• Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • Le #Fentanyl, la #drogue surpuissante qui décime les #États-Unis
    https://www.rfi.fr/fr/am%C3%A9riques/20240203-le-fentanyl-la-drogue-surpuissante-qui-d%C3%A9cime-les-%C3%A9tats-unis

    Il est devenu la principale cause de décès des 18-45 ans aux États-Unis. Le fentanyl, un opioïde de synthèse d’une puissance jusque-là inégalée, tue par overdose un Américain toutes les sept minutes. Pourtant, à l’origine, c’est un #médicament fabriqué et exporté depuis la Chine. Détourné par les #cartels_mexicains, il est vendu sous la forme d’une pilule bleue estampillée M30, hautement addictive.

    […] En effet, quand 200 milligrammes d’héroïne sont létaux, seulement deux milligrammes de fentanyl suffisent. Selon la Drug Enforcement Administration (#DEA), les pilules, contrefaites, contiennent entre 0,02 et 5,1 milligrammes de fentanyl, soit deux fois la dose mortelle. Une vraie roulette russe.Tom Wolf l’assure, « en étant héroïnomane, tu peux vivre 25 ans, mais avec le fentanyl, à cause du risque d’overdose, il te reste à peine deux ans et tu es mort. »

    […] Si lui a pu s’en sortir, ce n’est pas le cas de tout le monde, loin de là. Aux États-Unis, le fentanyl a fait plus de 130 000 victimes l’année dernière, et continue de tuer en moyenne 150 personnes chaque jour, d’après le centre de contrôle et de prévention des maladies des États-Unis.

  • #carte de #france des zones accessibles à #Vélo depuis une gare
    http://carfree.fr/index.php/2024/01/25/carte-de-france-des-zones-accessibles-a-velo-depuis-une-gare

    Clément, un passionné de #trains et de vélos depuis longtemps, a décidé de créer une carte de France du vélo-train. Le vélo dans le train ? Que ce soit pour Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Ressources #Transports_publics #accessibilité #cartographie #cyclistes #intermodalité

    • Dans la nuit du 3 au 4 novembre 2023, Fanta, 3 mois, est décédée suite à une intoxication au monoxyde de carbone. La veille, sa mère, privée depuis presque un an par la politique de #dématérialisation des procédures administratives et par la #Préfecture du Nord de son droit au travail et de ses droits sociaux, avait tenté de réchauffer leur appartement privé d’électricité, avec un brasero de fortune, conduisant au drame.
      Une marche blanche le 3 février 2024 à 14h devant la Préfecture du Nord, 12 rue Jean Sans Peur à Lille, appelle à rendre hommage à ce bébé, victime de la non-impression d’un bout de papier.

      Il est des coupables qui viennent de loin et qui n’ont pas toujours de visage, ni même d’arme pour tuer. Ici, la plateforme de dématérialisation #ANEF, gérée par le #ministère_de_l’Intérieur, et la Préfecture du Nord ont mis plus d’un an à fournir à Fatima, 26 ans, sa carte de résidente de réfugiée, indispensable pour circuler, travailler et bénéficier des droits sociaux reconnus aux personnes réfugiées. Un an à faire la sourde oreille aux interpellations de tous les travailleurs sociaux, un an à se renvoyer la balle, jusqu’à conduire Fatima à une précarité extrême telle que sa fille Fanta, âgée d’à peine 3 mois, n’y survivra pas.

      #immigration #étrangers #carte_de_séjour

  • JO de Paris 2024 : non, Île-de-France Mobilités ne va pas demander la fermeture de Google Maps | Actu Paris
    https://actu.fr/ile-de-france/paris_75056/jo-de-paris-2024-non-ile-de-france-mobilites-ne-va-pas-demander-la-fermeture-de

    JO : la tentation autoritaire... bientôt on apprendra que les système de reconnaissance de visage permettront de mettre des amendes ou pire à ceux qui voudront se déplacer à leur guise plutôt que de suivre les itinéraires décidés par l’Etat olympien (pour ne pas dire jupitérien)

    Quelques jours plus tôt, chez nos confrères, Laurent Prosbt avait émis l’hypothèse d’appeler l’État à la rescousse si les applications d’aide aux déplacements (Google Maps, Citymapper et les autres) ne relayaient pas les itinéraires proposés par Île-de-France Mobilités.

    « On a demandé à Google Maps, Citymapper et les autres) de relayer nos plans de transports pour que le voyageur passe par le chemin qu’on lui a indiqué. « Nous avons confiance dans le fait qu’ils joueront le jeu. S’ils ne le font pas, il faudra que l’État prenne les décisions nécessaires. On leur demandera de fermer leur application. C’est un enjeu de sécurité publique », expliquait-il.

    Une nouvelle application créée par IDFM
    En parallèle, Île-de-France Mobilités proposera également son application pour se déplacer dans la capitale pendant les JO. Elle s’appellera « Transport Public Paris 2024 » et sera mise en service « au printemps 2024 », détaille Île-de-France Mobilités dans son communiqué.

    Quand on sait comment la police a si mal encadré les flux de spectateurs pour la finale européenne de foot il y a un an, leur autoritarisme fait peur...
    #carte #controle #déplacement #liberté #panoptisme numérique
    la France de #Macron

  • Conditions d’accès à la résidence des différents espaces de libre circulation
    https://migreurop.org/article3223.html

    Ce duo de #Cartes (voir "Conditions d’accès à la résidence des différents espaces de libre circulation") est issu de l’ « Atlas des migrations dans le monde : libertés de circulation, frontières, inégalités », dans lequel le réseau Migreurop, en explorant la notion de liberté de circulation, propose un traitement original et éclairant des enjeux migratoires contemporains. La liberté de circulation est à la fois un idéal à atteindre pour certaines personnes et une réalité déjà concrète pour d’autres. Cet (...) Cartes

    http://migreurop.org/article3223.html?var_mode=preview
    http://migreurop.org/article3119.html?lang_article=fr

  • “Refusés” de la #carte_de_presse : trois #journalistes lauréats du prix #Albert-Londres témoignent
    https://www.telerama.fr/debats-reportages/refuses-de-la-carte-de-presse-trois-journalistes-laureats-du-prix-albert-lo

    haque refus est une blessure », dit Hélène Lam Trong, lauréate du 39ᵉ #prix_Albert-Londres, catégorie audiovisuel, décerné en novembre 2023. À la suite de la parution d’une #tribune sur notre site dénonçant les conditions d’attribution de la carte de presse par la CCIPJ (Commission de la carte d’identité des journalistes professionnels), trois signataires témoignent des difficultés qu’ils rencontrent à faire valoir la réalité d’une profession qu’ils exercent pleinement : le journalisme.

    Sur le terrain, sans carte de #presse officielle (avec bandeau bleu blanc rouge et numéro), certains reporters sont en danger dans les pays où informer et enquêter dérange. Particulièrement vulnérables, les #reporters_indépendants qui partent sans le soutien d’une rédaction. Et pourtant, ces mêmes professionnels peuvent être honorés par la plus prestigieuse récompense du #journalisme_francophone : le prix Albert-Londres. Témoignages.

  • « Le Conseil constitutionnel n’a jamais défendu les droits des étrangers », Danièle Lochak [Gisti]

    Que peut-on attendre de la saisine actuelle du Conseil constitutionnel à propos de la loi immigration ?

    Danièle Lochak : Il y a trois éléments à prendre en compte. D’abord un élément de contexte général : on ne peut pas attendre grand-chose du Conseil constitutionnel lorsqu’il s’agit des droits des étrangers. Historiquement, à quelques nuances et réserves d’interprétation près, il a toujours validé l’ensemble des mesures votées par le législateur et accompagné sans ciller toutes les évolutions restrictives en la matière.

    Ainsi en matière d’enfermement – ce qu’on appelle aujourd’hui la rétention – le Conseil constitutionnel a d’abord dit en 1980 que sa durée devait être brève et placée sous le contrôle du juge judiciaire, garant de la liberté individuelle. Mais la durée maximale de rétention a été progressivement étendue : de sept jours, elle est passée à dix en 1993, puis douze en 1998, puis 32 en 2003, puis 45 jours en 2011, et enfin, 90 jours en 2018 , sans que le Conseil constitutionnel y trouve à redire.

    Il a affirmé que la lutte contre l’immigration irrégulière participait de la sauvegarde de l’ordre public, dont il a fait un objectif à valeur constitutionnelle. On voit mal, dans ces conditions, comment des mesures qui ont pour objectif proclamé de lutter contre l’immigration irrégulière pourraient être arrêtées par le contrôle de constitutionnalité…

    Autre exemple : en 1993, lors de l’examen de la loi Pasqua, le Conseil constitutionnel a affirmé que les étrangers en situation régulière bénéficient du droit de mener une vie familiale normale. Mais une fois ce principe posé, il n’a censuré aucune mesure restreignant le droit au regroupement familial. Ainsi, même lorsqu’il a rappelé des principes et reconnu que les étrangers devaient bénéficier des garanties constitutionnelles, il a toujours trouvé des aménagements qui ont permis de valider les dispositions législatives restrictives.

    Le président du Conseil constitutionnel Laurent Fabius a tancé le gouvernement, et rappelé que l’institution n’était pas « une chambre d’appel des choix du Parlement ». Le Conseil ne va-t-il pas se montrer plus sévère qu’à l’accoutumée ?

    D. L. : En effet, le deuxième élément qui change la donne est le contexte politique, avec un gouvernement qui annonce d’emblée que certaines dispositions sont contraires à la #Constitution et charge le Conseil constitutionnel de « nettoyer » la loi. C’est bien entendu grotesque : en élaborant la loi, les responsables politiques sont censés respecter la Constitution.

    Surtout, le Rassemblement national (#RN) s’est targué d’une « victoire idéologique ». C’est très habile de sa part. En réalité, voilà quarante ans que l’ombre portée du Front national (RN maintenant) pèse sur la politique d’immigration française. Depuis 1983 et l’élection partielle de Dreux où le #FN, allié à la droite, l’a emporté sur la liste de gauche menée par Françoise Gaspard, la droite court après l’extrême droite, et la gauche, de crainte de paraître laxiste, court après la droite sur les questions d’immigration.

    Hormis quelques lois, dont la loi de 1981 adoptée après l’arrivée de la gauche au pouvoir et celle de 1984 sur la carte de résident, ou encore la loi Joxe de 1989, la politique de la gauche n’a été qu’une suite de renoncements, maintenant l’objectif de « maîtrise des flux migratoires » et de lutte contre l’immigration irrégulière. Il n’y a que sur la nationalité qu’elle n’a jamais cédé.

    Cela étant, la revendication de victoire de la part du RN va probablement inciter le Conseil constitutionnel à invalider un plus grand nombre de dispositions de la loi que d’habitude, même si on ignore lesquelles.

    Dans la saisine du Conseil constitutionnel sont invoqués beaucoup de « cavaliers législatifs », des dispositions qui n’ont pas de rapport avec l’objet du texte. Le garant de la constitutionnalité de la loi va-t-il trouver là des arguments faciles pour censurer certaines dispositions ?

    D. L. : Oui, et c’est le troisième élément à prendre en considération dans les pronostics que l’on peut faire. La présence de nombreux cavaliers législatifs va faciliter la tâche du Conseil constitutionnel, car invalider une disposition pour des raisons procédurales est évidemment plus confortable que de se prononcer sur le fond. Le projet initial portait sur l’entrée, le séjour et l’éloignement des étrangers. Or le texte final, « enrichi » d’une multitude d’amendements, est loin de se limiter à ces questions.

    Le Conseil constitutionnel peut très bien estimer que les dispositions sur la #nationalité, pour ne prendre que cet exemple, qui relèvent du Code civil, sont sans rapport avec l’objet du texte, et les invalider. Alors même qu’en 1993, il avait validé le retour à la manifestation de volonté pour acquérir la nationalité française à partir de 16 ans pour les enfants d’étrangers nés en France, mesure phare de la loi Pasqua1.

    Il peut aussi invoquer « l’incompétence négative », qui désigne le fait pour le Parlement de n’avoir pas précisé suffisamment les termes de certaines dispositions et laissé trop de latitude au gouvernement pour les mettre en œuvre, sans compter les dispositions qui sont manifestement inapplicables tellement elles sont mal conçues.

    Mais si les dispositions sont invalidées sur ce fondement, rien n’empêchera leur retour dans un prochain texte puisque le Conseil constitutionnel aura fait une critique sur la forme et ne se sera pas prononcé sur le fond. Et puis il faut être conscient que, même s’il invalide un plus grand nombre de dispositions que d’habitude, il restera encore suffisamment de mesures iniques qui rendront la vie impossible aux étrangers résidant en France, fût-ce en situation régulière et depuis de très longues années.

    Le Conseil constitutionnel a tout de même consacré le principe de fraternité en 2018, et mis fin – au moins partiellement – au #délit_de_solidarité_ qui punit le fait d’aider les exilés dans un but humanitaire.

    D. L. : Oui, c’est un exemple qu’on met souvent en avant. Le « délit de solidarité » – ce sont les militants qui l’ont nommé ainsi, bien sûr – punit l’aide à l’entrée, au séjour et à la circulation des étrangers en situation irrégulière sur le territoire français. A l’époque, les avocats du militant Cédric Herrou avaient posé une question prioritaire de constitutionnalité (#QPC) au Conseil constitutionnel en invoquant le principe de fraternité, qui figure dans la devise républicaine.

    Le Conseil constitutionnel a en effet consacré la valeur constitutionnelle du principe de fraternité, et son corollaire, la liberté d’aider autrui dans un but humanitaire sans considération de la régularité de son séjour. Mais il a restreint la portée de cette liberté en n’y incluant pas l’aide à l’entrée sur le territoire, alors qu’à la frontière franco-italienne, par exemple, l’aide humanitaire est indispensable.

    Vous dressez un constat pessimiste. Cela vaut-il la peine que les associations continuent à contester les politiques migratoires devant les juges ?

    D. L. : Il faut distinguer les modes d’action. La saisine du Conseil constitutionnel après le vote de la loi est le fait de parlementaires et/ou du gouvernement, ou du président de la République.

    Les membres de la « société civile » (associations, avocats, professeurs de droit…) peuvent déposer des contributions extérieures, qu’on appelle aussi « portes étroites » . Celles-ci n’ont aucune valeur officielle, et le Conseil constitutionnel, même s’il les publie désormais sur son site, n’est obligé ni de les lire, ni de répondre aux arguments qui y sont développés.

    Les saisines officielles ont été accompagnées, cette fois, de très nombreuses portes étroites. Le #Gisti, une association de défense des droits des étrangers créée en 1972 et dont j’ai été la présidente entre 1985 et 2000, a décidé de ne pas s’y associer cette fois-ci, alors qu’il lui était arrivé par le passé d’en rédiger.

    Outre que le Gisti ne fait guère confiance au Conseil constitutionnel pour protéger les droits des étrangers, pour les raisons que j’ai rappelées, l’association a estimé que la seule position politiquement défendable était le rejet de la loi dans sa globalité sans se limiter aux dispositions potentiellement inconstitutionnelles. Elle ne souhaitait pas non plus prêter main-forte à la manœuvre du gouvernement visant à instrumentaliser le contrôle de constitutionnalité à des fins de tactique politicienne.

    Cela ne nous empêchera pas, ultérieurement, d’engager des contentieux contre les #décrets_d’application ou de soutenir les étrangers victimes des mesures prises sur le fondement de cette loi.

    Les associations obtiennent-elles plus de résultats devant le Conseil d’Etat et la Cour de Cassation ?

    D. L. : Les recours devant le Conseil d’Etat ont été historiquement la marque du Gisti. Il a obtenu quelques beaux succès qui lui ont valu de laisser son nom à des « grands arrêts de la jurisprudence administrative ». Mais ces succès ne doivent pas être l’arbre qui cache la forêt car, dans l’ensemble, ni le #juge_administratif – le plus sollicité – ni le #juge_judiciaire n’ont empêché la dérive constante du droit des étrangers depuis une quarantaine d’années.

    Ils n’ont du reste pas vraiment cherché à le faire. Les juges sont très sensibles aux idées dominantes et, depuis cinquante ans, la nécessité de maîtriser les flux migratoires en fait partie. Dans l’ensemble, le Conseil d’Etat et la Cour de Cassation (mais le rôle de celle-ci est moindre dans des affaires qui mettent essentiellement en jeu l’administration) ont quand même laissé passer moins de dispositions attentatoires aux droits des étrangers que le Conseil constitutionnel et ont parfois refréné les ardeurs du pouvoir.

    Il est vrai qu’il est plus facile pour le juge administratif d’annuler une décision du gouvernement (un décret d’application, une #circulaire), ou une mesure administrative individuelle que pour le juge constitutionnel d’invalider une loi votée par le parlement.

    Les considérations politiques jouent assurément dans le contentieux administratif – on l’a vu avec l’attitude subtilement équilibrée du Conseil d’Etat face aux dissolutions d’associations ou aux interdictions de manifestations : il a validé la #dissolution du CCIF (Collectif contre l’islamophobie en France) et de la (Coordination contre le racisme et l’islamophobie), mais il a annulé celle des Soulèvements de la Terre.

    Ces considérations jouent de façon plus frontale dans le contentieux constitutionnel, devant une instance qui au demeurant, par sa composition, n’a de juridiction que la fonction et craint d’être accusée de chercher à imposer « un gouvernement des juges » qui fait fi de la souveraineté du peuple incarnée par le Parlement.

    En s’en remettant au Conseil constitutionnel et en lui laissant le soin de corriger les dispositions qu’il n’aurait jamais dû laisser adopter, le gouvernement a fait assurément le jeu de la droite et de l’extrême droite qui vont évidemment crier au gouvernement des juges.

    Quelles seront les solutions pour continuer à mener la bataille une fois la loi adoptée ?

    D. L. : Les mêmes que d’habitude ! Le Conseil constitutionnel n’examine pas la conformité des lois au regard des conventions internationales, estimant que ce contrôle appartient à la Cour de cassation et au Conseil d’Etat. On pourra alors déférer à ce dernier les décrets d’application de la loi.

    Même si ces textes sont conformes aux dispositions législatives qu’ils mettent en œuvre, on pourra tenter de démontrer qu’ils sont en contradiction avec la législation de l’Union européenne, avec des dispositions de la Convention européenne telles qu’elles sont interprétées par la Cour de Strasbourg ou encore de la convention sur les droits de l’enfant.

    Ultérieurement, on pourrait envisager de demander à la Cour européenne des droits de l’homme la condamnation de la France. Mais on ne peut le faire qu’à l’occasion d’une affaire individuelle, après « épuisement » de tous les recours internes. Donc dans très longtemps.

    https://www.alternatives-economiques.fr/daniele-lochak-conseil-constitutionnel-na-jamais-defendu-droi/00109322

    (sauf pour les questions et la mention D.L., le graissage m’est dû)

    #loi_Immigration #xénophobie_d'État #étrangers #droit_du_séjour #lutte_contre_l’immigration_irrégulière #regroupement_familial #carte_de_résident #droit_du_sol #acquisition_de_la_nationalité #rétention #droit_des_étrangers #contentieux_administratif #Conseil_constitutionnel #Conseil_d'État #jurisprudence #jurisprudence_administrative #Cour_de_cassation #CEDH #conventions_internationales #Convention_européenne #convention_sur_les_droits_de_l’enfant

  • Le Chiapas, au sud du Mexique, saisi par la violence des trafics | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/le-chiapas-au-sud-du-mexique-saisi-par-la-violence-des-trafics

    La région du Chiapas est le théâtre d’affrontements entre les cartels. Pour toute réponse, l’État fédéral envoie l’armée, une mesure mal vécue par la population. La militarisation réveille les blessures du passé au sein des communautés indigènes qui ont subi les exactions des paramilitaires contre le mouvement zapatiste.

    https://justpaste.it/5nkry

    #Mexique #Chiapas #cartels #zapatistes #photo

    • « L’armée est liée aux cartels, tout le monde le sait, confie une habitante de Frontera Comalapa. Nous avons dit aux militaires qui sont les chefs et où ils se trouvent, c’est une petite ville et cela n’est pas un secret, mais leurs convois passent devant et ils ne font rien. » Au Chiapas, le rôle de l’#armée est fréquemment mis en cause par les habitant·es, et dans les communautés indigènes, beaucoup s’opposent à l’implantation des forces armées sur leur territoire.
      Mario Ortega, expert au Frayba, révèle que dans les zones où la Garde nationale occupe une base, l’association enregistre « une plus grande incidence de disparitions forcées, environ le double ». Selon le gouvernement, 15 000 militaires ont été déployés dans la région en 2023. Pas moins de 18 nouveaux quartiers de l’armée et de la Garde nationale ont été construits ou sont en travaux depuis 2020, mais la présence soutenue de l’armée au Chiapas n’est pas nouvelle. « Plus que de militarisation, nous parlons de remilitarisation », soutien Ortega. Depuis le soulèvement zapatiste en 1994, l’armée utilise les prétextes de la lutte contre le narcotrafic mais aussi des missions de service public, gestion de la pauvreté, réparation des désastres naturels, travaux publics ou contrôle migratoire, pour maintenir d’importants effectifs sur place.

  • De l’inégale géonumérisation du Monde - AOC media
    https://aoc.media/analyse/2023/12/31/de-linegale-geonumerisation-du-monde-2

    Ainsi, une forme de géonumérisation généralisée du Monde[1] se met progressivement en place. Ce terme permet de souligner l’importance de porter un regard, non sur un domaine particulier (la cartographie, la statistique, la topographie, etc.) ou un métier spécifique (les photo-interprètes, les arpenteurs-géomètres, les géomaticiens, etc.), mais sur des processus diffus et multiples qui se sont accélérés depuis une trentaine d’années autour de la transcription sous forme de données numériques de la plupart des objets, êtres, phénomènes, dispositifs, activités, images, œuvres de fiction, etc., localisables sur la surface terrestre. Or, cette géonumérisation du Monde est opérée par des systèmes opaques qui s’apparentent, de plus en plus, à de véritables boîtes noires algorithmiques.
    Ouvrir les boîtes noires algorithmiques

    Les systèmes géonumériques que nous utilisons au quotidien – des cartes en ligne comme Google Maps aux services de géolocalisation pour commander un taxi – sont personnalisés en fonction de nos centres d’intérêt (ou plutôt de la façon dont l’algorithme nous a profilé) et configurés en fonction des objectifs de leurs commanditaires. Ils sont donc avant tout des opérateurs de tri, de filtre, de combinaison, de fusion, d’appariement, d’intersection, d’extraction, d’union, de conversion, de re-projection… et in fine seulement de représentations cartographiques des données dont ils disposent. Soit autant d’opérations qui relèvent de choix techniques et politiques dont les intentionnalités comme la performativité méritent d’être analysées.

    Noyé sous un déluge de données numériques, comme le titrait, dès 2010, The Economist, le spectacle cartographique qui nous est donné à voir tous les jours n’a donc rien d’une évidence. Il mérite qu’on en analyse ses coulisses et secrets de fabrication. La métaphore naturalisante du déluge ravive d’ailleurs, une fois encore, les croyances positivistes autour des données dont Bruno Latour a pourtant clairement explicité dès 1987 qu’elles n’étaient pas données, mais fabriquées et que, par la même, on devrait plutôt les appeler des obtenues[2]. Rien d’inédit, donc, à souligner aujourd’hui l’impérieuse nécessité d’une dénaturalisation des données, fussent-elles embarquées dans des algorithmes qui les traitent et les redistribuent à la volée. Sauf que ces derniers se révèlent particulièrement opaques et qu’il est devenu complexe d’identifier où sont désormais les blancs des cartes et quels sont les effets potentiels de ces mises en invisibilité des lacunes cartographiques contemporaines.

    #Cartes #Cartographie #Algorithmes #Géonumérisation

  • Les cartes ou la mise en ordre du monde
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-suite-dans-les-idees/les-cartes-ou-la-mise-en-ordre-du-monde-6293300


    Carte de la Guyane

    Les cartes ou la mise en ordre du monde
    Samedi 23 décembre 2023

    La Suite dans les idées
    Provenant du podcast La Suite dans les idées
    Depuis toujours, les zones blanches des cartes apportent paradoxalement de nombreuses informations. Mais depuis la géonumérisation du monde et la multiplication des cartographies, le #blanc_des_cartes a changé. Avec le géographe Matthieu Noucher et l’architecte Francesco Sebregondi.

    Avec
    Matthieu Noucher géographe
    Francesco Sebregondi Architecte, fondateur et directeur de l’association INDEX

    Pour composer son Livre blanc, paru en 2007, l’écrivain Philippe Vasset avait arpenté de long en large l’Île de France à la découverte systématique de toutes les zones qui apparaissaient en blanc sur les cartes de l’Institut National de Géographie. Ce blanc des cartes fascine depuis toujours les géographes. Mais le blanc des cartes n’est plus ce qu’il était. Non pas qu’il disparaisse à mesure que progresse la connaissance des territoires, au contraire. Avec la numérisation du monde et la multiplication des cartes, les zones blanches prolifèrent. Matthieu Noucher a mené l’enquête pour comprendre comment désormais les boites noires des algorithmes produisent les blancs des cartes. Il est cette semaine l’invité de La Suite dans les Idées. Rejoint par Francesco Sebregondi, un architecte, qui lui aussi produit des cartes et d’autres types de données pour Index, l’ONG qu’il a fondée.

    Pour aller plus loin
    L’ouvrage de Matthieu Noucher, Blancs des cartes et boîtes noires algorithmiques, CNRS éditions, mai 2023
    Le site web de l’association INDEX, fondée par Francesco Sebregondi : index.ngo

    Musique : William Eggleston - Over the rainbow

    #contre_cartes #contre_enquêtes #géo-numérisation_du_monde #cartes_personnalisées #trait_de_côte

  • Permessi in mano straniera : il vero #business è rivenderli

    La crescita della domanda delle materie prime critiche ha rimesso le miniere al centro dell’agenda politica italiana. Ma sono compagnie extra-UE a fare da protagoniste in questa rinascita perché la chiusura delle miniere negli anni ’80 ha spento l’imprenditoria mineraria italiana.

    “Nelle #Valli_di_Lanzo l’attività mineraria risale al XVIII secolo, quando il cobalto era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche. Poi l’estrazione non era più conveniente e le miniere sono state chiuse negli anni ‘20” dice a IE Domenico Bertino, fondatore del museo minerario di Usseglio, Piemonte. Adesso, grazie a una società australiana, i minatori potrebbero tornare a ripopolare le vette alpine.

    Secondo Ispra quasi tutti i 3015 siti attivi in Italia dal 1870 sono dismessi o abbandonati. Ma la crescita della domanda di materie prime critiche (CRM) ha fatto tornare le miniere al centro dell’agenda politica.

    “Abbiamo 16 materie critiche in miniere che sono state chiuse oltre trent’anni fa. Era più facile far fare l’estrazione di cobalto in Congo, farlo lavorare in Cina e portarlo in Italia” ha detto a luglio il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso, ribadendo la volontà del governo di riaprire le miniere. Oltre al cobalto in Piemonte, ci sono progetti per la ricerca di piombo e zinco in Lombardia, di litio nel Lazio e di antimonio in Toscana.

    I protagonisti di questa “rinascita mineraria”, che dovrebbe rendere l’Italia meno dipendente da paesi terzi, sono compagnie canadesi e australiane. Dei 20 permessi di esplorazione attivi, solo uno è intestato a una società italiana (Enel Green Power).

    La ragione è che “le scelte politiche fatte negli anni ‘80 hanno portato alla chiusura delle miniere. E così la nostra imprenditoria mineraria si è spenta e la nuova generazione ha perso il know how” spiega Andrea Dini, ricercatore del CNR.

    La maggior parte sono junior miner, società quotate in borsa il cui obiettivo è ottenere i permessi e vendere l’eventuale scoperta del giacimento a una compagnia mineraria più grande. “Spesso quando la società mineraria dichiara di aver scoperto il deposito più grande del mondo, il più ricco, il più puro, cerca solo di attrarre investitori e far decollare il valore del titolo” spiega Alberto Valz Gris, geografo ed esperto di CRM del Politecnico di Torino, promotore di una carta interattiva (http://frontieredellatransizione.it) che raccoglie i permessi di ricerca mineraria per CRM in Italia.

    Tra le junior miner presenti in Italia spicca Altamin, società mineraria australiana che nel 2018 ha ottenuto i primi permessi di esplorazione (https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/Info/1760) per riaprire le miniere di cobalto di Usseglio e Balme, in Piemonte. “Finora sono state effettuate solo analisi in laboratorio per capire la qualità e quantità del cobalto” spiega Claudio Balagna, appassionato di mineralogia che ha accompagnato in alta quota gli esperti di Altamin. “Ma da allora non abbiamo saputo più nulla", dice a IE Giuseppe Bona, assessore all’ambiente di Usseglio, favorevole a una riapertura delle miniere che potrebbe creare lavoro e attirare giovani in una comunità sempre più spopolata.

    A Balme, invece, si teme che l’estrazione possa inquinare le falde acquifere. “Non c’è stato alcun dialogo con Altamin, quindi è difficile valutare quali possano essere i risvolti eventualmente positivi" lamenta Giovanni Castagneri, sindaco di Balme, comune che nel 2020 ha ribadito l’opposizione “a qualsiasi ricerca mineraria che interessi il suolo e il sottosuolo”.

    “Le comunità locali sono prive delle risorse tecniche ed economiche per far sentire la propria voce” spiega Alberto Valz Gris.

    Per il governo Meloni la corsa alla riapertura delle miniere è una priorità, con la produzione industriale italiana che dipende per €564 miliardi di euro (un terzo del PIL nel 2021) dall’importazione di materie critiche extra-UE. Tuttavia, a oggi, non c’è una sola miniera di CRM operativa in Italia.

    Nel riciclo dei rifiuti le aziende italiane sono già molto forti. L’idea è proprio di puntare sull’urban mining, l’estrazione di materie critiche dai rifiuti, soprattutto elettronici, ricchi di cobalto, rame e terra rare. Ma, in molti casi, la raccolta e il riciclo di queste materie è oggi ben al di sotto dell’1%. “Un tasso di raccolta molto basso, volumi ridotti e mancanza di tecnologie appropriate non hanno permesso lo sviluppo di una filiera del riciclaggio delle materie critiche”, dice Claudia Brunori, vicedirettrice per l’economia circolare di ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Oltre alla mancanza di fondi: nel PNRR non sono previsti investimenti per le materie prime critiche.

    Un’altra strategia è estrarre CRM dalle discariche minerarie. Il Dlgs 117/08 fornisce indicazioni sulla gestione dei rifiuti delle miniere attive, ma non fornisce riferimenti per gli scarti estrattivi abbandonati. Così “tali depositi sono ancora ritenuti rifiuti e non possono essere considerati nuovi giacimenti da cui riciclare le materie” denuncia l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che chiede una modifica normativa che consenta il recupero delle risorse minerarie.

    https://www.investigate-europe.eu/it/posts/permessi-in-mano-straniera-il-vero-business-rivenderli
    #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #Alberto_Valz_Gris #permis_d'exploration #Usseglio #Piémont #Adolfo_Urso #plomb #zinc #Lombardie #Latium #Toscane #antimoine #Enel_Green_Power #junior_miner #Altamin #Australie #Balme #urban_mining #recyclage #économie_circulaire #déchets

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Guerre au Proche-Orient : à #Beyrouth, #Mona_Fawaz résiste par la #cartographie

    Professeure d’urbanisme et cofondatrice du #Beirut_Urban_Lab, la chercheuse cartographie le conflit à la frontière entre le #Liban et Israël. Et montre ainsi le « déséquilibre profond » entre les attaques visant le territoire libanais et celles ciblant le sol israélien.

    « Je suis entrée dans le centre de recherche ; tous mes collègues avaient les yeux rivés sur les nouvelles, l’air horrifié. C’est là que nous nous sommes dit que nous ne pouvions pas simplement regarder : il fallait agir, et le faire du mieux possible », se rappelle Mona Fawaz, professeure d’urbanisme à l’Université américaine de Beyrouth (AUB) et cofondatrice du Beirut Urban Lab, un laboratoire de recherche interdisciplinaire créé en 2018 et spécialisé dans les questions d’#urbanisme et d’#inclusivité.

    Lundi 4 décembre, dans ce centre de recherche logé à l’AUB, près de deux mois après l’attaque sans précédent du groupe militant palestinien Hamas en Israël et le début des bombardements intensifs de l’armée israélienne sur la bande de Gaza, elle revoit l’élan impérieux qui a alors saisi ses collègues du Beirut Urban Lab, celui de cartographier, documenter et analyser.

    « Certains ont commencé à cartographier les dommages à #Gaza à partir de #photographies_aériennes. Personnellement, j’étais intéressée par la dimension régionale du conflit, afin de montrer comment le projet colonial israélien a déstabilisé l’ensemble de la zone », y compris le Liban.

    La frontière sud du pays est en effet le théâtre d’affrontements violents depuis le 8 octobre entre #Israël et des groupes alliés au #Hamas emmenés par le #Hezbollah, une puissante milice soutenue par l’#Iran. Qualifiés de « #front_de_pression » par le chef du Hezbollah, Hassan Nasrallah, les #combats sur le #front_libanais, qui visent notamment à détourner l’effort militaire israélien contre Gaza, ont tué au moins 107 personnes du côté libanais, dont 14 civils. Du côté israélien, six soldats et trois civils ont été tués.

    C’est ainsi que l’initiative « Cartographier l’escalade de violence à la frontière sud du Liban » est née. Le projet répertorie le nombre de #frappes quotidiennes et leur distance moyenne par rapport à la frontière depuis le début du conflit, en s’appuyant sur les données collectées par l’ONG Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled : https://acleddata.com). Sur son écran d’ordinateur, Mona Fawaz montre une #carte_interactive, une des seules en son genre, qui révèle un déséquilibre saisissant entre les attaques revendiquées par Israël, au nombre de 985 depuis le début du conflit, et celles menées depuis le Liban : 270 frappes répertoriées sur le sol israélien.

    L’occasion pour Mona Fawaz de questionner les expressions répétées dans les médias, qui façonnent la compréhension du conflit sans remettre en cause leurs présupposés. « On parle de tirs transfrontaliers, par exemple, alors même qu’il y a un déséquilibre profond entre les deux parties impliquées », souligne-t-elle. « Une distorsion médiatique » que la chercheuse dénonce aussi dans la couverture de l’offensive israélienne contre l’enclave palestinienne.

    Une « lutte partagée » avec les Palestiniens

    Pour Mona Fawaz, il est important de documenter un conflit dont les racines vont au-delà des affrontements présents. « La création de l’État d’Israël en 1948 a provoqué une perturbation majeure au sud du Liban, brisant [ses] liens historiques, sociaux, politiques et économiques » avec la Galilée, explique-t-elle.

    Des bouleversements que la chercheuse, originaire du village de Tibnine, dans le sud du pays, connaît bien, puisqu’ils ont marqué son histoire familiale et personnelle. Elle explique que la proximité entre les populations était telle qu’au cours de la « #Nakba » (la « catastrophe », en arabe) en 1948 – l’exode massif de plus de 700 000 Palestinien·nes après la création de l’État d’Israël –, sa mère a été évacuée de son village aux côtés de Palestinien·nes chassés de leurs terres. « Les déplacés ne savaient pas où s’arrêteraient les Israéliens, raconte-t-elle. Dans cette région du Liban, on a grandi sans sentir de différences avec les Palestiniens : il y a une lutte partagée entre nous. »

    En 1982, Mona Fawaz, qui avait alors à peine 9 ans, vit plusieurs mois dans son village sous l’occupation de l’armée israélienne, qui a envahi le pays en pleine guerre civile (1975-1990) afin de chasser du Liban l’Organisation de libération de la Palestine (OLP). Elle se souvient des scènes d’#humiliation, des crosses des fusils israéliens défonçant le mobilier chez son grand-père. « Ce n’est rien par rapport à ce que Gaza vit, mais il y a définitivement un effet d’association pour moi avec cette période », explique-t-elle.

    Dans le petit pays multiconfessionnel et extrêmement polarisé qu’est le Liban, l’expérience de la chercheuse n’est cependant pas générale. Si une partie des Libanais·es, notamment dans le sud, est marquée par la mémoire des guerres contre Israël et de l’occupation encore relativement récente de la région – les troupes israéliennes se sont retirées en 2000 du Sud-Liban –, une autre maintient une défiance tenace contre la #résistance_palestinienne au Liban, notamment tenue responsable de la guerre civile.

    Celle qui a ensuite étudié au Massachusetts Institute of Technology (MIT), à Boston (États-Unis), pour y faire son doctorat en aménagement urbain à la fin des années 1990, explique ensuite qu’il a fallu des années aux États-Unis pour réaliser que « même le soldat qui est entré dans notre maison avait été conditionné pour commettre des atrocités ». Si l’ouverture à d’autres réalités est une étape indispensable pour construire la paix, c’est aussi un « luxe », reconnaît la chercheuse, qui semble hors de portée aujourd’hui. « L’horreur des massacres à Gaza a clos toute possibilité d’un avenir juste et pacifique », soupire-t-elle.

    Le tournant de la guerre de 2006

    Peu après son retour au Liban en 2004, Mona Fawaz se concentre sur les questions de l’informalité et de la justice sociale. Un événement majeur vient bouleverser ses recherches : le conflit israélo-libanais de 2006. Les combats entre Israël et le Hezbollah ont causé la mort de plus de 1 200 personnes du côté libanais, principalement des civil·es, en seulement un mois de combat.

    Du côté israélien, plus de 160 personnes, principalement des militaires, ont été tuées. Cette guerre va être une expérience fondatrice pour le Beirut Urban Lab. C’est à ce moment que ses quatre cofondateurs, Mona Fawaz, Ahmad Gharbieh, Howayda Al-Harithy et Mona Harb, chercheurs et chercheuses à l’AUB, commencent leurs premières collaborations sur une série de projets visant à analyser l’#impact de la guerre. L’initiative actuelle de cartographie s’inscrit en continuité directe avec les cartes quotidiennes produites notamment par #Ahmad_Gharbieh en 2006. « Le but était de rendre visible au monde entier le caractère asymétrique et violent des attaques israéliennes contre le Liban », explique Mona Fawaz.

    Dans les années qui suivent, les chercheurs participent à plusieurs projets en commun, notamment sur la militarisation de l’#espace_public, le rôle des réfugié·es en tant que créateurs de la ville ou la #privatisation des #biens_publics_urbains, avec pour objectif de faire de la « donnée un bien public », explique Mona Fawaz, dans un « pays où la collectivité n’existe pas ». « Nos recherches s’inscrivent toujours en réponse à la réalité dans laquelle nous vivons », ajoute-t-elle. Une réalité qui, aujourd’hui dans la région, est de nouveau envahie par la guerre et les destructions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/121223/guerre-au-proche-orient-beyrouth-mona-fawaz-resiste-par-la-cartographie

    #résistance

    ping @visionscarto @reka

    • #Beirut_Urban_Lab

      The Beirut Urban Lab is a collaborative and interdisciplinary research space. The Lab produces scholarship on urbanization by documenting and analyzing ongoing transformation processes in Lebanon and its region’s natural and built environments. It intervenes as an interlocutor and contributor to academic debates about historical and contemporary urbanization from its position in the Global South. We work towards materializing our vision of an ecosystem of change empowered by critical inquiry and engaged research, and driven by committed urban citizens and collectives aspiring to just, inclusive, and viable cities.

      https://beiruturbanlab.com

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      Mapping Escalation Along Lebanon’s Southern Border Since October 7

      Since October 7, the Middle East has occupied center stage in global media attention. Already rife with uncertainty, subjected to episodic bouts of violence, and severely affected by an ongoing project of ethnic cleansing for 75 years in Historic Palestine, our region is again bearing the weight of global, regional, and local violence. As we witness genocide unfolding and forceful population transfers in Gaza, along with an intensification of settler attacks in the West Bank and Jerusalem and the silencing of Palestinians everywhere, the conflict is also taking critical regional dimensions.

      As part of its effort to contribute to more just tomorrows through the production and dissemination of knowledge, the Beirut Urban Lab is producing a series of maps that document and provide analytical insights to the unfolding events. Our first intervention comes at a time in which bombs are raining on South Lebanon. Titled Escalation along Lebanon’s Southern Border since October 7, the platform monitors military activity between the Israeli Armed Forces and Lebanese factions. Two indicators reflect the varying intensity of the conflict: the number of daily strikes and the average distance of strikes from the border.

      The map uses data from the Armed Conflict Location and Event Data (ACLED) crisis mapping project, which draws upon local reporting to build its dataset. Since ACLED updates their dataset on Mondays, site visitors can expect updates to our mapping and analysis to be released on Tuesday afternoons. Please refer to ACLED’s methodology for questions about data sources and collection.

      As of November 14, the frequency and distribution of strikes reveals a clear asymmetry, with northward aggression far outweighing strikes by Lebanese factions. The dataset also indicates a clear escalation, with the number of incidents increasing day by day, particularly on the Lebanese side of the border.

      We see this contribution as an extension of our previous experiences in mapping conflicts in Lebanon and the region, specifically the 2006 Israeli assault on Lebanon.

      https://beiruturbanlab.com/en/Details/1958/escalation-along-lebanon%E2%80%99s-southern-border-since-october-7
      #cartographie_radicale #cartographie_critique #visualisationi

  • Espagne : La communauté sénégalaise alerte sur des difficultés d’obtention de passeports
    https://www.dakaractu.com/Espagne-La-communaute-senegalaise-alerte-sur-des-difficultes-d-obtention-

    Espagne : La communauté sénégalaise alerte sur des difficultés d’obtention de passeports
    La communauté sénégalaise d’Espagne alerte sur des difficultés majeures pour l’obtention de passeports auprès du consulat général du Sénégal à Madrid. Selon une note transmise à la rédaction de Dakaractu, « cette situation a plongé la communauté dans une tourmente, menaçant la stabilité juridique et la vie quotidienne de nos compatriotes ». Notre source explique que « la pénurie de passeports crée une série d’obstacles, empêchant le renouvellement ou l’acquisition de la carte de séjour et met en danger le statut légal de nombreux Sénégalais en Espagne.
    De plus, l’absence de ce document vital constitue une complication quasi insurmontable pour les prestations sociales et la demande de nationalité espagnole, entre autres, privant ainsi la communauté sénégalaise d’opportunités essentielles d’intégration et de bien-être.
    Les nouveaux arrivants en Espagne dans les embarcations de fortune aussi porteurs d’espoir de nombreuses familles rencontrent également toutes les difficultés du monde pour obtenir un certificat de résidence, document essentiel dans le processus de régularisation de leur séjour », révèle le document, qui souligne que, « ce problème de passeport est encore plus préoccupant pour les nouveau-nés, qui se retrouvent dans une situation de vulnérabilité et sans protection juridique et sanitaire ».
    La note rappelle la promesse faite, il y’a quelques années sur la validité des passeports et l’installation d’un consulat à Barcelone. "Le département des Sénégalais de l’extérieur, par le biais de son secrétaire d’État de l’époque, avait annoncé avec enthousiasme que les passeports auraient une validité de dix ans. Cependant, cette promesse tant attendue tarde à se concrétiser, tout comme l’installation d’un consulat à Barcelone que le président Macky Sall avait annoncé en grande pompe, lors de sa première et dernière venue en Espagne en décembre 2015. Toutefois, « Malgré leurs promesses de mesures concrètes pour améliorer la vie des Sénégalais d’Espagne, nous constatons que ces engagements n’ont pas été suivis d’actions concrètes. Les attentes sont élevées, mais jusqu’à présent, les résultats sont en deçà des attentes, pour ne pas dire inexistants.
    Il est essentiel que le gouvernement sénégalais prenne des mesures immédiates pour remédier à cette situation et tenir ses engagements envers la communauté sénégalaise établie en Espagne », se désole notre source qui estime : « il est aussi primordial que le gouvernement sénégalais prenne des mesures concrètes pour résoudre ce problème, en garantissant un approvisionnement adéquat en talons de passeport et en améliorant le processus de délivrance des documents. Cela permettra de restaurer la stabilité et la confiance au sein de la communauté sénégalaise établie en Espagne ». Pour la communauté sénégalaise vivant en Espagne, "la situation exige une action urgente de la part du gouvernement sénégalais, afin de protéger les droits et le bien-être de nos compatriotes vivant au royaume de Don Felipe VI. Sous ce rapport, une solution rapide et efficace s’impose, conclut le document.

    #Covid-19#migrant#migration#espagne#senegal#diaspora#passeport#statutlegal#cartedesejour#sante#bienetre

  • Je connais depuis toujours cette célèbre image de Paris, la carte postale du bouquiniste à la pipe avec au fond Notre Dame. [EDIT] D’autant plus que ce photographe était un proche. Il se faisait parfois enfermé dans la cathédrale pour capter les premières lueurs de l’aube sur Paris.
    C’était un fou de Paris, il s’appelait Pierre Yves Petit (1886-1969) et signait Yvon, au début en grattant la plaque de verre avec une plume, il a été un des premiers photographes éditeurs de cartes postales, tu sais, ces images que l’on s’envoyait par la poste quand on faisait du tourisme et que les appareils photos n’étaient pas encore dans nos téléphones de poche.

    petit hommage aux souris déglinguées autant que les bouquinistes par la politique olympique préfectorale, salut papy !

    Et je vois en publiant ici qu’internet s’approprie aussi cette image, comme la préfecture celle de Paris, je laisse la honte de ce sens unique rouge et injuste, c’est tout à fait représentatif de ce que je voulais dénoncer.

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #TotalÉnergies : la #carte des #projets qui vont faire flamber le climat

    La date choisie n’est pas anodine : le 18 mai 2021 coïncide avec la parution du rapport Net Zero 2050 de l’Agence internationale de l’énergie (AIE). Ce document, réalisé par une organisation intergouvernementale qui défend la soutenabilité énergétique de la planète, préconisait l’arrêt immédiat du développement ou de l’extension de tout nouveau projet pétrogazier afin de contenir le réchauffement global des températures mondiales en dessous de 1,5 °C. Fixé par les scientifiques, ce seuil permettrait d’éviter un niveau insoutenable de réchauffement, qui se traduirait par la multiplication des catastrophes naturelles. Dix jours plus tard, le 28 mai, lors de l’assemblée générale de TotalÉnergies, son PDG, Patrick Pouyanné, avait assuré vouloir transformer le groupe en « une major de l’énergie verte » pour faire face à « la révolution énergétique en cours ». Pour marquer son ambition, l’entreprise Total s’était rebaptisée TotalÉnergies.
    Feu vert pour treize projets

    Depuis, il n’y a pourtant pas eu de tournant vert, encore moins de révolution. Bien au contraire.

    Comme le montre la carte de Reporterre, TotalÉnergies a annoncé ou reçu une « décision finale d’investissement », ce qui correspond à un feu vert pour lancer la production d’hydrocarbures, pour au moins treize nouveaux projets fossiles dont la compagnie française est l’opératrice ou l’actionnaire.

    Le 1er février 2022, elle a par exemple annoncé sa décision finale d’investir dans le forage de 400 puits dans le cadre des projets pétroliers de Tilenga et Kingfisher en Ouganda, rattachés à l’oléoduc East African Crude Oil Pipeline (Eacop), long de 1 440 kilomètres. Ils devraient rentrer en production en 2025 et atteindre une production cumulée de 230 000 barils par jour.
    Au moins une gigatonne de CO2 supplémentaire

    Quelques mois plus tôt, elle avait officialisé le lancement de la quatrième phase du projet Mero, situé en eaux profondes à 180 kilomètres des côtes de Rio de Janeiro, dans le bassin de Santos : une unité flottante de production d’une capacité de traitement liquide de 180 000 barils par jour. Son démarrage est prévu d’ici à 2025.

    Si l’on en croit les données du cabinet Rystad Energy, une société indépendante de recherche énergétique et de veille économique, communiquées à Reporterre par l’ONG Reclaim Finance, le projet North Field South, au Qatar, a obtenu sa décision finale d’investissement en 2023. Celui-ci fait partie de l’ensemble de projets North Field, pour lesquels TotalÉnergies a été sélectionné comme premier partenaire international de Qatar Energy, leur opérateur. Ils constituent, selon le Guardian et les scientifiques de l’université de Leeds, la troisième plus grosse « bombe carbone » au monde, et la première à ne pas déjà être en exploitation.

    Au total, si l’intégralité du pétrole et du gaz des projets validés par TotalÉnergies depuis mai 2021 était brûlée, cela représenterait au minimum une gigatonne de CO2 supplémentaire rejetée dans l’atmosphère. C’est 2,5 fois plus que les émissions annuelles de gaz à effet de serre de la France. L’estimation des émissions par projet provient des calculs estimatifs réalisés par Reporterre via les métriques King.
    Seize projets dans les starting blocks

    Le groupe français était, en 2022, la troisième firme mondiale ayant approuvé le plus de nouveaux projets pétrogaziers. Il était même la première entreprise privée, derrière les sociétés publiques saoudienne et iranienne.

    Reporterre a fait le choix de ne pas retenir, dans sa carte et ses calculs d’émissions, les projets ayant obtenu une décision finale d’investissement avant le 18 mai 2021, même s’ils sont entrés en phase de production entre temps. N’y figure pas, par exemple, le projet North Field East, que Total a rejoint en juin 2022, mais qui avait reçu sa décision finale d’investissement en février 2021.

    Nous avons aussi trouvé seize autres projets, au minimum, qui sont dans les starting blocks, en attente d’une décision finale d’investissement. Celle du projet d’extraction et d’exportation de gaz Papua LNG est prévue pour le début de 2024 en Papouasie-Nouvelle-Guinée. Feu vert serait alors donné à l’installation de neuf puits, d’une usine de traitement du gaz, d’un gazoduc long de 320 kilomètres — majoritairement offshore — et de quatre trains de liquéfaction. La production, à hauteur de 6 millions de tonnes de gaz liquéfié par an, pourrait démarrer fin 2027 ou début 2028. « C’est une catastrophe pour les communautés papouasiennes, qui ont déjà les pieds dans l’eau », déclarait à Reporterre Peter Bosip, représentant du Centre pour les droits communautaires et la loi environnementale (Celcor), une ONG locale.

    « TotalÉnergies méprise autant les conclusions et recommandations scientifiques que la vie des citoyens »

    Signe d’une volonté inépuisable de poursuivre la production d’énergies fossiles, nous avons aussi relevé une soixantaine de projets d’exploration de nouveaux gisements pétrogaziers de la part de TotalÉnergies. Nous avons décidé de ne pas faire figurer les projets pour lesquels l’exploration n’a pas été probante et sur lesquels il est de notoriété publique que TotalÉnergies compte se retirer. Ces résultats sont corroborés par le rapport « Global Oil and Gas Exit List » publié le 15 novembre par l’ONG allemande Urgewald, qui montre que la compagnie française est celle qui explore ou développe de nouveaux champs dans le plus grand nombre de pays : 53.

    « Avec ces nouveaux projets pétroliers et gaziers, TotalÉnergies méprise autant les conclusions et recommandations scientifiques internationales que la vie des citoyens, dénonce Hadrien Goux, chargé de recherche et de plaidoyer carbone pour Bloom. Elle a pour réponse systématique que l’entreprise sera « neutre en carbone » à l’horizon 2050, laissant entendre que cela constitue un engagement suffisant, mais c’est faux : elle omet la nécessité de réduire ses émissions de CO2 de 45% d’ici 2030. Continuer d’investir dans les hydrocarbures est un choix criminel. »

    Le Programme de l’ONU pour l’environnement (PNUE), dans son rapport publié le 20 novembre sur l’écart entre les besoins et les perspectives en matière de réduction des émissions, pointe un décalage entre l’urgence climatique et les actions actuellement menées. Son constat est proche de celui contenu dans « l’avertissement » de Total : il montre que le monde va faire face à un réchauffement de 2,5 °C à 2,9 °C d’ici 2100.

    Mais, tandis que TotalÉnergies continue d’aller chercher du #gaz et du pétrole dans les sols, le secrétaire général de l’ONU, António Guterres, a une autre analyse. Il appelle à arracher d’urgence « les racines empoisonnées de la crise climatique : les énergies fossiles ».

    #visualisation #cartographie #industrie_pétrolière #énergie #énergies_fossiles #projets_pétroliers #pétrole #monde

  • Beirut Urban Lab sur X : « Timeline and Map of Escalation along Lebanon’s souther Border (Oct. 7 - Nov. 9) https://t.co/cJCgQe7SwI » / X
    https://twitter.com/BeirutUrbanLab/status/1724476410792694075


    Une puissante représentation de la guerre de basse intensité (par rapport à Gaza) au #Liban-Sud entre #Israël et le #Hezbollah #carte
    Le site interactif du Beirut urban lab est là : https://aub.maps.arcgis.com/apps/dashboards/2a3cd18fa4f4400ba5ee330273117f95
    Et un article dans The National par Nada Maucourant-Atallah https://www.thenationalnews.com/mena/lebanon/2023/11/16/israel-has-struck-lebanese-territory-553-times-since-october-8-figu

  • Spotlight on the Borderlands: Mapping Human Rights

    The Spotlight initiative aims to create tools and resources to deepen the understanding of the border and animate social change.

    Through digital mapping, storytelling, and participatory popular education methodologies, we aim to highlight the complex topographies and cartographies of human rights at the border.

    The human rights map provides a visual narrative of the effects of militarization and deterrence on border communities and those migrating through the U.S.-Mexico border region. This map also displays a set of human rights indicators to facilitate monitoring, progress, and fulfilling governments’ obligations in protecting the rights of migrants, refugees, and communities along the borderlands.

    https://spotlight.nnirr.org/map/?eType=EmailBlastContent&eId=2a989d1c-8953-4ea1-bf32-b4c6c4242197

    #cartographie #visualisation #morts_aux_frontières #droits_humains #USA #Etats-Unis #Mexique #carte_interactive #checkpoints #rétention #détention_administrative #solidarité #hôpitaux
    ping @fil @reka

  • L’#agriculture n’est pas une carte postale

    Dans les #Alpes_Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de carte postale pour le #tourisme. Je suis devenu agriculteur à 25 ans. Et depuis, à part des bâtons dans les roues, je/nous n’avons jamais reçu aucune aide. Donc ce que je propose, c’est qu’on devienne tous intermittents du spectacle. Par #Cédric_Herrou.

    La question de l’agriculture dans la vallée de la Roya, et plus largement dans les Alpes-Maritimes, c’est une question qui comporte quelque chose de très surprenant : nous avons des politiques qui nous parlent de « #culture_identitaire ». Il s’agit du seul département, à ma connaissance, où l’on parle de « culture identitaire » à propos des #olives. Alors même que c’est un arbre du bassin méditerranéen, cultivé par des Marseillais, des Niçois, des Italiens, des Égyptiens… C’est une « #identité » de la Méditerranée dans son ensemble.

    C’est un détail, mais il est porteur de quelque chose : les Alpes-Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de #carte_postale pour le tourisme.

    Nous l’avons vu lors de la #tempête_Alex, en octobre 2020 (1). J’étais alors agriculteur depuis 2006, donc depuis une quinzaine d’années. J’ai depuis cédé mon exploitation agricole à #Emmaüs-Roya, première #communauté_Emmaüs entièrement agricole. Cette exploitation faisait, auparavant, moyennement vivre une seule personne (moi) ; il nous a fallu à partir de là faire vivre quinze personnes, et dans des conditions matérielles beaucoup plus confortables que quand je vivais seul. Nous avons donc dû transformer ces 5 hectares en quelque chose de plus gros, de plus productif, -de plus professionnalisé.

    Nous voulions donc nous agrandir, et faire du #maraîchage sur des terrains où il était plus facile de le faire -donc, sur un terrain plat, ce qui est très rare ici.

    Ainsi, suite à la tempête, dans un contexte où ils voulaient relancer l’agriculture dans la vallée de la Roya -patin-couffin et blablabla-, il y a eu une réunion avec les associations, et nous avons eu rendez-vous avec Sébastien Olharan, maire de Breil-sur-Roya, avec la CARF (communauté d’agglomération de la Riviera française), et aussi, très important, avec la #SAFER (Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural, supposément voué au soutien tout projet viable d’installation en milieu rural).

    Ils nous ont tous dit qu’ils adoraient ce que ce nous faisions. Que c’était super, que c’était génial. « Bien évidemment, nous préférons vous voir planter des tomates qu’héberger des noirs, mais en tous les cas, la partie agriculture, c’est très bien ! » Par contre, ils n’avaient pas de terrain à nous proposer. Rien. Car les terrains plats étaient déjà « réservés », qui pour un terrain de basket, qui pour un parking…

    J’étais donc bien saoulé. Et j’ai décidé de faire moi-même mes recherches, sur Le Bon Coin. Et je peux donc le dire : le Bon Coin est beaucoup plus efficace que la mairie de Breil, la CARF et la SAFER - dont c’est pourtant la fonction. Car sur ce site, je trouve un terrain qui est à vendre depuis des mois sur la commune de Saorge, non loin. Nous l’avons acheté, et nous y développons donc aujourd’hui une partie de nos activités.

    En temps normal, la SAFER surveille les ventes. Elle est supposée être LA référence pour savoir où des terrains potentiellement exploitables sont à acheter. Et là, nous avions un terrain en bord de route, avec de l’eau car à côté de la Roya, de l’eau potable également, l’accès à l’électricité, et un hectare de terrain plat. Ce qui, dans notre vallée, n’est vraiment pas rien. D’autant plus qu’une maison présente sur ce lieu a été rasée car trop proche de l’eau, ce qui en a fait du même coup des terres agricoles.

    La mairie, la #CARF et la SAFER étaient donc forcément au courant.

    La même chose s’est produite, 10 ans auparavant, avec un terrain situé à 100 mètres d’une zone que nous exploitons déjà, à Veil, chez mes parents. Il s’est vendu 2 fois plus cher que ce qu’avaient vu des amis à moi venu y jeter un œil : dans mes souvenirs, quelque chose comme 80 000 euros, au lieu des 40 000 annoncés. C’est la CARF qui l’avait acheté, et revendu à la mairie de Breil-sur-Roya, avec la promesse d’un projet agricole - qui n’a jamais eu lieu. Quand nous avons questionné la mairie sur ce point, car nous voulions récupérer ces terres, ils nous ont dit non, et prétexté vouloir y développer des activités... touristiques - dans un lieu sans eau potable, sans évacuation des eaux usées, et surtout qui est une zone agricole, donc non destinée à quoi que ce soit lié au tourisme. Et on en revient à ce que je disais au début. Ce même maire avait par ailleurs soutenu le voisin qui avait voulu (indûment, et la justice lui a donné tort) bloquer l’accès à mon terrain, rendant très complexe voire impossible nos activités agricoles.

    On pourrait penser que c’est le « militant » en faveur des droits des personnes en situation d’exil qui est attaqué, et pas le paysan. Mais j’ai commencé à être médiatisé sur ces sujets en 2016. Et je suis arrivé dans la vallée de la Roya en 2002. J’avais 23 ans.

    Je suis devenu agriculteur à 25 ans, et c’est rare de le devenir aussi jeune. Et à part des bâtons dans les roues (sans jeu de mot, NDLR), je, nous n’avons jamais reçu aucune aide.

    Au-delà des grands mots, agriculture, ici, cela semble donc faire chier tout le monde. Cela bloque 5 hectares, des terres qui, l’État le sait, ne deviendront jamais constructible. Sur les terrains limitrophes à l’exploitation, l’agriculteur sera prioritaire sur l’achat. Cela bloque le foncier, qui est la seule chose qui leur importe.

    On veut de l’agriculture, mais que comme carte postale.

    Donc ce que je propose, c’est qu’on sorte de la #mutuelle_sociale_agricole (#MSA), et qu’on devienne tous intermittents du spectacle.

    Un article paru dans le Mouais n°42 (octobre 2023), consacré à l’alimentation, nous le mettons en accès libre mais soutenez-nous, abonnez-vous ! https://www.helloasso.com/associations/association-pour-la-reconnaissance-des-medias-alternatifs-arma/boutiques/abonnement-a-mouais

    (1) Épisode méditerranéen extrêmement violent ayant ravagé en une nuit les vallées de la Tinée, de la Vésubie et de la Roya, occasionnant des morts et de nombreux dégâts matériels, NDLR.

    https://blogs.mediapart.fr/mouais-le-journal-dubitatif/blog/291023/l-agriculture-n-est-pas-une-carte-postale
    #Vallée_de_la_Roya #montagne #agriculture_de_montagne #paysannerie

    ping @isskein