d’une « mésentente entre les gardes-frontières polonais et ukrainiens » et du « chaos » suscité par l’éclatement de la guerre. « C’est dur pour tout le monde dans ce contexte. Notre groupe d’ambassadeurs africains a d’ailleurs écrit au ministère polonais des affaires étrangères pour demander si des instructions discriminatoires avaient été données. On nous a répondu que non et on nous a confirmé les dispositions prises lors de la réunion du 15 février », insiste-t-il.« Les femmes et les enfants d’abord »Du côté polonais, Le Monde a effectivement pu constater que des dizaines d’étudiants africains avaient réussi à traverser la frontière, malgré des complications pour ceux ne disposant pas d’un permis de résidence en Ukraine. Certains réfugiés ukrainiens se plaignent d’ailleurs que « les hommes étrangers comme les étudiants africains » veuillent à tout prix passer « alors que ce doit être les femmes et les enfants d’abord ».
      Alors que l’Ukraine a sonné la mobilisation générale, réquisitionnant tous les hommes de 18 à 60 ans, les Ukrainiens qui fuient vers les pays limitrophes sont essentiellement des femmes et des mineurs. « Mais les autorités ukrainiennes bloquent aussi les femmes africaines », déplore l’Ivoirien Gildas Bahi, chargé d’organiser le regroupement des étudiants de son pays en vue de leur évacuation.Cependant, tous les témoignages ne racontent pas la même histoire. Merouane, étudiant algérien en ingénierie informatique à Dnipro, s’est engagé avec trois autres Algériens et une Ukrainienne dans un périple de 900 kilomètres dès les premières heures de l’invasion russe. « Je n’ai observé aucune discrimination liée au passeport et c’est rare aux frontières », rapporte-t-il. Après vingt-quatre heures de route et plusieurs heures d’attente à la frontière, le groupe a été accueilli par une structure polonaise qui leur a offert « une chambre, de la nourriture et même un sac de vêtements de rechange pour ceux qui n’avaient rien pris », raconte-t-il, soulagé.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/03/01/guerre-en-ukraine-le-difficile-exode-des-etudiants-africains_6115635_3212.ht

    • Nigeria condemns treatment of Africans trying to flee Ukraine

      Government says citizens are being denied entry into Poland amid growing reports of discrimination

      The Nigerian government has condemned the treatment of thousands of its students and citizens fleeing the war in Ukraine, amid growing concerns that African students are facing discrimination by security officials and being denied entry into Poland.

      A deluge of reports and footage posted on social media in the past week has shown acts of discrimination and violence against African, Asian and Caribbean citizens – many of them studying in Ukraine – while fleeing Ukrainian cities and at some of the country’s border posts.

      They are among hundreds of thousands of people trying to escape the country as civilian casualties and destruction mount.

      More than half a million people have fled Ukraine since the Russian invasion began last week, according to the UN’s refugee agency, UNHCR.

      The Nigerian president, Muhammadu Buhari, said on Monday: “All who flee a conflict situation have the same right to safe passage under UN convention and the colour of their passport or their skin should make no difference,” citing reports that Ukrainian police had obstructed Nigerians.

      “From video evidence, first-hand reports, and from those in contact with ... Nigerian consular officials, there have been unfortunate reports of Ukrainian police and security personnel refusing to allow Nigerians to board buses and trains heading towards Ukraine-Poland border,” he said.

      “One group of Nigerian students having been repeatedly refused entry into Poland have concluded they have no choice but to travel again across Ukraine and attempt to exit the country via the border with Hungary.”

      Nigeria’s special adviser to the president on diaspora affairs, Abike Dabiri-Erewa, said: “Africans are being denied entry through the Ukrainian borders. The minister of foreign affairs, Geoffrey Onyeama, has taken this up with the Ukrainian ambassador. Our people who want to leave must be allowed to.”

      Amid chaotic and emotional scenes at Ukraine’s borders with Poland, as well as Romania and Belarus, where a number of African governments have advised citizens to head to, the treatment of African and Asian people has caused outrage.

      Many African students have condemned the difficulties they have faced trying to escape the conflict.

      Samuel George, a 22-year-old Nigerian software engineering student, drove from Kyiv, along with four of his friends, fellow students from Nigeria and South Africa, to the Polish border. Queues of cars full of people trying to leave spanned 31 miles (50km) to the border. Yet when some men who were in the queue noticed they were Africans, he said, they stopped their vehicle.

      “They immediately saw that the Ukrainians could pass but when they realised we weren’t Ukrainians they stopped it. They told us we couldn’t move forward and wouldn’t let us join the queue,” George said.

      When they tried to defy them, he said the men attacked and vandalised their windscreen. “They demanded $500 – we begged and negotiated to pay $100. We had to leave the car and trek. We were walking for almost five hours to the border with Poland. One of us was sick. The temperature was freezing, it was so tough.”

      At the border, Ukrainian officials “showed racist acts”, attempting to force them to the back of the queue, George said. “So many of us are still stuck there facing challenges. Some of them went to the borders but they were sent back and are still trying to leave.”

      Emily*, a 24-year-old medical student from Kenya, said she spent hours waiting for Ukrainian border guards to let her enter Poland because they were prioritising Ukrainian nationals.

      “We had to wait five hours but we were lucky: we met some people there who had spent days waiting in the foreign national queue,” she said.

      After eventually entering Poland, she boarded a free bus, organised by an NGO, to a hotel near Warsaw that was offering free board to Ukrainian refugees. However, the hotel refused to take her and her Kenyan friends in after examining their documents.

      “The staff said, ‘Sorry, we can’t admit you because this was meant only for Ukrainians,’” she said. The hotel also refused to give Emily a room after she offered to pay for one.

      Instead, Emily’s family in Kenya got in touch with a Polish acquaintance, who was able to find accommodation for Emily and other students with friends in Warsaw.

      In footage posted on social media, men identified by students as Ukrainians were seen abusing and assaulting them near borders, preventing them from leaving.

      In response to calls for information and advice for students worried about leaving Ukraine, several support groups have been set up on WhatsApp, Telegram and Facebook by people advocating for more assistance and by students who have been trying to leave.

      Government officials from Ukraine and Poland have said all refugees are welcome, adding that border officials were working through hundreds of thousands of cases.

      Yet even after passing into Poland, many have reported continuing challenges. Both George and Emily were given entry into Poland for just 15 days.

      In the weeks leading up to the war it was clear that increased support was needed but the government did not act, George said, condemning what he described as a lack of quick and concise assistance from Nigerian authorities.

      Days after Ukraine closed its airspace to civilian flights, Nigerian lawmakers and ministers attempted to organise evacuation flights before changing plans.

      One student said they tried to contact the consulate but failed to reach an official.

      “I don’t see how in a situation like this, where the citizens are in a country where there is war, that a country won’t do everything to rescue their citizens, but that is where we are,” they said.

      “The whole situation is tragic, the war is so tragic. So many men were staying behind to fight with the army. I was seeing so many greeting their wives and families farewell. It felt like the world was coming to an end.”

      https://www.theguardian.com/world/2022/feb/28/nigeria-condemns-treatment-africans-trying-to-flee-ukraine-government-p

    • La acogida a desplazados ucranios contrasta con denuncias de discriminación a otros migrantes

      Las cifras récord de acogida de desplazados de los países fronterizos con Ucrania coinciden con las denuncias de ciudadanos de África, Medio Oriente y Asia sobre discriminación a la hora de abandonar el país. La Unión Africana lo califica de «racista», mientras que periodistas internacionales han sido señalados en redes por hacer distinciones entre los refugiados de Ucrania y los de otras guerras anteriores.

      Este martes 1 de marzo, el máximo responsable para los refugiados de las Naciones Unidas, Filippo Grandi, reportaba la salida de 677.000 personas desde Ucrania hacia los países vecinos.

      Mientras que Karolina Lindholm Billing, la responsable de Acnur para Ucrania, cifró en un millón el número de desplazados internos. De la frontera del Donbass, epicentro de la guerra, se estiman 116.000 desplazados ucranianos al lado ruso.

      Son cifras récord, producidas en menos de una semana de conflicto. Lo que supone un reto humanitario mayúsculo, tanto para los países fronterizos, como para las potencias europeas a las que muchos ucranianos quieren llegar.

      Los primeros gestos de los países colindantes con Ucrania han respondido a los llamados históricos de las agencias internacionales para refugiados. Además de suspender sus cuarentenas anticovid, los países fronterizos (Polonia, Hungría, Rumanía, Moldavia y Eslovaquia) han abierto sus puertas para todos aquellos que acrediten su procedencia de Ucrania.

      E incluso más: Polonia ha elaborado programas de alojamiento para los recién llegados en viviendas particulares, mientras que Eslovaquia ofrece transporte gratuito y la posibilidad de trabajar en el país. Este martes también se supo que la Unión Europea está debatiendo garantizar a los refugiados ucranianos el estatuto de protección temporal, permitiéndoles vivir y trabajar hasta 3 años en algunos de los 27 Estados miembros.

      Acciones aplaudidas por el propio Filippo Grandi en un comunicado en el portal de ACNUR: «Polacos, húngaros, moldavos, rumanos, eslovacos y ciudadanos comunes de otros países europeos han llevado a cabo actos extraordinarios de humanidad y bondad. Este es el instinto humanitario que tanto se necesita en tiempos de crisis».

      Sin embargo, paralelamente al recibimiento, también crecen las denuncias de que la acogida y el refugio está contando con privilegios. Entre los primeros denunciantes, la investigadora sobre migración y asilo en Grecia, Lena Karamanidou, que había avisado después del inicio del conflicto.

      “No hay forma de evitar las preguntas sobre el racismo profundamente arraigado en las políticas migratorias europeas cuando vemos cuán diferentes son las reacciones de los gobiernos nacionales y las élites de la UE ante las personas que intentan llegar a Europa”.

      But there is no way to avoid questions around the deeply embedded racism of European migration policies, when we see how different the reactions of national governments and EU elites are to the people trying to reach Europe. This can’t just be brushed under the carpet.
      — Lena K. (@lk2015r) February 25, 2022

      La Unión Africana califica de «racista» el trato diferencial a africanos

      En los últimos días, periodistas han estado denunciado las dificultades de escapar de Ucrania para ciudadanos africanos, de Medio Oriente y asiáticos.

      Otros reporteros argumentaron que se tratan de las dos colas habituales administrativas: la de ciudadanos ucranianos y la de extranjeros. Sin embargo, las denuncias hacen énfasis que la de los locales avanza a una mayor velocidad que la de los foráneos.

      Ucrania tiene 470.000 ciudadanos extranjeros, que la Organización Internacional para las Migraciones (OIM) está tratando de atender. A diferencia de los ucranianos, muchos no europeos necesitan visas para ingresar a los países vecinos.

      En Internet, se ha viralizado el hashtag #AfricansinUkraine, donde estudiantes racializados mostraban la imposibilidad de abordar trenes para salir del país. Así lo recogieron los corresponsales de France 24 en la ciudad fronteriza de Leópolis.

      “Nos pararon en la frontera y nos dijeron que los negros no estaban permitidos. Pero pudimos ver gente blanca pasando”, dijo Moustapha Bagui Sylla, un estudiante de Guinea. Añadió que había huido de su residencia universitaria en Járkov, la segunda ciudad más grande de Ucrania, tan pronto como comenzó el bombardeo.

      “No dejan entrar a los africanos. Los negros sin pasaporte europeo no pueden cruzar la frontera (...). ¡Nos están haciendo retroceder solo porque somos negros!”. dijo otro estudiante nigeriano, quien solo dio su primer nombre, Michael. “Todos somos humanos”, agregó. “No deberían discriminarnos por el color de nuestra piel”, afirmó.

      Estas denuncias han provocado el enfado de la Unión Africana. El lunes, en un comunicado, el actual presidente, Macky Sall, y el presidente de la Comisión de la Unión Africana, Moussa Faki Mahamat, se hicieron eco y realizaron un llamado internacional.

      «Los informes de que los africanos reciben un trato diferente inaceptable serían escandalosamente racistas y violarían el derecho internacional. En este sentido, los presidentes instan a todos los países a respetar el derecho internacional y mostrar la misma empatía y apoyo a todas las personas que huyen de la guerra, independientemente de su identidad racial».

      Sobre esta discriminación también habló para la agencia estadounidense Associated Press, Jeff Crisp, exjefe de política, desarrollo y evaluación de ACNUR: “Los países que habían sido realmente negativos en el tema de los refugiados y que han hecho que sea muy difícil para la UE desarrollar una política de refugiados coherente durante la última década, de repente presentan una respuesta mucho más positiva”, cuestión que achaca a las similitudes culturales y raciales: "no es completamente antinatural que las personas se sientan más cómodas con personas que vienen de cerca, que hablan un idioma (similar) o tienen una cultura (similar)”.

      Los Gobiernos «ultra» europeos han cambiado el tono

      Países de Europa del Este y Centroeuropa han sido de los más duros a la hora de hablar y legislar sobre migración en los últimos años. De hecho, el primer ministro búlgaro, Kiril Petkov, hizo referencia al cambio de criterio de los últimos días: «estos no son los refugiados a los que estamos acostumbrados, estas personas son europeas (...) son inteligentes, educadas».

      Associated Press también recogía el cambio de tono del ultraderechista primer ministro húngaro, Viktor Orban, quien pasó en diciembre de decir «no vamos a dejar entrar a nadie», a asegurar esta semana que «dejaremos entrar a todos», en referencia a los ucranianos.

      Otro ejemplo clarificador fue el de 2021, cuando miles de migrantes se acercaron a la frontera entre Belarús y Polonia, con el objetivo de acceder a países de la Unión Europea, y en plena crisis entre el organismo y el Gobierno de Alexander Lukashenko. Polonia cerró completamente sus fronteras y como consecuencia, 15 personas murieron por el frío.

      Sin embargo, el lunes, el embajador de Polonia en la ONU, Krzysztof Szczerski, dijo que no estaban discriminando a nadie en esa crisis y que 125 nacionalidades habían sido admitidas en el país.

      Algunos periodistas distinguen entre refugiados ucranianos y de otras partes

      Pero además de las acciones, también se están señalando como racistas discursos de algunos medios de comunicación internacionales, en los que se han encontrado distinciones entre guerras de primera y de segunda, según el color de piel o la cercanía cultural.

      [Thread] The most racist Ukraine coverage on TV News.

      1. The BBC - “It’s very emotional for me because I see European people with blue eyes and blonde hair being killed” - Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor, David Sakvarelidze pic.twitter.com/m0LB0m00Wg
      — Alan MacLeod (@AlanRMacLeod) February 27, 2022

      El corresponsal del medio CBS News, Charlie D’Agata, dijo que «esto no es Irak o Afganistán, esto es en una ciudad relativamente civilizada y europea».

      En el medio catarí Al-Jazeera, otro periodista afirmó que no son refugiados tratando de escapar de Medio Oriente o el Norte de África «son como cualquier familia europea que vive a tu lado».

      También en Francia, en el medio privado BFM TV, un tertuliano dijo que lo que está sucediendo es como si estuviéramos «en Irak o Afganistán», mientras que una reportera de la cadena británica ITV dijo que «esto no es una nación del tercer mundo, esto es Europa».

      https://www.france24.com/es/europa/20220301-refugiados-ucrania-guerra-racismo-europa?ref=wa

    • Ucraina, africani invisibili in tempo guerra

      A Kiev è stato impedito agli studenti africani di prendere i treni diretti alla frontiera con la Polonia. E quelli che vi sono giunti sono stati respinti dalle guardie polacche. L’Unione africana ha protestato contro questo «trattamento differenziato». Ma anche l’Europa, che accoglie gli ucraini, non usa lo stesso criterio con chi fugge dalle guerre africane

      Mentre tutta l’Europa, Italia compresa, si mobilita per soccorrere e accogliere quanti dall’Ucraina fuggono per salvarsi dai bombardamenti russi, nel silenzio quasi generale dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, sta consumandosi la tragedia nella tragedia dei respingimenti di migliaia di africani, giovani studenti soprattutto, residenti in Ucraina. Costoro cercano di fuggire di fronte all’assedio russo, ma si ritrovano intrappolati in quanto respinti, in particolare alla frontiera polacca.

      Secondo diverse testimonianze, a Kiev le forze di sicurezza ucraine avrebbero impedito a degli studenti africani di salire sui treni e sui bus diretti alla frontiera polacca: ciò per dare priorità agli ucraini. E altri africani, giunti alla stessa frontiera, sarebbero stati respinti dalle guardie di confine per le stesse ragioni.

      Le immagini, a migliaia, veicolate dai social, di cittadini africani bloccati alla frontiera tra Ucraina e Polonia e che subiscono trattamenti differenziati se non abusi (il personale di frontiera che dice: «Non ci occupiamo degli africani»), non potevano non suscitare l’indignazione e la condanna dell’intero continente africano.

      A gran voce, l’Unione africana (Ua) è scesa in campo per denunciare il razzismo antiafricano, a suo parere evidente nelle operazioni di rimpatrio dei propri concittadini, in maggioranza studenti. Alcuni di loro hanno dichiarato: «Siamo stati cacciati indietro, siamo stati colpiti dai poliziotti armati di bastone quando abbiamo tentato di fare pressione e spingere in avanti».

      L’Ua si è detta «particolarmente preoccupata» da quanto sta accadendo. Il presidente senegalese Macky Sall, presidente in esercizio dell’Ua, e il presidente della Commissione, Moussa Faki Mahamat, ricordano che «ogni persona ha il diritto di attraversare le frontiere internazionali durante un conflitto (…) qualunque sia la sua nazionalità o la sua identità razziale». Applicare un «trattamento differente» per gli africani sarebbe «inaccettabile, scioccante e razzista» e «violerebbe il diritto internazionale».

      Denuncia

      L’evacuazione dei cittadini africani si rivela più complessa di quanto non possa apparire, anche perché soltanto una decina di paesi hanno una rappresentanza diplomatica, ambasciata o consolato, in Ucraina.

      Nel cercare, comunque, di portare soccorso ai propri cittadini, le reazioni dei paesi africani sono state a dir poco “vivaci”. Un solo esempio, la Nigeria. Da subito ha esortato le autorità di frontiera con l’Ucraina e dei paesi vicini a trattare «con dignità» i suoi concittadini.

      «Informazioni spiacevoli» indicano che «la polizia ucraina e il personale di sicurezza rifiutano di permettere ai nigeriani di salire sui bus e i treni verso la Polonia», ha dichiarato il portavoce della presidenza nigeriana, Garba Shehu. «Un video molto diffuso sui social mostra una madre nigeriana con il suo bimbo in treno fisicamente forzata a cedere il proprio posto», ha proseguito, aggiungendo che secondo altre informazioni, funzionari polacchi hanno rifiutato l’entrata in Polonia a dei nigeriani provenienti dall’Ucraina.

      Ha ricordato infine che «tutti coloro che fuggono da un conflitto hanno lo stesso diritto a passare in tutta sicurezza in virtù della Convenzione dell’Onu, e il colore del loro passaporto o della loro pelle non dovrebbe fare alcuna differenza». Una denuncia per maltrattamenti e abusi è venuta anche dall’ambasciatore sudafricano e altri che si sono recati personalmente alla frontiera per aiutare gruppi di propri concittadini a entrare in Polonia o a rimpatriare.

      Queste accuse di “razzismo” sono naturalmente respinte dalle autorità polacche così come dalle guardie di frontiera che assicurano di garantire a tutti il passaggio. Le difficoltà sarebbero legate all’enorme afflusso di profughi che crea lunghe file di attesa il cui controllo, anche sanitario, legato alla pandemia di coronavirus, richiede tempi lunghi, anche giorni.

      L’ambasciatrice polacca ad Abuja (Nigeria) ha dichiarato da parte sua che «tutti ricevono lo stesso trattamento», confermando che dei cittadini nigeriani avevano già raggiunto la Polonia. Che a loro volta però hanno riaffermato che «i funzionari alla frontiera davano la priorità alle donne e ai bambini ucraini».

      Secondo cifre ufficiali ucraine, più di 76mila sarebbero gli studenti stranieri presenti in Ucraina, di cui il 20% africani. Le università ucraine, in particolare le facoltà di medicina e ingegneria, sono particolarmente ricercate dagli studenti originari del mondo arabo. I marocchini con gli egiziani formano il gruppo arabo più numeroso.

      Migliaia sono anche i giovani subsahariani partiti per l’Ucraina, attirati dalla qualità degli studi e dalle tasse scolastiche relativamente basse. Importanti i gruppi di studenti e studentesse di paesi come la Nigeria, il Ghana, il Kenya, il Sudafrica, l’Etiopia o la Somalia.

      Amnesty International, quella belga in particolare, è scesa in campo per richiamare i paesi europei al loro dovere di «accogliere chiunque, indipendentemente da ogni criterio, razziale o altro. Ogni paese deve accogliere tutti i rifugiati e garantire una accoglienza degna».

      Razzismo «endemico» in Europa?

      Anche i militanti antirazzisti in Europa si sono fatti sentire per denunciare che in Europa, in tempo di crisi, il razzismo endemico risolleva la testa. Lo si era già visto con il trattamento riservato ai rifugiati siriani alle porte della Polonia, alcuni anni fa. Non andrebbe mai dimenticato che in Europa ci sono comunque cittadini provenienti dal mondo intero, eredità di un passato coloniale. Non mancano in Europa gli afrodiscendenti che in questi giorni si stanno chiedendo: «Se mai un giorno dovessimo fuggire, i bianchi avrebbero un trattamento speciale?».

      Siamo tutti felici della rapidità con cui i paesi europei si sono impegnati ad accogliere gli ucraini in fuga. I paesi occidentali mostrano solidarietà con i rifugiati ucraini perché la nostra cultura sarebbe tanto simile alla loro. Il che però non toglie lo stupore di quanti, africani in primis, hanno dovuto ricorrere addirittura allo sciopero della fame per ottenere i documenti dopo essere fuggiti da situazioni di guerra.

      Doveroso riconoscere che in parallelo alle testimonianze sulle difficoltà a lasciare l’Ucraina, si sta organizzando sui social una forma di solidarietà con decine di persone che propongono il proprio aiuto concreto per il passaggio della frontiera o per offrire un alloggio.

      https://www.nigrizia.it/notizia/ucraina-africani-invisibili-in-tempo-guerra

    • Les résidents étrangers non européens, grands oubliés de l’exode hors d’Ukraine

      Les 280 000 personnes entrées en Pologne depuis la guerre en Ukraine le 24 février sont majoritairement ukrainiennes. Les autres, qu’elles viennent d’Afrique ou d’Asie, se plaignent de ne pas être logées exactement à la même enseigne.

      Pouja, George, Vikram et six de leurs amis attendent sur le bord de la route à Medyka, en Pologne. Ce groupe de ressortissants indiens dans la vingtaine ont franchi la frontière polonaise depuis l’Ukraine au matin par le passage frontalier le plus emprunté pour quitter l’Ukraine.

      Mais, à la nuit tombante, ces neuf amis n’avaient toujours pas réussi à quitter le rond-point où ils grelottaient à une dizaine de kilomètres de la ville de Przemyśl. « Cela fait plus de six heures qu’on attend ici. Il n’y a jamais de places dans les bus. Ils laissent d’abord passer les femmes et les enfants ukrainiens et les rares bus se remplissent mais sans nous », se lamente Pouja, qui est pourtant une femme mais qui ne veut pas se séparer de ses compagnons d’aventure, tous de jeunes hommes.

      Une couverture sur les épaules, Gurwinder tente de justifier : « C’est un problème de management : les Polonais font ce qu’ils peuvent, mais ils n’ont que deux ou trois bus. Or, il y a vraiment beaucoup de gens qui fuient l’Ukraine : c’est sûr qu’ils devraient augmenter la cadence. »

      Gurwinder a bien vu un bus supplémentaire affrété par l’ambassade d’Inde à Medyka, mais renseignement pris, « il ne concerne que les gens qui utilisent le centre d’accueil réservé aux ressortissants indiens. Tout ça pour remplir les statistiques de l’ambassade… », déplore cet homme de 27 ans.

      Il souhaite se rendre à Varsovie par ses propres moyens, où un temple sikh lui offrira l’hospitalité à lui et ses amis, le temps que la situation se calme en Ukraine, espère-t-il. « D’abord, comme tout le monde, nous avons dû faire 40 kilomètres à pied de l’ouest de Lviv à Medyka. Ensuite, les Ukrainiens nous ont fait patienter des heures dehors avant de passer à l’immigration. À chaque fois, ils disaient : d’abord les femmes et les enfants. Pendant ce temps, il n’y avait ni ambulance, ni nourriture, ni eau… En deux ans et demi en Ukraine, je n’avais jamais été aussi mal traité », témoigne Gurwinder, déçu.

      « J’ai vu des Nigérians se faire battre par les militaires ukrainiens car ils avaient escaladé un mur. Quant à moi, je me suis fait traiter de Poutine. Est-ce parce que je ne suis pas resté défendre l’Ukraine ? », s’interroge Gurwinder, qui était chauffeur pour Bolt – application de taxi – en Ukraine, à Kiev, et qui a dû laisser sa voiture à Lviv (ouest de l’Ukraine) sur le bord de la route alors qu’un embouteillage monstre obstruait celle-ci, qui menait au passage frontalier de Medyka – Shehyni.

      Lundi 28 février, ils étaient des dizaines d’étudiant·es ou de jeunes travailleurs et travailleuses issues de divers pays d’Afrique, du sous-continent indien, du Moyen-Orient ou encore d’Afrique du Nord à attendre désespérément par des températures négatives un bus qui n’était toujours pas venu la nuit tombée.

      À vrai dire, à Medyka, on ne trouvait plus beaucoup d’Ukrainiennes et d’Ukrainiens, alors encore majoritaires il y a deux jours à franchir la frontière à pied à la même heure. De quoi alimenter des soupçons de discrimination voire de racisme, relayés par les réseaux sociaux.

      « Ce que l’on a entendu de la part de ressortissants palestiniens, c’est que les autorités ukrainiennes ne les ont pas bien traités à la frontière. Alors que côté polonais, les procédures ont lieu rapidement et sans encombre, témoigne un Palestinien venu en voiture chercher plusieurs de ses compatriotes. Il existe une ligne de soutien pour les Palestiniens coincés en Ukraine sur la base de laquelle une liste de personnes s’apprêtant à franchir la frontière a été établie. »

      Toutes les personnes étrangères non européennes fuyant l’Ukraine n’ont pas pu bénéficier de services consulaires de la sorte, ne pouvant pas non plus compter sur l’aide de la famille ou d’ami·es, dont les Ukrainiennes et les Ukrainiens sont nombreux à bénéficier en Pologne ou ailleurs en Europe. C’est le cas de Christabel Elenya, une Nigériane de 19 ans, qui n’avait jamais mis les pieds en Pologne auparavant et ne sait pas s’il y aura une place dans un avion pour la rapatrier, si tel était son choix.

      Arrivée fin janvier à Kiev pour y suivre des cours d’aéronautique en anglais, elle a dû quitter la ville deux mois plus tard, au début de la guerre, pour se réfugier à Lviv. Puis en Pologne. Elle confirme que l’attente était plus longue au passage frontalier côté ukrainien pour les personnes étrangères non européennes. « J’ai fini par me prétendre enceinte car je n’en pouvais plus d’attendre », sourit la jeune fille assise sur son lit de fortune installé dans la salle de sport d’une école de Przemyśl.
      Pas de billets gratuits

      « Ce n’était facile pour personne au poste frontière. Les tensions ont monté, j’ai vu des hommes étrangers qui étaient à deux doigts de se battre. Cela dit, je comprends que les Ukrainiens soient débordés… », avance l’étudiante, qui assure avoir trouvé toute l’aide dont elle pouvait rêver en Pologne, y compris un logement chez un particulier, qu’elle a refusé de peur de déranger. « Je n’aurais jamais cru que des gens pouvaient être aussi gentils », finit-elle par conclure à l’adresse des Polonais.

      De son côté, Ivonna, une Ukrainienne de 42 ans passée par le poste-frontière de Medyka, et elle aussi hébergée sous un panier de basket dans l’école de Przemyśl, s’est dite choquée par le « comportement de certains étrangers, qui étaient agressifs et se comportaient de manière inadéquate ».

      En gare de Przemyśl, un contrôleur polonais interrogé sur la mesure mise en place par les chemins de fer polonais pour garantir des tickets gratuits afin de se déplacer dans le pays précise qu’ils sont réservés aux détenteurs et détentrices de passeports ukrainiens : « La logique est la suivante : la guerre est en Ukraine, pas dans leur pays. Ils doivent donc payer s’ils veulent un ticket », explique-t-il.

      En réalité, il est rare que ces tickets soient vérifiés à bord, et les bénévoles déployé·es en gare annoncent souvent des trains gratuits pour tout le monde. Il n’empêche, personne ne semble encore savoir ce qu’il en sera des ressortissant·es non européen·nes sur le sol polonais, une fois les quinze jours de séjour tolérés expirés. Les Ukrainiennes et les Ukrainiens ont droit pour le moment à 90 jours de séjour, et l’UE réfléchit à leur octroyer un statut de protection spéciale valable jusqu’à trois ans.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010322/les-residents-etrangers-non-europeens-grands-oublies-de-l-exode-hors-d-ukr

    • « On nous disait “Pas les Noirs” » : le tri racial dans la fuite de l’Ukraine

      Ivoiriens, Indiens, Camerounais, Marocains... De nombreux ressortissants étrangers qui résidaient en Ukraine tentent également de rejoindre la Pologne, loin des combats. Une traversée périlleuse, rythmée par des comportements racistes de certains soldats ukrainiens.

      Lundi 28 février, sous de légers flocons de neige, Stephan cherche un bus pour se rendre dans la ville la plus proche. Il traîne ses valises d’un pas chancelant, suivi de près par ses quatre amis camerounais. Ensemble, ils viennent tout juste de traverser la frontière polonaise depuis l’Ukraine, près de Medyka, après deux jours d’un interminable voyage depuis Kiev. « C’est l’expérience la plus horrible que j’ai vécue dans ma vie », soupire-t-il.

      De ce périple pourtant, Stephan ne retient ni la peur des bombardements, ni la vie qu’il a laissée derrière lui. Il retient uniquement les coups de crosses de Kalachnikov, les insultes et les menaces lancées par les soldats ukrainiens et les garde-frontières tout au long de sa fuite. Des violences racistes que rapportent également de nombreux ressortissants et étudiants africains, pakistanais, indiens ou encore népalais, qui seraient constamment relégués de façon inhumaine derrière les exilés ukrainiens pour quitter le pays au plus vite.

      « Tu es obligé de payer pour que ça s’arrête »

      Depuis le début de l’invasion russe, des vidéos circulent sur les réseaux sociaux. On y voit des soldats ukrainiens repousser à l’arrière des files les personnes de couleur, pourtant résidentes légales en Ukraine, pour faire passer en priorité les personnes blanches. Les témoignages affluent également : ceux d’Africains débarqués d’un bus en route pour la frontière, d’armes braquées sur un groupe d’Indiens ou encore d’insultes racistes répétées.

      « Ils faisaient passer les femmes et les enfants d’abord, ce qui est normal », raconte Stephan, qui travaillait en tant qu’ingénieur des ponts et chaussées en Ukraine. Parti de Kiev à 6h du matin le samedi, l’homme espérait attraper un premier train avec ses amis, avant de vite déchanter sur les quais de la gare. « Sur le côté, il y avait plein de femmes africaines avec leurs enfants que personne ne faisait passer devant, contrairement aux Ukrainiennes. D’un coup, les policiers nous ont repoussés. Il y en a un qui m’a frappé avec un fusil », ajoute le Camerounais en montrant le bas de son dos. Il ne le savait pas encore, mais ce type de scène ne sera qu’une infime partie du traitement que lui réserveront certains soldats ukrainiens jusqu’à son arrivée en Pologne.

      Bloqués par des kilomètres de bouchons d’exilés fuyant la guerre depuis l’invasion de la Russie le 24 février, le groupe de Camerounais est contraint de marcher sur plus de 12 kilomètres, comme tout le monde. Rapidement, un premier check point. « Là, la situation s’est empirée pour les étrangers. On a dû former un corridor, bloqué par les armes des soldats, comme du bétail. “Je vais tirer”, ils disaient, en mettant des coups de crosses ! », explique Stephan. Juste à côté d’eux, les femmes et les enfants ukrainiens défilaient sans difficulté. « On a passé presque deux jours au premier check point, debout, sans manger, sans eau, sans douche et dans le froid. »

      Poussé à bout, le groupe de Camerounais a finalement compris comment s’en tirer : en payant les soldats les plus agressifs. « Ils ne te demandent pas de l’argent frontalement, mais ils te mettent dans des conditions telles que tu es obligé de payer pour que ça s’arrête. » Le groupe déboursera finalement 1.000 hryvnia (environ 30 euros) une première fois, puis 100 dollars au deuxième check point. « À un moment, je me suis demandé si j’étais un être humain », se questionne d’une voix basse le Camerounais.
      « Ils donnaient de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous »

      Il n’y a pas besoin de chercher bien loin pour trouver des témoignages similaires. À quelques mètres de Stephan, un groupe de cinq Népalais raconte leur voyage en enfer. « C’est simple, il y a d’un côté la file des Ukrainiens, de l’autre celle des étrangers. D’un côté on les laisse tranquilles, de l’autre on les traite comme des animaux », s’exclame Padma, une jeune Népalaise qui étudiait la médecine en Ukraine. Comme elle, des dizaines de milliers d’étudiants étrangers résidaient dans le pays d’Europe de l’Est, venant principalement du Maroc, d’Égypte, d’Inde ou encore de plusieurs pays d’Afrique subsaharienne. Beaucoup d’entre eux font désormais partie des 280.000 exilés qui ont déjà rejoint la Pologne depuis le début du conflit.

      La Népalaise n’arrive pas à se calmer. Ses amies ont loupé quatre fois le train, « parce qu’ils ne mettaient que les Ukrainiens dedans », affirme-t-elle, tout en rassemblant ses affaires près de tentes blanches installées à Medyka, l’un des postes de frontière les plus empruntés par les réfugiés. Au total, ils attendront 24 heures pour enfin grimper dans un wagon.

      « On était comme des singes », ajoute la jeune femme, en expliquant s’être retrouvée bloquée à quelques kilomètres de la Pologne, après son voyage en train. « Il donnait de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous. » Un de ses amis l’interrompt en criant : « On leur a même proposé de l’argent ! Mais ils disaient qu’il n’y avait plus rien. » Après 36 heures sans manger, le groupe a finalement été accueilli par la police polonaise, avec de l’eau et à manger. « Eux ils nous ont bien traités », ajoute Padma. « Rien que leur façon de nous parler n’avait rien à voir », renchérit Milan, un autre Népalais. Mais même côté polonais pourtant, certains commencent à dénoncer un accueil bien plus froid à leur égard, comparé à celui réservé à leurs homologues ukrainiens.

      Le tri des réfugiés en fonction de leur origine commence à faire du bruit sur les réseaux sociaux, où les hashtag #AfricansInUkraine ou encore #IndiansInUkraine ont fait leur apparition à côté des vidéos montrant ces discriminations. Une sorte de cri d’alarme en ligne visant à alerter sur le sort des milliers de ressortissants de pays d’Afrique et autres qui sont encore bloqués aux frontières ukrainiennes, empêchés de quitter le pays. Pourtant, filmer ce type de vidéo ne serait pas sans danger.

      « Si tu sors ton téléphone pour filmer, ils [les soldats ukrainiens] deviennent comme des fous, ils te menacent pour que tu ne montres pas ce qui se passe. On voulait filmer, montrer quand on nous disait : “pas les Noirs” », explique Blaise*, un étudiant ivoirien qui a laissé derrière lui six ans de vie en Ukraine. L’homme peine à marcher. « Regardez notre démarche ! On vient de passer des jours debout, en ligne, sans pouvoir s’allonger. Tandis que les Ukrainiens étaient mieux traités », glisse quelques mètres plus loin Rohit, un ressortissant indien qui se réchauffe près d’un feu improvisé.

      Double peine

      Sous une bâche installée par des Polonais venus prêter main-forte à tous les exilés, Yren, une Congolaise, temporise. « Pour les femmes étrangères, c’était déjà un peu mieux que pour les hommes. » De l’autre côté de la frontière, des milliers d’Ukrainiens sont également bloqués dans le froid pendant des heures, et les douaniers veillent toujours à empêcher les hommes de 18 à 60 ans de sortir du pays. Tout le monde ici a vu des familles ukrainiennes obligées de se séparer, ou même rebrousser chemin, avec femmes et enfants, pour ne pas se diviser.

      La jeune femme emmitouflée dans une couverture boit une gorgée de soupe chaude, et ajoute : « On nous laissait un peu plus tranquilles les femmes, et moi on ne m’a pas frappée. Mais il y avait quand même des animaux domestiques qui passaient devant nous. »

      Pour les personnes racisées, fuir l’Ukraine de la sorte est comme une double peine. « À Kiev, j’étais terrifié. La situation était horrible, avec les tirs, les couvre-feux... Tous les comptes des étrangers ont été bloqués, ma carte ne marchait plus. Tout s’est écroulé », explique Joseph* originaire d’Afrique subsaharienne. Un traumatisme qui n’arrivera finalement pas seul. « Sur la route, la police m’a tapé avec une crosse de fusil pour essayer de garder la ligne. Ils ont terrorisé les gens, tout le monde tombe malade de l’autre côté. Honnêtement, j’ai cru que je n’y arriverais jamais. »

      Les discriminations envers ces exilés posent aussi question pour l’avenir. Quel accueil les pays européens réserveront-ils aux réfugiés non ukrainiens –et même ukrainiens– qui ont fui ce conflit meurtrier ? Une question d’autant plus importante au vu du nombre de déplacés potentiels, qui pourrait atteindre les 7 millions, selon l’ONU. Avec cet exode massif et les crises humanitaires qu’elles induisent, il y a un risque que la distinction entre les exilés se poursuive en Europe, prolongeant l’expérience traumatisante des réfugiés.

      De son côté, Stephan et ses amis camerounais ne savent pas encore de quoi seront faits les jours qui se profilent. « Pour l’instant, on doit trouver un bus pour partir loin de la frontière », explique-t-il en regardant devant et derrière lui, en espérant apercevoir l’un des véhicules en partance pour Przemyśl. « Je veux juste m’allonger, et me reposer. Je n’en peux plus. » Se reposer avant de reprendre la route, dans un voyage qui est encore loin d’être terminé.

      *Les prénoms ont été changés.

      http://www.slate.fr/story/224214/reportage-guerre-ukraine-russie-profilage-racial-noirs-frontiere-racisme-solda

    • Guerre en Ukraine : à la frontière polonaise, « les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons », racontent des étudiants étrangers

      De nombreux étudiants africains ou asiatiques qui vivaient en Ukraine tentent de passer en Pologne depuis le début de l’offensive russe. Certains se plaignent d’un traitement raciste de la part des garde-frontières ukrainiens.

      Couverture sur le dos, Gurwinder peine encore à réaliser qu’il est enfin arrivé en Pologne. « J’ai essayé de passer à plusieurs reprises », raconte cet étudiant indien, chauffeur de VTC à Kiev (Ukraine). Il a marché 30 kilomètres pour rejoindre la frontière, où il a dû attendre trois jours au poste-frontière ukrainien pour traverser. « À chaque fois, les gardes ukrainiens m’ont dit : ’Non, ce sont d’abord les femmes et les enfants qui passeront. Vous, les Indiens, vous ne passerez pas’, raconte Gurwinder. Nous avons essayé pendant trois jours, sans dormir, sans manger car si vous dormez, vous perdez votre place. »

      Comme lui, plus de 500 000 personnes ont rejoint la Pologne depuis le lancement de l’offensive russe en Ukraine, le 24 février. L’exode est notamment très difficile pour les 78 000 étudiants étrangers qui vivaient comme lui en Ukraine, dont beaucoup sont originaires d’Afrique et d’Asie. Plusieurs d’entre eux ont en effet dénoncé des discriminations du côté ukrainien de la frontière.
      Frappés et laissés dans le froid

      Si les étrangers interrogés n’ont pas tous eu de problèmes à traverser la frontière en raison de leur nationalité, plusieurs récits ont émergé de la part d’étudiants bloqués du côté ukrainien de la frontière. L’Union africaine a même dénoncé un traitement « inacceptable » et « raciste » pour les Africains. Certaines ambassades, comme celle de Côte-d’Ivoire, d’Afrique du Sud ou du Nigéria, ont envoyé des représentants sur place.

      « Quand on est arrivés, ils ont fait passer avant nous les Ukrainiens avec des documents de résidence. Quand on a essayé de se plaindre, les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons. J’ai été frappé plusieurs fois », témoigne pour sa part Clinton, un Ougandais de 24 ans. Il est arrivé dès le 24 février au poste frontière mais n’a pu rejoindre la Pologne que le 3 mars. « Ils nous o