• La Tunisia rifiuta i respingimenti collettivi e le deportazioni di migranti irregolari proposti da #Meloni e #Piantedosi

    1.Il risultato del vertice di Tunisi era già chiaro prima che Giorgia Meloni, la presidente della Commissione europea Von del Leyen ed il premier olandese Mark Rutte incontrassero il presidente Saied. Con una operazione di immagine inaspettata, il giorno prima del vertice, l’uomo che aveva lanciato mesi fa la caccia ai migranti subsahariani presenti nel suo paese, parlando addirittura del rischio di sostituzione etnica, si recava a Sfax, nella regione dalla quale si verifica la maggior parte delle partenze verso l’Italia, e come riferisce Il Tempo, parlando proprio con un gruppo di loro, dichiarava : “ Siamo tutti africani. Questi migranti sono nostri fratelli e li rispettiamo, ma la situazione in Tunisia non è normale e dobbiamo porre fine a questo problema. Rifiutiamo qualsiasi trattamento disumano di questi migranti che sono vittime di un ordine mondiale che li considera come ‘numeri’ e non come esseri umani. L’intervento su questo fenomeno deve essere umanitario e collettivo, nel quadro della legge”. Lo stesso Saied, secondo quanto riportato dalla Reuters, il giorno precedente la visita, aggiungeva che di fronte alla crescente mobilità migratoria “La soluzione non sarà a spese della Tunisia… non possiamo essere una guardia per i loro paesi”.

    Alla fine del vertice non c’è stata una vera e propria conferenza stampa congiunta, ma è stata fatta trapelare una Dichiarazione sottoscritta anche da Saied che stabilisce una sorta di roadmap verso un futuro Memorandum d’intesa (MoU) tra la Tunisia e l’Unione europea, che si dovrebbe stipulare entro il prossimo Consiglio europeo dei capi di governo che si terrà a fine giugno. L’Ue e la Tunisia hanno dato incarico, rispettivamente, al commissario europeo per l’Allargamento Oliver Varheliy e al ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar di stilare un memorandum d’intesa (Memorandum of Understanding, MoU) sul pacchetto di partnership allargata, che dovrebbe essere sottoscritto dalla Tunisia e dall’Ue “prima di fine giugno”. Una soluzione che sa tanto di rinvio, nella quale certamente non si trovano le richieste che il governo Meloni aveva cercato di fare passare, già attraverso il Consiglio dei ministri dell’Unione europea di Lussemburgo, restando poi costretto ad accettare una soluzione di compromesso, che non prevedeva affatto -come invece era stato richiesto- i respingimenti collettivi in alto mare, delegati alla Guardia costiera tunisina, e le deportazioni in Tunisia di migranti irregolari o denegati, dopo una richiesta di asilo, giunti in Italia dopo un transito temporaneo da quel paese.

    Secondo Piantedosi, “la Tunisia è già considerata un Paese terzo sicuro da provvedimenti e atti ufficiali italiani” e “La Farnesina ha già una lista formale di Stati terzi definiti sicuri. Sia in Africa, penso al Senegal, così come nei Balcani”. Bene che nella sua conferenza stampa a Catania, censurata dai media, non abbia citato la Libia, dopo avere chiesto la collaborazione del generale Haftar per bloccare le partenze verso l’Italia. Ma rimane tutto da dimostrare che la Tunisia sia un “paese terzo sicuro”, soprattutto per i cittadini non tunisini, generalmente provenienti dall’area subsahariana, perchè il richiamo strumentale che fa il ministro dell’interno alla lista di “paesi terzi sicuri” approvata con decreti ministeriali ed ampliata nel corso del tempo, riguarda i cittadini tunisini che chiedono asilo in Italia, e che comunque possono fare valere una richiesta di protezione internazionale, non certo i migranti provenienti da altri paesi e transitati in Tunisia, che si vorrebbero deportare senza troppe formalità, dopo procedure rapide in frontiera. Una possibilità che ancora non è concessa allo stato della legislazione nazionale e del quadro normativo europeo (in particolare dalla Direttiva Rimpatri 2008/115/CE), che si dovrebbe comunque modificare prima della entrata in vigore, ammsso che ci si arrivi prima delle prossime elezioni europee, del Patto sulla migrazione e l’asilo recentemente approvato a Lussemburgo.

    La Presidente della Comissione Europea, nella brevissima conferenza stampa tenuta dopo la chiusura del vertice di Tunisi ha precisato i punti essenziali sui quali si dovrebbe trovare un accordo tra Bruxelles e Tunisi, Fondo monetario internazionale permettendo. Von der Leyen ha confermato che la Ue è pronta a mobilitare 900 milioni di euro di assistenza finanziaria per Tunisi. I tempi però non saranno brevi. “La Commissione europea valuterà l’assistenza macrofinanziaria non appena sarà trovato l’accordo (con il Fmi) necessario. E siamo pronti a mobilitare fino a 900 milioni di euro per questo scopo di assistenza macrofinanziaria. Come passo immediato, potremmo fornire subito un ulteriore sostegno al bilancio fino a 150 milioni di euro”. Come riferisce Adnkronos, “Tunisi dovrebbe prima trovare l’intesa con il Fondo Monetario Internazionale su un pacchetto di aiuti, a fronte del quale però il Fondo chiede riforme, che risulterebbero impopolari e che la leadership tunisina esita pertanto ad accollarsi”. Secondo Adnkronos, L’Ue intende “ripristinare il Consiglio di associazione” tra Ue e Tunisia e l’Alto Rappresentante Josep Borrell “è pronto ad organizzare il prossimo incontro entro la fine dell’anno”, ha sottolineato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen al termine dell’incontro. L’esecutivo comunitario è pronto ad aiutare la Tunisia con un pacchetto basato su cinque pilastri, il principale dei quali è costituito da aiuti finanziari per oltre un miliardo di euro. Il primo è lo sviluppo economico. “Sosterremo la Tunisia, per rafforzarne l’economia. La Commissione Europea sta valutando un’assistenza macrofinanziaria, non appena sarà trovato l’accordo necessario. Siamo pronti a mobilitare fino a 900 milioni di euro per questo scopo. E, come passo immediato, potremmo fornire altri 150 milioni di euro di sostegno al bilancio“. “Il secondo pilastro – continua von der Leyen – sono gli investimenti e il commercio. L’Ue è il principale investitore straniero e partner commerciale della Tunisia. E noi proponiamo di andare oltre: vorremmo modernizzare il nostro attuale accordo commerciale. C’è molto potenziale per creare posti di lavoro e stimolare la crescita qui in Tunisia. Un focus importante per i nostri investimenti è il settore digitale. Abbiamo già una buona base“. Sempre secondo quanto riferito da Adnkronos, “La Commissione Europea sta lavorando ad un memorandum di intesa con la Tunisia nelle energie rinnovabili, campo nel quale il Paese nordafricano ha un potenziale “enorme”, mentre l’Ue ne ha sempre più bisogno, per alimentare il processo di elettrificazione e decarbonizzazione della sua economia, spiega la presidente. L’energia è “il terzo pilastro” del piano in cinque punti che von der Leyen ha delineato al termine della riunione”.

    Quest’anno l’Ue “fornirà alla Tunisia 100 milioni di euro per la gestione delle frontiere, ma anche per la ricerca e il soccorso, la lotta ai trafficanti e il rimpatrio”, annuncia ancora la presidente. Il controllo dei flussi migratori è il quarto pilastro del programma che von der Leyen ha delineato per i rapporti bilaterali tra Ue e Tunisia. Per la presidente della Commissione europea, l’obiettivo “è sostenere una politica migratoria olistica radicata nel rispetto dei diritti umani. Entrambi abbiamo interesse a spezzare il cinico modello di business dei trafficanti di esseri umani. È orribile vedere come mettono deliberatamente a rischio vite umane, a scopo di lucro. Lavoreremo insieme su un partenariato operativo contro il traffico di esseri umani e sosterremo la Tunisia nella gestione delle frontiere”.

    Nel pacchetto di proposte comprese nel futuro Memorandum d’intesa UE-Tunisia, che si dovrebbe sottoscrivere entro la fine di giugno, rientrerebbero anche una serie di aiuti economici all’economia tunisina, in particolare nei settori dell’agricoltura e del turismo, e nuove possibilità di mobilità studentesca, con programmi tipo Erasmus. Nulla di nuovo, ed anche una dotazione finanziaria ridicola, se si pensa ai 200 milioni di euro stanziati solo dall’Italia con il Memorandum d’intesa con la Tunisia siglato da Di Maio per il triennio 2021-2023. Semmai sarebbe interessante sapere come stati spesi quei soldi, visti i risultati sulla situazione dei migranti in transito in Tunisia, nelle politiche di controllo delle frontiere e nei soccorsi in mare.

    2. Non è affatto vero dunque che sia passata la linea dell’Italia per due ragioni fondamentali. L’Italia chiedeva una erogazione immediata degli aiuti europei alla Tunisia e una cooperazione operativa nei respingimenti collettivi in mare ed anche la possibilità di riammissione in Tunisia di cittadini di paesi terzi ( non tunisini) giunti irregolarmente nel nostro territorio, o di cui fosse stata respinta la domanda di protezione nelle procedure in frontiera. Queste richieste della Meloni (e di Piantedosi) sono state respinte, e non rientrano nel Memorandum d’intesa che entro la fine del mese Saied dovrebbe sottoscrivere con l’Unione Europea (il condizionale è d’obbligo).

    Gli aiuti europei sono subordinati all’accettazione da parte di Saied delle condizioni poste dal Fondo Monetario internazionale per l’erogazione del prestito fin qui rifiutato dal presidente. Un prestito che sarebbe condizionato al rispetto di paramentri monetari e di abbattimento degli aiuti pubblici, e forse anche al rispetto dei diritti umani, che in questo momento non sono accettati dal presidente tunisino, ormai di fatto un vero e proprio autocrate. Con il quale la Meloni, ormai lanciata verso il presidenzialismo all’italiana, si riconosce più di quanto non facciano esponenti politici di altri paesi europei. Al punto che persino Mark Rutte, che nel suo paese ha attuato politiche migratorie ancora più drastiche di quelle propagandate dal governo italiano, richiama, alla fine del suo intervento, l’esigenza del rispetto dei diritti umani delle persone migranti, come perno del nuovo Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione Europea.

    Per un altro verso, la “lnea dell’Italia”, dunque la politica dei “respingimenti su delega”, che si vorrebbe replicare con la Tunisia, sul modello di quanto avviene con le autorità libiche, delegando a motovedette, donate dal nostro paese e coordinate anche dall’agenzia europea Frontex, i respingimenti collettivi in acque internazionali, non sembra di facile applicazione per evidenti ragioni geografiche e geopolitiche.

    La Tunisia non e’ la Libia (o la Turchia), le autorità centrali hanno uno scarso controllo dei punti di partenza dei migranti e la corruzione è molto diffusa. Sembra molto probabile che le partenze verso l’Italia continueranno ad aumentare in modo esponenziale nelle prossime settimane. Aumentare le dotazioni di mezi e i supporti operativi in favore delle motovedette tunisine si è già dimostrata una politica priva di efficacia e semmai foriera di stragi in mare. Sulle stragi in mare neppure una parola dopo il vertice di Tunisi. Non è vero che la diminuzione delle partenze dalla Tunisia nel mese di maggio sia conseguenza della politica migratoria del governo Meloni, risultando soltanto una conseguenza di un mese caratterizzato da condizioni meteo particolarmente sfavorevoli, come ha riconosciuto anchel’OIM e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), e come tutti hanno potuto constatare anche in Italia. Vedremo con il ritorno dell’estate se le partenze dalla Tunisia registreranno ancora un calo.

    La zona Sar (di ricerca e salvataggio) tunisina si limita alle acque territoriali (12 miglia dalla costa) ed i controlli affidati alle motovedette tunisine non si possono svolgere oltre. Difficile che le motovedette tunisine si spingano nella zona Sar “libica” o in quella maltese. Continueranno ad intercettare a convenienza, quando i trafficanti non pagheranno abbastanza per corrompere, ed i loro interventi, condotti spesso con modalità di avvicinamento che mettono a rischio la vita dei naufraghi, non ridurranno di certo gli arrivi sulle coste italiane di cittadini tunisini e subsahariani. Per il resto il futuribile Memorandum d’intesa Tunisia-Libia, che ancora e’ una scatola vuota, e che l’Unione europea vincola al rispetto dei diritti umani, dunque anche agli obblighi internazionali di soccorso in mare, non può incidere in tempi brevi sui rapporti bilaterali tra Roma e Tunisi, che sono disciplinati da accordi bilaterali che si dovrebbero modificare successivamente, sempre in conformità con la legislazione ( e la Costituzione) italiana e la normativa euro-unitaria. Dunque non saranno ogettto di nuovi accordi a livello europeo con la Tunisia i respingimenti collettivi vietati dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e non si potranno realizzare, come vorrebero la Meloni e Piantedosi, deportazioni in Tunisia di cittadini di altri paesi terzi, peraltro esclusi dai criteri di “connessione” richiesti nella “proposta legislativa” adottata dal Consiglio dei ministri dell’interno di Lussemburgo. E si dovranno monitorare anche i respingimenti di cittadini tunisini in Tunisia, dopo la svolta autoritaria impressa dall’autocrate Saied che ha fatto arrestare giornalisti e sindacalisti, oltre che numerosi membri dei partiti di opposizione. In ogni caso non si dovranno dimenticare le condanne ricevute dall’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, proprio per i respingimenti differiti effettuati ai danni di cittadini tunisini (caso Khlaifia). Faranno morire ancora centinaia di innocenti. Dare la colpa ai trafficanti non salva dal fallimento politico e morale nè l’Unione Europea nè il governo Meloni.

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    Saied, inaccettabili centri migranti in Tunisia

    (ANSA) – TUNISI, 11 GIU – Il presidente tunisino Kais Saied, nel suo incontro con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen e del primo ministro olandese Mark Rutte “ha fatto notare che la soluzione che alcuni sostengono segretamente di ospitare in Tunisia migranti in cambio di somme di denaro è disumana e inaccettabile, così come le soluzioni di sicurezza si sono dimostrate inadeguate, anzi hanno aumentato le sofferenze delle vittime della povertà e delle guerre”. Lo si legge in un comunicato della presidenza tunisina, pubblicato al termine dell”incontro. (ANSA).

    2023-06-11 18:59

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    ANSA/Meloni e l”Ue incassano prima intesa ma Saied alza posta

    (dell”inviato Michele Esposito)

    (ANSA) – TUNISI, 11 GIU – Una visita lampo, una dichiarazione congiunta che potrebbe portare ad un cruciale memorandum d”intesa, un orizzonte ancora confuso dal continuo alzare la posta di Kais Saied. Il vertice tra Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni, Mark Rutte e il presidente tunisino potrebbe segnare un prima e un dopo nei rapporti tra l”Ue e il Paese nordafricano. Al tavolo del palazzo presidenziale di Cartagine, per oltre due ore, i quattro hanno affrontato dossier a dir poco spigolosi, dalla gestione dei migranti alla necessità di un”intesa tra Tunisia e Fmi. La luce verde sulla prima intesa alla fine si è accesa. “E” un passo importante, dobbiamo arrivare al Consiglio europeo con un memorandum già siglato tra l”Ue e la Tunisia”, è l”obiettivo fissato da Meloni, che ha rilanciato il ruolo di prima linea dell”Italia nei rapporti tra l”Europa e la sponda Sud del Mediterraneo. Nel Palazzo voluto dal padre della patria tunisino, Habib Bourguiba, von der Leyen, Meloni e Rutte sono arrivati con l”ideale divisa del Team Europe. I tre, di fatto, hanno rappresentato l”intera Unione sin da quando, a margine del summit in Moldavia della scorsa settimana, è nata l”idea di accelerare sul dossier tunisino. I giorni successivi sono stati segnati da frenetici contatti tra gli sherpa. Il compromesso, iniziale e generico, alla fine è arrivato. L”Ue sborserà sin da subito, e senza attendere il Fondo Monetario Internazionale, 150 milioni di euro a sostegno del bilancio tunisino. E” un primo passo ma di certo non sufficiente per Saied. Sulla seconda parte del sostegno europeo, il pacchetto di assistenza macro-finanziaria da 900 milioni, l”Ue tuttavia non ha cambiato idea: sarà sborsato solo dopo l”intesa tra Saied e l”Fmi. Intesa che appare ancora lontana: poco dopo la partenza dei tre leader europei, la presidenza tunisina ha infatti invitato il Fondo a “rivedere le sue ricette” ed evitare “diktat”, sottolineando che gli aiuti da 1,9 miliardi, sotto forma di prestiti, “non porteranno benefici” alla popolazione. La difficoltà di mettere il punto finale al negoziato tra Ue e Tunisia sta anche in un altro dato: la stessa posizione europea è frutto di un compromesso tra gli Stati membri. Non è un caso, ad esempio, che sia stato Rutte, portatore delle istanze dei Paesi del Nord, a spiegare come la cooperazione tra Ue e Tunisia sulla gestione dei flussi irregolari debba avvenire “in accordo con i diritti umani”. La dichiarazione congiunta, in via generica, fa riferimento ai principali nodi legati ai migranti: le morti in mare, la necessità di aumentare i rimpatri dell”Europa degli irregolari, la lotta ai trafficanti. Von der Leyen ha messo sul piatto sovvenzioni da 100 milioni di euro per sostenere i tunisini nel contrasto al traffico illegale e nelle attività di search & rescue. Meloni, dal canto suo, ha annunciato “una conferenza su migrazione e sviluppo in Italia, che sarà un ulteriore tappa nel percorso del partenariato” tra l”Ue e Tunisi. Saied ha assicurato il suo impegno sui diritti umani e nella chiusura delle frontiere sud del Paese, ma sui rimpatri la porta è aperta solo a quella per i tunisini irregolari. L”ipotesi che la Tunisia, come Paese di transito sicuro, ospiti anche i migranti subsahariani, continua a non decollare. “L”idea, che alcuni sostengono segretamente, che il Paese ospiti centri per i migranti in campo di somme di danaro è disumana e inaccettabile”, ha chiuso Saied. La strada, insomma, rimane in salita. La strategia dell”Ue resta quella adottata sin dalla prima visita di un suo commissario – Paolo Gentiloni – lo scorso aprile: quella di catturare il sì di Saied con una partnership economica ed energetica globale e di lungo periodo, in cui la migrazione non è altro che un ingranaggio. Ma Tunisi, su diritti e rule of law, deve fare di più. “L”Ue vuole investire nella stabilità tunisina. Le difficoltà del suo percorso democratico si possono superare”, ha detto von der Leyen. Delineando la mano tesa dell”Europa ma anche la linea rossa entro la quale va inquadrata la nuova partnership. (ANSA).

    2023-06-11 19:55

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    Statement 11 June 2023 Tunis
    The European Union and Tunisia agreed to work together on a comprehensive partnership package (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/statement_23_3202)

    European Commission – Statement
    The European Union and Tunisia agreed to work together on a comprehensive partnership package
    Tunis, 11 June 2023

    Building on our shared history, geographic proximity, and strong relationship, we have agreed towork together on a comprehensive partnership package, strengthening the ties that bind us in a mutually beneficial manner.
    We believe there is enormous potential to generate tangible benefits for the EU and Tunisia. The comprehensive partnership would cover the following areas:

    - Strengthening economic and trade ties ,

    - A sustainable and competitive energy partnership

    - Migration

    - People-to-people contacts

    The EU and Tunisia share strategic priorities and in all these areas, we will gain from working together more closely.
    Our economic cooperation will boost growth and prosperity through stronger trade and investment links, promoting opportunities for businesses including small and medium sized enterprises. Economic support, including in the form of Macro Financial Assistance, will also be considered. Our energy partnership will assist Tunisia with the green energy transition, bringing down costs and creating the framework for trade in renewables and integration with the EU market.
    As part of our joint work on migration, the fight against irregular migration to and from Tunisia and the prevention of loss of life at sea, is a common priority, including fighting against smugglers and human traffickers, strengthening border management, registration and return in full respect of human rights.
    People-to-people contacts are central to our partnership and this strand of work will encompass stronger cooperation on research, education, and culture, as well as developing Talent Partnerships, opening up new opportunities for skills development and mobility, especially for youth.

    Enhanced political and policy dialogue within the EU-Tunisia Association Council before the end of the year will offer an important opportunity to reinvigorate political and institutional ties, with the aim of addressing common international challenges together and preserving the rules-based order.
    We have tasked the Minister of Foreign Affairs, Migration and Tunisians Abroad and the
    Commissioner for Neighbourhood and Enlargement to work out a Memorandum of Understanding on the comprehensive partnership package, to be endorsed by Tunisia and the European Union before the end of June.

    https://www.a-dif.org/2023/06/11/la-tunisia-rifiuta-i-respingimenti-collettivi-e-le-deportazioni-di-migranti-i

    #Tunisie #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Memorandum_of_Understanding (#MoU) #Italie #frontières #externalisation_des_frontières #réadmission #accord_de_réadmission #refoulements_collectifs #pays_tiers_sûr #développement #aide_au_développement #conditionnalité_de_l'aide #énergie #énergies_renouvelables

    #modèle_tunisien

    • EU offers Tunisia over €1bn to stem migration

      Brussels proposes €255mn in grants for Tunis, linking longer-term loans of up to €900mn to reforms

      The EU has offered Tunisia more than €1bn in a bid to help the North African nation overcome a deepening economic crisis that has prompted thousands of migrants to cross the Mediterranean Sea to Italy.

      The financial assistance package was announced on Sunday in Tunis after Ursula von der Leyen, accompanied by the prime ministers of Italy and the Netherlands, Giorgia Meloni and Mark Rutte, met with Tunisian president Kais Saied. The proposal still requires the endorsement of other EU governments and will be linked to Tunisian authorities passing IMF-mandated reforms.

      Von der Leyen said the bloc is prepared to mobilise €150mn in grants “right now” to boost Tunisia’s flagging economy, which has suffered from surging commodity prices linked to Russia’s invasion of Ukraine. Further assistance in the form of loans, totalling €900mn, could be mobilised over the longer-term, she said.

      In addition, Europe will also provide €105mn in grants this year to support Tunisia’s border management network, in a bid to “break the cynical business model of smugglers and traffickers”, von der Leyen said. The package is nearly triple what the bloc has so far provided in migration funding for the North African nation.

      The offer of quick financial support is a boost for Tunisia’s embattled president, but longer-term support is contingent on him accepting reforms linked to a $1.9bn IMF package, a move Saied has been attempting to defer until after presidential elections next year.

      Saied has refused to endorse the IMF loan agreement agreed in October, saying he rejected foreign “diktats” that would further impoverish Tunisians. The Tunisian leader is wary of measures such as reducing energy subsidies and speeding up the privatisation of state-owned enterprises as they could damage his popularity.

      Meloni, who laid the groundwork for the announcement after meeting with Saied on Tuesday, has been pushing Washington and Brussels for months to unblock financial aid for Tunisia. The Italian leader is concerned that if the north African country’s economy imploded, it would trigger an even bigger wave of people trying to cross the Mediterranean.

      So far this year, more than 53,000 migrants have arrived in Italy by boat, more than double compared with the same period last year — with a sharp increase in boats setting out from Tunisia one factor behind the surge.

      The agreement was “an important step towards creating a true partnership to address the migration crisis,” Meloni said on Sunday.

      In February, Saied stoked up racist violence against people from sub-Saharan African countries by saying they were part of a plot to change Tunisia’s demographic profile.

      His rhetoric has softened in an apparent bid to improve the image of the deal with the EU. Visiting a camp on Saturday, he criticised the treatment of migrants “as mere numbers”. However, he added, “it is unacceptable for us to play the policeman for other countries”.

      The Tunisian Forum for Economic and Social Rights think-tank criticised the EU’s visit on Sunday as “an attempt to exploit [Tunisia’s] political, economic and social fragility”.

      The financial aid proposal comes days after European governments agreed on a long-awaited migration package that will speed up asylum proceedings and make it easier for member states to send back people who are denied asylum.

      The package also includes proposals to support education, energy and trade relations with the country, including by investing in Tunisia’s renewable energy network and allowing Tunisian students to take part in student exchange programme Erasmus+.

      The presence of the Dutch prime minister, usually a voice for fiscally conservative leaders in the 27-strong bloc, indicated that approval of the package would not be as difficult to achieve as other foreign funding requests. The Netherlands, while not a frontline country like Italy, has also experienced a spike in so-called secondary migration, as many of the people who arrive in southern Europe travel on and apply for asylum in northern countries.

      Calling the talks “excellent”, Rutte said that “the window is open, we all sense there’s this opportunity to foster this relationship between the EU and Tunisia”.

      https://www.ft.com/content/82d6fc8c-ee95-456a-a4e1-8c2808922da3

    • Migrations : les yeux doux de #Gérald_Darmanin au président tunisien

      Pour promouvoir le Pacte sur la migration de l’Union européenne, le ministre de l’Intérieur en visite à Tunis a flirté avec les thèses controversées de Kais Saied, présentant le pays comme une « victime » des flux de réfugiés.

      Quand on sait que l’on n’obtiendra pas ce que l’on désire de son hôte, le mieux est de porter la faute sur un tiers. Le ministre français de l’Intérieur, Gérald Darmanin, a fait sienne cette stratégie durant sa visite dimanche 18 et lundi 19 juin en Tunisie. Et tant pis pour les pays du Sahel, victimes collatérales d’un échec annoncé.

      Accompagné de son homologue allemande, Nancy Faeser, le premier flic de France était en Tunisie pour expliquer au président tunisien Kais Saied le bien-fondé du Pacte sur la migration et l’asile en cours de validation dans l’Union européenne. Tel quel, il pourrait faire de la Tunisie un pays de transit ou d’établissement pour les migrants refoulés au nord de la Méditerranée. La Tunisie n’a jamais accepté officiellement d’être le gardien des frontières de l’Europe, même du temps du précédent président de la République, Béji Caïd Essebsi – officieusement, les gardes-côtes ont intercepté plus de 23 000 migrants de janvier à mai. Ce n’est pas le très panarabisant Kais Saied qui allait céder.

      Surtout que le chef de l’Etat aux méthodes autoritaires avait déjà refusé pareille proposition la semaine dernière, lors de la visite de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, accompagnée de Giorgia Meloni et Mark Rutte, chefs du gouvernement italien et néerlandais, malgré les promesses de plus d’un milliard d’euros d’aides à long terme (des projets budgétés de longue date pour la plupart). Kais Saied avait encore réitéré son refus au téléphone le 14 juin à Charles Michel, le président du Conseil européen.
      « Grand remplacement »

      Peu de chance donc que Gérald Darmanin et Nancy Faeser, « simples » ministres de l’Intérieur aient plus de succès, bien que leurs pays pèsent « 40 % du budget de l’Union européenne », comme l’a malicieusement glissé le ministre français. Alors pour ne pas repartir complètement bredouille, le locataire de la place Beauvau a promis du concret et flirté avec les thèses très controversées de Kais Saied.

      La France a promis une aide bilatérale de 25,8 millions d’euros pour « acquérir les équipements nécessaires et organiser les formations utiles, des policiers et des gardes-frontières tunisiens pour contenir le flux irrégulier de migrants ». Darmanin a surtout assuré que la Tunisie ne deviendra pas « la garde-frontière de l’Union européenne, ce n’est pas sa vocation ». Au contraire, il a présenté l’ancienne puissance carthaginoise comme une « victime » du flux migratoire.

      « Les Tunisiens qui arrivent de manière irrégulière sur le territoire européen sont une portion très congrue du nombre de personnes qui traversent à partir de la Tunisie la Méditerranée pour venir en Europe. Il y a beaucoup de Subsahariens notamment qui prennent ces routes migratoires », a ajouté le ministre de l’Intérieur français. Un argument martelé depuis des mois par les autorités tunisiennes. Dans un discours reprenant les thèses du « grand remplacement », Kais Saied, le 21 février, avait provoqué une campagne de haine et de violence contre les Subsahariens. Ces derniers avaient dû fuir par milliers le pays. Sans aller jusque-là, Gérald Darmanin a joué les VRP de Kais Saied, déclarant qu’« à la demande de la Tunisie », la France allait jouer de ses « relations diplomatiques privilégiées » avec ces pays (Côte d’Ivoire, Sénégal, Cameroun, notamment) pour « prévenir ces flux ». Si les migrants arrivant par bateaux en Italie sont, pour beaucoup, des Subsahariens – le nombre d’Ivoiriens a été multiplié par plus de 7 depuis le début de l’année par rapport à l’an dernier à la même période –, les Tunisiens demeurent, selon le HCR, la première nationalité (20 %) à débarquer clandestinement au sud de l’Europe depuis 2021.
      Préférence pour Giorgia Meloni

      Gérald Darmanin a quand même soulevé un ancien contentieux : le sort de la vingtaine de Tunisiens radicalisés et jugés dangereux actuellement présents sur le territoire français de façon illégale. Leur retour en Tunisie pose problème. Le ministre français a affirmé avoir donné une liste de noms (sans préciser le nombre) à son homologue tunisien. En attendant de savoir si son discours contribuera à réchauffer les relations avec le président tunisien – ce dernier ne cache pas sa préférence pour le franc-parler de Giorgia Meloni, venue deux fois ce mois-ci – Gérald Darmanin a pu profiter de prendre le café avec Iheb et Siwar, deux Tunisiens réinstallés dans leur pays d’origine via une aide aux retours volontaires mis en place par l’Office français de l’immigration et de l’intégration. En 2022, les Tunisiens ayant eu recours à ce programme étaient… 79. Quand on est envoyé dans une guerre impossible à gagner, il n’y a pas de petite victoire.

      https://www.liberation.fr/international/afrique/migrations-les-yeux-doux-de-gerald-darmanin-au-president-tunisien-2023061
      #Darmanin #France

    • Crisi economica e rimpatri: cosa stanno negoziando Ue e Tunisia

      Con l’economia del Paese nordafricano sempre più in difficoltà, l’intreccio tra sostegno finanziario ed esternalizzazione delle frontiere si fa sempre più stretto. E ora spunta una nuova ipotesi: rimpatriare in Tunisia anche cittadini di altri Paesi

      Durante gli ultimi mesi di brutto tempo in Tunisia, il governo italiano ha più volte dichiarato di aver compiuto «numerosi passi avanti nella difesa dei nostri confini», riferendosi al calo degli arrivi di migranti via mare dal Paese nordafricano. Ora che il sole estivo torna a splendere sulle coste del Sud tunisino, però, le agenzie stampa segnalano un nuovo «aumento delle partenze». Secondo l’Ansa, durante le notti del 18 e 19 giugno, Lampedusa ha contato prima dodici, poi altri quindici sbarchi. Gli arrivi sono stati 18, con 290 persone in totale, anche tra la mezzanotte e le due del 23 giugno. Come accadeva durante i mesi di febbraio e marzo, a raggiungere le coste siciliane sono soprattutto ivoriani, malesi, ghanesi, nigeriani, sudanesi, egiziani. I principali porti di partenza delle persone che raggiungono l’Italia via mare, nel 2023, si trovano soprattutto in Tunisia.

      È durante questo giugno piovoso che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è atterrata a Tunisi non una ma ben due volte, con l’intento di negoziare quello che ha tutta l’aria di uno scambio: un maggior sostegno finanziario al bilancio di una Tunisia sempre più in crisi in cambio di ulteriori azioni di militarizzazione del Mediterraneo centrale. Gli aiuti economici promessi da Bruxelles, necessari perché la Tunisia eviti la bancarotta, sono condizionati alla firma di un nuovo accordo con il Fondo monetario internazionale. Il prezzo da pagare, però, sono ulteriori passi avanti nel processo di esternalizzazione della frontiera dell’Unione europea. Un processo già avviato da anni che, come abbiamo raccontato nelle precedenti puntate di #TheBigWall, si è tradotto in finanziamenti alla Tunisia per un valore di 59 milioni di euro dal 2011 a oggi, sotto forma di una lunga lista di equipaggiamenti a beneficio del ministero dell’Interno tunisino.

      Che l’Italia si stia nuovamente muovendo in questo senso, è stato reso noto dalla documentazione raccolta tramite accesso di richiesta agli atti da IrpiMedia in collaborazione con ActionAid sull’ultimo finanziamento di 12 milioni di euro approvato a fine 2022. A dimostrarlo, è anche l’ultima gara d’appalto pubblicata da Unops, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Servizi di Progetto, che dal 2020 fa da intermediario tra il inistero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale italiano (Maeci) e il ministero dell’Interno tunisino, per la fornitura di sette nuove motovedette, in scadenza proprio a giugno.

      Le motovedette si sommano al recente annuncio, reso noto da Altreconomia a marzo 2023, della fornitura di 100 pick-up Nissan Navara alla Guardia nazionale tunisina. Con una differenza, però: Roma non negozia più da sola con Tunisi, ma si impone come mediatrice tra il Paese nordafricano e l’Unione europea. Secondo le informazioni confidenziali diffuse da una fonte diplomatica vicina ai negoziati Tunisia-Ue, la lista più recente sottoposta dalla Tunisia alla Commissione europea includerebbe anche «droni, elicotteri e nuove motovedette per un totale di ulteriori 200 milioni di euro». Durante la visita del 19 giugno, anche la Francia ha annunciato un nuovo sostegno economico a Tunisi del valore di 26 milioni di euro finalizzato a «contrastare la migrazione».

      Il prezzo del salvataggio dalla bancarotta sono i migranti

      Entro fine giugno è attesa la firma del nuovo memorandum tra Unione europea e Tunisia. Ad annunciarlo è stata la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, arrivata a Tunisi l’11 giugno insieme a Giorgia Meloni e a Mark Rutte, il primo ministro olandese.

      La visita ha fatto seguito al Consiglio dell’Ue, il vertice che riunisce i ministri competenti per discutere e votare proposte legislative della Commissione in cui sono stati approvati alcuni provvedimenti che faranno parte del Patto sulla migrazione e l’asilo. L’intesa, che dovrebbe sostituire anche il controverso Regolamento di Dublino ma deve ancora essere negoziata con l’Europarlamento, si lega alle trattative con la Tunisia. Tra i due dossier esiste un parallelismo tracciato dalla stessa Von Der Leyen che, a seguito del recente naufragio di fronte alle coste greche, ha dichiarato: «Sulla migrazione dobbiamo agire in modo urgente sia sul quadro delle regole che in azioni dirette e concrete. Per esempio, il lavoro che stiamo facendo con la Tunisia per stabilizzare il Paese, con l’assistenza finanziaria e investendo nella sua economia».

      Nel frattempo, in Tunisia, la situazione economica si è fatta sempre più complicata. Il 9 giugno, infatti, l’agenzia di rating Fitch ha declassato il Paese a “-CCC” per quanto riguarda l’indice Idr, Issuer default ratings, ovvero il misuratore della capacità di solvenza di aziende e fondi sovrani. Più è basso, più è alta la possibilità, secondo Fitch, che il Paese (o la società, quando l’indice Idr si applica alle società) possa finire in bancarotta. Colpa principalmente delle trattative fallite tra il governo di Tunisi e il Fondo monetario internazionale (Fmi): ad aprile 2023, il presidente Kais Saied ha rifiutato pubblicamente un prestito da 1,9 miliardi di dollari.

      Principale ragione del diniego tunisino sono stati i «diktat», ha detto Saied il 6 aprile, imposti dal Fmi, cioè una serie di riforme con possibili costi sociali molto alti. Al discorso, sono seguite settimane di insistente lobbying da parte italiana, a Tunisi come a Washington, perché si tornasse a discutere del prestito. Gli aiuti promessi da Von Der Leyen in visita a Tunisi (900 milioni di euro di prestito condizionato, oltre ai 150 milioni di sostegno bilaterale al bilancio) sono infatti condizionati al sì dell’Fmi.

      La Tunisia, quindi, ha bisogno sempre più urgentemente di sostegno finanziario internazionale per riuscire a chiudere il bilancio del 2023 e a rispettare le scadenze del debito pubblico estero. E le trattative per fermare i flussi migratori si intensificano. A giugno 2023, come riportato da AnsaMed, Meloni ha dichiarato di voler «risolvere alla partenza» la questione migranti, proprio durante la firma del Patto sull’asilo a Bruxelles. Finanziamenti in cambio di misure di controllo delle partenze, quindi. Ma di che tipo? Per un’ipotesi che tramonta, un’altra sembra prendere corpo.
      I negoziati per il nuovo accordo di riammissione

      La prima ipotesi è trasformare la Tunisia in un hotspot, una piattaforma esterna all’Unione europea per lo smistamento di chi avrebbe diritto a una forma di protezione e chi invece no. È un’idea vecchia, che compariva già nelle bozze di accordi Ue-Tunisia fermi al 2018, dove si veniva fatto esplicito riferimento ad «accordi regionali di sbarco» tra Paesi a Nord del Mediterraneo e Paesi a Sud, e a «piattaforme di sbarco […] complementari a centri controllati nel territorio Ue». All’epoca, la Tunisia rispose con un secco «no» e anche oggi sembra che l’esito sarà simile. Secondo una fonte vicina alle trattative in corso per il memorandum con l’Ue, «è improbabile che la Tunisia accetti di accogliere veri e propri centri di smistamento sul territorio».

      L’opinione del presidente tunisino Kais Saied, infatti, è ben diversa dai toni concilianti con i quali ha accolto i rappresentanti politici europei, da Meloni ai ministri dell’Interno di Francia (Gérald Darmanin) e Germania (Nancy Faeser), questi ultimi incontrati lo scorso 19 giugno. Saied ha più volte ribadito che «non saremo i guardiani dell’Europa», provando a mantenere la sua immagine pubblica di “anti-colonialista” e sovranista.

      Sotto la crescente pressione economica, esiste comunque la possibilità che il presidente tunisino scenda a più miti consigli e rivaluti l’idea della Tunisia come hotspot. In questo scenario, i Paesi Ue potrebbero rimandare in Tunisia non solo persone tunisine a cui è negata la richiesta d’asilo, ma anche persone di altre nazionalità che hanno qualche tipo di legame (ancora tutto da definire nei dettagli) con la Tunisia. Il memorandum Tunisia-Ue, quindi, potrebbe includere delle clausole relative non solo ai rimpatri dei cittadini tunisini, ma anche alle riammissioni di cittadini di altri Paesi.

      A sostegno di questa seconda ipotesi ci sono diversi elementi. Il primo è un documento della Commissione europea sulla cooperazione estera in ambito migratorio, visionato da IrpiMedia, datato maggio 2022, ma anticipato da una bozza del 2017. Nel documento, in riferimento a futuri accordi di riammissione, si legge che la Commissione avrebbe dovuto lanciare, «entro la fine del 2022», «i primi partenariati con i Paesi nordafricani, tra cui la Tunisia». Il secondo elemento è contenuto nell’accordo raggiunto dal Consiglio sul Patto. Su pressione dell’Italia, la proposta di legge prevede la possibilità di mandare i richiedenti asilo in un Paese terzo considerato sicuro, sulla base di una serie di fattori legati al rispetto dei diritti umani in generale e dei richiedenti asilo più nello specifico.
      I dubbi sulla Tunisia, Paese terzo sicuro

      A marzo 2023 – durante il picco di partenze dalla Tunisia a seguito di un violento discorso del presidente nei confronti della comunità subsahariana nel Paese – la lista dei Paesi di origine considerati sicuri è stata aggiornata, e include ormai non solo la Tunisia stessa, sempre più insicura, come raccontato nelle puntate precedenti, ma anche la Costa d’Avorio, il Ghana, la Nigeria. Che rappresentano ormai le prime nazionalità di sbarco.

      In questo senso, aveva attirato l’attenzione la richiesta da parte delle autorità tunisine a inizio 2022 di laboratori mobili per il test del DNA, utilizzati spesso nei commissariati sui subsahariani in situazione di regolarità o meno. Eppure, nel contesto la situazione della comunità subsahariana nel Paese resta estremamente precaria. Solo la settimana scorsa un migrante di origine non chiara, ma subsahariano, è stato accoltellato nella periferia di Sfax, dove la tensione tra famiglie tunisine in situazioni sempre più precarie e subsahariani continua a crescere.

      Malgrado un programma di ritorno volontario gestito dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), continua a esistere una tendopoli di fronte alla sede dell’organizzazione internazionale. La Tunisia, dove manca un quadro legale sul diritto di asilo che tuteli quindi chi viene riconosciuto come rifugiato da UNHCR, continua a non essersi dotata di una zona Sar (Search & Rescue). Proprio a questo fa riferimento esplicito la bozza del nuovo patto sull’asilo firmato a Bruxelles. Una delle condizioni richieste, allora, potrebbe essere proprio quella di notificare all’Organizzazione marittima internazionale (Imo) una zona Sar una volta ottenuti tutti gli equipaggiamenti richiesti dal ministero dell’Interno tunisino.

      https://irpimedia.irpi.eu/thebigwall-crisi-economica-rimpatri-cosa-stanno-negoziando-ue-tunisia
      #crise_économique #UE #externalisation

    • Pour garder ses frontières, l’Europe se précipite au chevet de la Tunisie

      Alors que le régime du président #Kaïs_Saïed peine à trouver un accord avec le #Fonds_monétaire_international, la Tunisie voit plusieurs dirigeants européens — notamment italiens et français — voler à son secours. Un « soutien » intéressé qui vise à renforcer le rôle de ce pays comme garde-frontière de l’Europe en pleine externalisation de ses frontières.

      C’est un fait rarissime dans les relations internationales. En l’espace d’une semaine, la présidente du Conseil italien, Giorgia Meloni, aura effectué deux visites à Tunis. Le 7 juin, la dirigeante d’extrême droite n’a passé que quelques heures dans la capitale tunisienne. Accueillie par son homologue Najla Bouden, elle s’est ensuite entretenue avec le président Kaïs Saïed qui a salué, en français, une « femme qui dit tout haut ce que d’autres pensent tout bas ». Quatre jours plus tard, c’est avec une délégation européenne que la présidente du Conseil est revenue à Tunis.

      Accompagnée de la présidente de la Commission européenne #Ursula_von_der_Leyen et du premier ministre néerlandais #Mark_Rutte, Meloni a inscrit à l’agenda de sa deuxième visite les deux sujets qui préoccupent les leaders européens : la #stabilité_économique de la Tunisie et, surtout, la question migratoire, reléguant au second plan les « #valeurs_démocratiques ».

      Un pacte migratoire

      À l’issue de cette rencontre, les Européens ont proposé une série de mesures en faveur de la Tunisie : un #prêt de 900 millions d’euros conditionné à la conclusion de l’accord avec le Fonds monétaire international (#FMI), une aide immédiate de 150 millions d’euros destinée au budget, ainsi que 105 millions pour accroitre la #surveillance_des_frontières. Von der Leyen a également évoqué des projets portant sur l’internet à haut débit et les énergies vertes, avant de parler de « rapprochement des peuples ». Le journal Le Monde, citant des sources bruxelloises, révèle que la plupart des annonces portent sur des fonds déjà budgétisés. Une semaine plus tard, ce sont #Gérald_Darmanin et #Nancy_Faeser, ministres français et allemande de l’intérieur qui se rendent à Tunis. Une #aide de 26 millions d’euros est débloquée pour l’#équipement et la #formation des gardes-frontières tunisiens.

      Cet empressement à trouver un accord avec la Tunisie s’explique, pour ces partenaires européens, par le besoin de le faire valoir devant le Parlement européen, avant la fin de sa session. Déjà le 8 juin, un premier accord a été trouvé par les ministres de l’intérieur de l’UE pour faire évoluer la politique des 27 en matière d’asile et de migration, pour une meilleure répartition des migrants. Ainsi, ceux qui, au vu de leur nationalité, ont une faible chance de bénéficier de l’asile verront leur requête examinée dans un délai de douze semaines. Des accords devront également être passés avec certains pays dits « sûrs » afin qu’ils récupèrent non seulement leurs ressortissants déboutés, mais aussi les migrants ayant transité par leur territoire. Si la Tunisie acceptait cette condition, elle pourrait prendre en charge les milliers de subsahariens ayant tenté de rejoindre l’Europe au départ de ses côtes.

      Dans ce contexte, la question des droits humains a été esquivée par l’exécutif européen. Pourtant, en mars 2023, les eurodéputés ont voté, à une large majorité, une résolution condamnant le tournant autoritaire du régime. Depuis le mois de février, les autorités ont arrêté une vingtaine d’opposants dans des affaires liées à un « complot contre la sûreté de l’État ». Si les avocats de la défense dénoncent des dossiers vides, le parquet a refusé de présenter sa version.

      L’allié algérien

      Depuis qu’il s’est arrogé les pleins pouvoirs, le 25 juillet 2021, Kaïs Saïed a transformé la Tunisie en « cas » pour les puissances régionales et internationales. Dans les premiers mois qui ont suivi le coup de force, les pays occidentaux ont oscillé entre « préoccupations » et compréhension. Le principal cadre choisi pour exprimer leurs inquiétudes a été celui du G 7. C’est ainsi que plusieurs communiqués ont appelé au retour rapide à un fonctionnement démocratique et à la mise en place d’un dialogue inclusif. Mais, au-delà des proclamations de principe, une divergence d’intérêts a vite traversé ce groupement informel, séparant les Européens des Nord-Américains. L’Italie — et dans une moindre mesure la France — place la question migratoire au centre de son débat public, tandis que les États-Unis et le Canada ont continué à orienter leur communication vers les questions liées aux droits et libertés. En revanche, des deux côtés de l’Atlantique, le soutien à la conclusion d’un accord entre Tunis et le FMI a continué à faire consensus.

      La fin de l’unanimité occidentale sur la question des droits et libertés va faire de l’Italie un pays à part dans le dossier tunisien. Depuis 2022, Rome est devenue le premier partenaire commercial de Tunis, passant devant la France. Ce changement coïncide avec un autre bouleversement : la Tunisie est désormais le premier pays de départ pour les embarcations clandestines en direction de l’Europe, dans le bassin méditerranéen. Constatant que la Tunisie de Kaïs Saïed a maintenu une haute coopération en matière de #réadmission des Tunisiens clandestins expulsés du territoire italien, Rome a compris qu’il était dans son intérêt de soutenir un régime fort et arrangeant, en profitant de son rapprochement avec l’Algérie d’Abdelmadjid Tebboune, qui n’a jamais fait mystère de son soutien à Kaïs Saïed. Ainsi, en mai 2022, le président algérien a déclaré qu’Alger et Rome étaient décidées à sortir la Tunisie de « son pétrin ». Les déclarations de ce type se sont répétées sans que les autorités tunisiennes, d’habitude plus promptes à dénoncer toute ingérence, ne réagissent publiquement. Ce n’est pas la première fois que l’Italie et l’#Algérie — liées par un #gazoduc traversant le territoire tunisien — s’unissent pour soutenir un pouvoir autoritaire en Tunisie. Déjà, en 1987, Zine El-Abidine Ben Ali a consulté Rome et Alger avant de déposer le président Habib Bourguiba.

      L’arrivée de Giorgia Meloni au pouvoir en octobre 2022 va doper cette relation. La dirigeante d’extrême droite, élue sur un programme de réduction drastique de l’immigration clandestine, va multiplier les signes de soutien au régime en place. Le 21 février 2023, un communiqué de la présidence tunisienne dénonce les « menaces » que font peser « les hordes de migrants subsahariens » sur « la composition démographique tunisien ». Alors que cette déclinaison tunisienne de la théorie du « Grand Remplacement » provoque l’indignation, — notamment celle de l’Union africaine (UA) — l’Italie est le seul pays à soutenir publiquement les autorités tunisiennes. Depuis, la présidente du Conseil italien et ses ministres multiplient les efforts diplomatiques pour que la Tunisie signe un accord avec le FMI, surtout depuis que l’UE a officiellement évoqué le risque d’un effondrement économique du pays.

      Contre les « diktats du FMI »

      La Tunisie est en crise économique au moins depuis 2008. Les dépenses sociales engendrées par la révolution, les épisodes terroristes, la crise du Covid et l’invasion de l’Ukraine par la Russie n’ont fait qu’aggraver la situation du pays.

      L’accord avec l’institution washingtonienne est un feuilleton à multiples rebondissements. Fin juillet 2021, avant même la nomination d’un nouveau gouvernement, Saïed charge sa nouvelle ministre des Finances Sihem Namsia de poursuivre les discussions en vue de l’obtention d’un prêt du FMI, prélude à une série d’aides financières bilatérales. À mesure que les pourparlers avancent, des divergences se font jour au sein du nouvel exécutif. Alors que le gouvernement de Najla Bouden semble disposé à accepter les préconisations de l’institution financière (restructuration et privatisation de certaines entreprises publiques, arrêt des subventions sur les hydrocarbures, baisse des subventions sur les matières alimentaires), Saïed s’oppose à ce qu’il qualifie de « diktats du FMI » et dénonce une politique austéritaire à même de menacer la paix civile. Cela ne l’empêche pas de promulguer la loi de finances de l’année 2023 qui reprend les principales préconisations de l’institution de Bretton Woods.

      En octobre 2022, un accord « technique » a été trouvé entre les experts du FMI et ceux du gouvernement tunisien et la signature définitive devait intervenir en décembre. Mais cette dernière étape a été reportée sine die, sans aucune explication.

      Ces dissensions au sein d’un exécutif censé plus unitaire que sous le régime de la Constitution de 2014 trouvent leur origine dans la vision économique de Kaïs Saïed. Après la chute de Ben Ali, les autorités de transition ont commandé un rapport sur les mécanismes de corruption du régime déchu. Le document final, qui pointe davantage un manque à gagner (prêts sans garanties, autorisations indument accordées…) que des détournements de fonds n’a avancé aucun chiffre. Mais en 2012, le ministre des domaines de l’État Slim Ben Hmidane a avancé celui de 13 milliards de dollars (11,89 milliards d’euros), confondant les biens du clan Ben Ali que l’État pensait saisir avec les sommes qui se trouvaient à l’étranger. Se saisissant du chiffre erroné, Kaïs Saïed estime que cette somme doit être restituée et investie dans les régions marginalisées par l’ancien régime. Le 20 mars 2022, le président promulgue une loi dans ce sens et nomme une commission chargée de proposer à « toute personne […] qui a accompli des actes pouvant entraîner des infractions économiques et financières » d’investir l’équivalent des sommes indument acquises dans les zones sinistrées en échange de l’abandon des poursuites.

      La mise en place de ce mécanisme intervient après la signature de l’accord technique avec le FMI. Tandis que le gouvernement voulait finaliser le pacte avec Washington, Saïed mettait la pression sur la commission d’amnistie afin que « la Tunisie s’en sorte par ses propres moyens ». Constatant l’échec de sa démarche, le président tunisien a préféré limoger le président de la commission et dénoncer des blocages au sein de l’administration. Depuis, il multiplie les appels à un assouplissement des conditions de l’accord avec le FMI, avec l’appui du gouvernement italien. Le 12 juin 2023, à l’issue d’une rencontre avec son homologue italien, Antonio Tajani, le secrétaire d’État américain Anthony Blinken s’est déclaré ouvert à ce que Tunis présente un plan de réforme révisé au FMI.

      Encore une fois, les Européens font le choix de soutenir la dictature au nom de la stabilité. Si du temps de Ben Ali, l’islamisme et la lutte contre le terrorisme étaient les principales justifications, c’est aujourd’hui la lutte contre l’immigration, devenue l’alpha et l’oméga de tout discours politique et électoraliste dans une Europe de plus en plus à droite, qui sert de boussole. Mais tous ces acteurs négligent le côté imprévisible du président tunisien, soucieux d’éviter tout mouvement social à même d’affaiblir son pouvoir. À la veille de la visite de la délégation européenne, Saïed s’est rendu à Sfax, deuxième ville du pays et plaque tournante de la migration clandestine. Il est allé à la rencontre des populations subsahariennes pour demander qu’elles soient traitées avec dignité, avant de déclarer que la Tunisie ne « saurait être le garde-frontière d’autrui ». Un propos réitéré lors de la visite de Gérald Darmanin et de son homologue allemande, puis à nouveau lors du Sommet pour un nouveau pacte financier à Paris, les 22 et 23 juin 2023.

      https://orientxxi.info/magazine/pour-garder-ses-frontieres-l-europe-se-precipite-au-chevet-de-la-tunisie

    • Perché oggi Meloni torna in Tunisia

      È la terza visita da giugno: l’obiettivo è un accordo per dare al paese aiuti economici europei in cambio di più controlli sulle partenze di migranti

      Nella giornata di domenica è previsto un viaggio istituzionale in Tunisia della presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, insieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al primo ministro olandese #Mark_Rutte. Per Meloni è la terza visita in Tunisia in poco più di un mese: era andata da sola una prima volta il 6 giugno, e poi già insieme a von der Leyen e Rutte l’11 giugno.

      Il motivo delle visite è stata una serie di colloqui con il presidente tunisino, l’autoritario Kais Saied, per firmare un “memorandum d’intesa” tra Unione Europea e Tunisia che ha l’obiettivo di fornire un aiuto finanziario al governo tunisino da circa un miliardo di euro. Questi soldi si aggiungerebbero al prestito del Fondo Monetario Internazionale (#FMI) da 1,7 miliardi di euro di cui si parla da tempo e che era stato chiesto dalla Tunisia per provare a risolvere la sua complicata situazione economica e sociale.

      Il memorandum, di cui non sono stati comunicati i dettagli, secondo fonti a conoscenza dei fatti impegnerebbe la Tunisia ad applicare alcune riforme chieste dall’FMI, e a collaborare maggiormente nel bloccare le partenze di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Italia via mare.

      Nell’incontro dell’11 giugno le discussioni non erano andate benissimo, e avevano portato solo alla firma di una dichiarazione d’intenti. La visita di domenica dovrebbe invece concludersi con una definizione degli accordi, almeno nelle intenzioni dei leader europei. «Speriamo di concludere le discussioni che abbiamo iniziato a giugno», aveva detto venerdì la vice portavoce della Commissione Europea Dana Spinant annunciando il viaggio di domenica.

      Il memorandum d’intesa prevede che l’Unione Europea offra alla Tunisia aiuti finanziari sotto forma di un prestito a tassi agevolati di 900 milioni di euro – da erogare a rate nei prossimi anni – oltre a due contributi a fondo perduto rispettivamente da 150 milioni di euro, come contributo al bilancio nazionale, e da 100 milioni di euro per impedire le partenze delle imbarcazioni di migranti. Quest’ultimo aiuto di fatto replicherebbe su scala minore quelli dati negli anni scorsi a Libia e Turchia affinché impedissero con la forza le partenze di migranti e richiedenti asilo.

      Dell’accordo si è parlato molto criticamente nelle ultime settimane per via delle violenze in corso da tempo nel paese, sia da parte della popolazione locale che delle autorità, nei confronti dei migranti subsahariani che transitano nel paese nella speranza di partire via mare verso l’Europa (e soprattutto verso l’Italia). Da mesi il presidente Kais Saied – che negli ultimi tre anni ha dato una svolta autoritaria al governo del paese – sta usando i migranti come capro espiatorio per spiegare la pessima situazione economica e sociale in cui si trova la Tunisia.

      Ha più volte sostenuto che l’immigrazione dai paesi africani faccia parte di un progetto di «sostituzione demografica per rendere la Tunisia un paese unicamente africano, che perda i suoi legami con il mondo arabo e islamico». Le sue parole hanno causato reazioni razziste molto violente da parte di residenti e polizia nei confronti dei migranti, con arresti arbitrari e varie aggressioni. L’ultimo episodio è stato segnalato all’inizio di luglio, quando le forze dell’ordine tunisine hanno arrestato centinaia di migranti provenienti dall’Africa subsahariana e li hanno portati con la forza in una zona desertica nell’est del paese al confine con la Libia.

      https://www.ilpost.it/2023/07/16/tunisia-meloni

    • Firmato a Tunisi il memorandum d’intesa tra Tunisia e Ue, Meloni: «Compiuto passo molto importante»

      Saied e la delegazione Ue von der Leyen, Meloni e #Rutte siglano il pacchetto complessivo di 255 milioni di euro per il bilancio dello Stato nordafricano e per la gestione dei flussi migratori. 5 i pilastri dell’intesa

      E’ stato firmato il Memorandum d’intesa per una partnership strategica e globale fra Unione europea e Tunisia. L’Ue ha diffuso il video della cerimonia di firma, alla quale erano presenti la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il premier dell’Olanda Mark Rutte e il presidente tunisino Kais Saied. Al termine della cerimonia di firma è iniziato l’incontro fra i tre leader europei e Saied, a seguito del quale sono attese dichiarazioni alla stampa. L’incontro si svolge nel palazzo presidenziale tunisino di Cartagine, vicino Tunisi. Per raggiungere questo obiettivo Bruxelles ha proposto un pacchetto di aiuti (150 milioni a sostegno del bilancio dello Stato e 105 milioni come supporto al controllo delle frontiere), su cui era stato avviato un negoziato.

      «Il Team Europe torna a Tunisi. Eravamo qui insieme un mese fa per lanciare una nuova partnership con la Tunisia. E oggi la portiamo avanti». Lo scrive sui social la Presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, postando foto con lei, Meloni, Rutte e Saied.

      E nella conferenza stampa congiunta con Saied, Meloni e Rutte la presidente ha affermato che la Ue coopererà con la Tunisia contro i trafficanti di migranti.

      «Abbiamo raggiunto un obiettivo molto importante che arriva dopo un grande lavoro diplomatico. Il Memorandum è un importante passo per creare una vera partnership tra l’Ue e la Tunisia». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni al termine dell’incontro con Kais Saied nel palazzo di Cartagine. L’intesa va considerata «un modello» perle relazioni tra l’Ue e i Paesi del Nord Africa.

      L’obiettivo iniziale era di firmare un Memorandum d’intesa entro lo scorso Consiglio europeo, del 29 e 30 giugno, ma c’è stato uno slittamento. L’intesa con l’Europa, nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbe anche facilitare lo sblocco del finanziamento del Fondo monetario internazionale da 1,9 miliardi al momento sospeso, anche se in questo caso la trattativa è tutta in salita.

      Anche oggi, nel giorno della firma del Memorandum di Intesa tra Unione europea e Tunisia, a Lampedusa - isola simbolo di migrazione e di naufragi - sono sbarcati in 385 (ieri quasi mille). L’obiettivo dell’accordo voluto dalla premier Meloni e il presidente Saied è soprattutto arginare il flusso incontrollato di persone che si affidano alla pericolosa via del mare per approdare in Europa. Un problema che riguarda i confini esterni meridionali dell’Unione europea, come ha sempre sottolineato la presidente del Consiglio, che oggi arriverà a Tunisi per la seconda volta, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e con il collega olandese Mark Rutte.

      Le dichiarazioni della premier Giorgia Meloni

      «Oggi abbiamo raggiunto un risultato estremamente importante, il memorandum firmato tra Tunisia e Ue è un ulteriore passo verso la creazione di un vero partenariato che possa affrontare in modo integrato la crisi migratoria e lo sviluppo per entrambe le sponde del Mediterraneo».

      Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel punto stampa dopo la firma del Memorandum.

      «Il partenariato con la Tunisia- ha aggiunto Meloni- rappresenta per noi un modello per costruire nuove relazioni con i vicini del Nord Africa. Il memorandum è un punto di partenza al quale dovranno conseguire diversi accordi per mettere a terra gli obiettivi che ci siamo dati».

      Infine la presidente del Consiglio ha ricordato che «domenica prossima 23 luglio a Roma ci sarà la conferenza internazionale sull’immigrazione che avrà come protagonista il presidente Saied e con lui diversi capi di Stato e governo dei paesi mediterranei. E’ un altro importante passo per affrontare la cooperazione mediterranea con un approccio integrato e io lo considero come l’inizio di un percorso che può consentire una partnership diversa da quella che abbiamo avuto nel passato».

      Le dichiarazioni della Presidente della Commisisone Europea

      Per Ursula Von der Leyen l’accordo odierno è «un buon pacchetto di misure», da attuare rapidamente «in entrambe le sponde del Mediterraneo» ma ha anche precisato che «L’ assistenza macrofinanziaria sarà fornita quando le condizioni lo permetteranno».

      La Presidente ha elencato i 5 pilastri del Memorandum con la Tunisia:

      1) creare opportunità per i giovani tunisini. Per loro «ci sarà una finestra in Europa con l’#Erasmus». Per le scuole tunisine stanziati 65 milioni;

      2) sviluppo economico della Tunisia. La Ue aiuterà la crescita e la resilienza dell’economia tunisina;

      3) investimenti e commercio: "La Ue è il più grande partner economico della Tunisia. Ci saranno investimenti anche per migliorare la connettività della Tunisia, per il turismo e l’agricoltura. 150 milioni verranno stanziati per il ’#Medusa_submarine_cable' tra Europa e Tunisia;

      4) energia pulita: la Tunisia ha «potenzialità enormi» per le rinnovabili. L’ Europa ha bisogno di «fonti per l’energia pulita. Questa è una situazione #win-win. Abbiamo stanziato 300 milioni per questo progetto ed è solo l’inizio»;

      5) migranti: «Bisogna stroncare i trafficanti - dice Von der Leyen - e distruggere il loro business». Ue e Tunisia coordineranno le operazioni Search and Rescue. Per questo sono stanziati 100 milioni di euro.

      Le dichiarazioni del Presidente Kais Saied

      «Dobbiamo trovare delle vie di collaborazione alternative a quelle con il Fondo Monetario Internazionale, che è stato stabilito dopo la seconda Guerra mondiale. Un regime che divide il mondo in due metà: una metà per i ricchi e una per i poveri eche non doveva esserci». Lo ha detto il presidente tunisino Kais Saied nelle dichiarazioni alla stampa da Cartagine.

      «Il Memorandum dovrebbe essere accompagnato presto da accordi attuativi» per «rendere umana» la migrazione e «combattere i trafficanti. Abbiamo oggi un’assoluta necessità di un accordo comune contro la migrazione irregolari e contro la rete criminale di trafficanti».

      «Grazie a tutti e in particolare la premier Meloni per aver risposto immediatamente all’iniziativa tunisina di organizzare» un vertice sulla migrazione con i Paesi interessati.

      https://www.rainews.it/articoli/2023/07/memorandum-dintesa-tra-unione-europea-e-tunisia-la-premier-meloni-von-der-le
      #memorandum_of_understanding #développement #énergie #énergie_renouvelable #économie #tourisme #jeunes #jeunesse #smugglers #traficants_d'êtres_humains #aide_financière

    • La Tunisie et l’Union européenne signent un partenariat sur l’économie et la politique migratoire

      La présidente de la Commission européenne s’est réjouie d’un accord destiné à « investir dans une prospérité partagée », évoquant cinq piliers dont l’immigration irrégulière. La Tunisie est un point de départ pour des milliers de migrants vers l’Europe.

      L’Union européenne (UE) et la Tunisie ont signé dimanche 16 juillet à Tunis un protocole d’accord pour un « partenariat stratégique complet » portant sur la lutte contre l’immigration irrégulière, les énergies renouvelables et le développement économique de ce pays du Maghreb. La présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, s’est réjouie d’un accord destiné à « investir dans une prospérité partagée », évoquant « cinq piliers », dont les questions migratoires.

      La Tunisie est un point de départ pour des milliers de migrants qui traversent la Méditerranée vers l’Europe. Les chefs de gouvernement italien, Giorgia Meloni, et néerlandais, Mark Rutte, accompagnaient la dirigeante européenne après une première visite il y a un mois, pendant laquelle ils avaient proposé ce partenariat.

      Il s’agit « d’une nouvelle étape importante pour traiter la crise migratoire de façon intégrée », a dit Mme Meloni, qui a invité le président tunisien, Kais Saied, présent à ses côtés, à participer dimanche à Rome à un sommet sur les migrations. Celui-ci s’est exprimé à son tour pour insister sur le volet de l’accord portant sur « le rapprochement entre les peuples ».

      « Nouvelles relations avec l’Afrique du Nord »

      Selon Mme Meloni, le partenariat entre la Tunisie et l’UE « peut être considéré comme un modèle pour l’établissement de nouvelles relations avec l’Afrique du Nord ». M. Rutte a pour sa part estimé que « l’accord bénéficiera aussi bien à l’Union européenne qu’au peuple tunisien », rappelant que l’UE est le premier partenaire commercial de la Tunisie et son premier investisseur. Sur l’immigration, il a assuré que l’accord permettra de « mieux contrôler l’immigration irrégulière ».

      L’accord prévoit une aide de 105 millions d’euros pour lutter contre l’immigration irrégulière et une aide budgétaire de 150 millions d’euros alors que la Tunisie est étranglée par une dette de 80 % de son produit intérieur brut (PIB) et est à court de liquidités. Lors de sa première visite, la troïka européenne avait évoqué une « assistance macrofinancière de 900 millions d’euros » qui pouvait être fournie à la Tunisie sous forme de prêt sur les années à venir.

      Mme von der Leyen a affirmé dimanche que Bruxelles « est prête à fournir cette assistance dès que les conditions seront remplies ». Cette « assistance » de l’UE est conditionnée à un accord entre la Tunisie et le Fonds monétaire international (FMI) pour un nouveau crédit du Fonds, un dossier qui est dans l’impasse depuis des mois.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/07/16/la-tunisie-et-l-union-europeenne-signent-un-partenariat-sur-l-economie-et-la

    • Les députés reprochent à la Commission européenne d’avoir signé un accord avec un « cruel dictateur » tunisien

      Des eurodéputés ont dénoncé mardi le protocole d’accord signé par l’UE avec la Tunisie.

      L’accord a été conclu dimanche après une réunion à Tunis entre le président tunisien Kaïs Saïed et la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen, accompagnée de la Première ministre italienne Giorgia Meloni et du Premier ministre néerlandais Mark Rutte.

      Le texte, qui doit encore être précisé, prévoit l’allocation d’au moins 700 millions d’euros de fonds européens, dont certains sous forme de prêts, dans le cadre de cinq piliers : la stabilité macroéconomique, l’économie et le commerce, la transition verte, les contacts interpersonnels et les migrations.

      Ursula von der Leyen a présenté le mémorandum comme un « partenariat stratégique et global ». Mais les eurodéputés ont adopté un point de vue très critique sur la question. Ils dénoncent les contradictions entre les valeurs fondamentales de l’Union européenne et le recul démocratique en cours en Tunisie. Ils ont également déploré l’absence de transparence démocratique et de responsabilité financière.

      La figure de Kaïs Saïed, qui a ouvertement diffusé des récits racistes contre les migrants d’Afrique subsaharienne a fait l’objet des reproches de la part des parlementaires.

      https://twitter.com/sylvieguillaume/status/1681221845830230017

      « Il est très clair qu’un accord a été conclu avec un dictateur cruel et peu fiable », a dénoncé Sophie in ’t Veld (Renew Europe). « Le président Saïed est un dirigeant autoritaire, ce n’est pas un bon partenaire, c’est un dictateur qui a augmenté le nombre de départs ».

      S’exprimant au nom des sociaux-démocrates (S&D), Birgit Sippel a accusé les autorités tunisiennes d’abandonner les migrants subsahariens dans le désert « sans nourriture, sans eau et sans rien d’autre », un comportement qui a déjà été rapporté par les médias et les organisations humanitaires.

      « Pourquoi la Tunisie devrait-elle soudainement changer de comportement ? Et qui contrôle l’utilisation de l’argent ? » interroge Birgit Sippel, visiblement en colère.

      « Nous finançons à nouveau un autocrate sans contrôle politique et démocratique au sein de cette assemblée. Ce n’est pas une solution. Cela renforcera un autocrate en Tunisie », a-t-elle ajouté.

      https://twitter.com/NatJanne/status/1680982627283509250

      En face, la Commissaire européenne en charge des Affaires intérieures Ylva Johansson, a évité toute controverse et a calmement défendu le mémorandum UE-Tunisie. La responsable suédoise a souligné que le texte introduit des obligations pour les deux parties.

      « Il est clair que la Tunisie est sous pression. Selon moi, c’est une raison de renforcer et d’approfondir la coopération et d’intensifier le soutien à la Tunisie », a-t-elle répondu aux députés européens.

      Selon Ylva Johansson, 45 000 demandeurs d’asile ont quitté la Tunisie cette année pour tenter de traverser la « route très meurtrière » de la Méditerranée centrale. Cette « augmentation considérable » suggère un changement du rôle de la Tunisie, de pays d’origine à pays de transit, étant donné que « sur ces 45 000, seuls 5 000 étaient des citoyens tunisiens ».

      « Il est très important que notre objectif principal soit toujours de sauver des vies, d’empêcher les gens d’entreprendre ces voyages qui finissent trop souvent par mettre fin à leur vie, c’est une priorité », a poursuivi la Commissaire.

      Les députés se sont concentrés sur les deux enveloppes financières les plus importantes de l’accord : 150 millions d’euros pour l’aide budgétaire et 105 millions d’euros pour la gestion des migrations, qui seront toutes les deux déboursées progressivement. Certains eurodéputés ont décrit l’aide budgétaire, qui est censée soutenir l’économie fragile du pays, comme une injection d’argent dans les coffres privés de Kaïs Saïed qui serait impossible à retracer.

      « Vous avez financé un dictateur qui bafoue les droits de l’homme, qui piétine la démocratie tunisienne que nous avons tant soutenue. Ne nous mentez pas ! », s’est emporté Mounir Satouri (les Verts). « Selon nos analyses, les 150 et 105 millions d’euros sont une aide au Trésor (tunisien), un versement direct sur le compte bancaire de M. Kaïs Saïed ».

      https://twitter.com/alemannoEU/status/1680659154665340928

      Maria Arena (S&D) a reproché à la Commission européenne de ne pas avoir ajouté de dispositions supplémentaires qui conditionneraient les paiements au respect des droits de l’homme.

      « Nous donnons un chèque en blanc à M. Saïed, qui mène actuellement des campagnes racistes et xénophobes, soutenues par sa police et son armée », a déclaré l’eurodéputée belge.

      « Croyez-vous vraiment que M Saïed, qui a révoqué son parlement, qui a jeté des juges en prison, qui a démissionné la moitié de sa juridiction, qui interdit maintenant aux blogueurs de parler de la question de l’immigration et qui utilise maintenant sa police et son armée pour renvoyer des gens à la frontière (libyenne), croyez-vous vraiment que M. Saïed va respecter les droits de l’homme ? Madame Johansson, soit vous êtes naïve, soit vous nous racontez des histoires ».

      Dans ses réponses, Ylva Johansson a insisté sur le fait que les 105 millions d’euros affectés à la migration seraient « principalement » acheminés vers des organisations internationales qui travaillent sur le terrain et apportent une aide aux demandeurs d’asile, comme l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), bien qu’elle ait admis que certains fonds seraient en fait fournis aux agents tunisiens sous la forme de navires de recherche et de sauvetage et de radars.

      https://twitter.com/vonderleyen/status/1680626156603686913

      « Permettez-moi d’insister sur le fait que la Commission européenne, l’UE, n’est pas impliquée dans le refoulement de ressortissants de pays tiers vers leur pays d’origine. Ce que nous faisons, c’est financer, par l’intermédiaire de l’OIM, les retours volontaires et la réintégration des ressortissants de pays tiers », a souligné la Commissaire.

      « Je ne suis pas d’accord avec la description selon laquelle la Tunisie exerce un chantage. Je pense que nous avons une bonne coopération avec la Tunisie, mais il est également important de renforcer cette coopération et d’augmenter le soutien à la Tunisie. Et c’est l’objectif de ce protocole d’accord ».

      https://fr.euronews.com/my-europe/2023/07/18/les-deputes-reprochent-a-la-commission-europeenne-davoir-signe-un-accor

  • Proudhon et Cham
    http://anarlivres.free.fr/pages/nouveau.html#cham

    Grâce à un amical concours, nous avons pu numériser les albums de caricatures de Proudhon par Cham (« La Banque-Proudhon et autres banques socialistes » et « Proudhon en voyage »), le troisième était déjà disponible sur Internet Archive (« Proudhoniana. Album dédié aux propriétaires »). Cham (fils du Noé de la Bible) est le pseudo d’Amédée Charles Henri de Noé, dessinateur avec Honoré Daumier du journal satirique « Le Charivari ». Son trait est assez sommaire mais il est extrêmement prolifique, inventif, et suit parfaitement les évolutions politiques de son journal. Anti-monarchiste sous le roi Louis-Philippe, « Le Charivari » va saluer avec satisfaction l’avènement de la République le 24 février 1848. Depuis deux jours, sous l’impulsion des libéraux et des républicains, une partie du peuple de Paris – frappé de plein fouet par la crise économique et sociale – s’est soulevée et a pris le contrôle de la capitale (...)

    #Proudhon #Cham #anarchisme #caricature #révolution1848 #Charivari

  • Le artiste e designer iraniane che sostengono la protesta nelle piazze

    Da più di due mesi migliaia di giovani scendono in piazza contro il regime di Teheran. Una pagina Instagram (https://www.instagram.com/iranianwomenofgraphicdesign) condivide sui social network illustrazioni che rappresentano i gesti simbolici delle manifestazioni: dal taglio dei capelli agli hijab dati alle fiamme. “Continuate a mantenere alta l’attenzione su quello che succede in Iran”

    https://altreconomia.it/con-le-loro-opere-artiste-e-designer-iraniane-sostengono-la-protesta-ne

    #art_et_politique #Iran #Iranian_Women_of_Graphic_Design #design #dessin #caricatures #dessin_de_presse #instagram

  • Un dessin de #Herji, avec ce commentaire de l’auteur :
    « Mon premier dessin pour Vigousse, sur le difficile sujet des viols de guerre pratiqués par l’armée russe en Ukraine »

    –-> pour la petite histoire, Herji a été un étudiant « à moi » à Genève et puis « mon » stagiaire quand je travaillais à Vivre Ensemble...

    #viols #Ukraine #viols_de_guerre #dessin_de_presse #caricature #Russie

  • #Colonia_per_maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere

    Quella degli italiani che combatterono o lavorarono nelle colonie africane del fascismo è una storia poco e mal conosciuta. Questo libro intende fornire un contributo di conoscenza sui comportamenti e i sentimenti di quanti, militari o civili, furono coinvolti nella colonizzazione dell’Etiopia (1935-41). Attraverso lo studio di memorie e diari inediti, ma anche della propaganda e della letteratura coloniale coeva, il volume indaga sul significato del colonialismo per gli italiani in termini di identità maschile, sia sul piano dell’esperienza vissuta che su quello dell’immaginario e della rappresentazione, pubblica e privata. Partendo dall’ipotesi della conquista coloniale come «terapia» per arginare la «degenerazione» del maschio e, in questa chiave, dal mito dell’Africa come luogo di frontiera e «paradiso dei sensi», il saggio intreccia l’analisi dei modelli maschili e delle politiche coloniali del fascismo con la ricostruzione delle esperienze quotidiane e delle percezioni di sé degli italiani. In particolare, sulla scia di molti studi coloniali stranieri focalizzati sulle variabili di genere e razza, l’analisi si sofferma sulla sfera dei complessi e multiformi contatti con gli uomini e le donne della società locale. Ne emerge un quadro articolato e contraddittorio, un complesso di relazioni tra colonizzatori e colonizzati sicuramente caratterizzato da gerarchie e razzismo, ma anche da rapporti amicali, erotici e omoerotici, paternalistici e, talora, paterni.
    Come scrive Luisa Passerini nella prefazione, questo libro è un «contributo originale [...] a un tema di grande rilevanza, che permette di comprendere meglio sia la complessità del passato recente della nazione sia le difficoltà di fare i conti con il suo retaggio coloniale».

    http://www.ombrecorte.it/vecchio/more.asp?id=129&tipo=documenta

    #colonialisme #colonisation #Italie_coloniale #colonialisme_italien #genre #femmes #livre #masculinité #identité_masculine

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien:
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    • La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une #sexualité sur ordonnance (1), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      PARTIE 1

      Le 9 mai 1936, à Rome, dans un discours retransmis par des milliers de haut-parleurs dans toute l’Italie, Mussolini annonce la conquête de l’Éthiopie. Du Palais de Venise où il est acclamé par une foule en liesse, le Duce prétend donner au monde une leçon de civilisation, célébrant le combat de l’Italie contre « l’arbitraire cruel », « l’esclavage millénaire » et la victoire de la justice sur la barbarie. La veille, dans un climat analogue, le Duce s’est adressé aux organisations féminines du régime, et a remercié les femmes d’avoir soutenu l’héroïsme de leurs frères, fils et maris en résistant aux sanctions décrétées par la Société des Nations1. Quelques mois plus tôt pour la journée de la « Foi », des cohortes de femmes avaient offert leur alliance, le don de l’anneau nuptial symbolisant l’engagement de toute la nation dans l’aventure coloniale.

      Cette communion des genres sur l’autel de l’impérialisme fasciste ne doit pas masquer que la guerre d’Éthiopie fut un pic d’exaltation de la virilité par un régime qui l’avait élevée à des sommets jamais atteints2. « Rappelez-vous que la passion des colonies est la plus masculine, la plus fière et la plus puissante qu’un Italien puisse nourrir ; aimez-les plus encore pour les sacrifices qu’elles nous ont coûtés et qu’elles nous coûteront que pour les richesses qu’elles pourront nous apporter. Préparez-vous à mesurer dans les colonies votre force de dominateur et votre pouvoir de condottiere » exhortait le maréchal Rodolfo Graziani, devenu vice-Roi d’Éthiopie en juin 19363. Guerre coloniale et fasciste, le conflit éthiopien fut pensé comme un temps fort dans la stratégie destinée à créer un « homme nouveau fasciste »4. Soldats et colons étaient invités par le Duce, le maréchal Graziani et les élites fascistes à se comporter en peuple dominateur et impitoyable. Tous les moyens furent bons pour écraser un adversaire aussi mal équipé que déterminé : emploi de gaz asphyxiants, bombardements, massacres de civils, anéantissement des élites5. L’Éthiopie fut le théâtre d’une violence extrême. Soldats et hiérarques expérimentèrent l’hubris guerrière, comme aux meilleurs temps du squadrisme, l’infériorité présumée des indigènes autorisant une cruauté particulière. Dans son journal, l’intellectuel et hiérarque fasciste Giuseppe Bottai déplorait des épisodes de barbarie dont s’étaient principalement rendus coupables des officiers et dirigeants : « Le mouton des classes moyennes devient un petit lion, confondant l’héroïsme et la cruauté »6. Starace, le secrétaire national du parti fasciste, n’avait pas hésité à donner l’exemple, se livrant à des exercices de tir sur des prisonniers tandis que des soldats prenaient la pose près de cadavres ou brandissaint des restes humains comme des trophées.

      En dépit de discours affichant un humanisme à l’italienne, les autorités fascistes ne réprimèrent pas ces pratiques barbares des combattants, jugeant plus important de modifier les comportements sur un autre terrain : celui de la sexualité. Quelques mois après le début des hostilités, les relations des Italiens avec les femmes éthiopiennes devinrent, aux yeux des élites fascistes, une véritable « question » politique et une bataille prioritaire du régime.

      Les Éthiopiennes, obscurs objets de désir

      Préparée par plusieurs décennies d’idéologie nationaliste, la conquête de l’Éthiopie avait suscité de nombreuses attentes au sein de la population italienne. Au désir des plus démunis d’accéder à la propriété foncière s’ajoutaient des motivations plus complexes où se mêlaient confusément, comme dans d’autres contextes coloniaux, exotisme et érotisme. La beauté légendaire des femmes de la région n’était pas pour rien dans l’attrait de cet Eldorado, l’espoir de les posséder apparaissant aussi légitime que la prétention à s’emparer des terres.
      Photographies d’Éthiopiennes forcément dénudées, comme dans la plupart des représentations des femmes africaines jusqu’aux années Trente, romans populaires publicités et chansons avaient aussi contribué, avant et pendant la conquête, à répandre le stéréotype de créatures à la sensualité exacerbée, offertes au plaisir de l’homme blanc7. Dans l’Italie puritaine qui n’autorisait la nudité que dans l’art, les poitrines des Éthiopiennes nourrissaient tous les fantasmes. « Les Italiens avaient hâte de partir. L’Abyssinie, à leurs yeux, apparaissait comme une forêt de superbes mamelles à portée de main » se souvient Léo Longanesi8. Pendant la guerre, de nombreux dessins humoristiques véhiculés par la presse ou des cartes postales opposaient l’image d’un peuple d’hommes arriérés et sauvages et de femmes séduisantes et avenantes9. Dans un registre qui se voulait humoristique, le dessinateur Enrico De Seta, sur une carte intitulée « Bureau de poste », montrait un soldat devant un guichet postal. Il s’apprêtait à expédier un curieux colis : une femme abyssine empaquetée dans une couverture, dont dépassaient la tête et les pieds10 !

      En 1935, la chanson Faccetta Nera, (Petite frimousse noire) avait accompagné les troupes en campagne. Composée d’abord en dialecte romain, la chanson était devenue très populaire dans sa version italienne11. Les paroles étaient à l’image des sentiments complexes des colonisateurs à l’égard des femmes africaines : volonté de possession et de domination, promesse de libération et de civilisation, désir et fascination. « Facetta Nera, Belle abyssine, attends et espère, l’heure est prochaine. Quand nous serons près de toi nous te donnerons une autre loi et un autre roi. Notre loi est esclavage d’amour, notre slogan est liberté et devoir etc. »12.

      L’imaginaire des romanciers ou chansonniers n’était pas sans rapport avec une certaine réalité des rapports hommes femmes en Éthiopie. Tandis qu’en Italie les interdits pesant sur la sexualité des femmes étaient encore très forts, l’Éthiopie offrait aux femmes, surtout aux Amharas, une liberté plus grande, les relations hors mariage n’étant pas frappées d’opprobre comme dans les sociétés catholiques européennes. Non seulement le concubinage était une pratique qui n’était pas réprouvée par l’entourage – le mariage dämòs permettait aux femmes une forme d’union contractuelle temporaire- mais il pouvait s’inscrire, comme l’ont révélé des travaux récents, du point de vue des Éthiopiennes, dans le cadre d’une stratégie d’élévation sociale, voire d’émancipation13. La pratique du madamismo était répandue, en Somalie et en Érythrée, y compris parmi les fonctionnaires et militaires de haut grade14. En Érythrée, le fonctionnaire Alberto Pollera, pour convaincu qu’il fût des bienfaits de la colonisation, et en dépit de ses responsabilités, n’en avaient pas moins six enfants de deux femmes érythréennes15. Comme l’écrit Giulia Barrera : « The madamato was a set of relationships grounded in the material basis of colonialism and shaped by colonial discourse but it was lived out by concrete individuals : by men who participated in very different ways in the colonial enterprise and by women who were note merely passive victims »16.

      Pour les 300 000 pionniers et soldats présents après la conquête, certains subirent, effectivement, le « doux esclavage » mentionné par la chanson. Même quand la fascination n’était pas au rendez-vous, le concubinage s’imposait presque par défaut, représentant « la véritable institution des rapports sexuels sous le colonialisme »17. En dépit de la propagande visant à les attirer, bien peu de femmes de métropole avaient accepté de s’installer sur place, craignant l’insécurité ou des conditions de vie précaire. Peu après la conquête, un navire de 2000 épouses et fiancées fut appareillé à destination de l’Empire18. En 1938, 10 000 Italiennes avaient accepté de participer à l’aventure coloniale, dont la moitié dans la capitale de l’Empire. Le régime avait également cherché à installer des prostituées blanches recrutées dans la péninsule mais, là encore, l’offre était restée largement inférieure à la demande19. Les hommes continuaient de fréquenter assidûment les sciarmute, les prostituées indigènes, que les autorités s’efforçaient contrôler. Parmi les 1500 femmes autorisées à faire le commerce du sexe à Addis Abeba, et contrôlées lors de visites médicales, les autorités distinguaient trois catégories, identifiables à la couleur d’un petit drapeau affiché sur leur tucul, l’habitation traditionnelle : jaune pour les officiers, verte pour les soldats et travailleurs, noir pour les troupes coloniales. Cette prostitution encadrée et hiérarchisée ne couvrait pas davantage les besoins et certains responsables militaires s’indignaient des longues files d’attente devant les bordels indigènes. Restaient enfin les prostituées occasionnelles ou clandestines, présentes sur l’ensemble du territoire.

      Entre l’exploitation sexuelle des indigènes et la chasteté existait toute une gradation de comportements. Le concubinage fut l’un d’entre-eux qui présentait, avant d’être placé hors la loi, de nombreux avantages pour les colons. Avant la conquête de l’Éthiopie, dans les colonies italiennes d’Afrique noire, Somalie et Érythrée, il était fréquent que des fonctionnaires de l’administration coloniale ou des militaires vivent avec des femmes africaines. Les compagnes des Italiens étaient nommées les madame et le concubinage le madamismo. Ces unions donnaient souvent lieu à la naissance d’enfants métis qui eurent la possibilité, à partir de 1933, en vertu de la « Loi organique pour l’Érythrée et la Somalie » d’obtenir la nationalité italienne20. En Érythrée, en 1935, on comptait 1000 métis sur une population de 3500 Italiens21. Pour les colons, la mise en ménage avec des Éthiopiennes, résultait de motivations diverses, parfois concomitantes, qui n’excluaient pas le sentiment amoureux : disposer d’une compagne pour partager le quotidien et les tâches ménagères, disposer d’une partenaire sexuelle stable et plus sûre que des prostituées. Le journaliste Indro Montanelli, enrôlé comme volontaire en Éthiopie à l’âge de 23 ans, fut nommé à la tête d’un bataillon d’indigènes Érythréens. Il dit avoir « acheté » à son père pour 500 lires, une jeune fille de douze ans. Pratique répréhensible en métropole mais diffusée dans les colonies, celle-ci était justifiée en ces termes : « mais à douze ans [en Afrique] les jeunes filles sont déjà des femmes ». À son départ, il revendit la jeune fille « petit animal docile » à un officier de haut rang, lequel disposait déjà d’un « petit harem »22 Selon son témoignage, la jeune fille était musulmane.

      Avant que le racisme ne devînt doctrine officielle du fascisme, les points de vue sur les unions mixtes étaient partagés. Lidio Cipriani s’alarmait du métissage alors que les démographes Corrado Gini ou Domenico Simonelli y voyait une opportunité de régénération des populations européennes et, pour le second, un facteur de peuplement pour les colonies23. Dans la presse coloniale, les unions mixtes n’étaient pas encore dénoncées24. En février 1936, dans l’Illustrazione coloniale, Lorenzo Ratto opposait l’attitude raciste des colonisateurs britanniques à la tradition « romaine » de fraternisation avec les populations vaincues. Réprouvant le métissage avec les « nègres », il admettait les unions mixtes avec les Éthiopiennes, racialement supérieures : « les plus belles filles de race sémitico-éthiopiennes, facilement sélectionnables sur les plateaux éthiopiens pourront être choisies par les pionniers du Génie militaire rural pour faire partie de nos colonies en tant qu’épouses légitimes (…) »25.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure de L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      « Éloge des femmes italiennes » discours prononcé le 8 mai 1936, in B. Mussolini, Édition définitive des œuvres de B. Mussolini, ed. Flammarion, vol. XI, 1938, p. 69-71. [↩]
      Voir G. L. Mosse, L’image de l’homme. L’invention de la virilité moderne, Pocket, Agora, p. 179-203. B., Spackman, Fascist Virilities : Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, 1996. [↩]
      Cité par F. Le Houérou, L’épopée des soldats de Mussolini en Abyssinie. 1936-1938. Les ensablés, L’Harmattan, 1994, p. 50. [↩]
      M.-A. Matard-Bonucci, P. Milza, L’Homme nouveau entre dictature et totalitarisme, Fayard, 2004. [↩]
      A. Sbacchi, Legacy of Bitterness. Ethiopia end fascist Italy, 1935-1941, The Read Sea Press, 1997. Voir en particulier le chapitre 3, “Poison gas and atrocities in the Italo-Ethiopian War, 1935-1936”, p. 55-85. A. Del Boca (dir.) , I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori riuniti, 1996. G. Rochat, « L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-1937 », in Italia contemporanea, 1975, n. 118, pp. 3-38. Plus généralement, voir l’œuvre considérable d’A. Del Boca, de R. Pankhurst. Voir aussi A. Mockler, Haile Selassie’s war : The Italian Ethiopian campaign, 1936-41, Oxford University Press, 1984, rééd. Grafton Books, 1987. [↩]
      G. Bottai, Diario 1935-1944, Ed . Bur, 2001, p. 102, note du 16 mai 1936. [↩]
      Sur la littérature coloniale : G. Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palerme, Sellerio, 1984. R. Bonavita, « Lo sguardo dall’alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali nella narrativa esotica », in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologne, 1994, p. 53-62. [↩]
      Cité par A. Petacco, Faccetta nera, Mondadori, ed. 2008, p. 191. [↩]
      Voir les vignettes reproduites dans le catalogue La Menzogna della Razza, p. 156-157. Sur l’iconographie coloniale : A. Mignemi., Immagine coordinata per un impero, GEF, 1984, Novara. G. Campassi, M.-Teresa Sega, « Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale » in Rivista di storia e teoria della fotografia, vol. 4, n° 5, 1983, p. 54-62. [↩]
      L. Goglia, « Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-1936 : il negro nemico selvaggio e il trionfo della civiltà di Rome » dans le catalogue de l’exposition La menzogna della Razza, cit. p. 27-40. L’image décrite est située dans le catalogue, à la p. 175. [↩]
      S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, GLF, Editori Laterza, Bari-Laterza, 2007, p. 161-162. [↩]
      Le texte de la chanson est publié par A. Petacco, op. cit., p. 189-190. [↩]
      Après avoir été ignorée dans leur dimension raciste et sexiste, les relations hommes-femmes ont été analysées en privilégiant la clef de lecture de l’oppression coloniale puis du genre. Voir G. Campassi, « Il madamato in Africa orientale : relazioni tra italiani e indigene come forma di agressione coloniale » in Miscellanea di storia delle esplorazioni, Genova, 1987, p. 219-260. Giulia Barrera, dans une étude pionnière, se place du point de vue des femmes érythréennes livrant une vision plus complexe des rapports de genre dans ce contexte : G. Barrera, Dangerous Liaisons, Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, PAS Working Paper, Program of african Studies, Northwestern University, Evanston Illinois, USA, 1996. [↩]
      Carlo Rossetti « Razze e religioni nei territori dell’Impero », L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, Rome, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. L’auteur était le chef du Bureau des études du Ministère de l’Afrique italienne. [↩]
      B. Sorgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Torino, Bollato Boringhieri, 2001. [↩]
      G. Barrera, Ibid., p. 6. [↩]
      Voir A. Gauthier, “Femmes et colonialisme” in M. Ferro (dir.), Le livre noir du colonialisme. XVIe-XXIe siècle : de l’extermination à la repentance, Poche, Pluriel, Hachette, 2006, p. 759-811. La citation est à la p. 802. Voir également A.-L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power : Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley : University of California press, 2002. [↩]
      Article de Carlo Rossetti, Capo dell’Ufficio studi del Ministero dell’Africa italiana, « Razze e religioni eni territori dell’Impero », in L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. [↩]
      Sur la prostitution, A. Del Boca, La caduta cit. p. 244-245. Pankhurst, R. « The history of prostitution in Ethiopia », Journal of Ethiopian Studies, 12, n° 2, p. 159-178. [↩]
      À condition, disait le texte de loi, que les intéressés « se montrent dignes de la nationalité italienne par leur éducation, culture et niveau de vie ». Loi du 6 juillet 1933, n° 999. [↩]
      Chiffre cité par A. Del Boca, op. cit., p. 248. [↩]
      Le témoignage de I. Montanelli est cité par E. Biagi in 1935 e dintorni, Mondadori, 1982, 58-61. [↩]
      Sur C. Gini, M.-A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste op. cit., p. 74-75. D. Simonelli, La demografia dei meticci, 1929. [↩]
      Avant la guerre d’Éthiopie, on ne trouve pas de textes dénonçant les méfaits du métissage dans la presse coloniale. Voir le mémoire de maîtrise inédit de F. Marfoli, La vision des Éthiopiens sous le fascisme : étude de quatre revues coloniales italiennes, dir. O. Dumoulin, Université de Rouen, sept-oct 2001. [↩]
      Illustrazione coloniale, Fev. 1936, n.2, « Metodo romano per colonizzare l’Etiopia ». [↩]

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      PARTIE 2
      La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une sexualité sur ordonnance (2), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      Le spectre du #métissage

      La proclamation de l’Empire représenta un tournant dans l’histoire du racisme et de la doctrine fasciste. Jusque-là, la domination des Italiens sur les populations coloniales s’était traduite par un racisme colonial assez banal. En Libye, aucune législation sur le métissage n’avait été adoptée et les Arabes étaient autorisés à fréquenter les bordels des Européens. À une économie propre au racisme qui valorisait les populations arabes par rapport aux habitants d’Afrique noire s’ajoutaient des facteurs objectifs limitant les risques de procréation des couples mixtes : les femmes italiennes y étaient plus nombreuses et les mariages « à court terme » n’existaient pas1.

      Dans la radicalisation raciste de l’été 1936, il est difficile de savoir si la question sexuelle fit office de catalyseur ou servit de révélateur. Mussolini était ulcéré depuis longtemps par l’idée même des couples mixtes. En avril 1934, il avait exigé de retirer de la circulation le roman Amour noir : « Il s’agit des amours d’un Italien avec une négresse. Inadmissible de la part d’une nation qui veut créer un Empire »2. Deux jours après la proclamation de l’Empire, le chef du gouvernement ordonna à Badoglio et Graziani de n’autoriser aucun Italien civil ou militaire à rester plus de six mois sans femme en Éthiopie pour prévenir « les terribles et prévisibles effets du métissage »3. Échafaudant de grands projets d’expansion économique pour l’Empire, Mussolini avait expliqué, à la même époque, au baron Aloisi, chef de cabinet du Ministère des affaires étrangères, son intention d’y envoyer « beaucoup d’Italiens, mais avec l’obligation d’emmener leurs femmes, car il faut absolument éviter le danger d’une race de métis qui deviendraient nos pires ennemis »4. En juin 1936, Facetta Nera tomba en disgrâce peu après avoir subi les assauts du journaliste à succès, Paolo Monelli. Dans un article intitulé « Donne e buoi dei paesi tuoi », et peut-être écrit sur ordonnance, il mettait au défi l’auteur de la chanson de partager quelques jours de l’existence d’une « facetta nera », « une de ces abyssines crasseuses, à la puanteur ancestrale qui puent le beurre rance qui dégouline à petites gouttes dans le cou ; détruites dès l’âge de vingt ans par une tradition séculaire de servage amoureux et rendues froides et inertes dans les bras de l’homme ; pour une beauté au visage noble cent ont les yeux chassieux, les traits durs et masculins, la peau variolée »5. La plume haineuse vitupérait le romantisme à l’eau de rose de la chanson et dénonçait l’incitation à fréquenter les « petites négresses puantes », qui conduisait au métissage et au « délit contre la race ». En rupture avec le climat de badinage et de libertinage qui avait accompagné la conquête de l’Éthiopie, l’article était en phase avec l’évolution idéologique de l’époque. En novembre 1936, devant le Grand Conseil du fascisme Mussolini affirma la nécessité « d’affronter le problème racial et de l’introduire dans la littérature et la doctrine fascistes »6.

      À cette date, la constitution d’un corpus de littérature et de propagande raciste était en bonne voie. Depuis plusieurs mois, le roman d’aventure de la conquête coloniale occupait les pages des journaux. À partir de mai 1936, s’insinua bientôt la figure d’épouvante du métis, en métropole comme dans les colonies, dans les feuilles fascistes comme dans la presse dite d’information7. Non seulement le métissage portait atteinte au prestige de la race mais le métis était présenté tantôt comme un délinquant en puissance, tantôt comme un malheureux. Un haut fonctionnaire du Ministère de l’Afrique italienne brossait un tableau assez sombre : « On a assez vu, en Érythrée et en Somalie, des officiers et fonctionnaires, parfois de grade élevé, vivre maritalement avec des femmes indigènes donnant naissance à une catégorie d’infortunés ; leur paternité italienne n’empêchait pas, une fois le père rentré en métropole, et si les missionnaires n’intervenaient pas, qu’il vive son adolescence dans le milieu de la race maternelle. Ces malheureux étaient évités par les Blancs et méprisés par les Indigènes8.

      Pour la bataille de la race on fit appel à des racistes patentés tels Lidio Cipriani, lequel agitaient depuis le début des années Trente l’épouvantail du métissage entre races supérieures et inférieures9. Ses multiples expéditions « du Cap au Caire » l’avaient imposé comme spécialiste des populations africaines, par des reportages dans des journaux grand public et dans l’Illustrazione italiana10. En 1937, il devint le directeur de l’Institut et du musée d’anthropologie de Florence, l’un des plus renommés d’Italie. Il s’imposa comme l’un des acteurs de premier plan de la croisade contre le métissage jouant un rôle important dans la principale revue du racisme militant, La Difesa della razza, lancée à l’été 193811. Il mit à la disposition de la revue ses collections de photographies des populations africaines12.

      La Difesa della Razza excella dans l’invention de procédés de photomontages destinée à matérialiser visuellement le métissage. Un quart des couvertures interpellait les lecteurs sur ce thème. L’une d’entre elles montrait l’addition d’un faciès de femme blanche et d’homme noir dont il résultait un masque grotesque. Une autre accolait une tête de blanche et d’Africain : de cet étrange Janus, surgissait une tête de mort édentée. Deux mains, l’une blanche, l’autre noire s’enlaçaient laissant choir une fleur fanée. Plus classique, la couverture de mai 1940, mettait en présence une Ève africaine offrant le fruit défendu à un « aryen ». Un cactus, au premier plan signalait, une fois encore, le danger de la fusion des races13.Le Parti fasciste suscita sa propre littérature sur le sujet. En 1939, parut Le problème des métis sous l’égide de l’institut fasciste de l’Afrique italiennes14. « Dieu a créé les blancs, le diable les mulâtres » pouvait-on lire en exergue15. En Afrique, le Parti fasciste fit campagne pour changer les mentalités. Guido Cortese, secrétaire du faisceau d’Addis Abeba, interprétait fidèlement le nouveau cours politique16 : « Le folklore, celui des nus, des pleines lunes, des longues caravanes et des couchers de soleil ardents, des amours folles avec l’indigène humble et fidèle, tout cela représente des choses dépassées, qui relèvent du roman de troisième ordre. Il serait temps de détruire tout de suite les romans, illustrations et chansonnettes de ce genre afin d’éviter qu’ils donnent naissance à une mentalité tout autre que fasciste ».

      Réformer les pratiques sexuelles des Italiens dans l’Empire

      Le 19 avril 1937, un décret-loi fut adopté pour sanctionner les rapports « de nature conjugale » entre citoyens italiens et sujets de l’Empire, passibles de un à cinq ans de prison17. La loi frappait les Italiens seuls et non les sujets de l’Empire – une situation qui serait bientôt considérée comme injuste par certains fascistes qui réclameraient un durcissement de la loi18. Avec les mesures pour la défense de la race qui installèrent l’antisémitisme d’État à l’automne 1938, la question était affrontée dans le cadre de la partition entre citoyens, ou non, de race italienne. Les juifs, comme les sujets de l’Empire, n’appartenaient pas à la race italienne. Dans ce cadre, les mariages entre individus de race différente étaient interdits : même si elle s’appliquait à l’Empire, la loi visait principalement les unions mixtes impliquant des juifs, très fréquentes, alors que celles-ci prolongeaient rarissimement une situation de madamismo.

      Dans l’Empire les troupes d’occupation et les colons pouvaient continuer à fréquenter les maisons closes et les très nombreuses prostituées africaines, les sciarmute19. En juin 1939, une nouvelle loi précisait et aggravait la précédente, la répression des couples mixtes et du métissage s’intégrant dans un texte plus large de défense du prestige de la race20. Tout délit, quel qu’il fût, était passible d’une peine plus lourde (un quart à un tiers) s’il y avait atteinte au prestige de la race italienne, ou lorsqu’il était commis en présence d’un indigène ou en complicité avec celui-ci. La loi reconduisait les dispositions de 1937 sanctionnant les relations de nature conjugale entre Italiens et sujets de l’Empire mais une disposition nouvelle marquait le franchissement d’un seuil dans la lutte contre le métissage. L’article 11, « Inchiesta relativa ai meticci » invitait les Procureurs à diligenter une enquête, en présence d’un enfant métis, probablement conçu après l’entrée en vigueur de la loi d’avril 1937. Le texte annonçait (art 20, Meticci) des dispositions à venir concernant la position des métis dans l’Empire. En mai 1940, de nouvelles dispositions assimilaient les métis à des sujets africains, interdisant aux pères italiens de les reconnaître. À l’instar des mesures antisémites, les lois coloniales ignoraient le statut de métis, par crainte sans doute que l’invention d’une catégorie juridique n’installe durablement le phénomène.

      La répression s’exerça de plusieurs façons. Plusieurs officiers furent rapatriés en métropole et parfois radiés des cadres de l’armée21. S’agissant des civils, il incombait à la police et à la justice de mettre un terme à des agissements qualifiés par le Duce de « scandaleux » et de « criminels ». Une « police » du madamismo était habilitée à distribuer des « billets jaunes » de mise en garde22.

      Plusieurs procès furent attentés à des Italiens pour réprimer le délit de madamismo23. Un premier jugement fut rendu en septembre 1937. Plusieurs dizaines d’autres procès suivirent devant les tribunaux d’Addis Abeba, Asmara, Gondar, Harar. Le nombre de procès peut sembler anecdotique en regard d’un phénomène qui concernait plusieurs milliers d’individus. Mais les textes des décisions de justice sont cependant riches d’enseignements quant à la façon dont les juges interprétaient la loi. La difficulté consistait dans l’établissement du délit, avec ce que cela supposait d’atteintes à la vie privée des individus. Confronté à un premier procès pour madamismo, en novembre 1938, le Tribunal de Gondar admettait la difficulté à juger en regard du caractère récent de la jurisprudence constituée. Il résumait efficacement la ligne de conduite suivie par les juges dans la plupart des procès : « Compte-tenu des jugements rendus par les autres Tribunaux de l’Empire, ce Tribunal entend diriger l’enquête vers la recherche des preuves matérielles telle que la vie commune menée pendant un certain temps et caractérisée par des rapports sexuels réitérés ; il s’agit aussi de déceler, sur le plan moral ou psychique, les éléments attestant d’un lien spirituel particulier qui ressemble d’une façon ou d’une autre à notre affectio maritalis24. À l’évidence, le fait d’avoir des relations sexuelles avec des Africaines n’était pas en cause. Plusieurs sentences laissaient transparaître la compréhension des juges à l’égard des « besoins sexuels » des expatriés, de la nécessité d’un « défoulement physiologique ». Les rapports sexuels occasionnels avec une domestique dès lors qu’elle ne vivait pas sous le même toit n’étaient pas condamnés25.

      Le sexe était toléré avec les indigènes pourvu qu’il fût dénué de tout affect. Dans une affaire de madamismo, les juges de Gondar estimaient que l’accusé -que son attachement manifeste à la femme accablait- n’aurait pas été coupable « s’il s’était servi de la femme seulement comme prostituée en lui payant le prix d’accouplements occasionnels puis en la congédiant après avoir satisfait ses besoins sexuels »26. En dépit de l’affichage d’un tel cynisme, certains juges prétendaient imposer une morale dans le commerce sexuel entre homme blancs et femmes noires, s’indignant parfois des pratiques de certains colons27. Deux Italiens furent ainsi condamnés pour atteinte au prestige de la race, pour avoir partagé une seule chambre à coucher avec deux Éthiopiennes. « Sans nul doute, l’acte sexuel accompli en présence de tiers offense la pudeur et dénote une pudeur inférieure à celle qui existe chez les peuples civilisés, et en particulier au sein du peuple italien du fait de la conjonction heureuse des principes du fascisme et des enseignements moraux du catholicisme. Cela est d’autant plus répréhensible si l’on tient compte de la réserve notoire des femmes indigènes en matière de sexualité. »28

      Comment statuer sur l’existence de rapports sexuels dès lors qu’ils n’étaient plus « de simples échanges destinés à assouvir une pulsion physique »29. Comment établir la réalité d’une relation de nature conjugale ? La cohabitation prolongée constituait donc une présomption importante qui ne fut pas toujours considérée comme suffisante pour l’établissement des faits. Le caractère passionnel de certaines relations était considéré comme preuve de culpabilité. Quelques procès avaient été motivés par des plaintes de femmes contre la violence dont elles avaient été victimes30. La violence contre les femmes n’intéressait pas les juges en tant que telle mais en ce qu’elle révélait une dépendance affective des accusés, en proie à la jalousie. Plusieurs affaires trahissaient le manque de confiance des Italiens à l’égard de leurs compagnes31. Les recommandations de fidélité sexuelle étaient prises pour l’aveu d’une affection coupable. Les cadeaux étaient considérés comme des indices à charge : le caractère utilitaire de certains présents pouvait être plaidé mais ceux qui n’étaient manifestement destinés qu’à faire plaisir, enfonçaient les accusés32. Tous les éléments « à charge » étaient réunis dans une affaire jugée en septembre 1939. Une Africaine avait été embauchée pour 150 lires par mois comme domestique par un homme dont elle partageait le couvert et la couche. L’homme était subjugué par cette femme au point de vanter ses qualités dans son entourage, de lui offrir des parfums. Il était allé la rechercher quand elle l’avait abandonné pour épouser un « homme de sa race ». Pour les juges, la culpabilité était flagrante : « Cohabitation, table commune, confiance et tendresse, jalousie réciproque, cadeaux de coquetterie et non utilitaires font de la petite servante une compagne de vie, ce qu’est justement l’épouse »33. Les marques de tendresse ou d’attention particulière à l’égard des indigènes étaient particulièrement suspectes : raccompagner une femme chez elle le soir, la désigner comme sa femme34, lui rendre visite lorsqu’elle était malade35.

      « L’affection », la passion qualifiée parfois « d’enivrement » étaient en revanche répréhensibles. Le mot « amour » n’était jamais employé, tant les juges considéraient cette éventualité comme improbable ou inconvenante. En janvier 1939, un homme fut condamné à un an et demi de prison pour madamismo. Facteur aggravant, l’homme avait avoué aimer la femme indigène36. Il avait admis lui avoir fait des cadeaux, à elle et à sa mère. Espérant fonder un foyer, il avait préparé une lettre au Roi pour demander à l’épouser. Les juges diagnostiquaient un cas « macroscopique d’ensablement »37, « car ici, le blanc ne désire pas simplement la Vénus noire en la tenant à ses côtés pour des raisons de tranquillité et pour bénéficier de rapports faciles et sûrs mais c’est l’âme de cet Italien qui est troublée ; il est entièrement dévoué à la jeune noire qu’il veut élever au rang de compagne de sa vie et qu’il associe à tous les évènements, y compris hors sexualité, de sa vie38. »

      La lutte contre le métissage inaugura bien, sur le plan juridique, la mise en œuvre d’un racisme biologique fondé sur le principe de la pureté du sang. En ce sens, elle marquait un changement radical dans les conceptions qui avaient prévalu jusque-là en matière de citoyenneté et d’identité, dans l’Empire comme en métropole. Toutefois, ces mesures furent adoptées pour répondre à une question de gouvernance coloniale locale : il n’était pas encore question d’une politique globale de la race -à aucun moment, des mesures analogues ne furent envisagées pour prévenir les métissages arabo-italiens en Libye, autre importante colonie de peuplement italienne- ni de mesures visant les juifs39.

      La partie qui se jouait en Éthiopie concernait autant l’Italie que la corne de l’Afrique. Le front pionnier de l’Empire ramenait sur le devant de la scène les projets de révolution anthropologique et de construction de l’homme nouveau et les difficultés à les mettre en œuvre.

      Sexe, race et totalitarisme fasciste.

      Une fois l’Empire proclamé, le rêve colonial et l’utopie fasciste de l’homme nouveau se trouvèrent en contradiction, non sur le terrain de la violence mais sur celui de la sexualité. Objets de désir, d’abord instrumentalisées par la propagande, les « Vénus noires » furent bientôt diabolisées, leur fréquentation n’étant autorisée que dans le cadre d’une relation proscrivant tout affect. En organisant la prostitution en terre coloniale, le fascisme heurtait la morale en usage dans la péninsule, suscitait la réprobation du Vatican, mais se comportait comme la plupart des puissances coloniales confrontées à la demande sexuelle des troupes en campagne40.

      En revanche, en menant la lutte contre le madamismo à un niveau d’État, le fascisme se singularisait par une démarche fusionnant racisme et totalitarisme, la doctrine de la race venant au secours du projet de révolution anthropologique du régime. D’un côté, en traquant le concubinage des Italiens et des Africaines, les responsables fascistes cherchaient à prévenir le métissage au nom de conceptions racistes qui n’étaient guère originales en contexte colonial41. Mais le régime pourchassait aussi d’autres démons, les défauts supposés d’un peuple que le Duce voulait transformer : le sentimentalisme, un certain humanisme et des comportements jugés aux antipodes de la virilité fasciste.

      Dans la métropole, la volonté d’orienter les comportements affectifs et sexuels était à l’œuvre depuis plusieurs années. La famille et la procréation devaient borner l’horizon amoureux des Italiens. Dans cette perspective, l’homosexualité -masculine seulement- fut réprimée par le code pénal de 1931. En décembre 1926 une taxe sur le célibat fut adoptée, les célibataires ne cessant par la suite d’être montrés du doigt et pénalisés, par exemple dans leur carrière lorsqu’ils étaient fonctionnaires. Paolo Orano intellectuel proche du pouvoir assimilait le célibat à une forme « de fuoruscitismo » civil et social42.

      S’agissant du couple, il n’était guère besoin de légiférer sur les rapports hommes femmes tant la domination des premiers allait de soi. Toutefois, certains fascistes rêvaient aussi de marquer les relations amoureuses au sceau du totalitarisme fasciste. Dès 1915, le nationaliste Giovanni Papini, l’une des sources d’inspiration du fascisme, recommandait dans Maschilità de se libérer de la famille, du romantisme et de l’amour, opposant les femmes et hommes, le miel et la pierre, et dénonçant l’amour comme un asservissement43. Pour un régime qui érigeait la famille en absolu et qui s’appuyait sur l’Église pour gouverner, il semblait difficile, après 1922, de souscrire à la totalité de ce programme. Paolo Orano proposait une voie de compromis étant entendu que sous le fascisme, « L’État entre avec méthode et énergie au cœur de la moralité individuelle et domestique, car il est le maître de la vie sociale ». Il convenait de se libérer de l’idée bourgeoise suivant laquelle l’amour devait précéder le mariage et en finir avec les illusions romantiques et égoïstes de l’amour comme fin en soi. Le couple devenait une forme d’association tendue vers la procréation dont l’amour était une conséquence et non un préalable44.

      Cette philosophie des rapports homme femme inspira la politique fasciste en Éthiopie. L’éloignement, de plus fortes contraintes pour les hommes dans un contexte de guerre puis d’occupation permettaient, en théorie, de contrôler plus efficacement les comportements amoureux. Dans l’économie licite des pratiques sexuelles deux solutions s’offraient aux soldats colons fascistes, célibataires par force : la chasteté, le colonisateur cédant la place à une forme de moine soldat, ou la pratique d’une sexualité déconnectée de tout sentiment.

      Ceux qui firent le premier choix furent une minorité. Certains hommes mariés mirent un point d’honneur à résister à la tentation du sexe qui « était au cœur de toutes les préoccupations »45. Brandissant l’étendard de la fidélité au mariage, ils justifiaient l’obligation de chasteté et la frustration sexuelle par la morale, les valeurs du catholicisme, la loi fasciste et une répulsion d’ordre raciste46. Laissant femme et enfants dans la péninsule, Nicola Gattari était venu en Éthiopie comme soldat et y était resté pour se faire une situation, comme patron de camion. Dans certaines lettres adressées à sa femme bien-aimée, il abordait ce sujet délicat47 « Je suis un homme jeune plein de désirs mais qui peut les satisfaire ? Ces femmes noires puantes auprès de qui des milliers d’hommes de tous les âges contractent des infections ? Non, ma chérie, ton Nicola reviendra comme il est parti, je te le jure (…) Pense à nos retrouvailles, comme notre étreinte sera belle ! » Répondant à son épouse qui lui avait demandé, sans trop y croire, s’il était tombé amoureux d’une petite noire, il réaffirmait sa constance : … « Oui, je passerai peut-être pour un imbécile par rapport à d’autres et je dois admettre que ma volonté de rester fidèle aux liens sacrés du mariage doit être le fait d’un résident sur mille en Afrique. Si je me suis amouraché d’une petite négresse ? Je pourrais te répondre que pour conquérir une de ces pouilleuses il n’y a pas besoin d’être amoureux car ce sont des filles faciles : 5 lires suffisent et l’affaire est conclue ».

      La prostitution constituait donc une porte de sortie. Celle-ci ne bloquait pas nécessairement l’appel du concubinage, le passage de la condition de sciarmutta à celle de madama étant fréquente chez les femmes éthiopiennes48. En allant inspecter les chambres à coucher, en suscitant les confessions intimes lors des procès, l’État avait, en effet, pénétré « au cœur de la moralité individuelle et domestique ». De trop nombreuses barrières rendaient l’entreprise difficile dans la métropole : elle fut tentée, au nom de la lutte contre le métissage, dans l’Empire. Par leurs recommandations concernant les échanges avec les indigènes, les juges inventaient un idéal-type, celui d’une sexualité émancipée de tout sentiment, ramenée en définitive, à la « masculinité » exaltée par Papini.

      Quel fut l’impact des procès et des condamnations qui en résultèrent ? Le traitement judiciaire de la question permit aux juges de montrer leur zèle fasciste. Les sentences des procès furent autant de leçons de racisme et de fascisme, infligées peut-être surtout pour l’exemple à des hommes de milieux modestes49. En infligeant une peine d’un an et demi de prison à un prévenu manifestement amoureux d’une Éthiopienne le juge prétendait lui « éclaircir les idées »50.La répression installa un climat de peur parmi certains colons, à en juger par les comportements des couples qui se cachaient et d’amants qui se réunissaient une fois la nuit tombée51.

      En janvier 1939, l’anthropologue raciste Lidio Cipriani, était modérément optimiste : « Malheureusement l’obscénité des rapports sexuels entre Blancs et indigènes continue, mais il semblerait que les mesures racistes aient conduit à une diminution sensible des cas de fécondation indésirables … Il est probable que le blanc commence désormais à se rendre compte de l’inconvénient qu’il y a à s’abandonner sans vergogne à une femme de couleur »52. Toutefois, la plupart des témoignages invitent à penser que la loi contre le madamismo ne fut guère respectée, y compris par ceux qui devaient imposer l’ordre fasciste, et notamment les carabiniers53. En Érythrée, on dénombrait 10 000 les femmes africaines vivant avec des Italiens en 1935 et 15 000 en 194054.

      La question du sexe et du métissage, comme d’autres mesures destinées à réformer les comportements en profondeur traçait les limites de l’emprise fasciste sur les esprits et de sa capacité à façonner les mœurs.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure deL’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      C. Ipsen, Demografia totalitaria, Il Mulino, p. 256. [↩]
      Propos rapporté par le Baron Pompeo Aloisi, chef de cabinet du ministre des affaires étrangères à partir de juillet 1932 : Journal (25 juillet 1932-14 juin 1936), Plon, Paris, 1957, p. 185. [↩]
      Télégramme de Mussolini à Badoglio et Graziani, in La menzogna cit., p. 20. [↩]
      B Aloisi, Journal, cit., p. 382. La conversation est datée du 8 mai. [↩]
      L’article parut dans La Gazzetta del popolo de Turin, le 13 juin 1936. [↩]
      G. Bottai, Diario 1936-1943, op. cit., p. 115. 19 novembre 1936. Rien ne prouve qu’à cette date, Mussolini songeait aussi à l’antisémitisme. [↩]
      La presse coloniale fut particulièrement mobilisée : en janvier 1940, Africa italiana sortait un numéro spécial « Discipline et tutelle des races dans l’Empire ». Un mois plus tard, la même revue traitait du rôle de la femme italienne dans l’Empire. [↩]
      C. Rossetti, Ibid. [↩]
      L. Cipriani, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, 1932. Sur le personnage, voir : R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 161-163. [↩]
      In Africa, dal Capo al Cairo est le titre du livre publié en 1932, Florence, Bemporad. [↩]
      Sur le rôle de cette revue dans le dispositif propagandiste raciste, M. A. Bonucci, L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Perrin, 2007. [↩]
      P. Chiozzi, “Autoritratto del razzismo : le fotografie di Lidio Cipriani in La menzogna della razza, cit., p. 91-94. [↩]
      Les couvertures évoquées sont respectivement celles des numéros : A. III, 14-20/05/40
      A. III, 11- 5/04/40 ; A. IV, 3-5/12/40 ; A. III, 8-20/02/1940. [↩]
      G. Masucci, Il problema dei meticci, Istituto Fascista dell’Africa italiana, 1939, XVII. [↩]
      Un compte-rendu figure dans Razza e Civiltà, A. I, n°1, 23 mars 1940, p. 107. [↩]
      G. Cortese, Problemi dell’Impero, Pinciana, Rome, 1937. Cité in F. Le Houerou, op. cit., p.95. [↩]
      Décret-Loi (RDL) du 19 avril 1937, n°880, « Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi » [↩]
      Voir la position de Giovanni Rosso, « Il reato di madamismo nei confronti dell’indigena che abbia una relazione di indole coniugale con un cittadino italiano » in Razza e Civiltà, An I, n°1, p. 131-139. [↩]
      Voir A. Del Boca, La caduta dell’Impero, op. cit., p. 243-245. [↩]
      RDL n°1004 du 29 juin 1939. [↩]
      A. Del Boca évoque plusieurs cas, in La caduta cit. , p. 246-247. [↩]
      F. Le Houerou, op. cit., p. 95. [↩]
      La Revue Razza e Civiltà, publiée à partir de mars 1940 : il s’agissait de l’organe du Conseil Supérieur et de la Direction générale pour la Démographie et la race. Dans le cadre de la rubrique « Giurisprudenza e legislazione razziale » a publié de nombreux extraits des décisions judiciaires. Les analyses présentées ci-dessus se fondent sur l’analyse de 28 cas présentés par la revue. La moitié conclut au délit de madamismo ou d’atteinte à la dignité raciale. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Président Maistro, Accusé Spano. RC, An I, n.1 p. 128-131. [↩]
      Sentence du 7 février 1939, accusé Venturiello, Pres. Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Accusé Spano, Président Maistro RC, An I, n.1 p. 1p. 130. [↩]
      Voir Sentence de la Cour d’Appel d’Addis Abeba, 4 avril 1939, accusé Isella, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 552. [↩]
      Sentence du 21 décembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusés Lauria et Ciulla, Pres. Morando, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Accusé Melchionne, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. « I congressi carnali perdono il carattere d’incontro a mero sfogo fisiologico ». [↩]
      Ainsi, le procès contre G. Spano a été suscité par une plainte de sa concubine auprès des carabiniers. Sentence du tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, RC, An I, n°1, p. 128. [↩]
      Cour d’Appel d’Addis Abeba, Sentences du 31 janvier 1939, Accusé Seneca, Pres Guerrazzi ; 3. janvier 1939 Accusé Marca, Pres. Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548 et 551. [↩]
      Des cadeaux sont mentionnés dans plusieurs affaires. [↩]
      Sentence du 5 septembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Fagà, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 547. [↩]
      Sentence du 14 février 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Autieri, Pres Carnaroli , RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Giuliano, Pres Carnaroli RC, A. I, n°5-6-7, p. 550. [↩]
      L’expression utilisée est « volerle bene ». [↩]
      On désignait comme insabbiati, « ensablés », les hommes restés vivre en Éthiopie, souvent aux côtés d’une Africaine. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Seneca, Pres Guerrazzi , RC, A. I, n°5-6-7, p 548-549 [↩]
      Outre que le métissage semblait inspirer moins de crainte s’agissant des Arabes que des populations d’Afrique noire, des raisons tenant au contexte proprement libyen expliquent un tel choix : présence plus nombreuse de femmes italiennes en Libye ; statut différent du mariage dans ce pays par rapport à l’Éthiopie. Cf. C. Ipsen, op. cit, p. 256. [↩]
      Au demeurant, en métropole aussi, le fascisme avait une politique visant à contrôler la prostitution sans l’interdire définitivement. Sur la duplicité du gouvernement italien qui réprima la présence de prostituées dans la rue et mais la tolérait dans des bordels soumis à un contrôle policier et sanitaire : V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Tascabili Marsili, p. 73-74. [↩]
      V. Joly écrit : « Les amours exotiques doivent être éphémères. Les femmes indigènes ne sont que des substituts qu’imposent la solitude et l’éloignement de la promise qui attend en métropole, simple rêve parfois. Elles ne doivent pas plus être sentimentales tant est vive la crainte du « métissage » affaiblissement pour la race du vainqueur », in « Sexe, guerre et désir colonial » in F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman, Amours, guerres et sexualité 1914-1945, Gallimard, BDIC, 2007, 62-69. [↩]
      La formule est de Paolo Orano in « Famiglia, razza, potenza », Il fascismo, vol. II, Pinciana, Rome, XVIII, p. 391-429. Le fuoruscitismo désignait l’exil antifasciste. [↩]
      Maschilità, Firenze, Libreria della Voce, 1915. [↩]
      P. Orano, Ibid. [↩]
      A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, La caduta dell’Impero, Rome-Bari, Laterza, 1982, p. 243. [↩]
      A. Del Boca donne quelques exemples parmi lesquels celui du Résident de Bacco ou encore le témoignage d’un Consul de la Milice. Ibid. p. 250. [↩]
      Ces lettres ont été publiées par S. Luzzatto, La strada per Adis Abeba. Lettere di un camionista dall’Impero (1936-1941), Paravia. Scriptorium, 2000 : Les citations sont aux pages 85 et 144. [↩]
      G. Barrera, op. cit. p. 26. [↩]
      Les sentences des procès ne permettent pas toujours de connaître la profession des accusés. Reste que l’impression dominante est celle de procès attentés à des hommes de condition modeste, issus du prolétariat ou d’une basse classe moyenne. Sur la sociologie des colons éthiopiens, F. le Houérou, op. cit., p. 115-135. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusé Seneca, Président Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548-549. [↩]
      Autant qu’on puisse en juger par les allusions contenues dans certaines sentences à la crainte de perquisitions de la police pendant la nuit pour constater le délit. [↩]
      Archivio Centrale dello Stato (Rome) MCP, Gab., b. 151, lettre du 18/01/1939. Dans une autre lettre de l’hiver 1939, à une époque où il propose, il est vrai, ses services comme « consulente razziale nell’Impero », Cipriani revient sur la question (Lettre de Cipriani à Landra du 31/01/39, in ACS, MCP, Gab., b. 151). [↩]
      F. Le Houérou a recueilli 35 témoignages dont la plupart émanent des « ensablés », les Italiens restés sur place souvent après avoir vécu avec une Madama. Par sa nature, la population interviewée amplifie peut-être la réalité du phénomène. Voir en particulier, op. cit. p. 97-105. [↩]
      Chiffres cités par G. Barrera, op. cit., p. 43. [↩]

      http://dormirajamais.org/conquete-2

      via @olivier_aubert à qui je dis #merci (@olivier_aubert —> j’ai déplacé la référence ici, car plus appropriée qu’ici : https://seenthis.net/messages/972185)

      #femmes #stéréotypes #caricature #dessin_de_presse #passion #condottiere #squadrisme #désir #Faccetta_Nera #imaginaire #Amharas #concubinage #mariage_dämòs #union_contractuelle_temporaire #madamismo #Somalie #Erythrée #Ethiopie #doux_esclavage #rapports_sexuels #sciarmute #prostitution #bordels #exploitation_sexuelle #Loi_organique_pour_l’Erythrée_et_la_Somalie #Indro_Montanelli #racisme #fascisme #unions_mixtes #Difesa_della_Razza #photographie

  • Mort de #Blessing, 20 ans, à la frontière : un témoin sort de l’ombre pour accuser les gendarmes

    La Nigériane #Blessing_Matthew a été retrouvée noyée dans les Alpes en 2018, après que des gendarmes ont tenté de l’interpeller. Alors qu’un non-lieu a été prononcé, un témoin clé parle aujourd’hui pour la première fois et met en cause les forces de l’ordre. Mediapart l’a rencontré. Une sœur de Blessing et l’association Tous migrants demandent la réouverture du dossier. Révélations.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/300522/mort-de-blessing-20-ans-la-frontiere-un-temoin-sort-de-l-ombre-pour-accuse
    #décès #morts_aux_frontières #asile #migrations #frontières #Hautes-Alpes #Briançon #La_Vachette #Briançonnais #France #gendarmes #border_forensics #mourir_aux_frontières #Blessing

    Une enquête à laquelle je suis très fière d’avoir contribué :-)

    voir aussi ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/957606

    • L’enquête sur le site de Border Forensics :
      Introduction

      La mort de Blessing Matthew - Une contre-enquête sur la violence aux frontières alpines

      Le 9 mai 2018, le corps d’une jeune femme noire est découvert dans la rivière de la Durance, bloquée par la retenue d’eau du barrage de Prelles, situé sur la commune de Saint-Martin-de-Queyrières en aval de Briançon, dans les Hautes-Alpes françaises.

      Une enquête a été ouverte, permettant d’identifier la jeune femme quelques jours plus tard comme étant Blessing Matthew, âgée de 21 ans et originaire du Nigeria. Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai alors que la gendarmerie mobile tentait de l’interpeler avec ses deux compagnons de route, Hervé S. et Roland E, dans le village de La Vachette, à 15 kilomètres de la frontière franco-italienne.

      Au-delà de la douleur de sa famille et de ses deux compagnons de route, la mort de Blessing a suscité une vive émotion dans le Briançonnais. Elle a concrétisé les craintes, exprimées à plusieurs reprises par la société civile, concernant la militarisation de la frontière haute-alpine et ses conséquences dangereuses pour les personnes en migration. C’est le premier cas documenté de personne en exil décédée depuis 2015 dans le Briançonnais - 2 autres personnes y ont trouvé la mort depuis.

      Le 14 mai 2018, Tous Migrants, une association défendant les droits des migrant·es dans le Briançonnais, a transmis un signalement concernant la mort de Blessing au procureur de la République de Gap, en lui exposant les faits rapportés par une des personnes qui l’accompagnaient le jour de sa disparition. Ce signalement a été suivi d’une plainte, déposée le 25 septembre 2018 par une des sœurs de Blessing, Christiana Obie, auprès du procureur de la République de Gap pour « mise en danger de la vie d’autrui » et « homicide involontaire ».

      Le 10 décembre 2018, l’officier de police judiciaire en charge de l’enquête a transmis au tribunal de Gap la synthèse des résultats de celle-ci, qui conclut que les éléments constitutifs des infractions alléguées ne sont pas démontrés.

      Le 3 mai 2019, la sœur de Blessing et Tous Migrants se sont constitués partie civile dans une nouvelle plainte. Le 18 juin 2020, le tribunal de Gap a déclaré la plainte irrecevable et prononcé un non-lieu ab initio. L’ordonnance du juge d’instruction a été confirmée par la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble le 9 février 2021.

      Jusqu’à ce jour, le processus judiciaire n’a pas permis de faire la lumière sur les circonstances qui ont mené à la mort de Blessing, ni de déterminer qui en est responsable. Mais la famille de Blessing n’a pas abandonné sa quête de vérité et de justice : selon les mots de Christiana Obie, « ma sœur continuera à hurler » tant que la vérité ne sera pas connue et que la justice n’aura pas été faite.

      C’est pour soutenir cette demande de vérité et de justice de la famille de Blessing que Border Forensics a mené une contre-enquête, en collaboration avec Tous Migrants et grâce à la contribution d’un de ses compagnons de route, Hervé. Les enjeux de notre enquête vont également au-delà du cas de Blessing. Son décès représente un cas parmi les 46 mort·es en migration à la frontière franco-italienne répertorié·es depuis 2015. Or, comme pour Blessing, aucune responsabilité n’a été déterminée pour ces morts. Les pratiques de mise en danger à la frontière des personnes en exil ont ainsi pu être perpétuées sans entraves. C’est également pour contribuer à mettre fin à cette impunité, et pour que ces pratiques cessent, que nous avons mené cette enquête.

      https://www.borderforensics.org/fr/investigations/blessing-investigation

      Avec 3 #vidéos produites :

      1) le témoignage in situ d’un des compagnons de route de Blessing, Hervé :
      https://vimeo.com/714978117

      2) une interview des deux soeurs de Blessing et Hervé :
      https://vimeo.com/715094941

      3) une partie de la vidéo qui reconstruit les déclarations contradictoires des gendarmes :
      https://vimeo.com/715020037

      #Alpes #montagne #frontière_sud-alpine #violent_borders #reconstitution

    • Une émission de A l’air libre dédiée à l’enquête :
      Mort de Blessing Matthew : les gendarmes mis en cause

      Le 7 mai 2018, la jeune migrante Blessing Matthew est morte noyée près de Briançon. La justice a prononcé un non-lieu à l’égard des gendarmes. De nouveaux éléments mis au jour par Border Forensics pourraient aboutir à une réouverture de l’enquête.

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=175&v=uYFiMVXFY28&feature=emb_logo

      https://www.mediapart.fr/journal/france/300522/mort-de-blessing-matthew-les-gendarmes-mis-en-cause

    • Newsletter de Tous Migrants, 30.05.2022

      Quatre ans après sa mort,
      nous demandons toujours vérité et justice pour Blessing !

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      Le 9 mai 2018, le corps d’une jeune femme est découvert dans la Durance au barrage de Prelles, une dizaine de kilomètres en aval de Briançon (Hautes-Alpes, France). La jeune femme est identifiée quelques jours plus tard comme étant Blessing Matthew, âgée de 21 ans et originaire du Nigeria. Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai, entre 4 heures et 5 heures du matin, alors que des gendarmes mobiles tentaient de l’interpeler avec ses deux compagnons de route, Hervé S. et Roland E, dans le hameau de La Vachette, situé au pied du col de Montgenèvre, à proximité de la frontière franco-italienne.
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      ­Au-delà de la douleur de sa famille et de ses deux compagnons de route, la mort de Blessing a suscité une vive émotion dans le Briançonnais. Elle a concrétisé les craintes, maintes fois exprimées par la société civile, concernant la militarisation de la frontière haute-alpine et ses conséquences dangereuses pour les personnes exilées. C’est le premier cas documenté de personne exilée décédée dans le Briançonnais, depuis la décision du gouvernement français de rétablir les contrôles fixes aux frontières en 2015.
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      Ce drame intervient dans un contexte de très vives tensions.

      Le 22 avril 2018, alors que le groupuscule suprémaciste Génération Identitaire occupe le col de l’Échelle, trois personnes venues manifester leur solidarité avec les personnes exilées sont arrêtées et placées en détention provisoire. Le même jour, le ministre de l’Intérieur, Gérard Collomb, décide de l’envoi de renforts immédiats des forces de l’ordre à la frontière. C’est ainsi qu’est déployé dans le Briançonnais, le 24 avril, un escadron de gendarmerie mobile de Drancy dont plusieurs membres seraient impliqués dans la poursuite et la chute dans la Durance de Blessing Matthew.

      Les témoignages des personnes exilées recueillis à Briançon attestent fréquemment de pratiques de course-poursuites, de mise en danger, et de violences physiques et verbales de la part des gendarmes mobiles, de la police aux frontières et des militant·es de Génération Identitaire. C’est dans ce contexte que survient la disparition de Blessing Matthew, le 7 mai 2018, puis la découverte de son corps deux jours plus tard.

      Le 14 mai 2018, suite à la mort de Blessing, Tous Migrants adresse un signalement auprès du Procureur de la République de Gap, exposant les faits rapportés par les personnes qui l’accompagnaient le jour de sa disparition, ainsi que les possibles infractions des forces de l’ordre : mise en danger délibérée de la vie d’autrui, homicide involontaire, violence volontaire, non-assistance à personne en danger, discrimination d’une personne en raison de son apparence. Ce signalement est suivi par le dépôt d’une plainte, le 25 septembre 2018, par la famille de Blessing.

      Un an plus tard, un communiqué de presse du procureur de Gap, transmis le 7 mai 2019, informe que le parquet a classé sans suite cette enquête au motif d’absence d’infraction. Suite à cela, l’association Tous Migrants se constitue partie civile pour soutenir la demande de vérité et de justice de la famille de Blessing. Le 15 novembre 2019, le procureur de Gap prend des réquisitions de non-recevabilité de cette constitution de partie civile, et de non-lieu ab initio concernant la plainte de la sœur de Blessing. Ces réquisitions sont confirmées par l’ordonnance du 18 juin 2020 du doyen des juges d’instruction du tribunal de Gap, puis par la décision du 9 février 2021 de la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble.

      La démarche en justice de Tous Migrants aux côtés de la famille de Blessing a au moins permis à l’association de prendre connaissance du dossier d’enquête du procureur, et notamment des déclarations des gendarmes mobiles. Tous Migrants a analysé ces déclarations et constaté leurs nombreuses incohérences, contradictions et zones d’ombres, notamment au regard de la topographie des lieux, des conditions de visibilité et du déroulement des événements. L’association a également constaté que les gendarmes enquêteurs ne semblent pas avoir examiné en détail ces incohérences et contradictions, ni cherché à clarifier les zones d’ombre, ni tenté de reconstituer le déroulement précis des faits et gestes des gendarmes mobiles. Bien au contraire, ils ont délivré un récit qui nous parait occulter ces incohérences, contradictions et zones d’ombre au profit d’un plaidoyer pro domo.

      Tous Migrants a alors contacté Border Forensics afin que leur équipe de chercheur·es puisse mobiliser les méthodes d’analyse spatio-temporelle développées dans le cadre des enquêtes déjà menées auparavant, notamment en Méditerranée. Border Forensics a mené sa propre contre-enquête, en collaboration avec Tous Migrants et grâce à la contribution fondamentale d’un des compagnons de route de Blessing Matthew, Hervé S. L’analyse de Border Forensics, a permis, grâce au témoignage précis et cohérent d’Hervé S. in situ, de confirmer et de préciser la reconstitution des événements. Selon ce témoignage, en poursuivant Blessing, les gendarmes l’ont mise en danger, menant à sa chute dans la Durance et à sa mort.

      De plus, Border Forensics a réalisé une analyse spatio-temporelle des déclarations des gendarmes qui a fait émerger les nombreuses omissions, contradictions et zones d’ombre de l’enquête de police judiciaire concernant les conditions qui ont mené à la mort de Blessing. L’analyse produite remet ainsi en cause les conclusions de l’enquête de police judiciaire disculpant les gendarmes.

      Le témoignage d’Hervé S. et l’analyse spatio-temporelle des déclarations des gendarmes mobiles, constituent des éléments nouveaux qui permettent à la famille de Blessing de demander la réouverture de l’instruction judiciaire, ce que vient de faire Maître Vincent Brengarth.

      Seule la réouverture de l’instruction pourra déterminer de manière définitive les événements ayant mené à la mort de Blessing et d’établir les responsabilités. Quatre ans après le drame, il est urgent que la justice française réponde enfin à la demande de vérité et justice de la famille de Blessing. « Ma soeur continuera de hurler et hurler » tant que justice ne sera pas faite, dit sa soeur Christiana Obie.

      Nous rappelons qu’à ce jour, que ce soit pour la mort de Blessing ou pour d’autres personnes exilées décédées à cette frontière, aucune responsabilité n’a été déterminée. Les pratiques de mise en danger à la frontière des personnes en exil par les forces de l’ordre ont ainsi pu être perpétrées sans entrave.

      Une dizaine de jours après la disparition de Blessing Matthew, le 18 mai 2018, une seconde personne exilée a été trouvée morte à quelques kilomètres seulement de La Vachette : il s’agit de Mamadi Condé, un homme de 43 ans, de nationalité guinéenne. Depuis la mort de Blessing et de Mamadi, et du fait de l’aggravation de la politique de militarisation de la frontière et de refoulements systématiques des personnes exilées aux mépris de leurs droits, cinq autres décès et une disparition certaine sont survenues dans le même secteur, entre les Hautes-Alpes françaises et la Vallée de Suse côté italien : Mohamed Fofana (25 mai 2018), Douala Gakou (15 novembre 2018), Tamimou Derman (7 février 2019), Mohamed Ali Bouhamdi (7 septembre 2019), Mohammed Mahayedin (22 juin 2021), Fathallah Belafhail (2 janvier 2022), Ullah Rezwan Sheyzad (26 janvier 2022). S’ajoutent toutes les personnes gravement blessées, parfois mutilées et handicapées à vie.

      C’est également pour que cessent les pratiques mortifères de contrôle des frontières, et l’impunité pour celles-ci, que nous nous battons pour que que justice soit rendue pour la mort de Blessing.
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    • Décès de Blessing Matthew : sa famille, Tous Migrants et Border Forensics réclament justice

      (Revue de Presse) Lundi 30 mai, Tous Migrants et Border Forensics ont organisé une conférence de presse au Centre International de Culture Populaire, avec l’appui de VoxPublic, afin de réclamer vérité et justice autour du décès de Blessing Matthew. Nigériane et âgée de 21 ans, la jeune migrante avait été retrouvée morte le 9 mai 2018 dans la Durance, en amont de Briançon (Hautes-Alpes). Elle avait été vue pour la dernière fois le 7 mai 2018, alors que des gendarmes mobiles tentaient de l’interpeller. Tous Migrants s’était alors immédiatement constituée partie civile, mais le procureur de Gap avait classé l’affaire sans suite.

      Aujourd’hui, Tous Migrants avec la famille de Blessing Matthew demandent la réouverture de l’enquête, sur la base d’un nouveau témoignage à même de rebattre toutes les cartes. Leur avocat, Me Vincent Brengarth, a déposé vendredi 27 mai une demande de réouverture de l’instruction. Partenaire de Tous Migrants dans ce combat, l’ONG Border Forensics a comparé les différentes versions des gendarmes et le témoignage, et a annoncé, reconstitutions à l’appui, avoir repéré de nombreuses incohérences et contradictions dans les dépositions des gendarmes et dans le dossier . Pour la toute première fois, des associations réunies ont réussi à documenter la possible responsabilité des forces de l’ordre dans le décès d’une personne exilée.

      La conférence de presse, tenue en présentiel au CICP et retransmise en ligne, a réuni pas moins de 70 à 80 personnes dont une quinzaine de journalistes, ainsi que des responsables associatifs, et politiques ainsi que des universitaires et chercheurs. Avec beaucoup d’émotion, Tous Migrants et Border Forensics ont présenté leurs revendications et les éléments avancés pour la réouverture du dossier. Christiana Oboe, la sœur de Blessing, était présente par visioconférence et a délivré un message poignant à une assemblée bouleversée par la force de ses propos. Elle demande la vérité, la justice, et formule le vœu que de tels drames ne se reproduisent plus.

      https://www.voxpublic.org/Sa-famille-Tous-Migrants-et-Border-Forensics-reclament-justice-pour-Bless

      déjà signalé par @simplicissimus ici :
      https://seenthis.net/messages/962883

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      sur la même page, la revue de presse tenue par Vox Public...

    • Mort d’une exilée à la frontière franco-italienne : un témoignage pointe la responsabilité des forces de l’ordre

      Un témoignage inédit pourrait relancer l’enquête sur la mort de Blessing Matthew, jeune réfugiée nigériane décédée dans des circonstances troubles dans les Alpes. Sa famille et l’association Tous Migrants espèrent la réouverture du dossier.

      En mai 2018, Blessing Matthew, jeune femme nigériane, est retrouvée noyée dans la Durance, à quelques pas de la frontière entre la France et l’Italie. Elle est la première personne exilée décédée dans le Briançonnais (Hautes-Alpes). Âgée de seulement 21 ans, elle essayait de fuir les forces de l’ordre lorsqu’elle est tombée dans la rivière, qui, près de sa source, prend des allures de torrent avant de traverser les Alpes provençales. Jusqu’à présent, les circonstances de la noyade de la jeune femme restaient troubles, sans que l’on sache si les forces de l’ordre présentes dans les environs ont directement joué un rôle.

      Depuis ce jour, sa famille et l’association Tous Migrants tentent de retracer les événements qui ont conduit à son décès. « Un parcours du combattant pour obtenir la vérité », regrette Vincent Brengarth, leur avocat. L’enjeu est de savoir si les forces de l’ordre ont été témoins de la scène, ou même si elles peuvent être tenues responsables de la noyade. Dans le dossier, clos définitivement en février 2021, les récits des agents présents divergent, tant sur les lieux que sur l’heure de la tentative de contrôle. Entre ces témoignages contradictoires et une enquête pénale close hâtivement, connaître le fin mot de l’affaire semblait vain.

      Jusqu’à ce dernier rebondissement : le compagnon de route de Blessing, Hervé, décide de témoigner sur les circonstances de sa mort. Le 30 mai 2022, l’association Tous Migrants et Border Forensics – organisation de recherche de preuves dans des cas de morts aux frontières – organisent une conférence de presse pour présenter de nouveaux éléments. Non seulement le témoignage d’Hervé est inédit, mais il vient appuyer les analyses spatiales et temporelles de Border Forensics. Tout semble coller. Les gendarmes pourraient être tenus responsable de la mort de la Nigériane de 21 ans. Reste à rouvrir le dossier pénal.
      Un témoignage clé sur la responsabilité des forces de l’ordre

      Même avec cette avancée de taille, quatre ans plus tard, l’affaire est toujours aussi douloureuse à répéter. La voix de Michel Rousseau, de Tous Migrants, tremble en racontant la nuit des événements : « Le 7 mai 2018, entre 4 et 5 heures du matin, trois personnes exilées marchent sur la route en direction de Briançon. À l’entrée du hameau de La Vachette, des torches s’allument dans la nuit. Puis, des cris : « Police, police ». Elles courent en direction de l’église. L’un arrive à se cacher. Blessing était poursuivie par des gendarmes. Elle a traversé un jardin où Hervé était lui aussi caché. Il la voit, elle fuit, éclairée par les torches des gendarmes. Et puis, elle s’est retrouvée bloquée par la rivière ... » Sa voix s’arrête dans un sanglot.

      En partenariat avec Tous Migrants, l’organisation Border Forensics publie le 30 mai une analyse fine et complète des événements. Le dossier, particulièrement détaillé, est le fruit d’un an de travail. Dans l’une des vidéos publiées, ses équipes retournent dans le petit village de La Vachette avec Hervé. L’homme, sous couvert d’anonymat et capuche sur la tête, parcourt le village, racontant chaque étape de cette course-poursuite nocturne. Arrivé dans un jardin près de l’église, il se serait caché dans les herbes hautes.

      Blessing, elle, était encore poursuivie par deux gendarmes. Il raconte les entendre crier : « Arrête toi, si tu t’arrêtes pas, on va tirer. » Elle court jusqu’au bout du jardin, jusqu’à la rivière, où il entend la jeune femme dire « Leave me, leave me » (« Lâchez-moi, lâchez-moi »), puis tomber. Il l’entend de nouveau. Son cri, « Help me, help me » (« Aidez-moi, aidez-moi »), se fait de plus en plus lointain, comme emporté par le courant. Cette nuit-là, aucun secours n’a été appelé, aucun des gendarmes ne semble avoir tenté de secourir Blessing. Son corps sera retrouvé 13 km en aval, bloqué dans une retenue d’eau.

      Le témoignage d’Hervé est, selon l’avocat de la famille de Blessing et de Tous Migrants, « de nature à rebattre totalement les cartes ». « Son récit éclaire les incohérences du dossier, ajoute l’avocat Vincent Brengarth. On comprend mieux les contradictions des témoins. » Si l’on en croit ce déroulé, les gendarmes pourraient alors être accusés de « non-assistance à personne en danger », si ce n’est d’ « homicide involontaire ».
      « Blessing a été traitée comme une citoyenne de seconde zone »

      Hervé n’a pas été entendu dans le dossier. L’homme, sans papiers, ne s’est pas présenté aux forces de l’ordre. « C’est compliqué pour une personne exilée de faire confiance à la police », euphémise Michel Rousseau, pour expliquer ce silence de quatre ans. L’avocat Vincent Brengarth complète : « La justice n’était même pas en capacité de le convoquer, aucun élément dans le dossier ne donnait son identité précise. » Son témoignage, couplé aux éléments réunis par Border Forensics, pourraient constituer un motif de réouverture de l’enquête. La demande a été déposée auprès du procureur de la République ce 27 mai.

      « C’est un dossier exceptionnel, d’une exceptionnelle gravité, souligne l’avocat. Blessing a été traitée comme une citoyenne de seconde zone. Comme si le devoir de vérité n’était pas le même pour tout le monde. » Dans ce dossier, c’est la première fois que l’on renseigne la possible implication de la police ou de la gendarmerie dans la mort d’une personne exilée. Un premier espoir pour faire justice dans les 46 morts de migrants - décomptées par Border Forensics - à la frontière franco-italienne depuis 2015. « On veut montrer qu’on peut documenter ces morts aux frontières, que c’est possible, que l’on peut obtenir vérité et justice », espère Agnès Antoine, de Tous Migrants.

      La sœur de Blessing vient interpeller les journalistes présents ce 30 mai. Christiana Obie se tient droite devant son écran d’ordinateur, mais sa webcam peine à cacher ses joues brillantes de larmes. « Ma sœur n’est plus. Elle est morte. Mais je veux travailler à ce que ce la prochaine victime ne soit pas la vôtre. Je veux éviter à d’autres de ressentir la douleur que ressent ma famille aujourd’hui. »

      Blessing a été la première victime des politiques répressives aux frontières, mais elle n’a malheureusement pas été la dernière. Quelques jours après la découverte de son corps, Mamadi Condé, guinéen de 43 ans, est retrouvé mort, non loin de La Vachette. La liste est longue, et elle ne prend pas en compte les blessés, handicapés à vie et traumatisés par cette traversée dangereuse. Dès décembre 2017, des associations, via le Collectif Citoyen de Névache, écrivaient au président de la République leurs craintes et leur colère quant au traitement des migrants : « Devons nous attendre des morts pour que nos institutions réagissent humainement ? »

      Un appel dans le vide. Les années suivantes, dans les Hautes-Alpes et sur le versant italien des montagnes, ont été meurtrières, du fait de la répression et de la militarisation de la zone. Les associations s’accordent pour dire que 2018 a marqué l’apogée de ces épisodes de répression aveugle et de traitements « inhumains ». « Les vols, les violences envers les exilés, c’était quotidien en 2018 », dénonce la militante associative Agnès Antoine. Comme elle, beaucoup ont observé ce durcissement sur le terrain, lors des maraudes. « Cette politique ne pouvait qu’aboutir à ce genre de drame. »

      Cristina Del Biaggio, enseignante-chercheuse spécialiste des migrations et collaboratrice de Border Forensics dans leurs recherches, ajoute : « La mort de Blessing n’est pas un cas isolé, elle est le fait d’une conjoncture entre politiques et pratiques policières. »

      Lorsque la jeune nigériane les a franchies, les Alpes étaient déjà devenues une zone « transformée en environnement hostile par nos politiques migratoires ». Elles le sont toujours. Rien qu’en janvier 2022, les montagnes ont encore vu deux victimes. Fathallah Belafhail, marocain de 31 ans, et Ullah Rezwan Sheyzad, 15 ans, venu d’Afghanistan, sont décédés en essayant de rejoindre une nouvelle vie.

      https://basta.media/mort-de-Blessing-Matthew-a-la-frontiere-franco-italienne-un-temoignage-poin

    • La mort neuve de Blessing Matthew

      Personne ne fera revenir Blessing Matthew à la vie. Elle est morte noyée dans la Durance le 7 mai 2018 après avoir été coursée par les gendarmes. Une mort « accidentelle » d’après la justice qui avait, le 9 février 2021 déclarée un « non lieu » pour clore le procès intenté aux gendarmes par par sa famille et l’association « Tous Migrants » pour homicide involontaire, en quelque sorte une mort sans responsable, une mort anonyme parmi les 46 migrant.es décédé.es sur la frontière depuis la militarisation de celle-ci.
      Blessing Matthew était nigériane, elle portait un nom anglais que l’on pourrait traduire par « celle qui est bénie », ou encore par « bénédiction ». Elle était migrante et recherchait une terre « bénie ». Elle n’a trouvé ni liberté, ni égalité, ni fraternité encore moins de bénédiction. La mort, glaçante d’effroi, horrible dans sa suffocation nocturne, l’attendait au hameau de la Vachette.
      Un « non-lieu » comme une immense injustice. Pourtant, il y avait un lieu, la Durance. Pourtant, il y avait lieu, matière à poursuivre, rien qu’en considérant les témoignages contradictoires des gendarmes : elle est passée par là, non par ici et nous ailleurs ! Il y avait un témoin, son camarade de fuite mais il n’a pas pu parler, refoulé sans ménagement en Italie. L’Italie en tant que « non-lieu » pour l’oubli, un ailleurs voulu comme définitif sans un « au revoir » possible.
      « La seule chose que je veux, c’est la justice » affirme lors de la conférence de presse du 30 mai, la sœur de Blessing. « Que la justice se remette en route » demande Michel Rousseau au nom de « Tous Migrants ». Rouvrir l’instruction pour mettre la justice dans son cheminement véritable, celui de l’enquête impartiale. Des faits nouveaux le permettent.
      D’abord, le témoignage d’Hervé, celui qui fuyait avec elle, aussi apeuré qu’elle, mais qui a réussi à se cacher. Un témoin capital pour donner une « mort neuve » à Blessing Matthew. Ensuite, le travail méthodique, digne d’une enquête policière, mené par « Border Forensics » suit, point par point, les recoupements, les contradictions entre les récits des gendarmes et celui d’Hervé. Cette enquête est visible sur leur site : https://www.borderforensics.org.
      Le parquet de Gap a tous les éléments pour rouvrir l’instruction. Le fera-t-il ? Le devoir de justice le réclame : il est impossible de voler une deuxième fois la réalité de sa mort à Blessing Matthew.

      https://alpternatives.org/2022/06/02/la-mort-neuve-de-blessing-matthew

    • Réouverture de l’instruction dans l’affaire Blessing Matthew : le parquet de Gap ne se considère pas « compétent »

      Proches et association de la jeune nigériane morte noyée dans la Durance en mai 2018, à Val-des-Prés, espèrent rouvrir l’instruction judiciaire avec des « charges nouvelles ».

      dimanche 12 juin, le procureur de la République de Gap a fait savoir au Dauphiné Libéré « qu’après étude de la demande », il « considère que le parquet de Gap n’est pas compétent pour traiter la requête en réouverture d’une information judiciaire sur charges nouvelles » dans l’affaire de la mort de Blessing Matthew.

      Le 27 mai dernier, les avocats de la sœur de la jeune exilée, morte noyée dans la Durance le 7 mai 2018 à La Vachette (Val-des-Prés), et de l’association Tous migrants avaient déposé auprès du parquet gapençais une demande de « reprise de l’information judiciaire sur charges nouvelles ». Blessing Matthew, une Nigériane de 20 ans, était décédée après une tentative d’interpellation par des gendarmes mobiles alors qu’elle tentait de rejoindre Briançon depuis l’Italie avec deux autres personnes migrantes.

      Des nouveaux éléments à charge contre les gendarmes selon les proches de la victime

      Les proches de Blessing Matthew et Tous migrants ont toujours pointé l’action des forces de l’ordre comme étant responsable du décès de la jeune femme. Néanmoins, après une plainte classée sans suite, la chambre d’instruction de la cour d’appel de Grenoble avait confirmé en février 2021 un non-lieu dans cette affaire.

      Fin mai, association et proche espéraient rouvrir l’instruction avec le témoignage – inédit jusqu’ici – d’Hervé S., l’un des migrants présents la nuit du drame ; et avec une contre-enquête menée par l’ONG Border Forensics.

      « Seul le procureur général est compétent »

      Cependant, le procureur de Gap Florent Crouhy a décidé de ne pas trancher lui-même la réouverture ou non de l’instruction. « En effet, ce dossier a fait l’objet d’un non-lieu par arrêt de la chambre de l’instruction de la cour d’appel de Grenoble en date du 9 février 2021, rappelle-t-il.

      https://www.ledauphine.com/faits-divers-justice/2022/06/12/reouverture-de-l-instruction-dans-l-affaire-blessing-matthew-le-parquet-

      #compétence

    • Mort de Blessing Matthew : le procureur de Gap se dit incompétent pour rouvrir une information judiciaire

      La migrante nigériane avait été retrouvée morte dans la Durance en 2018 lors d’un contrôle de gendarmerie après avoir franchi la frontière italienne. La justice a décidé par deux fois de prononcer un non-lieu dans ce dossier.

      Me Vincent Brengarth a annoncé la couleur fin mai, évoquant « un témoignage de nature à rebattre totalement les cartes » dans l’affaire Blessing Matthew. L’avocat de la sœur de la migrante nigériane, qui s’était noyée dans la Durance (Hautes-Alpes) lors d’un contrôle de gendarmerie en 2018, affirme avoir retrouvé un des témoins de la scène, dont le récit inédit diffère de la version des forces de l’ordre.

      À la lumière de ce témoignage, l’avocat a effectué une « demande de réouverture d’information judiciaire » auprès du procureur de la République de Gap. Interrogé par BFM DICI, Florent Crouhy a indiqué ce dimanche qu’il se déclarait incompétent pour traiter la requête émise par Me Vincent Brengarth, rappelant que ce dossier « a fait l’objet d’un non-lieu par arrêt de la chambre de l’instruction de la cour d’appel de Grenoble en date du 9 février 2021 ».

      La justice a à deux reprises estimé qu’aucun élément ne permettait d’étayer les accusations d’homicide involontaire, de mise en danger de la vie d’autrui et de non-assistance à personne en danger visant les gendarmes.

      L’avocat redirigé vers le procureur de la cour d’appel

      Selon Florent Crouhy, « seul le procureur général est compétent pour apprécier l’opportunité d’une réouverture sur charges nouvelles et en saisir la chambre de l’instruction ». Le procureur de la République de Gap précise ainsi avoir invité Me Vincent Brengarth à se rapprocher du procureur général de la cour d’appel de Grenoble pour lui faire part du nouveau témoignage.

      Celui-ci provient d’Hervé, un membre du « groupe d’exilés pourchassés par les gendarmes » après avoir été expulsés vers l’Italie, a annoncé Me Vincent Brengarth lors d’une conférence de presse suivie par l’Agence France-Presse (AFP) au moment du dépôt de la requête.

      « Il a vu que Blessing Matthew cherchait à se cacher. Il y a eu de façon évidente un contact avec l’un des gendarmes. (...) Il dit : ’J’ai vu le (gendarme) la saisir par le bras, elle se débattait, ils se tiraillaient’ », a-t-il développé.

      « Que justice soit rendue »

      Des paroles qui jettent à ses yeux une lumière sur « les différentes incohérences » qui se dégagent des récits des gendarmes. Et l’avocat de surenchérir : « On a le sentiment que les investigations n’ont jamais véritablement été menées à leur terme ».

      Christiana Obie Darko, la sœur de la victime, s’était également exprimée au cours de cette conférence de presse, fin mai : « Tout ce que je veux, c’est que justice soit rendue pour ma sœur, pour qu’elle puisse reposer en paix ».

      Avant l’apparition de la version d’Hervé, le parquet de Gap avait affirmé que « les circonstances précises dans lesquelles (Blessing Matthew) aurait chuté dans la Durance demeurent inconnues en l’absence de témoignage direct ».

      https://www.bfmtv.com/bfm-dici/mort-de-blessing-matthew-le-procureur-de-gap-se-dit-incompetent-pour-rouvrir-

  • Suisse : Ils doivent laisser leur place aux Ukrainiens

    L’accueil des Ukrainiens et Ukrainiennes à #Genève se répercute sur d’autres réfugié·es. Une députée intervient.

    Genève s’apprête à prendre en charge entre 4000 et 15’000 Ukrainiens et Ukrainiennes.

    L’accueil risque d’être compliqué au-delà du premier millier et des alternatives sont à l’étude, indiquait Christophe Girod, directeur général de l’Hospice général, la semaine passée sur Léman Bleu. Les alternatives en question auraient-elles déjà été trouvées ? Des résident·es, majoritairement des hommes célibataires, du centre d’hébergement collectif de Rigot, situé avenue de France, ont reçu l’ordre de déménager au début de cette semaine afin de faire de la place pour les nouvelles et nouveaux venus.

    Avec effet immédiat

    Sur place, la surprise est totale. « Je ne comprends pas. Mon cousin est apprenti, il est en Suisse depuis six ans, et il a reçu cette semaine une visite des responsables de #Rigot qui lui ont dit qu’il devait vider son appartement parce que des Ukrainiens allaient arriver », explique un parent logé lui aussi dans le centre. Et les résident·es n’ont apparemment pas eu voix au chapitre. « On nous a dit que c’était obligatoire. La moitié des chambres ont été vidées et des gens se retrouvent à deux dans des chambres prévues pour une seule personne. »

    D’après les témoignages recueillis, l’#Hospice_général aurait expliqué aux personnes concernées qu’il s’agit d’une décision fédérale, laissant entendre que la Confédération est intervenue dans la gestion cantonale du flux de réfugié·es d’Ukraine. Selon Samuel*, dont plusieurs amis sont logés dans le #centre_de_Rigot, le directeur de l’Hospice général aurait aussi évoqué la construction de bâtiments modulables ou encore la transformation de salles de gymnastique en locaux d’urgence. « Ils déplacent les personnes sans se demander si elles parlent la même langue ou ont des affinités. Un de mes amis s’est retrouvé à partager une chambre pour une personne avec un résident souffrant de problèmes psychiatriques. »

    Terre d’asile à deux vitesses ?

    Françoise Nyffeler a déposé jeudi soir une question urgente au Grand Conseil visant à clarifier cette situation. « Dans le milieu de la défense des réfugiés, on entendait dire qu’un tel accueil était impossible, et tout à coup on arrive à mobiliser des moyens pour traiter 1200 dossiers par jour, s’étonne l’élue d’Ensemble à gauche. Bien sûr qu’il faut trouver de la place pour les Ukrainiens, mais pas au détriment des autres réfugiés. »

    La députée s’inquiète de l’existence de « réfugiés de première classe » à la faveur desquels d’autres, pourtant présents depuis des années, pourraient être opportunément déplacés. Elle s’interroge également sur le sort des Afghanes et Afghans présent·es en Ukraine : « Bénéficieront-ils chez nous des mêmes droits que les Ukrainiens ? ». La situation ne surprend pas Alain Bolle, directeur du CSP Genève. « On craignait que ça arrive avec l’afflux de réfugiés ukrainiens. »

    Optimisation des #logements

    L’Hospice général reconnaît qu’un maximum de places doivent être trouvées pour accueillir les familles nouvellement arrivées. « Pour optimiser les logements à disposition dans les centres d’hébergement collectif et libérer des places pour des familles, nous devons procéder à des #rocades, explique Bernard Manguin, son chargé de communication. Les rocades sont faites de façon à ce que les gens gardent leur cadre de vie et leurs habitudes, dans le centre d’hébergement et dans le quartier. Elles sont annoncées à l’avance, afin que les personnes aient le temps de s’y préparer. » Personne ne devra quitter les centres d’hébergement, assure le porte-parole.

    Pourtant, certains résidents affirment avoir reçu l’ordre de déménager d’ici à quelques jours. D’autres établissements pourraient d’ailleurs être concernés, puisqu’au foyer de la #Seymaz, un courrier de l’#Hospice_général annonce une prochaine réunion « en vue d’une réorganisation ». La lettre avertit que les résident·es absent·es pourraient être sanctionné·es.

    https://lecourrier.ch/2022/03/20/ils-doivent-laisser-leur-place-aux-ukrainiens
    #déménagement #Suisse #réfugiés_ukrainiens #Ukraine #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #racisme

    –-
    ajouté à cette métaliste sur les formes de racisme qui ont émergé avec la guerre en Ukraine :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Ukrainer ja, Afghanen nein: Der Grenzbahnhof #Buchs ist Schauplatz unserer Willkommenskultur – und wie sie sich verändert hat

      Afghanen wurden hier noch im Januar aus den Zügen geholt. Ukrainerinnen hingegen dürfen durchfahren, von ihnen ist am Grenzbahnhof Buchs nichts zu sehen. Das ist kein Zufall. Ein Rückblick auf 150 Jahre Schweizer Willkommenskultur.

      Etwas talaufwärts, nach Sargans links um die Ecke, liegt Maienfeld, das Heidiland. Benannt nach jenem Roman, der weltweit das Bild der Schweiz prägte: mit Heidi, Alpöhi, Geissenpeter, den saftigen Matten und den weissen Bergen unter blauem Himmel. Ein Sehnsuchtsort für Touristen genauso wie für Verfolgte und Vertriebene aus aller Welt.
      Doch anders als wohlhabende Feriengäste gelangen Flüchtlinge kaum je ins Heidiland. Sie stranden vielmehr an einem gesichtslosen Grenzbahnhof. Zum Beispiel in Buchs, St.Gallen: einer Bahnstation in einem Industriequartier mit fensterlosen Bauten, einer Recyclinghalle, der in Beton gegossenen Bus-Station auf dem Vorplatz und einer Industriebrache mit Kies, Unkraut und Stumpengleis. Kein Postkartensujet.
      Und doch ein Ort, der eben so typisch ist für die Schweiz wie das Heidiland. Kaum wo lässt sich die wechselvolle Geschichte der eidgenössischen Flüchtlings- und Migrationspolitik nachzeichnen wie hier. Die einen wurden als Helden begrüsst. Andere hinter Stacheldraht in der Desinfektionsanlage entlaust und bürokratisch erfasst. Von den Nazis verfolgte Juden versuchten, versteckt im Güterzug in Sicherheit zu gelangen. Manche von ihnen vergraben in Kohletransporten – auch um der direkten Rückweisung an der Schweizer Grenze zu entgehen.
      Für Kaiserin Sissi stand sogar Portier Rohrer stramm
      Erbaut wurde der Bahnhof 1858, etwas abseits des Dorfes, weil die Bauersleute von der Bahn zunächst nichts wissen wollten. Der Anschluss an die weite Welt folgte 1884 mit der direkten Anbindung an die neue Arlbergbahn. Sie brachte den wirtschaftlichen Aufschwung. Güterzüge mit Schlachtvieh aus Ungarn, Weinbeeren aus der Türkei und Holz aus Serbien kamen hier an. «Da waren auch die Sammelwagen mit den Auswanderern aus den Oststaaten, deren Ziel Amerika war: Fremde, armselig reisende Menschen, deren Sprache niemand verstehen konnte», heisst es in einem Beitrag des «Werdenberger Jahrbuchs» über das Jahr 1890.
      Adlige reisten durch, der König von Bulgarien, Balkanfürsten mit ihrem Hofstaat. Ja, selbst Kaiserin Elisabeth, die Sissi, erfrischte sich auf ihren regelmässigen Durchreisen im Bahnhofbuffet: «Da stand selbst der Portier Rohrer stramm, Vorstand Gasser hielt bahndienstliche Ordnung, der österreichische Zollinspektor Lutz, ein liebenswürdiger, fein gebildeter Mann, erwartete in Galauniform und mit einem Paradedegen an der Seite die Kaiserin und machte die Honneurs», heisst es im Jahrbuch. Es war eine Blütezeit, der Aufstieg Buchs’ als das «Tor zum Osten».
      Für viele Flüchtlinge hingegen wurde Buchs zum Nadelöhr in die Schweiz – je nach Herkunft und politischer Grosswetterlage. Denn in ihrer Flüchtlingspolitik war die Schweiz nie neutral. Das zeigt sich gerade in diesen Tagen wieder. Die kriegsvertriebenen Ukrainerinnen und ihre Kinder brauchen in Buchs nicht auszusteigen. Sie profitieren von der Reisefreiheit, die ukrainischen Staatsangehörigen schon vor dem russischen Angriff auf ihr Land in ganz Europa gewährt wurde. Sie brauchen kein Visum, fahren in Buchs durch und lassen sich später wahlweise in Zürich, Altstätten oder sonst einem Bundesasylzentrum registrieren, um vom Schutzstatus S zu profitieren. Tausende von Gastfamilien bieten ihnen Unterkunft an.
      «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns»
      Wie anders die Bilder noch im Winter: Junge Männer aus Afghanistan, die von den Grenzbehörden aus dem Nachtzug aus Wien geholt werden, müssen sich auf Perron 4 in Reih und Glied aufstellen. Danach werden sie ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs (POB) geführt und asylrechtlich erfasst. So schildert es das «St.Galler Tagblatt» im Januar in einer Reportage. Das POB hat der Kanton Anfang Jahr eröffnet, um die Registrierung gemäss den Regeln des Dublin-Abkommens der sogenannt illegal eingereisten Personen zu beschleunigen. An jenem Januarmorgen sind es rund 30 junge Afghanen.
      Die Ukrainerinnen und die Afghanen sind lediglich die letzten beiden von sehr vielen verschiedenen Flüchtlingsgruppen, die im Laufe der Jahrzehnte am Grenzbahnhof vorbeigekommen sind. Einer, der diese Geschichten kennt, über sie in der Lokalzeitung berichtet hat, ist Hansruedi Rohrer, langjähriger Fotoreporter des «Werdenberger und Obertoggenburgers» sowie Buchser Stadtchronist. Der 72-Jährige führt ein Archiv mit Tausenden von Bildern und kaum weniger Geschichten. Rohrer ist Buchser, durch und durch. Und ausgesprochen sesshaft: Ein einziges Mal unternahm er eine Reise ins Ausland mit Übernachtung – nach München für eine Reportage. Sonst beschränken sich seine Auslandvisiten auf Kinobesuche ennet dem Rhein im liechtensteinischen Schaan. «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns», sagt Rohrer.
      Auf einem Rundgang vom Bahnhof durch das Industriequartier zeigt er die Schauplätze: Die Rheinbrücke, wo die Züge über eine Rechtskurve in die Schweiz einfahren, die ehemaligen Standorte eines Auffanglagers und eines Aufnahmezentrums. Er erzählt von den ersten Flüchtlingen, die 1871 in Buchs angekommen seien, notabene aus Westen: Soldaten der Bourbaki-Armee, die im Jura über die Grenze gekommen waren und auf die Schweiz verteilt wurden. «Man sammelte damals in unserem Städtchen warme Kleider und Schuhe für sie.»
      Kriegsinternierte skandieren: «Evviva la Svizzera!»
      Rohrer händigt von ihm verfasste Artikel und Archivtexte über die Weltkriege aus. Über das «Flüchtlingsjahr 1915 in Buchs» etwa: Nach Ausbruch des Krieges wurden die italienischen Familien, die in Österreich gelebt hatten, als Angehörige eines nun plötzlich feindlichen Staates interniert und über die Schweiz in ihre Heimat abgeschoben. In Buchs gelangten sie auf Schweizer Boden. Im grossen Auswanderersaal, der seit Kriegsbeginn unbenutzt blieb, wurde ein Verpflegungsstand eingerichtet: «Für die ersten Transporte wurden zunächst 50 Zentner Brot und 2000 Liter Milch bereitgestellt. Die einheimischen Bäcker und Metzger hatten als Lieferanten alle Hände voll zu tun», heisst es in Rohrers Artikel. Bezahlt habe dies später die italienische Regierung. Und bei der Abfahrt aus Buchs riefen die italienischen Heimreisenden aus dem Zug: «Evviva la Svizzera!»
      Weniger zu erfahren ist, wie im Zweiten Weltkrieg jüdische Flüchtlinge an der Grenze abgewiesen wurden. Immerhin finden sich Arbeiten von Studentinnen über einzelne jüdische Flüchtlingsfamilien, die versteckt in Güterzügen über Buchs in die Schweiz einreisten. Besser dokumentiert ist der Ansturm von Flüchtlingen, die sich kurz vor dem Zusammenbruch des Nazireichs aus deutscher Kriegsgefangenschaft befreiten und in der Schweiz Zuflucht suchen wollten. Die Gegend zwischen dem Städtchen Feldkirch in Österreich und der Grenze glich Ende April 1945 «einem Heerlager, in dem Tausende und Abertausende sich zusammendrängten, um noch die Grenze passieren zu können, ehe sie aufs Neue durch die letzten kriegerischen Handlungen in diesem nun plötzlich zur Front gewordenen Gebiet in den Mahlstrom des Verderbens gerissen wurden», so wird im «Werdenberger Jahrbuch» ein Zeitzeuge zitiert.
      Mit einer Rangierlokomotive und ein paar alten österreichischen Waggons zog man in Buchs kurzerhand einen Pendelverkehr auf, um die Flüchtlinge in die Schweiz zu holen. Beim Bahnhof wurden die Ankömmlinge «hinter die Stacheldrähte des Auffanglagers praktiziert. Man wusste ja keineswegs, mit was für ansteckenden Krankheiten diese Leute behaftet waren, und darum sollte ein Kontakt mit der Zivilbevölkerung so gut als möglich vermieden werden.» Die Flüchtlinge wurden verpflegt, registriert und «durch die Desinfektionsräume geschleust», so der Zeitzeuge. Danach ging es mit dem Zug weiter ins Landesinnere, etwa ins Hallenstadion Zürich. An einzelnen Tagen kamen so über 3500 Flüchtlinge in Buchs an.
      Grosser Bahnhof für die Opfer des Kommunismus
      Wie viel herzlicher fiel da der Empfang der Flüchtlinge aus Ungarn 1956 aus. In der Buchser Stadtchronik, die Hansruedi Rohrer heute nachführt und verwaltet, findet sich ein Bericht vom 9. November 1956: «Kurz nach zwei Uhr nachmittags traf ein Sonderzug mit 364 Flüchtlingen in Buchs ein. Eine grosse Menschenmenge hatte sich zur Ankunft auf dem Bahnhof eingefunden, um den Flüchtlingen in herzlicher Weise Sympathie und Willkomm zu entbieten.» Freilich wurden auch die Ungarinnen und Ungarn im Barackenlager des Grenzsanitätsdienstes aufgenommen, einer «notwendigen sanitarischen Untersuchung unterzogen» und verpflegt. Später reisten sie weiter an verschiedene Orte in der Schweiz.
      In jenen Tagen profilierte sich der Bahnangestellte Peter Züger, der seit 1950 am Grenzbahnhof tätig war, in besonderer Weise: Züger sprach Ungarisch und begrüsste die Flüchtlinge über die Lautsprecheranlage in ihrer Sprache. Diese reagierten laut Jahrbuch «mit Akklamation, Freudentränen und lautstarken Zurufen Eljen- eljen! (hoch -hoch!)». Die Stimmung gegenüber den Opfern des Sowjetregimes war vergleichbar zur heutigen Situation mit den Ukrainerinnen: Die Bevölkerung in der Schweiz solidarisierte sich mit den Opfern des russischen Angriffs.
      Dazu erhielt sie 1968 noch einmal Gelegenheit, als nach der Niederschlagung des Prager Frühlings tschechische und slowakische Flüchtlinge in Buchs eintrafen. Auch sie erhielten einen warmen Empfang. Auf einem Plakat bei der neu errichteten Auffangstation etwas südlich des Bahnhofs hiess es: «Wir bewundern euren Mut und eure Tapferkeit.» In der Zeitung wurde rapportiert: «Die Bevölkerung von Buchs hat in den letzten Tagen wiederholt Blumen in die Auffangstelle gebracht und für die Neuankömmlinge ein Kinderzimmer eingerichtet.»
      Niemand winkt den bosnischen Flüchtlingen zu
      Flüchtlingsbewegungen gab es seither immer wieder: die Boatpeople aus Vietnam 1979, die Polen 1982. Stets waren auch Rotkreuzmitarbeiterinnen vor Ort, die sich um Kinder, Verletzte, Kranke und Schwache kümmerten. Von einem grossen Bahnhof wie 1956 aber konnte kaum mehr je die Rede sein. Als im Juli 1992 ein Zug mit 1000 bosnischen Flüchtlingen eintrifft, berichtet der «Werdenberger und Obertoggenburger» von einer peinlichen Situation: Als die «müden und matten» Flüchtlinge den Personen am Bahnhof zuwinken, erwidert niemand diese schüchternen Grüsse. Der Grund: «Das Gelände, auf das der Flüchtlingszug einfährt, ist nämlich von Sicherheitskräften von Polizei, Feuerwehr und Bahn abgeriegelt. Im Innenraum befinden sich nur mehrere Dutzend Journalisten und viele Helfer. Und von denen winkt niemand.»
      In den letzten beiden Jahrzehnten, mit der Personenfreizügigkeit, hat Buchs viel von seinem Charakter als Grenzbahnhof verloren. Die Zollstation ist weg, das Bahnhofbuffet sowieso. Flüchtlinge kommen immer noch, sei es aus Syrien oder wie bis vor kurzem vor allem aus Afghanistan. Doch mit dem Zoll sind die Szenen von Ankunft, Betreuung und Kontrolle aus dem Bahnhofgebiet verschwunden. Sogenannt illegal Einreisende werden diskret ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs im Industriegebiet oder das Bundesasylzentrum in Altstätten gebracht. Ein Willkommensakt der anonymen Art. Wie viele aus der Ukraine über Buchs einreisen – niemand weiss es.

      https://www.tagblatt.ch/schweiz/migration-grenzbahnhof-buchs-schauplatz-unserer-willkommenskultur-ld.227072

      #réfugiés_afghans

    • Ils sont réfugiés – et bienvenus

      Fuyant la guerre, des dizaines de milliers d’Ukrainiens ont trouvé refuge en Suisse. L’accueil non bureaucratique qui leur est réservé témoigne de la solidarité de la Suisse, mais révèle aussi les zones d’ombre de sa politique d’asile

      « La nuit, dans mes rêves, je vois ma datcha », relate Alexander Volkow. Il rêve des vignes dont il devrait prendre soin à cette saison. Mais cet ingénieur en métallurgie retraité de Kramatorsk se trouve à 2500 kilomètres de sa maison de vacances, dans un petit village bernois dont il ignorait même l’existence il y a peu : Mittelhäusern. Alexander Volkow est ukrainien, et le chemin qu’il a parcouru jusqu’ici – hormis sa destination, due au hasard – ressemble à celui de millions d’autres personnes arrivées d’Ukraine. Avec sa belle-fille Julia et son petit-fils Sergueï, il a fui sa ville du Donbass sous le feu des missiles, fui la guerre, la mort, la destruction et la misère. En Suisse, les autorités en matière de réfugiés lui ont finalement notifié que lui et sa famille avaient « reçu une invitation pour Mittelhäusern ». Une chance dans leur détresse : « Des gens chaleureux nous ont accueillis ». Malgré la cordialité de la famille d’accueil, Alexander Volkow est toujours, dans sa tête, dans le Donbass assiégé, à Kramatorsk : « Chaque matin, nous commençons par chercher à savoir ce qui est encore debout, si notre maison est encore debout ». En même temps, il est hanté par cette question : vaut-il mieux une « bonne guerre », qui fera beaucoup de victimes, ou une « mauvaise paix », qui entraînera plusieurs années d’incertitude et de discorde dans son sillage ?

      Il n’est pas le seul à se poser de telles questions. Quand il se promène, appuyé sur sa canne, à travers le village, il rencontre par exemple Anhelina Kharaman, qui est elle aussi hébergée chez des particuliers, avec sa mère et sa fille. Elle vient de Marioupol, cette ville en ruines au sud de l’Ukraine. Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna, un couple de Dnipro, séjournent eux aussi à Mittelhäusern pour l’instant. Et eux aussi parlent du jardin dont il faudrait s’occuper pour qu’il donne des récoltes suffisantes pour l’hiver.

      Une vague de solidarité

      Une douzaine de réfugiés ukrainiens vivent en ce moment à Mittelhäusern, une douzaine sur les plus de 50 000 femmes, enfants et personnes âgées qui sont arrivés en Suisse au cours des trois premiers mois de la guerre. Depuis la Deuxième Guerre mondiale, la Suisse n’avait jamais connu un tel afflux de réfugiés en si peu de temps. Les personnes déplacées ont bénéficié d’une vague de solidarité : la population a rassemblé du matériel de secours, fourni de l’aide et proposé des logements privés. Cela rappelle les grands mouvements de solidarité du passé, par exemple quand les troupes soviétiques ont envahi la Hongrie, en 1956, ou la Tchécoslovaquie, en 1968. La Suisse avait alors aussi accueilli les réfugiés d’Europe de l’Est à bras ouverts.

      Face à l’invasion russe en Ukraine, le Conseil fédéral a activé au mois de mars, peu après le début de la guerre, le statut de protection S. Sur le papier, cette catégorie de réfugiés existe déjà depuis les années 1990. À l’époque, le conflit armé faisant rage en ex-Yougoslavie avait contraint de nombreuses personnes à prendre la fuite. Toutefois, ce statut de protection spécifiquement prévu pour les personnes déplacées n’avait encore jamais été appliqué, pas même pendant la guerre en Syrie, qui a également jeté sur les routes des millions d’individus.

      Le statut de protection S offre aux personnes concernées de précieux avantages : il leur suffit de s’annoncer auprès des autorités, sans devoir faire une demande d’asile effective. Elles peuvent chercher immédiatement un emploi, faire venir leur famille en Suisse et voyager librement, y compris à l’étranger. Tout cela reste refusé aux réfugiés issus d’autres régions en conflit. Les Afghans, les Syriens, les Érythréens, les Éthiopiens ou les Irakiens doivent passer par la procédure d’asile ordinaire et n’ont le droit ni de travailler ni de voyager jusqu’à la décision officielle. Cela s’applique également aux personnes accueillies temporairement en Suisse parce qu’il ne peut être exigé d’elles qu’elles retournent dans leur pays.

      L’aide aux réfugiés exige l’égalité de traitement

      Les organisations d’aide aux réfugiés saluent l’accueil généreux et pragmatique des dizaines de milliers de réfugiés ukrainiens, mais revendiquent l’égalité de traitement pour toutes les personnes fuyant des conflits violents. « Pour les réfugiés, que la guerre qu’ils fuient soit une guerre née de l’agression d’un autre État ou une guerre civile entre deux camps d’un seul et même pays importe peu », note Seraina Nufer, co-responsable du département Protection de l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés. Des experts du droit de la migration trouvent eux aussi choquant que les déplacés de guerre issus d’autres pays ne soient pas traités de la même manière et ne puissent, par exemple, faire venir leur famille en Suisse qu’après une période d’attente de trois ans. Toutefois, la volonté de la majorité politique fait défaut pour une facilitation de l’asile en Suisse. La crainte d’un effet d’« appel d’air » est trop grande.
      Des angoisses existentielles croissantes

      Toutefois, même pour les réfugiés ukrainiens, la vie quotidienne en Suisse n’est pas paradisiaque. Il y a tout d’abord la vive inquiétude pour les proches qui sont restés dans la zone de guerre – les maris, les pères et les fils mobilisés dans l’armée. À cela s’ajoutent des angoisses existentielles. Seule une minorité de réfugiés possède des connaissances linguistiques suffisantes pour trouver rapidement un emploi en Suisse. Les personnes sans ressources peuvent demander l’aide sociale d’asile. Mais les prestations de celle-ci sont inférieures de 30 à 40 % à l’aide que les Suisses en situation de détresse financière reçoivent ordinairement. En d’autres termes, les aides étatiques ne suffisent guère à subvenir aux besoins quotidiens. On trouve donc de plus en plus d’Ukrainiens faisant la queue devant les organisations d’aide alimentaire parmi les autres personnes dans le besoin. Les organisations d’aide aux réfugiés mettent en garde contre une précarisation des personnes concernées et critiquent la culture d’accueil « bon marché » d’une Suisse pourtant fortunée.

      Les familles suisses qui ont généreusement accueilli chez elles plus de 20 000 réfugiés pendant au moins trois mois font aussi des sacrifices financiers. Selon les cantons, elles ne reçoivent que des indemnités symboliques, et peu de soutien au quotidien dans la plupart des cas. « De nombreuses familles d’accueil se sentent abandonnées », note Christoph Reichenau, co-initiateur du mouvement d’entraide Ukraine-Hilfe Bern. L’organisation a ouvert un centre d’écoute pour les réfugiés et les familles d’accueil près de la gare de Berne. Elle organise aussi des cours de langue et réunit sur son site web les nombreuses offres de soutien bénévole. La solidarité au sein de la population reste élevée, relate Christoph Reichenau. Mais des perspectives claires et un renforcement des structures sont nécessaires, souligne-t-il, « afin que la disposition spontanée à aider devienne un soutien permanent ».
      Pas de retour rapide en vue

      Les autorités tablent elles aussi sur le fait que les réfugiés ukrainiens resteront en Suisse plus d’un an. Un retour rapide dans les villes ukrainiennes bombardées semble de plus en plus improbable. À la clôture de la rédaction, à la mi-mai, les attaques russes sur le pays n’avaient pas faibli. Face à l’afflux croissant de réfugiés – la Confédération s’attend à ce que leur nombre atteigne entre 80 000 et 120 000 personnes au total d’ici l’automne –, les autorités doivent non seulement trouver davantage de lieux d’hébergement, mais aussi clarifier les perspectives des réfugiés en Suisse. Si cela ne tenait qu’à eux, Alexander Volkow, Anhelina Kharaman, Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna rentreraient à Kramatorsk, Marioupol ou Dnipro pour s’occuper de leur maison et de leur jardin. Pour l’heure, Lilia Nahorna cultive de jeunes pousses en pot : ainsi, elle pourra ramener les plantes chez elle facilement. Chez elle, en Ukraine.

      https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/ils-sont-refugies-et-bienvenus

      #permis_S

  • La « forteresse européenne » au pilori

    La Suisse entend renforcer sa participation au contrôle des #frontières_extérieures de l’Europe. Mais l’augmentation des capacités de l’agence de protection des frontières Frontex fait débat. Le 15 mai, le peuple se prononcera dans les urnes. Un non pourrait irriter encore davantage Bruxelles.


    « Pour moi, Frontex est avant tout synonyme de violence », avoue Malek Ossi. Ce Syrien de 28 ans a gagné la Suisse via la Turquie il y a six ans et fait partie de l’organisation « Migrant Solidarity Network », qui a lancé le référendum contre l’augmentation de la #contribution de la Suisse à l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes Frontex. Malek Ossi a raconté au magazine en ligne « Republik » l’odyssée qui l’a mené en Suisse par la « route des Balkans ». « Je sais ce que cela signifie d’avoir derrière soi l’armée turque, et devant la police grecque. » Avec des dizaines d’autres réfugiés, il s’est caché dans la forêt pendant une semaine avant d’oser franchir le fleuve frontalier Evros, alors gardé par les autorités grecques et des agents de Frontex. Tandis que Malek Ossi a finalement réussi à gagner l’Europe, beaucoup d’autres échouent dans leur tentative d’atteindre les frontières extérieures de l’UE. Les récits de migrants refoulés par les polices des frontières sont innombrables. Certains cas attestent que les gardes-côtes grecs, en mer Égée, ont repoussé des canots pneumatiques remplis de réfugiés dans les eaux turques.

    Ces refoulements sont contraires à la Convention européenne des droits de l’homme et à la Convention relative au statut des réfugiés de Genève, d’après lesquelles les réfugiés doivent pouvoir déposer une demande d’asile et ont droit à une procédure fondée sur le droit. En d’autres termes, les demandeurs d’asile doivent au minimum être entendus. Des organisations de défense du droit d’asile et des droits humains reprochent à Frontex de tolérer des pushback illégaux perpétrés par les forces de police nationales, voire d’y être mêlée. Une commission d’enquête du Parlement européen a ainsi demandé davantage de surveillance et de transparence.

    Une obligation pour tous les États de Schengen

    Le rôle de Frontex aux frontières de l’Europe a fait parler de lui l’automne dernier au Parlement fédéral. En tant que membre de l’espace Schengen, la Suisse contribue depuis 2011 à l’agence européenne de protection des frontières, et doit par conséquent cofinancer l’augmentation de son budget. Frontex prévoit de mettre sur pied une réserve de 10 000 agents d’ici 2027. Jusqu’ici, la Suisse a versé près de 14 millions de francs par année. Ce montant doit passer à 61 millions de francs par année d’ici 2027. Le PS et les Verts s’y sont opposés, arguant que Frontex entend constituer une véritable « armée » aux frontières pour isoler la « forteresse européenne ». La majorité du Conseil national et du Conseil des États s’est toutefois avérée favorable à un engagement plus fort de la Suisse, avançant que notre pays profite, après tout, de la protection des frontières de l’espace Schengen.

    Oui, les noyades en Méditerranée sont une « honte pour l’Europe », a déclaré le conseiller national vert’libéral Beat Flach. Tout en soulignant que ce n’est pas la faute de Frontex, mais que l’agence est, au contraire, « un moyen d’éviter cela à l’avenir ». Le conseiller fédéral Ueli Maurer a fait remarquer que la Suisse pourra mieux exiger le respect des droits fondamentaux si « elle fait front avec les autres ». Son parti anti-européen, l’UDC, est toutefois divisé sur la question. Les uns saluent le renforcement du contrôle des frontières de Schengen contre la « migration économique », tandis que les autres préféreraient investir ces millions supplémentaires dans la protection des frontières suisses.
    Contre la « militarisation des frontières »

    Le peuple devra trancher, car une alliance d’environ 30 organi­sations a lancé un référendum. Les activistes de « Migrant Solidarity Network » s’opposent fondamentalement au régime de protection frontalier de l’UE, à leurs yeux « symbole de militarisation des frontières ». Amnesty International n’est pas de leur côté. L’organisation de défense des droits humains plaide plutôt pour la consolidation des forces qui, au sein de l’UE, veulent obliger Frontex à « faire de la protection des migrants la priorité au lieu de faire peser une menace supplémentaire sur eux ». Dans les faits, ce sont surtout les pays d’Europe de l’Est qui opèrent des pushback à leurs frontières.

    « Soit on fait partie de Schengen, soit on n’en fait pas partie, avec toutes les conséquences que cela implique. »

    Fabio Wasserfallen

    Politologue à l’université de Berne

    Le 15 mai, le peuple suisse ne votera pas sur le principe de la participation de la Suisse à la protection des frontières européennes. Néanmoins, le référendum pourrait avoir un impact sur la participation de la Suisse à l’espace Schengen, relève Fabio Wasserfallen, politologue à l’université de Berne. « Soit on fait partie de Schengen, soit on n’en fait pas partie, avec toutes les conséquences que cela implique. » Si, d’après lui, la Suisse ne doit pas s’attendre à une exclusion immédiate en cas de non du peuple, « elle serait cependant invitée à proposer rapidement une solution ». Bruxelles pourrait s’irriter du fait que la Suisse ne soit plus vue comme une « partenaire fiable », explique Fabio Wasserfallen. Les relations déjà tendues entre les deux parties pourraient ainsi devenir encore plus compliquées.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/la-forteresse-europeenne-au-pilori

    #référendum #Suisse #frontex #votations #migrations #asile #frontières #réfugiés

    • Le site web des référendaires :

      No Frontex

      La violence, la misère et la mort sont devenues quotidiennes aux frontières extérieures de l’Europe. Les personnes réfugiées et migrantes sont privées de leurs droits, battues et expulsées. En tant que garde-frontière et garde-côte européen, Frontex a sa part de responsabilité. Frontex manque de transparence. Frontex détourne le regard. Frontex participe à des violations des droits humains. Pourtant, Frontex est largement déployée à travers l’Europe.

      Le 15 mai, un vote populaire décidera si la Suisse doit participer à cette extension de Frontex. Nous disons OUI à la liberté de mouvement pour tou·te·s et NON à Frontex.

      https://frontex-referendum.ch/fr

    • Interviews: Transnational action in support of upcoming referendum on Switzerland’s funding for Frontex

      To find out more about the Abolish Frontex! network and the upcoming Swiss referendum on whether the country should increase its financial contributions to the EU border agency, we spoke to Luisa Izuzquiza of Frag den Staat and Abolish Frontex! and to Lorenz Nagel, a member of Watch the Med/AlarmPhone and the Migrant Solidarity Network that proposed and campaigned for the Swiss referendum.

      Across the weekend of 22-24 April, three days of action organised by the Abolish Frontex! network in support a no vote in the Swiss referendum on Frontex funding, to be held on 15 May 2022, led to initiatives in Belgium, Germany, Italy, the Netherlands and Switzerland itself. These actions included workshops, demonstrations and actions to raise awareness about systemic problems connected to the border regime, migration management and the militarisation of borders.

      Luisa’s and Lorenz’s answers represent their personal views and not those of the organisations with which they are involved.

      We started by asking about themselves and their activity in this context.

      Luisa: “I would define myself as a freedom of information activist and I have been working on freedom of information since 2014, with a special focus on Frontex and borders since 2016. With my then partner in activism and now my actual colleague Arne Semsrott, we started working on Frontex because for a transparency activist I think it’s a very clear target and it’s quite easy to see that they need some work, specifically to make their actions more transparent – on the one hand because Frontex clearly has quite an obstructive approach to transparency and they have a heavily embedded culture of secrecy within the agency, and at the same time they are a huge agency in terms of size, power and budget that is quite reluctant to accountability so I think the freedom of information activism and Frontex-oriented work was quite a natural match to make, so we do research around Frontex, we do campaigning and we do litigation.”

      Lorenz: “On the one hand, I am active in the transnational network Watch the Med/AlarmPhone that has a lot to do with the things that are ongoing, on the fortification of Europe and the militarisation of the border regime and within that, also Frontex, and on the other hand I am also doing research on the topic of externalisation and the militarisation of the border regime as well, so I have these two roles.”

      We then asked Luisa to tell us about the transnational Abolish Frontex! campaign and how it is structured, and Lorenz about the initiation of, and signature collection for, the Swiss referendum, as well as whether any political parties supported it.

      Luisa: “The AF! campaign was born a bit less than a year ago, in June 2021. It is a decentralised campaign that is organised in an autonomous way with different national chapters that come together to debate strategy and to coordinate around the demands that the campaign is based on. To date, it includes over 100 organisations from all around Europe and beyond Europe as well, because one of the aims was always to involve groups that are active in the periphery of Europe and also beyond Europe, because of course this topic affects everyone.

      “Where is it more active? It’s interesting, because that has shifted quite a lot since the launch of the campaign, and as the campaign was growing. For instance, at the very beginning we had a very strong German focus and a very strong German chapter, because there were already quite a lot of groups, NGOs and activist movements already organised in Germany, and there was a good awareness of Frontex and its role, so it was a very natural thing to organise, and as time has gone on we have also seen a large chapter grow, for example, in Italy, which is growing and is very active. It’s interesting to see how certain focuses become activated and then suddenly grow very quickly, and how the interest is the same in countries where Frontex operates in a very obvious way and also in countries which technically do not have any interaction with Frontex but, of course, it is in their interest as well. … In the Netherlands, we have groups that have been organising for instance around the anti-arms trade movement so, yes, it’s another area in which it is very active.”

      Lorenz: “When it comes to the Swiss referendum, it is important to know about the Swiss context, that there is a semi-direct democratic system that allows to propose referendums on the decisions that are taken within the parliament. This was also the beginning, there was a parliamentary decision to go with the Frontex increase, to take over this new reform that was decided upon in 2019 and, unsurprisingly, I would say, none of the big parties, also on the left, did propose the referendum themselves.

      “This then brought different correctors and groups from non-parliamentary networks that are involved in one way or another in migration struggles, to think of whether this could be an option. After some initial discussions, on the initiative of the Migrant Solidarity Network, which is a small, self-organised network of activists, we decided to propose the referendum, also as a protest note in direction of the parliamentary actors who, once again, remained inactive. I think this is interesting in a historical perspective, because since Switzerland joined the Schengen area in 2009, there have been several reforms and several increased rounds that led to this explosion of today’s agency, as we know it, and it was always more or less agreed upon in Switzerland without great parliamentary resistance.

      “This has a lot to do, obviously, with questions around Schengen and the guillotine clause that is assigned to it [a reference to the referendum held in 2020 on whether or not to end Swiss participation in free movement within the Schengen area], but this criticism has explicitly existed in non-parliamentary circles for many years towards the political parties. This was in September, when we decided to take this step. We were a rather small group of people from mainly self-organised organisations and then, step by step, this No Frontex community or committee (however we want to call it) started to grow, and first it was the young parties of the left-wing parliamentary actors (the young socialists and greens) who joined, and later the so-called mother parties, so the Social Democrats and the Green party officially supported the referendum…

      “This does not necessarily mean supporting it with the same goals as the initiators. I think there are a lot of differences, but yes, they supported it. I think in the end it is important to say, when it comes to this No Frontex committee, that from the very beginning until now, is that it stayed a very small core group of people that are (most or almost all) from self-organised networks and migrant communities. I think this also speaks about, when we speak about the role of the bigger parties, even though they do have a lot of resources and possibilities, they stayed quite distant, on the one hand obviously because of their different views on the topic, but also because it is not on their main agenda, the topic of Frontex and the militarisation of the border regime, again, because it is very much linked to the question of Schengen membership.

      “The experience of signature collection was interesting for many of us. It was quite difficult when it started, also because it started during the time of corona when physical interactions in the public space were somehow limited anyways, and the daily circle of movement of individuals was much smaller than under normal circumstances, but step by step we tried to mobilise through local committees, asking them to call for orange waves or for orange weekends because we chose this orange campaign colour, and this started somehow to become a thing… so, more and more people started to go out in the streets to collect signatures and I think what we realised then, is that we had to start from the very beginning.

      “We decided in the very beginning that one of our main goals was to intervene with progressive or radical perspectives into the public debate, so that we don’t only want to call for a stop to the expenses, but also we wanted to call in favour of freedom of movement for all. So this was our slogan from the start... NO to Frontex, yes to freedom of movement for all, and to put forward this perspective. We were quite far away from bringing this perspective easily to the broader public, because for many people who we talked to in the streets, we had to first explain what Frontex is and why it potentially is a problem. This was on the one hand very interesting, and obviously also very needed, because if we imagine the size of this agency and the consequences of the policy it stands for, then I think that to push for public knowledge is really right at the beginning of pushing for broader resistance.”

      Next, we asked about the Abolish Frontex! days of action in support of the referendum, and about whether the important informative and awareness-raising work by the Swiss campaign means that even if the referendum doesn’t succeed, the exercise would have been worthwhile.

      Luisa: “These days of action were conceived and planned in support of the Swiss referendum which will take place on 15 May, mainly because, I think, the whole network is very excited and just in awe of how far the campaign for no Frontex in Switzerland has come. It’s an incredible step and a very important one, so the network wanted to organise just to support this initiative and to help make it visible, and hopefully to inspire other actions similar to the Swiss one in other countries, which if it happens (as you said) in the Dutch case, that would be amazing. So, that was the focal point and the way in which the actions are themed is around national contributions to Frontex, and how European countries are involved in what Frontex is, what it does and how they actually make it possible. I think that a lot of times, when we speak of Frontex, we think of this abstract force that we really don’t know how it works, who decides, who makes it, and of course it is member states, it’s our own governments which are actually supporting Frontex, taking decisions within Frontex and so on. So the main thread of these action days will be national contributions. We have focused a lot on the contributions in terms of equipment and officers and how these are in fact the actual backbone of Frontex operations without which Frontex operations could not, to date, function.

      “I think this is something that is not very well known to most people, that it’s countries ‘donating’ equipment and officers to Frontex. We want to highlight this, we want to bring it to the public’s attention and we want to show dissent and call for an end to these contributions. There will be actions in the next three days in different countries, in Germany, Belgium, the Netherlands, Italy, and the actions vary depending on the national context. So, in some countries you will have a workshop, just to learn what Frontex is, how it works and what member states’ involvement is. In other countries it will be a demonstration, so it really depends on what the need in each country is, which I think is a reason why it’s great to have different national chapters. In terms of scale and impact, I think that working on a topic on which there is very little public awareness, the main thing we would like to achieve is to inform people about how these contributions work and try to mobilise citizens to ask their government to stop these contributions, because they are contributions to violence, essentially, and hopefully that is a good result that we can achieve.”

      Lorenz: “That still is a big goal and maybe also a big outcome of the efforts of the last couple of months. On the one hand, we forced parliamentary actors to position themselves, and also forced them into a very uncomfortable decision. We came from a situation where it had become normal to just accept this big explosion, this increase of the mandate and everything. It also came after a lot of years of normalisation of border violence, which, especially in Switzerland, is broadly accepted, or maybe not accepted but ignored by the Swiss public, because it is so easy to hide behind the geographical location of Switzerland, saying, “yes ok, but we are not at the external borders”, while it is clear that Switzerland is a strong driving force for many causes of migration, on the one hand, and also a very stable supporter of the policy of deterrence, ever since.

      “In that way, I think we also forced a broader public to at least get in touch with the topic. If they like it or not, whatever their position is, that definitely was interesting. But I think all of us, sometimes, are also a bit sceptical and ask ourselves, ‘should we have done more?’, ‘could we have done more?’, ‘how could we have intervened better?’

      In the end it was a mix of what is possible, so we tried to push migrant voices, we tried to break a bit with the narrative that only non-migrant communities talk on the matter, and this on the one hand happened very much, but on the other hand there would have been a lot of space for improvement, and the other big thing was to reach a broader public, which I think we did, because all the main newspapers had to write about it and they had to take into account our demands which means the claim of freedom of movement for all, even though it was obviously not specified what would potentially be meant by it… I think many debates that did happen did really nourish a hopefully sustainable mobilisation and it was clearly (and still is) very positive from my point of view, for example, that a church alliance against Frontex has been built, and I think this is remarkable and good to see, and it reaches a circle [that] from our positions and with the language that we usually use, and the actions we usually pursue, it reaches a circle that we do not really address.”

      We asked if this focus on budgets and resources can inform a debate about what individual states can do to rein in Frontex, about the aim to “abolish” Frontex and plans to enhance its human rights compliance, and about whether managing to collect enough signatures to force a referendum was a surprise, and whether it is likely to win.

      Luisa: “I like this particular topic just because it is so tangible. A lot of times when we talk of accountability and what can we do with Frontex and what type of disciplinary action can exist and so on… it’s all framed in a way that is so vague and seems very “meta”, whereas this is just so tangible, you can put a number to the amount of resources you are giving every year and you can put a moment in time when these negotiations happen and you can just withdraw these resources and the impact is immediate, you’re just not giving them the equipment they need to conduct human rights violations, to enforce violence... even if you see it just as a slap on the wrist,… with the budget, it comes from the EU institutions so it’s hard; but this is just straightforward, and I think it’s good to highlight a straightforward solution because sometimes everything around Frontex is purposely portrayed as very complex and unattainable when it’s not really that way.”

      “In the moment when we started building this campaign, Frontex was often in the news for wrongdoing and of course when you have these instances of violence being exposed there is always the question of ‘what can we do about it’, and the usual dichotomy between reform and abolition appears, so our reading of the situation was that reform doesn’t really make sense because it assumes from the point of departure that the original idea of Frontex was a good one and it was a virtuous idea, and then it somehow got corrupted and went wrong and now we are paying the consequences. If we just fix this, then we can go back to this virtuous idea of a border police force that does no wrong.

      “For us, actually, what we see from Frontex every time there is what we call a ‘scandal’, is actually Frontex working precisely in the way that it is built and intended to work and you cannot really dissociate a border police force and the idea of violence, because they are inevitably linked. So, this is why we framed the campaign around abolition, understanding it as a systemic issue, but also because abolition is not just about dismantling the things that we don’t want to exist because they cause harm and endanger lives, but also about the building of alternatives and thinking, if we didn’t have this thing that we think is dangerous for society, then what could we build instead and what would it take and how can these resources be divested and invested into something that creates safety for all? Frontex is just working in the way that it is meant to work. I don’t believe in a border police force that does not cause any violence, it’s quite simply impossible, and you can have more explicit or less explicit violence, but it’s violence nonetheless.

      “So, this idea of Frontex just conducting internal investigations and hiring fundamental rights officers and so on, these are essentially patches which, even if you did want to consider reform, I think they are completely insufficient, just because you are giving the police force the power to police itself and, in democratic terms, even if you believe in reform as a way forward, it’s incredibly dangerous. As a transparency activist I see this very often because, for example, Frontex decides whether to release information about their own human rights violations and, of course, the outcome is that they refuse access to over 80% of the questions that they get and this is what happens when you give the perpetrator the power to evaluate and discipline itself. This is not how it’s meant to work. I think that it’s creating a dangerous system that just creates grounds for abuse in the future and we will see each other having these conversations again in a matter of five years when the mechanisms have failed and they have endangered the life of many, many more people.”

      Lorenz: “To be honest, before Christmas we were probably not sure if we would come through, I mean we had 100 days to collect 50,000 signatures, during corona, with a small group and without enthusiastic support from the bigger players, let’s say. It was a tough one, and then I think that over Christmas something changed, maybe also because of the alarming messages that we sent out. They caused something, and there was a change and it started to be really moving, and active, and one could also feel it and then, all of a sudden, these letters started coming in, and then, finally, I mean it was really on point, it was really close, we realised it would pass in the last two days, but on the last day we were still sorting out letters and it was needed that we did that. This was already a very big success, and it pushed the debate and now, in the time afterwards, I think we had the opportunity to, on our side, deepen our arguments and bring them to a wider public debate. From that point of view, it was a very positive surprise that it came through.

      “When it comes to the outcome, I think it would be nothing other than a wonder, considering that we are already talking about holy things, if we would succeed. But I think we knew this from the beginning, that it would be very hard. Also, in the last few weeks the discussion, quite naturally, did not really focus on Frontex but on other issues of migration around the Russian war in Ukraine, so we know that this will be a very tough road to go down and that most likely, maybe not most likely, but the chances are high that it will not get through.

      “This, however, should not be our primary orientation, because in the end it is the orientation of the parliamentary actors and voters and I think what we wanted to do was to embed a topic into its broader field, to bring into the debate the daily resistance that is happening against the migration regime, to shed light on the situation at the EU external borders, to also strengthen anti-racist networks and to create new alliances and to build at least a knowledge ground to create new alliances, and I think that already by doing 50 events, having events in bigger towns but also in smaller villages, and doing collective action days, I think this already activated a lot of people, so I think this is good, also to show that we do intervene in the public debate and that we use these instruments that there are in the ways that we think are useful, and to show the ones in power that we will try different means to go after them in order to counteract this current migration regime.”

      The following questions raised the issue that the initial Frontex Regulation, approved in 2004, was already problematic from a human rights perspective, and how the Ukraine conflict represents both a problem and an opportunity, because the European response revealed that previous narratives were laden with lies regarding the risks posed by refugees.

      Luisa: “I think it’s the problem of just creating conditions that are liable to be abused and then giving these conditions to a law enforcement actor, it’s quite obviously a recipe for disaster and it seems we haven’t learned anything from the past years. Now, we are having these conversations about Frontex accountability and what went wrong in terms of how do we find ourselves seeing all these pushback allegations and no one knew anything and nobody did anything, when Frontex theoretically already has mechanisms in place to deal with this sort of situations, and yet none of them actively prevented violence like this. Of course, when you build the control mechanisms within the actor that is supposed to be controlled, then it’s over. Self-control is not a thing that you want to put your bet on, especially when working on such a sensitive issue like the lives of people already in a vulnerable situation. But there is just no learning from this, and we see the same cycles of policy just being repeated, but then you also see the level of danger escalating and it’s just a very dangerous recipe.”

      Lorenz: “Yes. We wrote a text on our blog about it [the welcome given to Ukranian refugees] on our webpage and one of our spokespersons, Malik, who is also part of AlarmPhone and originally comes from Syria, who crossed into Europe in 2015 with the March of Hope. He, I think, formulated it in a very smart and very sensitive way where he said that yes, of course, it hurts, these double standards hurt because they are nothing but racist… and when a minister in Switzerland says that they treat Ukrainians with another security standard because they still need to uphold security standards for people from Syria and Afghanistan due to terrorist threats, then it’s obviously something that makes you think of everybody who had to endure the journey and the violence linked to it some years ago, and at the same time he said, but, what this crisis shows, is that the border regime is only based on political decisions, nothing of the arguments that have been given to us in the last years are true, not that there is not enough money, not that it is needed because we cannot handle an influx of people, all of that are just lies and we now have the possibility to demand the solidarity that the people from Ukraine rightfully receive for everybody.

      “This, from my point of view, has to be the position. Then, I think, regarding Frontex, that you can start playing around with their role, saying ‘ok, you [will] have in 2027 10,000 border guards and €1.2 billion as a budget, with this invested in a humanitarian sense, a lot could be done, you could not talk of any kind of problems anymore.’ As the Defund Frontex campaign showed, you could finance a whole fleet in the Mediterranean with that money, or with a third of that money. So, I think it’s important from which direction you look at this. I found that what he [Malik] says was quite interesting because he did not lose himself in an argument of frustration, but he tried to turn it around and say, it’s time to demand what we demand ever since.”

      We then turned to the systemic problem of Frontex’s analytical and advisory roles, and about whether the campaign for a Swiss referendum can be considered a success, regardless of its outcome, due to the way it has shed light on the problematic structural aspects of Frontex.

      Luisa: “I think there is one specific area of concern for me regarding Frontex’s analytical capabilities and how this is instrumentalised, because of the way in which Frontex is constructed. I find this interesting because it works so efficiently for them. You have in one actor a triple role that is just cyclical: so, you have an actor that has an analysis that we don’t really know exactly how this happens, so we don’t really understand what are their sources and how they do these metrics, what sort of factors they take into account, but anyways they have an analysis of the situation at the European borders and a diagnosis. So this is one of the roles. They have another role, which is that they are also in charge of prescribing their solution, which, of course, because they are who they are, is always going to be ‘we need more border control’. We have seen this prescribed solution being exactly the same at very different moments in time at the EU level, we see this way before 2015, we see this in 2016 in the middle of what was labelled as the refugee crisis, we see this also at a moment when arrivals were dropping drastically and we see it again now as well, at a moment when we have a war at our borders and great numbers of arrivals because of this dramatic situation.

      “So it’s always the same recipe, whatever the analysis is, but this is their role as well. And then of course they have another third role, which is, at the end of the day, as the recipients of the benefits that the solutions that are proposing will carry, which means, of course, that if you need more border control, then you need a stronger Frontex. Hence, after all of these regulatory changes for greater powers, greater budget, this is how you basically have an agency that was born with a €5m budget and a tiny staff, and in a matter of a decade it’s skyrocketing its budget, its power, its staff, the ability to get its own equipment, it’s building its own autonomy and it is just this vicious circle where you have the analytical, the prescription and the beneficiary working all the time in such a non-contested way, because you see the media reproducing their analysis, you see policymakers reproducing the solutions that they are prescribing and everyone cheers. Frontex is just working for its own self-benefit, building itself up, and that, to me, is of great concern, because even if you think of it in democratic terms, we would never have this at any other point in what you would call theoretical policymaking, this is not independent analysis, this is not an independent prescription of solutions, and it is a big conflict of interests that has the effects we are seeing now.

      “This, to me, is a great source of concern and I think it is something that we need to have a big chat about, because it is not only about what Frontex actually does on the ground, which is very visible and very tangible because it’s so raw, like pushbacks or someone dying in a case of non-assistance at sea, for example. But it’s actually more about how Frontex builds itself up, and the more it does so, the more difficult it will then become to hold it to account.”

      Lorenz: “From my point of view, [the campaign for a referendum can] definitely [be considered a success]. I’m an overly positive person so I think there may be other people within the committee who have different opinions. It’s also a fact that it cost a lot of resources especially if you are a small group, and it also demands a lot of discussions when a committee is so newly put together. I think when looking back or when looking at the moment, at this stage where we are now until mid-May, there will be 40+ events, there will be bus tours into small cities and into market places, there will be big events in the city and there will be a huge appearance on the 1st of May. So I do think that there were many connections points, for example, with the climate movement that took a very strong position against Frontex and also to link the militarisation of the border regime on the one hand to the causes of migration, but also to the destruction of nature due to the militarisation of the physical border regime, and also feminist positions on the patriarchal logic of militarisation, so I think this has all had very good and needed effects, that from my point of view are very valuable.

      “So, yes, of course, I think that regardless of the result there are positive outcomes, not least because it also, again, shows the very blind spots of this seemingly inclusive democracy where still one third of all people are excluded from it due to a racist migration and asylum system. So, I think the ones who are affected, they are on the one hand excluded from the right to vote but also they are often also excluded from the debate, because who is debating in public, especially in the places with a lot of reach? It will not be the people affected by the migration regime. So, I think that there were and are discussions going on that are needed and I think that the referendum is a very good instrument to use from time to time – not always and not too much – to intervene or to make a stand.”

      Finally, we enquired about the supposed neutrality of Frontex as a potential problem, and about how the Frontex referendum fits within the wider mobilisation across Europe.

      Luisa: “You also see this dynamic play into many other aspects of what Frontex does, for example in the research and innovation part of it, they have acquired the capability of advising where European research funds need to be invested. That is extremely interesting but it’s also very dangerous because, once again, they have a self-serving interest in what needs to be investigated and they will not advise the European Commission to invest in technologies to prevent the loss of life at sea or they will not encourage for example the European Commission to invest in studies around better visa granting systems and how we can make that more efficient to create safe routes for arrival. They will ask the European Commission to invest in facial recognition technology that they can then purchase and use for greater surveillance. So, it’s the fact that we have independent advice from someone that is everything but independent and extremely self-serving, which is very concerning, for sure.”

      Lorenz: “I think there are links at many levels. I think, for us, from the beginning, it was very important to embed the referendum within a broader network of resistance against the border regime. This, on the one hand, obviously means the self-organised daily resistance by people on the move against border regimes, the ones who do protests or ignore the border regime by continuing to cross. It is also meant as a sign [of solidarity] towards people on the move. This is also something that Malik said, when he was in 2015 on the road and they knew that there is a strong resistance movement within the cities, this gave them strength and motivation. This, for sure, is one side of it.

      “Then, of course, it [the referendum campaign] also stands in solidarity with all the work on the topic that has been done before. The demands are very much inspired from international networks like Watch the Med/AlarmPhone and others. Also, the knowledge that we use that we were able to build up on was very strongly also linked to networks like Abolish Frontex! and I think also many people involved are linked in one way or another to either local self-organised groups or networks that organise against the migration system or the camp systems, or are part of transnational networks or structures that to try to organise against the deterrence regime.

      “So, for sure this is very interconnected and for us it was very important to do that and not to behave as if we had produced this from scratch but that we obviously build upon very diverse and developing networks and practices of resistance that exist along all migration routes, I think, and this we tried to include somehow in the communication, obviously, and this was also a challenge because of course on the one hand we need to address the Swiss public with this fact, as you said, that millions per year are spent for this brutal and deadly regime for an army in its war against migration and on the other hand we also wanted to bring the realities on the external borders to the Swiss public, so it was always an act of balance on what to focus and which arguments to follow up on. I think this is how in the end we came to where we now are.”

      A last question for Lorenz was how the referendum can contribute to attempts to oppose problematic practices by member states, such as pushbacks and violence, often supported by the Commission and Frontex.

      Lorenz: “I find it difficult to say. What I hope, what we do is to make visible who is responsible for this. This is still one of the main goals, I think that one of the strengths of Frontex is that it seems a faraway agency that is hardly graspable and that it also has by its monitoring and reporting mechanism system a corrector. It was built not to be controlled, which makes it very easy to organise around Frontex this kind of horrible regime, while everybody, maybe, in a personal exchange would say ‘yes, this is a horrible regime, but we don’t have anything to do with it’.

      “So what we wanted to do (and still want to do) is to make this connection clear, and to make it very clear that there is this a responsibility in society, in parliamentary politics and obviously also in the private sector in all of that, and so, to bring this responsibility to where it belongs, and to confront people with that and to maybe make people feel uncomfortable, because in that way maybe they start to realise that they put this system in practice, which is completely inhuman and based on a systematisation of violence.

      “I think it is like many other strategies to counteract the migration regime, I think this is an additional one, and one that we could use to put effective pressure on the ones in power and to put them in a position where they have to talk in public about what is happening, and I think this is something that is not necessarily comfortable and that we definitely should use if we can.

      “Within that, media also have to report about it to a certain degree, which also means that at least some of them start to dig deeper, which also brings out the needed points and also the direct involvement, for example, that Switzerland can have. At the moment still there is a loud demand out there that Switzerland needs to make public the roles of their representatives on the executive board had on the matter that was examined by the OLAF anti-corruption agency, and obviously they do not do that, so you can also point to the channel of problems that you have with the security and surveillance institutions of the state that are highly intransparent even though they are involved in the most fundamental areas of human rights. So also at that level of demands it is an important and excellent opportunity.”

      https://www.statewatch.org/news/2022/april/interviews-transnational-action-in-support-of-upcoming-referendum-on-swi

    • #Référendum sur Frontex : la perspective des droits humains

      Le 15 mai, les citoyen·ne·s suisses voteront sur la reprise du règlement de l’UE sur le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes. Le nouveau règlement de l’UE a été approuvé par le Parlement à travers un arrêté fédéral et vise au développement et à l’extension de l’agence européenne de surveillance des frontières Frontex. Par cette adoption, la Suisse augmenterait fortement ses contributions financières et en personnel à l’agence européenne de surveillance des frontières.

      Frontex fait l’objet de vives critiques depuis des années, car l’agence a participé à plusieurs reprises à des refoulements illégaux et à des violations des droits humains, notamment par des autorités nationales de protection des frontières. Un référendum a donc été lancé contre le projet de loi reprenant le nouveau règlement de l’UE par le comité « No Frontex Referendum », sur l’initiative de l’organisation Migrant Solidarity Network.
      De quoi s’agit-il ?

      Le règlement de l’UE 2019/1896 relatif au corps européen de garde-frontières et de garde-côtes remplace les règlements de l’UE 1052/2013 et 2016/1624, et renforce du même coup Frontex en tant qu’autorité européenne de surveillance des frontières. Le Parlement européen et le Conseil de l’Union européenne expliquent que ces efforts sont motivés par les lacunes existantes dans le contrôle des frontières extérieures de l’espace Schengen. Selon eux, le cadre de l’Union dans les domaines du contrôle aux frontières extérieures, du retour, de la lutte contre la criminalité transfrontalière et de l’asile doit encore être amélioré.

      La réforme de Frontex comprend l’attribution d’un mandat plus important, la constitution d’une réserve permanente de 10 000 spécialistes d’ici 2027, l’engagement de 40 conseiller·ière·s en matière de droits fondamentaux pour soutenir l’office des droits fondamentaux, l’acquisition de navires, d’aéronefs et de véhicules ainsi que la promotion du système européen de surveillance des frontières EUROSUR, qui doit surveiller et empêcher la migration irrégulière à l’aide de moyens techniques.

      La réforme de l’agence européenne de surveillance des frontières entraîne une augmentation du budget et donc proportionnellement de la contribution de la Suisse, ce qu’elle fournit depuis 2011 à Frontex sur les plans financier et en personnel. En reprenant le nouveau règlement de l’UE, les 6 postes à plein temps actuellement mis à contribution par la Suisse augmenteraient progressivement pendant 5 ans pour atteindre un maximum de 40 postes à plein temps. La contribution financière passerait de 24 millions de francs en 2021 à un montant estimé à 61 millions de francs en 2027.
      Des violations des droits humains par Frontex

      L’agence européenne pour la gestion des frontières Frontex est impliquée depuis de nombreuses années dans des violations des droits humains aux frontières extérieures de l’UE. Ainsi, Amnesty International a documenté que Frontex collabore avec les garde-côtes libyen·ne·s, ce qui permet d’intercepter les personnes qui fuient en Méditerranée et de les ramener sous la contrainte dans des centres de détention libyens. De plus, l’agence européenne aide les autorités croates à la frontière extérieure de l’UE à repérer les personnes qui tentent de franchir la frontière de manière irrégulière. Des investigations ont également révélé que Frontex participe à des refoulements (« push-backs ») illégaux en Grèce. Selon l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés, ces pratiques entrent « en contradiction flagrante avec le droit européen et les obligations de droit international public ». Selon le principe de non-refoulement du droit international public, les personnes ne peuvent pas être expulsées si elles risquent d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou toute autre forme de violation sévère des droits humains.

      Afin de déterminer si elles ont besoin d’une protection, les personnes concernées doivent avoir accès à une procédure d’asile équitable et conforme à l’État de droit. Or, c’est précisément ce « droit de chercher asile et de bénéficier de l’asile en d’autres pays pour échapper à la persécution », ancré dans la Déclaration universelle des droits de l’homme (art. 14, par. 1 DUDH) qui est refusé à de nombreuses personnes par l’approche privilégiée par Frontex, à savoir repousser les personnes hors des frontières extérieures de l’UE. Selon la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe, il est urgent de mettre un terme aux refoulements aux frontières de l’Europe. Dans une recommandation, elle appelle les gouvernements à augmenter la transparence et la responsabilité, notamment en renforçant les mécanismes qui permettent d’exercer un contrôle indépendant des opérations de surveillance des frontières, et enjoint les parlementaires à se mobiliser pour empêcher l’adoption de propositions législatives qui autoriseraient les refoulements ainsi que pour abolir toutes les dispositions en ce sens qui seraient déjà en vigueur

      L’efficacité du « système de responsabilité », censé tenir compte du bilan préoccupant de Frontex en matière de droits humains, doit également être remise en question. Depuis 2011, Frontex a mis en place un système de signalement, des observateur·trice·s pour les retours forcés, des responsables des droits fondamentaux, un forum de consultation, un mécanisme de plaintes individuelles (en 2016) et un·e observateur·trice des droits fondamentaux (en 2019). Ces mécanismes ne sont en réalité que de la poudre aux yeux : en 2020, lorsque des député·e·s européen·ne·s se sont inquiété·e·s des tirs et des décès, la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, a indiqué qu’aucun incident grave n’avait été signalé, acceptant les justifications des autorités grecques. L’absence d’infractions signalées a également été utilisée par le directeur de Frontex, Fabrice Leggeri, pour justifier le rejet des recommandations du Commissariat aux droits fondamentaux et des gouvernements nationaux pour nier leurs pratiques illégales.

      Enfin, Frontex n’intervient pas seulement aux frontières extérieures de l’UE, mais est également responsable de la planification et de l’exécution des renvois dans l’ensemble de l’espace Schengen. De nombreux rapports témoignent de la violence et des violations des droits humains dont a fait preuve l’agence lors de ces renvois. Frontex exerce en outre une pression sur les pays non-membres de l’UE pour qu’ils réadmettent les réfugié·e·s expulsé·e·s. Au total, Frontex travaille avec plus de 20 pays en dehors de l’UE et poursuit l’externalisation de la gestion des réfugiées et de l’immigration de l’UE.
      Des garanties insuffisantes dans le projet de loi

      La Suisse a une part de responsabilité dans le droit européen en matière de migration et d’asile et dans le respect des droits humains en Europe, et doit ainsi revoir sa participation automatique à Frontex. Avec le projet de loi soumis au vote le 15 mai 2022, les moyens investis par la Suisse dans l’agence sont disproportionnés par rapport aux ressources mises à disposition pour les mécanismes de protection. C’est précisément pour cette raison que le projet de loi Frontex devrait être accompagné de mesures compensatoires lors de la procédure parlementaire. La Commission de la politique de sécurité du Conseil des États a reconnu en mai 2021 que la reprise des développements de Frontex nécessitait d’importantes mesures compensatoires « dans l’esprit de la tradition humanitaire de la Suisse », et a donc demandé une extension du contigent de réinstallation, afin de permettre à davantage de personnes fuyant des régions en crise de venir demander l’asile en Suisse. Cette demande avait déjà été formulée par l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés lors de la procédure de consultation. La commission a également proposé de renforcer les voies de recours des requérant·e·s d’asile par le biais d’un mécanisme de traitement des plaintes et la possibilité de recourir à un conseil juridique. Les Chambres fédérales ayant rejeté ces mesures, la loi soumise au vote ne prévoit aucune mesure compensatoire humanitaire importante. Si le référendum est accepté et le projet de loi rejeté, ce dernier pourrait être à nouveau débattu au Parlement ; en ce sens, le référendum offre à la Suisse une chance de trouver des compensations humanitaires à la politique migratoire européenne menaçant les droits humains.

      Les appels pour réformer Frontex ne viennent pas seulement de Suisse. Pour dénoncer ces pratiques contraires aux droits humains, le Parlement européen a demandé le gel d’environ 12% du budget de l’agence de surveillance des frontières en octobre 2021. Fin mars 2022, la commission du contrôle budgétaire de l’UE a décidé de prolonger cette décision, Frontex ne remplissant toujours pas les conditions pour une décharge du budget. Ses membres se sont appuyé·e·s sur les constatations de l’Office européen de lutte antifraude (OLAF), qui a fait état de harcèlement, de refoulements illégaux et d’autres mauvaises conduites de Frontex. La commission de l’UE demande que les violations de l’État de droit par Frontex soient traitées immédiatement. Un rejet par le peuple suisse du projet en discussion pourrait renforcer ces voix au Parlement européen et ainsi mettre la pression sur l’UE, les États Schengen et sur l’agence Frontex elle-même pour enfin engager les réformes nécessaires et mettre fin aux violations des droits humains commises dans le cadre de cette politique sécuritaire.
      Quels sont les risques ?

      Si elle n’adopte pas le règlement de l’UE sur le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes, la Suisse pourrait être exclue des accords d’association à Schengen et Dublin. Ceci est possible sur le plan contractuel, car l’accord d’association à Schengen (AAS) oblige en principe la Suisse à reprendre les développements de l’acquis de Schengen, et donc également du règlement UE 2019/1896, dans un délai de deux ans. Si la Suisse ne reprend pas l’acte ou ne le fait pas dans le délai prévu, l’accord cesse automatiquement d’être applicable après six mois (art. 7, al. 4, let. a et c, AAS). Un comité mixte, composé de représentant·e·s du gouvernement suisse, du Conseil de l’Union européenne et de la Commission européenne, dispose alors de 90 jours pour trouver une solution commune. S’il n’y parvient pas ou ne respecte pas le délai prévu, l’accord Schengen devient automatiquement caduc après trois mois (art. 7, al. 4, AAS). En raison de la petite « clause guillotine », l’accord d’association à Dublin serait alors également dissous, selon Sarah Progin-Theuerkauf, professeure de droit européen et de droit des migrations à l’Université de Fribourg.

      Rainer J. Schweizer, professeur de droit public, de droit européen et de droit international public à l’Université de Saint-Gall, rappelle quant à lui que la Suisse a repris depuis 2008 environ 370 actes juridiques de l’UE dans le cadre de Schengen et de Dublin, et que l’interdépendance de nombreuses institutions telles que la police, la justice, les autorités douanières et fiscales ne permet pas d’exclure automatiquement la Suisse des accords d’association à Schengen et Dublin par la « clause guillotine ». Un accord global de sortie sur le modèle de l’accord de sortie du Brexit serait en effet nécessaire ; aussi, c’est le moment de discuter des améliorations possibles dans le cadre de l’engagement de la Suisse auprès de Frontex.

      Une certaine marge de manœuvre existe en pratique : jusqu’à présent, l’UE a toujours attendu la votation lorsque des référendums ont été lancés contre les développements de Schengen, notamment lors de la transposition de la directive européenne sur les armes dans la législation suisse sur les armes ou encore de l’introduction des passeports biométriques. Comme la mise en œuvre de ces évolutions législatives était jusqu’à présent toujours prévisible, l’UE a renoncé à des sanctions. Le délai de deux ans est déjà dépassé dans le cadre du développement actuel de l’acquis de Schengen, comme il a été notifié à la Suisse le 15 novembre 2019, ce qui signifie que le délai de reprise a déjà expiré le 15 novembre 2021. En cas d’acceptation du référendum, il est donc tout à fait possible que l’UE accorde à la Suisse un certain laps de temps pour adapter le projet de loi et mettre en œuvre le règlement européen sur Frontex avec un peu de retard. Le 15 mai 2022, le peuple suisse se prononcera en effet sur la mise en œuvre nationale du règlement de l’UE, et non sur l’accord de Schengen ou l’accord d’association à Dublin en soi. Il faut toutefois que la Suisse communique rapidement la suite de la procédure à l’UE.
      Le point de vue des droits humains

      Alors que les contrôles aux frontières ont été abolis entre les États membres de l’UE, Dublin et de l’espace Schengen et que la libre circulation des personnes prévaut, l’immigration en provenance de l’extérieur de ces frontières est abordée comme un problème de sécurité et exclusivement sous l’aspect de la migration et de l’immigration illégales. Cette politique de repli sécuritaire, incarnée et déployée par Frontex, se fait au détriment des droits humains et favorise les discours racistes. Aussi, la Suisse ne doit pas soutenir ou même encourager ce système sans se poser de questions.

      Un retrait de la Suisse des accords d’association à Schengen/Dublin peut être considéré comme contre-productif dans la mesure où elle perdrait également son influence sur la politique européenne des réfugié·e·s et sur l’orientation de Frontex. Il ne faut toutefois pas oublier qu’elle participe elle-même à la politique d’asile critiquable de l’Europe sur la base de l’accord d’association à Dublin. La Suisse expulse régulièrement des personnes vers des États où elles risquent de subir de graves atteintes à leurs droits humains sur la base du règlement Dublin III notamment, et a déjà été critiquée à plusieurs reprises par les organes de traités de l’ONU.

      Si le référendum est accepté, la Suisse pourrait déclencher un débat sur la scène internationale et introduire des demandes plus exigeantes vis à vis de Frontex. L’agence européenne de surveillance des frontières doit à la fois assurer une plus grande sécurité pour les personnes en quête de protection, se positionner clairement contre les refoulements illégaux et mettre en place un système de responsabilité permettant de surveiller et de signaler les violations des droits fondamentaux et en garantissant l’indépendance et l’effectivité du mécanisme de plaintes individuelles.

      Compte tenu des violations des droits humains aux frontières extérieures de l’UE dont Frontex assume une part de responsabilité et vu l’insécurité alarmante planant sur les personnes en quête de protection, la reprise du nouveau règlement de l’UE sans mesure de compensation humanitaires au niveau national est inacceptable du point de vue des droits humains. Le « pays des droits humains » qu’est la Suisse a le devoir de contrebalancer la politique migratoire européenne restrictive en augmentant notamment le contingent de réinstallation, en facilitant le regroupement familial, en réintroduisant l’asile dans les ambassades ou en accueillant davantage de personnes en fuite ; accepter le référendum, et ainsi refuser le projet de loi actuel, représente une occasion pour amorcer ce changement.

      https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/prises-de-position/referendum-frontex-prise-position

    • #Frontex : #mensonge politique, effet boomerang, révolution

      Voir plus loin. Voilà ce que propose #Marie-Claire_Caloz-Tschopp dans un essai qu’elle met à disposition sur son site desexil.com (https://desexil.com/frontex) et qui propose de relire des philosophes politiques pour penser l’après votation sur la loi Frontex. « L’écho que rencontre une action de minoritaires courageux suffit à montrer que s’interroger sur Frontex implique, dans la suite de la votation suisse du 15 mai 2022, de reprendre l’initiative sur l’Europe en luttant pour une #hospitalité_politique constituante pour l’Europe et la planète. » Elle souligne au passage combien le système de #démocratie_semi-directe est mal connu des populations européennes. La « mise en garde » de la commissaire européenne aux affaires intérieures Ylva Johansson interviewée le 7 mai dans les journaux de Tamedia sur la votation faussement présentée comme un « pour ou contre Schengen » vient une fois de plus le confirmer (voir notre vrai/faux : https://asile.ch/2022/05/03/no-frontex-7-arguments-phares-decryptes)

      https://asile.ch/2022/05/09/desexil-frontex-mensonge-politique-effet-boomerang-revolution

      #votation #Suisse #démocratie_directe

    • Oui à une Europe des droits humains

      Un front composé de dix organisations de défense des droits humains et des migrant·es, d’une trentaine de parlementaires fédéraux et cantonaux, de personnalités du monde académique et de professionnel·les et militant·es du domaine de la migration appelle à refuser l’augmentation du financement de Frontex.

      Frontex est l’agence de garde-frontières et de garde-côtes de l’Union européenne. Elle a été fondée en 2005. Depuis lors, son budget a augmenté de 7000 %, passant de 6 millions à 11 milliards d’euros pour la période 2021-2027. Le 15 mai prochain, la population suisse doit décider s’il est nécessaire d’augmenter le financement suisse à Frontex de quelque 24 à 61 millions de francs.

      Le Conseil fédéral, les milieux économiques et une partie de la presse à grand tirage tentent d’accréditer la thèse selon laquelle la Suisse serait exclue de l’accord d’association à l’espace Schengen en cas de non le 15 mai prochain. Or, loin d’entraîner une telle conséquence, un rejet permettrait simplement au Parlement suisse de reprendre la main sur ce dossier afin de proposer une loi plus respectueuse des droits humains. En effet, la Suisse peut tout à fait assortir la participation suisse à cette agence de conditions. Et ce d’autant plus que les revendications des référendaires sont largement partagées par les parlementaires européens, tous bords confondus. Par ailleurs, aucun gouvernant européen ne menace aujourd’hui la Suisse de telles conséquences parce que l’Union européenne n’a pas intérêt à voir la Suisse, au cœur du continent, sortir de Schengen qui est, rappelons-le, un outil de coopération sécuritaire réciproque.

      Non, la question que posent les référendaires est très simple. Il s’agit de décider si l’agence Frontex, telle qu’elle fonctionne encore aujourd’hui, est compatible avec notre obligation d’offrir une politique d’asile digne et humaine aux personnes fuyant la persécution.

      La réponse, pour nous, est clairement non. Au lieu de protéger les demandeurs d’asile à leur arrivée et de les aiguiller dans les filières prévues à cet effet, Frontex participe directement ou indirectement à des renvois illégaux et à des atteintes aux droits humains en contradiction avec nos valeurs humanistes et le droit international.

      La violation par cette agence des droits fondamentaux des migrants en Grèce a été par exemple largement dénoncée par les ONG. Il en va de même des opérations de renvoi de migrants par la Hongrie, en dépit d’un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne qui les juge incompatibles avec le droit européen. Beaucoup d’opérations connues sous le nom de « prévention au départ » sont en fait des refoulements illégaux vers des pays comme la Libye accusés de traite, tortures et emprisonnements arbitraires.

      Les témoignages et rapports faisant état de pratiques totalement inadaptées, de violences ainsi que de traitements illégaux et dégradants infligés aux migrants, se multiplient.

      L’Office européen de lutte antifraude a mis en évidence des actes de harcèlement, de mauvaise conduite ainsi que la lenteur de recrutement des officiers de protection pourtant tellement indispensables. Le parlement européen, comme les référendaires en Suisse, est très préoccupé par cette situation. C’est pourquoi, il pris la décision de geler 12% du budget de l’institution.

      La situation est tellement chaotique au sein de cette agence que le directeur exécutif de l’agence, Fabrice Leggeri, a fini par donner sa démission, au grand soulagement des responsables européens. Car outre les pratiques illégales, le fonctionnement de cette agence ne répond plus depuis longtemps aux règles minimales de bonne gouvernance.

      Voter NON à l’augmentation de la participation suisse à Frontex ce n’est pas s’exclure de l’Union européenne mais au contraire participer activement au débat européen sur la façon dont nous entendons accompagner les flux migratoires.

      Nous estimons que le droit pour une personne persécutée de déposer une demande d’asile dans nos pays doit être pleinement garanti. Construire une forteresse autour de l’Europe sans assurer de filière officielle de dépôt de demande d’asile, par exemple au travers notre réseau d’ambassades, n’est pas acceptable et met en péril nos valeurs ainsi que le droit international.

      La mission prioritaire de Frontex est de protéger les frontières du continent contre le trafic et le crime, y compris en col blanc. Sa mission ne doit pas être de bloquer l’arrivée de demandeurs d’asile en mettant la vie de personnes cherchant refuge en danger.

      Nous demandons que Frontex se conforme, dans son fonctionnement, au principe selon lequel tout individu cherchant protection puisse soumettre une demande d’asile sur notre sol.

      Il en va de nos valeurs en tant que démocraties, respectueuses des droits fondamentaux et de l’Etat de droit. Il en va aussi de notre cohérence face au droit international qui doit être défendu autant en Ukraine qu’en Suisse.

      Votons massivement non à l’augmentation du financement de Frontex !

      Signataires :

      Frontex Referendum, Solinetz, Droitsfondamentaux.ch, Forum civique, Emmanuel Deonna (Député, GE, PS), Nicolas Walder (Conseiller national, GE,Verts), Christian Dandrès (Conseiller national, Genève, PS), Gabriel Barta (Membre de la Commission Migration et Genève internationale, Ge, PS), Tobia Schnebli (Président du Parti du travail, Genève), Kaya Pawlowska (Chargée de projet, PS Suisse), Jean Ziegler (ancien conseiller national, Genève), Samson Yemane (Conseiller communal, Lausanne, PS), Philippe Borgeaud (Professeur honoraire, Université de Genève), Florio Togni (Président, Stop Exclusion, GE), Carol Scheller (Membre du Comité unitaire No Frontex, GE), Maryelle Budry (Conseillère municipale, Ensemble à Gauche, GE), Alexis Patino, (Groupe Migration UNIA Genève), Aude Martenot (Députée, GE, Ensemble à Gauche,), Pierre Eckert (Député, GE, Les Verts), Marie-Claire Calloz-Tschopp (Collège internationale de Philosophie, Genève, desexil.com), Droit de Rester Neuchâtel, Ada Marra, (Conseillère nationale, VD, PS), Stéfanie Prezioso, (Conseillère nationale, GE, Ensemble à Gauche), Ilias Panchard (Conseiller communal, Lausanne, Les Verts), Graziella de Coulon (Collectif Droit de Rester, Lausanne), Yan Giroud (Co-président de la section vaudoise de la Ligue suisse des droits de l’homme), Cathy Day (Présidente de la section genevoise de la Ligue suisse des droits de l’homme), Marc Morel (Membre du comité, Ligue suisse des droits de l’homme), Delphine Klopfenstein-Broggini (Conseillère nationale, GE, Les Verts), José Lilo (Auteur, acteur & metteur en scène), Brigitte Berthouzoz (Membre du comité, Ligue suisse des droits de l’homme, Genève), Thomas Bruchez (Vice-président de la Jeunesse socialiste suisse), Marianne Ebel (Présidente, Marche mondiale des femmes, Suisse), Mireille Senn (militante syndicale et des droits humains), Alexandre Winter (Pasteur de l’église protestante de Genève), Jérôme Richer (auteur et metteur en scène), Ricardo Espinosa (Directeur IAHRA, Genève), Anna Gabriel Sabate (Secrétaire régionale UNIA Genève), Helena Verissimo de Freitas (Secrétaire régionale adjointe UNIA Genève), Sophie Guignard (Secrétaire générale de Solidarités sans frontières), Nicolas Morel (militant PS, Lausanne), Sophie Malka (Comité de Vivre Ensemble), Apyio Amolo Brandle (Conseillère communale, Schlieren, PS), Giada de Coulon, (Comptoir des médias, Vivre Ensemble), Carine Carvalho Arruda (Députée au Grand Conseil vaudois), Raphaël Mahaim (Conseiller national, Vaud, Les Vert·e·s), Carlo Sommaruga (Conseiller aux Etats (GE, PS), Lisa Mazzone (Conseillère aux Etats, GE, Les Verts), Isabelle Paquier-Eichenberger, (Conseillère nationale, GE, Les Vert·e·s), Sibel Arslan (Conseillère nationale, Bâle, les Vert.e.s), Marionna Schlatter (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Denis de la Reussille (Conseiller national, NE, Parti ouvrier Populaire/Parti du Travail), Laurence Fehlmann Rielle (Conseillère nationale, GE, PS), Jean-Charles Rielle (Député au Grand Conseil, GE, PS), Samuel Bendahan (Conseiller national, VD, PS), Sophie Michaud Gigon (Conseillère nationale, VD, PS), Valerie Piller-Carrard (Conseillère nationale, Fribourg, PS), Baptiste Hurni (Conseiller national, NE, Les Verts), Christophe Clivaz (Conseiller national, VS, Les Verts), Samira Marti (Conseillère nationale, Bâle, SP), Katharina Prelicz-Huber (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Kurt Egger (Conseiller national, Turgovie, Les Verts), Florence Brenzikoger, (Conseillère nationale, Bâle, Les Verts), Michael Töngi, (Conseiller national, LU, Les Verts,), Katharina Prelicz-Huber (Conseillère nationale, ZH, Les Verts), Les Verte.s Section Jura, Christian Huber (Président des Verts de la ville et de la région de Saint-Gall), Nina Vladović, (Président de la Commission de la Migration Syndicat SSP), Brigitte Crottaz (Conseillère nationale, VD, PS), Balthasar Glaettli (Conseiller national, ZH, Les Verts), Élisabeth Baume-Schneider, (Conseillère aux Etats (PS, Jura), Felix Wettstein (Conseiller national, Soleure, Les Verts), Pierre-Alain Fridez (Conseiller national, Jura, PS), Charles Heller (Chercheur à l’Institut des hautes études internationales et du développement, Genève), Danièle Warynski (Maître d’Enseignement, Haute école de travail social, Genève), Jeunesse socialiste genevoise, Solikarte Kollektiv, Rachel Klein, Ronja Jansen (Présidente, Jeunesse socialiste suisse), Jean-Marie Mellana (Comité PS Ville de Genève), Wahba Ghaly (Conseiller municipal, PS, Vernier), Oriana Bruecker (Conseillère municipale, PS, GE), Diego Cabeza (Président du SIT), Davide de Filippo (co-secrétaire général du SIT et président de la CGAS), Jean-Luc Ferrière (co-secrétaire général du SIT), Umberto Bandiera (syndicaliste SIT et responsable de la commission de solidarité internationale de la CGAS).

      https://lecourrier.ch/2022/05/09/oui-a-une-europe-des-droits-humains/?msclkid=b51beebfd06d11eca1e2d8ca091db432

    • No Frontex | Droits fondamentaux : le Conseil fédéral devra rendre des comptes

      En faisant croire à la population que la votation portait sur une acceptation ou un refus de l’Europe de Schengen, le Conseil fédéral a réussi à faire peur à une majorité de la population, y compris parmi des personnes soucieuses du respect des droits fondamentaux et qui n’ont glissé qu’un « oui » « de raison » dans l’urne. Mais le débat sur Frontex n’est pas clos, estime le comité référendaire genevois No Frontex [1]. Le Conseil fédéral a pris un engagement dans cette campagne en affirmant que le « Oui » permettra d’améliorer « de l’intérieur » le respect des droits fondamentaux. Ce faisant, il reconnait la co-responsabilité de la Suisse dans les pratiques de Frontex : la mort de plusieurs dizaines de milliers d’hommes, de femmes et d’enfants aux frontières extérieures de l’Europe, les refoulements illégaux de personnes à protéger, l’absence de contrôle véritablement indépendant du respect des droits humains et l’opacité de la plus grosse agence de l’Union européenne. Les autorités fédérales devront désormais rendre des comptes. L’attention ne faiblira pas.

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      Frontex et violations des droits fondamentaux : le Conseil fédéral devra rendre des comptes

      Comité référendaire genevois NO FRONTEX

      Communiqué de presse – 15.05.2022

      Le comité référendaire genevois No Frontex a pris note avec déception du résultat du vote d’aujourd’hui. Mais il n’est pas surpris. En faisant croire à la population que la votation portait sur une acceptation ou un refus de l’Europe de Schengen, le Conseil fédéral a réussi à faire peur à une majorité de nos concitoyennes et concitoyens, y compris chez des personnes soucieuses du respect des droits fondamentaux et qui n’ont glissé qu’un « oui » dit « pragmatique » ou « de raison » dans l’urne. Mais le débat n’est pas clos.

      Le Conseil fédéral a pris un engagement dans cette campagne en affirmant que le « Oui » permettra d’améliorer « de l’intérieur » le respect des droits fondamentaux par l’agence européenne du corps des garde-côtes et garde-frontières. Ce faisant, il reconnait la coresponsabilité de la Suisse dans les pratiques de Frontex : la mort de plusieurs dizaines de milliers d’hommes, de femmes et d’enfants aux frontières extérieures de l’Europe, les refoulements illégaux de personnes à protéger, l’absence de contrôle véritablement indépendant du respect des droits humains et l’opacité de la plus grosse agence de l’Union européenne ont été mis en lumière.

      Tel est le mérite de la campagne référendaire lancée par un petit collectif de personnes migrantes autour et de citoyen·nes solidaires et engagé·es : avoir fait des agissements de Frontex un débat de politique suisse. Les actes commis aux frontières extérieures de Europe le sont aussi au nom de la Suisse et les autorités fédérales devront désormais rendre des comptes. L’attention ne faiblira pas. L’opposition démocratique non plus.

      Frontex, complice de violences et de morts en mer et sur terre

      Les révélations de ces dernières semaines ont souligné ce que l’on sait depuis longtemps : Frontex ne sauve pas, mais est complice de la violence aux frontières extérieures de l’Europe. Frontex ne dispose pas de navires de sauvetage en mer en Méditerranée, mais observe depuis les airs comment les gens se noient. Dans d’autres cas, les bateaux qui coulent sont signalés aux soi-disant garde-côtes libyens, qui ramènent de force les personnes en fuite en Libye. La structure Frontex ne renforce pas les droits humains, mais considère les personnes migrantes comme un danger et mène une guerre violente à leur encontre. Différentes recherches dans les médias prouvent que Frontex est impliquée dans des pushbacks et les dissimule sciemment. Les plaintes juridiques contre Frontex se multiplient, le Parlement européen a voté contre la décharge du budget de Frontex. Le 29 avril, le chef de Frontex, Fabrice Leggeri, a démissionné.

      Les partisan.es de Frontex continuent de prétendre que l’agence peut être améliorée. C’est faux : les violations systématiques des droits de l’homme continueront en raison de sa mission de fermeture des frontières européennes.

      Cloisonner les frontières c’est renforcer les réseaux criminels et faire le jeu d’Etats autoritaires

      Or, la migration est un fait, pas une menace. Les gens continueront à quitter leurs pays et à chercher refuge et sécurité en Europe. En cloisonnant les frontières, en érigeant des murs, les autorités européennes – et la Suisse, membre de Frontex depuis 2011 – font le jeu d’États autoritaires, renforcent les réseaux criminels de passeurs, alimentent l’industrie de l’armement. Au lieu de protéger des hommes, femmes et enfants, elles les rendent plus vulnérables. Combien de femmes et d’hommes ont été abusé·es sexuellement voire victimes de traite d’êtres humains durant leur parcours de par l’absence de voie légale sûre d’accès à une protection internationale ?

      Cette politique sape les valeurs de démocratie et de respect des droits humains que revendiquent l’Europe et la Suisse. Au lieu de dépenser des millions à faire la guerre aux personnes en exil, l’Europe ferait mieux d’investir dans le sauvetage et une politique d’accueil digne.

      Le référendum No Frontex : indispensable pour dénoncer les violences

      Le comité genevois du référendum contre Frontex tient ici à saluer les activistes et les organisations de base qui se sont formés autour du Migrant Solidarity Network. Ceux-ci ont lancé seuls le référendum et l’ont porté jusqu’au bout. Beaucoup des militant·es concerné·es n’ont mêmes pas le droit de vote. Ils et elles ont montré qu’ils et elles ont leur place dans ce pays et que leur voix doit être écoutée.

      Le comité genevois regrette aussi le refus des grandes organisations nationales telles que l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés et Amnesty suisse de soutenir le référendum. En laissant la liberté de vote, ils ont légitimé les voix des partisan.nes du oui. Alors qu’un non le 15 mai aurait permis de reprendre les débats au Parlement suisse et de renforcer les voix progressistes européennes qui se battent à Bruxelles contre la politique actuelle de fermeture des frontières.

      Le comité genevois, composé de tous les partis de gauche, des syndicats, de la plupart des organisations de défense des droits des personnes migrantes, est fier d’avoir pu soutenir et participer à cette campagne, qui ne s’arrêtera pas le 15 mai !

      https://asile.ch/2022/05/15/84483

    • D’autant plus maintenant : Un double NON le 15 mai, pour tous ceux qui peuvent voter et ceux qui devraient pouvoir voter

      Il est enfin parti. La démission du directeur exécutif de l’agence européenne de surveillance des frontières Frontex, Fabrice Leggeri, était attendue depuis longtemps et constitue pourtant une surprise. Car depuis l’annonce des premières accusations contre l’agence à l’automne 2020, Leggeri était collé à son poste, ne montrait aucune conscience du problème ni de l’injustice et pouvait apparemment compter sur le fait que ni les Etats membres de l’UE ni la Commission européenne n’avaient intérêt à affaiblir l’agence en faisant tomber son directeur exécutif. Car l’agence se trouve actuellement dans une phase décisive de sa transformation en la première unité de police européenne en uniforme.

      Cette rupture significative dans le projet européen est également l’objet du référendum suisse sur Frontex le 15 mai 2022. Ce n’est qu’en apparence qu’il s’agit d’augmenter la contribution suisse à l’agence à 61 millions de francs. La véritable question est de savoir si une agence qui échappe déjà à tout contrôle démocratique et qui agit en toute impunité aux frontières de l’Europe doit encore recevoir des compétences et du personnel supplémentaires. La démission de Leggeri a encore renforcé ce point.

      Mais la Commission européenne tente aujourd’hui de présenter la démission du directeur exécutif comme un coup de pouce libérateur et affirme que la responsabilité des multiples scandales est à rechercher uniquement dans la personne du directeur exécutif. C’est bien sûr tout aussi faux que la menace d’une exclusion de Schengen si la Suisse votait contre l’extension des compétences et du budget de l’agence. Mais cela souligne la pression intense avec lequel la Commission veut faire avancer le développement massif de l’agence et empêcher tout débat. C’est aussi pour cette raison qu’elle a constamment soutenu Leggeri au cours des 18 derniers mois, lorsque les médias ont multiplié les révélations d’investigation sur l’agence.

      Mais fin avril 2022, la pression est devenue trop forte. Le conseil d’administration, c’est-à-dire l’organe chargé de superviser et de contrôler l’agence, qui a seul le pouvoir de révoquer le directeur exécutif et au sein duquel les États participants et la Commission sont représentés, disposait depuis des semaines d’un rapport de plus de 200 pages de l’OLAF, l’autorité européenne de lutte contre la corruption. Ce rapport n’a pas été rendu public jusqu’à présent, mais il a été dit à plusieurs reprises qu’il prouvait les manquements de plusieurs personnes à la tête de Frontex. Le rapport s’est surtout penché sur la question de savoir si Frontex était impliquée dans les pushbacks - c’est-à-dire les refoulements illégaux et souvent violents de personnes en quête de protection aux frontières de l’Europe - ou du moins si elle était au courant de cette pratique des unités nationales de protection des frontières, mais qu’elle dissimulait ces connaissances et tolérait et soutenait ainsi implicitement la violence. En outre, le rapport semble également porter sur des accusations de comportement incorrect et de harcèlement au sein de l’agence. D’après ce que l’on sait jusqu’à présent, Leggeri, mais aussi son chef de bureau Thibault de La Haye Jousselin, auraient adopté un style de direction très autoritaire, qui visait à centraliser encore plus le pouvoir et les compétences autour du directeur exécutif et qui laissait peu de place à la contradiction ou à la discussion. La question de savoir si des fonds ont été utilisés de manière abusive est également en suspens. En bref, les reproches donnent l’image d’une agence incontrôlable, qui s’est rendue autonome et qui ne se sent pas non plus liée par le droit européen.

      Combattu dès le début

      Les mouvements européens de lutte contre le racisme et de solidarité avec les migrants, les ONG ainsi que la recherche critique ont regardé Frontex avec méfiance depuis sa création en 2004. En effet, il y a près de vingt ans déjà, il s’est avéré que l’européanisation de la politique migratoire et frontalière par le traité d’Amsterdam (1997), et en particulier la création de l’agence Frontex, a marqué le début d’une évolution problématique pour plusieurs raisons. D’une part, l’agence mettait en réseau des acteurs issus des milieux policiers, militaires et des services de renseignement et, d’autre part, elle les mettait en relation avec des entreprises d’armement qui découvraient le domaine d’activité du contrôle européanisé et technicisé des frontières, qui s’était développé dans les années 2000. Dans le même temps, l’agence est devenue un acteur de plus en plus puissant du contrôle des migrations, mais elle a dépolitisé cette question profondément politique en arguant qu’elle ne s’adressait qu’aux techniques de gestion européenne des frontières. Enfin, l’Agence est également devenue un organe exécutif européen qui n’est encadré ni par les pouvoirs législatif et judiciaire, ni par un régime de contrôle propre. Dès le départ, l’agence a donc constitué un exemple pertinent du déficit démocratique souvent constaté dans l’Union européenne, sous la forme d’un exécutif qui s’autonomise.

      Dès le début, il a toutefois été difficile de relier cette critique assez abstraite à la pratique de l’agence. En effet, par construction, l’Agence restait plutôt en retrait. Le travail quotidien de contrôle et de surveillance des frontières continuait d’être effectué par les institutions de protection des frontières des États membres. Et les opérations supplémentaires de l’Agence à différents endroits aux frontières de l’Europe ont été coordonnées et financées par l’Agence, mais elles ont à nouveau été menées par les États membres.

      Mais le fait d’agir en arrière-plan ne signifie en aucun cas que l’Agence n’a pas exercé d’influence. Le lancement d’Eurosur - le système européen de surveillance des frontières - en 2013 est le résultat d’une étude de faisabilité de l’Agence sur la mise en réseau de différentes technologies de surveillance des frontières, comme les drones ou les satellites. L’influence de l’Agence a été encore plus grave en 2014, lorsque l’Italie a dû mettre fin à l’opération militaro-humanitaire Mare Nostrum en Méditerranée centrale sous la pression de l’Union européenne. L’objectif officiel de l’opération était de mettre fin à la mort des migrants en Méditerranée, ce qui a été temporairement réalisé. Mais au bout d’un an, Mare Nostrum a pris fin et a été remplacée par l’opération Triton de Frontex, qui a de nouveau donné la priorité à la protection des frontières extérieures de l’UE par rapport à la protection des vies humaines. Le nombre de morts en Méditerranée a aussitôt augmenté.

      Frontex, vainqueur de la crise

      De manière surprenante, l’agence a toutefois été absente pendant des mois durant l’été de la migration 2015. Début 2015, Leggeri avait pourtant averti que des centaines de milliers de migrants attendaient en Libye de pouvoir entreprendre la traversée vers l’Italie. Il a ainsi prouvé d’une part que les capacités de prévision de la soi-disant analyse des risques, tant vantées par l’agence, étaient dans le meilleur des cas douteuses, et d’autre part que sa déclaration devait être considérée comme une tentative ciblée d’influence politique et déloyale. Mais par la suite, on n’a plus beaucoup entendu parler de l’agence, ce qui, rétrospectivement, apparaît certainement comme un coup de chance. Un scénario dans lequel l’agence aurait tenté d’empêcher les mouvements migratoires par tous les moyens à sa disposition n’aurait pu conduire qu’à la misère, à la violence et à la mort.

      Pourtant, Frontex a été le principal bénéficiaire de ces mois mouvementés. En décembre 2015, la Commission européenne a proposé une extension massive des compétences de l’agence. Au lieu de sa fonction de coordination, elle devrait désormais diriger la nouvelle construction d’un corps de garde-frontières et de garde-côtes européens et a reçu pour cela son nouveau nom d’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes. Le nouveau règlement codifiait en outre la manière dont la gestion des frontières (en anglais : border management) devait être effectuée dans l’Union européenne et attribuait à l’Agence les premières fonctions de surveillance. Un deuxième élargissement des compétences, encore plus large, a eu lieu en 2019. Le nouveau règlement n’a pas seulement fusionné Frontex avec Eurosur, dotant ainsi l’agence d’un système technique complet de surveillance des frontières. L’agence a surtout reçu les compétences et le budget nécessaires pour constituer une réserve permanente de 10.000 gardes-frontières européens d’ici 2027.

      On ne soulignera jamais assez l’importance de ce nouveau règlement pour l’intégration européenne. En effet, pour la première fois de son histoire, l’Union européenne se dote d’un organe d’exécution en uniforme, qui devra intervenir quotidiennement aux frontières de l’Europe. L’introduction de ces insignes de l’État, qui font habituellement l’objet de discussions minutieuses au sein du projet européen, s’est pourtant faite sans grand débat, sur la base d’un article plutôt vague du traité de Lisbonne, qui reconnaît à l’UE la compétence de prendre des mesures pour une gestion commune des frontières. On peut douter qu’il s’agisse là d’une autorisation de passer sous silence d’importantes questions constitutionnelles telles que la légitimité démocratique et une séparation des pouvoirs efficace.

      Nouvelles méthodes

      Mais même au-delà de ces grandes questions constitutionnelles, une alliance d’activistes, de chercheurs critiques et de journalistes avait commencé bien avant à documenter le fait que le système européen de contrôle des frontières conduisait à la violence et à la mort.

      En 2008 déjà, une première manifestation a eu lieu devant le siège de l’agence à Varsovie[1] , tandis que le Noborder Camp 2009 sur l’île grecque de Lesbos a provoqué les garde-côtes grecs à faire une démonstration en plein jour dans le port de Mytilène sur la manière dont ils procèdent lors des pushbacks.[2] La protestation et la critique de la politique migratoire européenne, que ce soit à l’intérieur ou à l’extérieur des frontières de l’Europe, ont de plus en plus englobé la critique de Frontex et ont ainsi permis à l’agence de se faire connaître d’un plus large public. Les médias s’intéressent de plus en plus à cette institution inhabituelle de l’Union européenne.

      Les travaux de Forensic Architecture/Forensic Oceanography ont représenté une percée importante, car ils ont pu retracer minutieusement dans certains cas, comme en 2012 dans le cas du Left-To-Die Boot, comment certaines actions et omissions dans le système multi-acteurs du régime frontalier européen ont produit une catastrophe à l’issue fatale.[3] Mais ce travail a surtout permis de plausibiliser la nouvelle possibilité d’exposer la violence de la frontière européenne à la lumière d’un public critique.

      Depuis 2014, le réseau Alarmphone[4] a documenté des cas de refoulement de personnes en quête de protection, d’abord en Méditerranée centrale, puis dans la mer Égée. Le Border Violence Monitoring Network[5] a documenté à son tour des indications et des témoignages de pushbacks violents aux frontières terrestres, par exemple à la frontière terrestre gréco-turque ou aux frontières entre la Croatie et la Bosnie-Herzégovine. Ce travail de documentation systématique a créé des bases de données alternatives sur les événements aux frontières de l’Europe, qui ont permis de nouvelles approches de recherche.

      Les activités de liberté de l’information de Luisa Izuzquiza et Arne Semsrott (Semsrott et Izuzquiza 2018) se sont avérées être une innovation méthodologique similaire. Ceux-ci avaient commencé à demander de plus en plus de documents à l’agence, en se basant sur la législation européenne sur la liberté d’information. Ainsi, des archives de documents internes à l’Agence ont lentement vu le jour, mais surtout, la connaissance de ces nouvelles méthodes et possibilités s’est répandue.

      De nouveaux résultats issus de la recherche sont venus s’y ajouter. En 2018, la juriste Melanie Fink a pu démontrer que même un contrôle juridique externe des actions de l’agence par des tribunaux nationaux ou européens était de facto impossible (Fink 2018). Toujours en 2018, ma collègue Lena Karamanidou et moi-même avons pu démontrer que la nouvelle agence élargie n’était pas soumise à des obligations de responsabilité et de transparence importantes. Les mécanismes internes de l’agence, censés garantir le respect des droits fondamentaux dans les opérations de l’agence ou permettre un contrôle a posteriori, se sont révélés essentiellement inefficaces et sans conséquence (Karamanidou et Kasparek 2020). Dans mon ethnographie de l’agence, j’ai en outre pu montrer que cette construction d’une agence européenne renvoyait à un art de gouverner européen technocratique, poursuivi de manière ciblée par la Commission depuis les années 2000 (Kasparek 2021).

      Ainsi, à partir de 2017, les indices selon lesquels Frontex favorisait ou soutenait des pratiques nationales de gestion des frontières contraires au droit international des réfugiés, à la Charte européenne des droits fondamentaux et au droit européen se sont multipliés. Il était également clair qu’il existait des obstacles juridiques et administratifs importants pour demander des comptes à l’agence.

      Scandales

      La démission de Leggeri a prouvé que les critiques adressées à l’agence après l’été de la migration étaient justifiées. L’extension massive des compétences et du budget de l’agence en l’absence de contrôle et de surveillance a accéléré une évolution dans laquelle l’agence et en particulier son directeur exécutif semblaient avoir le sentiment d’être intouchables et que la fin - c’est-à-dire l’arrêt de l’immigration vers l’Europe - justifiait tous les moyens - en particulier des pushbacks violents. Cela s’est également manifesté par le fait que l’agence a apparemment commencé à agir en dehors du droit et de la loi dans d’autres activités.

      La création d’un environnement de travail toxique au sein de l’agence, comme décrit ci-dessus, semble être le moindre des reproches. Leggeri a aussi délibérément empêché le recrutement de 40 observateurs des droits fondamentaux, comme l’exigeait le règlement de 2019. Il s’est montré si insolent que même la Commission a perdu patience avec lui, ce qui a donné lieu à un échange de lettres qui vaut le détour.[6] On a également l’impression que la direction de l’Agence a délibérément évincé la responsable du service des droits fondamentaux de l’Agence. Celle-ci avait exigé à plusieurs reprises le retrait de Frontex des opérations au cours desquelles des violations des droits fondamentaux avaient été manifestement commises. Mais Leggeri n’a pas voulu accéder à ces demandes. La directrice a alors été refroidie selon toute apparence, son poste est effectivement resté vacant pendant de nombreux mois et n’a été pourvu qu’à l’automne 2020 par un proche du directeur exécutif.

      Le processus de création de la réserve permanente de l’Agence, c’est-à-dire des 10.000 gardes-frontières jusqu’en 2027, a également été mis à mal de manière fabuleuse.[7] Les candidats ont d’abord été informés qu’ils seraient recrutés, mais le lendemain, ils ont reçu une réponse négative par e-mail. Une fois arrivés à Varsovie, ils ont été parqués dans une caserne de la police des frontières polonaise et oubliés. Et comme on a omis de mettre en place un concept d’hygiène, le coronavirus s’est propagé parmi les nouvelles recrues. L’agence n’a pas non plus mis en place de règles permettant aux membres de la réserve de posséder, de porter et de transporter des armes à feu en transit. De plus, l’agence aurait dépensé des millions pour un logiciel dysfonctionnel sans jamais se retourner contre les fabricants.

      En automne 2020, les premiers rapports des médias,[8] , ont abordé ces événements,[9] mais surtout la question de l’implication de l’agence dans les pushbacks. Il n’est pas clair si ce sont ces rapports qui ont attiré l’attention de l’OLAF, l’autorité anti-corruption. En tout cas, début décembre 2020, l’OLAF a perquisitionné les bureaux de Leggeri et de son chef de bureau, a saisi de nombreux documents, a mis les locaux sous scellés et a interrogé des collaborateurs de l’agence. C’est ainsi qu’a commencé l’enquête de l’OLAF, qui a abouti au rapport de plus de 200 pages qui a finalement entraîné la démission de Leggeri.

      Le chemin a toutefois été long pour y parvenir. Le conseil d’administration de l’agence a rapidement lancé une enquête interne sur les allégations, mais n’a pu ni confirmer ni infirmer certaines d’entre elles. Il semble que l’agence n’ait pas fourni tous les documents nécessaires à son propre conseil d’administration. L’enquête menée par le Frontex Scrutiny Working Group au sein de la commission LIBE du Parlement européen a également abouti à un résultat ambivalent, à savoir que l’implication directe de l’agence dans les pushbacks n’a pas pu être confirmée, mais que l’agence était définitivement au courant des pushbacks et ne faisait rien pour les éviter. En outre, la Médiatrice européenne a mené plusieurs enquêtes.

      Leggeri a affirmé pendant tout ce temps que les accusations étaient injustifiées et a prétendu avec audace qu’il n’y avait pas du tout de pushbacks en mer Egée par exemple. Et ce, alors que même le HCR estime qu’il y a plusieurs centaines de cas par an.[10] Leggeri a refusé toute tentative de clarification et n’a fait des concessions que lorsqu’il ne pouvait plus faire autrement. En avril 2022, l’OLAF a finalement terminé le rapport en question et l’a remis au conseil d’administration de l’agence. Il y est resté plusieurs semaines, jusqu’à ce que d’autres rapports des médias[11] puissent montrer, grâce à une combinaison intelligente de demandes de liberté d’information sur une base de données interne de l’agence et de documentations activistes, que Frontex ne se contente pas de tolérer et d’accepter tacitement les pushbacks en mer Égée, mais qu’elle efface aussi systématiquement ces connaissances de ses propres bases de données. À ce stade, la pression était définitivement trop forte. Le conseil d’administration, qui s’est réuni quelques jours après ces révélations importantes, a décidé d’ouvrir une procédure disciplinaire contre Leggeri. Ce dernier a anticipé cette décision en démissionnant.

      Le droit européen s’applique-t-il aux frontières de l’Europe ?

      A l’occasion de sa démission, Leggeri s’est adressé une dernière fois à ses collaborateurs. Dans une lettre, il se plaint qu’au cours des deux dernières années, un nouveau récit sur l’agence a été établi. Il maintient que le mandat du règlement de 2019 l’a chargé de créer le premier service en uniforme de l’UE afin d’aider les États membres à gérer les frontières. Mais le nouveau récit est que Frontex doit être transformé en une sorte d’agence des droits fondamentaux ("that Frontex’s core mandate should be transformed in practice into a sort of Fundamental Rights Body"), qui doit observer ce que font les États membres à la frontière extérieure de l’UE. Mais cela n’est pas compatible avec lui, raison pour laquelle il a été contraint de démissionner.

      C’est au plus tard ce mépris affiché pour la validité des droits fondamentaux dans l’Union européenne qui a rendu Leggeri inacceptable en tant que directeur exécutif d’une agence européenne. Car il n’est évidemment pas acceptable que le directeur d’une agence européenne considère les droits fondamentaux comme une imposition et refuse de les défendre. Mais sur le fond, Leggeri renvoie effectivement à une tension qui a caractérisé dès le début le régime européen des migrations et des frontières. Avec la création d’une politique frontalière européenne commune et d’une frontière européanisée par les accords de Schengen et surtout par le traité d’Amsterdam (1997), l’UE avait également tenté de se détacher d’un modèle de violence nationale et souveraine à la frontière. La professionnalisation de la gestion des frontières, notamment par le biais de Frontex, l’introduction de méthodes d’analyse des risques prétendument basées sur la connaissance, la codification de la frontière par le Code frontières Schengen, mais surtout la promesse d’une frontière hautement technologique qui serait déjà effective bien au-delà de la ligne frontalière proprement dite grâce à des bases de données en réseau et des technologies de surveillance, constituaient l’offre européenne aux États membres.

      L’été de la migration 2015 a toutefois révélé l’insuffisance d’une telle approche européanisée. Plusieurs États membres, comme la Grèce, la Hongrie et la Pologne, sont revenus à l’ancien mode de gestion souveraine des frontières nationales. Cela impliquait également l’idée que l’État était le seul à pouvoir décider de l’accès au territoire national et à l’imposer par la force si nécessaire. Le lent échec de l’accord UE-Turquie, qui avait mis fin en 2016 à l’été de la migration, la migration de fuite forcée à la frontière entre la Biélorussie et la Pologne, la lente augmentation des franchissements non autorisés de la frontière dans les Balkans ont donc conduit ces dernières années à une normalisation et une systématisation insidieuses de cette violence sous la forme des pushbacks.

      Mais ce qui est fatal actuellement, c’est que ces anciennes rationalités se sont combinées avec les nouvelles technologies de surveillance pour former une machine de pushbacks systématiques et quotidiens. La coopération de l’agence Frontex, dirigée par le directeur exécutif Leggeri, avec les institutions nationales de protection des frontières illustre précisément ce lien. Souvent, Frontex ne fournit que les informations sur les embarcations ou les groupes de personnes en mouvement que l’agence obtient grâce à ses capacités de surveillance. L’agence laisse ensuite le travail sale et illégal des pushbacks aux institutions des États membres, comme les garde-côtes grecs ou même des unités aussi douteuses que les soi-disant garde-côtes libyens, une milice de la guerre civile libyenne qui s’est reconvertie dans le contrôle de l’immigration suite à une incitation financière de l’UE. Et comme nous l’avons montré dans un autre article, le retour aux anciennes conceptions de ce qui constitue une protection efficace des frontières peut également être observé dans le processus d’élaboration du règlement de 2019 (Kasparek et Karamanidou 2022).

      Est-ce vraiment trop demander que d’exiger d’une agence européenne d’application de la loi qu’elle soit tenue de faire respecter le droit européen en vigueur aux frontières de l’Europe ? Ce n’est qu’une question rhétorique en apparence, car c’est précisément l’exigence banale à laquelle Leggeri ne voulait plus répondre. Les pushbacks, l’internement disproportionné de personnes en quête de protection, la violence à l’encontre des réfugiés ne sont pas autorisés par le droit européen et sont même souvent passibles de poursuites pénales. L’agence est consciente de ces violations quotidiennes du droit européen, mais elle soutient et couvre les auteurs dans un prétendu geste de solidarité européenne.

      Cela signifie toutefois que la crise de l’État de droit dans l’UE a une troisième scène : les frontières de l’Europe. En effet, ni Frontex ni la Commission, qui auraient pu depuis longtemps exiger le respect du droit européen par le biais de procédures d’infraction, ne semblent se sentir compétentes pour défendre l’État de droit européen également aux frontières de l’Europe. Cette constellation pose déjà un problème du point de vue de la démocratie libérale.

      Defund Frontex

      Dans mon livre "Europa als Grenze. Eine Ethnographie der Grenzschutz-Agentur Frontex" (Kasparek 2021), je retrace également la longue ligne de co-développement entre le projet européen et la frontière européenne. Selon moi, la misère fondamentale de la politique migratoire européenne réside dans le fait que l’UE a décidé, il y a environ deux décennies, de concevoir la politique migratoire en premier lieu par le biais de la technologie de la frontière et donc de l’externaliser. Or, la politique migratoire est toujours une politique sociale et aurait dû être négociée en fonction de l’avenir des sociétés européennes. Au lieu de cela, on a créé une agence prétendument apolitique et axée sur la technique, qui s’est entre-temps autonomisée et représente un danger non seulement pour l’État de droit en Europe, mais aussi pour le caractère démocratique du projet européen.

      Une réforme fondamentale de l’Agence est donc indispensable. Le cœur de la réforme doit être un retrait de compétences et de budget, par exemple pour enfin créer et financer un mécanisme civil européen de sauvetage en mer. De même, la tâche du premier accueil et de l’enregistrement des personnes en quête de protection aux frontières de l’Europe ne doit pas être confiée à des gardes-frontières. En outre, l’agence doit être contrainte de rendre public son modèle interne de production de connaissances, appelé analyse des risques, et de le faire vérifier de manière indépendante. Car, comme j’ai pu le montrer, son modèle est imprégné de présupposés anti-migrants. Mais le point le plus important de la réforme doit effectivement être que l’agence doit se soumettre aux droits fondamentaux et aux lois en vigueur dans l’UE et les faire respecter de manière proactive aux frontières de l’Europe. Ainsi, la violence aux frontières de l’Europe, la guerre non déclarée contre les personnes en quête de protection, pourrait enfin prendre fin et l’imbrication européenne fatale entre politique migratoire et frontière pourrait être supprimée.

      La démission de Leggeri n’est certainement pas de nature à résoudre ces problèmes structurels de la politique européenne des frontières et de l’immigration, ni même du projet européen dans son ensemble. Un débat fondamental sur la manière dont l’Europe veut se positionner par rapport au reste du monde est désormais nécessaire. Mais un tel débat ne viendra pas tout seul, il est déjà clair que la Commission, par exemple, est très prompte à faire porter toute la responsabilité à la seule personne de Leggeri, étouffant ainsi dans l’œuf les débats structurels sur l’avenir des frontières européennes. Mais si vous pensez qu’un tel débat est nécessaire (et que vous avez la nationalité suisse), vous devriez voter NON le 15 mai.[12]

      Littérature

      Fink, Melanie. 2018. Frontex and Human Rights : Responsibility in ’Multi-Actor Situations’ Under the ECHR and EU Public Liability Law. First Edition. Oxford Studies in European Law. Oxford & New York : Oxford University Press.

      Karamanidou, Lena, et Bernd Kasparek. 2020. „Fundamental Rights, Accountability and Transparency in European Governance of Migration : The Case of the European Border and Coast Guard Agency FRONTEX“. RESPOND Working Paper 2020/59. RESPOND Working Papers - Global Migration : Consequences and Responses.

      Kasparek, Bernd. 2021. Europa als Grenze. Eine Ethnographie der Grenzschutz-Agentur Frontex. Kultur und soziale Praxis. Bielefeld : transcript Verlag.

      Kasparek, Bernd, et Lena Karamanidou. 2022. „What is in a name ? Die europäische Grenzschutzagentur Frontex nach dem Sommer der Migration“. Dans Von Moria bis Hanau - Brutalisierung und Widerstand, par Valeria Hänsel, Karl Heyer, Matthias Schmidt-Sembdner, et Nina Violetta Schwarz. Grenzregime 4. Berlin Hamburg : Assoziation A.

      Semsrott, Arne, et Luisa Izuzquiza. Letter. 2018. „Recommendations for Greater Transparency of Frontex Activities“, 26. November 2018.

      https://transversal.at/blog/d-autant-plus-maintenant-un-double-non-le-15-mai

  • Des Africains témoignent de leurs difficultés à passer les frontières pour sortir d’Ukraine

    Depuis le début de l’opération militaire russe en Ukraine, des centaines de milliers de personnes résidant en Ukraine ont tenté de quitter le pays ces derniers jours et les témoignages d’Africains se multiplient concernant les difficultés de passer la frontière polonaise.

    « Il y a eu des informations regrettables (selon lesquelles) la police ukrainienne et le personnel de sécurité refusent de laisser les Nigérians monter dans les bus et les trains » pour la Pologne, a déclaré le porte-parole de la présidence nigériane Garba Shehu. « Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans faveur », a-t-il insisté.

    M. Shehu a déclaré que selon d’autres informations, des fonctionnaires polonais ont refusé l’entrée en Pologne à des citoyens nigérians en provenance d’Ukraine. Depuis le début de l’offensive russe, la situation est compliquée à la frontière terrestre à cause de l’afflux de personnes fuyant les combats.

    Pour beaucoup d’Africains, le passage vers la Pologne a été bloqué du côté ukrainien et certains ont pu franchir la frontière en descendant un peu plus au sud, par la #Slovaquie. C’est le cas de Patrice, menuisier camerounais qui a quitté Kharkiv.

    "C’est très difficile. Très difficile au niveau de la frontière de la #Pologne. On refusait beaucoup les Noirs, on ne les acceptait pas du tout et on faisait juste passer des Blancs. Nous sommes ensuite arrivé au niveau de la frontière en Slovaquie, c’était parfait."

    De son côté, l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska, a rejeté les accusations de racisme. « Tout le monde reçoit un traitement égal. Je peux vous assurer que, selon les informations dont je dispose, certains ressortissants nigérians ont déjà franchi la frontière avec la Pologne », a-t-elle réagi auprès des médias locaux.

    Selon elle, les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et les restrictions liées au Covid-19 ont été levées. Les Nigérians disposent d’un délai de 15 jours pour ensuite quitter le pays, a-t-elle ajouté.

    Comme des centaines de milliers de personnes, de nombreux Africains - pour la plupart étudiants - tentent de fuir l’Ukraine pour rejoindre les pays voisins, notamment la Pologne. C’est notamment le cas de Mike, qui vit à Kharkiv.

    "Ça bombarde de partout, les transports en commun ne fonctionnent plus, les métros ont été transformé en abri anti-bombes."

    https://www.rfi.fr/fr/europe/20220228-guerre-ukraine-africains-temoignent-difficult%C3%A9s-passer-fronti%C3%A

    #racisme #réfugiés #guerre #Ukraine #Africains #étudiants #frontières #fermeture_des_frontières #catégorisation #tri #réfugiés_ukrainiens

    –-

    Les formes de #racisme qui montrent leur visage en lien avec la #guerre en #Ukraine... en 2 fils de discussion sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Les étudiants tunisiens s’organisent pour quitter l’Ukraine en guerre

      Environ 800 étudiants tunisiens sont encore bloqués en Ukraine. Les premières évacuations ont eu lieu vendredi 25 février dans la soirée, mais beaucoup restent encore à évacuer vers les pays voisins.

      Les étudiants tunisiens sont encore présents un peu partout en Ukraine. Une partie est à Odessa, au sud du pays. C’est le cas de Myriam. Ce samedi matin, elle a pu prendre un bus en direction la Roumanie.

      « Nous sommes environs 25 dans le bus, raconte Myriam. Il y a des Algériens et des Marocains aussi. On a même des animaux avec nous, deux chiens et un chat. On ne pouvait pas les abandonner. Il a fallu se battre pour qu’ils nous laissent monter. Ils voulaient nous envoyer en Moldavie. On avait peur de rester bloqués là-bas, il n’y a pas d’avions. Ça fait quatre jours que nous ne dormons pas. Nous étions une vingtaine à être cachés dans un sous-sol. Nous avions très peu d’informations. »

      Myriam et les autres Tunisiens d’Odessa ont pu organiser leur évacuation avec l’aide d’Amine Smiti. Il travaille pour une agence privée qui se charge d’aider les étudiants tunisiens à s’installer à l’étranger. Mais depuis le début de la guerre en Ukraine, il est membre de la cellule de crise mise en place par le ministère des Affaires étrangères tunisien.

      Amine Smiti explique comment il organise le départ des étudiants et les difficultés auxquelles il fait face : « En coordination avec les services de sécurité en Ukraine, j’ai pu avoir deux chemins sûrs pour évacuer à travers la Moldavie et la Roumanie. C’est difficile de trouver des bus, car les militaires les ont réquisitionnés pour rassembler les civils qui se sont engagés. Avec mon frère, et par nos propres moyens, on a réussi à trouver des bus, des taxis et des voitures privées. Les ambassadeurs et le ministère des Affaires étrangères se chargent d’assurer aux Tunisiens de ne pas passer plus de quatre ou cinq heures aux frontières. Personnes n’y est resté bloqué. Sans leur intervention aucun tunisien n’aurait pu quitter l’Ukraine. »
      Situation compliquée pour les Tunisiens de Dnipro

      Vendredi, trente Tunisiens ont pu rejoindre la Moldavie. Aujourd’hui, Amine Smiti dit pouvoir en faire évacuer encore une centaine. Les étudiants d’Odessa devraient tous être évacués d’ici à la fin du week-end. Mais la situation est plus compliquée pour les 227 Tunisiens bloqués à Dnipro. La ville étant située à plus de 900 km des frontières voisines, il est difficile d’assurer un chemin sécurisé pour leur évacuation.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220226-les-%C3%A9tudiants-tunisiens-s-organisent-pour-quitter-l-ukraine-en-gue

    • Exode à la frontière Ukraine-Pologne : « Ils nous refoulent juste parce qu’on est Noirs ! »

      De nombreux Africains fuyant la guerre en Ukraine ont affirmé sur les réseaux sociaux avoir été recalés à la frontière polonaise en raison de leur couleur de peau. À la gare de Lviv, dans l’ouest de l’Ukraine, France 24 a rencontré plusieurs #étudiants africains ayant été refoulés sans raison au poste-frontière de Medyka. Des discriminations démenties par Kiev et Varsovie.

      Des civils sont-ils empêchés de fuir la guerre en Ukraine en raison de leur #couleur_de_peau ? Des Africains affirment en tout cas avoir été refoulés à la frontière avec la Pologne tandis que d’autres personnes, blanches, étaient autorisées à passer. Des discriminations qui pourraient venir ternir le grand élan de solidarité affiché par les pays de l’Union européenne, tandis que des centaines de milliers de réfugiés continuent à affluer vers les frontières polonaise, hongroise, slovaque et roumaine de l’Ukraine.

      Le blocage de la frontière polonaise pour les Africains n’est pas total car certains groupes ont pu passer, ce qui suggère plutôt un filtrage arbitraire des gardes-frontières locaux.

      Mais lors d’un reportage dimanche 27 février à la gare de Lviv, grande ville de l’ouest de l’Ukraine située à environ 80 kilomètres de la frontière polonaise, France 24 a rencontré plusieurs étudiants africains qui affirment avoir été empêchés de pénétrer en Pologne par les gardes-frontières ukrainiens.

      « On nous a bloqués à la frontière, on nous a dit que les Noirs ne rentrent pas. Pourtant, on voyait les Blancs rentrer... », se remémore ainsi Moustapha Bagui Sylla, un Guinéen qui étudiait la médecine en Ukraine. Le jeune homme a fui sa résidence universitaire de Kharkiv dès les premiers bombardements pour se lancer dans une folle course vers l’ouest.

      Comme des dizaines de milliers de civils ukrainiens, il a enduré des heures de marche à pied et d’attente dans le froid sur la route de Medyka en Pologne. Mais son périple s’est heurté à l’intransigeance des gardes-frontières ukrainiens, qui lui ont intimé l’ordre de rebrousser chemin.

      Un étudiant nigérian en train de faire la queue pour acheter des billets de train a décrit une scène similaire au même endroit. Son groupe, qui comprenait des femmes, est resté bloqué devant les grilles du poste-frontière tandis que les gardes ukrainiens faisaient passer des Blancs.

      « Ils ne laissent pas passer les Africains. Les Noirs qui n’ont pas de passeports européens ne passent pas... Ils nous refoulent juste parce qu’on est noirs ! », s’exclame Michael. « On est tous humains, on est nés comme ça, ils ne devraient pas nous discriminer sur la couleur de notre peau. »

      Selon Moustapha Bagui Sylla, les gardes ukrainiens ont justifié leur refoulement par des instructions de leurs homologues polonais, qui leur auraient dit « qu’il n’y avait plus de place pour les migrants » en Pologne.

      Varsovie a fermement démenti toute discrimination. « Je ne sais pas ce qui se passe du côté ukrainien, mais nous admettons tout le monde quelle que soit la nationalité. Cela fait deux jours que je démens de fausses allégations comme ça », a affirmé à France 24 Anna Michalska, porte-parole des gardes-frontières polonais. Un deuxième communiqué polonais a confirmé qu’aucun visa n’était requis, que les cartes d’identité ou passeports, même périmés, étaient acceptés.

      Un responsable des gardes-frontières ukrainiens a également démenti ces informations en insistant qu’il n’y avait aucune nationalité favorisée plus qu’une autre pour passer la frontière. La principale restriction de sortie du territoire vise actuellement les hommes de nationalité ukrainienne âgés de 18 à 60 ans, qui sont mobilisés pour défendre le pays face à l’invasion russe.

      « Je ne sais pas ce qu’il s’est passé, ces personnes ont peut-être été refoulées parce qu’elles essayaient de griller la priorité dans la file d’attente », a ajouté Andriy Demchenko, porte-parole des gardes-frontières ukrainiens.

      La situation humanitaire du côté ukrainien du poste-frontière de Medyka est extrêmement précaire pour tous les déplacés, comme l’a illustré un de nos récents reportages. Selon un document interne de la Commission européenne cité par Le Figaro, il faut désormais entre vingt et soixante-dix heures pour franchir les postes-frontières de la Pologne.

      Pour les principaux concernés, ces refoulements arbitraires ressemblent à une double peine. Être renvoyé au statut de migrant économique est une véritable douche froide pour ces jeunes Africains venus faire des études avancées, avec des papiers en règle et de brillantes perspectives d’emploi. Dimanche, la plupart des Africains coincés à la gare de Lviv cherchaient désormais à fuir par la Roumanie, la Hongrie, ou la Slovaquie.

      https://www.france24.com/fr/europe/20220228-exode-%C3%A0-la-fronti%C3%A8re-ukraine-pologne-ils-nous-refoulent
      #refoulement #Blancs #Noirs #filtrage

    • Nigerian Students Fleeing Ukraine Stranded at Poland Border

      Nigerian students in Ukraine are being subjected to a tormenting reality following the Russian invasion of Ukraine on Thursday.

      In a series of tweets, the students have detailed their painful experiences, ranging from trekking long distances to escape the situation at hand, to experiencing racism in the face of danger.

      Many Nigerians walked between 14 and 25 kilometres to seek refuge in Poland. But despite trekking for hours, Poland refused them entry.

      Kachi_Nate, a Twitter user, said his friend in Ukraine could not enter Poland because she’s black.

      “She just told me they’re not letting any Black into Poland without a visa. These are students who are legally in Ukraine. They didn’t even check their documents; just turned them back,” he said.

      “We spoke on a call. She said they turned all blacks without a visa back. As long as you don’t have a visa to Poland, you can’t enter. Also, they didn’t check any other document to confirm their status as international students. She’s walking 3-4 hours back to Lviv.”

      On Thursday, Ukraine’s interior ministry said men between the ages of 18 and 60 are banned from leaving the country. Nigerians are protesting this order by heading to Poland.

      Reacting, a Nigerian said, “Nigerians living in Ukraine shouldn’t be mandated to fight or partake in a war they do not understand. There’s a reason they left in the first place. Why are they being turned back from entering Poland?”

      Some angry parents blamed the inability of Nigerian students to enter Poland on the federal government.

      “Parents are claiming the Nigerian Embassy in Poland should have informed the government there so they could approve the arrival of Nigerians. They’re taking Ukrainians in and, I think, Indians too, because the Indian Embassy in Poland said so,” a Twitter user said.

      Others say they are still subjected to racism. Nzekiev, a Twitter user, said when the train to Poland got to where he was, he and two other Africans entered first. But a few minutes later, the police came in and dragged them down from their cabin, as only Ukrainians were allowed.




      “I don’t blame them, though. I blame African leaders,” he said. “In the train stations here in Kyiv, children first, women second, white men third, and the remaining space is occupied by Africans. This means that we have waited many hours for trains here and couldn’t enter because of this. Majority of Africans are still waiting to get to Lviv.”

      On Thursday, the Russian military launched an offensive against Ukraine with land support from Belarus.

      This came minutes after Russian President Vladimir Putin declared war on Ukraine, claiming Russia was invited by the Donbas People’s Republic.

      Following this development, the House of Representatives of the Federal Republic of Nigeria promised to help Nigerian students in Ukraine.

      In a tweet on Thursday, they offered “to shoulder the immediate evacuation of Nigerian students from Ukraine”.

      The House of Representatives said the committee on the Nigerian Ministry of Foreign Affairs would jet out to Ukraine on Friday.

      However, over 24 hours after the federal government said they would help, students are still stuck in the web of the Russian-Ukraine war.

      It is estimated that over 4,000 Nigerian students are in Ukraine, making them the second most populated group of international students in the country.

      https://fij.ng/article/nigerian-students-fleeing-ukraine-stranded-at-poland-border

    • Ukraine : 436 Marocains ont réussi à fuir le pays via les postes frontières

      Un total de 436 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine via les postes frontaliers vers lesquels l’ambassade du Maroc à Kiev avait précédemment annoncé qu’ils devaient se rendre.

      Selon les données exclusives obtenues par Hespress Fr, 251 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine vers la Roumanie, dont 97 sont arrivés hier, samedi, et 154 ce dimanche 27 février.

      Par ailleurs, 130 Marocains ont traversé via la Pologne, dont 60 sont arrivés ce dimanche et 70 samedi, tandis que 46 Marocains ont quitté le pays vers la Slovaquie, dont 29 sont arrivés ce dimanche et 17 samedi. De même, 9 Marocains ont pu quitter l’Ukraine vers la Hongrie, dont 9 sont arrivés ce dimanche et un seul arrivé samedi.

      Il convient de rappeler que des milliers de Marocains sont toujours sur les routes essayant d’atteindre les pays voisins de l’Ukraine, et se mettre à l’abri des bombardements intensifs. Le nombre d’étudiants marocains en Ukraine est estimé, à lui seul, à près de 9.000.

      https://fr.hespress.com/250799-ukraine-436-marocains-ont-reussi-a-fuir-le-pays-via-les-postes-f

    • Guerre en Ukraine : la détresse d’étudiants africains livrés à eux-mêmes

      En Ukraine, des étudiants africains vivent la guerre au rythme des Ukrainiens. Ils sont nombreux à être sans nouvelle de leurs ambassades. Isolés, sans plan d’évacuation ni numéro d’urgence à contacter, ils vivent très mal la situation et appellent leurs gouvernements à organiser leur rapatriement. Témoignages dans les villes de Kharkiv et de Loutsk.

      « Nous ne recevons aucune information, aucune directive. Tout ce que j’ai comme réconfort, c’est mon papa et ma maman qui m’appellent. »

      À 23 ans, Lilian se sent bien seul dans son appartement de la grande ville industrielle de Kharkiv. La ville n’est pas tombée aux mains des troupes russes, mais des combats intenses se poursuivent dans la zone, selon le Pentagone. Comme de nombreux étudiants africains, Lilian n’a reçu aucun signe de la part des autorités camerounaises depuis le début de l’invasion russe.

      « Je me sens isolé parce que je n’ai aucune nouvelle de mon ambassade. J’ai même envie de dire de nos ambassades, car je ne suis pas le seul Africain dans ce cas. Pourtant, je sais que l’ambassade kenyane a par exemple pris des nouvelles de ses ressortissants, leur disant que s’ils se rendent à la frontière avec la Pologne, à Lviv, ils seront pris en charge là-bas. Nous, nous n’avons rien. »

      Depuis deux jours, le quotidien de l’étudiant camerounais en master de management s’est transformé en cauchemar. Dans la nuit de mercredi à jeudi, à 4 heures du matin, le tremblement des vitres de son immeuble et les bombardements le tirent de son sommeil.

      « Avant ça, tout était calme. On ne savait pas que l’on pouvait se réveiller comme ça, du jour au lendemain, avec la boule au ventre », explique Lilian, la voix monocorde.

      Pour tromper l’angoisse de l’isolement, le jeune homme a proposé à l’un de ses amis camerounais de quitter sa chambre étudiante pour venir vivre avec lui.

      « Il est venu avec moi car c’est mieux qu’être seul », explique-t-il.

      Depuis deux jours, les deux amis ont dû s’adapter au danger imminent. Faute de pouvoir fermer l’oeil la nuit, ils profitent des moments d’accalmie, dans la journée, pour pouvoir se reposer un peu. À la moindre sirène, les jeunes hommes « courent » dans le sous-sol du bâtiment. C’est là qu’ils ont décidé de passer toutes leurs nuits.

      « Les gares et les banques sont fermées, les métros sont à l’arrêt, les bus aussi. Les bombardements se déroulent à une extrémité de la ville. Cela fait deux jours que des gens dorment dans les métros », décrit Lilian.

      À 23 ans, l’étudiant camerounais est réaliste. « Mes parents ont peur pour moi, j’ai peur aussi. On ne sait pas de quoi sera fait le lendemain. Après m’être fait réveiller par des bombardements, je m’attends à peu près à tout », argue-t-il.

      Ce qu’attend le ressortissant camerounais, c’est un plan d’évacuation de la part de son pays.

      « Je ne demande pas de l’aide gratuite. Je peux me payer un billet d’avion pour me rendre au Cameroun. Mais sans communication ni plan d’ évacuation, je suis livré à moi-même ici. »

      Amadou, un étudiant sénégalais de 32 ans, a lui reçu un mail de la part de son ambassade située en Pologne.

      « Au début, je me sentais isolé. Mais jeudi soir, dans la nuit, nous avons reçu un mail venant de l’ambassade du Sénégal en Pologne. Elle a demandé à ceux souhaitant rentrer au Sénégal, de franchir la frontière polonaise. C’est la seule alternative actuellement ».

      Sur un groupe de conversation WhatsApp, des étudiants africains de toutes les nationalités s’échangent conseils et expériences par centaines de messages. Tous souhaitent sortir du pays mais dans la plupart des villes ukrainiennes, louer une voiture ou trouver un taxi est devenu un véritable « parcours du combattant ».

      L’étudiant en master de tourisme le confirme lui-même. Il cherche aussi à quitter Loutsk. La ville n’est pas très loin de la frontière polonaise, mais il attend un ami pour entreprendre son périple. Ce dernier habitait à Kiev et a eu du mal à trouver un transport. Les prix ont explosé.

      « Trouver un transport, c’est le plus grand souci actuellement. Les prix qui ne dépassaient pas les 25 dollars atteignent maintenant les 1.000 dollars pour voyager de Kiev à Varsovie », explique l’étudiant sénégalais.

      Son ami est finalement parvenu à quitter la capitale pour Lviv, mais ce dernier ne trouve pas le moyen de se rendre à Loutsk. Il n’a plus donné de nouvelles à Amadou depuis un jour. Son portable est éteint.

      « Loutsk est un peu plus sûre que les autres villes. Il n’y a pas d’affrontements ici donc les gens viennent. Comme à Lviv, Rivne… »

      Malgré un calme apparent, les sirènes retentissent plusieurs fois par jour dans la ville.

      « C’est difficile de dormir. Les sirènes n’arrêtent pas de retentir. Quand je les entends, je me précipite, je cours pour trouver un abri. C’est la psychose. Les supermarchés, les banques, les pharmacies sont prises d’assaut. Il y a des pénuries pour tout », explique Amadou.

      Natif de Bakel, à l’est du Sénégal près de la frontière avec la Mauritanie et le Mali, Amadou n’a qu’une idée en tête, partir.

      « Tout ce que je désire, c’est rentrer chez moi. Ou au moins franchir la frontière polonaise et me rendre dans l’espace Schengen pour être un peu plus protégé », dit-il.

      "Il y a de la peur, de l’angoisse, de la fatigue. Parfois, l’information n’est pas claire, on ne comprend pas ce que l’on doit faire, la langue ukrainienne n’est pas facile à comprendre pour tout le monde. Il faut vraiment vivre en Ukraine pour comprendre ce qu’il se passe ici. Je n’ai pas vraiment les mots", confesse Amadou.

      Il lance aussi un appel aux autorités sénégalaises. Il a peut-être été contacté par son ambassade en Pologne, mais il n’est pas rassuré par le passage de la frontière polonaise. L’inconnu l’effraie. D’autant que des rumeurs circulent sur les réseaux sociaux et dans les différents groupes de conversations observés.

      « Le problème en Pologne, c’est que beaucoup de monde cherche déjà à traverser la frontière. Nous ne savons donc pas quand nous serons autorisés à la franchir une fois sur place, et quel sort nous sera réservé. Je n’ai pas été là-bas mais j’ai entendu qu’ils nous traitent différemment et qu’ils séparent les Ukrainiens des étrangers. Ça nous fait peur, on ne sait pas quel sort nous attend en Pologne. Je veux que les autorités nous récupèrent une fois la frontière passée, qu’ils organisent notre rapatriement ou qu’ils nous trouvent un abri là-bas », déclare Amadou.

      Sa peur est partagée par de nombreux expatriés africains résidant en Ukraine. Tous lancent un appel à leurs gouvernements pour organiser leur rapatriement.

      https://information.tv5monde.com/info/guerre-en-ukraine-la-detresse-d-etudiants-africains-livres-eux

    • Guerre en Ukraine : des milliers d’étudiants arabes coincés sur place cherchent désespérément à fuir

      Plus de 10 000 étudiants arabes se sont retrouvés pris au piège du conflit en Ukraine. Leur rapatriement est un casse-tête pour leurs gouvernements et une difficile traversée pour les concernés livrés à eux-mêmes

      Trois jours après le début de l’invasion russe en Ukraine, le nombre de réfugiés ou déplacés grandit rapidement. Les ressortissants étrangers sont aussi menacés par l’avancée de l’envahisseur. C’est le cas de plus de 10 000 étudiants arabes, pris au piège sur place. Les Marocains forment le principal contingent d’étudiants en Ukraine, prisée pour les études de médecine et d’ingénierie. Au moins 8 000 étudiants y résident habituellement.
      Des « scènes traumatisantes »

      Parmi ces étudiants, Rania Oukarfi, 23 ans. Elle a pris la route vers la Moldavie, peu après le début de l’invasion. Jointe par téléphone, elle raconte avoir vu des « scènes traumatisantes ». Selon elle, « l’ambassade n’aide pas, on essaie d’appeler, aucune réponse ».

      Nassima Aqtid, 20 ans, étudiante en pharmacie, est bloquée à Kharkiv où les combats font rage. « J’ai pensé quitter la ville mais c’est impossible, la frontière la plus proche est celle de la Russie », explique-t-elle. « J’ai quitté le Liban à cause de l’effondrement » économique, raconte sur place Samir, 25 ans. Pour lui, la situation est plus critique. Pour gagner la Pologne, il doit traverser toute l’Ukraine.

      Livrés à eux-mêmes

      Des jeunes Syriens et Irakiens sont dans la même situation. Ali Mohammad, un étudiant en ingénierie de 25 ans, appelle constamment son ambassade sans succès depuis Chernivtsi (à l’ouest), proche de la frontière roumaine. « On est partis d’Irak pour changer de mode de vie, la guerre, les galères. On est venus en Ukraine, et c’est la même chose », déclare-t-il par téléphone. Selon un responsable gouvernemental, l’Irak compte 5 500 ressortissants en Ukraine dont 450 étudiants.

      Faute de directives de leurs pays, les ressortissants égyptiens ne savent que faire, comme le confie Saad Abou Saada, 25 ans, étudiant en pharmacie à Kharkiv. « L’ambassade n’a encore rien fait. Je ne sais pas où aller. » Il loge dans sa résidence universitaire qui hébergeait d’autres étrangers « partis sans (lui) ». La moitié des ressortissants du pays sont des étudiants en majorité inscrits à Kharkiv.

      Les États s’organisent

      Depuis le début de la guerre, l’Irak, la Tunisie, l’Égypte et la Libye tentent de préparer la sortie de leurs ressortissants vers des pays limitrophes. Le Maroc les a invités à se rendre à des points d’accès frontaliers avec la Roumanie, la Hongrie, et la Slovaquie. La Tunisie, qui ne dispose pas d’ambassade en Ukraine, va envoyer en Pologne et en Roumanie des avions pour rapatrier ses ressortissants qui souhaitent partir parmi les 1 700 vivant en Ukraine. Tunis a pris contact avec l’ONU et la Croix-Rouge internationale pour l’aider à les évacuer par voie terrestre, ce qui reste très risqué.

      La Libye a prévu des points de ralliement en Ukraine et des évacuations vers la Slovaquie pour une diaspora estimée à près de 3 000 personnes. L’Algérie, liée à la Russie par des accords militaires, s’est distinguée en n’appelant pas à ses ressortissants à quitter le pays. Mais elle les a exhortés à « une extrême prudence ».

      https://www.sudouest.fr/international/guerre-en-ukraine-des-milliers-d-etudiants-arabes-coinces-sur-place-cherche

    • Guerre en Ukraine : le difficile exode des étudiants africains

      Après de multiples accusations de comportements racistes aux frontières, l’Union africaine s’est élevée contre tout « traitement différent inacceptable ».

      Jusqu’au déclenchement de l’invasion russe en Ukraine, Theresia Kabimyama était étudiante en ingénierie à Odessa, ville portuaire située au bord de la mer Noire. Mais du jour au lendemain, la guerre a poussé cette jeune Congolaise à fuir le pays où elle avait élu domicile. Un voyage éprouvant en bus – faute de pouvoir trouver une place à bord d’un train – l’a menée jusqu’à Lviv, la grande ville de l’ouest, à 800 kilomètres de là, puis à la frontière avec la Pologne, où elle a finalement pu entrer dimanche 27 février.« C’était un cauchemar, franchement, les policiers n’ont pas du tout été sympas avec les étrangers, surtout les Noirs ; ça nous insultait de tous les noms, ça braquait les armes sur nous, ça nous bousculait », rapporte-t-elle au téléphone.Alors que de nombreux Africains, pour la plupart étudiants, tentent comme des centaines de milliers d’Ukrainiens de rejoindre vaille que vaille les pays voisins, les accusations de comportements racistes aux frontières se sont multipliées ces derniers jours. Des vidéos partagées sur les réseaux sociaux sous le hashtag #AfricansinUkraine montrent des scènes de fortes tensions et des Africains empêchés de monter à bord de trains quittant le pays.

      Hervé Offou, un étudiant ivoirien en médecine à Dnipro, une ville de l’est de l’Ukraine, vient d’en faire l’amère expérience. A Lviv où il venait d’arriver, alors qu’il voulait prendre le train avec d’autres étrangers, un policier s’est énervé : « Enlevez les singes d’ici », s’est écrié l’agent, selon le récit de l’étudiant qui assure avoir failli en venir aux mains. Il a finalement décidé de marcher près de 40 km, lundi matin, pour rejoindre la frontière avec la Pologne, en compagnie de plusieurs compatriotes.« Choquant et raciste »« Là aussi les étrangers sont mis à l’écart. Personne ne s’approche de nous, c’est difficile », relate Davy, un ami ivoirien d’Hervé. Kader Niekiema, un étudiant burkinabé de 28 ans à l’université de Lviv, a vécu la même situation, cette fois à la frontière avec la Hongrie. « Il y avait deux files, une pour les Européens, l’autre pour les Africains, c’était la panique, les gardes-frontières ukrainiens nous ont insultés et repoussés, ça a failli dégénérer », raconte le jeune homme par téléphone.Face à la multiplication de ce type de témoignages, l’Union africaine (UA) a publié lundi un communiqué en forme de mise en garde. Appliquer un « traitement différent inacceptable » aux Africains serait « choquant et raciste » et « violerait le droit international », ont souligné le chef de l’Etat sénégalais Macky Sall, président en exercice de l’institution, et le président de la Commission de l’UA, Moussa Faki Mahamat.« Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans favoritisme », avait déjà réclamé la veille Garba Shehu, un porte-parole de la présidence nigériane, rapportant qu’« un groupe d’étudiants nigérians qui se sont vus refuser à de multiples reprises l’entrée en Pologne ont fini par comprendre qu’ils n’avaient pas d’autre choix que de traverser de nouveau l’Ukraine pour essayer de sortir du pays via la Hongrie ». Avec quelque 4 000 ressortissants en Ukraine, les Nigérians constituent l’un des plus importants contingents d’étudiants africains dans le pays. Selon les dernières statistiques disponibles de l’Unesco, près de 13 000 étudiants originaires d’Afrique – y compris du Maghreb – étaient recensés en Ukraine en 2019.En Afrique du Sud également, les autorités ont haussé le ton. Le ministère des affaires étrangères affirme avoir reçu des témoignages et des vidéos montrant des Sud-Africains et plus généralement des Africains placés dans des files séparées des Ukrainiens et des Européens aux postes-frontières. « Ils ont été poussés, bousculés et parfois mis en joue pendant que les soldats ukrainiens leur disaient que la priorité était donnée aux femmes et aux enfants ukrainiens et européens », explique le porte-parole du ministère, Clayson Monyela.« Chaos » suscité par l’éclatement de la guerrePrésent sur place, l’ambassadeur sud-africain en Ukraine, Andre Groenewald, a contacté le ministère ukrainien des affaires étrangères pour s’insurger. « Si c’est ainsi que doivent être traités les Africains, nous nous en souviendrons après le conflit », dénonce M. Monyela qui ajoute que « la situation s’est légèrement améliorée »depuis les protestations sud-africaines.

      Ces accusations de racisme ont été rejetées notamment par l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska. « Tout le monde reçoit un traitement égal », a-t-elle déclaré à des médias locaux, affirmant que les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et que les restrictions liées au Covid-19 ont été levées.Des dispositions confirmées par l’ambassadeur du Sénégal pour la Pologne, l’Ukraine et la République tchèque, Papa Diop. Celui-ci rapporte que le ministère polonais des affaires étrangères a convié, le 15 février, un groupe d’ambassadeurs africains, en prévision du déclenchement des hostilités. « Lors de cette réunion de crise, les autorités polonaises nous ont informés qu’en cas de conflit, elles n’exigeraient pas de visa européen et de passe sanitaire aux ressortissants non européens », détaille-t-il.

      A l’en croire, les frictions des derniers jours sont le résultat d’une « mésentente entre les gardes-frontières polonais et ukrainiens » et du « chaos » suscité par l’éclatement de la guerre. « C’est dur pour tout le monde dans ce contexte. Notre groupe d’ambassadeurs africains a d’ailleurs écrit au ministère polonais des affaires étrangères pour demander si des instructions discriminatoires avaient été données. On nous a répondu que non et on nous a confirmé les dispositions prises lors de la réunion du 15 février », insiste-t-il.« Les femmes et les enfants d’abord »Du côté polonais, Le Monde a effectivement pu constater que des dizaines d’étudiants africains avaient réussi à traverser la frontière, malgré des complications pour ceux ne disposant pas d’un permis de résidence en Ukraine. Certains réfugiés ukrainiens se plaignent d’ailleurs que « les hommes étrangers comme les étudiants africains » veuillent à tout prix passer « alors que ce doit être les femmes et les enfants d’abord ».
      Alors que l’Ukraine a sonné la mobilisation générale, réquisitionnant tous les hommes de 18 à 60 ans, les Ukrainiens qui fuient vers les pays limitrophes sont essentiellement des femmes et des mineurs. « Mais les autorités ukrainiennes bloquent aussi les femmes africaines », déplore l’Ivoirien Gildas Bahi, chargé d’organiser le regroupement des étudiants de son pays en vue de leur évacuation.Cependant, tous les témoignages ne racontent pas la même histoire. Merouane, étudiant algérien en ingénierie informatique à Dnipro, s’est engagé avec trois autres Algériens et une Ukrainienne dans un périple de 900 kilomètres dès les premières heures de l’invasion russe. « Je n’ai observé aucune discrimination liée au passeport et c’est rare aux frontières », rapporte-t-il. Après vingt-quatre heures de route et plusieurs heures d’attente à la frontière, le groupe a été accueilli par une structure polonaise qui leur a offert « une chambre, de la nourriture et même un sac de vêtements de rechange pour ceux qui n’avaient rien pris », raconte-t-il, soulagé.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/03/01/guerre-en-ukraine-le-difficile-exode-des-etudiants-africains_6115635_3212.ht

    • Nigeria condemns treatment of Africans trying to flee Ukraine

      Government says citizens are being denied entry into Poland amid growing reports of discrimination

      The Nigerian government has condemned the treatment of thousands of its students and citizens fleeing the war in Ukraine, amid growing concerns that African students are facing discrimination by security officials and being denied entry into Poland.

      A deluge of reports and footage posted on social media in the past week has shown acts of discrimination and violence against African, Asian and Caribbean citizens – many of them studying in Ukraine – while fleeing Ukrainian cities and at some of the country’s border posts.

      They are among hundreds of thousands of people trying to escape the country as civilian casualties and destruction mount.

      More than half a million people have fled Ukraine since the Russian invasion began last week, according to the UN’s refugee agency, UNHCR.

      The Nigerian president, Muhammadu Buhari, said on Monday: “All who flee a conflict situation have the same right to safe passage under UN convention and the colour of their passport or their skin should make no difference,” citing reports that Ukrainian police had obstructed Nigerians.

      “From video evidence, first-hand reports, and from those in contact with ... Nigerian consular officials, there have been unfortunate reports of Ukrainian police and security personnel refusing to allow Nigerians to board buses and trains heading towards Ukraine-Poland border,” he said.

      “One group of Nigerian students having been repeatedly refused entry into Poland have concluded they have no choice but to travel again across Ukraine and attempt to exit the country via the border with Hungary.”

      Nigeria’s special adviser to the president on diaspora affairs, Abike Dabiri-Erewa, said: “Africans are being denied entry through the Ukrainian borders. The minister of foreign affairs, Geoffrey Onyeama, has taken this up with the Ukrainian ambassador. Our people who want to leave must be allowed to.”

      Amid chaotic and emotional scenes at Ukraine’s borders with Poland, as well as Romania and Belarus, where a number of African governments have advised citizens to head to, the treatment of African and Asian people has caused outrage.

      Many African students have condemned the difficulties they have faced trying to escape the conflict.

      Samuel George, a 22-year-old Nigerian software engineering student, drove from Kyiv, along with four of his friends, fellow students from Nigeria and South Africa, to the Polish border. Queues of cars full of people trying to leave spanned 31 miles (50km) to the border. Yet when some men who were in the queue noticed they were Africans, he said, they stopped their vehicle.

      “They immediately saw that the Ukrainians could pass but when they realised we weren’t Ukrainians they stopped it. They told us we couldn’t move forward and wouldn’t let us join the queue,” George said.

      When they tried to defy them, he said the men attacked and vandalised their windscreen. “They demanded $500 – we begged and negotiated to pay $100. We had to leave the car and trek. We were walking for almost five hours to the border with Poland. One of us was sick. The temperature was freezing, it was so tough.”

      At the border, Ukrainian officials “showed racist acts”, attempting to force them to the back of the queue, George said. “So many of us are still stuck there facing challenges. Some of them went to the borders but they were sent back and are still trying to leave.”

      Emily*, a 24-year-old medical student from Kenya, said she spent hours waiting for Ukrainian border guards to let her enter Poland because they were prioritising Ukrainian nationals.

      “We had to wait five hours but we were lucky: we met some people there who had spent days waiting in the foreign national queue,” she said.

      After eventually entering Poland, she boarded a free bus, organised by an NGO, to a hotel near Warsaw that was offering free board to Ukrainian refugees. However, the hotel refused to take her and her Kenyan friends in after examining their documents.

      “The staff said, ‘Sorry, we can’t admit you because this was meant only for Ukrainians,’” she said. The hotel also refused to give Emily a room after she offered to pay for one.

      Instead, Emily’s family in Kenya got in touch with a Polish acquaintance, who was able to find accommodation for Emily and other students with friends in Warsaw.

      In footage posted on social media, men identified by students as Ukrainians were seen abusing and assaulting them near borders, preventing them from leaving.

      In response to calls for information and advice for students worried about leaving Ukraine, several support groups have been set up on WhatsApp, Telegram and Facebook by people advocating for more assistance and by students who have been trying to leave.

      Government officials from Ukraine and Poland have said all refugees are welcome, adding that border officials were working through hundreds of thousands of cases.

      Yet even after passing into Poland, many have reported continuing challenges. Both George and Emily were given entry into Poland for just 15 days.

      In the weeks leading up to the war it was clear that increased support was needed but the government did not act, George said, condemning what he described as a lack of quick and concise assistance from Nigerian authorities.

      Days after Ukraine closed its airspace to civilian flights, Nigerian lawmakers and ministers attempted to organise evacuation flights before changing plans.

      One student said they tried to contact the consulate but failed to reach an official.

      “I don’t see how in a situation like this, where the citizens are in a country where there is war, that a country won’t do everything to rescue their citizens, but that is where we are,” they said.

      “The whole situation is tragic, the war is so tragic. So many men were staying behind to fight with the army. I was seeing so many greeting their wives and families farewell. It felt like the world was coming to an end.”

      https://www.theguardian.com/world/2022/feb/28/nigeria-condemns-treatment-africans-trying-to-flee-ukraine-government-p

    • La acogida a desplazados ucranios contrasta con denuncias de discriminación a otros migrantes

      Las cifras récord de acogida de desplazados de los países fronterizos con Ucrania coinciden con las denuncias de ciudadanos de África, Medio Oriente y Asia sobre discriminación a la hora de abandonar el país. La Unión Africana lo califica de «racista», mientras que periodistas internacionales han sido señalados en redes por hacer distinciones entre los refugiados de Ucrania y los de otras guerras anteriores.

      Este martes 1 de marzo, el máximo responsable para los refugiados de las Naciones Unidas, Filippo Grandi, reportaba la salida de 677.000 personas desde Ucrania hacia los países vecinos.

      Mientras que Karolina Lindholm Billing, la responsable de Acnur para Ucrania, cifró en un millón el número de desplazados internos. De la frontera del Donbass, epicentro de la guerra, se estiman 116.000 desplazados ucranianos al lado ruso.

      Son cifras récord, producidas en menos de una semana de conflicto. Lo que supone un reto humanitario mayúsculo, tanto para los países fronterizos, como para las potencias europeas a las que muchos ucranianos quieren llegar.

      Los primeros gestos de los países colindantes con Ucrania han respondido a los llamados históricos de las agencias internacionales para refugiados. Además de suspender sus cuarentenas anticovid, los países fronterizos (Polonia, Hungría, Rumanía, Moldavia y Eslovaquia) han abierto sus puertas para todos aquellos que acrediten su procedencia de Ucrania.

      E incluso más: Polonia ha elaborado programas de alojamiento para los recién llegados en viviendas particulares, mientras que Eslovaquia ofrece transporte gratuito y la posibilidad de trabajar en el país. Este martes también se supo que la Unión Europea está debatiendo garantizar a los refugiados ucranianos el estatuto de protección temporal, permitiéndoles vivir y trabajar hasta 3 años en algunos de los 27 Estados miembros.

      Acciones aplaudidas por el propio Filippo Grandi en un comunicado en el portal de ACNUR: «Polacos, húngaros, moldavos, rumanos, eslovacos y ciudadanos comunes de otros países europeos han llevado a cabo actos extraordinarios de humanidad y bondad. Este es el instinto humanitario que tanto se necesita en tiempos de crisis».

      Sin embargo, paralelamente al recibimiento, también crecen las denuncias de que la acogida y el refugio está contando con privilegios. Entre los primeros denunciantes, la investigadora sobre migración y asilo en Grecia, Lena Karamanidou, que había avisado después del inicio del conflicto.

      “No hay forma de evitar las preguntas sobre el racismo profundamente arraigado en las políticas migratorias europeas cuando vemos cuán diferentes son las reacciones de los gobiernos nacionales y las élites de la UE ante las personas que intentan llegar a Europa”.

      But there is no way to avoid questions around the deeply embedded racism of European migration policies, when we see how different the reactions of national governments and EU elites are to the people trying to reach Europe. This can’t just be brushed under the carpet.
      — Lena K. (@lk2015r) February 25, 2022

      La Unión Africana califica de «racista» el trato diferencial a africanos

      En los últimos días, periodistas han estado denunciado las dificultades de escapar de Ucrania para ciudadanos africanos, de Medio Oriente y asiáticos.

      Otros reporteros argumentaron que se tratan de las dos colas habituales administrativas: la de ciudadanos ucranianos y la de extranjeros. Sin embargo, las denuncias hacen énfasis que la de los locales avanza a una mayor velocidad que la de los foráneos.

      Ucrania tiene 470.000 ciudadanos extranjeros, que la Organización Internacional para las Migraciones (OIM) está tratando de atender. A diferencia de los ucranianos, muchos no europeos necesitan visas para ingresar a los países vecinos.

      En Internet, se ha viralizado el hashtag #AfricansinUkraine, donde estudiantes racializados mostraban la imposibilidad de abordar trenes para salir del país. Así lo recogieron los corresponsales de France 24 en la ciudad fronteriza de Leópolis.

      “Nos pararon en la frontera y nos dijeron que los negros no estaban permitidos. Pero pudimos ver gente blanca pasando”, dijo Moustapha Bagui Sylla, un estudiante de Guinea. Añadió que había huido de su residencia universitaria en Járkov, la segunda ciudad más grande de Ucrania, tan pronto como comenzó el bombardeo.

      “No dejan entrar a los africanos. Los negros sin pasaporte europeo no pueden cruzar la frontera (...). ¡Nos están haciendo retroceder solo porque somos negros!”. dijo otro estudiante nigeriano, quien solo dio su primer nombre, Michael. “Todos somos humanos”, agregó. “No deberían discriminarnos por el color de nuestra piel”, afirmó.

      Estas denuncias han provocado el enfado de la Unión Africana. El lunes, en un comunicado, el actual presidente, Macky Sall, y el presidente de la Comisión de la Unión Africana, Moussa Faki Mahamat, se hicieron eco y realizaron un llamado internacional.

      «Los informes de que los africanos reciben un trato diferente inaceptable serían escandalosamente racistas y violarían el derecho internacional. En este sentido, los presidentes instan a todos los países a respetar el derecho internacional y mostrar la misma empatía y apoyo a todas las personas que huyen de la guerra, independientemente de su identidad racial».

      Sobre esta discriminación también habló para la agencia estadounidense Associated Press, Jeff Crisp, exjefe de política, desarrollo y evaluación de ACNUR: “Los países que habían sido realmente negativos en el tema de los refugiados y que han hecho que sea muy difícil para la UE desarrollar una política de refugiados coherente durante la última década, de repente presentan una respuesta mucho más positiva”, cuestión que achaca a las similitudes culturales y raciales: "no es completamente antinatural que las personas se sientan más cómodas con personas que vienen de cerca, que hablan un idioma (similar) o tienen una cultura (similar)”.

      Los Gobiernos «ultra» europeos han cambiado el tono

      Países de Europa del Este y Centroeuropa han sido de los más duros a la hora de hablar y legislar sobre migración en los últimos años. De hecho, el primer ministro búlgaro, Kiril Petkov, hizo referencia al cambio de criterio de los últimos días: «estos no son los refugiados a los que estamos acostumbrados, estas personas son europeas (...) son inteligentes, educadas».

      Associated Press también recogía el cambio de tono del ultraderechista primer ministro húngaro, Viktor Orban, quien pasó en diciembre de decir «no vamos a dejar entrar a nadie», a asegurar esta semana que «dejaremos entrar a todos», en referencia a los ucranianos.

      Otro ejemplo clarificador fue el de 2021, cuando miles de migrantes se acercaron a la frontera entre Belarús y Polonia, con el objetivo de acceder a países de la Unión Europea, y en plena crisis entre el organismo y el Gobierno de Alexander Lukashenko. Polonia cerró completamente sus fronteras y como consecuencia, 15 personas murieron por el frío.

      Sin embargo, el lunes, el embajador de Polonia en la ONU, Krzysztof Szczerski, dijo que no estaban discriminando a nadie en esa crisis y que 125 nacionalidades habían sido admitidas en el país.

      Algunos periodistas distinguen entre refugiados ucranianos y de otras partes

      Pero además de las acciones, también se están señalando como racistas discursos de algunos medios de comunicación internacionales, en los que se han encontrado distinciones entre guerras de primera y de segunda, según el color de piel o la cercanía cultural.

      [Thread] The most racist Ukraine coverage on TV News.

      1. The BBC - “It’s very emotional for me because I see European people with blue eyes and blonde hair being killed” - Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor, David Sakvarelidze pic.twitter.com/m0LB0m00Wg
      — Alan MacLeod (@AlanRMacLeod) February 27, 2022

      El corresponsal del medio CBS News, Charlie D’Agata, dijo que «esto no es Irak o Afganistán, esto es en una ciudad relativamente civilizada y europea».

      En el medio catarí Al-Jazeera, otro periodista afirmó que no son refugiados tratando de escapar de Medio Oriente o el Norte de África «son como cualquier familia europea que vive a tu lado».

      También en Francia, en el medio privado BFM TV, un tertuliano dijo que lo que está sucediendo es como si estuviéramos «en Irak o Afganistán», mientras que una reportera de la cadena británica ITV dijo que «esto no es una nación del tercer mundo, esto es Europa».

      https://www.france24.com/es/europa/20220301-refugiados-ucrania-guerra-racismo-europa?ref=wa

    • Ucraina, africani invisibili in tempo guerra

      A Kiev è stato impedito agli studenti africani di prendere i treni diretti alla frontiera con la Polonia. E quelli che vi sono giunti sono stati respinti dalle guardie polacche. L’Unione africana ha protestato contro questo «trattamento differenziato». Ma anche l’Europa, che accoglie gli ucraini, non usa lo stesso criterio con chi fugge dalle guerre africane

      Mentre tutta l’Europa, Italia compresa, si mobilita per soccorrere e accogliere quanti dall’Ucraina fuggono per salvarsi dai bombardamenti russi, nel silenzio quasi generale dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, sta consumandosi la tragedia nella tragedia dei respingimenti di migliaia di africani, giovani studenti soprattutto, residenti in Ucraina. Costoro cercano di fuggire di fronte all’assedio russo, ma si ritrovano intrappolati in quanto respinti, in particolare alla frontiera polacca.

      Secondo diverse testimonianze, a Kiev le forze di sicurezza ucraine avrebbero impedito a degli studenti africani di salire sui treni e sui bus diretti alla frontiera polacca: ciò per dare priorità agli ucraini. E altri africani, giunti alla stessa frontiera, sarebbero stati respinti dalle guardie di confine per le stesse ragioni.

      Le immagini, a migliaia, veicolate dai social, di cittadini africani bloccati alla frontiera tra Ucraina e Polonia e che subiscono trattamenti differenziati se non abusi (il personale di frontiera che dice: «Non ci occupiamo degli africani»), non potevano non suscitare l’indignazione e la condanna dell’intero continente africano.

      A gran voce, l’Unione africana (Ua) è scesa in campo per denunciare il razzismo antiafricano, a suo parere evidente nelle operazioni di rimpatrio dei propri concittadini, in maggioranza studenti. Alcuni di loro hanno dichiarato: «Siamo stati cacciati indietro, siamo stati colpiti dai poliziotti armati di bastone quando abbiamo tentato di fare pressione e spingere in avanti».

      L’Ua si è detta «particolarmente preoccupata» da quanto sta accadendo. Il presidente senegalese Macky Sall, presidente in esercizio dell’Ua, e il presidente della Commissione, Moussa Faki Mahamat, ricordano che «ogni persona ha il diritto di attraversare le frontiere internazionali durante un conflitto (…) qualunque sia la sua nazionalità o la sua identità razziale». Applicare un «trattamento differente» per gli africani sarebbe «inaccettabile, scioccante e razzista» e «violerebbe il diritto internazionale».

      Denuncia

      L’evacuazione dei cittadini africani si rivela più complessa di quanto non possa apparire, anche perché soltanto una decina di paesi hanno una rappresentanza diplomatica, ambasciata o consolato, in Ucraina.

      Nel cercare, comunque, di portare soccorso ai propri cittadini, le reazioni dei paesi africani sono state a dir poco “vivaci”. Un solo esempio, la Nigeria. Da subito ha esortato le autorità di frontiera con l’Ucraina e dei paesi vicini a trattare «con dignità» i suoi concittadini.

      «Informazioni spiacevoli» indicano che «la polizia ucraina e il personale di sicurezza rifiutano di permettere ai nigeriani di salire sui bus e i treni verso la Polonia», ha dichiarato il portavoce della presidenza nigeriana, Garba Shehu. «Un video molto diffuso sui social mostra una madre nigeriana con il suo bimbo in treno fisicamente forzata a cedere il proprio posto», ha proseguito, aggiungendo che secondo altre informazioni, funzionari polacchi hanno rifiutato l’entrata in Polonia a dei nigeriani provenienti dall’Ucraina.

      Ha ricordato infine che «tutti coloro che fuggono da un conflitto hanno lo stesso diritto a passare in tutta sicurezza in virtù della Convenzione dell’Onu, e il colore del loro passaporto o della loro pelle non dovrebbe fare alcuna differenza». Una denuncia per maltrattamenti e abusi è venuta anche dall’ambasciatore sudafricano e altri che si sono recati personalmente alla frontiera per aiutare gruppi di propri concittadini a entrare in Polonia o a rimpatriare.

      Queste accuse di “razzismo” sono naturalmente respinte dalle autorità polacche così come dalle guardie di frontiera che assicurano di garantire a tutti il passaggio. Le difficoltà sarebbero legate all’enorme afflusso di profughi che crea lunghe file di attesa il cui controllo, anche sanitario, legato alla pandemia di coronavirus, richiede tempi lunghi, anche giorni.

      L’ambasciatrice polacca ad Abuja (Nigeria) ha dichiarato da parte sua che «tutti ricevono lo stesso trattamento», confermando che dei cittadini nigeriani avevano già raggiunto la Polonia. Che a loro volta però hanno riaffermato che «i funzionari alla frontiera davano la priorità alle donne e ai bambini ucraini».

      Secondo cifre ufficiali ucraine, più di 76mila sarebbero gli studenti stranieri presenti in Ucraina, di cui il 20% africani. Le università ucraine, in particolare le facoltà di medicina e ingegneria, sono particolarmente ricercate dagli studenti originari del mondo arabo. I marocchini con gli egiziani formano il gruppo arabo più numeroso.

      Migliaia sono anche i giovani subsahariani partiti per l’Ucraina, attirati dalla qualità degli studi e dalle tasse scolastiche relativamente basse. Importanti i gruppi di studenti e studentesse di paesi come la Nigeria, il Ghana, il Kenya, il Sudafrica, l’Etiopia o la Somalia.

      Amnesty International, quella belga in particolare, è scesa in campo per richiamare i paesi europei al loro dovere di «accogliere chiunque, indipendentemente da ogni criterio, razziale o altro. Ogni paese deve accogliere tutti i rifugiati e garantire una accoglienza degna».

      Razzismo «endemico» in Europa?

      Anche i militanti antirazzisti in Europa si sono fatti sentire per denunciare che in Europa, in tempo di crisi, il razzismo endemico risolleva la testa. Lo si era già visto con il trattamento riservato ai rifugiati siriani alle porte della Polonia, alcuni anni fa. Non andrebbe mai dimenticato che in Europa ci sono comunque cittadini provenienti dal mondo intero, eredità di un passato coloniale. Non mancano in Europa gli afrodiscendenti che in questi giorni si stanno chiedendo: «Se mai un giorno dovessimo fuggire, i bianchi avrebbero un trattamento speciale?».

      Siamo tutti felici della rapidità con cui i paesi europei si sono impegnati ad accogliere gli ucraini in fuga. I paesi occidentali mostrano solidarietà con i rifugiati ucraini perché la nostra cultura sarebbe tanto simile alla loro. Il che però non toglie lo stupore di quanti, africani in primis, hanno dovuto ricorrere addirittura allo sciopero della fame per ottenere i documenti dopo essere fuggiti da situazioni di guerra.

      Doveroso riconoscere che in parallelo alle testimonianze sulle difficoltà a lasciare l’Ucraina, si sta organizzando sui social una forma di solidarietà con decine di persone che propongono il proprio aiuto concreto per il passaggio della frontiera o per offrire un alloggio.

      https://www.nigrizia.it/notizia/ucraina-africani-invisibili-in-tempo-guerra

    • Les résidents étrangers non européens, grands oubliés de l’exode hors d’Ukraine

      Les 280 000 personnes entrées en Pologne depuis la guerre en Ukraine le 24 février sont majoritairement ukrainiennes. Les autres, qu’elles viennent d’Afrique ou d’Asie, se plaignent de ne pas être logées exactement à la même enseigne.

      Pouja, George, Vikram et six de leurs amis attendent sur le bord de la route à Medyka, en Pologne. Ce groupe de ressortissants indiens dans la vingtaine ont franchi la frontière polonaise depuis l’Ukraine au matin par le passage frontalier le plus emprunté pour quitter l’Ukraine.

      Mais, à la nuit tombante, ces neuf amis n’avaient toujours pas réussi à quitter le rond-point où ils grelottaient à une dizaine de kilomètres de la ville de Przemyśl. « Cela fait plus de six heures qu’on attend ici. Il n’y a jamais de places dans les bus. Ils laissent d’abord passer les femmes et les enfants ukrainiens et les rares bus se remplissent mais sans nous », se lamente Pouja, qui est pourtant une femme mais qui ne veut pas se séparer de ses compagnons d’aventure, tous de jeunes hommes.

      Une couverture sur les épaules, Gurwinder tente de justifier : « C’est un problème de management : les Polonais font ce qu’ils peuvent, mais ils n’ont que deux ou trois bus. Or, il y a vraiment beaucoup de gens qui fuient l’Ukraine : c’est sûr qu’ils devraient augmenter la cadence. »

      Gurwinder a bien vu un bus supplémentaire affrété par l’ambassade d’Inde à Medyka, mais renseignement pris, « il ne concerne que les gens qui utilisent le centre d’accueil réservé aux ressortissants indiens. Tout ça pour remplir les statistiques de l’ambassade… », déplore cet homme de 27 ans.

      Il souhaite se rendre à Varsovie par ses propres moyens, où un temple sikh lui offrira l’hospitalité à lui et ses amis, le temps que la situation se calme en Ukraine, espère-t-il. « D’abord, comme tout le monde, nous avons dû faire 40 kilomètres à pied de l’ouest de Lviv à Medyka. Ensuite, les Ukrainiens nous ont fait patienter des heures dehors avant de passer à l’immigration. À chaque fois, ils disaient : d’abord les femmes et les enfants. Pendant ce temps, il n’y avait ni ambulance, ni nourriture, ni eau… En deux ans et demi en Ukraine, je n’avais jamais été aussi mal traité », témoigne Gurwinder, déçu.

      « J’ai vu des Nigérians se faire battre par les militaires ukrainiens car ils avaient escaladé un mur. Quant à moi, je me suis fait traiter de Poutine. Est-ce parce que je ne suis pas resté défendre l’Ukraine ? », s’interroge Gurwinder, qui était chauffeur pour Bolt – application de taxi – en Ukraine, à Kiev, et qui a dû laisser sa voiture à Lviv (ouest de l’Ukraine) sur le bord de la route alors qu’un embouteillage monstre obstruait celle-ci, qui menait au passage frontalier de Medyka – Shehyni.

      Lundi 28 février, ils étaient des dizaines d’étudiant·es ou de jeunes travailleurs et travailleuses issues de divers pays d’Afrique, du sous-continent indien, du Moyen-Orient ou encore d’Afrique du Nord à attendre désespérément par des températures négatives un bus qui n’était toujours pas venu la nuit tombée.

      À vrai dire, à Medyka, on ne trouvait plus beaucoup d’Ukrainiennes et d’Ukrainiens, alors encore majoritaires il y a deux jours à franchir la frontière à pied à la même heure. De quoi alimenter des soupçons de discrimination voire de racisme, relayés par les réseaux sociaux.

      « Ce que l’on a entendu de la part de ressortissants palestiniens, c’est que les autorités ukrainiennes ne les ont pas bien traités à la frontière. Alors que côté polonais, les procédures ont lieu rapidement et sans encombre, témoigne un Palestinien venu en voiture chercher plusieurs de ses compatriotes. Il existe une ligne de soutien pour les Palestiniens coincés en Ukraine sur la base de laquelle une liste de personnes s’apprêtant à franchir la frontière a été établie. »

      Toutes les personnes étrangères non européennes fuyant l’Ukraine n’ont pas pu bénéficier de services consulaires de la sorte, ne pouvant pas non plus compter sur l’aide de la famille ou d’ami·es, dont les Ukrainiennes et les Ukrainiens sont nombreux à bénéficier en Pologne ou ailleurs en Europe. C’est le cas de Christabel Elenya, une Nigériane de 19 ans, qui n’avait jamais mis les pieds en Pologne auparavant et ne sait pas s’il y aura une place dans un avion pour la rapatrier, si tel était son choix.

      Arrivée fin janvier à Kiev pour y suivre des cours d’aéronautique en anglais, elle a dû quitter la ville deux mois plus tard, au début de la guerre, pour se réfugier à Lviv. Puis en Pologne. Elle confirme que l’attente était plus longue au passage frontalier côté ukrainien pour les personnes étrangères non européennes. « J’ai fini par me prétendre enceinte car je n’en pouvais plus d’attendre », sourit la jeune fille assise sur son lit de fortune installé dans la salle de sport d’une école de Przemyśl.
      Pas de billets gratuits

      « Ce n’était facile pour personne au poste frontière. Les tensions ont monté, j’ai vu des hommes étrangers qui étaient à deux doigts de se battre. Cela dit, je comprends que les Ukrainiens soient débordés… », avance l’étudiante, qui assure avoir trouvé toute l’aide dont elle pouvait rêver en Pologne, y compris un logement chez un particulier, qu’elle a refusé de peur de déranger. « Je n’aurais jamais cru que des gens pouvaient être aussi gentils », finit-elle par conclure à l’adresse des Polonais.

      De son côté, Ivonna, une Ukrainienne de 42 ans passée par le poste-frontière de Medyka, et elle aussi hébergée sous un panier de basket dans l’école de Przemyśl, s’est dite choquée par le « comportement de certains étrangers, qui étaient agressifs et se comportaient de manière inadéquate ».

      En gare de Przemyśl, un contrôleur polonais interrogé sur la mesure mise en place par les chemins de fer polonais pour garantir des tickets gratuits afin de se déplacer dans le pays précise qu’ils sont réservés aux détenteurs et détentrices de passeports ukrainiens : « La logique est la suivante : la guerre est en Ukraine, pas dans leur pays. Ils doivent donc payer s’ils veulent un ticket », explique-t-il.

      En réalité, il est rare que ces tickets soient vérifiés à bord, et les bénévoles déployé·es en gare annoncent souvent des trains gratuits pour tout le monde. Il n’empêche, personne ne semble encore savoir ce qu’il en sera des ressortissant·es non européen·nes sur le sol polonais, une fois les quinze jours de séjour tolérés expirés. Les Ukrainiennes et les Ukrainiens ont droit pour le moment à 90 jours de séjour, et l’UE réfléchit à leur octroyer un statut de protection spéciale valable jusqu’à trois ans.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010322/les-residents-etrangers-non-europeens-grands-oublies-de-l-exode-hors-d-ukr

    • « On nous disait “Pas les Noirs” » : le tri racial dans la fuite de l’Ukraine

      Ivoiriens, Indiens, Camerounais, Marocains... De nombreux ressortissants étrangers qui résidaient en Ukraine tentent également de rejoindre la Pologne, loin des combats. Une traversée périlleuse, rythmée par des comportements racistes de certains soldats ukrainiens.

      Lundi 28 février, sous de légers flocons de neige, Stephan cherche un bus pour se rendre dans la ville la plus proche. Il traîne ses valises d’un pas chancelant, suivi de près par ses quatre amis camerounais. Ensemble, ils viennent tout juste de traverser la frontière polonaise depuis l’Ukraine, près de Medyka, après deux jours d’un interminable voyage depuis Kiev. « C’est l’expérience la plus horrible que j’ai vécue dans ma vie », soupire-t-il.

      De ce périple pourtant, Stephan ne retient ni la peur des bombardements, ni la vie qu’il a laissée derrière lui. Il retient uniquement les coups de crosses de Kalachnikov, les insultes et les menaces lancées par les soldats ukrainiens et les garde-frontières tout au long de sa fuite. Des violences racistes que rapportent également de nombreux ressortissants et étudiants africains, pakistanais, indiens ou encore népalais, qui seraient constamment relégués de façon inhumaine derrière les exilés ukrainiens pour quitter le pays au plus vite.

      « Tu es obligé de payer pour que ça s’arrête »

      Depuis le début de l’invasion russe, des vidéos circulent sur les réseaux sociaux. On y voit des soldats ukrainiens repousser à l’arrière des files les personnes de couleur, pourtant résidentes légales en Ukraine, pour faire passer en priorité les personnes blanches. Les témoignages affluent également : ceux d’Africains débarqués d’un bus en route pour la frontière, d’armes braquées sur un groupe d’Indiens ou encore d’insultes racistes répétées.

      « Ils faisaient passer les femmes et les enfants d’abord, ce qui est normal », raconte Stephan, qui travaillait en tant qu’ingénieur des ponts et chaussées en Ukraine. Parti de Kiev à 6h du matin le samedi, l’homme espérait attraper un premier train avec ses amis, avant de vite déchanter sur les quais de la gare. « Sur le côté, il y avait plein de femmes africaines avec leurs enfants que personne ne faisait passer devant, contrairement aux Ukrainiennes. D’un coup, les policiers nous ont repoussés. Il y en a un qui m’a frappé avec un fusil », ajoute le Camerounais en montrant le bas de son dos. Il ne le savait pas encore, mais ce type de scène ne sera qu’une infime partie du traitement que lui réserveront certains soldats ukrainiens jusqu’à son arrivée en Pologne.

      Bloqués par des kilomètres de bouchons d’exilés fuyant la guerre depuis l’invasion de la Russie le 24 février, le groupe de Camerounais est contraint de marcher sur plus de 12 kilomètres, comme tout le monde. Rapidement, un premier check point. « Là, la situation s’est empirée pour les étrangers. On a dû former un corridor, bloqué par les armes des soldats, comme du bétail. “Je vais tirer”, ils disaient, en mettant des coups de crosses ! », explique Stephan. Juste à côté d’eux, les femmes et les enfants ukrainiens défilaient sans difficulté. « On a passé presque deux jours au premier check point, debout, sans manger, sans eau, sans douche et dans le froid. »

      Poussé à bout, le groupe de Camerounais a finalement compris comment s’en tirer : en payant les soldats les plus agressifs. « Ils ne te demandent pas de l’argent frontalement, mais ils te mettent dans des conditions telles que tu es obligé de payer pour que ça s’arrête. » Le groupe déboursera finalement 1.000 hryvnia (environ 30 euros) une première fois, puis 100 dollars au deuxième check point. « À un moment, je me suis demandé si j’étais un être humain », se questionne d’une voix basse le Camerounais.
      « Ils donnaient de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous »

      Il n’y a pas besoin de chercher bien loin pour trouver des témoignages similaires. À quelques mètres de Stephan, un groupe de cinq Népalais raconte leur voyage en enfer. « C’est simple, il y a d’un côté la file des Ukrainiens, de l’autre celle des étrangers. D’un côté on les laisse tranquilles, de l’autre on les traite comme des animaux », s’exclame Padma, une jeune Népalaise qui étudiait la médecine en Ukraine. Comme elle, des dizaines de milliers d’étudiants étrangers résidaient dans le pays d’Europe de l’Est, venant principalement du Maroc, d’Égypte, d’Inde ou encore de plusieurs pays d’Afrique subsaharienne. Beaucoup d’entre eux font désormais partie des 280.000 exilés qui ont déjà rejoint la Pologne depuis le début du conflit.

      La Népalaise n’arrive pas à se calmer. Ses amies ont loupé quatre fois le train, « parce qu’ils ne mettaient que les Ukrainiens dedans », affirme-t-elle, tout en rassemblant ses affaires près de tentes blanches installées à Medyka, l’un des postes de frontière les plus empruntés par les réfugiés. Au total, ils attendront 24 heures pour enfin grimper dans un wagon.

      « On était comme des singes », ajoute la jeune femme, en expliquant s’être retrouvée bloquée à quelques kilomètres de la Pologne, après son voyage en train. « Il donnait de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous. » Un de ses amis l’interrompt en criant : « On leur a même proposé de l’argent ! Mais ils disaient qu’il n’y avait plus rien. » Après 36 heures sans manger, le groupe a finalement été accueilli par la police polonaise, avec de l’eau et à manger. « Eux ils nous ont bien traités », ajoute Padma. « Rien que leur façon de nous parler n’avait rien à voir », renchérit Milan, un autre Népalais. Mais même côté polonais pourtant, certains commencent à dénoncer un accueil bien plus froid à leur égard, comparé à celui réservé à leurs homologues ukrainiens.

      Le tri des réfugiés en fonction de leur origine commence à faire du bruit sur les réseaux sociaux, où les hashtag #AfricansInUkraine ou encore #IndiansInUkraine ont fait leur apparition à côté des vidéos montrant ces discriminations. Une sorte de cri d’alarme en ligne visant à alerter sur le sort des milliers de ressortissants de pays d’Afrique et autres qui sont encore bloqués aux frontières ukrainiennes, empêchés de quitter le pays. Pourtant, filmer ce type de vidéo ne serait pas sans danger.

      « Si tu sors ton téléphone pour filmer, ils [les soldats ukrainiens] deviennent comme des fous, ils te menacent pour que tu ne montres pas ce qui se passe. On voulait filmer, montrer quand on nous disait : “pas les Noirs” », explique Blaise*, un étudiant ivoirien qui a laissé derrière lui six ans de vie en Ukraine. L’homme peine à marcher. « Regardez notre démarche ! On vient de passer des jours debout, en ligne, sans pouvoir s’allonger. Tandis que les Ukrainiens étaient mieux traités », glisse quelques mètres plus loin Rohit, un ressortissant indien qui se réchauffe près d’un feu improvisé.

      Double peine

      Sous une bâche installée par des Polonais venus prêter main-forte à tous les exilés, Yren, une Congolaise, temporise. « Pour les femmes étrangères, c’était déjà un peu mieux que pour les hommes. » De l’autre côté de la frontière, des milliers d’Ukrainiens sont également bloqués dans le froid pendant des heures, et les douaniers veillent toujours à empêcher les hommes de 18 à 60 ans de sortir du pays. Tout le monde ici a vu des familles ukrainiennes obligées de se séparer, ou même rebrousser chemin, avec femmes et enfants, pour ne pas se diviser.

      La jeune femme emmitouflée dans une couverture boit une gorgée de soupe chaude, et ajoute : « On nous laissait un peu plus tranquilles les femmes, et moi on ne m’a pas frappée. Mais il y avait quand même des animaux domestiques qui passaient devant nous. »

      Pour les personnes racisées, fuir l’Ukraine de la sorte est comme une double peine. « À Kiev, j’étais terrifié. La situation était horrible, avec les tirs, les couvre-feux... Tous les comptes des étrangers ont été bloqués, ma carte ne marchait plus. Tout s’est écroulé », explique Joseph* originaire d’Afrique subsaharienne. Un traumatisme qui n’arrivera finalement pas seul. « Sur la route, la police m’a tapé avec une crosse de fusil pour essayer de garder la ligne. Ils ont terrorisé les gens, tout le monde tombe malade de l’autre côté. Honnêtement, j’ai cru que je n’y arriverais jamais. »

      Les discriminations envers ces exilés posent aussi question pour l’avenir. Quel accueil les pays européens réserveront-ils aux réfugiés non ukrainiens –et même ukrainiens– qui ont fui ce conflit meurtrier ? Une question d’autant plus importante au vu du nombre de déplacés potentiels, qui pourrait atteindre les 7 millions, selon l’ONU. Avec cet exode massif et les crises humanitaires qu’elles induisent, il y a un risque que la distinction entre les exilés se poursuive en Europe, prolongeant l’expérience traumatisante des réfugiés.

      De son côté, Stephan et ses amis camerounais ne savent pas encore de quoi seront faits les jours qui se profilent. « Pour l’instant, on doit trouver un bus pour partir loin de la frontière », explique-t-il en regardant devant et derrière lui, en espérant apercevoir l’un des véhicules en partance pour Przemyśl. « Je veux juste m’allonger, et me reposer. Je n’en peux plus. » Se reposer avant de reprendre la route, dans un voyage qui est encore loin d’être terminé.

      *Les prénoms ont été changés.

      http://www.slate.fr/story/224214/reportage-guerre-ukraine-russie-profilage-racial-noirs-frontiere-racisme-solda

    • Guerre en Ukraine : à la frontière polonaise, « les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons », racontent des étudiants étrangers

      De nombreux étudiants africains ou asiatiques qui vivaient en Ukraine tentent de passer en Pologne depuis le début de l’offensive russe. Certains se plaignent d’un traitement raciste de la part des garde-frontières ukrainiens.

      Couverture sur le dos, Gurwinder peine encore à réaliser qu’il est enfin arrivé en Pologne. « J’ai essayé de passer à plusieurs reprises », raconte cet étudiant indien, chauffeur de VTC à Kiev (Ukraine). Il a marché 30 kilomètres pour rejoindre la frontière, où il a dû attendre trois jours au poste-frontière ukrainien pour traverser. « À chaque fois, les gardes ukrainiens m’ont dit : ’Non, ce sont d’abord les femmes et les enfants qui passeront. Vous, les Indiens, vous ne passerez pas’, raconte Gurwinder. Nous avons essayé pendant trois jours, sans dormir, sans manger car si vous dormez, vous perdez votre place. »

      Comme lui, plus de 500 000 personnes ont rejoint la Pologne depuis le lancement de l’offensive russe en Ukraine, le 24 février. L’exode est notamment très difficile pour les 78 000 étudiants étrangers qui vivaient comme lui en Ukraine, dont beaucoup sont originaires d’Afrique et d’Asie. Plusieurs d’entre eux ont en effet dénoncé des discriminations du côté ukrainien de la frontière.
      Frappés et laissés dans le froid

      Si les étrangers interrogés n’ont pas tous eu de problèmes à traverser la frontière en raison de leur nationalité, plusieurs récits ont émergé de la part d’étudiants bloqués du côté ukrainien de la frontière. L’Union africaine a même dénoncé un traitement « inacceptable » et « raciste » pour les Africains. Certaines ambassades, comme celle de Côte-d’Ivoire, d’Afrique du Sud ou du Nigéria, ont envoyé des représentants sur place.

      « Quand on est arrivés, ils ont fait passer avant nous les Ukrainiens avec des documents de résidence. Quand on a essayé de se plaindre, les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons. J’ai été frappé plusieurs fois », témoigne pour sa part Clinton, un Ougandais de 24 ans. Il est arrivé dès le 24 février au poste frontière mais n’a pu rejoindre la Pologne que le 3 mars. « Ils nous ont laissé dormir dehors. On a dû faire un feu et ils l’ont éteint », raconte-t-il, encore sous le choc, dans la gare de Przemysl. Il estime que ce traitement infligé aux étrangers est raciste.

      « Parce que vous êtes noir, même si vous essayez de communiquer en utilisant un traducteur en ligne, ils vous regardent et s’en vont. Ce sont les dépositaires de l’autorité, est-ce qu’ils ne sont pas supposés nous aider ? C’était très dur. Je suis vraiment très content d’être arrivé en Pologne car, honnêtement, je ne pensais pas y arriver. C’était très inquiétant. »
      Clinton, étudiant Ougandais de 24 ans

      à franceinfo

      De son côté, l’Ukraine a démenti toute différence de traitement, assurant que le premier arrivé était le premier servi. Le service des garde-frontières ukrainiens a nié « toute difficulté », assurant que « personne n’a été empêché de quitter l’Ukraine ». De son côté, Varsovie a rappelé que toute personne fuyant l’Ukraine est accueillie quelle que soit sa nationalité, passeport valide ou non...

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/guerre-en-ukraine-a-la-frontiere-polonaise-les-gardes-ukrainiens-nous-o
      #Pologne

    • People of colour fleeing Ukraine attacked by Polish nationalists

      Non-white refugees face violence and racist abuse in Przemyśl, as police warn of fake reports of ‘migrants committing crimes’

      Police in Poland have warned that fake reports of violent crimes being committed by people fleeing Ukraine are circulating on social media after Polish nationalists attacked and abused groups of African, south Asian and Middle Eastern people who had crossed the border last night.

      Attackers dressed in black sought out groups of non-white refugees, mainly students who had just arrived in Poland at Przemyśl train station from cities in Ukraine after the Russian invasion. According to the police, three Indians were beaten up by a group of five men, leaving one of them hospitalised.

      “Around 7pm, these men started to shout and yell against groups of African and Middle Eastern refugees who were outside the train station,” two Polish journalists from the press agency OKO, who first reported the incident, told the Guardian. “They yelled at them: ‘Go back to the train station! Go back to your country.’”

      Police intervened and riot officers were deployed after groups of men arrived chanting “Przemyśl always Polish”.

      “I was with my friends, buying something to eat outside,” said Sara, 22, from Egypt, a student in Ukraine. “These men came and started to harass a group of men from Nigeria. They wouldn’t let an African boy go inside a place to eat some food. Then they came towards us and yelled: ‘Go back to your country.’”

      Following the incident, police in Poland warned that groups linked to the far right are already spreading false information about alleged crimes committed by people from Africa and the Middle East fleeing war in Ukraine.

      Przemyśl police said on Twitter: “In the media, there is false information that serious crimes have occurred in Przemyśl and the border: burglaries, assaults and rape. It’s not true. The police did not record an increased number of crimes in connection with the situation at the border. #StopFakeNews.”

      According to the news website Notes From Poland, one Facebook group, named Przemyśl Always Polish (Przemyśl Zawsze Polski), has been spreading false claims that “economic migrants from the Middle East” were committing crimes, “including a knife attack on a young woman and numerous thefts from shops”.

      The attacks on people fleeing the war come amid efforts by some African governments to evacuate their citizens who have passed into countries bordering Ukraine after reports of racist abuse and discrimination.

      On Wednesday, Nigeria’s foreign ministry said it planned to start airlifting more than 1,000 Nigerians stranded in countries neighbouring Ukraine.

      Many of the foreign nationals fleeing the Russian attacks are students. About 16,000 African students were studying in the country before the invasion, Ukraine’s ambassador to South Africa said this week.

      Reports and footage on social media in the past week have shown acts of discrimination and violence against African, south Asian and Caribbean citizens while fleeing Ukrainian cities and at some of the country’s border posts.

      In an interview with the Guardian, a 24-year-old medical student from Kenya, who did not want to be named, said she spent hours waiting for Ukrainian border guards to let her enter Poland because they were prioritising Ukrainian nationals.

      After eventually crossing the border, she boarded a free bus, organised by an NGO, to a hotel near Warsaw that was offering free board to Ukrainian refugees. But the hotel refused to take her and her Kenyan friends in, even after she offered to pay for a room.

      However, other foreign nationals interviewed by the Guardian said that they had been treated well by the Polish authorities, with many of the reports of racial abuse occurring on the Ukrainian side of the border.

      The Nigerian president, Muhammadu Buhari, said on Monday: “All who flee a conflict situation have the same right to safe passage under the UN convention and the colour of their passport or their skin should make no difference,” citing reports that Ukrainian police had obstructed Nigerians.

      “From video evidence, first-hand reports, and from those in contact with … Nigerian consular officials, there have been unfortunate reports of Ukrainian police and security personnel refusing to allow Nigerians to board buses and trains heading towards Ukraine-Poland border,” he said.

      On Tuesday, Ukraine’s foreign minister, Dmytro Kuleba, acknowledging the allegations, said: “Ukraine’s government spares no effort to solve the problem.”

      “Africans seeking evacuation are our friends and need to have equal opportunities to return to their home countries safely,” he said in a statement on Twitter.

      Ghana, South Africa and Ivory Coast are also among a growing number of African countries seeking to evacuate their citizens in response to reports of discrimination and violence that have sparked widespread outrage.

      In Nigeria, Gabriel Aduda, permanent secretary for the ministry of foreign affairs, said three jets chartered from local carriers would leave the country on Wednesday, with the capacity to bring back nearly 1,300 people from Poland, Romania and Hungary.

      Rights groups have welcomed the efforts by Poland to help, but some drew comparisons with the treatment of other refugees from Syria, Afghanistan and Kurdish Iraqis in the country, where the populist rightwing government has often played on anti-refugee sentiment.

      Last year, after the Belarusian president, Alexander Lukashenko, organised the movement of refugees with the promise of a safe passage to Europe, thousands of people from the Middle East were caught by Polish border guards in the forests near the border and illegally and violently pushed back to Belarus.

      https://www.theguardian.com/global-development/2022/mar/02/people-of-colour-fleeing-ukraine-attacked-by-polish-nationalists

    • Europe welcomes Ukrainian refugees — others, less so

      They file into neighboring countries by the hundreds of thousands — refugees from Ukraine clutching children in one arm, belongings in the other. And they’re being heartily welcomed, by leaders of countries like Poland, Hungary, Bulgaria, Moldova and Romania.

      But while the hospitality has been applauded, it has also highlighted stark differences in treatment given to migrants and refugees from the Middle East and Africa, particularly Syrians who came in 2015. Some of the language from these leaders has been disturbing to them, and hurtful.

      “These are not the refugees we are used to… these people are Europeans,” Bulgarian Prime Minister Kiril Petkov told journalists earlier this week, of the Ukrainians. “These people are intelligent, they are educated people.... This is not the refugee wave we have been used to, people we were not sure about their identity, people with unclear pasts, who could have been even terrorists…”

      “In other words,” he added, “there is not a single European country now which is afraid of the current wave of refugees.”
      Syrian journalist Okba Mohammad says that statement “mixes racism and Islamophobia.”

      Mohammad fled his hometown of Daraa in 2018. He now lives in Spain, and with other Syrian refugees founded the first bilingual magazine in Arabic and Spanish. He described a sense of déjà vu as he followed events in Ukraine. He also had sheltered underground to protect himself from Russian bombs. He also struggled to board an overcrowded bus to flee his town. He also was separated from his family at the border.

      “A refugee is a refugee, whether European, African or Asian,” Mohammad said.

      The change in tone of some of Europe’s most extreme anti-migration leaders has been striking — from “We aren’t going to let anyone in” to “We’re letting everyone in.”

      Those comments were made only three months apart by Hungarian Prime Minister Viktor Orban. In the first, in December, he was addressing migrants and refugees from the Middle East and Africa. In the second, this week, he was addressing people from Ukraine.

      Some journalists, too, are being criticized for descriptions of Ukrainian refugees. “These are prosperous, middle-class people,” an Al Jazeera English television presenter said. “These are not obviously refugees trying to get away from areas in the Middle East... in North Africa. They look like any European family that you would live next door to.”

      The channel issued an apology saying the comments were insensitive and irresponsible.

      CBS news apologized after one of its correspondents said the conflict in Kyiv wasn’t “like Iraq or Afghanistan that has seen conflict raging for decades. This is a relatively civilized, relatively European” city.

      As more and more people scrambled to flee Ukraine, several reports emerged of non-white residents, including Nigerians, Indians and Lebanese, getting stuck at borders. Unlike Ukrainians, many non-Europeans need visas to get into neighboring countries. Embassies around the world were scrambling to assist their citizens in getting through.

      Videos shared on social media under the hashtag #AfricansinUkraine allegedly showed African students being kept from boarding trains out of Ukraine, to make space for Ukrainians.

      The African Union in Nairobi said Monday that everyone has the right to cross international borders to flee conflict. The continental body said “reports that Africans are singled out for unacceptable dissimilar treatment would be shockingly racist and in breach of international law.”

      It urged all countries to “show the same empathy and support to all people fleeing war notwithstanding their racial identity.”

      Polish U.N. Ambassador Krzysztof Szczerski said at the General Assembly on Monday that assertions of race- or religion-based discrimination at Poland’s border are “a complete lie and a terrible insult to us.”

      “The nationals of all countries who suffered from Russian aggression or whose life is at risk can seek shelter in my country,” he said.

      Szczerski said people of some 125 nationalities had been admitted to Poland on Monday morning from Ukraine, including Ukrainian, Uzbek, Nigerian, Indian, Moroccan, Pakistani, Afghan, Belarussian, Algerian and more. Overall, he said, 300,000 people have arrived during the crisis.

      When over a million people crossed into Europe in 2015, support for refugees fleeing wars in Syria, Iraq and Afghanistan was relatively high at first. There were also moments of hostility — such as when a Hungarian camerawoman was filmed kicking and possibly tripping migrants along the country’s border with Serbia.

      Still, back then, Germany’s chancellor, Angela Merkel, famously said “Wir schaffen das” (“We can do it”), and the Swedish prime minister urged citizens to “open your hearts” to refugees.

      Volunteers gathered on Greek beaches to rescue exhausted families crossing on boats from Turkey. In Germany, they were greeted with applause at train and bus stations.

      But the warm welcome soon ended after EU nations disagreed over how to share responsibility, with the main pushback coming from Central and Eastern European countries like Hungary and Poland. One by one, governments across Europe toughened migration and asylum policies, earning the nickname “Fortress Europe.”

      Just last week, the U.N. High Commissioner for Refugees denounced the increasing “violence and serious human rights violations” across European borders, specifically pointing the finger at Greece.

      Last year hundreds of people, mainly from Iraq and Syria but also from Africa, were left stranded in a no man’s land between Poland and Belarus as the EU accused Belarusian President Alexander Lukashenko of luring thousands of foreigners to its borders in retaliation for sanctions. At the time, Poland blocked access to aid groups and journalists. More than 15 people died in the cold.

      Meanwhile, in the Mediterranean, the European Union has been criticized for paying Libya to intercept migrants trying to reach its shores, helping to return them to abusive and often deadly detention centers.

      “There is no way to avoid questions around the deeply embedded racism of European migration policies when we see how different the reactions of national governments and EU elites are to the people trying to reach Europe,” Lena Karamanidou, an independent migration and asylum researcher in Greece, wrote on Twitter.

      Jeff Crisp, a former head of policy, development and evaluation at UNHCR, agreed that race and religion influenced treatment of refugees.

      “Countries that had been really negative on the refugee issue and have made it very difficult for the EU to develop coherent refugee policy over the last decade, suddenly come forward with a much more positive response,” Crisp noted.

      Much of Orban’s opposition to migration is based on his belief that to “preserve cultural homogeneity and ethnic homogeneity,” Hungary should not accept refugees from different cultures and different religions.

      Members of Poland’s conservative nationalist ruling party have echoed Orban’s thinking, saying they want to protect Poland’s identity as a Christian nation and guarantee its security.

      These arguments have not been applied to their Ukrainian neighbors, with whom they share historical and cultural ties. Parts of Ukraine today were once also parts of Poland and Hungary. Over 1 million Ukrainians live and work in Poland and hundreds of thousands more are scattered across Europe. Some 150,000 ethnic Hungarians also live in Western Ukraine, many of whom have Hungarian passports.

      “It is not completely unnatural for people to feel more comfortable with people who come from nearby, who speak the (similar) language or have a (similar) culture,” Crisp said.

      In Poland, Ruchir Kataria, an Indian volunteer, told The AP on Sunday that his compatriots got stuck on the Ukrainian side of the border crossing into Medyka, Poland. In Ukraine, they were initially told to go to Romania, hundreds of kilometers away, he said, after they had already made long journeys on foot to the border, not eating for three days. Finally, on Monday they got through.

      https://apnews.com/article/russia-ukraine-war-refugees-diversity-230b0cc790820b9bf8883f918fc8e313

    • I’m currently in a train back from Warsaw which is full of refugees heading to Berlin.

      At #Frankfurt-am-Oder, German border police disembarked many BIPOCs.

      I can’t say if all were taken out of the train but only people of colour & their partners & children got off.

      Just talked to 2 Indian students from Punjab fleeing Kyiv, they were still in the train, getting off at Berlin central station. They said they had no issue crossing the Hrebenne-Hava Ruska border checkpoint but that they knew of people for whom it was hell at other checkpoints.

      https://twitter.com/EmmanuelleChaze/status/1499727609432879105
      #Allemagne #profilage #profilage_racial #profilage_ethnique

    • Statement on the war in Ukraine and the treatment of Africans trying to flee the country

      Like countless people all over the world, the members of the Africa Multiple Cluster of Excellence based at the University of Bayreuth (Germany) and African Cluster Centres at the University of Lagos (Nigeria), Joseph Ki-Zerbo University (Ouagadougou, Burkina Faso), Moi University (Eldoret, Kenya) and Rhodes University (Makhanda, South Africa), are greatly shocked about the Russian war on Ukraine and the Russian government’s disregard for the rights of everyone in the Ukraine to live in peace and security. We declare our concern for all those affected by the virulent and reprehensible attacks by Russian forces on Ukrainian territory.

      At the same time, we are deeply troubled by the flagrant racism towards Africans—predominantly students—anxious to flee danger to their lives during this turbulent period, which has been widely observed and reported in the news and social media from train stations in Ukrainian towns as well as from the Ukrainian-Polish border. The blatant racial profiling exercised through officials’ refusals to allow Black people cross the border, forcing them to remain in areas of conflict, is abhorrent and not to be condoned.

      We also note with dismay how several white-positioned government officials and media representatives have expressed their shock at the necessity of Ukrainian citizens to flee as refugees while simultaneously articulating racist comparisons to previous waves of Iraqi, Syrian, Afghani, and African refugees to Europe in the past years. The current display of racism vis-à-vis Africans trying to flee Ukraine sadly reconfirms the pattern of dehumanization of refugees of color that has become all too familiar in many refugee crises in Europe of the recent past.

      Just as we stand in solidarity with all Ukrainians and Russians who never wanted this war, we declare our solidarity and concern for all Black people and people of color who became embroiled in this conflict. We join the African Union in urging “all countries to respect international law and show the same empathy and support to all people fleeing war notwithstanding their racial identity” (official AU statement issued on February 28, 2022). We further demand of the European Union as well of the respective national governments to call out the racist practices and to play their part in putting an end to the suffering caused, through creating the conditions necessary to preserve the dignity of Africans fleeing the country and to protect all human lives during this time of war.

      Eldoret (Kenya), Lagos (Nigeria), Makhanda (South Africa), Ougadougou (Burkina Faso), and Bayreuth (Germany), March 4, 2022

      The Directors of the African Cluster Centres
      The Members of the Management Board, Africa Multiple Cluster of Excellence

      Prof. Dr. Yacouba Banhoro, Joseph Ki-Zerbo University, Ouagadougou

      Prof. Dr. Andrea Behrends, Vice Dean of Early Career & Equal Opportunity, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Olumuyiwa Falaiye, University of Lagos

      Prof. Dr. Ute Fendler, Vice Dean of Internationalisation & Public Engagement, University of Bayreuth

      Dr. Franz Kogelmann, Managing Director, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Enocent Msindo, Rhodes University, Makhanda

      Prof. Dr. Sabelo Ndlovu-Gatsheni, Vice Dean of Research, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Cyrus Samimi, Vice Dean of Digital Solutions, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Rüdiger Seesemann, Dean, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Peter Simatei, Moi University, Eldoret

      Dr. Christine Vogt-William, Director of the Gender & Diversity Office

      https://www.africamultiple.uni-bayreuth.de/en/news/2022/2022-03-04_Statement-on-the-war/index.html

    • More African students decry racism at Ukrainian borders

      As at least half a million refugees flee Ukraine, more reports of mistreatment by Ukrainian border guards surface.

      Barlaney Mufaro Gurure, a space engineering student from Zimbabwe, had finally reached the front of a nine-hour queue at Ukraine’s western border crossing of Krakovets after an exhausting four-day trip.

      It was her turn to cross. But the border guard pushed her and four other African students she was travelling with aside, giving priority to Ukrainians. It took hours, and relentless demands, before they were also allowed to go through border control.

      “We felt treated like animals,” the 19-year-old said in a phone interview from a Warsaw hotel. Gurure, a freshman at the National Aviation University, fled Kyiv hours after Russian President Vladimir Putin ordered troops into Ukraine on February 24.

      “When we left [Kyiv] we were just trying to survive,” she said. “We never thought that they would have treated us like that […] I thought we were all equal, that we were trying to stand together,” Gurure added.

      Her story is not isolated as scores of Africans have reported episodes of abuse and discrimination while trying to cross into Ukraine’s neighbours.

      Since the war started, more than 870,000 refugees have fled from Ukraine to neighbouring countries, the United Nations said. Half of those are currently in Poland. Queues along the border are now tens of kilometres long with some African students describing to Al Jazeera how they have been waiting for days to cross amid freezing temperatures and with no food, blankets or shelters.

      For others, issues started before reaching border crossings. Claire Moor, another Black student, was pushed down as she tried to board a train at Lviv’s train station. The guard insisted that only women could take the train. The officer looked away, Moor said, as she pointed out that she was, indeed, a woman. “I was shocked because I did not know the extent of the racism,” she added.

      Jan Moss, a volunteer with the Polish aid organisation, Grupa Zagranica, who has been providing assistance at the Polish-Ukrainian border, said while refugees have been welcomed at many crossings out of Ukraine without any form of discrimination, the reception near Medyka has been more problematic as refugees were being organised based on “racial profiling”.

      Ukrainians and Polish nationals are allowed to pass through the much quicker vehicles’ lane, while foreigners have to go through the pedestrian one, a three-stage process that can last from 14 to 50 hours, Moss said.

      Al Jazeera contacted Ukraine’s Border Guard Service via email over the allegations of segregation at the borders but had not received a response before the publication of this report.

      In the last 20 years, Ukraine has emerged as a choice destination for African students, especially in medicine-related fields as it is cheaper compared with universities in the United States and elsewhere in Europe.

      Videos and tweets under the hashtag #AfricansinUkraine have flooded social media, triggering numerous crowdfunding initiatives on Telegram and Instagram to support students at the borders and put pressure on respective governments.

      The African Union reacted to the outcry on Monday: “Reports that Africans are singled out for unacceptable dissimilar treatment would be shockingly racist and in breach of international law,” it said in a statement. A spokesperson from South Africa’s foreign ministry said on Sunday that a group of its nationals and other Africans were being “treated badly” at the Polish-Ukrainian border.

      The Nigerian government also expressed concerns over reports of discriminatory behaviour, including a video widely shared on social media showing a Nigerian woman with her young baby being forcibly made to give up her seat to another person. It also said that a group of Nigerians had been refused entry into Poland – an allegation dismissed by Poland’s ambassador to Nigeria.

      But some foreigners said they received a warm welcome in neighbouring countries, such as Moldova and Romania, including a relatively smooth transit.

      https://www.aljazeera.com/news/2022/3/2/more-racism-at-ukrainian-borders

    • Guerre en Ukraine : « Il faut transporter tous les réfugiés gratuitement » dans les trains français, réclame la CGT-Cheminots

      Suite à l’annonce du patron de la #SNCF sur le transport gratuit des réfugiés ukrainiens dans les trains français, syndicats et associations demandent, la généralisation de la gratuité pour tous les réfugiés.

      Les réfugiés ukrainiens pourront « circuler gratuitement en TGV et en Intercités » en France. L’annonce du PDG de la SNCF, Jean-Pierre Farandou, sur Twitter lundi 28 février, a provoqué de nombreuses réactions sur les réseaux sociaux. Certains internautes dénoncent notamment une hypocrisie et une discrimination à l’égard des autres réfugiés. Mardi 1er mars, la #CGT-Cheminots, premier syndicat de la compagnie ferroviaire, a écrit une lettre ouverte à sa direction pour demander la généralisation de la gratuité à tous les réfugiés en France.

      « Comment des agents de la SNCF pourraient-ils sanctionner certains réfugiés et pas d’autres ? » demande le syndicat. « Comme se développe cette petite ambiance ’il y a des bons et des mauvais réfugiés’, on ne voudrait pas être soumis à ce style de calcul là », martèle Laurent Brun, le secrétaire général de la CGT-Cheminots. « Il y a des réfugiés et il faut tous les transporter gratuitement. Pas de problème, c’est le rôle d’un service public. »
      Changer l’accueil des réfugiés en France

      Les associations qui s’occupent de réfugiés syriens, irakiens ou encore kurdes depuis des années, dénoncent aussi le traitement qui leur est fait à bord des trains. « Dans une logique d’entrave d’État envers ces personnes, les dispositifs policiers de surveillance ont été augmentés à la fois dans les gares,donc à la gare du Nord, à Grande-Synthe et Calais et aussi dans les trains », affirme Nikolaï Posner, le responsable communication d’Utopia 56. « Et souvent les personnes se font arrêter et sortir à la gare suivante. »

      Avec l’arrivée de réfugiés ukrainiens, l’association espère un réel changement sur l’accueil des réfugiés en France. « Aujourd’hui, on se retrouve dans une situation où ça touche à un pays d’Europe et on approche les questions d’une autre manière. » commente Nicolaï Posner. « On souhaite qu’on le fasse pour tous et arrêter ces politiques de discrimination. » Contactée par franceinfo, la SNCF se refuse à tout commentaire.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/guerre-en-ukraine-il-faut-transporter-tous-les-refugies-gratuitement-da

    • Ukraine : Trente trois ONG dénoncent le #racisme_anti-noir

      Trente trois ONG ont dénoncé vendredi 4 Mars 2022 le racisme anti noir constaté en Ukraine à l’occasion de la guerre russo -ukrainienne, dans un communiqué collectif parvenu au site madaniya. Exprimant leur “grave préoccupation face aux actes de traitement dégradants et inhumains que les ressortissants africains vivant ou résidant en Ukraine subissent suite à la guerre déclenchée depuis le 24 février 2022”, le collectif invite les autorités ukrainiennes à “mettre un terme au racisme manifesté à l’égard des africains résidant ou séjournant” dans ce pays. Intitulé “Stop au racisme dans la guerre”, le communiqué relève “que plusieurs citoyens d’origine africaine sont confrontés à la persécution, à la xénophobie, au racisme, à la discrimination raciale de la part des autorités ukrainiennes. “Selon les informations parvenues à nos organisations ainsi que des témoignages recueillis auprès de victimes, la police ukrainienne empêcherait l’évacuation des ressortissants d’origine africaine. À cela s’ajoutent les actes xénophobes orchestrés par les autorités polonaises qui procèdent de manière sélective à l’autorisation d’entrée des personnes fuyant la guerre sur des critères liés à leur couleur de peau. C’est ainsi que plusieurs citoyens africains sont retenus à la frontière Ukraine-polonaise, poursuit le communiqué. “À cet effet, nos organisations rappellent l’Article 1 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme qui stipule : « Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité ». Nous tenons également à souligner l’Article 14.1 de la DUDH « devant la persécution, toute personne a le droit de chercher asile et de bénéficier de l’asile en d’autres pays, ajoute le document. Le collectif lance un appel “au Président en exercice de l’Union Africaine M. Macky Sall (Sénégal) ainsi que le Président de la Commission de l’Union Africaine M. Moussa Mahamat Faki (Tchad) les invitant à veiller au respect du droit international des droits de l’homme et du droit international humanitaire. “Devant les risques d’aggravation de cette guerre et ses conséquences dévastatrices pour les populations civiles et plus largement en Afrique”, le collectif dénonce ces pratiques hideuses, xénophobes et discriminatoires relevant d’un autre âge et condamne fermement ces atteintes contraires aux droits humains et aux principes du droit international des droits de l’homme et du droit international humanitaire”. Devant cette montée fulgurante de la haine raciale dans le monde il est urgent que tous les pays respectent et mettent en application la Convention des nations contre le racisme ainsi que le programme et plan d’action de la Conférence Mondiale contre le racisme, la discrimination raciale, la xénophobie qui y est associée. (Durban en Afrique du Sud, du 31 août au 8 septembre 2001). Le collectif invite en outre impérativement à l’Union Africaine, l’Union Européenne et aux Nations Unies de se saisir immédiatement de cette situation afin de garantir et assurer une protection adéquate à ces personnes en détresse, conclut le document. NDLR La guerre en Ukraine a révélé le tréfonds de la pensée d’une fraction de l’élite occidentale, particulièrement en France, La « Patrie des Droits de l’Homme ». Jean Louis Bourlanges, président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale française, a ainsi vanté l’immigration de qualité qui résulterait de l’afflux d’Ukrainiens en France par comparaison avec les Afghans, les Irakiens ou les Syriens. M. Bourlanges, pourtant député Modem, une formation qui se revendique de la « Démocratie Chrétienne » a assuré que les Ukrainiens constitueraient en France une « immigration de grande qualité, dont on pourra tirer profit », faisant valoir qu’elle était composée « d’intellectuels ». Ce qui reviendrait à déduire de ces propos qu’il existe de par le monde des réfugiés moins utiles… Parce que culturellement trop différents ? Pas chrétiens ou pas Européens ? qui conduit les commentateurs à distinguer « accueil de réfugiés » en parlant des Ukrainiens, mais « crise des migrants », quand il s’agit du sort des « basanés » …Irakiens, des Syriens ou des Afghans ! Beaucoup de commentateurs et éditorialistes de renom se sont paresseusement laissés aller à ces raccourcis conscient ou inconscient depuis le déclenchement du conflit le 24 Février 2022

      https://libnanews.com/ukraine-trente-trois-ong-denoncent-le-racisme-anti-noir
      #racisme_anti-Noirs

    • Niet iedere vluchteling uit Oekraïne krijgt dezelfde behandeling

      Oekraïners met de juiste papieren worden snel ingeschreven in het bevolkingsregister en kunnen ook snel aan het werk. Ook vluchtelingen uit Oekraïne die oorspronkelijk uit een ander land komen, maar wel een Oekraïense verblijfsvergunning hebben, kunnen hier bescherming krijgen. Maar niet iedere vluchteling uit Oekraïne krijgt dezelfde behandeling.

      Als de papieren niet kloppen en er vragen zijn over de identiteit en over het verblijfsrecht in Oekraïne, dan moeten ze asiel vragen of het land verlaten.

      De meeste vluchtelingen die uit Oekraïne komen (op dit moment ruim 12.000) zijn vrouwen en kinderen. Oekraïense mannen moeten in het land blijven. Niet-Oekraïense mannen mogen het land wel verlaten, hoewel dat niet eenvoudig is. Bij pogingen om weg te gaan uit Oekraïne krijgen ze te maken met discriminatie. Een onbekend aantal van deze vluchtelingen heeft Nederland weten te bereiken.
      Afrikaanse mannen

      In de gemeentelijke opvanglocaties verblijven dus ook mensen die niet geboren zijn in Oekraïne. Zij woonden daar bijvoorbeeld omdat ze er asiel hadden gekregen of er studeerden. Om hoeveel mensen dat gaat, kunnen de ministeries van binnenlandse zaken en justitie nog niet zeggen. Volgens het COA gaat het in de locaties die zij beheren om kleine aantallen. Ook Vluchtelingenwerk, actief in de gemeentelijke opvanglocaties, ziet dat het om weinig mensen gaat.

      Hun aanwezigheid leidt soms tot verbazing bij de gemeentelijke opvangplekken. Inwoners van Harskamp waren vrijdag verrast toen er tijdens een voetbaltoernooi dat voor de Oekraïense vluchtelingen was georganiseerd Afrikaanse mannen het veld op kwamen lopen. Ook bij het inzamelen van spullen is er niet aan mannen gedacht. Er is voldoende kleding voor vrouwen en kinderen, maar er is ook ondergoed voor mannen nodig.
      Drie groepen

      Het ministerie van justitie heeft Oekraïense vluchtelingen in drie groepen ingedeeld: Oekraïners met alle benodigde documenten, Oekraïners met beperkte of geen documenten en mensen die uit Oekraïne zijn gevlucht omdat ze daar verblijven, maar uit een ander land komen.

      Een vreemdeling uit Oekraïne moet zich melden bij een gemeente om ingeschreven te kunnen worden in de Basis Registratie Personen (BRP). Voor een Oekraïner met alle bewijsdocumenten kan dat in principe snel.

      Oekraïners die niet alle vereiste documenten hebben, moeten meer moeite doen. Voor hen zal er nader onderzoek komen. Pas na de vaststelling van hun identiteit, binnen één dag, worden ook zij ingeschreven in de BRP. Zij mogen van het ministerie van justitie gewoon in de gemeentelijke opvanglocaties blijven als hun identiteit geloofwaardig is.
      Land verlaten

      Als de identiteit en nationaliteit niet kan worden vastgesteld, heeft de vreemdeling de mogelijkheid om een asielaanvraag in te dienen. Hij of zij komt niet in aanmerking voor de richtlijn tijdelijke bescherming voor Oekraïners. De asielprocedure moet dan in een asielzoekerscentrum worden afgewacht. Als de vreemdeling terug wil naar zijn land van herkomst dan kan de Dienst Terugkeer en Vertrek of de Internationale Organisatie voor Migratie (IOM) daarbij helpen, maar daar heeft in dit geval nog niemand zich gemeld.

      https://nos.nl/collectie/13892/artikel/2422218-niet-iedere-vluchteling-uit-oekraine-krijgt-dezelfde-behandeling

    • Accueil sélectif aux frontières européennes : du racisme des politiques migratoires

      Communiqué sur la situation en Ukraine

      « Les ministres (de l’Intérieur) de l’Union européenne (UE) se sont accordés aujourd’hui unanimement sur la mise en place d’un mécanisme de protection temporaire pour répondre à l’afflux de personnes déplacées en provenance d’Ukraine » [1]. C’est dans ces termes que la France, qui préside actuellement le Conseil de l’UE, s’est félicitée par la voix de son ministre de l’Intérieur de l’accord historique de la mise en œuvre, pour la toute première fois, de la directive européenne sur la protection temporaire de 2001, lors de la réunion du Conseil « Justice et affaires intérieures » du 3 mars. « Cette décision reflète le plein engagement de l’Union européenne à afficher sa solidarité à l’égard de l’Ukraine et à assumer son devoir à l’égard des populations victimes de cette guerre injustifiable », a-t-il ajouté.

      Ce mécanisme de protection, demandé à plusieurs reprises par la société civile pour d’autres groupes de personnes exilées – les Syrien⋅ne⋅s en 2011 ou les Afghan⋅e⋅s à l’été 2021 – n’avait jamais été jusque-là appliqué [2]. Par ailleurs, depuis le début de l’invasion militaire russe de l’Ukraine, les pays limitrophes – tels que la Pologne, la Hongrie, la Bulgarie – qui ont, au cours des dernières années, pratiqué une politique de rejet et d’hostilité à l’égard des personnes en exil tentant de traverser leurs frontières, se sont rapidement organisés pour accueillir les Ukrainien⋅ne⋅s fuyant la guerre. Ailleurs en Europe, des États qui, il y a peu, criminalisaient la solidarité manifestée par une partie de la population avec les exilé⋅e⋅s l’encouragent au contraire à l’égard des déplacé⋅e⋅s ukrainien⋅ne⋅s.

      L’Europe aurait-elle décidé d’en finir avec la guerre aux migrant⋅e⋅s qu’elle mène depuis plus de 30 ans ? Rien n’est moins sûr. Bien que ces initiatives récentes ne puissent être que saluées – la population ukrainienne en fuite doit absolument être accueillie – elles sont révélatrices de l’hypocrisie de la politique européenne et des politiques nationales qui pratiquent une hospitalité à deux vitesses en continuant à opérer un tri entre les « bons » réfugié⋅e⋅s et les « mauvais » migrant⋅e⋅s afin de tenir à l’écart et nier les droits des populations du Sud global.

      En effet, alors que le gouvernement polonais soutient que « les réfugiés fuyant l’Ukraine en guerre entrent en Pologne quelle que soit leur nationalité » [3], nombreux sont les témoignages des personnes originaires d’Afrique, d’Asie et du Moyen-Orient résidant en Ukraine qui font état des pratiques discriminatoires et racistes qu’elles ont eu à subir de la part des garde-frontières ukrainiens et polonais. Des centaines d’entre elles ont été bloquées dans les gares ferroviaires ou aux frontières, y compris des femmes avec leurs bébés, lors du passage à la frontière. Des vidéos ont circulé sur les réseaux sociaux montrant des personnes attendant, dans un froid intense, d’être autorisées à quitter le territoire ukrainien, tandis que d’autres ont dû rebrousser chemin ou s’organiser pour franchir collectivement les barrages [4].

      Au mépris de ces témoignages concordants, le porte-parole des garde-frontières ukrainiens a déclaré : « Je ne sais pas ce qu’il s’est passé, ces personnes ont peut-être été refoulées parce qu’elles essayaient de griller la priorité dans la file d’attente » [5]. Le ministre de l’Intérieur français est allé jusqu’à affirmer que « les Polonais eux-mêmes ont dit que tout le monde était accueilli en Pologne et dans le reste de l’Union européenne », rapportant que « l’ambassadeur de la Pologne a[vait] évoqué le fait que c’était notamment une utilisation russe pour déprécier le travail » fait par les autorités de ce pays [6].

      Tant les pratiques de tri aux frontières de l’UE que le mécanisme de protection temporaire mis en place à l’heure de l’exode de la population vivant en Ukraine sont discriminatoires, puisqu’ils engendrent un choix à opérer parmi les personnes à protéger [7]. Ces pratiques visant à limiter l’arrivée des citoyen⋅ne⋅s du Sud global s’inscrivent dans la continuité de la politique raciste de l’UE et de ses États membres au cours des dernières décennies.

      En effet, il y a à peine quelques mois les autorités polonaises érigeaient ainsi des barbelés et des murs à la frontière biélorusse comme seule réponse à l’arrivée des femmes, des hommes et des enfants en provenance des pays tels le Yémen, l’Afghanistan, la Syrie, l’Irak, ou la République démocratique du Congo (RDC) parmi d’autres, au prétexte qu’il s’agissait de « migrant·e·s » instrumentalisé⋅e⋅s par le chef d’État biélorusse.

      Un peu plus tôt, après la prise de pouvoir par les Talibans à Kaboul, les pays européens aujourd’hui « accueillants » s’organisaient pour fermer leurs frontières aux milliers de personnes cherchant à fuir l’Afghanistan, alléguant comme l’a fait la France, que « l’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle [et que] « nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants » [8].

      Ce que cachent mal les discours et pratiques à géométrie variable que nous observons aujourd’hui porte un nom : le racisme, c’est-à-dire la croyance en une hiérarchie des êtres humains et la production d’un rapport de domination pour tenter de rendre opérante cette hiérarchisation. L’idéologie raciste se masque le plus souvent derrière des atours présentables, dans des arguties telles que : « La place de ces gens-là est chez eux, à aider leur pays à sortir de la misère », « ils doivent être accueillis dans les pays limitrophes au Sud, dont la culture dominante est proche de la leur… », ou encore « dans la migration, ils se mettent en danger et se font la proie des passeurs ». Mais elle apparaît pour ce qu’elle est en période de crise, quand refont surface les discours alarmistes qui, chez les responsables politiques et dans certains médias, attisent la peur de l’invasion.

      Pour commenter la décision de l’UE de déclencher le mécanisme de protection temporaire, la Commissaire européenne aux Affaires intérieures, Ylva Johansson, parle d’un « changement de paradigme », et on entend volontiers dire dans les médias que les Européens auraient retrouvé « le sens de l’accueil » [9]. C’est oublier que, comme on le voit aujourd’hui, la légitimité des souffrances se mesure à l’aune des origines et de la couleur de la peau.

      Des exilé⋅e⋅s se mobilisent depuis des mois pour défendre leur droit à la protection et à quitter un pays où leur vie est en danger et n’ont toujours pas vu cet accueil se matérialiser. A l’image de celles et ceux sur la route des Balkans [10], ou bloqué⋅e⋅s dans le sud de la Tunisie [11], ou encore en Libye qui ne sont pas dupes : « Ils affirment que les Ukrainiens sont différents, qu’ils sont des programmeurs informatiques et qu’ils ont une histoire bien connue, contrairement aux Africains dont le passé est marqué par la pauvreté. Les Ukrainiens sont désormais accueillis dans des pays qui ont fermé leurs portes aux réfugiés du Moyen-Orient et d’Afrique » [12]. Si nous exprimons toute notre solidarité avec les exilé⋅e⋅s ukrainien⋅e⋅s, nous joignons nos voix à celles de toutes les personnes qui sont bloquées et maintenues sciemment à distance des frontières européennes.

      Aujourd’hui l’UE fait pour les exilé⋅e⋅s Ukrainien⋅ne⋅s ce qu’elle a longtemps prétendu impossible : permettre la mobilité des personnes en quête de refuge et la reconnaissance de leurs droits plutôt que de chercher à les bloquer à tout prix. Cette brèche ouverte avec la mobilisation exceptionnelle dont font preuve aujourd’hui les Etats membres démontre que, contrairement à ce qu’elle a toujours dit, l’UE a la capacité d’accueillir un très grand nombre d’exilé⋅e⋅s. Le réseau Migreurop réclame que cet élan de solidarité et d’accueil soit étendu à toutes les personnes quelles que soient l’origine, la nationalité, la couleur de la peau, la classe, etc.

      Seule la liberté de circuler de toutes et tous pourrait enfin mettre un terme à l’apartheid global imposé à travers les frontières.

      http://migreurop.org/article3095.html?lang_article=fr

    • Témoignage : fuir Kiev sans la #nationalité ukrainienne

      Le politologue palestinien Yousef Munayyer s’étonnait il y a peu, dans les pages de The Nation, des « doubles standards » qui saturent le discours occidental « mainstream » depuis l’invasion de l’Ukraine. Ce qui jusqu’à la veille était impensable — ou, pire, tenu pour condamnable — se voit célébré par l’intégralité du personnel médiatique, politique et culturel. C’est que certains humains sont perçus et pensés « comme moins humains que d’autres ». Les vingt-sept États membres de l’Union européenne ont rapidement activé une procédure de régularisation visant à protéger les personnes fuyant la guerre : créée en 2001, cette protection temporaire n’avait jamais été mise en application. Mais une partie de la population résidant en Ukraine en est actuellement exclue : en clair, ceux et celles qui n’ont pas la nationalité ukrainienne. Rien, pourtant, ne saurait justifier la distinction de civils échappant ensemble au même conflit armé : ni les papiers, ni — lorsque la chose est formulée sans détour — la couleur de peau ou la confession. Nous avons recueilli le témoignage d’Alaya, jeune femme originaire d’Afrique subsaharienne qui vient de fuir Kiev.

      Le jour se lève sur Kiev en ce matin du 28 février 2022, lorsque John1 apprend que sa jeune sœur Alaya et trois de ses amis essaient de fuir la ville. À lui qui vit en France, elle affirmait encore la veille au téléphone que tout allait bien, que les craintes qu’il avait étaient sans doute dues à ce qu’il avait vu à la télévision, qui grossit les choses au point d’effrayer tout le monde.

      24 heures plus tard, il apprend qu’elle a pris la route.

      Douze ans auparavant — c’était en 2010 —, il avait perdu toute trace d’elle, comme du reste de sa famille, lorsque leur village avait été attaqué. Tous deux, alors enfants d’une dizaine d’années, avaient dû se débrouiller pour survivre. Mais voici, en ce mois de février 2022, qu’il retrouve sa trace grâce aux réseaux sociaux. À Kiev. Quelques semaines avant le début de la guerre.

      Sa peur à lui — peut-être à elle aussi : que va-t-il leur arriver sur le chemin ? Parviendra-t-elle à quitter la ville, le pays, saine et sauve ? Mais qui sait ce qui vous traverse l’esprit quand il faut fuir, avec cette montée d’adrénaline qui rend opérationnelle, qui sait quel sac prendre, quoi mettre dedans, comment s’habiller ? Ça fait bientôt dix ans que Alaya vit en Ukraine. Elle attendait le renouvellement de son visa étudiant, qu’elle obtenait sans faute depuis toutes ces années car il lui était impossible de retourner dans son pays d’origine. Elle vit à Kiev, la guerre éclate, elle est sans titre de séjour et elle est noire ; les choses pourraient être plus simples.

      Son frère apprend vite qu’elle n’est pas partie seule — soulagement. Mais les échanges écrits sont très succincts : ils ne communiquent que peu d’éléments. Entre la couverture réseau qu’elle dit aléatoire, la batterie du téléphone qu’il faut préserver le plus longtemps possible, l’état d’esprit dans lequel il imagine qu’elle se trouve, il sait qu’il doit se contenter de quelques mots. Il n’obtient qu’au compte-goutte, comme un puzzle infernal dont les toutes petites pièces filent entre les doigts, quelques informations. Celles qui circulent sur les réseaux sociaux sont pour le moins inquiétantes ; le traitement réservé aux personnes noires qui tentent de fuir l’Ukraine fait le tour de la toile. Presque au même moment, les étudiants marocains présents en Ukraine signalent avoir subi ce type de violence raciste : ils dénoncent un traitement qui les relègue au second plan, loin derrière les ressortissants ukrainiens qui cherchent à fuir la guerre.

      La mise en place d’un énorme réseau solidaire est aussitôt annoncée un peu partout en Europe. En Belgique, le secrétaire d’État à l’Asile et à la Migration, Sammy Mahdi, annonce que les réfugiés ukrainiens bénéficieront automatiquement d’un titre de séjour de six mois, renouvelable une fois et pour une durée allant jusqu’à deux ans, avec autorisation de travailler. Ils ne se verront pas basculés dans le dispositif de gestion de l’asile général, « car trop saturé ». Le chef du gouvernement régional flamand, Jan Jambon, leader du parti d’extrême droite N‑VA (bien connu pour ses positions sur la question migratoire), affirme qu’il faut les accueillir et qu’une aide financière sera versée aux localités pour chaque Ukrainien secouru. Suivant l’exemple de l’entreprise ferroviaire publique allemande Deutsche Bahn, les réseaux de transport européens se mobilisent à leur tour pour faciliter les déplacements des réfugiés ukrainiens — mais seulement « sur présentation d’un passeport ou d’une carte d’identité ukrainienne ». C’est en effet ce qu’affichent sur leur site certaines compagnies2. Secourir les réfugiés d’Ukraine, oui, mais pas n’importe lesquels. L’évidence qu’en Ukraine ne vivent pas seulement des Ukrainiens semble devoir être rappelée aux gouvernements — à moins, plus sûrement, qu’ils feignent de l’ignorer. Pas le temps de se demander ce que ça représente pour toutes les autres personnes contraintes à l’exil, continuellement traquées et rejetées, ni ce que peuvent ressentir toutes les populations aux territoires bombardés, colonisés, à l’instar des Palestiniens. Alaya doit réussir à quitter le pays saine et sauve.

      Le soir du 28 février, il est environ 20 heures lorsqu’ils sont arrêtés à l’un des multiples checkpoints installés dans la capitale et ses alentours. On leur interdit de poursuivre leur chemin, puis on les somme de faire demi-tour. « On ne comprenait pas pourquoi, on ne savait pas où aller. Rentrer à la maison n’était pas envisageable. D’ailleurs, aucun lieu n’était sûr. On a cherché un hôtel, mais tout était plein partout, avec de longues files d’attente. » Ils décident de dormir dans leur voiture, stationnée dans une rue résidentielle. Une Ukrainienne d’un certain âge, habitant la maison devant laquelle ils sont garés, vient toquer à leur fenêtre. Elle les invite chez elle, leur offre à manger, des lits où passer la nuit. Ils lui en sont profondément reconnaissants. Ils reprennent la route le lendemain à l’aube. Peu de temps après, ils ont un accident et la voiture est à l’arrêt. Deux policiers interviennent, leur viennent en aide. « On a eu de la chance, ils nous ont emmenés dans un abri et nous ont aidés à prendre un bus. » Pourtant, rien n’était moins sûr : Alaya est bien placée pour le savoir. Quand son frère les alertait sur les risques d’agressions racistes sur le chemin, aucun d’eux ne se montrait surpris. « C’est tous les jours qu’on vit avec ça. » Les regards insistants sur sa peau dans la rue, les remarques désobligeantes, c’est son lot quotidien. Elle raconte que pendant ses études en pharmacie, les étudiants ukrainiens et étrangers étaient toujours placés dans des salles séparées. « On suivait le même enseignement, dans la même université, mais on nous mettait toujours dans des salles à part, jamais avec les autres étudiants ukrainiens. »

      Les quatre amis montent dans un bus à destination de Lviv pour se rapprocher des frontières polonaises, slovaques et hongroises, à l’ouest du pays. Des queues interminables sont signalées à la frontière de tous les pays limitrophes : impossible alors pour John de savoir quelle route ils vont pouvoir emprunter. Il contacte différentes personnes en lien avec des groupes de citoyens qui s’organisent dans certains de ces pays pour venir en aide aux réfugiés ukrainiens. Il apprend ainsi que dans une ville frontalière de Pologne, les citoyens se sont mobilisés pour aider les gens à monter dans des bus vers des destinations sûres, qu’il y a beaucoup de monde pour donner un coup de main. Mais ce contact prévient : « Ils disent qu’ils vérifient bien les identités de chacun, parce que, ils ajoutent, "Il ne faudrait pas laisser passer des Russes". » On ne saura pas si cette remarque est représentative de ce qu’il se passe réellement, mais sa simple évocation est glaçante. Passer les garde-frontières, ukrainiens d’abord, puis polonais, espérer ne pas être retenu et être traité dignement, tout ça ne suffira donc pas : il faudra aussi subir les filtrages opérés par les populations. Quel danger représente un ressortissant russe cherchant lui aussi à fuir ?

      De Lviv, ils prennent un train.

      « On était assez choqués car malgré tout ce qui se passait, la guerre, il fallait acheter les billets sinon on ne pouvait pas monter à bord. » Ils parviennent à gagner la frontière avec la Hongrie. « Il y avait une queue interminable. Ça n’avançait pas du tout. Au bout de plusieurs heures on est parvenus à se faufiler vers l’avant, au moins pour comprendre ce qu’il se passait. » Ils voient alors une jeune femme d’origine indienne, en larmes. Elle crie qu’elle attend depuis deux jours, que les garde-frontières ukrainiens ne la laissent pas passer. Elle n’est pas seule : tout un groupe de personnes non-blanches est derrière elle. Alaya raconte : « Ils faisaient passer les personnes blanches et bloquaient toutes les personnes de couleur. Ils ont clairement dit qu’il y avait des gens plus importants que nous. Mais on s’est défendus, on a tous crié. Ils ont fini par nous laisser passer. » Le tampon de sortie d’Ukraine figure dorénavant sur leurs passeports : il date du 2 mars 2022.

      Ayant trouvé refuge dans une petite ville de l’autre côté de la frontière, le groupe d’amis s’accorde un jour entier pour réfléchir. Que faire ? Accroché à son téléphone, plusieurs centaines de kilomètres plus loin, John s’inquiète et trouve qu’ils s’attardent trop. Il comprendra plus tard leur dilemme. Si deux personnes du groupe possédaient encore un titre de séjour en cours de validité en Ukraine, les deux autres n’en avaient pas. C’est ensemble qu’ils se sentent plus forts, et surtout mieux protégés — la situation administrative des uns pouvant aider les autres. Ils ne savent pas où se mettre à l’abri, si ce n’est l’offre que John leur a fait d’aller se réfugier chez lui. Mais le plus jeune de la bande, tout juste âgé de 16 ans, a de la famille en Italie. Il voudrait retrouver ses proches. Impensable pour le groupe de le laisser voyager seul en ces circonstances. Si bien qu’ils en viennent à imaginer l’accompagner tous ensemble, avant de se mettre ensuite à l’abri chez John, en France, le temps de comprendre ce qui leur arrive et de réfléchir aux choix possibles pour chacun d’entre eux. Attendre que le conflit se calme et rentrer en Ukraine ? Cette option ne semble même pas avoir été envisagée. Quant à la protection temporaire activée le 4 mars 2022 par le Conseil de l’Union européenne — qui offre une protection immédiate et collective, avec une série d’avantages dont beaucoup de personnes exilées rêveraient3 — il est fort à parier qu’elle servira essentiellement aux ressortissants ukrainiens4. Demander l’asile dans un pays de l’Union européenne ? Quelles chances réelles d’obtenir le statut de réfugié ? Ça dépendra de l’histoire de chacun, pour qui tentera cette procédure.

      Après des heures qui lui paraissent interminables, John a enfin des nouvelles : ils ont décidé de continuer encore un peu le chemin tous ensemble, au moins jusqu’au pays suivant. Ils décideront à la prochaine étape s’il est nécessaire de se séparer en deux groupes, avec chacun un porteur de titre de séjour valable, pour protéger celui qui n’en a pas. Un groupe vers la France, l’autre vers l’Italie. Ensemble, ils parviennent à traverser la frontière vers l’Autriche sans encombre. Là, comme précédemment, ce sont les mêmes files d’attente interminables, le stress aigu, l’épuisement, l’impossibilité d’obtenir les fameux tickets de train « Helpukraine5 ». Mais il faut bien avancer ; et, tant bien que mal, ils y parviennent. Arrivés à Vienne, une personne leur vient en aide. Ils soufflent quelques heures, mangent, essaient de dormir un peu. La première bonne nouvelle tombe enfin : la tante du plus jeune s’est rendue jusqu’en Autriche pour venir le chercher. Il va pouvoir retrouver sa famille en Italie. Son combat administratif est loin d’être terminé, mais pour l’instant, le voilà à l’abri. Et, pour les autres, c’est une frontière de moins à franchir. Voilà qu’ils obtiennent enfin le fameux ticket de train « Helpukraine », qu’ils imaginent leur permettre de voyager et traverser les frontières plus facilement. Ils espèrent en tous les cas avancer plus sereinement dorénavant.

      Ils embarquent dans un train. Prochaine étape, l’Allemagne. À peine la frontière est-elle passée que la douane monte à bord. Toutes les personnes en possession de ce ticket doivent descendre du train, petit groupe par petit groupe. Vient leur tour. Alaya dit aux policiers qu’ils ne s’arrêtent pas en Allemagne, qu’ils vont rejoindre son frère en France. « Enregistrement obligatoire pour toutes les personnes qui viennent d’Ukraine. Prise d’empreintes aussi », lui rétorque-t-on. Il est minuit passé de quelques minutes. La foule de personnes, incluant des familles avec des enfants en bas âge, est transportée par bus jusqu’à une station de police. « On pensait que ça allait être rapide, ils nous disaient que c’était juste une formalité. Mais on arrive dans cet endroit, il y a plein de policiers, énormément de personnes qui attendent. Les gens semblent épuisés. On ne nous dit rien. On nous fait juste passer des grilles et on nous amène à l’arrière du bâtiment, dans la cour. L’espace est fermé par des barrières, on ne peut pas partir. » Ils attendront des heures que chacun soit entendu par la police, que leurs empreintes soient prises. Fuir une guerre en cours n’y change rien : c’est l’enregistrement bureaucratique qui prime, qui retient au milieu de la nuit des centaines de personnes dans le froid et les empêche de rejoindre les lieux d’abri qu’elles avaient pu choisir, pour certaines chez des proches.

      Il est 7 heures du matin quand Alaya et ses amis signalent à John qu’ils y sont toujours. « On est glacés. Ils s’en fichent, on a beau fuir une guerre, même dans ces circonstances, voilà comment on nous traite. » Une bonne partie des personnes ont déjà été libérées. Elle raconte que parmi celles qui sont encore retenues, un homme entre en crise. Ça fait dix heures qu’il est là. Il hurle qu’il veut être libéré. Le groupe d’amis essaie de garder son sang-froid, de ne pas faire de bruit, patiente et espère. Le risque est pourtant réel d’être embarqué vers un centre de rétention. Sur les photos qu’elle fait parvenir à son frère, il ne peut que remarquer qu’il ne reste que des personnes de couleur. Les familles « blanches » que l’on voyait présentes quelques heures plus tôt n’y sont plus. L’angoisse le gagne. Il retient sa respiration. Alaya lui racontera ensuite qu’ils avaient d’abord fait passer les femmes avec enfants.

      Il est près de 8 heures lorsqu’ils sont relâchés à leur tour, avec en main un papier d’enregistrement et une obligation de se présenter au service d’immigration le plus proche, sous quatre jours. Pour qui demandera l’asile, Dublin a frappé6 : ce n’est pas au pays de destination choisi mais au premier où les empreintes ont été enregistrées qu’incombe le traitement de la demande de protection. Mais, pour l’heure, ça importe peu aux membres du groupe : ils poursuivent leur chemin.

      Alaya et John se sont retrouvés.

      Après douze ans sans aucunes nouvelles l’un de l’autre, ne sachant même pas s’il restait un espoir de retrouver d’autres survivants de l’attaque de leur village, les voilà réunis. L’intensité de l’émotion qu’ils ressentent et qui se dégage d’eux est immense — mais une nouvelle lutte commence. Alaya vient de se présenter à la préfecture pour solliciter la protection temporaire activée pour les personnes fuyant l’Ukraine. Fin de non-recevoir. « Elle n’est pas ukrainienne, qu’elle aille demander l’asile », lui a‑t-on dit.

      https://www.revue-ballast.fr/temoignage-fuir-kiev-sans-la-nationalite-ukrainienne

    • La #solidarité à géométrie variable n’en est pas vraiment une

      Une solidarité réglée sur la ségrégation entre ‘#bons’ et ‘#mauvais’ réfugiés ne se discrédite-t-elle pas par elle-même ? Une scission discriminante de l’humanité en ceux dignes d’être sauvés et accueillis et ceux et celles exclus du domaine de l’hospitalité, ne témoigne-t-elle d’une contamination des sociétés européennes par des motifs racistes ?
      Depuis quelques semaines, nous découvrons que l’accueil tant redouté des réfugiés est bien possible en Europe. Accueillir, accueillir dans de conditions qui respectent la dignité des personnes, accueillir en ouvrant grand les portes à ceux et celles qui viennent serait alors faisable, même si les arrivants dépassent les quatre millions. Jusqu’à il y a un mois, une telle perspective était perçue comme annonciatrice de catastrophe majeure voire comme une menace existentielle pour l’Europe : on nous assenait de tous les côtés qu’un accueil digne de ce nom constituerait un appel d’air exposant nos sociétés européennes à un risque d’implosion. Tout geste d’accueil était suspect et pourrait être puni comme un délit voire un crime. Les solidaires étaient stigmatisés comme les idiots utiles au service de trafiquants, les sauveteurs comme faisant partie de bandes de passeurs, voire comme des espions coupables d’intelligence avec l’ennemi.

      Avec la guerre en Ukraine, changement complet de cap, les réfugiés- à vrai dire certains d’entre eux- sont reconnus comme tels, leurs droits sont respectés, leurs souffrances et leurs traumatismes pris en compte. Même en Grèce, le retournement complet de pratiques et de discours fut impressionnant. En deux semaines, ce pays dont le gouvernement déclarait qu’il ne pouvait plus recevoir un seul réfugié de plus, a su accueillir 15.000 Ukrainiens en leur accordant des documents temporaires, ainsi qu’un numéro de Sécurité Sociale, un numéro fiscal et le droit de travailler.

      Or nous savons que cette réception digne ne concerne point tous les réfugiés, mais quelques-uns, choisis en fonction des affinités ethniques et religieuses, peu importe si celles-ci sont réelles ou imaginaires. Elle ne concerne même pas tous les réfugiés fuyant la guerre en Ukraine mais uniquement les ressortissants ukrainiens. En fait, non seulement la protection temporaire accordée par les pays européens aux Ukrainiens est refusée à la grande majorité d’étrangers résidant en Ukraine, mais plusieurs d’entre eux sont placés en détention pour entrée irrégulière au territoire polonais. Ce n’est qu’en fonction de leurs nationalités et de leur couleur de peau que les réfugiés d’Ukraine seront accueillis ou rejetés. Quant aux Kurdes, Irakiens, Syriens et Afghans qui se présentent non pas à la frontière polonaise avec l’Ukraine, mais à celle avec la Biélorussie, ils sont traqué et violemment refoulés, après avoir été tabassés et dépouillés de leurs biens ; certains d’entre eux peuvent même être laissés pieds nus par températures négatives à errer sur un sol glacial – au moins 20 personnes sont morts ainsi d’hypothermie à la frontière avec la Biélorussie. Quant à ceux et celles qui oseraient offrir l’hospitalité à ces hommes, femmes et enfants affamés et frigorifiés, ils risquent huit ans d’ans de prison ferme. Les mêmes scènes d’une guerre qui ne dit pas son nom, celle contre les migrants, se passent à la frontière gréco-turque d’Evros où il y a une quinzaine de jours un petit garçon syrien de 4 ans est mort noyé sous les yeux impassibles d’un commando grec, victime d’un refoulement trop violent. L’incident, loin d’être un cas isolé, fait partie d’une nouvelle stratégie adoptée pars les garde-frontières de la région d’Evros qui consiste à refouler ceux qui arrivent en les abandonnant sur des îlots du fleuve Evros sans vivres ni eaux avec l’injonction de retourner en Turquie. En janvier dernier, cette tactique avait déjà coûté la vie à un syrien souffrant d’une grave insuffisance rénale.

      C’est cette face hideuse du visage de l’Europe que celle-ci tourne vers tout un chacun dont l’image s’écarte de la figure-type du ‘bon’ réfugié –chrétien, blanc aux yeux bleus. D’un côté, on accueille à bras ouvert les « nôtres », ceux qui ne menaceraient pas le vénéré mode de vie européen, et de l’autre on violente, on torture, on refoule avec des véritables opérations militaires qui exposent délibérément ceux qui se présentent à nos portes à des risques mortels.

      Cependant il ne suffit pas de dénoncer cette solidarité à géométrie variable, il faudrait essayer d’aller au-delà du registre d’une condamnation morale. En effet, si la solidarité dépend de la tête du client, est-ce vraiment de la solidarité ? Ou bien plutôt une défense atavique de nôtres contre les autres, une réaction identitaire qui présuppose une bipartition de l’humanité entre ceux à notre image, et les autres, ces aliens qui, à nos yeux étriqués, portent les stigmates d’une altérité qui les exclurait du domaine d’exercice de l’hospitalité ? Ainsi, ce qui est présenté comme un retour du sens de l’accueil en Europe, pourrait s’avérer le symptôme d’un racisme meurtrier qui ne dit pas son nom.

      Cette année, nous avons ‘célébré’ les cinq ans d’accords de coopération entre UE et la Libye : selon Amnesty International , plus de 82 000 réfugié·e·s et migrant·e·s ont été renvoyés à l’enfer libyen depuis que les accords ont été conclus. La plupart « se sont retrouvés dans des centres de détention sordides, où sévit la torture, tandis que beaucoup d’autres ont été victimes de disparitions forcées ». Cette politique européenne qui ne se contente pas de refouler en renvoyant aux centres de tortures et aux marchés aux esclaves libyens mais criminalise systématiquement le secours en mer, a bien porté ses fruits : elle a transformé la mer Méditerranée en une fosse commune qui a englouti pas moins de 23.500 personnes morts ou disparus de 2014 jusqu’à aujourd’hui. En Grèce, un écart significatif entre le chiffre officiel des personnes secourues en mer et celui de nouveaux arrivants enregistrés dans les îles révèle au moins 25.000 cas de refoulement en mer Egée pendant la seule année 2021. Ces refoulements sont non seulement systématiques mais de plus en plus violents ; les commandos qui s’en chargent, recourent à des méthodes d’une brutalité paroxystique qui mettent délibérément en danger la vie ceux qui en sont les victimes. Cette escalade des violences contre les arrivants comporte des actes criminels comme ceux des garde-côtes qui en septembre dernier n’ont pas hésité à jeter en pleine mer trois hommes qui ne savaient pas nager et dont deux sont morts noyés, ou ceux de garde-frontières d’Evros qui avaient dépouillés des exilés de leur vêtement en les laissant pieds nus par températures négatives –19 personnes en sont morts ainsi début février. Ces crimes ne constituent point des bavures ou des dérapages isolés, mais font partie intégrante d’une politique concertée de dissuasion réglée sur le principe « rendons les la vie infernale ». En les exposant délibérément à des dangers mortels, les garde-frontières qui assurent la protection de l’Europe, s’attendent à ce que les candidats à l’exil finirons par comprendre non seulement qu’ils sont indésirables sur le sol européen mais que leurs propre vies n’y comptent pour rien.

      La situation dramatique des réfugiés ukrainiens pourrait-elle sensibiliser les sociétés européennes au drame de tous les réfugiés indépendamment de leur origine ? Si nous tenons compte ce qui continue à se passer à nos frontières loin de projecteurs médiatiques, nous aurons du mal à y croire. Force est de constater que l’accueil des Ukrainiens va de pair avec notre indifférence, en tout cas avec notre inaction blasée, face à ces crimes commis contre les ‘mauvais’ réfugiés aux confins de l’Europe et/ ou à ses frontières externalisés.

      La question est ‘sommes-nous disposés de vivre au sein d’une société régie par la croyance « en une hiérarchie des êtres humains et par la production d’un rapport de domination pour tenter de rendre opérante cette hiérarchisation » (communiqué de Migreurop du 22 mars 2022) ? Car, la solidarité à deux vitesses revient à une bipartition de l’humanité entre ceux dont la vie serait digne d’être sauvés, et les autres, ceux dont les vies en seraient indignes. Ce qui fait inévitablement penser à la doctrine abjecte de Lebensunwertes Leben, de vies indignes d’être vécues, notion clé de la politique eugéniste et raciale nazie. Certes nous n’en sommes là, mais en sommes-nous vraiment loin ? D’un côté, vous avez des vies dignes d’être sauvées, secourues, accueillies, et de l’autre, les vies de ceux qui, n’appartenant pas à la ‘grande famille européenne’, seraient non seulement indignes d’être sauvés mais qui pourraient dans l’indifférence générale être conduits à la noyade ou à la mort par hypothermie. La pente est plus que glissante.

      Que cela soit clair : tous ceux et celles qui fuient la guerre en Ukraine doivent être accueillis dans les meilleures conditions possibles non seulement à court mais aussi à moyen voire long terme. Ce qui reste insoutenable, est cette politique de deux poids et deux mesures, qui présuppose une bipartition pernicieuse de l’humanité. Qu’une partie d’êtres humains soit traitée comme si elle n’appartenait plus à l’humanité, comme si elle pourrait en être retranchée et exclue, cela ne saurait ne pas affecter nous autres européens des stigmates d’inhumanité.

      La guerre en Ukraine serait-elle d’autant plus la ‘nôtre’ qu’elle est une guerre européenne ? Tout compréhensible que puisse être ce point de vue, on pourrait y objecter que la guerre en Syrie ne nous concernait pas moins, et que la résistance de Kurdes à l’avancée fulgurante de Daech n’a pas été moins décisive pour l’avenir de l’Europe que l’issue de la guerre actuelle en Ukraine. Si, comme le dit Michel Agier, penser l’Europe devrait être une méthode pour penser notre commune humanité, nous ne saurions nous affirmer en tant qu’européens qu’en pensant et agissant en tant que citoyens du monde. Contre les politiques du tri sélectif, de l’exclusion et de criminalisations des arrivants, il nous faudra construire un monde Un, un monde commun où il y aura une place pour toutes et tous.

      Paris, 31 mars 2022

      https://blogs.mediapart.fr/vicky-skoumbi/blog/010422/la-solidarite-geometrie-variable-n-en-est-pas-vraiment-une

    • Entre les réfugiés d’Ukraine et ceux d’ailleurs : une « #différence_de_traitement insupportable »

      Les annonces gouvernementales se succèdent pour organiser l’arrivée des personnes fuyant l’Ukraine. Après des années de refus politique d’accueillir les exilés d’Afrique ou du Moyen-Orient, les associations dénoncent une discrimination.

      « Elle arrive… » Un chuchotement circule dans l’assistance. Marlène Schiappa, ministre déléguée chargée de la Citoyenneté auprès du ministre de l’Intérieur, s’avance pour saluer une rangée de responsables d’associations. Nous sommes le 23 mars. Tous s’activent ici, dans ce hall du parc des expositions Porte de Versailles à Paris, pour accueillir les personnes réfugiées d’Ukraine. « Vous avez toujours en majorité des femmes et des enfants ? » s’enquiert la ministre. Depuis l’ouverture du centre, mi-mars, 1900 Ukrainiens, principalement des femmes et des enfants (les hommes ukrainiens de moins de 60 ans ne sont pas autorisés à quitter le pays) ont été hébergés sur place pour une ou deux nuits. Ils y ont trouvé un dispositif inédit, rassemblant en un même lieu préfecture, Office français de l’immigration et de l’intégration, assurance-maladie… Du jamais-vu en France.

      Une dizaine de box ouverts sur une salle bruyante s’alignent. Des familles ukrainiennes y exposent, dans une intimité toute relative, leur situation aux agents de l’État. Première étape à l’entrée : le contrôle des documents d’identité par la préfecture de Paris. Si tout est en règle, c’est-à-dire si les personnes sont en capacité de prouver qu’elles fuient l’Ukraine, elles se voient délivrer dans la foulée une autorisation provisoire de séjour. Celle-ci est d’une durée de six mois, renouvelable trois ans.

      Du jamais-vu en France
      Depuis l’ouverture du centre de Porte de Versailles (Paris), mi-mars, 1900 Ukrainiens, principalement des femmes et des enfants, ont trouvé un dispositif inédit, rassemblant en un même lieu préfecture, Office français de l’immigration et de l’intégration, assurance-maladie… Du jamais-vu en France.

      « Nous délivrons près de 300 autorisations provisoires de séjour par jour », explique un représentant de la préfecture. Ces autorisation sont l’application concrète, en France, de la directive européenne sur la protection temporaire créée en 2001 et activée le 3 mars 2022 pour la première fois. Elles donnent, entre autres, le droit de travailler et d’obtenir une couverture maladie immédiatement, là où les demandeurs d’asile sont depuis 2019 soumis à une attente de trois mois pour bénéficier de la Sécurité sociale.
      « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit »

      « Il y a un deux poids deux mesures. N’ayons pas peur des mots : c’est du racisme. »

      Aucun autre exilé sur le territoire français n’a droit au dispositif de protection temporaire. Pas même les Afghans ayant fui la prise de Kaboul par les talibans, l’été dernier. « L’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants », déclarait en août 2021 à leur propos Emmanuel Macron. Six ans plus tôt, au regard de la crise syrienne, une cinquantaine d’organisations demandaient déjà au président Hollande et à l’Europe d’œuvrer en faveur de la protection temporaire. En vain.

      « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit. Il y a un deux poids deux mesures. N’ayons pas peur des mots : c’est du racisme. La différence de traitement est insupportable », dénonce Yann Manzi, cofondateur de l’association Utopia56. Il y voit une incarnation du double discours « humanité et fermeté », martelé par le gouvernement Macron depuis son arrivée au pouvoir. « Pour toutes les populations maghrébines, ou d’Afrique subsaharienne, on a la fermeté ; tandis que pour les Ukrainiens, on a l’humanité ».

      4 millions de réfugiés
      Les associations craignent de trouver bientôt des familles ukrainiennes sans solution, comme les autres. Actuellement, 26 000 réfugiés ukrainiens sont arrivés en France. Une partie est en transit, mais il est difficile de prévoir le nombre d’arrivées futures : plus de 4 millions de personnes ont quitté l’Ukraine, au 30 mars.

      L’exemple des transports est parlant. L’État a noué un partenariat inédit avec la SNCF pour permettre aux familles ukrainiennes de se déplacer gratuitement vers les régions où on leur propose un hébergement, ou vers les pays qu’elles souhaitent rejoindre. Au sein du hall Porte de Versailles, « on travaille sur une solution de guichet SNCF », explique Nordine Djebarat, directeur régional Île-de-France à Coallia, une association spécialisée dans l’hébergement et l’accompagnement social.
      100 000 places d’hébergement… et des gens toujours à la rue

      « Les pouvoirs publics sont capables de se mobiliser pour accueillir un grand nombre de réfugiés ukrainiens. On voit que quand la volonté politique est là, on y arrive »

      Pour les autres nationalités, les gares et les trains restent ce qu’ils ont toujours été. À savoir, des lieux de traque et de contrôle. En plein cœur de la vallée de la Roya, un escadron de gendarmerie mobile contrôle en permanence la zone autour de la commune de Sospel et sa gare TER. « Ici, le train ne s’arrête que quelques minutes, mais cela suffit aux militaires pour contrôler l’ensemble des voitures, où il n’est pas rare de se retrouver en présence d’individus entrés irrégulièrement en France », écrit par exemple le média de la gendarmerie nationale Gend.Info. Dans un communiqué du 14 mars, la CGT Cheminots explique que la direction de la SNCF leur « demande de vérifier la provenance des réfugiés dans le train (...) et “d’agir avec bienveillance” s’ils sont Ukrainiens ». De quoi soulever « un malaise profond chez une partie des cheminots, conscients d’une différence de traitement entre les réfugiés ».

      Depuis 2015, l’accès au logement pour les personnes exilées est l’une des principales batailles que mènent les associations. Il y a eu les occupations place de la République ou devant la mairie de Paris, les réquisitions de bâtiment vacants, les demandes répétées de prise en charge systématique des personnes à la rue après les évacuations de campements... Le numéro d’urgence 115 saturé, les structures d’hébergement pleines : les associations se sont habituées à recevoir ces réponses de la part des services de l’État.

      Des dizaines de réfugiés Afghans dorment dans le campement du Cheval noir, à Pantin (Seine-Saint-Denis). Avec la fin de la trêve hivernale, « il y a plein de territoires où des remises à la rue se préparent », craint Yann Manzi d’Utopia56. Avec la possibilité de la reformation de campements de milliers de personnes en périphérie de Paris.

      Alors, le 23 mars, quand le Premier ministre Jean Castex annonce l’ouverture prochaine de 100 000 places d’hébergement pour les personnes fuyant la guerre en Ukraine [1], les associations qui viennent en aide aux exilés à la rue ont évidemment salué le geste… tout en soulevant quelques contradictions. « Nous avons distribué plus de 800 repas hier soir dans les rues de Paris, les conditions de vie des personnes exilées sont très dures, témoigne Philippe Caro de l’association Solidarité Migrants Wilson. On s’aperçoit que les pouvoirs publics sont capables de se mobiliser pour accueillir un grand nombre de réfugiés ukrainiens, alors que depuis des années ils nous disent que ce n’est pas possible pour les autres. On voit que quand la volonté politique est là, on y arrive », s’agace-t-il.
      Parfois dès 9 h du matin, ils disent aux familles “revenez demain”

      À Calais, l’auberge de jeunesse, comptant 130 places, a été mobilisée pour héberger des Ukrainiens. Les exilés d’autres nationalités continuent de survivre dans des campements informels ("jungles”), au rythme des expulsions tous les deux jours par les forces de l’ordre. « Ils nous disent : “C’est terrible ce qu’il se passe en Ukraine”. Puis, quand on leur explique cet accueil, ils s’étonnent : “ah oui ? Pourquoi ils ne sont pas dans la jungle comme nous ?” », rapporte Marguerite Combes, coordinatrice d’Utopia56 sur place. « On est contents pour les Ukrainiens, mais si on peut le faire pour eux, pourquoi pas pour tout le monde ? C’est assez rageant, cela fait 30 ans que c’est l’impasse… », soupire Alexandra Limousin, responsable de l’Auberge des migrants, association historique du Calaisis.

      Malgré cette mobilisation inédite de l’État, des défaillances commencent à être mises en lumière. Dans un échange de courriers, des bénévoles traducteurs alertent la Croix rouge sur un manque d’assistance médicale, de nourriture et d’eau lors du premier accueil, gare de l’Est à Paris. La rapidité de l’ouverture des droits est aussi « très variable » en fonction des endroits, explique Gérard Sadik, responsable asile de la Cimade. Même au hub Porte de Versailles, « c’est premier arrivé, premier servi. Parfois dès 9 h du matin, ils disent aux familles “revenez demain” », précise-t-il.

      Enfin, les associations craignent de trouver bientôt des familles ukrainiennes sans solution, comme les autres. Actuellement, 26 000 réfugiés ukrainiens sont arrivés en France. Une partie est en transit, mais il est difficile de prévoir le nombre d’arrivées dans les prochaines semaines (plus de 4 millions de personnes ont quitté l’Ukraine, au 30 mars). Dans un gymnase réquisitionné à Rennes, « la semaine dernière, six personnes d’Ukraine sont arrivées, et c’est nous qui leur avons payé l’hôtel, car le gymnase était plein… », raconte Yann Manzi.
      Des hébergement évacués, des gens mis à la rue

      « On insiste beaucoup sur la générosité des gens, mais soyons extrêmement vigilant sur l’hébergement citoyen, qui doit inclure de l’accompagnement social dans la durée »

      Dans la dernière instruction envoyée aux préfets sur le schéma d’hébergement et de logement des réfugiés d’Ukraine, que Basta ! s’est procurée, les ministères insistent sur le fait de ne pas mettre en concurrence les publics. « Il est essentiel de ne pas dégrader ou saturer les dispositifs de droit commun », y écrivent-ils. Mais sur le terrain, des formes de priorisation s’opèrent. À Rennes, 144 personnes, dont une quarantaine d’enfants, occupaient depuis mi-janvier un gymnase réquisitionné par les associations qui les suivent depuis un an. Le 30 mars, les forces de l’ordre ont évacué les lieux. « Il reste une famille de dix personnes sans solution, ainsi qu’une petite vingtaine d’hommes seuls », indique Ludovine Colas, coordinatrice d’Utopia 56 à Rennes.

      Des guichets uniques au centre d’accueil de Porte de Versailles permettent aux familles réfugiées ukrainiennes d’accomplir toutes leurs démarches. « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit », dénonce Yann Manzi, cofondateur de l’association Utopia56.

      Dans le même temps, « on sait qu’il y a des dispositifs qui ont été ouverts à Rennes pour les Ukrainiens, des places libres », souligne Yann Manzi. Ces derniers peuvent accéder à un hébergement juste après s’être présentés en préfecture. Pour les autres exilés, « il faut passer par le guichet unique de Coallia pour avoir ensuite un rendez-vous en préfecture, puis la préfecture renvoie vers Coallia, qui orientera vers un hébergement », décrit Ludivine Colas. De quoi allonger les délais sur plusieurs mois… « La majorité des occupants du gymnase étaient ainsi des primo-arrivants, pris dans ces fameux délais de rendez-vous », explique-t-elle.

      La clôture de la trêve hivernale, fin mars, risque de multiplier ces situations selon les associations. « Il y a plein de territoires où des remises à la rue se préparent. Là où il y aura des soutiens ou une médiatisation, on peut espérer les faire reculer. Mais dans les territoires moins visibles, tout va se faire dans une grande discrétion » craint Yann Manzi d’Utopia56. Face à la priorisation donnée à l’hébergement de familles ukrainiennes, Agathe Nadimi de l’association les Midis du MIE, qui vient en aide aux mineurs isolés, craint la reformation de campements de milliers de personnes en périphérie de Paris.

      La priorisation se ressent aussi dans la mobilisation citoyenne. Porte de Versailles, l’Armée du Salut coordonne les distributions alimentaires. Le centre peut accueillir jusqu’à 400 personnes par jour. « On a les capacités d’y répondre, grâce à tous les dons reçus, notamment beaucoup d’entreprises. Enfin… à destination des Ukrainiens. Parce que pour les autres publics, les Syriens, les Afghans, on a plus de mal. Des fois, on a envie de dire : il y a tous les autres, aussi », soupire Emmanuel Ollivier, directeur de la fondation de l’Armée du Salut. Marlène Schiappa soulignait lors de sa visite : « Tous les jours, on a des gens qui veulent aider, faire des dons, laisser un appartement à disposition… C’est pour cela qu’on a créé une plateforme de parrainage ».

      Pour l’heure, peu d’informations ont été données sur les 100 000 places d’hébergement annoncées par Jean Castex, si ce n’est qu’une grande partie d’entre elles sont organisées par des entreprises privées ou des citoyens. Cela pose question à de nombreuses associations. « On insiste beaucoup sur la générosité des gens, mais soyons extrêmement vigilant sur l’hébergement citoyen, qui doit inclure de l’accompagnement social dans la durée », soutient Bruno Morel, le directeur général d’Emmaüs Solidarité. Gérard Sadik, de la Cimade, rappelle aussi une évidence : « L’État a un devoir d’hébergement, avec une obligation des moyens renforcés : c’est-à-dire, une obligation d’aller vers le logement de toutes les personnes. Il ne peut pas se reposer sur les initiatives privées… »

      Tous les acteurs associatifs saluent la réaction rapide et massive de l’État pour accueillir les déplacés ukrainiens, ils souhaiteraient désormais que cette crise soit l’électrochoc permettant d’instaurer un accueil digne et durable à tous les exilés. « On a jamais vu des conditions d’accueil aussi favorables. Cela doit être considéré comme une opportunité pour les généraliser à toute personne qui a fui la guerre ou une situation humanitaire insupportable », défend Bruno Morel, d’Emmaüs Solidarité.

      https://basta.media/Refugies-ukrainiens-porte-de-Versailles-difference-de-traitement-Afghans-Sy

    • Ukraine and Double Standards on Refugees

      Critics are right to point out that some Western nations are treating Ukrainian refugees better than those fleeing similar horrific situations elsewhere. But the right way to address the problem is to increase openness to other refugees, not exclude Ukrainians.

      Russia’s brutal invasion of Ukraine has created a massive refugee crisis, with over 5 million Ukrainians fleeing the country. Many Western countries have admirably accepted Ukrainian refugees in response. But critics argue that this relative openness by the US and Europe involves a pernicious double standard under which white European refugees from Ukraine are welcomed, but non-white ones from Syria, Africa and elsewhere, are mostly shut out, even though many are fleeing comparably grave dangers from war and oppression. Pope Francis, among others, has said that the differential treatment of refugees is driven by “racism.”

      The critics have a legitimate point. But the right way to address the problem is not to close our doors to Ukrainians, but to be more open to other migrants and refugees fleeing horrific conditions.

      Non-white refugees from Africa and the Middle East really do often face violence and oppression comparable to that which threatens Ukrainian refugees, and many Western nations have been less willing to let them enter. In the case of the US, the difference is less glaring than in Europe, because the Biden administration has so far taken only modest steps to open US doors to Ukrainians. Some of those steps, such as granting Ukrainians already in the US “Temporary Protected Status” have parallels in similar policies adopted towards some predominantly non-white groups of refugees, such as Venezuelans (regardless of their actual skin color, Venezuelans and other Hispanics are usually not considered “white” in the US). The contrast is greater in Canada and various European nations that have been relatively more open to Ukrainians than the United States has been so far.

      Although racial and ethnic bias surely plays a role, it probably isn’t the only factor at work. It is also significant that the US and its European allies have an important strategic stake in the Russia-Ukraine War that is either smaller or entirely absent in the cases of Syria and various African conflicts. Openness to Ukrainians is not only a moral gesture, but also a way of opposing Vladimir Putin’s brutal war of aggression, which threatens Western security interests.

      It’s also worth noting that the US and its European allies have done little or nothing to open their doors to Russian refugees fleeing Putin’s intensifying repression, despite the strong moral and strategic case for doing so. Most Russian refugees are white, just like most Ukrainian ones. Western nations’ unwillingness (so far, at least) to take them is likely driven by shortsighted unwillingness to distinguish them from the very regime they are fleeing.

      That said, racial and ethnic bias clearly is a factor. Some European officials openly admit it. For example, Bulgarian Prime Minister Kiril Petkov said in February that his country is welcoming Ukrainians in part because “[t]hese are not the refugees we are used to.… These people are Europeans…These people are intelligent.”

      But, as I explained in one of my earliest pieces making the case for admitting Russian and Ukrainian refugees, the right way to combat such disparities is “leveling up” the treatment of non-white refugees, not barring Ukrainians.

      There are some cases where it is perfectly legitimate to end discrimination by “leveling down” the treatment of the previously favored group. For example, if the government gives subsidies to white-owned businesses that aren’t available to others, there is nothing wrong with just abolishing the subsidy program entirely.

      But barring refugees fleeing war or repression is a grave wrong even if it is done in a “race-neutral” manner. It still unjustly consigns people to oppression or even death merely because they happen to be born to the wrong parents or in the wrong place. That itself is an injustice similar to racial discrimination. In the same way, if police brutality is directed against African-Americans more often than whites, the problem could not be justly “solved” by having the police abuse whites more often. Rather, the only defensible approach in that situation is to curb brutality directed at blacks.

      In my view, there should be a strong presumption against barring any peaceful migrants, especially those fleeing war, authoritarian regimes, or other severe oppression. But I recognize this ideal is unlikely to be fully achieved anytime soon, if ever. In the meantime, we should seek whatever incremental improvements are feasible, which may include measures focused on specific refugee crises, even as others remain (relatively) neglected.

      And while I have long argued it is essential to make the general moral case for migration rights, there is nothing wrong with also noting considerations that may only apply to a specific situation. For example, there are specific strategic advantages to opening our doors to Russians fleeing Putin, because doing so strengthens the West’s position against one of the world’s most dangerous illiberal authoritarian regimes.

      In my view, Russians fleeing Putin’s regime (like others fleeing repression) should be accepted even in the absence of those strategic advantages. But these points still add to the case for openness, and they may be more decisive for observers who are less generally pro-migration rights than I am.

      The issue of racial and ethnic double standards on migration rights often comes up when I speak about admitting Ukrainians and Russians during the present war. Reporters and interviewers routinely ask about it. I always emphasize that my support for migration rights is not and never has been bounded by race or ethnicity.

      For members of the media and anyone else who may be interested, here is a convenient, though not exhaustive, list of my writings advocating migration rights for predominantly non-white groups (as “white” is usually defined in US political discourse). Unless otherwise noted, these are all posts at the Volokh Conspiracy blog:

      1. “The Moral and Strategic Case for Admitting Syrian Refugees,” Nov. 23, 2015.

      2. “Obama’s Cruel Policy Reversal on Cuban Refugees,” Jan. 14, 2017. While many Cuban migrants are light-skinned, they are not usually considered white in the US.

      3. “Supreme Court Ruling on Travel Ban Ignores Religious Discrimination,” USA Today, June 26, 2018. This piece and the next one are just a small sampling of my extensive writings opposing Donald Trump’s anti-Muslim travel bans.

      4. “Trump’s Expanded Travel Ban Compounds the Wrongs of Previous Versions,” Feb. 2, 2020.

      5. “Let Hongkongers Immigrate to the West - And other Victims of Chinese Government Oppression, too,” May 29, 2020. This is just one of several pieces I have written on Asian refugees.

      6."Immigration Restrictions and Racial Discrimination Share Similar Roots," The Hill, Nov. 24, 2020.

      7. “The Case for Accepting Afghan Refugees,” Aug. 20, 2021.

      8. Free to Move: Foot Voting, Migration, and Political Freedom, (Oxford University Press, rev. ed. 2021). In Chapters 5 and 6 of this book, I include an extensive critique of justifications for racial, ethnic, and cultural discrimination in migration policy. In the case of the US and many other Western nations, such restrictions most often target non-whites.

      9. “The Case Against Covid-19 Pandemic Migration Restrictions,” Cato Institute, Feb. 1, 2022. In the US, these restrictions have most heavily impacted non-white migrants from Latin America. That’s especially true of the Title 42 “public health” expulsions, against which I also authored an amicus brief when their legality was challenged in court.

      This list could easily be expanded. But it’s enough to give a representative sampling of my work on this issue.

      Committed conspiracy theorists (though not Volokh Conspirators!) might still say I only wrote the above because I anticipated there would someday be a refugee crisis involving whites. My previous writings about non-white refugees would store up credibility that I could then make use of. But that just goes to show there’s no satisfying hard-core conspiracy theorists!

      https://reason.com/volokh/2022/04/24/ukraine-and-double-standards-on-refugees

    • Migranti : verso un contributo per i profughi ospitati dai privati

      Lo ha dichiarato il presidente del Fvg #Massimiliano_Fedriga: «Stiamo lavorando a una misura che sarà valida per tre mesi, per venire incontro alle famiglie che ospitano. Importante distinguere tra rotta balcanica e profughi Ucraini»

      Voici le passage sur la distinction à faire entre les réfugiés « de la route des Balkans » et ceux d’Urkaine :

      «Oggi il numero di profughi dall’Ucraina è gestibile a livello nazionale - ha spiegato Fedriga - ma ci preoccupa la sommatoria con l’immigrazione proveniente dalla rotta balcanica e dal Mediterraneo. Oltretutto bisogna avere consapevolezza che i due percorsi devono essere ben distinti, soprattutto per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati. Dall’Ucraina arrivano minori dai 6 ai 14 anni circa, dalla rotta balcanica e dal Mediterraneo arrivano sedicenti 17enni che in realtà sono maggiorenni. Non possiamo pensare di mischiare i due percorsi, dobbiamo tutelare al massimo le persone che scappano dalla guerra».

      https://www.triesteprima.it/politica/migranti-fedriga-contributo-ospiti.html
      #Italie #Fedriga

      –---

      To a certain degree, double standards are already emerging regarding the treatment of refugees travelling Balkan and Mediterranean routes, and those arriving from Ukraine. While every person crossing the border is mandated to quarantine for 6 days, people fleeing Ukraine can do so in specialized centers (there are 4 of them in #Trieste at the moment). All other nationalities (predominantly people from Pakistan and Afghanistan) are sent to #Campo_Sacro, which presents considerably worse living conditions. Since there are 40 to 50 people present there, it can be concluded that the Italian police still chases and leads them back when they decide to resume their journeys. Of particular concern is the case of two Pakistani people who fled Ukraine, where they had obtained their residency permits, but were conducted to Campo Sacro regardless.

      (p.11)

      source : https://www.borderviolence.eu/balkan-regional-report-march-2022

    • En #Pologne, les exilés non ukrainiens se sentent abandonnés

      Irakiens, Syriens ou Yéménites, ils ont traversé la frontière entre le Bélarus et la Pologne fin 2021, en y frôlant parfois la mort. Placés en rétention, relâchés, certains se retrouvent aujourd’hui livrés à eux-mêmes, à l’heure où des millions de réfugiés ukrainiens sont accueillis en Pologne.

      Kouba a aperçu la veille une silhouette marchant le long de la route, un sac sur le dos, et en a déduit que c’était lui. « Une amie m’a demandé d’aller le récupérer. Comme il ne parle quasiment pas anglais, je lui ai quand même montré son numéro pour vérifier que c’était la bonne personne », chuchote-t-il, l’air amusé, assis sur la pelouse près de la gare de Varsovie vendredi 6 mai. Près de lui, Waleed, cheveux coiffés en arrière et barbe fournie, ne dit pas un mot. Mais il acquiesce lorsqu’il parvient à déchiffrer ce que dit son accompagnateur.

      « Il a été refoulé deux fois à la frontière en octobre dernier, puis il a passé six mois à Stary Raduszec », poursuit Kouba en remuant la tête de gauche à droite pour marquer son agacement. Il fait référence au centre de rétention qui a vu le jour dans la province de Krosno, à l’ouest de la Pologne. « C’est au milieu de nulle part, au milieu des champs. Il n’y a même pas d’adresse. » Waleed ignore pourquoi il a pu en sortir du jour au lendemain. « C’est comme une prison, explique-t-il en arabe, dans le train qui l’emmène droit vers Łódź, à une centaine de kilomètres de la capitale. On n’avait pas le droit d’utiliser nos smartphones, ni d’avoir de la visite. »

      Un ami à lui a tout de même pu prendre une vidéo tournée à l’intérieur du centre fin 2021. « We are not animals ! » (« Nous ne sommes pas des animaux ! »), crie un homme parmi un groupe d’exilés derrière un grillage, en s’adressant aux gardes. Au cours des derniers mois, plusieurs personnes se sont lancées dans une grève de la faim pour protester contre leur rétention, injustifiée – la plupart d’entre elles ont demandé l’asile (ou émis le souhait de le faire) par l’intermédiaire de bénévoles ou d’avocats rencontrés avant qu’ils ne soient interpellés par les gardes-frontières puis enfermés, comme nous le relations ici ou là.

      Originaire du Kurdistan irakien, Waleed confie, dans le train, ses rêves d’Europe : « Mon frère, avec qui j’ai traversé, est aujourd’hui en Allemagne. Et j’ai un autre frère en Belgique. » Il aimerait les rejoindre mais ignore comment faire. Il craint aussi les contrôles de police dans les gares allemandes. Son frère, lui aussi placé en centre de rétention, n’a pu en sortir que parce qu’il souffrait d’une forme grave de diabète. C’est avec lui que Waleed a d’abord tenté de gagner la Bulgarie, depuis la Turquie, à dix reprises. « À chaque fois, on nous a refoulés. La police était très dure avec nous. Une fois, ils nous ont retiré nos téléphones et vêtements, les ont brûlés sous nos yeux et nous ont dit “go” en nous montrant la forêt. »

      En arrivant en gare de Łódź, en début de soirée, le jeune homme retrouve Sebastian, l’un des maillons de cette chaîne de solidarité qui refuse d’abandonner les personnes exilées de toutes nationalités, à l’heure où la Pologne accueille près de trois millions de réfugié·es venant d’Ukraine. Tous deux ne se connaissent pas mais Waleed le suit volontiers lorsqu’il se dirige vers sa voiture puis fait démarrer le moteur. Du heavy metal sort, sans crier gare, de la radio, et plusieurs exemplaires du journal anarchiste traînent sur le siège arrière. La voiture rejoint un petit village, surnommé « Palestine », où Sebastian va héberger, pour la toute première fois, un exilé chez lui.

      « Je vais te montrer ta chambre », lance-t-il à Waleed en grimpant les marches de la maison. Sur le tee-shirt de l’activiste anarchiste, un nounours barre au feutre rouge une croix gammée nazie. Une fois dans le salon, Sebastian tente de mettre la musique sur la télévision pour noyer le silence qui s’installe, faute de langue commune. « Je suis assez nul pour briser la glace », affirme-t-il en enchaînant les cigarettes dans le jardin.

      Magda, la femme de Sebastian, arbore un sourire gêné. « Elle est bien embêtée car elle est très bavarde, d’habitude », plaisante-t-il. Pour lui souhaiter la bienvenue, le couple a organisé une fête, en présence d’Ewa, le premier contact de Waleed, qui est restée en lien avec lui durant son enfermement. C’est aussi elle qui a demandé à Kouba de le récupérer à sa sortie du centre de rétention.

      Installée à table, elle convoque ses souvenirs. « J’ai passé trois ou quatre mois à la frontière bélarusse. Des fois, on restait 46 heures sans dormir, au point d’avoir des hallucinations. On a aidé beaucoup de personnes, bien qu’on ne se souvienne pas de tous les visages et prénoms. » Aujourd’hui, poursuit-elle, les exilé·es continuent de tenter le passage de cette frontière, devenue une nouvelle route migratoire en Europe. « Il y a encore du monde qui traverse, au moins cinquante personnes par semaine. Vendredi dernier, on a trouvé une famille qui avait passé sept jours dans la forêt », rapporte Kouba.

      "Quand je vois les gardes-frontières polonais avec des enfants ukrainiens dans les bras aujourd’hui, ça me rend fou."

      Sebastian, activiste anarchiste

      Et Ewa d’ajouter : « Le centre de Bruzgi, au Bélarus, comptait sept cents personnes. Il a été fermé et les plus vulnérables ont été relâchés pour dire que la Pologne les refoulait. C’est un sale “jeu” entre les deux pays. Certaines personnes sont restées coincées à la frontière durant des mois. » « Quand je vois les gardes-frontières polonais avec des enfants ukrainiens dans les bras aujourd’hui, ça me rend fou », peste Sebastian en se tenant la tête entre les mains. Il a, lui aussi, ratissé la forêt située dans la zone en état d’urgence pour sauver des vies.

      Deux jours plus tard, dans la cour du centre social et culturel ADA à Varsovie, Kouba se souvient de ce qui a marqué un tournant pour lui : au moins trois décès avaient été signalés à la frontière entre la Pologne et le Bélarus en octobre dernier. « La même semaine, les autorités locales ont annoncé lors d’une conférence de presse avoir trouvé des images de zoophilie et de pédophilie sur le téléphone des exilés. Cette propagande a été insupportable pour moi. » Kouba multiplie, durant trois mois, les allers-retours à la frontière et garde contact avec certains exilés placés en centre de rétention, par un réseau d’entraide.

      Depuis le début de la guerre en Ukraine, ce professeur d’université a choisi de s’impliquer auprès des exilés non ukrainiens, considérant qu’il y avait « suffisamment d’aide » pour eux à travers le pays. Et parce que, selon plusieurs sources, les ONG autrefois présentes à la frontière bélarusse sont depuis impliquées à la frontière ukrainienne.

      « Ces différences de traitement me dépassent. On s’est aussi organisés, avec des volontaires, pour créer à l’intérieur de la gare de Varsovie un point d’accueil pour les réfugiés non ukrainiens fuyant la guerre. » Un groupe basé à la frontière avec l’Ukraine est chargé de les recenser et de signaler leur départ en train. À leur arrivée dans la capitale, les équipes les orientent pour la suite de leur parcours ou leur cherchent un hébergement.

      Proposer une aide à tous les exilés, sans distinction

      Dimanche 8 mai, Chris retrouve Sulaïman et Mohsen dans un café de la capitale situé près du théâtre. Les deux jeunes hommes, originaires du Yémen, laissent entrevoir deux personnalités radicalement opposées : l’un, coupe afro assumée, est extraverti et enchaîne les blagues avec un serveur peu réceptif ; l’autre est réservé, le regard presque méfiant.

      Ils viennent, eux aussi, d’être relâchés du centre de rétention de Wędrzyn, un village situé près de la frontière allemande. « Le centre a été créé dans une zone militaire, où il y avait des entraînements tous les jours. On entendait les tirs, les explosions, comme si on était au milieu d’une guerre », relate Sulaïman, qui évoque un « camp de concentration »
      On se battait pour du pain. Des gens sont devenus fous et se sont mis à parler tout seuls.
      Mohsen, un exilé yéménite

      Là-bas, Mohsen, à la carrure déjà frêle, perd quatre kilos. « On se battait pour du pain. Des gens sont devenus fous et se sont mis à parler tout seuls. » Durant deux mois, le trentenaire ne peut donner aucune nouvelle à sa famille restée au Yémen. « Quand j’ai enfin récupéré un vieux téléphone, j’ai dit à ma mère que j’étais dans un hôtel 5 étoiles, car je ne voulais pas l’inquiéter. »

      Aujourd’hui, ses proches, qui ont découvert la vérité, ne parviennent toujours pas à y croire. Après avoir travaillé en Arabie saoudite pour fuir la crise que connaît son pays en 2013, Mohsen se confronte à de nouvelles difficultés. Son pays d’accueil restreint le droit au travail pour les étrangers et augmente, chaque année, le tarif des permis de résidence.Il lance une demande de visa étudiant en Espagne à plusieurs reprises, sans succès. « En 2021, j’ai pu obtenir un visa étudiant au Bélarus. Tout à coup, on a entendu dire que la frontière avec la Pologne était ouverte. Pour moi, c’était la seule chance de gagner l’Europe », explique-t-il, faisant référence aux droits humains et à une vie meilleure.

      « Bla bla bla… », lâche aujourd’hui Mohsen d’un ton amer. Il prend contact avec Sulaïman, originaire du même village que lui au Yémen, qui a de son côté tenté de rejoindre l’Europe via la Turquie. « J’ai été refoulé à chaque fois par la Grèce. Quand tu cherches un endroit sûr, tu trouves. On connaît le sens du mot “guerre” et on pensait qu’en passant par le Bélarus, on pourrait demander l’asile en Europe.
      Un soldat a fini par me frapper à la poitrine. Ils ont cassé le port permettant la charge de nos téléphones et nous ont dit de repartir.
      Sulaïman, un exilé yéménite

      Les deux comparses font appel à un passeur bélarusse qui les achemine à la frontière le 16 août, au début de la crise, contre 200 dollars. « C’était le 15 août », rectifie Mohsen, pour qui chaque détail a son importance. Ils n’imaginaient pas combien ce serait « difficile ». Ils sont refoulés une première fois par les gardes-frontières polonais, qui braquent leurs armes sur eux.

      « Ils nous ont demandé ce qu’on voulait et on a répondu “l’asile”. » Côté bélarusse, les soldats leur ordonnent de retourner en Pologne. « Une nuit, ils nous ont laissés plusieurs heures sous la pluie, sous des températures négatives, en nous observant. Un soldat a fini par me frapper à la poitrine. Ils ont cassé le port permettant la charge de nos téléphones et nous ont dit de repartir. »

      Le « ping-pong » dure sept jours. Affamé, déshydraté et souvent malade pour avoir bu l’eau des marécages, le groupe – des Afghans et Kurdes les ont rejoints dans leur mésaventure – désespère et ne pense qu’à survivre. Ils finissent par croiser une ONG dans la forêt, qui promet de les aider. Alexandra, une bénévole, les accompagne au poste des gardes-frontières, pensant bien faire.

      « Ils l’ont virée du poste en la poussant violemment. On s’est dit que s’ils faisaient ça à une ONG, qu’est-ce qu’ils feraient avec nous ? », poursuit Mohsen en jouant nerveusement avec le couteau posé sur la table à manger de la cuisine, dans le petit appartement qu’ils occupent au centre-ville de Varsovie. Leur téléphone confisqué, ils sont de nouveau refoulés, au milieu de la nuit. C’est finalement une équipe de télévision, qui tourne côté Bélarus, qui les sort de cet « enfer ».

      Près de deux mille exilés seraient toujours placés en centre de rétention depuis la crise à la frontière bélarusse. « Quelle différence entre les Ukrainiens et nous ? Est-ce une question de couleur ? », interroge Mohsen, faisant référence à la guerre et à la famine que connaît son pays. « On se sent désolés pour la guerre en Ukraine, mais on trouve dingue que les réfugiés aient juste à se présenter à la frontière polonaise pour être protégés après ce qu’on a vécu. »

      Et Sulaïman d’ajouter : « Il ne devrait pas y avoir de différence entre les gens. Et s’ils ne veulent vraiment pas de nous, pourquoi nous enfermer ? » Près de deux mille personnes seraient toujours placées en centre de rétention depuis la crise à la frontière bélarusse. Mohsen et Sulaïman ont passé huit mois et vingt jours en centre de rétention, sans même en connaître la raison. « Comme si on était des criminels », résument-ils. Ils sont suivis par le collectif d’aide aux migrants Grupa Granica, et un avocat tente aujourd’hui de les aider dans leurs démarches administratives.

      Chris, qui se dit sans « étiquette » et dont les parents sont eux aussi réfugiés, estimait qu’il n’en avait « pas assez fait » durant la crise à la frontière bélarusse. « Les Polonais se sont réveillés avec l’arrivée massive de réfugiés ukrainiens et font tout pour les soutenir. C’est super. J’ai estimé de mon côté que Mohsen et Sulaïman en avaient plus besoin, puisque personne ne les aide », susurre celui qui leur prête cet appartement, où ils vivent depuis leur sortie du centre de rétention. Mohsen, le regard plongé dans le vide, se dit « brisé ».

      Pensent-ils rester en Pologne ? « Ça fait huit mois qu’on est là et les ONG ont rempli les documents pour la demande d’asile, mais on n’a rien eu, pas même un entretien », rétorque Sulaïman.Recontacté, Moussa*, qui nous racontait en décembre dernier avoir dû enterrer ses frères dans la forêt à la frontière, vit toujours en Podlachie, au nord-est de la Pologne, mais a dû quitter le centre d’accueil où il était hébergé pour faire de la place aux Ukrainien·nes.

      « Des personnes de bonne volonté se sont regroupées pour me trouver un logement en ville car ce n’était plus vivable pour moi là-bas. Mais je n’ai toujours pas de procédure d’asile ici en Pologne », confie-t-il, admettant être « perdu ».

      « Je suis incapable de réfléchir à ce que je veux faire pour le moment », complète Mohsen. Chris assure que si la zone en état d’urgence est toujours interdite d’accès, c’est pour que le monde « ne puisse pas voir ce qui s’y passe ». « Il doit aussi y avoir des corps là-dedans. C’est un crime contre l’État de droit et contre l’humanité, pour lequel les responsables devront payer », dénonce-t-il en avouant avoir « honte » de son pays. En cherchant le regard de ses deux interlocuteurs, il conclut : « Vous devriez essayer d’oublier tout cela. Nous, on se chargera de ne rien oublier. »

      https://www.mediapart.fr/journal/international/160522/en-pologne-les-exiles-non-ukrainiens-se-sentent-abandonnes

    • Réfugiés d’Ukraine : tapis rouge pour les uns, barbelés pour les autres

      Février 2022 : face à l’afflux d’exilé·es en provenance d’Ukraine aux frontières européennes, la présidente de la Commission européenne déclare que l’Union est « pleinement préparée » à accueillir ces réfugiés qui sont « les bienvenus [1] ». En France, la ministre déléguée auprès du ministre de l’intérieur précise qu’il n’est prévu ni répartition entre les États membres de l’UE (« ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent [2] ») ni quotas (« dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra ») : sera octroyé un statut provisoire de protection immédiate, sans besoin de demander l’asile, avec un accompagnement social pour tout le monde ; les personnes seront logées, pourront travailler et leurs enfants iront à l’école. Et pour « ceux […] partis sans passeport, il y aura évidemment de la souplesse, ce sont après tout des gens qui fuient la guerre, on ne va pas les bloquer avec des formalités administratives. L’humanité c’est de ne pas ajouter des formalités aux formalités ».

      L’incrédulité face à cette inhabituelle hospitalité cède au malaise. Comment en serait-il autrement, quand on apprend, par la voix du directeur de l’Office français de l’immigration et de l’intégration que « la France se prépare » et dispose d’un « parc d’hébergement de demandeurs d’asile qui peut être agrandi [3] », tandis que sont laissé·es à la rue, depuis des années, des milliers d’exilé·es que la police pourchasse, rafle et déplace sans cesse ?

      Pour la plupart d’entre eux, il eût suffi, comme on vient de le faire, d’activer la directive UE relative à la « protection temporaire », instituée dès 2001 mais qui n’a jamais, depuis lors, été mise en œuvre. Afghan·es, Érythréen·nes, Irakien·nes, Soudanais·es, Syrien·nes notamment, auraient ainsi pu, au fil du temps et des crises, bénéficier des conditions de protection et d’accueil offertes aujourd’hui aux Ukrainien·nes. Qu’il n’en ait rien été ne peut qu’interroger : la protection temporaire, pourtant de portée universelle dans toutes les situations d’« afflux massif », serait-elle en pratique réservée aux personnes exilées plutôt blanches et de culture chrétienne ?

      Comment expliquer, sinon, qu’au mois d’août 2021, tout en condamnant la prise de pouvoir par les talibans à Kaboul, le président Macron ait pu déclarer : « L’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants [4] » ? Comment comprendre que cette même Europe, soudain prête « à recevoir cinq millions de personnes » selon le chef de la diplomatie de l’UE, ait approuvé l’édification par la Pologne, la Lituanie ou la Lettonie de murailles à leurs frontières pour parer à une « invasion » d’exilé·es venu·es d’Asie ou d’Afrique, favorisée par la Biélorussie à l’automne 2021 ?

      La discrimination raciale a d’ailleurs contaminé, dès ses premiers jours, l’exode ukrainien lui-même. Un tri des exilé·es s’est opéré à la frontière entre l’Ukraine et la Pologne, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, au point que la Haut-Commissaire aux droits de l’Homme de l’ONU s’est dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine [5] ». Ces pratiques ne peuvent être traitées comme de simples bavures ; elles traduisent la conception qu’a l’UE de l’accueil : tapis rouge pour les un·es, barbelés pour les autres.

      Le tri ne s’arrête pas aux frontières : la proposition de la Commission européenne aux États membres d’activer la directive « protection temporaire » prévoyait d’inclure « les personnes qui ont fait de l’Ukraine leur lieu de vie [6] ». Une catégorie que n’a pas retenue le Conseil européen : en plus des Ukrainien·nes, seules seront éligibles les personnes bénéficiant d’une protection en Ukraine. En France, une instruction précise que, pour y prétendre, les autres devront justifier d’une résidence régulière sous couvert d’un titre de séjour permanent en Ukraine (quid des personnes en demande d’asile ?) et de « l’impossibilité de rentrer dans leur pays ou région d’origine dans des conditions sûres et durables ».

      Difficile de ne pas voir, derrière ces pratiques et ces annonces, l’idéologie raciste qui imprègne la politique migratoire menée en Europe et en France, hier portée par l’extrême-droite, aujourd’hui propagée par de nombreux responsables politiques et professionnels des médias. En témoigne, par exemple, les propos d’un sénateur-maire conservateur de la ville de Mikulov en République tchèque, pays qui, soudain, secourt dans l’enthousiasme près de 200 000 Ukrainien·nes alors qu’il avait catégoriquement refusé la prise en charge du moindre réfugié en 2015. C’est qu’alors, explique-t-il, « les gens qui arrivaient en Europe avaient une religion différente et une culture qui n’était pas compatible avec la nôtre [7] ». Une analyse que partagent manifestement les États membres de l’UE sans s’autoriser à le reconnaître…

      Notes

      [1] France Info, « Guerre en Ukraine : comment l’accueil des réfugiés se prépare en Europe », 24 février 2022.

      [2] Marlène Schiappa, interviewée par France Info, 8 mars 2022. Idem pour les citations suivantes.

      [3] France Info, « Réfugiés ukrainiens : “Les capacités d’accueil seront trouvées”, assure le directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration », 28 février 2022.

      [4] Emmanuel Macron, au cours d’une allocution télévisée le 16 août 2021.

      [5] ONU info, « Guerre en Ukraine : des dizaines de millions de personnes en “danger de mort”, prévient Michelle Bachelet », 3 mars 2022.

      [6] Commission UE, « Ukraine : la Commission propose une protection temporaire pour les personnes fuyant la guerre en Ukraine, et des lignes directrices concernant les vérifications aux frontières », 3 mars 2022.

      [7] Le Monde, « Submergée par les réfugiés ukrainiens, la République tchèque ne veut pas entendre parler de “quotas” européens », 21 mars 2022.

      https://www.gisti.org/spip.php?article6793

    • #Moldavie : racisme à l’accueil pour les #Roms d’Ukraine qui fuient la guerre

      Tous les réfugiés d’Ukraine ne sont pas accueillis de la même façon. En Moldavie, les membres de la communauté rom doivent faire face au racisme et à la ségrégation. Le rapport accablant de Human Rights Watch.

      Les autorités moldaves hébergent les réfugiés roms d’Ukraine séparément des autres personnes fuyant la guerre, ce qui constitue un « traitement inégal et discriminatoire », alerte l’organisation Human Rights Watch (HRW), qui a enquêté sur la situation en Moldavie. Le gouvernement aurait même permis et, dans certains cas, demandé aux équipes de bénévoles de refuser les réfugiés roms dans les centres d’accueil étatiques.

      « Les autorités moldaves offrent un soutien très important aux personnes fuyant l’Ukraine, mais cela n’excuse pas la ségrégation des réfugiés roms », dénonce Anastasija Kruope, chercheuse à l’ONG de défense des droits humains. « Peu importe les problèmes économiques et sociaux auxquels la Moldavie fait face, le gouvernement a la responsabilité d’assurer que les réfugiés ne sont pas discriminés sur des bases ethniques. »

      Depuis l’invasion russe le 24 février, 471 000 personnes ont fui l’Ukraine vers la Moldavie, et 87 000 sont restées dans ce pays de 2,6 millions d’habitants, qui est aussi l’un des plus pauvres d’Europe. Depuis la mi-mars, la quasi-totalité des réfugiés roms pris en charge par les autorités moldaves ont été placés dans un bâtiment jusque-là abandonné de la Faculté des Relations internationales (FRISPA) et dans le Manej Sports Arena. Mais des militants de défense des droits des Roms soulignent que les conditions d’accueil au Manej et au centre de Frispa sont « inadéquates » et « pauvres », en tout cas inférieures à celles des autres centres d’accueil.

      Certains administrateurs de ces centres refuseraient les réfugiés roms. Selon des bénévoles qui ont travaillé dans l’accueil des réfugiés, un fonctionnaire gouvernemental a dit aux bénévoles qu’ils devaient confirmer l’ethnie des réfugiés avant de les placer dans des centres pour éviter les problèmes, tout en admettant qu’il s’agissait d’une forme de profilage racial. De fait, les Roms sont catégorisés avant tout comme Roms et non Ukrainiens, quand bien même ils possèdent le passeport ukrainien.

      Des membres du staff du centre MoldExpo, le plus grand centre d’accueil du pays, à Chișinău, rapportent également que les autorités de la ville auraient une politique « non écrite » de refuser presque tous les Roms dans ce centre. Le 2 avril, l’HWR été témoin d’un tel refus opposé à des réfugiés roms arrivant d’Ukraine sous prétexte qu’il n’y avait plus de place dans le centre d’accueil, alors que ce n’était pas le cas.

      Les Roms font toujours face à un profond racisme et des discriminations constantes à la fois en Ukraine, en Moldavie et en Roumanie. On estime à 400 000 le nombre de Roms qui vivaient en Ukraine avant l’invasion russe, le plus souvent dans des conditions de pauvreté élevée, avec peu ou pas d’accès à l’emploi, à l’éducation et au système de santé. Ils sont également souvent victimes de discours de haine et parfois d’attaques violentes dont la justice locale ne se saisit pas sérieusement.

      Certaines réactions des Moldaves accueillant des réfugiés ukrainiens et d’Ukrainiens fuyant la guerre dans leur pays montrent l’étendu du racisme et des préjugés auxquels les Roms font face. « Pas de Roms », indiquent certaines familles pourtant prêtes à héberger des réfugiés ukrainiens à titre privé. « Quand on appelle des centres d’accueil et qu’on leur demande d’héberger un groupe de réfugiés, on nous dit ’Pas de soucis, amenez-les, mais assurez-vous qu’ils ne sont pas roms’, ou ’assurez-vous qu’ils sont ukrainiens’ ou ’blancs’ », rapporte un bénévole qui aide les réfugiés à trouver des lieux d’hébergement. « Un jour, on nous a demandé s’ils étaient des ’purs ukrainiens’. »

      Selon des activistes de défense des droits des Roms, certains réfugiés roms sont retournés en Ukraine, car ils ne trouvaient pas d’hébergement dans les centres d’accueil ou dans des familles en Moldavie. Ils rapportent aussi que des réfugiés ukrainiens non roms ont refusé de rester dans des centres d’accueil avec des réfugiés roms et que des Ukrainiens non roms ont refusé de monter à bord de bus à destination de villes d’Europe avec des réfugiés roms.

      « Les autorités moldaves doivent mettre fin à cette politique officielle ou non officielle de ségrégation des Roms et prendre toutes les mesures nécessaires pour contrer les attitudes discriminatoires contre eux », appelle HRW.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Moldavie-racisme-a-l-accueil-pour-les-Roms-d-Ukraine-qui-fuient-l

    • « Ce que l’Etat a fait pour les Ukrainiens, il peut le faire pour les autres exilés »

      Une #manifestation est organisée par différentes ONG ce samedi à Paris pour dénoncer les conditions d’accueil différenciées entre les réfugiés ukrainiens et ceux venant d’autres pays.

      Deux poids, deux mesures. D’un côté, il y a les réfugiés ukrainiens, arrivés par dizaines de milliers sur le sol français – 100 000 selon les derniers décomptes – depuis le début de l’invasion russe de leur pays et dignement accueillis dans des centres d’hébergement ouverts spécialement pour eux. De l’autre côté, des exilés venant d’autres pays, qui n’ont guère accès à ces foyers.

      C’est contre cette « #politique_migratoire_différentialiste » que des ONG, comme Utopia 56, Médecins du monde, Pantin Solidaire, Paris d’Exil ou Solidarité migrants Wilson, appellent à manifester, ce samedi, à 14 h 30, depuis le centre d’accueil de la Porte de Versailles, à Paris, jusqu’à la préfecture d’Ile-de-France, chargée d’orchestrer les opérations dites de mises à l’abri. Pour que les centaines de migrants sans-abri en Ile-de-France puissent accéder aux centres d’hébergement dédiés aux Ukrainiens, et qui sont désormais « à moitié vides », selon Pierre Mathurin, coordinateur au sein d’Utopia 56. Il explique à Libération les raisons de la mobilisation.

      Pourquoi avez-vous décidé de descendre dans la rue ce samedi après-midi ?

      Depuis le début de l’invasion russe en Ukraine, le 24 février, on se réjouit toutes et tous de l’accueil des réfugiés ukrainiens en France. Mais on demande que cette organisation soit mise en place pour tous les réfugiés sans-abri, et non pas seulement ceux qui viennent d’Ukraine. C’est le message que nous voulons porter ce samedi dans la rue. On veut que l’accès au logement, à la santé, au travail, aux transports publics, à la demande d’asile immédiat et à l’information, qui ont tous été facilités pour les exilés ukrainiens, soient aussi ouverts aux autres réfugiés, quelle que soit leur nationalité. Et ce, d’autant plus qu’aujourd’hui, de moins en moins d’exilés ukrainiens arrivent en France. Les centres d’accueil exclusivement dédiés aux réfugiés ukrainiens se vident.

      Par exemple, dans le #centre_de_premier_accueil de la #Porte_de_Versailles, entre 300 et 500 places sont laissées vacantes chaque nuit. D’autres foyers ferment même leurs portes. Comme les gymnases de Bercy et de la gare de l’Est. C’est pourquoi il est impératif qu’on parle maintenant du problème. On a vraiment très peur que, dans les prochaines semaines, d’autres centres d’hébergement ferment et que, parallèlement, l’Etat fasse comme si ce #dispositif_exceptionnel d’accueil n’avait jamais existé. Pourtant, si, 100 000 places d’accueil ont été ouvertes en l’espace de quelques jours pour les réfugiés ukrainiens. C’est énorme. Ce que l’Etat a fait pour les Ukrainiens, il peut le faire pour les exilés d’autres nationalités. C’est ce qu’on lui demande depuis des années.

      Qu’est-ce que vous répond le gouvernement ?

      Il refuse catégoriquement d’accueillir des réfugiés d’autres nationalités dans ces centres d’hébergement. Nous, les associations venant en aide aux migrants, faisons des tribunes, des lettres ouvertes… mais nous n’avons aucun retour du gouvernement. Depuis des années, l’Etat nous rétorque qu’il n’a pas suffisamment de moyens pour trouver ne serait-ce que quelques centaines de places d’hébergement, et ce sur une temporalité beaucoup plus large. Mais au vu de la réponse du gouvernement face à l’exil migratoire des Ukrainiens, l’ouverture de 100 000 places en quelques jours donc, cela nous prouve que l’État peut le faire. Tout est question de volonté politique.

      A quoi tient, selon vous, cette différence de traitement entre les réfugiés ukrainiens et ceux d’autres nationalités ?

      On a beaucoup de mal à savoir si c’est une question de racisme culturel, de localisation, de proximité des Ukrainiens du territoire français. Mais on a bien du mal à ne pas poser la question du racisme. Elle est même prédominante. C’est parce que les réfugiés ukrainiens ont la peau blanche qu’ils sont mieux accueillis.

      La comparaison la plus frappante peut être faite avec les réfugiés afghans. Seulement quelques mois avant, en septembre 2021, lors de la prise de Kaboul par les talibans et l’exil des Afghans, le gouvernement français parlait de « gestion des flux migratoires » et de « contrôle des frontières ». Seulement quelques centaines de migrants afghans avaient alors bénéficié d’un corridor humanitaire pour être pris en charge en France. Depuis, ce n’est guère mieux. Les réfugiés afghans arrivant sur le sol français sont dans la rue pendant des mois, attendant d’être pris en charge. La politique différentialiste de l’Etat, son refus d’accueillir des réfugiés d’autres nationalités dans les centres d’hébergement dédiés aux Ukrainiens en disent long…

      Concrètement, en quoi consiste cette #différence_de_traitement entre un réfugié afghan et un exilé ukrainien ?

      Quand un exilé ukrainien débarque en France, il va être « récupéré » à la gare par des associations opératrices de l’Etat, puis emmené en bus vers le centre de premier accueil de la Porte de Versailles, dans le XVe arrondissement de Paris. Sur place, en une heure, il va pouvoir, s’il le souhaite, entamer sa démarche de demande d’asile et obtenir un rendez-vous avec France terre d’asile et la préfecture pour trouver un hébergement adéquat. S’il souhaite rester en France, il va avoir accès directement à Pôle emploi. Au centre de la Porte de Versailles, il aura aussi accès à une crèche à disposition pour les enfants et à des distributions alimentaires en continu. Une prise en charge globale donc. A aucun moment, les réfugiés ukrainiens ne dorment dans la rue ou ne sont pas accompagnés dans leurs démarches. C’est ce dispositif-là qui doit être octroyé à tous les réfugiés.

      Car les exilés d’autres nationalités, quand ils arrivent en France, n’ont aucune structure vers qui se tourner. Ils ne bénéficient pas de la gratuité des transports, dorment souvent dans la rue, n’ont pas accès aux informations, doivent appeler des numéros surchargés pour entamer leur demande d’asile… Au mieux, ils croisent, au petit bonheur la chance, des associations qui peuvent les aider et leur donner un kit de survie ou une soupe. Bref, ils subissent une accumulation d’entraves.

      https://www.liberation.fr/societe/ce-que-letat-a-fait-pour-les-ukrainiens-il-peut-le-faire-pour-les-autres-
      #France #deux_poids_deux_mesures

    • À #Paris, les actions se multiplient pour obtenir un hébergement aux exilés

      Dimanche 17 juillet, des membres de #La_Chapelle_debout et des habitants de l’Ambassade des immigrés ont occupé le centre d’accueil pour les réfugiés ukrainiens, quasi vide, pour dénoncer les inégalités de traitement entre les exilés. Mardi, ils avaient rendez-vous à la préfecture.
      Ils ont déjà occupé les locaux vides d’une société d’assurance situés #rue_Saulnier, dans le IXe arrondissement de Paris, en avril dernier. Cette fois, le collectif La Chapelle debout, qui vient en aide aux exilé·es de la capitale depuis 2015, a choisi d’investir le centre d’accueil dédié aux réfugié·es ukrainien·nes #Porte_de_Versailles, dans le XVe arrondissement, dimanche 17 avril.

      Les bénévoles étaient accompagnés des habitant·es de l’#Ambassade_des_immigrés (du nom de ce nouveau lieu de mobilisation né après l’#occupation du bâtiment de la rue Saulnier) et d’exilés à la rue, lorsqu’ils sont entrés dans le centre d’accueil, où la fréquentation a fortement baissé au cours des dernières semaines selon plusieurs sources.

      « Notre action avait un double objectif, explique Yacine*, membre de La Chapelle debout. D’abord, dénoncer les #différences_de_traitement entre les exilés et le racisme qui en découle, sachant que le centre dédié aux Ukrainiens est presque vide et que pendant ce temps, d’autres exilés vivent dehors depuis des mois, voire des années ; et obtenir d’autre part des solutions d’hébergement pour les personnes confrontées à la rue. »

      La semaine précédente, déjà, plusieurs collectifs et associations d’aide aux migrant·es comme Utopia 56, Solidarité migrants Wilson ou Médecins du monde manifestaient depuis le centre d’accueil des Ukrainien·nes jusqu’à la préfecture de région, avec le même credo : « Hébergement pour tous·tes, quelle que soit leur nationalité ».

      Ce mardi 19 juillet, une délégation composée de deux exilés, un Éthiopien et un Soudanais, ainsi que de trois membres de La Chapelle debout, a été reçue par Cécile Guilhem, sous-préfète et cheffe de cabinet du préfet de la région Île-de-France, ainsi que par deux responsables de la Direction régionale et interdépartementale de l’hébergement et du logement (Drihl).

      Dimanche, le directeur adjoint du cabinet du préfet s’était lui-même rendu sur place, au centre pour réfugié·es ukrainien·nes, pour tenter de dénouer la situation. « Des exilés ont pu échanger avec lui et lui signifier qu’ils ne remettaient pas en doute le droit des Ukrainiens à un hébergement, mais qu’ils attendaient simplement d’avoir les mêmes droits, poursuit Yacine. Eux sont accueillis en France par la rue et le harcèlement des policiers, qui donnent des coups de pied dans leurs tentes tôt le matin ou les déchirent. »

      Le sous-préfet dit « avoir bien pris en compte » leur situation

      Les participant·es à l’action – des réfugié·es, des demandeurs et demandeuses d’asile, des dubliné·es (à qui la France demande de retourner dans le premier pays européen par lequel ils et elles sont arrivé·es pour l’examen de leur demande d’asile) ou des sans-papiers – ont accepté de quitter les lieux après discussion avec le directeur adjoint de cabinet du préfet de région, aux alentours de 22 heures dimanche, alors que les forces de l’ordre étaient postées à l’entrée du centre.

      400 personnes étaient présentes, dont des femmes, parfois enceintes, et des enfants, de nationalité soudanaise, somalienne, érythréenne, tchadienne, malienne ou afghane, et une cinquantaine de Français venus en soutien.

      Dans une vidéo, le sous-préfet, Christophe Aumonier, s’adresse à eux et dit « avoir bien pris en compte » leur situation. « Il n’y a pas de solution miracle. Ce sur quoi je peux m’engager, c’est qu’on essaiera de traiter chacun des cas. Mais il faut parfois être patient car nous avons des difficultés pour mettre tout le monde à l’abri. Mais nous nous y sommes engagés », assure-t-il.

      Selon nos informations, la délégation qui s’est présentée au rendez-vous en préfecture ce jour prévoyait d’insister sur un point : obtenir des solutions « durables » pour les personnes ayant participé à l’action, y compris les habitant·es de l’Ambassade des immigrés, qui occupent depuis quatre mois le bâtiment situé rue Saulnier.

      « Le rendez-vous a donné lieu à des échanges tendus mais respectueux, même si deux logiques s’opposent, la démocratie sociale contre une logique gestionnaire, comptable et technocratique, expliquent des membres de La Chapelle debout présents à celui-ci. Ils nous ont proposé de travailler sur une liste qu’on doit leur envoyer et qu’ils se sont engagés à étudier attentivement. On doit se revoir pour en discuter. » La délégation, qui dit ne pas avoir obtenu de garanties, se dit prête à organiser d’autres actions ailleurs si besoin.

      Contactée, la préfecture de la région Île-de-France n’a pas répondu à nos questions à l’heure où nous publions cet article.

      Cela concerne plus de 300 personnes, précise Yacine, pour qui l’action est une « réussite ». « On a occupé la salle de vie et les dortoirs, qui étaient majoritairement inoccupés. Il y avait quelques Ukrainiens, qui ont été évacués par des membres de l’association Coallia, qui gère le centre. »

      À leur arrivée au centre, les exilé·es ont découvert comment tout était mis en œuvre pour permettre aux Ukrainien·nes de faire leurs démarches sur place, dans des délais restreints – comme l’a documenté Mediapart, l’organisation de leur accueil s’est faite au détriment des autres et de manière décousue –, à l’heure où les arrivées de réfugié·es ukrainien·nes se font de moins en moins nombreuses depuis le mois de mars.

      Services de la préfecture, de l’Office français de l’immigration et de l’intégration, de l’assurance-maladie et de Pôle emploi… « On a vu qu’il y avait également un service permettant aux Ukrainiens qui ne veulent pas rester en France de remplir une demande pour aller dans un autre pays européen. Pour les autres exilés, c’est incompréhensible, en particulier les dublinés, à qui on ne laisse pas le choix du pays où il peuvent demander l’asile. Les gens sont vraiment affectés par ces différences de traitement. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/190722/paris-les-actions-se-multiplient-pour-obtenir-un-hebergement-aux-exiles

      #résistance #France

    • How the EU Failed Ukraine’s International Students

      Tracing the fate of a cohort of non-white students who fled Russia’s invasion to be confronted with Europe’s hostile environment

      The EU’s decision to offer unprecedented rights and freedoms to refugees fleeing Russia’s invasion of Ukraine less than a month after the war began was widely celebrated. What was not said at the time was that the policy was drawn up to intentionally exclude a considerable number of non-European refugees fleeing the war.

      This double standard was not an accident. The first draft of the legislation implementing the Temporary Protection Directive (TPD), a measure designed to provide protection for at least one year, contained a clause stating that all foreigners residing in Ukraine on a long-term basis – regardless of their country of origin – would be granted the same rights as Ukrainians. When the text came out of the EU council meeting this clause was gone.

      This decision has had very direct consequences on the lives of many of the nearly half a million third-country nationals who were living in Ukraine before the war. The data we collected reveals that only 54,443 of these people were offered temporary protection in the EU. While some 5 million Ukrainians got refuge and rights, many non-Ukrainians were given time limits on how long they could stay, while others were refused any form of protection, rendering them undocumented.

      The tens of thousands of African and South Asian students enrolled in Ukrainian universities on student visas fell outside the scope of the TPD. We spoke to more than 30 students who spent months applying to European universities, only to be told they do not meet visa conditions and language requirements. Some, already traumatised during the invasion, found themselves homeless, while others are facing imminent deportation. While native Ukrainians were met with open arms, many of their non-white classmates met with discrimination and xenophobia.
      METHODS

      In tandem with diaspora groups, activists and lawyers, we spent the past eight months following students who fled Ukraine. Through phone calls, voice-notes and text messages, people shared updates of their attempts to settle in EU countries as they struggled to navigate visa bureaucracies and access accommodation. Students shared email exchanges with European universities and rejection letters from the same institutions that accepted several of their Ukrainian peers.

      We obtained internal documents written by German diplomats on 4 March ahead of the implementation of the TPD revealing that Poland, Austria and Slovakia were among the countries that objected to including third-country nationals in the directive.

      Our partner publications reached out to their individual governments and university authorities to find out what protection measures had been implemented for third-country nationals. This revealed that a myriad of often contradictory rules were being applied. A non-bureaucratic solution was found for Ukrainians, while pragmatic reception and recognition for non-Ukrainians was denied.

      We analysed and collected available data from the European Commission, the International Organisation for Migration (IOM) and national governments, revealing that – despite 325,000 third-country nationals fleeing Ukraine to neighbouring countries since the onset of the war, only 54,443 of them were offered temporary protection in Europe. Of those, we found that nearly a quarter were granted TPD in Portugal, the only country to give the same rights to non-Ukrainians, including international students who were in Ukraine on short-term (one year) visas.
      STORYLINES

      According to NIDO, the Nigerians in diaspora organisation, many international students who fled Ukraine have found themselves homeless, while others are facing imminent removal. Many have been stripped of the rights they previously had in Europe and can no longer access higher education. “We receive dozens of calls from desperate students every day asking for help with accommodation and food, as well as from depressed parents who spent all their money on their children’s tuition in Ukraine. It is so bad that some have told us they were considering suicide”, says Chibuzor Onwugbonu, a volunteer at NIDO.

      In Germany, rights granted to third-country nationals fleeing the conflict vary between federal states. While some cities granted six-month non renewable visas to international students who could prove they were enrolled in Ukrainian universities, others failed to put in place adequate permits. In one instance, a student moved between six different cities and spent months struggling to find accommodation before she ended up sleeping for weeks in Berlin Central train station.

      In the Netherlands, immigration authorities announced that from 19 July onwards they would stop processing applications from non-Ukrainians with safe countries to return to and that those who had obtained the status would not be allowed to apply for renewal. The Dutch government has described the act of these individuals applying to stay in the country after fleeing Ukraine as an “abuse” of the system.

      In France, only 200 international students have been accepted into university. The requirements for entry include demands for a bank account with at least €3,750 and proof that accommodation has been secured (or €7,500 for those who are yet to find housing). These are the regular requirements for international students in France, but they have been waived for Ukrainian students fleeing the war. At least 10 non-Ukrainian students received “obligations to leave the French territory”, a letter threatening them with deportation.

      Dutch MEP Thijs Reuten told us that omitting international students from the protection directive was not an oversight, but a decision aimed at excluding non-Europeans, suggesting an element of racism: “It seems almost certain to me that the countries of origin of the international students played a role”. Cornelia Ernst, German MEP, said the restriction was “solely a political decision”, which was “strongly criticised at the time”, adding: “In practice, this led to first- and second-class protection seekers fleeing Ukraine – an unacceptable discrimination.”

      We also reported on the difficulties facing third-country nationals attempting to join their families in the UK. Deborah, a 19-year old Nigerian medical student who was studying in Kharkiv, has spent months trying to join her parents and siblings in the North of England. Despite fleeing war, and her family being settled in the UK, the British government’s scheme for people fleeing the Russian invasion does not accept applicants who are not Ukrainian or related to a Ukrainian national. UK government data shows that even those who are related to Ukrainians – indicating that they should be eligible – have a far higher refusal rate under the scheme than Ukrainian nationals, at 14 per cent compared with 0.4 per cent.

      https://www.lighthousereports.nl/investigation/how-the-eu-failed-ukraines-international-students

    • Collins, réfugié d’Ukraine en #Allemagne : « Je suis passé d’un étudiant à un gars qui cherche un endroit où dormir »

      Fuyant la guerre en Ukraine, l’étudiant nigérian Collins Okoro a dû faire preuve d’abnégation en arrivant en Allemagne au début du conflit. Entre les méandres administratifs et la recherche désespérée d’un logement, il raconte les hauts et les bas de ses premiers mois dans le pays.

      "C’est remarquable à quel point le vide et le silence peuvent exprimer tant de choses. Après tout ce silence et cette spirale de vide sans fin, je choisis de parler. Car je pense qu’il y a de la lumière au bout du tunnel.

      Avant d’arriver ici, j’aurais prétendu avec assurance que lorsque vous venez d’Ukraine, vous avez le temps de vous installer, de prendre du recul et de trouver votre place. Aujourd’hui, je ne dirais plus la même chose. Je n’avais manifestement pas compris ce que pouvait être la vie en Allemagne.
      Pas d’arrivée triomphale

      Après mon arrivée à Berlin, avec très peu d’argent et juste quelques vêtements, j’ai tenté de vivre au jour le jour, en gardant toute ma tête, sans dépenser d’argent, en essayant de vivre dans le présent. J’avais de l’espoir, ce qui était très important pour moi.

      Lorsque j’ai débarqué à la gare centrale de Berlin, j’ai vu des affiches avec le drapeau ukrainien. Comme je ne savais pas lire l’allemand, je n’ai pas compris qu’il s’agissait d’indications pour pouvoir obtenir de l’aide.

      J’ai suivi un groupe d’Ukrainiens, un peu comme un espion, jusqu’à ce qu’ils me conduisent vers d’autres personnes. C’était le vrai début de mon séjour en Allemagne. J’ai rencontré une femme étonnante, assise devant une bannière représentant des BIPOC (BIPOC est un acronyme anglophone et vient de People of Color, qui fait notamment référence aux noirs). Par rapport aux autres stands, celui-ci n’avait pas été installé par les autorités, mais par des habitants, qui faisaient de leur mieux pour apporter leur aide.

      Je n’ai jamais été du genre à engager la conversation lorsque je rencontre quelqu’un pour la première fois. Mais cette-fois, j’y suis parvenu, et je serai toujours reconnaissant d’avoir eu cette conversation. La dame que j’ai rencontrée, Lily Ackerman, est une Américaine d’une quarantaine d’années. C’est une personne que je n’oublierai jamais. Après notre conversation, j’ai décidé de l’aider au stand. L’aide pour les noirs était plutôt limitée.

      Au cours de mon voyage pour quitter l’Ukraine, j’ai réalisé que nous n’avions jamais fait partie du récit de l’Union européenne. Nous n’étions que des notes de bas de page, que seuls certains lecteurs se souciaient de consulter. Ce constat de la ségrégation m’a motivé à agir.
      Des formations hors de portée

      C’est drôle comme votre statut peut changer en quelques jours. Un peu comme un arbre puissant que l’on transforme en une simple chaise de jardin pour enfants. Je suis passé du statut de mannequin, acteur et étudiant en droit avec des perspectives d’avenir à celui d’un simple gars qui cherche un endroit où pouvoir se reposer. 

      Je n’avais pas de travail, pas d’école, pas de maison, pas d’amis, pas de famille, pas de perspective. On ne peut pas être plus seul que ça.

      Sans logement stable à Berlin, je suis passé d’un hôte bienveillant à un autre, toutes les deux ou trois semaines. J’ai cherché des écoles mais elles exigeaient un compte bloqué de 10 000 euros et un niveau d’allemand B2 pour pouvoir s’inscrire. 

      Il m’était impossible de réunir cette somme. De plus, je n’avais jamais été en Allemagne et n’avais aucune connaissance de la langue allemande. Alors j’ai essayé de trouver une issue en me tournant vers d’autres pays.

      Je me souviens avoir postulé pour une école de théâtre aux États-Unis. J’ai réussi mon entretien, mais les frais de scolarité dépassaient largement mes capacités financières. J’ai tenté en vain de trouver un emploi pour gagner un peu d’argent, de quoi me débrouiller. 

      Finalement, à force de faire des recherches et de glaner des conseils, je suis tombé sur une organisation qui s’est intéressée à mon cas. Il s’agit de BIPOC Ukraine and Friends.

      Lily m’a informée de leur première réunion dans un café. J’ai obtenu plein d’informations sur la façon de naviguer dans le système allemand et de s’en sortir.
      Obstacles bureaucratiques

      Comprendre le fonctionnement d’un gouvernement est une chose. Comprendre comment les fonctionnaires travaillent en est une autre. J’ai appris à mes dépens. Parfois, c’est juste de la bureaucratie. D’autres fois, ce sont des comportements individuels.

      A Berlin, j’ai voulu m’enregistrer dans un centre en tant que réfugié d’Ukraine. 

      À mon arrivée, tout s’est bien passé, jusqu’à ce que j’entre dans le bureau d’une personne qui m’a dit que mes documents étaient soi-disant « incomplets ». Il m’a « conseillé » de demander l’asile ou de retourner en Ukraine, pour obtenir mes documents. Ce n’est que lorsque je suis revenu un autre jour avec des lettres d’un avocat que j’ai été autorisé à m’inscrire.

      J’ai appris que je devais me battre pour passer les étapes. Je me suis engagé en participant à des manifestations et des rassemblements, des lettres ouvertes et des points d’information. J’ai pris la parole lors de réunions, devant des auditoires et j’ai essayé d’éclairer les gens sur la façon dont les minorités ont été traitées.

      Après tout ce temps, ma situation reste floue. Mon deuxième et, je l’espère, dernier rendez-vous avec les services d’immigration approche. J’ai l’impression que nous devons toujours encore faire nos preuves pour obtenir des améliorations dans nos vies. Dans l’ensemble, je considère cependant toute cette phase de ma vie comme une nouvelle expérience. Je ne connais personne qui souhaite s’enfouir vers un endroit inconnu, sans rien emporter, sans rien prévoir. Et c’est ce que j’ai fait.

      J’ai beaucoup appris et j’ai beaucoup gagné. Je me suis fait des amis et j’ai appris ce que sont la joie, l’amour et la paix. J’ai un petit boulot maintenant et un endroit où me poser. J’en suis reconnaissant. Il m’a fallu vivre une guerre pour comprendre et apprécier ce qu’est la paix. Il m’a fallu beaucoup de tristesse et de colère pour comprendre et apprécier ce qu’est la joie. Enfin, il m’a fallu ressentir beaucoup de haine et de peur pour comprendre et apprécier ce qu’est l’amour. Comme je l’ai dit au début, je peux voir la lumière au bout du tunnel".
      https://www.youtube.com/watch?v=DF6dmSgrXyw&embeds_euri=https%3A%2F%2Fwww.infomigrants.net%2F&featu


      J’ai beaucoup appris et j’ai beaucoup gagné. Je me suis fait des amis et j’ai appris ce que sont la joie, l’amour et la paix. J’ai un petit boulot maintenant et un endroit où me poser. J’en suis reconnaissant. Il m’a fallu vivre une guerre pour comprendre et apprécier ce qu’est la paix. Il m’a fallu beaucoup de tristesse et de colère pour comprendre et apprécier ce qu’est la joie. Enfin, il m’a fallu ressentir beaucoup de haine et de peur pour comprendre et apprécier ce qu’est l’amour. Comme je l’ai dit au début, je peux voir la lumière au bout du tunnel".

      https://www.infomigrants.net/fr/post/46084/collins-refugie-dukraine-en-allemagne--je-suis-passe-dun-etudiant-a-un

  • Guerre en #Ukraine : « On aura une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit »

    Le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale, #Jean-Louis_Bourlanges, a évoqué dans « Europe Matin » vendredi la « vague migratoire » qui se prépare en Europe, après l’invasion militaire russe en Ukraine. « Ce sera sans doute une immigration de grande qualité », prévient toutefois le député MoDem.

    C’est l’une des conséquences majeures de l’invasion militaire russe en Ukraine. Des milliers d’Ukrainiens vont fuir leur pays pour échapper aux combats. Jeudi, près de 100.000 d’entre eux avaient déjà quitté leur foyer, selon l’ONU. Invité d’Europe Matin vendredi, le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale, Jean-Louis Bourlanges, a dit s’attendre « à des mouvements » de population, sans en connaître l’ampleur. « Il faut prévoir (le flux migratoire). Ce sera sans doute une immigration de grande qualité », a évoqué le député MoDem au micro de Lionel Gougelot.

    Pourquoi Poutine a intérêt à pousser à l’immigration

    Pour Jean-Louis Bourlanges, les Ukrainiens qui s’apprêtent à quitter leur pays seront « des intellectuels, et pas seulement, mais on aura une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit », a-t-il ajouté. En revanche, le député a estimé que cela allait dans le sens du président russe. « Pour des raisons politiques très claires, monsieur Poutine aura intérêt à ce qu’il y ait ces mouvements pour deux raisons », a affirmé Jean-Louis Bourlanges.

    D’abord, « pour se débarrasser d’opposants potentiels dans son pays. S’ils sont à l’extérieur, ils ne le gêneront pas », analyse le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale. « Et pour nous embarrasser nous-même », a-t-il ajouté, « exactement comme a fait Loukachenko à la frontière de la Biélorussie et de la Pologne. » "Nos amis polonais s’apprêtent à recevoir des flots massifs", a souligné Jean-Louis Bourlanges.

    https://www.europe1.fr/politique/guerre-en-ukraine-on-aura-une-immigration-de-grande-qualite-dont-on-pourra-t

    #classification #tri #réfugiés #asile #migrations #Urkaine #réfugiés_ukrainiens #bon_réfugié #mauvais_réfugié
    #à_vomir #racisme

    –-

    Les formes de #racisme qui montrent leur visage en lien avec la #guerre en #Ukraine... en 2 fils de discussion sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/951232

    ping @isskein @karine4

    • « Il y a un geste humanitaire évident parce que la nature des réfugiés n’est pas contestable, on voit bien ce qu’ils fuient.
      Ensuite parce que ce sont des européens de culture.
      Et puis nous ne sommes pas face à des migrants qui vont passer dans une logique d’immigration »


      https://twitter.com/caissesdegreve/status/1497579243944878082

      Commentaire de Louis Witter sur twitter :

      Ce genre de waf waf de la casse automobile remonteront au créneau quand on verra ces mêmes exilés à Calais.

      https://twitter.com/LouisWitter/status/1497685913429815299

      #réfugiés_européens #européens_de_culture #culture #vrais_réfugiés

    • For Ukraine’s Refugees, Europe Opens Doors That Were Shut to Others

      Thousands of Ukrainians will end up in countries led by nationalist governments that have been reluctant to welcome refugees in the past.

      Russia’s invasion of Ukraine has pushed tens of thousands of people out of their homes and fleeing across borders to escape violence. But unlike the refugees who have flooded Europe in crises over the past decade, they are being welcomed.

      Countries that have for years resisted taking in refugees from wars in Syria, Iraq and Afghanistan are now opening their doors to Ukrainians as Russian forces carry out a nationwide military assault. Perhaps 100,000 Ukrainians already have left their homes, according to United Nations estimates, and at least half of them have crowded onto trains, jammed highways or walked to get across their country’s borders in what officials warn could become the world’s next refugee crisis.

      U.N. and American officials described their concerted diplomatic push for Ukraine’s neighbors and other European nations to respond to the outpouring of need. President Biden “is certainly prepared” to accept refugees from Ukraine, Jen Psaki, the White House press secretary, said on Thursday, but she noted that the majority of them would probably choose to remain in Europe so they could more easily return home once the fighting ended.

      “Heartfelt thanks to the governments and people of countries keeping their borders open and welcoming refugees,” said Filippo Grandi, the head of the U.N. refugee agency. He warned that “many more” Ukrainians were moving toward the borders.

      That means thousands will end up in countries led by nationalist governments that in past crises have been reluctant to welcome refugees or even blocked them.

      In Poland, government officials assisted by American soldiers and diplomats have set up processing centers for Ukrainians. “Anyone fleeing from bombs, from Russian rifles, can count on the support of the Polish state,” the Polish interior minister, Mariusz Kaminski, told reporters on Thursday. His government is spending hundreds of millions of dollars on a border wall, a project it began after refugees and migrants from the Middle East tried to reach the country last year but ended up marooned in neighboring Belarus.

      The military in Hungary is allowing in Ukrainians through sections of the border that had been closed. Hungary’s hard-line prime minister, Viktor Orban, has previously called refugees a threat to his country, and his government has been accused of caging and starving them.

      Farther West, Chancellor Karl Nehammer of Austria said that “of course we will take in refugees if necessary” in light of the crisis in Ukraine. As recently as last fall, when he was serving as interior minister, Mr. Nehammer sought to block some Afghans seeking refuge after the Taliban overthrew the government in Kabul.
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      “It’s different in Ukraine than in countries like Afghanistan,” he was quoted as saying during an interview on a national TV program. “We’re talking about neighborhood help.”

      Mr. Nehammer also said the number of Ukrainians seeking help was expected to be relatively small. At least 1.3 million people — mostly from Syria, Iraq and Afghanistan — applied for asylum in Europe in 2015 during what was widely regarded as the worst refugee crisis since World War II, stretching national budgets and creating a backlash of political nativism in countries across the continent.

      Some estimates project that at least one million refugees will flee Ukraine because of the Russian invasion. Linda Thomas-Greenfield, the U.S. ambassador to the United Nations, said this past week that the fighting could uproot as many as five million people, “putting pressure on Ukraine’s neighbors.”

      Diplomats and experts said European states that are willing to take in Ukrainians might be trying, in part, to highlight Russian aggressions against civilians by offering a humanitarian response. “If you think of causing the refugee crisis as one of Putin’s tools to destabilize the West, then a calm, efficient, orderly response is a really good rebuke to that,” said Serena Parekh, a professor at Northeastern University in Boston and the director of its politics, philosophy and economics program.

      “On the other hand,” said Ms. Parekh, who has written extensively about refugees, “it’s hard not to see that Ukrainians are white, mostly Christian and Europeans. And so in a sense, the xenophobia that’s really arisen in the last 10 years, particularly after 2015, is not at play in this crisis in the way that it has been for refugees coming from the Middle East and from Africa.”

      The Biden administration is also facing calls to take in Ukrainian refugees, much in the way it gave residency or humanitarian parole to more than 75,000 Afghans when the Taliban seized power in August.

      It is unlikely, at the moment at least, that the United States would offer a humanitarian parole program for Ukrainians that goes above what is currently allowed for the total number of refugee admissions for the current fiscal year. That number is capped at 125,000 this year — including 10,000 refugees from Europe and Central Asia. The guidelines set aside another 10,000 slots for refugees from any part of the world, as regional emergencies warrant.

      Ms. Psaki did not comment when asked by a reporter whether the administration would offer temporary residency protections, a program known as T.P.S., to Ukrainian students, workers and others who are in the United States to ensure they are not deported when their legal visas expire.

      “The war in Ukraine is exactly the type of crisis T.P.S. was created for — to allow people to live and work in the United States when they are unable to return home safely,” Senator Bob Menendez, Democrat of New Jersey and the chairman of the Foreign Relations Committee, said on Thursday night.

      Ms. Psaki said the United States had sent an estimated $52 million in humanitarian aid to Ukraine over the last year to help people, mostly in the eastern Donbas region, where the current war began as a slow-burn conflict between Ukraine’s military and Russian-backed separatists in 2014. Nearly 1.5 million people had been forced from their homes by the fighting even before the invasion this past week.

      Additionally, the U.S. Agency for International Development sent a team of disaster experts to Poland in the past week to assess demand for aid to the region — including water, food, shelter, medicine and other supplies — and to coordinate its delivery. Hours after the invasion began, the United Nations announced it would divert $20 million in emergency funds for humanitarian assistance to Ukrainians, mostly to the Donbas region.

      A European diplomat who is closely watching the refugee flow from Ukraine said neighboring nations might also feel the pull of history in welcoming people in danger as a direct result of Russia’s aggressions. A Soviet crackdown on a Hungarian uprising in 1956, for example, resulted in 200,000 refugees, most of whom fled to Austria before they were settled in dozens of countries across Europe. Between 80,000 and 100,000 people — and perhaps even more than that — left what was then Czechoslovakia to escape a Soviet invasion in 1968 that was launched to silence pro-democracy Prague Spring protests.

      In both cases, the United States sent aid to help European countries settle refugees and, in the Hungarian crisis, “in a matter of months, there were no more refugees — they had been found a permanent home,” Ms. Parekh said.

      That was largely the result of the United States working with European states to resettle the Hungarians, she said, calling the effort “an exception, historically.”

      “It was a similar thing — people fleeing our Russian enemy — that motivated us,” she said.

      https://www.nytimes.com/2022/02/26/us/politics/ukraine-europe-refugees.html?smid=tw-share

      #fermeture_des_frontières #ouverture_des_frontières #frontières

    • Deserving and undeserving refugees ...

      On February 24, 2022, Russia invaded Ukraine. Appearing on television from an undisclosed location, Ukraine’s president, Volodymyr Zelenskyy, warned the world that Vladimir Putin was attacking not only his country, but waging “a war against Europe.”

      Following the all-out invasion of Ukraine by land, air and sea, Ukrainians began fleeing their homes in the eastern part of the country. Most were headed to other parts of Ukraine, while others began to trickle across international borders into Poland and other Central European countries. It is hard to predict how many of the 44 million Ukrainians will seek refugee outside the borders of their country.

      When refugees flee, we watch who offers safe haven and assistance.

      Hours after the Russian attack on Ukraine, the Bureau for Foreigners’ Affairs in the Polish Ministry of Interior set up a website, in Polish and in Ukrainian, offering information on available assistance to Ukrainian refugees. The website provides legal information on how to launch an asylum claim and regularize one’s stay in Poland. It also provides scannable QR codes for eight reception centers near crossing points on the 500-kilometer Polish-Ukrainian border. Adam Niedzielski, the Polish Health Minister, said Poland will set up a special medical train to ferry injured people to 120 Polish hospitals. “We think that at this moment it would be possible to accept several thousand patients — wounded in military actions,” he told Politico.

      Poland has even made an exception for Ukrainians evacuating with their pets. The Chief Veterinarian of Poland has eased restrictions on dogs and cats crossing the Polish border.

      Don’t get me wrong, I think Ukrainians (and their pets) should receive as much assistance as they need, but the irony of this immediate offer to help, extended by the Polish government and the rest of the Visegrád 4, is not lost on me.

      The Ukrainian refugees are white, European, and Christian. They are the “deserving refugees.”

      Slovakia’s Prime Minister explicitly stated that everyone fleeing the war deserves help according to international law. The Visegrád group’s position was quite different following the “refugee crisis” of 2015.

      The Polish government led by the nationalist Law and Justice (PiS) party refused to take part in the EU efforts to relocate and resettle asylum seekers arriving in other member countries. Hungary recruited border hunters and erected barbed wire fence along its border with Serbia. On September 16, 2016, the V4 issued a joint statement expressing concern about the decreasing sense of security resulting from the arrival of Muslim refugees from war-torn Syria; vowing to cooperate with third countries to protect borders, and calling for “flexible solidarity.”

      I am glad that Poland, my country of birth, wants to extend a helping hand to Ukrainians fleeing war and accept as many as one million refugees if necessary.

      At the same time, I cannot forget the Afghans and Syrians at the Polish-Belarusian border, dying in the cold winter forest in an attempt to cross into Poland to launch an asylum claim. They are kept at arm’s length. Because they are Muslim, the Polish government sees them as a security threat. Citing danger to Polish citizens living in the borderlands, on September 2, 2021, the President of Poland declared a state of emergency in 15 localities in the Podlasie Province and 68 localities in the Lublin Province.

      These brown and non-Christian asylum seekers are apparently not the deserving ones.

      https://www.elzbietagozdziak.com/post/deserving-and-undeserving-refugees

    • Propositions d’accorder une #protection_temporaire aux réfugiés urkainiens de la part des pays de l’UE :

      While a proposal to activate the 2001 #Temporary_Protection_Directive for Ukrainians fleeing the country was “broadly welcomed” by the ministers during their extraordinary meeting on Sunday (27 February), a formal decision will only be made on Thursday, EU Home Affairs and Migration Commissioner Ylva Johansson said after the talks.
      The exceptional measure, which has never been activated before, is meant to deal with situations where the standard asylum system risks being overburdened due to a mass influx of refugees.

      https://seenthis.net/messages/951046

    • [Thread] Here is a collection of most racist coverage of #Russia's attack on #Ukraine. We are being told who deserves war, missiles, & who looks like a good refugee.
      This only serves to mislead viewers & decontextualise conflicts. Hypocrisy & its randomness..

      https://twitter.com/saracreta/status/1498072483819307011

    • Réfugiés ukrainiens : l’indignité derrière la solidarité

      Pour justifier leur soudain élan d’humanité, certains éditorialistes et responsables politiques n’ont rien trouvé de mieux que de distinguer les bons et les mauvais réfugiés. Ils convoquent leur « ressemblance » avec les Ukrainiens, mais n’expriment rien d’autre que leur racisme.

      Pour justifier leur soudain élan d’humanité, certains éditorialistes et responsables politiques n’ont rien trouvé de mieux que de distinguer les bons et les mauvais réfugiés. Ils convoquent leur « ressemblance » avec les Ukrainiens, mais n’expriment rien d’autre que leur racisme.

      « L’hypocrisie, toujours la même. » Cédric Herrou n’a pas caché son écœurement en découvrant le message posté, samedi dernier, par le maire de Breil-sur-Roya (Alpes-Maritimes) en solidarité avec la population ukrainienne. « Le même maire qui a fait sa campagne électorale contre l’accueil que nous avions fait pour d’autres populations victimes de guerres. Seule différence, ces populations étaient noires », a réagi l’agriculteur, l’un des symboles de l’aide aux migrants, grâce auquel la valeur constitutionnelle du principe de fraternité a été consacrée en 2018.

      Un principe qui se rappelle depuis quelques jours au souvenir de nombreuses personnes qui semblaient l’avoir oublié, trop occupées qu’elles étaient à se faire une place dans un débat public gangréné par le racisme et la xénophobie. Il y a deux semaines, lorsque la guerre russe était un spectre lointain et que la campagne présidentielle s’accrochait aux seules antiennes d’extrême droite, rares étaient celles à souligner que la solidarité n’est pas une insulte et qu’elle ne constitue aucun danger.

      Les mêmes qui jonglaient avec les fantasmes du « grand remplacement » et agitaient les questions migratoires au rythme des peurs françaises expliquent aujourd’hui que l’accueil des réfugiés ukrainiens en France est un principe qui ne se discute pas. À l’exception d’Éric Zemmour, dont la nature profonde – au sens caverneux du terme – ne fait plus aucun mystère, la plupart des candidat·es à la présidentielle se sont prononcé·es en faveur de cet accueil, à quelques nuances près sur ses conditions.

      Mais parce que le climat politique ne serait pas le même sans ce petit relent nauséabond qui empoisonne toute discussion, des responsables politiques et des éditorialistes se sont fourvoyés dans des explications consternantes, distinguant les réfugiés de l’Est de ceux qui viennent du Sud et du Moyen-Orient. Ceux auxquels ils arrivent à s’identifier et les autres. Ceux qui méritent d’être aidés et les autres. Les bons et les mauvais réfugiés, en somme.

      Ainsi a-t-on entendu un éditorialiste de BFMTV expliquer que cette fois-ci, « il y a un geste humanitaire immédiat, évident [...] parce que ce sont des Européens de culture » et qu’« on est avec une population qui est très proche, très voisine », quand un autre soulignait qu’« on ne parle pas là de Syriens qui fuient les bombardements du régime syrien [mais] d’Européens qui partent dans leurs voitures qui ressemblent à nos voitures, qui prennent la route et qui essaient de sauver leur vie, quoi ! »

      Dès le 25 février, sur Europe 1, le député MoDem Jean-Louis Bourlanges, qui n’occupe rien de moins que la présidence de la commission des affaires étrangères de l’Assemblée nationale, avait quant à lui indiqué qu’il fallait « prévoir un flux migratoire ». Mais attention : « ce sera sans doute une immigration de grande qualité », avait-il pris soin de préciser, évoquant « des intellectuels, et pas seulement ». Bref, « une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit ».

      Ces propos ont suscité de vives réactions que l’éditorialiste de BFMTV et l’élu centriste ont balayées avec la mauvaise foi des faux crédules mais vrais politiciens, le premier les renvoyant à « la gauche “wokiste” » – un désormais classique du genre –, le deuxième à « l’extrême gauche » – plus classique encore, éculé même. « Il faut avoir un esprit particulièrement tordu pour y voir une offense à l’égard de quiconque », a ajouté Jean-Louis Bourlanges, aux confins du « on ne peut plus rien dire ».

      C’est vrai enfin, s’indignerait-on aux « Grandes Gueules », « c’est pas du racisme, c’est la loi de la proximité ». D’ailleurs, le même type de commentaire a fleuri dans des médias étrangers, tels CBS News, Al Jazzeera, la BBC ou The Telegraph, comme autant de « sous-entendus orientalistes et racistes » condamnés par l’Association des journalistes arabes et du Moyen-Orient (Ameja). Preuve, s’il en fallait, que le racisme – pardon, « la loi de proximité » – n’est pas une exception française.

      Suivant la directive d’Emmanuel Macron qui a confirmé que « la France prendra sa part » dans l’accueil des réfugiés ukrainiens, le gouvernement multiplie lui aussi les communications depuis quelques jours, le plus souvent par la voix du ministre de l’intérieur. Ces réfugiés « sont les bienvenus en France » a ainsi déclaré Gérald Darmanin lundi, avant d’appeler « tous les élus […] à mettre en place un dispositif d’accueil » et à « remonter, les associations, les lieux d’hébergement au préfet ».

      Dans le même élan de solidarité, la SNCF a annoncé que les réfugiés ukrainiens pourraient désormais « circuler gratuitement en France à bord des TGV et Intercités ». « Belle initiative de la SNCF mais je rêve d’une solidarité internationale étendue à TOUS les réfugiés, qu’ils fuient la guerre en Ukraine ou des conflits armés en Afrique ou encore au Moyen-Orient. Les réfugiés ont été et sont encore trop souvent refoulés et maltraités », a réagi la présidente d’Amnesty International France, Cécile Coudriou.

      Car au risque de sombrer dans le « wokisme » – ça ne veut rien dire, mais c’est le propre des appellations fourre-tout –, on ne peut s’empêcher de noter que ces initiatives, plus que nécessaires, tranchent singulièrement avec les politiques à l’œuvre depuis des années au détriment des exilé·es : l’absence de dispositif d’accueil digne de ce nom ; le harcèlement quasi quotidien de la part des forces de l’ordre, qui lacèrent des tentes, s’emparent des quelques biens, empêchent les distributions de nourriture ; le renforcement permanent des mesures répressives…

      Or comme l’écrivait récemment la sociologue et écrivaine Kaoutar Harchi, « un accueil digne, une aide sans condition, un accès immédiat à des repas, à des soins, à des logements, un soutien psychologique, devraient être accordés à toute personne qui est en France et qui souffre. Mais c’est sans compter le racisme qui distribue l’humanité et l’inhumanité ». C’est bien lui qui se profile aujourd’hui derrière la solidarité retrouvée de certain·es.

      Le 16 août 2021, alors que les images d’Afghans s’accrochant au fuselage d’avions pour fuir l’avancée des talibans faisaient le tour du monde, Emmanuel Macron déclarait : « L’Afghanistan aura aussi besoin dans les temps qui viennent de ses forces vives et l’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants. » Imagine-t-on cette phrase prononcée dans le contexte actuel ? La réponse est évidemment non. Et son corollaire fait honte.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010322/refugies-ukrainiens-l-indignite-derriere-la-solidarite

    • They are ‘civilised’ and ‘look like us’: the racist coverage of Ukraine

      Are Ukrainians more deserving of sympathy than Afghans and Iraqis? Many seem to think so

      While on air, CBS News senior foreign correspondent Charlie D’Agata stated last week that Ukraine “isn’t a place, with all due respect, like Iraq or Afghanistan, that has seen conflict raging for decades. This is a relatively civilized, relatively European – I have to choose those words carefully, too – city, one where you wouldn’t expect that, or hope that it’s going to happen”.

      If this is D’Agata choosing his words carefully, I shudder to think about his impromptu utterances. After all, by describing Ukraine as “civilized”, isn’t he really telling us that Ukrainians, unlike Afghans and Iraqis, are more deserving of our sympathy than Iraqis or Afghans?

      Righteous outrage immediately mounted online, as it should have in this case, and the veteran correspondent quickly apologized, but since Russia began its large-scale invasion on 24 February, D’Agata has hardly been the only journalist to see the plight of Ukrainians in decidedly chauvinistic terms.

      The BBC interviewed a former deputy prosecutor general of Ukraine, who told the network: “It’s very emotional for me because I see European people with blue eyes and blond hair … being killed every day.” Rather than question or challenge the comment, the BBC host flatly replied, “I understand and respect the emotion.” On France’s BFM TV, journalist Phillipe Corbé stated this about Ukraine: “We’re not talking here about Syrians fleeing the bombing of the Syrian regime backed by Putin. We’re talking about Europeans leaving in cars that look like ours to save their lives.”

      In other words, not only do Ukrainians look like “us”; even their cars look like “our” cars. And that trite observation is seriously being trotted out as a reason for why we should care about Ukrainians.

      There’s more, unfortunately. An ITV journalist reporting from Poland said: “Now the unthinkable has happened to them. And this is not a developing, third world nation. This is Europe!” As if war is always and forever an ordinary routine limited to developing, third world nations. (By the way, there’s also been a hot war in Ukraine since 2014. Also, the first world war and second world war.) Referring to refugee seekers, an Al Jazeera anchor chimed in with this: “Looking at them, the way they are dressed, these are prosperous … I’m loath to use the expression … middle-class people. These are not obviously refugees looking to get away from areas in the Middle East that are still in a big state of war. These are not people trying to get away from areas in North Africa. They look like any.” Apparently looking “middle class” equals “the European family living next door”.

      And writing in the Telegraph, Daniel Hannan explained: “They seem so like us. That is what makes it so shocking. Ukraine is a European country. Its people watch Netflix and have Instagram accounts, vote in free elections and read uncensored newspapers. War is no longer something visited upon impoverished and remote populations.”

      What all these petty, superficial differences – from owning cars and clothes to having Netflix and Instagram accounts – add up to is not real human solidarity for an oppressed people. In fact, it’s the opposite. It’s tribalism. These comments point to a pernicious racism that permeates today’s war coverage and seeps into its fabric like a stain that won’t go away. The implication is clear: war is a natural state for people of color, while white people naturally gravitate toward peace.

      It’s not just me who found these clips disturbing. The US-based Arab and Middle Eastern Journalists Association was also deeply troubled by the coverage, recently issuing a statement on the matter: “Ameja condemns and categorically rejects orientalist and racist implications that any population or country is ‘uncivilized’ or bears economic factors that make it worthy of conflict,” reads the statement. “This type of commentary reflects the pervasive mentality in western journalism of normalizing tragedy in parts of the world such as the Middle East, Africa, south Asia, and Latin America.” Such coverage, the report correctly noted, “dehumanizes and renders their experience with war as somehow normal and expected”.

      More troubling still is that this kind of slanted and racist media coverage extends beyond our screens and newspapers and easily bleeds and blends into our politics. Consider how Ukraine’s neighbors are now opening their doors to refugee flows, after demonizing and abusing refugees, especially Muslim and African refugees, for years. “Anyone fleeing from bombs, from Russian rifles, can count on the support of the Polish state,” the Polish interior minister, Mariusz Kaminski, recently stated. Meanwhile, however, Nigeria has complained that African students are being obstructed within Ukraine from reaching Polish border crossings; some have also encountered problems on the Polish side of the frontier.

      In Austria, Chancellor Karl Nehammer stated that “of course we will take in refugees, if necessary”. Meanwhile, just last fall and in his then-role as interior minister, Nehammer was known as a hardliner against resettling Afghan refugees in Austria and as a politician who insisted on Austria’s right to forcibly deport rejected Afghan asylum seekers, even if that meant returning them to the Taliban. “It’s different in Ukraine than in countries like Afghanistan,” he told Austrian TV. “We’re talking about neighborhood help.”

      Yes, that makes sense, you might say. Neighbor helping neighbor. But what these journalists and politicians all seem to want to miss is that the very concept of providing refuge is not and should not be based on factors such as physical proximity or skin color, and for a very good reason. If our sympathy is activated only for welcoming people who look like us or pray like us, then we are doomed to replicate the very sort of narrow, ignorant nationalism that war promotes in the first place.

      The idea of granting asylum, of providing someone with a life free from political persecution, must never be founded on anything but helping innocent people who need protection. That’s where the core principle of asylum is located. Today, Ukrainians are living under a credible threat of violence and death coming directly from Russia’s criminal invasion, and we absolutely should be providing Ukrainians with life-saving security wherever and whenever we can. (Though let’s also recognize that it’s always easier to provide asylum to people who are victims of another’s aggression rather than of our own policies.)

      But if we decide to help Ukrainians in their desperate time of need because they happen to look like “us” or dress like “us” or pray like “us,” or if we reserve our help exclusively for them while denying the same help to others, then we have not only chosen the wrong reasons to support another human being. We have also, and I’m choosing these words carefully, shown ourselves as giving up on civilization and opting for barbarism instead.

      https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/mar/02/civilised-european-look-like-us-racist-coverage-ukraine?CMP=Share_iOSAp

    • Guerre en Ukraine : « Nos » réfugiés d’abord ?

      Il est humainement inacceptable que l’Europe et la Belgique fassent une distinction entre des réfugiés qui fuient la guerre depuis un pays du continent européen et les autres.

      Bonne nouvelle : le secrétaire d’Etat à l’Asile et à la Migration Sammy Mahdi met tout en œuvre pour accueillir dans notre pays le plus grand nombre possible de personnes fuyant l’Ukraine. Elles peuvent compter sur une protection automatique d’un an, extensible à trois ans si nécessaire. Cet accord (européen) inconditionnel, sans procédure d’asile, est unique et sans précédent. Mais sur quoi se base-t-il ?

      « Nous avons le devoir moral d’aider et de faire preuve de solidarité », a déclaré le secrétaire d’État dans De Zevende Dag. « Nous ne devons pas tarder à mettre à disposition un refuge sûr. »

      Un demi-million d’Ukrainiens ont déjà fui le pays vers l’Europe, et six à sept millions d’autres pourraient suivre. Une telle réponse humaine et directe aux personnes qui fuient la guerre doit être saluée. Les personnes dont la vie est menacée par la guerre méritent un refuge sûr ailleurs, un statut légal et une aide de base pour survivre. En cela, l’hospitalité de Mahdi suit l’esprit de la Convention des Nations unies sur les réfugiés de 1951 et du Protocole de New York de 1967. C’est un geste logique et humain.
      Frontières sacrées

      Toutefois, le contraste est troublant avec la réaction européenne envers tant d’autres personnes démunies qui ont dû quitter des zones de conflit turbulentes et qui sont « accueillies » à nos frontières extérieures par de hauts murs, des barbelés et une surveillance numérique dans laquelle l’UE investit des milliards. Les mêmes ministres européens de la Migration qui accueillent aujourd’hui les Ukrainiens/nes à bras ouverts se tenaient à la frontière entre la Lituanie et la Biélorussie en janvier dernier, en contemplant le nouveau parapet de la forteresse Europe.

      Un mur similaire est actuellement en cours de construction entre la Pologne et la Biélorussie, pour un coût de 350 millions d’euros : 5,5 m de haut, 186 km de long. Sur Facebook, le Premier ministre polonais a posté : « La frontière polonaise n’est pas seulement une ligne sur une carte. La frontière est sainte – le sang polonais a été versé pour elle ! »

      C’est précisément sur cette frontière sacrée qu’au moins 19 personnes ont été retrouvées mortes (gelées) depuis le début des travaux : des personnes originaires du Yémen, d’Irak et du Nigeria.

      Apparemment, la souffrance est mesurable sur une échelle. Apparemment, comme l’écrit la philosophe Judith Butler, certaines vies méritent d’être pleurées tandis que d’autres peuvent être traquées, illégalisées, exploitées sur le marché du travail et laissées à la merci de la politique belge d’asile et de migration. Comme si un habitant de Kaboul avait moins de raisons humaines de fuir qu’un habitant de Kiev ? Comme si notre « devoir moral d’aider » était aussi un interrupteur que l’on peut allumer et éteindre à volonté ? Alors que sous l’ancien secrétaire d’État Theo Francken, un projet de loi autorisait la police à faire une simple descente chez tous ceux qui accueillent des personnes déplacées, le hashtag #PlekVrij (#EspaceLibre) appelle désormais les citoyens/nes à libérer des chambres pour les familles ukrainiennes. Il n’y a pas plus schizophrène que cela dans l’État belge.

      Trouvez les dix différences

      Une mère réfugiée avec son enfant et une mère réfugiée avec son enfant : cherchez les dix différences. La principale différence est claire : si la mère porte un foulard ou si l’enfant est moins blanc, on aurait moins envie de les laisser entrer. Plusieurs Ukrainiens/n.s et résidents/es en Ukraine noirs témoignent aujourd’hui sur les médias sociaux de la façon dont ils ont été arrêtés/es à la frontière polonaise, volés/es et abandonnés/es à leur sort. La conclusion évidente va à l’encontre de toute convention internationale : notre politique d’asile européenne et belge est discriminatoire sur la base de la couleur et de la religion. Nos réfugiés à nous passent avant tout le monde.

      La décision véhémente de Mahdi rappelle presque l’« opération de sauvetage » controversée et très sélective de 1.500 chrétiens syriens menée par Francken en 2015. En même temps, les Afghans/nes n’ont pas pu compter sur la solidarité de Mahdi sur Twitter lors de la prise du pouvoir par les talibans l’année dernière. À l’époque, il avait écrit, avec cinq collègues de l’UE, une autre lettre à la Commission européenne pour demander que les rapatriements forcés vers l’Afghanistan ne cessent pas : « L’arrêt des retours forcés envoie un mauvais signal et incite probablement encore plus de citoyens/nes afghans/nes à quitter leur foyer. »

      Ceux qui insinuent que fuir la guerre en Ukraine est en effet « quelque chose de différent » que de fuir un conflit armé en Afghanistan, doivent enfin invoquer le type de solidarité populaire historique que beaucoup méprisent aujourd’hui chez Poutine. Il s’agit d’une distinction peu différente de l’aryanisme latent dont un procureur ukrainien s’est fait l’écho sur la BBC : « Cette guerre est très émotionnelle pour moi parce que je vois maintenant des Européens aux yeux bleus et aux cheveux blonds se faire tuer. » (1) Dans l’Europe de 2022, même dans la mort, tout le monde n’est pas égal.

      Pensez aux 23.000 personnes qui sont mortes en Méditerranée depuis 2014 à cause du régime frontalier européen. Le nationalisme de la Russie et le continentisme de l’UE ont peut-être des visages différents, mais des conséquences mortelles similaires.
      #InMyName

      Par conséquent, la préoccupation actuelle pour l’Ukraine ne devrait pas être une exception, mais devrait devenir la norme pour tous ceux qui sont contraints de quitter leur patrie. Tant que cette égalité n’est pas atteinte, le régime d’accueil spécial de l’Europe n’indique pas l’hospitalité, mais la suprématie blanche. Une fois de plus, ce statut spécial pour les Ukrainiens/nes confirme ce que 160 avocats/es belges spécialisés/es dans le droit de l’immigration ont dénoncé dans une lettre ouverte parue dans La Libre en décembre : notre politique de régularisation n’est que du vent.

      Devrons-nous donc espérer qu’à chaque crise, le secrétaire d’État se comporte en héros : « tel ou tel groupe a désormais droit à notre accueil temporaire et exceptionnel » ?

      Non, nous avons besoin de cadres juridiques équitables pour le long terme. Ce que l’État belge offre aujourd’hui, à juste titre, aux citoyens/nes ukrainiens/nes devrait s’appliquer à tout le monde : attention, confiance fondamentale, action rapide, absence d’ambiguïté. Si nous pouvons prendre en charge des millions de victimes de Poutine, nous devrions également être en mesure de garantir un avenir à quelques dizaines de milliers de concitoyens/nes sans papiers en Belgique. On dirait qu’il y a un #EspaceLibre.

      https://www.lesoir.be/427956/article/2022-03-04/guerre-en-ukraine-nos-refugies-dabord
      #Belgique

    • Le vrai ou faux : les réfugiés ukrainiens sont-ils mieux accueillis que d’autres ?

      En plus d’une exemption de procédure, les réfugiés venant d’Ukraine bénéficient d’un effort d’accueil en décalage par rapport aux standards européens.
      Depuis des semaines, la Belgique laisse chaque jour une partie des demandeurs d’asile sur le carreau, sans prise en charge, renvoyant les déçus vers les réseaux d’accueil de sans-abrisme, voire les squats et la rue. L’Etat est en faute, il a été condamné pour cela. Mais le secrétaire d’Etat et son administration n’ont cessé d’assurer faire leur possible pour aménager de nouvelles places, ne pouvant cependant couvrir les besoins. Avec le déclenchement de la guerre en Ukraine et le mouvement de solidarité face aux déjà deux millions de réfugiés boutés hors du pays, 24.000 places d’accueil ont été mises à disposition en quelques jours par les communes et les particuliers pour accueillir les réfugiés en Belgique. Le système est encore boiteux, mais la mobilisation est là. Les élus tonnent au Parlement et sur les réseaux sociaux : il n’est pas question de laisser un Ukrainien sans toit. Et Theo Francken (N-VA) de surenchérir : un toit ne suffit pas, il faut penser à l’accompagnement psychologique des personnes traumatisées par la guerre. Voilà des années pourtant que les associations alertent sur l’indigence de la prise en charge psychologique des réfugiés, sans trouver d’écho.

      L’Union européenne est-elle en train de formaliser un double standard pour les réfugiés, avec des Ukrainiens bénéficiant d’un statut automatique et des Erythréens, Syriens, Afghans soumis à une procédure d’asile longue et souvent douloureuse ? Oui. Y a-t-il lieu de s’en offusquer ? Tout dépend de ce dont on parle.

      L’activation de la protection temporaire qui octroie automatiquement une série de droits aux ressortissants ukrainiens ayant quitté le pays depuis le début du conflit a été unanimement saluée, tout comme l’élan de solidarité qui l’accompagne dans les pays européens. La question qui se pose depuis est plutôt de savoir pourquoi elle n’avait jamais été appliquée jusqu’à maintenant ? Qu’il s’agisse des déplacements de populations provoqués par les printemps arabes (en Tunisie, en Libye) ou la guerre en Syrie, les occasions n’ont pas manqué depuis sa création en 2001.

      Meltem Ineli Ciger a passé près de sept ans de sa vie à étudier la question. Pour sa thèse, à l’université de Bristol, puis à l’occasion de diverses publications jusqu’en 2018. De quoi construire une solide analyse expliquant pourquoi la directive est de facto inapplicable : maladresse dans la définition des termes et conditions, mécanisme d’activation trop complexe, défaut de solidarité structurel… Il n’aura fallu que quelques jours pour envoyer son travail à la poubelle (ou pas loin). « Comme j’ai pu avoir tort », relève non sans humour et amertume la juriste turque dans une note de blog du réseau Odysseus, spécialisé dans le droit européen de la migration. « Les événements de ces deux dernières semaines montrent une chose : les raisons que j’avais identifiées au fil des ans se réduisent à une réflexion : la directive protection temporaire n’a pas été implémentée avant 2022 parce que la Commission et le Conseil n’avaient simplement pas la volonté politique de le faire. »

      Un flux massif et inédit

      La chercheuse, aujourd’hui professeur assistante à l’université Suleyman Demirel, en Turquie, a donc revu sa copie, dressant des constats que rejoignent les différents experts contactés.

      D’abord, le caractère massif et inédit des flux de réfugiés ukrainiens. Même si les grands mouvements d’asile de 2015-2016 ont amené plus de 2 millions de personnes dans l’Union européenne, les flux se sont répartis sur deux ans. Et les Syriens, qui auraient pu prétendre à une protection automatique, ne représentaient qu’un gros quart des demandeurs. Une pression jugée absorbable par le système classique d’asile. Ici, deux millions de personnes ont traversé les frontières en 12 jours. Impossible de mener des évaluations individuelles détaillées sans provoquer des engorgements dramatiques, que ce soit à la frontière ou dans les pays d’arrivée où le système d’asile est parfois déjà en état de saturation (comme en Belgique). Surtout qu’il n’y a pas de débat quant à savoir les personnes déplacées ont besoin de protection.

      L’autre facteur, c’est la crainte de l’appel d’air, qui a jusque-là systématiquement retenu les Etats membres. « L’enjeu, c’est l’hinterland », souligne Jean-Louis De Brouwer (Institut Egmont), qui a participé à la création de la directive. « Quand il y a la crise en Syrie ou en Afghanistan, les réfugiés vont traverser de vastes territoires qui peuvent être des pays de premier accueil. La réaction systématique et immédiate de l’Union européenne, c’est de dire : on va aider les pays limitrophes. La crainte étant qu’en activant un statut perçu comme potentiellement trop généreux tout le monde veuille venir en Europe. » Une forme de solidarité a minima qui s’accompagne d’un travail de sécurisation de la frontière via des accords avec des pays tiers d’accueil ou de transit (comme la Turquie, le Niger ou la Libye), des entraves (barbelés, murs), voire des opérations de refoulement illégales. « Ici, il n’est pas question d’appel d’air : quand les réfugiés franchissent la frontière, ils sont sur le territoire européen. »
      Une empathie sélective

      Enfin, les Ukrainiens sont européens (eux). Les médias n’ont pas tardé à rapporter les dérapages d’hommes politiques ou journalistes qualifiant cette population réfugiée d’inhabituelle car « éduquée » et issue de régions « civilisées », signes d’une empathie sélective reposant parfois sur des biais douteux. Sans parler des discriminations des étudiants étrangers, notamment nigérians, bloqués à la frontière polonaise.

      Une des rares modifications apportée par les Etats membres à la proposition de la Commission pour activer la directive a été d’exclure du mécanisme les ressortissants de pays tiers sans résidence permanente (les étudiants et les demandeurs d’asile par exemple). Et parce que les Ukrainiens sont européens, les Etats membres ont totalement renversé les paradigmes cadrant normalement les questions d’asile : les réfugiés sont ici invités à s’installer dans le pays de leur choix. La solidarité européenne se construira à partir de cette répartition spontanée et non en vertu de règles définissant des pays (frontaliers) responsables. Si cette approche résulte d’un certain pragmatisme (les Ukrainiens n’ont pas d’obligation de visa et peuvent se déplacer librement pendant 90 jours), elle est encouragée et présentée très positivement par la Commission. A 180 degrés des discours portés ces dernières années concernant les demandeurs d’asile, bloqués par le carcan d’une procédure Dublin (*) que tout le monde reconnaît pourtant comme inefficace et coûteuse.

      A vrai dire, l’enjeu du double standard devrait peser surtout dans les mois qui viennent, à supposer que le conflit en Ukraine se poursuive. La protection temporaire et le statut de réfugié ouvrent des droits assez similaires (séjour, accès au marché du travail, aux droits sociaux…). Il s’agira donc de voir si les dispositifs déployer pour aider et accueillir les Ukrainiens – pour l’accès au logement, au travail, à l’apprentissage de la langue – sans laisser sur la touche les autres réfugiés, voire les populations européennes précarisées

      https://www.lesoir.be/428815/article/2022-03-08/le-vrai-ou-faux-les-refugies-ukrainiens-sont-ils-mieux-accueillis-que-dautres

      #double_standard #empathie_sélective

    • #Grèce : Πραγματική προσφυγική πολιτική μόνο για Ουκρανούς
      –->

      Une véritable politique des réfugiés uniquement pour les Ukrainiens

      Πολλοί από τους χιλιάδες Ουκρανούς πρόσφυγες που έφτασαν στην Ελλάδα δεν έχουν χαρτιά, αλλά κανείς δεν διανοήθηκε να τους πει « παράνομους » ή « λαθραίους », να τους χαρακτηρίσει « υγειονομική απειλή » λόγω της πανδημίας, να μιλήσει για απειλή στην εδαφική ακεραιότητα, να υπαινιχθεί αλλοίωση του εθνικού μας πολιτισμού, να επισημάνει ανυπέρβλητες γλωσσικές και πολιτισμικές διαφορές που εμποδίζουν την ένταξή τους στην ελληνική κοινωνία, να εκφράσει φόβο για αύξηση της εγκληματικότητας ή να υπαινιχθεί ότι θα μας πάρουν τις δουλειές.

      Μέσα σε μια νύχτα τα κλειστά σύνορα άνοιξαν και δημιουργήθηκε ασφαλής και νόμιμη διαδρομή μέσω του Προμαχώνα, όπου οι πρόσφυγες υποβάλλουν αίτημα για ταξιδιωτικά έγγραφα. Το υπουργείο Μετανάστευσης και Ασύλου διαθέτει άμεσα χώρο στέγασης και σίτιση και ο κ. Μηταράκης, που μέχρι πρόσφατα ανακοίνωνε κλείσιμο δομών και εξώσεις, τώρα επιθεωρεί δομές της βόρειας Ελλάδας που ξαναγεμίζουν. Η υπηρεσία Ασύλου, κλειστή από τον Νοέμβριο για χιλιάδες νεοεισερχόμενους πρόσφυγες της ενδοχώρας που δεν μπορούν να ζητήσουν άσυλο, ανοίγει ξαφνικά για να δεχτεί τα αιτήματα των Ουκρανών για προσωρινή προστασία.

      Οι αρχές προαναγγέλλουν άμεση έκδοση ΑΜΚΑ και ΑΦΜ και γρήγορη πρόσβαση στην αγορά εργασίας, ενώ το υπουργείο Παιδείας απλοποιεί την εγγραφή των Ουκρανών προσφυγόπουλων στα σχολεία, που έχει ήδη αρχίσει. Μέσα σε λίγες μέρες το κράτος μοιάζει ξαφνικά με καλολαδωμένη μηχανή που λύνει προβλήματα αντί να βάζει εμπόδια. Η νέα κανονικότητα που δημιουργεί στο προσφυγικό η ρωσική εισβολή στην Ουκρανία είναι επιθυμητή και καλοδεχούμενη. Αναδεικνύει όμως τη βαθιά υποκρισία της ευρωπαϊκής και ελληνικής αντιπροσφυγικής πολιτικής των τελευταίων χρόνων, που εξακολουθεί να θεωρείται κανονικότητα για τους πρόσφυγες της Μέσης Ανατολής, της Ασίας και της Αφρικής, είναι όμως πια απογυμνωμένη από προφάσεις, ψέματα και φαιδρά επιχειρήματα και φαίνεται καθαρά το αποκρουστικό πρόσωπο του ρατσισμού.

      https://www.efsyn.gr/stiles/ano-kato/335992_pragmatiki-prosfygiki-politiki-mono-gia-oykranoys

      commentaire de Vicky Skoumbi via la mailing-list de Migreurop :

      Miracle : L’accueil digne des réfugiés devient possible, même en Grèce, dans un laps de temps record ! Pourvu que ceux-ci sont blonds aux yeux bleus et qu’ils ne menacent pas le « mode de vie européen »...Quant aux autres, qu’ils crèvent frigorifiés sur un îlot d’Evros ou sous les flots

    • #Emmanuel_Macron :

      « Quand on a peur des phénomènes migratoires, je pense qu’il faut là aussi défendre notre ADN, c’est-à-dire notre devoir d’accueillir celles et ceux qui fuient un pays en guerre comme les Ukrainiennes et les Ukrainiens aujourd’hui, mais en même temps de savoir lutter contre l’immigration clandestine [ie non européenne - NdR]. C’est par cette clarté et cette exigence que, je pense, on peut répondre aux peurs et en même temps tenir une réponse républicaine »

      https://seenthis.net/messages/955991

    • Gli studenti ucraini arrivati in Italia dopo l’invasione potranno essere ammessi alle classi successive anche in mancanza dei requisiti necessari ed essere esonerati dagli esami di Stato

      Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha firmato un’ordinanza che prevede che gli studenti ucraini arrivati in Italia a seguito dell’invasione dell’Ucraina potranno essere ammessi alle classi successive anche in mancanza dei requisiti necessari e, se necessario, esonerati dagli esami di Stato. L’ordinanza riguarda i soli studenti ucraini iscritti alle scuole elementari, medie e superiori italiane a partire dallo scorso 24 febbraio, data d’inizio dell’invasione ucraina.

      Per gli studenti iscritti alle scuole superiori l’ordinanza prevede che, in mancanza dei requisiti necessari, si potrà essere ammessi all’anno successivo ma dovrà essere redatto un piano didattico individuale per raggiungere i livelli di apprendimento richiesti. Il piano dovrà essere predisposto tenendo conto dell’impatto psicologico della guerra e delle difficoltà che comporta l’apprendimento in un paese straniero.

      Per quanto riguarda gli esami di Stato, invece, l’ordinanza prevede la possibilità di esonero per gli studenti che si trovino nelle classi «terminali» (cioè terza media e quinta superiore) e non abbiano raggiunto i livelli linguistici e le competenze disciplinari necessarie a sostenerli: in questo caso, il consiglio di classe rilascerà un attestato di credito formativo, che nel caso degli studenti di terza media sarà sufficiente per iscriversi alle superiori, e nel caso degli studenti di quinta superiore per frequentare nuovamente la quinta.

      https://www.ilpost.it/2022/06/07/studenti-ucraini-ordinanza-ministero-istruzione

      #étudiants #étudiants_ukrainiens #Italie

    • Leurs dénis et leurs délits

      Les propos de Frédérique Vidal ce 29 décembre sur France Info ont été à l’image de toute la politique de ce gouvernement en matière de gestion sanitaire, oscillant entre inaction et stratégie de communication, improvisation et décisions irrationnelles, dénis répétés et propagation de la peur. Mais un jour les objets de leurs dénis deviendront des objets de délits.

      Ce 29 décembre 2021 restera une date singulière dans l’histoire des errements politiques du gouvernement pour combattre la pandémie de #Covid-19. Un ministre de la santé, auditionné par les élus de la République pour imposer un passe vaccinal décidé en Conseil des ministres, menace à demi- mot 5 millions de Françaises et de Français : « Il y a vraiment peu de chances que vous puissiez passer cette fois-ci entre les gouttes ». Le même jour, le Préfet de Paris décide de rendre obligatoire le port du masque en extérieur, à l’exception du bois de Vincennes et du bois de Boulogne, où l’on ne manquera pas de créer une forte concentration de promeneurs. L’Absurdistan est de retour – si tant est qu’il nous ait quitté. Au même moment une pétition qui voit dans le passe vaccinal « une atteinte majeure à l’État de droit » promet de dépasser très vite le million de signatures. Le même jour encore, on apprend que des élus ont reçu une cinquantaine de menaces de mort et que certains de leurs biens ont été saccagés. Un tel concours d’événements devrait obliger nos « gouvernants » au sérieux et à une certaine gravité. Mais ce n’est pas ainsi que la ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche a commencé cette journée du 29 décembre 2021. Sa légèreté et son incurie nous ont laissés sans voix.

      S’il existait dans les Mediapart Awards 2021 une catégorie de « la meilleure tragi-comédie de l’année », nul doute que Frédérique Vidal serait l’autrice de la pièce en 12 actes qui remporterait le premier prix. Hier matin, en écoutant la ministre évoquer sur France info les « décisions » pour la rentrée universitaire et la tenue des examens, je suis resté coi, ne sachant pas si je devais rire ou pleurer. Dans mon état d’hébétude, une analogie m’a traversé l’esprit. Je me suis mis à penser à la scène du bureau ovale dans le film Don’t look up : déni cosmique. Face à une catastrophe qui est imminente, la présidente Janie Orlean a une formule qui pourrait résumer à elle-seule la politique française en matière de sécurisation sanitaire des écoles et des universités, et plus généralement de tous les services publics : « sit tight and assess », patienter et évaluer. Cette vacance, ou plutôt ce néant, dure depuis deux ans. Certes, Frédérique Vidal n’est pas Janie Orlean et Jean-Michel Blanquer n’est pas exactement son conseiller – il a même, politiquement, un peu plus de poids... Mais la stratégie politique de l’inaction relève d’une même couardise : ne rien faire pour ne pas déplaire est infiniment moins risqué que la moindre décision. C’est que Janie a dans le collimateur les élections de mi-mandat, quand le gouvernement français est en campagne au service de Macron-Roi, devenu avec son cher Castex, le « vaccinateur du genre humain ». La différence entre la fiction de Don’t look up et notre gouvernement est que le film est une bonne comédie satirique qui nous fait rire de nous-mêmes et de nos travers, alors que le spectacle que nous jouent nos politiciens est une très mauvaise tragédie dans laquelle, en définitive, ils jouent avec nos vies. Rappelons qu’il y a eu en France plus de 120 000 morts du Covid - sans compter les milliers de "morts indirectes" provoquées par "l’encombrement" des hôpitaux -, des dizaines de milliers de personnes qui subissent des séquelles graves de la maladie ou qui n’ont pu avoir accès aux soins en raison des fermetures de lits à l’hôpital, et plus d’un million de personnes qui souffrent de Covid long, sans qu’elles soient vraiment prises en charge et sans même que la recherche dispose de moyens pour trouver des thérapies efficaces (voir ici et là).

      Avant d’établir la liste de quelques « dénis cosmiques » de Frédérique Vidal et ses compères, il convient de dire haut et fort qu’elle a dépassé en ce 29 décembre toutes les bornes. D’ailleurs le silence qui entoure ses déclarations, masquées par d’autres informations, est proprement sidérant. Parlant des étudiants elle a dit ceci : « Lorsqu’ils sont cas contact et vaccinés, ils peuvent se rendre aux examens, puisqu’ils ne sont plus considérés comme cas contact car leur vaccination est complète » (voir ici : https://www.lemonde.fr/campus/article/2021/12/29/universite-les-partiels-auront-lieu-en-presentiel_6107601_4401467.html ou là : https://etudiant.lefigaro.fr/article/universite-frederique-vidal-annonce-le-maintien-des-examens-en-pre). S’il existait un vaccin contre l’#irresponsabilité politique il conviendrait de l’inoculer de toute urgence à Frédérique Vidal. Depuis quand et dans quel texte réglementaire apprend-on qu’une vaccination complète annule une situation de cas contact ? La ministre est-elle au courant qu’il y a plus de 100.000 cas par jour en moyenne et que la tranche d’âge des 20-29 ans est la plus touchée ? La ministre a-t-elle conscience qu’elle invite tous les #étudiants qui sont #cas_contact (avec ou sans symptômes) à se rendre à leurs examens à partir du moment où leur vaccination est « complète », sans d’ailleurs préciser si elle entend par #vaccination complète deux ou trois doses ? La ministre anticiperait-elle une décision à venir ? Dans tous les cas, cette affirmation invraisemblable et pour le moins irrationnelle est en contradiction avec la circulaire que la ministre a elle-même envoyée en date du 29 décembre 2021 aux chefs d’établissements. On peut en effet y lire ceci : « De la même manière, les #examens peuvent toujours être organisés en présentiel dans le respect des prescriptions du protocole sanitaire défini en novembre 2021. A cette fin, vous veillerez au respect des cas dans lesquels un étudiant contaminé ou cas contact ne doit pas se présenter et porterez cette information aux candidats le plus en amont possible des épreuves. » Par conséquent la distinction entre les personnes contact à risque modéré et à risque élevé reste en vigueur. On peut se référer à ce document, conforme au décret et surtout à ces informations de l’Assurance Maladie qui intègrent les nouvelles règles pour les cas contacts de personnes contaminées par le variant Omicron, nouvelles règles que la ministre semble totalement ignorer et qu’elle a oublié d’intégrer dans sa nouvelle circulaire. Au sujet du variant Omicron, le site de l’Assurance Maladie précise ceci : « compte-tenu de la particularité de ce variant, vous devez vous isoler immédiatement pour 7 jours (ou 17 jours si vous partagez son domicile), et ce même si vous êtes totalement vacciné ».

      Le rôle d’un.e ministre est d’informer : Frédérique Vidal désinforme. Le rôle d’un.e ministre est d’anticiper : Frédérique Vidal est la ministre de tous les retards. Le rôle d’un.e ministre est de prévenir les risques : Frédérique Vidal augmente les risques. Le rôle d’un.e ministre est de dire la vérité : Frédérique Vidal est dans le #déni permanent. Frédérique Vidal est à l’image de ce gouvernement et de tous ses membres. Elle doit démissionner.

      Voici maintenant ce que nient, imperturbablement depuis des mois, Frédérique Vidal et son gouvernement, concernant les personnels et les étudiants des universités. Voici les objets de leurs dénis et de leurs délits :

      - Ils veulent ignorer que de nombreux étudiants fragilisés par la crise sanitaire se présentent et se présenteront dès ce 3 janvier aux examens en étant positifs et parfois même symptomatiques, ou en étant personne contact à risque élevé, parce qu’ils ont tout simplement peur de devoir repasser les épreuves et d’échouer à leurs examens.
      - Ils ne veulent pas reconnaître l’état catastrophique des locaux universitaires où des centaines d’amphis sont sans aucune ventilation et des milliers de salles sans ouvrants fonctionnels.
      - Ils continuent sciemment d’ignorer que la transmission aéroportée du virus est la première cause de la contagion et ils laissent des milliers d’étudiants s’entasser dans des locaux avec des taux de CO2 supérieurs à 1000, 1500 ou même parfois 2000 ppm.
      - Ils ne reconnaissent toujours pas l’utilité des capteurs de CO2, lesquels permettent de définir les jauges des locaux, les seuils d’aération obligatoire et d’évacuation. C’est ainsi qu’Anne-Sophie Barthez, Directrice de la DGESIP sous la responsabilité directe de Frédérique Vidal, écrivait dans une circulaire en date du 19 novembre 2021, que le « dépassement des taux de CO2 recommandés n’est pas en soi un risque sanitaire », ce qui constitue un #mensonge éhonté au regard de nombreuses études scientifiques.
      - Ils ignorent sciemment la qualité de protection des masques FFP2 et les bénéfices de l’installation de purificateurs d’air, afin de s’exonérer de toute politique d’investissement dans la protection des personnels et des étudiants.
      – Ils ne veulent pas reconnaître le sous-encadrement vertigineux des administrations des universités, de leurs services de santé et de sécurité au travail, des laboratoires et des composantes d’enseignement, lesquels, minés par le développement de la précarité et de la souffrance au travail, sont littéralement abandonnés par l’État tout comme l’État a abandonné l’Hôpital.
      - Ils ne veulent pas admettre que la politique du tout-vaccinal est conduite à un échec retentissant et que seule une stratégie de prévention et d’actions de protection combinées et coordonnées permettra de combattre efficacement la pandémie.

      Dans sa circulaire du 29 décembre, qui traite essentiellement de la vaccination et de tests, Frédérique Vidal n’évoque ni les masques FFP2 évidemment, ni la mesure du CO2 qui est passée aux oubliettes, et encore moins les purificateurs d’air. Zéro moyen, comme toujours. Mais elle écrit ceci : « la situation actuelle ne justifie pas de nouvelles restrictions ». Le mot est riche d’enseignements. On n’est plus ici dans le seul déni. Il s’agit d’une véritable #dérive_idéologique : gouverner par les seules restrictions, réduire l’action publique à des mesures de privation des libertés. Nos « gouvernants » – si l’on peut encore user de cette dénomination - semblent ne plus être en état, ni en mesure de concevoir que l’action politique puisse consister en des décisions positives et concrètes de prévention, d’aide et de soutien à la population, en campagnes d’information, en plans d’accompagnement et en programmation de moyens.

      C’est ainsi que, concernant la seule rentrée universitaire, les mesures à prendre, attendues et réclamées, pour maintenir les cours et les examens en présence – ce qui est évidemment souhaitable -, sont les suivantes :

      - Distribution de masques FFP2 à tous les étudiants qui sont amenés à composer dans des salles et amphis sans jauges définies, ainsi qu’à tous les personnels qui le souhaitent ; la filtration de l’air commence avec le FFP2 (billet de septembre 2020 à relire : https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/240920/ffp2-mon-amour) !
      - Distribution massive de tests antigéniques sur les campus, en particulier avant les examens ;
      - Campagnes nationales et locales d’information sur les règles d’utilisation des masques et mise en place de formations et cet effet ;
      - Installation de capteur de CO2 dans tous les locaux et en priorité dans les amphis et salles sans ventilation et sans ouvrants fonctionnels ;
      - En fonction des mesures de CO2, définition des jauges de chaque local et installation de purificateurs d’air dans les locaux non conformes et tous les lieux de convivialité ;
      - Réparation des toutes les menuiserie non fonctionnelles et installation de ventilation motorisées dans tous les amphis et salles de grande capacité ;
      - Embauche de personnels en vue de réaliser les travaux d’amélioration et de réparation des locaux et plus généralement de gérer l’organisation et la mise en place de l’ensemble des mesures de sécurisation sanitaire des universités.

      Les quatre premières mesures peuvent et doivent être mises en œuvre rapidement. A cette fin le report de la rentrée d’une semaine laisserait le temps aux CHSCT de se réunir et aux établissements de s’organiser. Pour la mise en place des mesures 5, 6 et 7 – qui auraient dû être programmées dès le printemps 2020 -, le gouvernement doit dégager en urgence une enveloppe de crédits qui ira abonder immédiatement les budgets des universités. Comme ceux des hôpitaux et de l’ensemble des services publics.

      Nous l’avons compris depuis longtemps : la gestion du Covid-19 par le gouvernement répond avant tout à des considérations politico-économiques de courte vue et non à une stratégie sanitaire pensée sur la durée et construite pour toutes et tous, pour le bien commun. L’horizon défini par Macron est sa seule réélection. Il a privatisé la gestion sanitaire de la crise, comme il a privatisé l’Hôpital, comme il privatise la Recherche et l’Université. Pour être réélu, il lui faut - quoi qu’il en coûte - continuer de plaire, faire le moins de vagues possibles dans l’opinion en surfant sur les vagues épidémiques, et surtout continuer à engraisser le Cac 40 et les actionnaires qui n’ont jamais fait autant de profits. Et que les petits soldats obéissent. Par la force ou la servitude volontaire.

      Sans changement de stratégie sanitaire, nous savons que nous allons vers le pire. Que nos politiques en responsabilité réfléchissent un instant à ceci : quand ils disposent de moyens de protection de la santé et de la sécurité des personnes et qu’ils renoncent sciemment à les utiliser, ils commettent non seulement une #faute_morale, mais aussi, possiblement, un #délit. Il existe encore une Cour de justice de la République, qui a mis récemment en examen Agnès Buzyn (1).

      Mesdames et Messieurs les "gouvernants", nous n’oublierons ni vos dénis, ni vos délits ! Ni votre mépris, ni vos profits !

      Pascal Maillard

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/301221/leurs-denis-et-leurs-delits

  • #Belgique : Inondations de 1953 : Quand le papa de Geluck caricaturait les manquements du gouvernement Adrian Thomas - Solidaire
    https://www.solidaire.org/articles/inondations-de-1953-quand-le-papa-de-geluck-caricaturait-les-manquements-

    Les récentes inondations ne sont pas les premières que notre pays ait subies. On pense à celles de 1926, 1987, 1993 ou encore 2011. Le raz-de-marée de février 1953 a défrayé la chronique pour son bilan meurtrier (2 551 morts) et les dégâts causés. Mais aussi parce que les actions du gouvernement n’ont pas été à la hauteur des besoins des nombreux sinistrés. Ces insuffisances n’avaient pas échappé au crayon du caricaturiste Diluck, le papa de Philippe Geluck, le dessinateur de la célèbre BD « Le chat ».


    Didier Geluck (1924-2011), ici avec le réalisateur soviétique Andréï Tarkovski, dessine quotidiennement dans Le Drapeau rouge dans les années 1950. Il devient dès 1955 directeur de Progrès films, distributeur de films du bloc de l’Est. (Photo D.R.)

    En 1953, Didier Geluck (1924-2011) croque l’actualité dans Drapeau rouge, le quotidien du Parti communiste de Belgique (PCB). Quand surviennent les inondations en février, Diluck n’y va pas de main morte dans ses dessins. Une tempête en mer du Nord fait alors céder les digues. L’eau envahit les terres et noie 1 836 villageois néerlandais. Le Royaume-Uni est aussi très atteint. Quant aux Belges, 28 sont tués en Flandre, le long de la Côte et de l’estuaire de l’Escaut. 10 000 familles sinistrées se retrouvent sans abri, en plein hiver.

    La solidarité de la classe travailleuse
    Très vite, la solidarité se met en marche. La Croix-Rouge et le PCB, entre autres, récoltent des fonds, des vêtements, des couvertures et des vivres. Comme en 2021, des centaines de volontaires affluent pour apporter leur aide aux victimes de la catastrophe. Par exemple, les ouvriers des ACEC cèdent collectivement le salaire d’une journée et acheminent à Ostende un camion rempli de literie.

    De son côté, le gouvernement rase les murs. Le PCB exige que le Premier ministre Jean Van Houtte (PSC, ancien cdH) rende compte au fur et à mesure de l’aide délivrée aux sinistrés. Mais bien vite, le Parti social-chrétien, seul au gouvernement, s’en lave les mains. En accordant à peine dix millions de francs (un peu moins de 250 000 euros) à la Croix-Rouge et en refusant d’indemniser les victimes.

    C’est que cette calamité tombe mal : le ministre des Finances Albert-Édouard Janssen (qui est également banquier) a prévu une hausse des impôts afin de financer une « armée européenne ». Avec la guerre de Corée (1950-1953), la Guerre froide s’est en effet fortement réchauffée et menace de dégénérer. Les Américains poussent donc les nations ouest-européennes à s’unir, en premier lieu militairement, dans l’éventualité d’une troisième Guerre mondiale contre l’Union soviétique et la Chine.

    L’inaction gouvernementale caricaturée
    Dans ses caricatures pour Drapeau rouge, Diluck tourne en dérision le cynisme du gouvernement, qui s’obstine à défendre coûte que coûte son budget. « Ah non, rien à faire, les sinistrés n’en auront pas un sou ! », fait-il dire au Premier ministre.

    « Prendre l’argent dans le budget de la guerre ? Vous êtes fou, mon brave ! Et nos tanks… et nos traitements ? », prête Diluck à un général obtus.

    Sur un autre dessin, deux ministres calculent : « Nous augmentons les impôts de 5%. Les sinistrés paient les impôts, n’est-ce pas ? Ils paient donc les dégâts subis par l’État. Il ne restera plus rien pour les indemniser, dites-vous ? Et la charité publique, alors ? », concluent les « margoulins ».

    Diluck raille aussi Baudouin. Le roi est sur la Côte d’Azur et rechigne à revenir de vacances. Il va tardivement saluer des sinistrés devant les photographes mais retourne aussitôt à Antibes.

    Son antipathie passe mal en Belgique. La presse se déchaîne. Des journaux étrangers évoquent même la reprise de la récente Question royale, conclue de justesse en 1950 par l’abdication de Léopold III. C’est suite aux gaffes de Baudouin que le Palais créera un service pour la presse. Quant à l’armée européenne (CED), le projet va échouer.

    Concernant les inondations, les autorités se voient bien obligées d’investir dans l’élévation des digues. Ainsi naît le Plan sigma (programme de gestion des inondations et de l’écosystème, le long de l’Escaut, en Flandre). Des digues qu’il faut sans cesse rehausser. Jusqu’où ? En revanche, les sinistrés, eux, ne verront jamais l’ombre d’une aide gouvernementale.

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