• Permessi in mano straniera : il vero #business è rivenderli

    La crescita della domanda delle materie prime critiche ha rimesso le miniere al centro dell’agenda politica italiana. Ma sono compagnie extra-UE a fare da protagoniste in questa rinascita perché la chiusura delle miniere negli anni ’80 ha spento l’imprenditoria mineraria italiana.

    “Nelle #Valli_di_Lanzo l’attività mineraria risale al XVIII secolo, quando il cobalto era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche. Poi l’estrazione non era più conveniente e le miniere sono state chiuse negli anni ‘20” dice a IE Domenico Bertino, fondatore del museo minerario di Usseglio, Piemonte. Adesso, grazie a una società australiana, i minatori potrebbero tornare a ripopolare le vette alpine.

    Secondo Ispra quasi tutti i 3015 siti attivi in Italia dal 1870 sono dismessi o abbandonati. Ma la crescita della domanda di materie prime critiche (CRM) ha fatto tornare le miniere al centro dell’agenda politica.

    “Abbiamo 16 materie critiche in miniere che sono state chiuse oltre trent’anni fa. Era più facile far fare l’estrazione di cobalto in Congo, farlo lavorare in Cina e portarlo in Italia” ha detto a luglio il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso, ribadendo la volontà del governo di riaprire le miniere. Oltre al cobalto in Piemonte, ci sono progetti per la ricerca di piombo e zinco in Lombardia, di litio nel Lazio e di antimonio in Toscana.

    I protagonisti di questa “rinascita mineraria”, che dovrebbe rendere l’Italia meno dipendente da paesi terzi, sono compagnie canadesi e australiane. Dei 20 permessi di esplorazione attivi, solo uno è intestato a una società italiana (Enel Green Power).

    La ragione è che “le scelte politiche fatte negli anni ‘80 hanno portato alla chiusura delle miniere. E così la nostra imprenditoria mineraria si è spenta e la nuova generazione ha perso il know how” spiega Andrea Dini, ricercatore del CNR.

    La maggior parte sono junior miner, società quotate in borsa il cui obiettivo è ottenere i permessi e vendere l’eventuale scoperta del giacimento a una compagnia mineraria più grande. “Spesso quando la società mineraria dichiara di aver scoperto il deposito più grande del mondo, il più ricco, il più puro, cerca solo di attrarre investitori e far decollare il valore del titolo” spiega Alberto Valz Gris, geografo ed esperto di CRM del Politecnico di Torino, promotore di una carta interattiva (http://frontieredellatransizione.it) che raccoglie i permessi di ricerca mineraria per CRM in Italia.

    Tra le junior miner presenti in Italia spicca Altamin, società mineraria australiana che nel 2018 ha ottenuto i primi permessi di esplorazione (https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/Info/1760) per riaprire le miniere di cobalto di Usseglio e Balme, in Piemonte. “Finora sono state effettuate solo analisi in laboratorio per capire la qualità e quantità del cobalto” spiega Claudio Balagna, appassionato di mineralogia che ha accompagnato in alta quota gli esperti di Altamin. “Ma da allora non abbiamo saputo più nulla", dice a IE Giuseppe Bona, assessore all’ambiente di Usseglio, favorevole a una riapertura delle miniere che potrebbe creare lavoro e attirare giovani in una comunità sempre più spopolata.

    A Balme, invece, si teme che l’estrazione possa inquinare le falde acquifere. “Non c’è stato alcun dialogo con Altamin, quindi è difficile valutare quali possano essere i risvolti eventualmente positivi" lamenta Giovanni Castagneri, sindaco di Balme, comune che nel 2020 ha ribadito l’opposizione “a qualsiasi ricerca mineraria che interessi il suolo e il sottosuolo”.

    “Le comunità locali sono prive delle risorse tecniche ed economiche per far sentire la propria voce” spiega Alberto Valz Gris.

    Per il governo Meloni la corsa alla riapertura delle miniere è una priorità, con la produzione industriale italiana che dipende per €564 miliardi di euro (un terzo del PIL nel 2021) dall’importazione di materie critiche extra-UE. Tuttavia, a oggi, non c’è una sola miniera di CRM operativa in Italia.

    Nel riciclo dei rifiuti le aziende italiane sono già molto forti. L’idea è proprio di puntare sull’urban mining, l’estrazione di materie critiche dai rifiuti, soprattutto elettronici, ricchi di cobalto, rame e terra rare. Ma, in molti casi, la raccolta e il riciclo di queste materie è oggi ben al di sotto dell’1%. “Un tasso di raccolta molto basso, volumi ridotti e mancanza di tecnologie appropriate non hanno permesso lo sviluppo di una filiera del riciclaggio delle materie critiche”, dice Claudia Brunori, vicedirettrice per l’economia circolare di ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Oltre alla mancanza di fondi: nel PNRR non sono previsti investimenti per le materie prime critiche.

    Un’altra strategia è estrarre CRM dalle discariche minerarie. Il Dlgs 117/08 fornisce indicazioni sulla gestione dei rifiuti delle miniere attive, ma non fornisce riferimenti per gli scarti estrattivi abbandonati. Così “tali depositi sono ancora ritenuti rifiuti e non possono essere considerati nuovi giacimenti da cui riciclare le materie” denuncia l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che chiede una modifica normativa che consenta il recupero delle risorse minerarie.

    https://www.investigate-europe.eu/it/posts/permessi-in-mano-straniera-il-vero-business-rivenderli
    #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #Alberto_Valz_Gris #permis_d'exploration #Usseglio #Piémont #Adolfo_Urso #plomb #zinc #Lombardie #Latium #Toscane #antimoine #Enel_Green_Power #junior_miner #Altamin #Australie #Balme #urban_mining #recyclage #économie_circulaire #déchets

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Guerre au Proche-Orient : à #Beyrouth, #Mona_Fawaz résiste par la #cartographie

    Professeure d’urbanisme et cofondatrice du #Beirut_Urban_Lab, la chercheuse cartographie le conflit à la frontière entre le #Liban et Israël. Et montre ainsi le « déséquilibre profond » entre les attaques visant le territoire libanais et celles ciblant le sol israélien.

    « Je suis entrée dans le centre de recherche ; tous mes collègues avaient les yeux rivés sur les nouvelles, l’air horrifié. C’est là que nous nous sommes dit que nous ne pouvions pas simplement regarder : il fallait agir, et le faire du mieux possible », se rappelle Mona Fawaz, professeure d’urbanisme à l’Université américaine de Beyrouth (AUB) et cofondatrice du Beirut Urban Lab, un laboratoire de recherche interdisciplinaire créé en 2018 et spécialisé dans les questions d’#urbanisme et d’#inclusivité.

    Lundi 4 décembre, dans ce centre de recherche logé à l’AUB, près de deux mois après l’attaque sans précédent du groupe militant palestinien Hamas en Israël et le début des bombardements intensifs de l’armée israélienne sur la bande de Gaza, elle revoit l’élan impérieux qui a alors saisi ses collègues du Beirut Urban Lab, celui de cartographier, documenter et analyser.

    « Certains ont commencé à cartographier les dommages à #Gaza à partir de #photographies_aériennes. Personnellement, j’étais intéressée par la dimension régionale du conflit, afin de montrer comment le projet colonial israélien a déstabilisé l’ensemble de la zone », y compris le Liban.

    La frontière sud du pays est en effet le théâtre d’affrontements violents depuis le 8 octobre entre #Israël et des groupes alliés au #Hamas emmenés par le #Hezbollah, une puissante milice soutenue par l’#Iran. Qualifiés de « #front_de_pression » par le chef du Hezbollah, Hassan Nasrallah, les #combats sur le #front_libanais, qui visent notamment à détourner l’effort militaire israélien contre Gaza, ont tué au moins 107 personnes du côté libanais, dont 14 civils. Du côté israélien, six soldats et trois civils ont été tués.

    C’est ainsi que l’initiative « Cartographier l’escalade de violence à la frontière sud du Liban » est née. Le projet répertorie le nombre de #frappes quotidiennes et leur distance moyenne par rapport à la frontière depuis le début du conflit, en s’appuyant sur les données collectées par l’ONG Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled : https://acleddata.com). Sur son écran d’ordinateur, Mona Fawaz montre une #carte_interactive, une des seules en son genre, qui révèle un déséquilibre saisissant entre les attaques revendiquées par Israël, au nombre de 985 depuis le début du conflit, et celles menées depuis le Liban : 270 frappes répertoriées sur le sol israélien.

    L’occasion pour Mona Fawaz de questionner les expressions répétées dans les médias, qui façonnent la compréhension du conflit sans remettre en cause leurs présupposés. « On parle de tirs transfrontaliers, par exemple, alors même qu’il y a un déséquilibre profond entre les deux parties impliquées », souligne-t-elle. « Une distorsion médiatique » que la chercheuse dénonce aussi dans la couverture de l’offensive israélienne contre l’enclave palestinienne.

    Une « lutte partagée » avec les Palestiniens

    Pour Mona Fawaz, il est important de documenter un conflit dont les racines vont au-delà des affrontements présents. « La création de l’État d’Israël en 1948 a provoqué une perturbation majeure au sud du Liban, brisant [ses] liens historiques, sociaux, politiques et économiques » avec la Galilée, explique-t-elle.

    Des bouleversements que la chercheuse, originaire du village de Tibnine, dans le sud du pays, connaît bien, puisqu’ils ont marqué son histoire familiale et personnelle. Elle explique que la proximité entre les populations était telle qu’au cours de la « #Nakba » (la « catastrophe », en arabe) en 1948 – l’exode massif de plus de 700 000 Palestinien·nes après la création de l’État d’Israël –, sa mère a été évacuée de son village aux côtés de Palestinien·nes chassés de leurs terres. « Les déplacés ne savaient pas où s’arrêteraient les Israéliens, raconte-t-elle. Dans cette région du Liban, on a grandi sans sentir de différences avec les Palestiniens : il y a une lutte partagée entre nous. »

    En 1982, Mona Fawaz, qui avait alors à peine 9 ans, vit plusieurs mois dans son village sous l’occupation de l’armée israélienne, qui a envahi le pays en pleine guerre civile (1975-1990) afin de chasser du Liban l’Organisation de libération de la Palestine (OLP). Elle se souvient des scènes d’#humiliation, des crosses des fusils israéliens défonçant le mobilier chez son grand-père. « Ce n’est rien par rapport à ce que Gaza vit, mais il y a définitivement un effet d’association pour moi avec cette période », explique-t-elle.

    Dans le petit pays multiconfessionnel et extrêmement polarisé qu’est le Liban, l’expérience de la chercheuse n’est cependant pas générale. Si une partie des Libanais·es, notamment dans le sud, est marquée par la mémoire des guerres contre Israël et de l’occupation encore relativement récente de la région – les troupes israéliennes se sont retirées en 2000 du Sud-Liban –, une autre maintient une défiance tenace contre la #résistance_palestinienne au Liban, notamment tenue responsable de la guerre civile.

    Celle qui a ensuite étudié au Massachusetts Institute of Technology (MIT), à Boston (États-Unis), pour y faire son doctorat en aménagement urbain à la fin des années 1990, explique ensuite qu’il a fallu des années aux États-Unis pour réaliser que « même le soldat qui est entré dans notre maison avait été conditionné pour commettre des atrocités ». Si l’ouverture à d’autres réalités est une étape indispensable pour construire la paix, c’est aussi un « luxe », reconnaît la chercheuse, qui semble hors de portée aujourd’hui. « L’horreur des massacres à Gaza a clos toute possibilité d’un avenir juste et pacifique », soupire-t-elle.

    Le tournant de la guerre de 2006

    Peu après son retour au Liban en 2004, Mona Fawaz se concentre sur les questions de l’informalité et de la justice sociale. Un événement majeur vient bouleverser ses recherches : le conflit israélo-libanais de 2006. Les combats entre Israël et le Hezbollah ont causé la mort de plus de 1 200 personnes du côté libanais, principalement des civil·es, en seulement un mois de combat.

    Du côté israélien, plus de 160 personnes, principalement des militaires, ont été tuées. Cette guerre va être une expérience fondatrice pour le Beirut Urban Lab. C’est à ce moment que ses quatre cofondateurs, Mona Fawaz, Ahmad Gharbieh, Howayda Al-Harithy et Mona Harb, chercheurs et chercheuses à l’AUB, commencent leurs premières collaborations sur une série de projets visant à analyser l’#impact de la guerre. L’initiative actuelle de cartographie s’inscrit en continuité directe avec les cartes quotidiennes produites notamment par #Ahmad_Gharbieh en 2006. « Le but était de rendre visible au monde entier le caractère asymétrique et violent des attaques israéliennes contre le Liban », explique Mona Fawaz.

    Dans les années qui suivent, les chercheurs participent à plusieurs projets en commun, notamment sur la militarisation de l’#espace_public, le rôle des réfugié·es en tant que créateurs de la ville ou la #privatisation des #biens_publics_urbains, avec pour objectif de faire de la « donnée un bien public », explique Mona Fawaz, dans un « pays où la collectivité n’existe pas ». « Nos recherches s’inscrivent toujours en réponse à la réalité dans laquelle nous vivons », ajoute-t-elle. Une réalité qui, aujourd’hui dans la région, est de nouveau envahie par la guerre et les destructions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/121223/guerre-au-proche-orient-beyrouth-mona-fawaz-resiste-par-la-cartographie

    #résistance

    ping @visionscarto @reka

    • #Beirut_Urban_Lab

      The Beirut Urban Lab is a collaborative and interdisciplinary research space. The Lab produces scholarship on urbanization by documenting and analyzing ongoing transformation processes in Lebanon and its region’s natural and built environments. It intervenes as an interlocutor and contributor to academic debates about historical and contemporary urbanization from its position in the Global South. We work towards materializing our vision of an ecosystem of change empowered by critical inquiry and engaged research, and driven by committed urban citizens and collectives aspiring to just, inclusive, and viable cities.

      https://beiruturbanlab.com

      –—

      Mapping Escalation Along Lebanon’s Southern Border Since October 7

      Since October 7, the Middle East has occupied center stage in global media attention. Already rife with uncertainty, subjected to episodic bouts of violence, and severely affected by an ongoing project of ethnic cleansing for 75 years in Historic Palestine, our region is again bearing the weight of global, regional, and local violence. As we witness genocide unfolding and forceful population transfers in Gaza, along with an intensification of settler attacks in the West Bank and Jerusalem and the silencing of Palestinians everywhere, the conflict is also taking critical regional dimensions.

      As part of its effort to contribute to more just tomorrows through the production and dissemination of knowledge, the Beirut Urban Lab is producing a series of maps that document and provide analytical insights to the unfolding events. Our first intervention comes at a time in which bombs are raining on South Lebanon. Titled Escalation along Lebanon’s Southern Border since October 7, the platform monitors military activity between the Israeli Armed Forces and Lebanese factions. Two indicators reflect the varying intensity of the conflict: the number of daily strikes and the average distance of strikes from the border.

      The map uses data from the Armed Conflict Location and Event Data (ACLED) crisis mapping project, which draws upon local reporting to build its dataset. Since ACLED updates their dataset on Mondays, site visitors can expect updates to our mapping and analysis to be released on Tuesday afternoons. Please refer to ACLED’s methodology for questions about data sources and collection.

      As of November 14, the frequency and distribution of strikes reveals a clear asymmetry, with northward aggression far outweighing strikes by Lebanese factions. The dataset also indicates a clear escalation, with the number of incidents increasing day by day, particularly on the Lebanese side of the border.

      We see this contribution as an extension of our previous experiences in mapping conflicts in Lebanon and the region, specifically the 2006 Israeli assault on Lebanon.

      https://beiruturbanlab.com/en/Details/1958/escalation-along-lebanon%E2%80%99s-southern-border-since-october-7
      #cartographie_radicale #cartographie_critique #visualisationi

  • Spotlight on the Borderlands: Mapping Human Rights

    The Spotlight initiative aims to create tools and resources to deepen the understanding of the border and animate social change.

    Through digital mapping, storytelling, and participatory popular education methodologies, we aim to highlight the complex topographies and cartographies of human rights at the border.

    The human rights map provides a visual narrative of the effects of militarization and deterrence on border communities and those migrating through the U.S.-Mexico border region. This map also displays a set of human rights indicators to facilitate monitoring, progress, and fulfilling governments’ obligations in protecting the rights of migrants, refugees, and communities along the borderlands.

    https://spotlight.nnirr.org/map/?eType=EmailBlastContent&eId=2a989d1c-8953-4ea1-bf32-b4c6c4242197

    #cartographie #visualisation #morts_aux_frontières #droits_humains #USA #Etats-Unis #Mexique #carte_interactive #checkpoints #rétention #détention_administrative #solidarité #hôpitaux
    ping @fil @reka

  • World’s human migration patterns in 2000–2019 unveiled by high-resolution data

    Despite being a topical issue in public debate and on the political agenda for many countries, a global-scale, high-resolution quantification of migration and its major drivers for the recent decades remained missing. We created a global dataset of annual net migration between 2000 and 2019 (~10 km grid, covering the areas of 216 countries or sovereign states), based on reported and downscaled subnational birth (2,555 administrative units) and death (2,067 administrative units) rates. We show that, globally, around 50% of the world’s urban population lived in areas where migration accelerated urban population growth, while a third of the global population lived in provinces where rural areas experienced positive net migration. Finally, we show that, globally, socioeconomic factors are more strongly associated with migration patterns than climatic factors. While our method is dependent on census data, incurring notable uncertainties in regions where census data coverage or quality is low, we were able to capture migration patterns not only between but also within countries, as well as by socioeconomic and geophysical zonings. Our results highlight the importance of subnational analysis of migration—a necessity for policy design, international cooperation and shared responsibility for managing internal and international migration.

    https://www.nature.com/articles/s41562-023-01689-4

    La #carte_interactive développée:
    Net migration explorer


    https://vm0803.kaj.pouta.csc.fi/migrationShiny/R

    #données #migrations #cartographie #statistiques #visualisation #facteurs #migration_patterns #push-factors #facteurs_push #facteurs-push #urbanisation #climat #facteurs_climatiques #facteurs_socio-économiques #monde #sans_flèches

    ping @fil @reka

    • Una mappa senza precedenti dei flussi migratori negli ultimi 20 anni

      I fattori socioeconomici sono ancora la ragione principale che spinge le persone a lasciare la propria casa in cerca di condizioni di vita migliori. Questo è quanto emerge dalla mappa più dettagliata mai realizzata finora per ricostruire le migrazioni umane negli ultimi due decenni a livello globale.

      Basandosi su dati provenienti dalle rilevazioni statistiche internazionali e dai censimenti condotti dai singoli paesi, un team internazionale di demografi, geomorfologi, ingegneri ambientali e informatici hanno ricostruito con la più alta risoluzione mai ottenuta finora i flussi migratori a livello sia internazionale che subnazionale per il periodo compreso tra il 2000 e il 2019.

      Il processo di ricostruzione di queste complesse dinamiche demografiche è descritto in una recente pubblicazione su Nature Human Behaviour; gli autori hanno anche sviluppato una mappa interattiva, consultabile liberamente, che permette di distinguere i luoghi che hanno subito una migrazione netta positiva (in cui i tassi di immigrazione superano quelli di emigrazione), e quelli in cui, al contrario, la migrazione netta è negativa (e quindi i tassi di emigrazione superano quelli di immigrazione). Proprio l’alta risoluzione della mappa consente di rilevare differenze significative a livello internazionale, subnazionale e regionale. In Italia, ad esempio, la mappa mostra chiaramente una migrazione netta positiva nelle regioni del Nord e una negativa in quelle meridionali. Lo stesso vale anche per la Francia e il Portogallo (dove le regioni settentrionali sono caratterizzate da una migrazione netta positiva, al contrario di quelle meridionali).

      https://twitter.com/NatureHumBehav/status/1700112207973863647

      “A livello globale, il modello di migrazione più comune si sviluppa dalle aree rurali verso quelle urbane, come indicato dalla migrazione netta urbana positiva e dalla migrazione netta rurale negativa”, spiega Raya Muttarak, professoressa di demografia all’università di Bologna, che ha partecipato allo studio. “L’immigrazione netta positiva può contribuire alla crescita della popolazione urbana invertendo i naturali trend demografici in calo, com’è accaduto in alcuni paesi, tra cui Germania, Austria e Spagna”.

      I ricercatori hanno infatti confermato l’esistenza di una dinamica chiamata “urban pull-rural push” (letteralmente: “attrazione urbana-spinta rurale”) rilevata anche da alcuni studi precedenti sull’argomento, che descrive, sostanzialmente, il fenomeno per cui la migrazione netta nelle aree urbane è tendenzialmente positiva, mentre quella nelle aree rurali è negativa. In altre parole, il numero di persone che lasciano la campagna per trasferirsi in città è maggiore rispetto alla quantità di individui che fanno la scelta opposta. “La situazione “urban pull-rural push” rappresenta il modello migratorio più comune all’interno di quei paesi in cui le città offrono condizioni di vita desiderabili, che attraggono l’immigrazione, al contrario delle zone rurali, le cui caratteristiche spingono i residenti a trasferirsi altrove, in cerca di una vita migliore”, precisa Muttarak.

      Per individuare le ragioni che spiegano i flussi di popolazione a livello sia subnazionale che internazionale, i ricercatori hanno incrociato i dati demografici dei luoghi considerati con i relativi tassi di sviluppo socioeconomico e l’indice di aridità. I risultati di tale confronto mostrano come la migrazione netta positiva sia significativamente più alta nei luoghi caratterizzati da un alto tasso di sviluppo economico, più che da quelli con scarsi livelli di aridità. Sembra, in altre parole, che i migranti ambientali –coloro che lasciano il luogo in cui vivevano a causa dei danni dovuti a eventi climatici estremi (come le ondate di calore, le inondazioni o la siccità) – siano in minoranza rispetto alle persone che emigrano in cerca di migliori prospettive di carriera e stabilità finanziaria.

      Un altro aspetto di cui i ricercatori tengono conto è la valutazione dell’impatto del fenomeno migratorio sulle società di origine e di destinazione. “La mappa consente di analizzare le tendenze e i modelli migratori che a loro volta influenzano le dinamiche demografiche delle aree di partenza e di arrivo dei flussi migratori”, prosegue Muttarak. “È quindi possibile stimare l’impatto socioeconomico e ambientale legato al cambiamento demografico. Abbiamo scoperto che l’immigrazione netta positiva ha contribuito alla crescita della popolazione in particolare nelle aree ad alto tasso di sviluppo umano, suggerendo che le persone tendano maggiormente a trasferirsi verso questi luoghi”. Come scrivono gli autori nello studio, quando si verifica un afflusso consistente di popolazione in aree già densamente popolate, le infrastrutture, le risorse naturali e quelle umane possono essere messe a dura prova. Dall’altro lato, però, come accade in Europa, si abbassa l’età media della forza lavoro.

      In conclusione, in un’epoca come la nostra, in cui le migrazioni umane rappresentano un tema centrale nel dibattito pubblico internazionale, disporre di una mappa globale e ad alta risoluzione dei flussi migratori in tutto il mondo può rivelarsi particolarmente utile per scienziati e decisori politici. “Grazie al livello di granularità geografica dei nuovi dati e alla loro frequenza temporale – ovvero la disponibilità su base annuale – diventa possibile studiare le tendenze migratorie e i fattori che le determinano”, osserva Muttarak. “Ciò consente, ad esempio, di analizzare dettagliatamente come i fattori ambientali e climatici influiscano sulla migrazione a livello geografico. Sulla base delle tendenze migratorie nette diventa possibile anche identificare i punti caldi in cui si concentrano i flussi di popolazione e le aree in fase di declino demografico. Tali intuizioni possono aiutare i politici a elaborare strategie per la pianificazione urbana e lo sviluppo rurale”.

      https://ilbolive.unipd.it/it/news/mappa-senza-precedenti-flussi-migratori-ultimi-20

  • La carte des absent·e·s : Téhéran 1979-1988
    https://visionscarto.net/carte-absent-e-s-teheran

    Bahar Majdzadeh cartographie l’absence des militant·e·s de la Révolution de 1979 dans la capitale iranienne. Sa carte interactive et participative fait remonter à la surface la répression sanglante qu’ont subi les partis politiques opposés à la république islamique pendant les années 1980. Cette destruction politique a été suivie par celle de la mémoire de ces révolutionnaires, une mémoire que la chercheuse réinscrit patiemment dans l’espace symbolique des cartes. par Bahar Majdzadeh, docteure en arts, (...) #Billets

  • Siccità e desertificazione: l’Italia rischia di prosciugarsi

    Più di un quinto del territorio italiano è a rischio desertificazione e la situazione idrica è peggiorata in seguito a un inverno secco che ha visto le precipitazioni ridursi di un terzo rispetto alla normale. In tutto il Paese, i segnali della scarsità idrica stanno alimentando i timori di siccità e desertificazione.


    https://www.nationalgeographic.it/ambiente/2022/10/contenuto-sponsorizzato-siccita-e-desertificazione-litalia-rischi
    #sécheresse #Italie #cartographie #visualisation #carte_interactive #désertification

  • Atles de la cacera de bruixes

    L’Atles de la cacera de bruixes és el web més complet que existeix sobre els judicis per bruixeria celebrats als segles XV-XVIII a Catalunya i Andorra, on es mostren per primer cop els esdeveniments, els anys i els llocs on van succeir, així com les persones i institucions que hi van participar. Aquest atles històric conté un mapa interactiu i un cens del total de persones, dones i homes, jutjades per crim de bruixeria al nostre país. La informació ha estat extreta de la base de dades, encara inèdita, confeccionada al llarg dels darrers deu anys per l’historiador Pau Castell Granados (IRCVM-UB).

    El web (concepte, mapa, interactius i textos) ha estat realitzat per Caterina Úbeda i Sandra Lleida, amb la col·laboració i l’assessorament de Pau Castell, autor de les fitxes d’Andorra.
    El mapa

    L’atles conté un mapa interactiu sobre la cacera de bruixes: hi hem geolocalitzat els municipis d’origen o de residència de les persones jutjades per crim de bruixeria. Quan en desconeixem el lloc de procedència, geolocalitzem el lloc on es va produir el judici.

    També hi trobareu els espais d’aplec diabòlic, els endevinaires (caçadors de bruixes) i els judicis de la Inquisició de Barcelona, per diferenciar-los de la resta, que van ser realitzats, tots, per tribunals seglars.

    https://www.youtube.com/watch?v=V7JV0Q4GbnI


    https://www.sapiens.cat/cacera-bruixes.html

    #sorcières #sorcellerie #cartographie #visualisation #histoire #mémoire #inquisition #Espagne #chasse_aux_sorcières #Catalogne #Andorre #carte_interactive

  • Plateforme « drift-backs » en mer Egée

    Une enquête de #Forensic_Architecture et Forensis menée avec une grande rigueur –recoupements de photos et de vidéos, géolocalisations, recoupements de témoignages- révèle que, entre mars 2020 et mars 2020, 1018 opérations de refoulement -la plupart par la méthode dite ‘#drift-back’- ont été menées en mer Egée, impliquant 27.464 réfugiés. Remarquez que ce chiffre concerne uniquement les refoulements en Mer Egée et non pas ceux effectués d’une façon également systématique à la frontière terrestre d’Evros.


    https://forensic-architecture.org/investigation/drift-backs-in-the-aegean-sea

    –—

    Présentation succincte des résultats de l’enquête parue au journal grec Efimérida tôn Syntaktôn (https://www.efsyn.gr/ellada/dikaiomata/352169_pano-apo-1000-epanaproothiseis).

    Plus de 1 000 opérations de refoulements en mer Egée répertoriés et documentés par Forensic Architecture 15.07.2022, 10:26

    Dimitris Angelidis

    L’enquête des groupes Forensic Architecture et Forensis est très révélatrice. ● De mars 2020 à mars 2022, 1 018 cas de refoulement d’un total de 27 464 réfugiés ont été enregistrés, dont 600 ont été recoupés et documentés de façon qui ne laisse aucune place au doute ● « Des preuves d’une pratique assassine qui s’avère non seulement systématique et généralisée, mais aussi bien planifiée émergent », rapportent les deux groupes.

    Plus de 1 000 opérations illégales de refoulement de réfugiés dans la mer Égée, de mars 2020 à mars 2022, ont été enregistrées et documentées par le célèbre groupe de recherche Forensic Architecture et l’organisation sœur Forensis (fondée à Berlin, 2021).

    Les résultats de leurs enquêtes depuis plus d’un an sont aujourd’hui publiés en ligne (https://aegean.forensic-architecture.org ), sur une plateforme électronique qui constitue l’enregistrement le plus complet et le plus valide des refoulements grecs en mer Égée, alors que sa mise à jour sera effectuée régulièrement.

    « Des preuves d’une pratique de meurtre systématique, étendue et bien planifiée émergent », rapportent les deux groupes, notant que le déni des refoulements par le gouvernement grec manque tout fondement.

    Les preuves qu’ils ont croisées et documentées avec des techniques de géolocalisation et d’analyse spatiale proviennent de réfugiés et d’organisations telles que Alarm Phone et l’organisation Agean Boat Report, la base de données Frontex, le site Web des garde-côtes turcs et des recherches open source.

    Il s’agit de 1 018 cas de refoulement d’un total de 27 464 réfugiés, dont 600 ont été recoupés et documentés d’une façon si complète que leur existence ne peut pas être mise en doute. Il y a aussi 11 morts et 4 disparus lors de refoulements, ainsi que 26 cas où les garde-côtes ont jeté des réfugiés directement à la mer, sans utiliser les radeaux de sauvetage (life-rafts) qu’ils utilisent habituellement pour les refoulements, depuis mars 2020. Deux des personnes jetées à l’eau mer ont été retrouvées menottées.

    Dans 16 cas, les opérations ont été menées loin de la frontière, dans les eaux grecques, soulignant « un degré élevé de coopération entre les différentes administrations et autorités du pays impliquées, ce qui indique un système soigneusement conçu pour empêcher l’accès aux côtes grecques », comme le note l’ enquête.

    Frontex est directement impliquée dans 122 refoulements, ayant été principalement chargée d’identifier les bateaux entrants et de notifier leurs présences aux autorités grecques. Frontex a également connaissance de 417 cas de refoulement, qu’elle a enregistrés dans sa base de données sous le terme trompeur « dissuasion d’entrée ».

    Lors de trois opérations le navire de guerre allemand de l’OTAN FGS Berlin a été présent sur les lieux.

    https://www.efsyn.gr/ellada/dikaiomata/352169_pano-apo-1000-epanaproothiseis

    voir aussi la vidéo introductive ici : https://vimeo.com/730006259

    #architecture_forensique #mer_Egée #asile #migrations #réfugiés #push-backs #chiffres #statistiques #Grèce #Turquie #refoulements #gardes-côtes #life_rafts #abandon #weaponization #géolocalisation #recoupement_de_l'information #contrôles_frontaliers #base_de_données #cartographie #carte_interactive #visualisation #plateforme

    –—

    pour voir la plateforme :
    https://aegean.forensic-architecture.org

  • Fosses communes | Le blog de Floréal
    https://florealanar.wordpress.com/2022/07/03/fosses-communes


    https://seenthis.net/messages/966162

    La carte ci-dessous indique l’emplacement des fosses communes où furent jetés les corps de centaines de milliers d’Espagnols antifranquistes, républicains, anarchistes, socialistes, communistes.
    On mesure ainsi l’ampleur du majuscule crime commis après la victoire des militaires factieux et des bandes fascistes à leur côté, d’autant que quatre-vingt-trois ans après la fin de la guerre civile, toutes les fosses communes du pays n’ont pas été mises au jour. Il paraît que seul le Cambodge des Khmers rouges en compte davantage. En Espagne, les assassins n’ont jamais eu à rendre de comptes.

  • Una mappa per ricordare i crimini del colonialismo italiano

    Il 19 febbraio saranno passati 84 anni dal massacro di Addis Abeba, tra i tanti crimini del colonialismo italiano, uno dei più disgustosi e spietati, perché commesso lontano dai campi di battaglia, senza nemmeno l’alibi di una guerra in corso.

    Si trattò di un’immane rappresaglia, scattata in seguito all’attentato fallito contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i due responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case.

    Il 22 febbraio 1937, Graziani spedì a Mussolini un telegramma eloquente: “In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l’ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul”.

    In breve, la strage debordò dal cerchio di fuoco che gli aerei italiani avevano stretto intorno ad Addis Abeba. Raggiunse i villaggi, le case sparse, i luoghi di culto. Centinaia di persone furono arrestate e morirono nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo. Il clero copto fu identificato come un pericoloso sobillatore di ribelli e dopo la classica indagine dove il colpevole è stabilito in anticipo, a maggio Graziani spedì il generale Maletti ad annientare il villaggio conventuale di Debre Libanos, la comunità monastica più importante del paese. Le esecuzioni ufficiali ammontarono a 449. Lo storico Ian Campbell considera invece plausibile l’uccisione di circa duemila persone, compresi centinaia di minorenni, sia laici sia religiosi. Almeno il doppio ne sarebbero morte, secondo Angelo Del Boca, per le strade di Addis Abeba, mentre per Campbell sarebbero state 19mila e per le autorità etiopi – come denunciarono nel dopoguerra – 30mila.

    Una proposta di legge dimenticata
    Da allora, il 19 febbraio è un giorno di lutto per l’Etiopia, ma in Italia scorre via come una giornata qualsiasi, e le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento.

    Unica eccezione: il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”. La data prescelta era proprio il 19 febbraio.

    Si sa che gli anniversari rischiano di trasformarsi in cerimonie vuote, liturgie sempre uguali a sé stesse, dove la verità che si vorrebbe rammentare, a forza di ripeterla con le medesime formule, finisce per suonare noiosa, banale e in certi casi addirittura sospetta. D’altra parte, se sono colti come un’opportunità, e non come un obbligo, possono costituire un banco di prova per mantenere attiva la memoria, trovando parole e segni che la rinnovino, che permettano al futuro di interrogarla.

    Come ci ha insegnato in questi anni il movimento transfemminista Non una di meno, dedicare una giornata, l’8 marzo, a riflettere, manifestare e confrontarsi su un determinato tema, non significa mettersi l’anima in pace, fare un compitino, e poi dimenticarsene per altri dodici mesi. Le scadenze riflettono l’umore dei corpi che le riempiono. Sono stanche se chi le anima è affaticato, battagliere se è combattivo, e per questo hanno sempre anche lo scopo di tastare il polso a una comunità.

    Rilettura radicale e azioni di guerriglia
    Diversi segnali sembrano suggerire che i tempi sono finalmente maturi per sincronizzare gesti e pensieri su una rilettura radicale del colonialismo italiano.

    Al di là di convegni, progetti artistici e ricerche accademiche, è l’interesse degli abitanti per la “topografia coloniale” che li circonda a segnare un cambio di passo – influenzato dalle proteste di Black lives matter negli Stati Uniti – che porta il tema fuori dalle aule, fuori dai libri, dove la storia si fa materia, e le contraddizioni sono incise sulla pelle dei territori.

    Proprio nell’estate del 2020, non appena le restrizioni dovute alla pandemia hanno concesso una tregua, si è assistito a un proliferare di iniziative, su e giù per l’Italia.

    In giugno, a Roma, la rete Restiamo umani è intervenuta in via dell’Amba Aradam e di fronte alla futura stazione Amba Aradam/Ipponio sulla linea C della metropolitana.

    Le targhe stradali sono state modificate per diventare via George Floyd e Bilal Ben Messaud, mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sono comparsi grandi manifesti con scritto: “Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”. Da quest’azione di “guerriglia odonomastica” è nata la proposta di intitolare la stazione della metro al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola.

    Pochi giorni dopo, a Padova, un nutrito gruppo di associazioni ha guidato una camminata per le vie del quartiere Palestro, svelando l’origine dei nomi coloniali e mettendoli in discussione con letture e cartelli. Una sceneggiatura molto simile a quella dei trekking urbani che il collettivo Resistenze in Cirenaica organizza a Bologna dal 2015, o al Grande rituale ambulante “Viva Menilicchi!”, celebrato a Palermo nell’ottobre 2018, e alla visita guidata nella Firenze imperiale che ha inaugurato, in quello stesso anno, il progetto Postcolonial Italy.

    Sempre nell’estate 2020, a Milano, il centro sociale Cantiere ha lanciato una chiamata alle arti, con il motto “Decolonize the city!”: un progetto durante il quale, tra lezioni all’aperto e street art, è stata inaugurata una statua di Thomas Sankara all’interno dei giardini Indro Montanelli, quelli del monumento al celebre giornalista, sanzionato l’anno prima con una cascata di vernice rosa per aver sempre giustificato con affettata nonchalance il suo matrimonio combinato con una ragazzina dodicenne durante la guerra d’Etiopia.

    A Bergamo, nel settembre 2020, alcuni cartelli sono stati appesi a diverse targhe stradali, per ricordare che il fascismo e il colonialismo furono anche violenza di genere, proponendo dediche alternative a donne che contribuirono, in diversi campi, al progresso dell’umanità. Alla riapertura delle scuole, gli Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia hanno contestato insieme agli studenti il nome del polo scolastico Makallé, che si trova nella strada omonima, per l’occasione ribattezzata via Sylvester Agyemang, alunno di quell’istituto travolto lì vicino da un autobus. Infine, a metà ottobre, si sono svolti a Torino i Romane worq days, in onore della principessa etiope, figlia dell’imperatore Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937 e morta tre anni dopo nel capoluogo piemontese.

    Tutte queste iniziative ci dicono che il 2021 potrebbe essere l’anno giusto per istituire dal basso quella giornata di memoria che il parlamento non è riuscito ad approvare. Se una questione ci sta a cuore, non abbiamo bisogno di una legge per ricordarla.

    Fantasmi che non vogliamo vedere
    Quale che sia il giorno prescelto, le diverse iniziative andrebbero a formare un rituale di massa, con il risultato di evocare fantasmi. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo, calpestiamo le loro tracce e le gambe non tremano, ne vediamo gli effetti e li attribuiamo ad altre cause, ne saccheggiamo l’eredità e non sappiamo nemmeno chi ce l’abbia lasciata, seguiamo i loro passi e ci illudiamo di percorrere nuovi sentieri.

    Monumenti, lapidi, targhe stradali, edifici: migliaia e migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, ci parlano invano del passato coloniale, come fotografie scattate in un tempo remoto e di cui abbiamo perduto le didascalie. Oppure ci ripetono, con la fissità della pietra, che fu un’impresa eroica, coraggiosa, patriottica, piena di fulgidi esempi dell’italico valore, per i quali ci viene chiesto di provare ammirazione.

    Come il regno d’Italia, fin dai primi anni dopo l’unità, si è plasmato occupando terre e aggredendo popoli, in barba agli ideali dell’indipendenza, così si sono “fatti gl’italiani” anche a suon di razzismo e stereotipi imperiali, e si è modellato il paesaggio urbano perché rispecchiasse le loro avventure coloniali, virili e da civilizzatori di antico lignaggio. Uno specchio che è rimasto lì, anche quando si è smesso di interrogarlo, per paura di quelle stesse risposte che un tempo ci facevano gongolare. Meglio non sapere per quale motivo quel quartiere si chiama Neghelli, o cosa fosse “l’assedio economico” di cui parla quella targa sulla facciata del municipio, o perché dietro un monumento ai partigiani fa capolino il bassorilievo di un’antilope.

    Meglio silenziare, edulcorare, censurare. Togliere le didascalie, ma lasciare le foto: in fondo il nonno era venuto così bene! Ti somiglia pure! Ma chi è quella ragazza, a petto nudo, che lo abbraccia controvoglia? E quel mucchio di cadaveri, sul quale pianta fiero il tacco dello stivale? Cadaveri? Quali cadaveri? Quelle sono zolle, zolle di terra! Non lo sai che il nonno è andato laggiù per lavorare, per coltivare, per trasformare il deserto in un giardino?

    Altri colonialismi
    Il testo della proposta di legge parla di cinquecentomila vittime africane nelle colonie del regno d’Italia, ovvero Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Possiamo star certi che furono molte di più, e d’altra parte, non è nemmeno corretto limitare l’impatto del colonialismo italiano alle sole terre d’Africa. L’Albania fu un “protettorato italiano”, con un governo fantoccio, occupato e soggiogato con le armi, un anno prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Le isole dell’Egeo furono un “possedimento d’Oltremare”, sottile differenza che interessa giusto ai filatelisti. Gli ebrei di Rodi e di Kos presero la cittadinanza italiana, ma nel 1938, con la proclamazione delle leggi razziali, furono cacciati dalle scuole e dagli uffici pubblici, vennero schedati nei registri civili, i loro beni furono inventariati e in parte espropriati, quindi venne chiuso il collegio rabbinico della città.

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’isola fu occupata dai nazisti. Le autorità fasciste della repubblica sociale Italiana, loro alleate, consegnarono ai tedeschi gli elenchi degli ebrei rodioti, che vennero rastrellati e deportati in Germania. Sono 1.815 i nomi accertati di ebrei residenti sull’isola che morirono nei campi di sterminio, 178 quelli rimasti in vita.

    Possiamo lasciare agli storici il compito di stabilire se fu “colonialismo” l’occupazione della Dalmazia nel 1941, quella di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio, o la minuscola concessione italiana nel porto cinese di Tianjin, oggi trasformata in un’attrazione turistica e commerciale, la New italian style town. Di certo il nostro colonialismo non s’è limitato all’Africa e i suoi crimini vanno ben oltre la strage di Addis Abeba del 19 febbraio. Quella, tuttavia, è l’unico delitto di così vaste proporzioni che si possa collegare a un giorno preciso. La deportazione degli abitanti del Jabal al Akhdar, in Cirenaica, per togliere supporto alla resistenza libica e far spazio a coloni italiani, provocò almeno quarantamila morti, tra quelli che crollarono durante la marcia nel deserto e quelli che morirono nei campi di concentramento sulla costa: è chiaro però che tutto questo avvenne nel corso di settimane e mesi, così come settimane durarono i bombardamenti con armi chimiche, durante l’invasione fascista dell’Etiopia, mentre l’Eritrea – la cosiddetta colonia primogenita – conobbe cinquant’anni di razzismo e violenza.

    Volendo scegliere una singola data, il 19 febbraio sembra in effetti la più adatta, considerando che la comunità etiope la commemora già tutti gli anni. In Etiopia, la data sul calendario è conosciuta come Yekatit 12 e con quel nome è intitolata una piazza della capitale. Nella nostra, di capitale, ci sono invece strade dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che in Etiopia portarono morte e distruzione, inquadrati nell’esercito e nell’aviazione fascista. Qualche decina di chilometri più a est, ad Affile, sempre in provincia di Roma, sopravvive alla rabbia di molti l’ignobile mausoleo dedicato a Graziani, che del massacro di Addis Abeba fu il principale responsabile.

    Un inventario
    Non si potrà fare memoria, il 19 febbraio, dei crimini del colonialismo italiano, senza porsi il problema di come trattare certi nomi, lapidi, targhe, monumenti, edifici che ancora affollano il territorio italiano.

    Un primo passo per provare a maneggiare quest’eredità ingombrante sarebbe quello di farne un inventario, censire i luoghi, sistemarli su una mappa. È quel che ho cominciato a fare da qualche mese, nei ritagli di tempo. In principio, volevo solo localizzare le lapidi ancora esistenti – ma in molti casi riutilizzate – che il regime fascista fece posare in tutti i municipi d’Italia, il 18 novembre 1936, un anno dopo l’entrata in vigore delle sanzioni economiche contro il regno d’Italia decise dalla Società delle nazioni per condannare l’invasione dell’Etiopia.

    Ben presto, mi sono ritrovato a segnare molti altri posti, e da un paio di settimane, attraverso il blog Giap e con l’aiuto del collettivo Resistenze in Cirenaica, stiamo raccogliendo segnalazioni da tutta Italia. La mappa è ancora agli inizi, ma l’affollarsi di tanti segnaposti dà già l’impressione di una mostruosa eruzione cutanea. Una specie di allergia.

    Anticolonizzare
    La questione di come trattare le tracce che la storia lascia nel paesaggio non è certo nuova, né originale, ma si ripresenta ogni volta in maniera diversa, perché diverse sono le esigenze che la portano in superficie. Oggi è chiaro che le vestigia del colonialismo italiano provocano irritazioni e piaghe nel tessuto delle città, perché la guerra contro i migranti uccide uomini e donne i cui avi furono sterminati dai nostri. Nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 ci furono 366 morti accertati e 20 dispersi, molti dei quali erano eritrei, partiti da Misurata, in Libia, e naufragati nel 78° anniversario dell’invasione dell’Etiopia da parte del regno d’Italia.

    Due anni dopo, sempre a Bergamo, la fontana dedicata ad Antonio Locatelli, fiero sterminatore di etiopi con armi chimiche, si riempiva d’acqua rosso sangue e uno striscione lo chiamava assassino. Il sindaco Giorgio Gori, manco a dirlo, dichiarò che l’illustre concittadino fascista era una figura “controversa”, ma definì “maleducati” gli autori del gesto.

    Non è raro che azioni come questa siano etichettate come vandalismi, anche quando non si verificano reali danni all’arredo urbano, ma a disturbare è l’idea stessa che questo venga modificato, salvo poi accettare che enormi cartelloni pubblicitari cambino il volto di una piazza per mesi e mesi.

    L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice

    Si declina in termini di decoro quello che invece è un problema di potere: se a casa mia posso cambiare l’arredamento come mi pare, chi decide l’aspetto dello spazio comune? In teoria, le amministrazioni comunali si riempiono la bocca di processi partecipati, ma nella pratica quel che ne risulta è sempre molto simile a un piano prestabilito. Le commissioni toponomastiche delle città, per esempio, tendono a escludere che si possano cambiare i nomi delle vie: troppo complicato, troppi indirizzi da modificare, troppa gente da mettere d’accordo, ci sono questioni più importanti.

    Chi invece organizza queste azioni topografiche, usa spesso il verbo “decolonizzare”, per suggerire l’idea che le nazioni europee devono liberarsi dal colonialismo, così come se ne sono liberate le loro ex colonie, in quel processo storico chiamato appunto decolonizzazione. L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice. Questo è sacrosanto, eppure quando leggo che bisogna “decolonizzare le nostre città”, mi viene sempre in mente il caffè decaffeinato: l’espresso ti piace, però ti fa male. Allora gli togli la componente tossica e continui a berlo, come se niente fosse. Derattizzi un quartiere, metti le esche per i topi, et voila, sparito il problema.

    Intendo dire che in un certo senso i nostri spazi urbani sono già fin troppo de-colonizzati: entri al bar Dogali, strappi una bustina di zucchero che ha stampata sopra una faccia africana, butti giù un deca, leggi il titolo sui migranti somali partiti da Zuwara, ti lamenti perché “un negro” vuole rifilarti un accendino e tutto l’ambaradan che si porta dietro, saluti il ras del quartiere, quindi corri al lavoro, lungo via Bottego, sotto il palazzo con quella scritta in latino, “Tu regere imperio populos…”. E in tutto questo, del colonialismo e dei suoi crimini, non hai sentito nemmeno l’odore.

    Forse allora bisognerebbe impegnarsi per “anticolonizzare” il nostro paesaggio, il senso che diamo ai luoghi nell’atto di abitarli ogni giorno: introdurre anticorpi, invece di limitarsi a rimuovere il virus. Nel 1949 a Bologna gli odonimi coloniali del rione Cirenaica furono sostituiti con nomi di partigiani: ne restò solo uno, via Libia. Ora non si tratta di togliere anche quello, ma di aggiungerci un adesivo: “Nazione africana, luogo di crimini del colonialismo italiano”, e di raccontare come mai la giunta comunista decise che una delle vecchie intitolazioni doveva restare. Il che non significa fare lo stesso con il nome di Italo Balbo, nelle ventuno vie d’Italia che si chiamano così, inserendo giusto una targa esplicativa con il suo curriculum di violenze. Significa che il problema non si risolve cambiando un’intitolazione. La sfida è politica, estetica, storica e creativa, quindi avvincente.

    A chi strilla che “il passato non si cancella”, bisogna ribattere che un nome, un monumento o una targa, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.

    Decidere cosa consegnare all’avvenire, e in che modo riuscirci, è sempre una questione politica, dunque materia di conflitto. Come ogni mossa che facciamo sul territorio, un passo dopo l’altro.

    https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano

    #visualisation #cartographie #carte_interactive #crowsourcing #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #traces_coloniales #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique

    ping @postcolonial @cede

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Cartes sensibles ou subjectives

    Cartographie sensible ou subjective
    Pour Quentin Lefèvre, la cartographie sensible (ou #cartographie_subjective) peut se définir comme un média de restitution de l’#expérience du territoire ou encore comme la "#spatialisation_sensible de données sensibles".
    http://quentinlefevre.com/cartographie-sensible

    Cartographie sensible, émotions et #imaginaire
    #Elise_Olmedo cerne les contours théoriques et méthodologiques de la cartographie sensible, en décrit les étapes de création et s’interroge sur ses impacts, son utilité et ses limites, à partir d’une expérimentation faite sur le terrain au Maroc, à Marrakech, au printemps 2010.
    http://visionscarto.net/cartographie-sensible

    Cartographier les #interstices de la #ville
    En faisant remonter à la surface les éléments du #paysage, l’artiste scénographe #Mathias_Poisson délivre des informations sur l’#ambiance des lieux, qui sensorialisent la carte. Élise Olmedo rend compte de cette #expérience_urbaine subjective dans ce beau billet.
    http://www.strabic.fr/Mathias-Poisson-Cartographier-les-interstices-de-la-ville

    Cartes et cartographie des ressentis et représentations d’individus
    La cartographie d’objets tels que des #ressentis (une gêne) ou des représentations de l’#espace_vécu (un risque) relatés par des individus mobilise des bagages conceptuels et techniques nombreux, nécessitant une mise au point sémantique et méthodologique. Aurélie Arnaud discute l’état de la recherche dans ce domaine dans la revue M@ppemonde.
    https://journals-openedition-org/mappemonde/4666

    Et si les cartes permettaient aussi d’explorer l’#invisible ?
    C’est ce que propose l’atelier pédagogique de la BNF "Les cartes de l’invisible".
    http://c.bnf.fr/JtG

    L’#Otletosphère
    Cette cartographie relationnelle des personnalités et institutions liées à #Paul_Otlet cherche à mettre en visibilité la forte implication de l’auteur au sein des organisations pacifistes internationales ainsi qu’au sein des institutions bibliographiques et documentaires.
    http://hyperotlet.huma-num.fr/otletosphere/117

    Pour une pratique féministe de la #visualisation de données
    #Donna_Haraway, dans son essai fondateur sur les #savoirs_situés, offre une critique brillante non seulement de la représentation visuelle mais de la préférence extrême et perverse donnée aux yeux sur le corps dans la pensée occidentale.
    http://visionscarto.net/visualisation-donnees-feministe
    #feminisme

    Nouvelles cartographies – Lettres du #Tout-Monde
    Ce projet de création expérimental et ouvert à tou.te.s a été lancé par des artistes et journalistes associés au #Labo_148. Quelle sera la cartographie du monde après la crise sanitaire ? Que redéfinit-elle ? Quelles urgences « à rêver un autre rêve, à inventer d’autres espoirs » s’imposent ? Le “Tout-Monde” selon #Edouard_Glissant, est cette inextricabilité de nos devenirs, et en cela, il invite à une poétique active de la #mondialité, de rencontres des imaginaires. Voir notamment l’expérience de Paul Wamo Taneisi : “Je porterai moi-même ma carte géographique”
    http://www.labo148.com/category/nouvelles-cartographies

    #Cartographies_traverses
    « Cartographies traverses » est un dispositif de recherche-création qui regroupe des productions visuelles et sonores traitant des expériences migratoires contemporaines.
    http://visionscarto.net/cartographies-traverses

    Re-dessiner l’expérience, art, sciences, conditions migratoires
    #Sarah_Mekdjian et #Marie_Moreau utilisent la cartographie avec des migrants "pour un autre partage du sensible". Le projet débouche sur l’élaboration d’une très belle carte sensible (à voir).
    http://www.antiatlas-journal.net

    Cartes de migrants
    L’artiste camerounais #Jean_David_Nkot réalise des portraits avec des cartes afin de "représenter les nombreux lieux qui se bousculent dans la tête des migrants" : https://wepresent.wetransfer.com/story/jean-david-nkot

    Cartes d’ici et d’ailleurs
    Favoriser l’inclusion sociale des personnes migrantes en France à travers des ateliers de #cartographie_participative et sensible (CartONG) : tel est l’objectif global du projet “Cartes d’ici et d’ailleurs”, soutenu par la Fondation de France et mis en oeuvre par #CartONG.
    http://veillecarto2-0.fr/2018/12/21/carte-sensible-un-outil-dinclusion-sociale

    #Guerilla_Cartography
    L’objectif de Guerrilla Cartography est d’utiliser l’#art pour promouvoir une #cartographie_collaborative et engagée. Le site rassemble plusieurs atlas originaux et artistiques sur l’#eau, la #nourriture, les migrants.
    http://www.guerrillacartography.org

    Plateforme Art & Géo de Cartes Sensibles
    Proposé par le polau-pôle des arts urbains et #Crévilles, ce site regroupe des cartes artistiques et géographiques qui rendent compte d’un territoire existant en assumant un regard sensible et/ou subjective. Il est conçu comme un outil de ressource et de partage pour chercheurs, artistes et curieux.
    http://polau.org/pacs

    L’art est dans la cARTe
    #Ghislaine_Escande est artiste peintre et plasticienne. Avec ses cARTes, elle redessine le Monde et nous fait voyager.
    http://neocarto.hypotheses.org/10407

    Carte sensible du festival de #Glastonbury
    Le plan du célèbre festival de musique et d’arts de Glastonbury au Royaume-Uni selon The Word Magazine.

    La carte subjective du musicien #Nick_Cave
    Il s’agit d’une affiche de 2006 pour le concert de Nick Cave à Manchester en Angleterre. Elle contient plus de 50 énigmes basées sur les paroles de ses chansons. Voir cette vidéo qui revient sur le sens de cette carte subjective.
    http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/s/3ypdis

    Médier les récits de vie. Expérimentations de #cartographies_narratives et sensibles
    Article de Sarah Mekdjian et Élise Olmedo paru en 2016 sur le site de M@ppemonde.
    http://mappemonde.mgm.fr/118as2
    #cartographie_narrative

    Cartographier une année de sa vie
    #Nicholas_Felton est un artiste designer qui traduit les données de la vie quotidienne en objets et en expériences significatives. Il est l’auteur de plusieurs rapports annuels qui résument les événements de l’année en cartes et graphiques rendant compte de son expérience subjective.
    http://feltron.com/FAR08.html

    Cartographie du #confinement en période d’épidémie
    L’artiste britannique #Gareth_Fuller (https://fullermaps.com/artworks/quarantine-maps) raconte en 14 cartes l’expérience de survie que représente la #quarantaine. Un grand nombre de cartes décrivant différents vécus en mode confiné sur Citylab (www.citylab.com/life/2020/04/neighborhood-maps-coronavirus-lockdown-stay-at-home-art/610018/). Le confinement en croquis, vu de France : géographie politique, sociale et culturelle du monde post-Covid19 par #Jérôme_Monnet (Cybergéo : https://journals.openedition.org/cybergeo/34804). Une manière de décaler le regard sur le monde peut être d’utiliser (et d’admirer au passage) les très belles oeuvres de #street-art (https://www.francetvinfo.fr/culture/arts-expos/street-art/coronavirus-tour-du-monde-des-plus-belles-oeuvres-de-street-art-face-a-) produites dans le contexte de la pandémie. #Virginie_Estève a proposé un projet cartographique à ses élèves de 4e : cartographier leur espace vécu de confinement et aborder le paysage sensible depuis leur fenêtre. La preuve que l’on peut continuer à faire de la géographie et travailler à distance, moyennant quelques aménagements ( voir ce Genialy : https://view.genial.ly/5e80c8155ad5150d93dab237/guide-geographie-du-confinement). Julien Dupont (Kobri), professeur d’histoire-géographie en collège à Vaulx-en-Velin et auteur de fictions radiophoniques et cartographiques, a mis en ligne sur son site Kartokobri (https://kartokobri.wordpress.com) ses cartes quotidiennes du confinement. #SCOPIC (http://www.revuesurmesure.fr/issues/battre-aux-rythmes-de-la-ville/explorations-sensibles-de-notre-1km) s’est interrogée sur l’expérience du kilomètre autour de nos habitats. Pour d’autres liens, consulter le billet "Faire de la géographie en période de confinement" (https://cartonumerique.blogspot.com/2020/03/geographie-et-confinement.html).

    Maps of Home
    "Maps of Home" est une vision nostalgique faite des souvenirs de #Janesville dans le #Wisconsin, où l’auteur a grandi et où il a dû revenir à cause de la pandémie.
    http://moriartynaps.org/maps-of-home

    Suivre ses proches en temps de guerre
    Carte dessinée à la main par ma grand-mère pour suivre les mouvements de mes grands-pères pendant la Seconde Guerre mondiale (1943-1945).
    http://www.reddit.com/comments/be814f

    #Nomadways
    Le groupe Nomadways a invité 24 artistes, éducateurs et travailleurs sociaux à découvrir et explorer l’espace à partir de leurs #émotions et à créer leurs propres cartes subjectives dans un but de construction et d’inclusion communautaires.
    http://nomadways.eu/subjective-mapping-2017-france

    Cartographie autochtone, activités extractives et représentations alternatives
    Le réseau #MappingBack a pour objectif de fournir du soutien cartographique aux membres des communautés autochtones luttant contre les industries extractives sur leur territoire. MappingBack cherche à utiliser la cartographie comme un outil de #résistance.
    http://mappingback.org/home_fr
    #peuples_autochtones #extractivisme

    #Native_land, cartographier les voix autochtones
    Le site Native Land, mis sur pied en 2015 par #Victor_Temprano, propose un outil cartographique participatif permettant une conceptualisation décoloniale des Amériques, du #Groenland, de l’#Australie et de la #Nouvelle-Zélande. Lire la présentation du site.
    http://native-land.ca
    #décolonial

    Cartographie et #langues_autochtones
    #Marlena_Myles utilise son art pour célébrer sa culture et sa langue autochtones ainsi que pour aider le public (notamment les enfants) à comprendre l’importance des traditions et de l’histoire orales autochtones. Ses cartes racontent le passé, le présent et l’avenir du peuple et de la langue du #Dakota.
    http://marlenamyl.es/project/dakota-land-map
    #histoire_orale

    Counter Mapping
    #Jim_Enote, agriculteur #zuni traditionnel dans le Colorado (Etats-Unis), collabore avec des artistes pour créer des cartes qui ramènent une voix et une perspective autochtones à la terre. Ces cartes zunis s’inspirent profondément d’expériences partagées de lieux dans une volonté de #réappropriation du territoire par les #Amerindiens.
    http://emergencemagazine.org/story/counter-mapping

    Cartographie personnelle et subjective de #Mary_Jones
    Au cours de ses dérives dans la ville de #Des_Moines, Mary Jones observe les lieux et les habitant⋅e⋅s, fait des photos, remplit des carnets d’#esquisses, prend des notes, enregistre parfois aussi des sons. Une masse de matériaux bruts qu’elle assemble ensuite en images hybrides (#collages, #superpositions, #sampling_visuels) qui composent une sorte de cartographie personnelle, subjective, voire intime de la cité et de ses marges.
    http://aris.papatheodorou.net/une-flaneuse-a-la-derive

    Cartographier les espaces vécus et les émotions (#Drusec)
    La ville telles qu’elle est vécue par les usagè.re.s de drogue marginalisés de #Bordeaux.
    http://drusec.hypotheses.org/1722

    #Queering_the_Map
    Queering the Map est un projet de cartographie généré par la communauté #queer afin de géolocaliser des moments, des souvenirs et des histoires par rapport à leur espace physique. En cartographiant ces moments éphémères, Queering the Map vise à créer une archive vivante d’expériences queer.
    http://queeringthemap.com

    Cartographie subjective des Etats-Unis par #Paul_Steinberg
    Cette série de vues subjectives des Etats-Unis et du monde a été réalisée par Saul Steinberg pour des couvertures anciennes de magazines (The New Yorker ou autres)
    http://saulsteinbergfoundation.org/essay/view-of-the-world-from-9th-avenue

    La cartographie au service des théories platistes
    La théorie de la Terre Plate perdure jusqu’à aujourd’hui. La réalisation de cartes à l’image de la #terre_plate devient un objet de promotion de ces théories.
    http://veillecarto2-0.fr/2020/09/22/la-cartographie-au-service-des-theories-platistes

    Le monde vu de...
    Une série de vues du monde à partir de #New_York, #San_Francisco et différentes villes des Etats-Unis (lire notre article sur le monde vu de la Silicon Valley).
    https://imgur.com/a/XTnSn#0

    Le monde vu par les Anciens
    Cet atlas de #Karl_Müller de 1874 reproduit "les systèmes géographiques des Anciens" et d’une certaine manière la façon dont ces systèmes de représentation de l’#Antiquité étaient eux-mêmes vus au XIXe siècle.
    http://geodata.mit.edu/catalog/princeton-r207tq824

    L’Europe vue de la Russie
    L’Europe vue de Moscou et l’Asie vue d’#Irkoutsk pendant la Guerre froide (1952).
    https://www.reddit.com/r/MapPorn/comments/epdn4c/europe_from_moscowasia_from_irkutsk_time_magazine

    Cartographie et subjectivité chez #Alexander_von_Humboldt
    En scrutant minutieusement les différentes cartes réalisées par Alexander #von_Humboldt, on remarque certaines particularités, des mentions qui, à priori, n’auraient pas lieu de s’y trouver tant elles témoignent de la subjectivité de l’auteur.
    http://visionscarto.net/Humboldt-carto-subjective

    Le monde sens dessus dessous
    Un planisphère renversé montrant la Terre vue depuis l’hémisphère sud (à télécharger en haute résolution). Consulter la page des #projections cartographiques (http://cartonumerique.blogspot.com/p/projections-cartographiques.html) pour accéder à d’autres vues renversantes de la Terre.
    https://www.digitalcommonwealth.org/search/commonwealth:9s161j433

    Cartographie ultrapériphérique, et si on changeait de point de vue
    Une carte des territoires ultramarins vus depuis l’hémisphère sud.
    http://www.une-saison-en-guyane.com/extras/carte/carto-ultraperipherie-si-on-changeait-de-point-de-vue%e2%80%89

    Projections du futur
    Les projections du futur seront probablement centrées sur les océans, comme ces deux cartes du monde en projection Mercator oblique qui représentent les continents tout autour d’un océan unique.
    http://rightbasicbuilding.com/2019/09/09/the-world-maps-of-the-future

    Carte subjective de #Paris en 2050
    Cette carte imagine Paris en 2050, lorsque les effets du #réchauffement_climatique se seront durement faits ressentir... si rien n’est fait. Voir notre article de présentation : https://cartonumerique.blogspot.com/2019/02/carto-subjective-geo-prospective.html
    http://www.deuxdegres.net/projects/paris-2050
    #changement_climatique

    Utiliser des #SIG pour cartographier les #pratiques_spatiales
    Des recherches récentes montrent l’intérêt d’utiliser les données fournies par les #réseaux_sociaux pour les cartographier et mettre en évidence des comportements des individus dans l’espace.
    http://www.gislounge.com/using-gis-to-analyze-peoples-attitudes

    Cartographie collaborative
    L’objectif de ce site est de développer un ensemble d’usages pour aider à la dissémination des pratiques collaboratives en matière de cartographie, que ce soit pour le citoyen ou au sein de structures (associations, collectivités, milieu scolaire).
    http://cartographie-collaborative.eu

    #Mapquote
    Le projet collaboratif Mapquote prend la forme d’une #carte_interactive où chaque utilisateur peut déposer une #citation de #romans où il est question de cartes.
    http://neocarto.hypotheses.org/6502

    L’usage de Google Maps dans « #Netherland »
    Netherland est une belle réflexion désabusée sur les lieux et le déplacement, l’#espace et la #séparation, le fait de pouvoir être physiquement dans un lieu et mentalement dans un autre. Google Maps n’intervient que dans deux courts passages au début et à la fin du livre (source : Spacefiction)
    http://spacefiction.fr/2009/11/01/google-maps-enters-litteraturegoogle-maps-entre-dans-la-litterature

    #Hoodmaps
    Hoodmaps permet de créer des cartes participatives pour éviter les #pièges_à_touristes et fréquenter les quartiers branchés de la ville. La typologie est assez basique, voire un peu réductrice : entre les “hipsters”, les touristes, les étudiants, les “riches”, les “costards” et les “normaux”, mais permet de rapidement identifier les différents quartiers d’une ville.
    http://hoodmaps.com

    Apprendre sur le territoire en représentant son territoire
    Carte sensible élaborée par une classe de 1re ES qui montre la vision de leur lycée. A compléter par l’interview de Sophie Gaujal pour le Café pédagogique : L’approche sensible en cours de géographie, un ingrédient du bonheur ?
    http://hal.archives-ouvertes.fr

    Cartographie ton quartier
    Les cartes postales géocartographiques permettent d’articuler géographie spontanée et géographie raisonnée. Organisé par Sophie Gaujal, en partenariat avec le Café pédagogique, la Cité de l’architecture et l’IGN, le concours Cartographie ton quartier récompense les cartes postales cartographiques réalisées par des classes.
    http://blog.ac-versailles.fr/geophotographie

    Atelier de cartographie sensible (Ehess)
    La plateforme SIG de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, met à disposition des ressources sur la cartographie sensible dans le cadre des ateliers Géomatique et humanités numériques qu’elle organise, notamment sur Gennevilliers.
    http://psig.huma-num.fr/cartes-sensibles

    #Cartes_mentales dans le nord de #Marseille
    Ce billet de #Jérémy_Garniaux relate un atelier « cartes mentales » mené à Marseille, dans les 14, 15 et 16e arrondissements, par une plate-forme culturelle hors-les-murs constituée de cinq structures culturelles du Nord de Marseille.
    http://www.mapper.fr/cartes-mentales-dans-le-nord-de-marseille

    Chicago HomeStories Project
    Le projet est né à #Chicago et commence à se diffuser dans le monde. Il s’agit d’encourager les citoyens par des #marches_civiques à en savoir plus sur leur quartier.
    http://www.nationalgeographic.org/projects/out-of-eden-walk/blogs/lab-talk/2021-04-chicago-homestories-goes-global

    Concours #cartographie_imaginaire
    Cartographier la ville de demain, son quartier dans le futur, son école ou son collège idéal...
    http://www.concourscarto.com/accueil-cci

    Concours de dessin de cartes du monde pour enfants
    Le concours #Barbara_Petchenik est un concours biennal de dessin de carte destiné aux enfants. Il a été créé par l’Association cartographique internationale en 1993 dans le but de promouvoir la représentation créative du monde sous forme graphique par les enfants.
    http://icaci.org/petchenik

    Lignes d’erre - Les cartes de #Fernand_Deligny
    Pendant des années, Deligny a dessiné et fait dessiner des cartes de ce qu’il appelle leurs #lignes_d’erre, soit les trajets « libres » des #enfants sur leur aire de séjour. Il a perçu, par l’observation, que les autistes avaient une autre façon d’être au monde, une autre manière d’incarner l’humain.
    http://culture.univ-lille1.fr/fileadmin/lna/lna60/lna60p34.pdf

    La carte sensible de #Boulogne-Billancourt
    Un projet pédagogique conduit par une équipe d’enseignants du lycée J. Prévert de Boulogne-Billancourt avec des classes de Seconde.
    http://www.cafepedagogique.net

    La "carte du Tendre" de #Nantes
    #Gwenaëlle_Imhoff et #Emilie_Arbey, professeures de français et d’histoire géographie au collège Gutenberg de Saint-Herblain ont amené leurs 4èmes à réaliser de nouvelles « Cartes du Tendre » à la manière de Madame de Scudéry pour inventer « une géographie nantaise de l’Amour ». Enjeu de ce travail créatif et collaboratif, visuel et oral : aider les élèves à s’approprier « l’espace urbain proche et pourtant trop souvent lointain ».
    http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2020/08/31082020Article637344555283464848.aspx
    http://www.pedagogie.ac-nantes.fr/lettres/continuite-pedgogique-et-numerique-en-lettres-carte-du-tendre-pr

    Cartographier l’#insécurité au collège
    Professeure d’histoire-géographie au collège Molière de Beaufort en Anjou, #Anaïs_Le_Thiec lance sa classe de 5ème dans une cartographie sensible du collège. Elle les invite à libérer leur parole via une #storymap.
    http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2019/10/18102019Article637069844590338061.aspx

    Dans ma ville on traîne
    Visite guidée et habitée par le rappeur #Orelsan, qui propose une description de la ville de #Caen. L’intérêt principal est de rappeler qu’un espace géographique, avant d’être un objet d’étude, reste surtout un lieu de vie que l’on habite. Le rappeur énumère ses souvenirs d’enfant, d’adolescent, d’étudiant. Ce faisant, il raconte SA ville. Il associe chaque action passée au lieu où elle s’est déroulée.
    http://lhistgeobox.blogspot.com/2020/10/dans-ma-ville-on-traine-visite-guidee.html

    Des lieux où l’on exprime ses sentiments
    Carte interactive des lieux où les étudiants ont déclaré avoir pleuré sur le campus de l’université de Waterloo aux Etats-Unis (avec les commentaires). Cela correspondrait-il aux bâtiments de sciences et de mathématiques ?
    http://www.reddit.com/r/dataisbeautiful/comments/l3t3xx/oc_an_interactive_map_of_where_students_have

    Psycho-géographie de la ville de #Gibellina
    Quand les artistes essaient de tromper les algorithmes de télédétection. C’est ce qu’a fait l’artiste #Burri avec une oeuvre d’art gigantesque couvrant les ruines de la vieille ville de Gibellina en Italie (à voir dans Google Maps)
    http://www.archdaily.com/958178/the-psycho-geography-of-the-cretto-di-burri

    Lyon-La Duchère 2030 : imaginer des scénarios prospectifs
    Ces #scénarios prospectifs sont proposés par des élèves de 2nde du Lycée La Martinière-Duchère concernant le projet d’aménagement urbain #Lyon-La Duchère 2030.
    http://canabae.enseigne.ac-lyon.fr/spip/spip.php?article1103

    #Cartographie_sonore du quartier de l’Union (#Lille - #Roubaix - #Tourcoing)
    Réalisé dans le cadre du projet de recherche Géographie et prospective piloté par l’IFE, cette expérimentation pédagogique a permis de découvrir par l’expérience spatiale un projet d’#aménagement_urbain d’envergure (son évolution, ses acteurs et ses enjeux) dans l’environnement proche des élèves, en privilégiant une géographie fondée sur l’expérience du terrain.
    http://ife.ens-lyon.fr/geo-et-prospective/projet/cartographie-sonore-du-quartier-de-lunion

    #Cartophonies
    Comment sonne le monde ? Le site « Cartophonies » a pour objectif d’explorer l’#expérience_sonore contemporaine et d’aider a les prendre en compte dans l’avenir et dans les projets de transformation. Il contribue à construire une connaissance des milieux habités, du vécu des espaces et des ambiances contemporaines, celles du passé proche comme celles du futur.
    http://www.cartophonies.fr
    #son

    Cartes et mise en récit des mobilités
    Dans le cadre d’une recherche doctorale, #Sylvie_Joublot-Ferré étudie les spatialités des adolescents en s’appuyant sur la cartographie de leurs déplacements quotidiens enregistrés sous forme de traces GPS et en analysant ces cartes comme des #récits_de_vie.
    http://www.researchgate.net
    http://www.radiobus.fm/episode/interview-de-sylvie-joublot-ferre-hepl

    Comment les enfants ont perdu le droit de se déplacer
    Carte montrant le territoire pratiqué pendant l’enfance sur quatre générations à #Sheffield.
    http://www.dailymail.co.uk/news/article-462091/How-children-lost-right-roam-generations.html

    Comment les jeunes géographes ressentent-ils le monde contemporain ?
    Un exercice de cartographie sensible proposé à des étudiants de master destinés à s’orienter vers le monde associatif donne un regard sur leurs représentations du monde. Environnement menacé, mobilités généralisées, et questionnements autour de la mondialisation émergent de ces cartes mentales, témoignant des inquiétudes d’une génération.
    http://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/a-la-une/carte-a-la-une/cartographie-emotions-monde-contemporain

    « Mais madame, je n’y suis jamais allé ! »
    Un #voyage_virtuel à #La_Réunion à travers la confection de #cartes_postales sensibles par des élèves de lycée professionnel. La #géographie_expérientielle ce n’est pas seulement du vécu, ce sont aussi (et surtout) des représentations (article extrait des Cahiers pédagogique, n° 559 "L’aventure de la géographie".
    http://www.cahiers-pedagogiques.com/Mais-madame-je-n-y-suis-jamais-alle

    Tour de la France par deux enfants (G. Bruno)
    Cet ouvrage constitue l’archétype du roman scolaire géographique. Réédité de nombreuses fois depuis sa sortie en 1877, l’ouvrage a connu un énorme succès (plus de 9 millions d’exemplaires), contribuant à façonner une image du territoire national.
    http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5684551x

    Une géographie subjective à travers les romans d’aventure pour la jeunesse
    Aurélie Gille Comte-Sponville, Modernité et archaïsme des lieux dans les romans d’enquête et d’aventure pour la jeunesse pendant les Trente Glorieuses en France, thèse soutenue en 2016. L’importance des lieux correspond à la quête d’une #utopie de l’enfance éternelle, qui figerait non seulement les héros dans la perfection de leur âge, mais aussi les lieux, dans une forme d’uchronie idéalisée.
    http://www.theses.fr/2016ARTO0008

    Le #Londres des romans de #John_Le_Carré
    #Mike_Hall a été chargé de dessiner pour l’éditeur Penguin Books la carte des personnages, des lieux et des scènes de romans d’espionnage de John Le Carré.
    http://thisismikehall.com/smileyslondon

    La carte de la classe de khâgne
    Cartographie subjective de la classe khâgne par Gus (@ecsolius) : quand un khagneux dresse la carte symbolique d’une année en prépa littéraire
    http://twitter.com/ecsolius/status/1292071140047937536

    La carte des mathématiques
    La carte du "#Mathematistan" représente les rapports ambigus que l’on peut avoir les #mathématiques. Une région souvent inaccessible ?
    http://www.reddit.com/r/math/comments/2av79v/map_of_mathematistan_source_in_comments

    Cartographie de son appartement
    Géographie de mon appartement vu par Thibaut Sardier.
    http://twitter.com/tsardier/status/1326832393655816192

    Cartographie imaginaire du nourrisson
    @LittleBigData suit, en infographies et sur les réseaux sociaux, les tourments et les joies de #jeunes_parents (voir cette présentation). Le résultat est un cartographie imaginaire des premiers mois de la vie d’un enfant. Avec une magnifique carte de la première année extraite de l’ouvrage Le Bébégraphe publié par Claire Dealberto et Jules Grandin aux éditions Les Arènes en 2021.
    http://twitter.com/LittleBigData_/status/1263721598076555265

    Carte des #lieux_communs
    De "l’usine à gaz" au "terrain d’entente", @LaMineComics passe en revue tous nos lieux communs inspirés de métaphores géographiques.
    http://twitter.com/LaMineComics/status/1097068721846321152

    https://cartonumerique.blogspot.com/p/cartes-sensibles.html

    #cartographie_sensible #bibliographie #ressources_pédagogiques

    ping @visionscarto @odilon @reka

  • La #carte_interactive de l’#Observatoire_des_territoires s’enrichit

    L’outil de #cartographie_interactive de l’Observatoire des territoires (https://www.observatoire-des-territoires.gouv.fr/outils/cartographie-interactive/#view=map36&c=indicator) c’est plus de 600 #indicateurs_statistiques disponibles à une vingtaine d’échelons territoriaux, de la commune à la région européenne. C’est également un outil d’édition de #portraits_de_territoires qui permet d’analyser les caractéristiques d’une zone géographique (démographiques, sociales, économiques…) en la comparant avec un espace de référence.

    Dans l’optique de mettre à disposition à la fois les #données les plus récentes possibles mais aussi de diffuser des #zonages actualisés et dans la #géographie_communale la plus récente, la carte interactive de l’Observatoire des territoires a récemment fait l’objet d’une importante mise à jour.

    Nouveaux zonages (aires d’attraction des villes, zones d’emploi 2020, ressorts de justice...), nouveaux #fonds_de_carte (AAV 2020, massifs, PNR...), nouveaux #indicateurs (agriculture biologique, accessibilité aux services et niveaux de centralités...), retrouvez le détail de ces mises à jour dans notre actualité :
    https://www.observatoire-des-territoires.gouv.fr/actualites/2020-geoclip-maj-ngeo2020-actualite

    #cartographie
    ping @reka @simplicissimus

  • The Landscapes of Border Control : Mapping border control and resistance

    Border Criminologies is pleased to launch our new interactive website, the Landscapes of Border Control. Starting with material gathered from and about Greece and Italy this project aims to visualise what goes on in detention centres in order to increase public understanding about immigration and the treatment of immigrants in detention settings. Eventually, other countries will be added.

    Despite the increased media and political attention on Italy and Greece as key sites of European border security, we still know little about everyday life inside detention sites in these two countries. This map, and the stories that accompany it, seek to fill this gap by contextualising and communicating the presence and function of these sites of confinement as well as the lived experiences of those within them. In doing so, this project seeks not only to present the violence of the border control regime but also to illuminate the struggles of those affected by it.

    Such a project is particularly important, we believe, in the face of the alarming growth of the detention estate worldwide, and particularly in Italy and Greece. For instance, in Italy a new detention centre has been re-opened in December at Gradisca d’Isonzo, and another one is in the process of being opened in Macomer. Tragically, two deaths have already occurred in 2020, the latest one occurring on Saturday 18 January, when a 20-years old man died in the hospital of Gorizia. Early reports suggest that #Vakhtang_Enukidze had been seriously injured during an episode of violence within the Gradisca detention centre a few days before. While an investigation is currently underway, early reports from activists reveal considerable police brutality (see here). In response, they have organised a demonstration in front of the centre in solidarity with the detainees inside (see here). This latest tragedy demonstrates, once again, the importance of joint efforts to ensure that what happens in detention is not hidden from scrutiny, that detainees’ experiences are heard, and that human rights defenders are given information and support.

    Moved by these aims, this countermapping project presents a variety of forms of evidence including videography, photography, original art, oral history, and testimonies from those directly affected. The material disseminated through this platform draws on a large set of data obtained over different time periods and under a range of diverse projects and long-term engagement with civil society organisations. It is specifically designed to offer a platform to civil society organisations, solidarity groups, (ex) detainees and the public to communicate their experiences from detention and

    The map shows the locations of facilities where migrants may be detained in both Greece and Italy. Clicking on a node, you can see the name of the centre; click again and you will be directed to the centre’s page where an array of information will be provided including images, video and audio (where applicable), academic work, human rights organisations’ reports, policy briefs and other published material. We hope that in time, the material we provide will be enriched by original contributions from people in the field and those who have survived the centres.

    Items can be added easily through the button ‘add information to this location’ found at the bottom of each individual page. An example can be seen here for Ponte Galeria in Rome. Entirely new locations can also be added by filling in information on this page. Items will be screened by Border Criminologies’ members. Information can also be provided in Italian and Greek and will be translated by us.

    Contributors will remain anonymous if they wish and they can add either free text, a pdf document, video or audio files.

    This is a collaborative project, designed to give organisations and groups already in detention an avenue for publicising their findings and disseminating them to a wider audience which is not limited to their national contexts but reaches out globally. We have received considerable assistance from a range of people and collectives/NGOs in getting it this far. Among these, in Italy, we would like to mention BeFree, ADIF, ASGI, the Migrant Observatory Basilicata, LasciateCIEntrare, CILD, Antigone, Sant’Egidio, A Buon Diritto, the International University College of Turin and the Legal Clinic of Roma Tre on migration and asylum. So, too, we have worked with the Greek Refugee Council and Aitima, among others.

    We hope this initiative, which is supported by the ‘Public Engagement with Research Fund,’ at the University of Oxford and the Open Society Foundations, will challenge attempts by the Greek and Italian states to invisibilise and spatially isolate immigrants, while supporting local partners who are engaged in advocacy and strategic litigation, e.g. through factual investigation, research and analysis. We believe that this project can provoke critical witnessing. This map depicts Italy and Greece as they are experienced and shaped by migrants’ presence and their struggles.

    https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2020/01/landscapes-border
    #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #Italie #Grèce #cartographie #carte_interactive #visualisation

    –----

    Je me demande en quoi l’initiative est vraiment différente du site web de Migreurop « #Close_the_camps » :
    https://en.closethecamps.org

    Et du #Global_detention_project :
    https://www.globaldetentionproject.org

    ping @karine4 @reka
    via @isskein

  • #Tokyo_fiction

    Au travers de trois grands thèmes -la structure du #chaos, les #mécanismes et les #artefacts- j’ai tenté d’offrir des grilles de lecture pour comprendre Tôkyô. Le premier thème, la structure du chaos, regroupe des données quantitatives et esquisse une analyse macro-urbaine. Le second, les mécanismes, tente, par un bricolage intellectuel, une analyse des dynamiques à l’oeuvre dans la ville. Le troisième, les artefacts, offre un début d’inventaire des objets ou typologies qui constituent le tissu construit.


    https://www.tokyofictions.com
    #Tokyo #Japon #cartographie #visualisation #carte_interactive #urban_matter
    ping @reka

  • A Calais, la frontière tue ! In Calais, the border kills !


    http://timeglider.com/timeline/65ecd96fa599a9c6

    –-----
    Deaths at the Calais Border

    Uncountable lives are wasted and suffer at the hands of the Calais border regime. There is no accurate count of how many people have died. This is a list of people known in Calais or from news reports.

    For sure there will have been more, their deaths ignored, the facts covered up or altogether unreported. Many already go unnamed, without vigils and protests, without families or friends to advocate on their behalf.

    But we will never let these deaths be silenced. We will not forgive and we will never forget.

    These borders kill! One death is too many!

    https://calaismigrantsolidarity.wordpress.com/deaths-at-the-calais-border

    #morts #décès #mourir_aux_frontières #Calais #France #frontières #Angleterre #UK #migrations #asile #réfugiés #base_de_données #database #liste #timeline #ligne_du_temps #mourir_dans_la_forteresse_Europe #visualisation #infographie #frise #frise_chronologique #time-line #chronologie

    ping @reka @simplicissimus @karine4

    • Un article de février 2018

      The deadly roads into Calais

      Since 1999, an estimated 170 migrants desperately seeking a clandestine passage across the Channel to Britain have died in road accidents in and around the port of Calais in northern France, 37 of them since 2015. One former police officer said the situation became so grim “it was humanly impossible to pick up more bodies from the road”. One of the most recent victims was a 22-year-old Eritrean whose mutilated body was found on a motorway last month after he was run over by a truck whose driver fled the scene. Elisa Perrigueur reports from Calais, where she met with Biniam’s relatives as they prepared the return of his body home to north-east Africa.
      The temperature was below freezing point on a bleak dawn last month when Biniam’s remains were found near the port of Calais, lying on the smooth tarmac of the A16 motorway that runs parallel to the Channel coast. According to statements given to the police afterwards by those who knew him, Biniam L. (full last name withheld here), a 22-year-old Eritrean, had probably spent all night looking for a truck he could climb onto in the hope of smuggling his way to England.

      He was successful, at first. He had managed to mount one of them, hiding in its cargo hold, most certainly hoping, like so many others who attempt the same, that once it passed through the fortified perimeter of the port, which is surrounded by 39 kilometres of fencing, it would be one of the vehicles that occasionally escapes the heat scanners and sniffer-dog searches, first in Calais and then, after the brief sea passage, through the British port of Dover. With no ID documents and no baggage, just the clothes he would hope could adequately keep out the biting cold.

      But on that early morning of January 9th this year, his plan went horribly wrong. The truck he had hidden in did not turn off the motorway into Calais, but instead continued its route eastwards. The young man must have panicked when he realised the fact, for he tried to jump from the truck onto the motorway despite the speeding traffic. According to members of the local French migrant aid association, l’Auberge des migrants, who spoke to police afterwards, Biniam landed on his head and was run over by another truck following behind. But neither vehicle stopped, and there remains doubt over the exact circumstances of his final moments.

      Between December 2017 and January this year two other migrants, 15-year-old Abdullah Dilsouz and Hussein Abdoullah, 32, both Afghan nationals, lost their lives in accidents on the roads around Calais. “Since 2015, there have been 37 migrants who have died in [and around] Calais,” said a spokesperson for the local prefecture. “The highest number date back to 2015 and 2016, the great majority are road accidents.” In 2015, the death toll reached 18, followed by 14 in 2016.

      Maël Galisson, a coordinator for the network of associations in the region providing aid for migrants, the Plate-forme de services aux migrants, has carried out research to establish the number of victims over the past almost 20 years and, where possible, to record their identities. “Since 1999, we estimate that at least 170 people have died while trying to cross this frontier area,” he said. The majority of road accidents occur on the stretches of the A16 and A26 motorways close to Calais, and the ring road into the port centre.

      The day after his death, Biniam’s brother Bereket, 26, arrived in Calais from Germany, accompanied by a cousin and uncle who had travelled from Norway. “He had no ‘dream’ as people put it, he just wanted a country where he was accepted,” said Bereket, who said he had difficulty believing the news that his brother, who he said was “so young to die”, had been killed in a road accident, which he received in a phone call from a friend.

      Bereket said he was not aware of the daily reality of the migrants in Calais, the road blocks migrants mount to try and slow traffic and the clandestine crossings in trucks. In his case, he had crossed to Europe by boat across the Mediterranean Sea. Biniam, he explained, had left the family village in Eritrea, north-east Africa, one-and-a-half years ago, to escape conscription into the army. At one point, he joined up with his brother Bereket in Germany, where the latter had been granted residence. “I obtained [official residency] papers close to Stuttgart and today I work in Germany, I had begun to have a stable life,” recounted Bereket. “His asylum demand was rejected, I don’t understand why.” Biniam had re-applied a second time for right of asylum, but was again turned down. It was after that, in November, that he set off for Calais, where between 550 and 800 migrants – according to figures respectively from the prefecture and the migrant aid associations – live rough, mostly in surrounding woodland.

      The few friends of Biniam who Bereket met with in Calais were little forthcoming about his time there. Loan Torondel of the Auberge des migrants association, which had offered Biniam shelter, said he was never seen at the daily distribution of meals. “A month here is not very long for finding a truck,” he said. “Often, migrants spend months before succeeding, for those who manage to.”

      During his visit to Calais on February 2nd, French interior minister Gérard Collomb, hoping to dissuade migrants from gathering there, described the frontier point as “a wall” and “a mirage”. But from the beach, the migrants can see the English coast, where some have family and friends they hope to join, in a country with lower unemployment than in France and where finding work, undeclared, is easier. Others say they would stay in France but fear that, if they engaged in the official procedures, because their fingerprints are registered in the first European Union (EU) country they reached before travelling to France they would be sent back there, in accordance with the regulations of the EU’s so-called Dublin Agreement.

      The victims are often young men’

      For the migrants hoping to cross to Britain from Calais there are few options in how to do so. The British government has handed France about 140 million euros over the past three years to part fund the increased security measures at the port, which is the frontier point before departure for the English coast. On January 18th, at a summit meeting between British Prime Minister Theresa May and French President Emmanuel Macron, London announced that it was to provide a further 50.5 million euros, for a further beefing up of security and for establishing a centre for migrants at a site distanced from the town.

      For the migrants who can afford their fees, one option is to use the services of people smugglers. They charge between 1,500 euros and 10,000 euros per person for a clandestine passage in a truck, operating out of vehicle parks which they reign over as their own territory. Clashes which broke out in Calais on February 1st between Afghan and Eritrean migrants, which left 22 needing medical treatment, including four teenagers wounded by gunfire, appear to have been linked to turf wars between people smugglers.

      Others try blocking trucks on the approach roads to the port, operating in small groups to lay down obstacles to slow or even halt the vehicles in order to jump on. The method is a dangerous one, for both the migrants and the drivers. In June 2017, the polish driver of a truck died after his vehicle crashed into another truck that was blocked by migrants on the A16 motorway, burned alive in his cabin.

      Then there are those, and who probably included Biniam, who try to mount the vehicles on their own. Eupui is a 19-year-old migrant from Cameroun, in West Africa, and has lived since 2016 on the ‘Dunes’ industrial zone of the port, the site of the notorious and now razed migrant camp known as “the Jungle”. His solitary sorties to find a truck that would take him across the Channel somehow allow him “to keep going”, he told Mediapart. “I sleep three hours and then I try,” he said. “As soon as I see a truck that isn’t going too fast, even a car, I see if I can get into the boot.” He said he hides “near the bends of the motorways” because vehicles reduce speed there. “I’m not afraid, I’ve lived much worse,” he added. “I crossed the Sahara in horrible conditions to come here. I have nothing left to lose. I’ve injured my knee, but never mind.”

      Biniam’s brother Bereket said his brother did not realise the danger in the risks he was taking. “I spoke to him three weeks before he died,” said Bereket. “He told me that everything was fine for him in France. But he lied to me, he didn’t tell me he was at Calais. If I had known, I would have told him to get out of this dangerous place.”

      Bereket said he was “disappointed” by what he saw on this, his first trip to France. He has been supported by local charitable associations, including the Réveil voyageur and the Secours catholique, who usually look after relatives of those who have died. “You don’t see many officials, politicians, as if Biniam’s death had no importance,” he said bitterly.

      “The associations have been managing this for years,” said Sabriya Guivy from the Auberge des migrants group. “When relatives arrive in Calais they are disappointed at not seeing many officials. They have the impression that they are not taken into account. Mr Macron referred to the death of the Polish driver, but not that of migrants,” she added, referring to a speech by the French president during his visit to Calais on January 16th.

      Undertaker Brahim Fares, based in nearby Grande-Synthe, says he charges a “lower than average” price to migrant families out of solidarity. “The dead are repatriated to Afghanistan for between about 3,400-3,500 euros, depending on the weight and the size,” he detailed. “For Eritrea, it begins at around 3,200 euros. Burials in Calais are about 1,600 euros, as opposed to a usual 2,400 euros.” Since 2015, Fares says he has organised the return home of about 15 bodies of migrants, and also the burials of about the same number in the north Calais cemetery managed by the Town Hall. The burial spots are simple ones, covered in earth and marked by crosses made of oak. “The victims are often young men, almost all of them identified,” he added. “I once had an Ethiopian woman. Not all the families can come all the way here. Those who manage to are very shocked, because the bodies are sometimes very damaged, as those in road accidents are.”

      Fares was given charge of Biniam’s body, which he recalled had “the hands cut off, the arms smashed up”. The corpse will be returned to Eritrea, where his parents live. Bereket, with his uncle and cousin, made up a large wreath of plastic flowers. “It’s really not so good but we had only that,” he said. But at the hospital in Lille where the body was placed in the coffin, they were told that they could not place the wreath on top of it, nor the white drape they had wanted to cover it with, according to their custom. “The airport authorities will end up throwing the wreath away, it’s not allowed in the hold,” Fares explained to them. After a poignant moment of silence, they asked him why it would be so complicated to do so.

      Biniam’s relatives spent two weeks attempting to find out the exact circumstances of what happened to him. At the police station in Calais, they were shown a photo of his injured face. Members of the motorway patrol police gave them the few details they had, which were the approximate time of the accident, a statement from a witness who had not seen very much, and the fact that the driver of the truck that ran over Biniam had fled the scene. “France is a developed country […] so why can’t the driver who did that be found?” asked Bereket. “Even in Eritrea we’d have found the killer of my brother.”

      Loan Torondel of the association l’Auberge des migrants said he had seen similar outrage by relatives before. “Many don’t understand why their close family member died under a lorry and that the driver did not act voluntarily,” he said. “Biniam’s family thought that there would be the launch of an investigation, like in American films. They think that the police is not [bothered into] carrying out an investigation, but in reality there are few witnesses.”

      Meanwhile, Bereket has lodged an official complaint over his brother’s death “against persons unknown”, explaining: “I won’t be able to sleep as long as I don’t know how he died, and while the person responsible is free.”

      ’It’s incredible that nobody saw anything’

      While the police systematically open investigations into the road deaths of migrants, they are often complex, beginning with the identification of the victim. Patrick Visser-Bourdon, a former Calais-based police detective, recalled the death of a Sudanese migrant whose body was found one morning in 2016 close to the port’s ring road, with “the head opened, abandoned, wearing a pair of jeans and a long-sleeved T-shirt”.

      During his enquiries, Visser-Bourdon approached the head of the Sudanese community of migrants living in the camp known as “the Jungle”, but nobody recognised the body. “We also put out his photo in the police stations,” he said. “In the majority of such cases, we mostly called on the NGOs for help.” As in the case of Biniam, the driver of what was apparently a truck that had hit the Sudanese man had not stopped. “There was blood on the road, there was necessarily some on the bumpers of the truck,” said Visser-Bourdon. “The driver therefore must have stopped his vehicle at some point to clean it, between the Jungle and the port. It’s incredible that nobody saw anything.”

      Sabriya Guivy from the Auberge des migrants group added that because some local sections of the motorways are unlit, “It is entirely possible to not realise that one has hit someone and to carry on”.

      A section of the numerous investigations into such events end up being closed, unsolved. Someone who is charged with involuntary homicide in France faces a sentence of three years in prison, and up to five years in jail in the case of aggravating circumstances such as fleeing the scene. “Sometimes, some of them don’t remain at the scene of the accident, notably in the case of dangerous [migrant] road blocks, but they go directly to present themselves to the police,” said Pascal Marconville, public prosecutor of the nearby port of Boulogne-sur-Mer, whose services have jurisdiction for events in Calais. “In that case, it’s regarded more as a hit-and-run offence which is exonerated by the circumstances.”

      Patrick Visser-Bourdon said he had welcomed the building of a wall surrounding the ring road in 2016 aimed at deterring migrants from the traffic. “It was humanly impossible to pick up more bodies from the road,” he said.

      https://www.mediapart.fr/en/journal/france/190218/deadly-roads-calais

      –----

      En français :
      A Calais, les routes de la mort pour les migrants
      https://www.mediapart.fr/journal/france/180218/calais-les-routes-de-la-mort-pour-les-migrants?page_article=1%20

    • Voir Calais et mourir

      Si, depuis quelques années, militants et chercheurs commencent à compter les morts sur les routes migratoires, ils ont tendance à se focaliser sur l’arc méditerranéen, négligeant la frontière franco-britannique que l’on pourrait qualifier de nasse calaisienne. Accords européens, traités bilatéraux et leurs corollaires sécuritaires font en effet de cette frontière un mur meurtrier. Et les migrants n’ont d’autre choix que de prendre toujours plus de risques pour le franchir… au péril de leur vie.

      Nawall Al Jende avait 26 ans. Elle était originaire de Nawa, une ville située à une trentaine de kilomètres de Deraa, dans le sud de la Syrie. Elle avait fui la guerre et laissé derrière elle son époux et deux de ses enfants. Avec son troisième enfant, Mohamed, âgé de 9 ans, et le frère de son mari, Oussama, son périple l’avait amenée à traverser neuf pays avant d’atteindre Calais. Sa sœur, Sawson, avait réalisé un parcours quasi similaire deux mois plus tôt et l’attendait de l’autre côté de la Manche. Nawall est décédée le 15 octobre 2015, après avoir été percutée par un taxi sur l’autoroute A16, alors qu’elle tentait de se glisser dans un camion afin de franchir la frontière franco-britannique. Comme sur les autres routes de l’exil, des personnes migrantes meurent à Calais et dans sa région. Depuis 1999, on estime qu’au moins 170 personnes sont décédées en tentant de franchir cet espace frontalier reliant la France à l’Angleterre.

      Pourquoi prêter attention aux personnes mortes en migration à la frontière franco-britannique ? Il n’existe pas de données officielles à ce sujet. Par conséquent, participer au travail de collecte d’informations contribue à documenter l’histoire du fait migratoire dans la région. En l’espace de quelques années, la question des exilés morts aux frontières s’est imposée dans le débat public. Elle a été d’abord portée, par des acteurs militants, à l’image des travaux réalisés par United for Intercultural Action, Fortress Europe ou encore Watch the Med. Puis, des journalistes se sont intéressés au sujet (The Migrants Files), ainsi que des chercheurs (Deaths at the Borders Database). Aujourd’hui, une institution officielle telle que l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) commence à recenser les personnes mortes en migration. Toutefois, dans ces différents relevés, la situation à la frontière franco-britannique est peu prise en compte, le focus étant davantage dirigé sur la mortalité aux portes de l’Europe, dans l’arc qui va des Iles Canaries à la mer Égée, en passant par le détroit de Gibraltar et le canal de Sicile. Par conséquent, travailler à la collecte d’informations sur les personnes mortes à Calais et dans la région répond à un réel besoin et rend visible une réalité méconnue.
      Redonner un nom aux morts

      Ce travail d’enquête ne veut pas s’en tenir au traitement simplement comptable ou anecdotique de la question des morts en migration. Il cherche, quand cela est possible, à redonner une identité et une histoire à ces « corps sans nom » ou à ces « noms sans histoire ». Tenter de reconstituer des récits de vie, (re)donner une dimension personnelle à chaque décès est un moyen d’éviter leur dilution dans ce qu’on nomme communément, de façon globalisante, les « drames de la migration ». Il s’agit également de rompre avec l’idée que cette hécatombe résulterait de la fatalité. Réduire ces tragédies à des accidents (accident de la route, noyade, etc.), à des violences ou des règlements de compte entre migrants est une façon d’occulter la responsabilité des pouvoirs publics dans une situation qui dure depuis plus de vingt ans dans le nord de la France. Au contraire, c’est bien l’addition d’accords européens et de traités bilatéraux, destinés à empêcher les indésirables d’accéder au territoire britannique qui a fait de cette région un mur meurtrier. De même, considérer que les seules violences exercées à l’encontre des exilés sont dues aux « réseaux de passeurs » est une manière d’occulter celles qui sont liées aux conditions de vie et à l’absence de dispositifs d’accueil adaptés, au harcèlement policier et à la surenchère de dispositifs de surveillance de la frontière.

      On constate en effet que la majorité des décès sont liés aux tentatives de passage, qu’ils soient immédiats ou qu’ils surviennent des suites de blessures que ces tentatives occasionnent. Le long de la frontière franco-britannique, les exilés meurent principalement après avoir été percutés par un train sur le site d’Eurotunnel, renversés par un véhicule – parfois volontairement – sur un axe routier non loin d’un point de passage ou écrasés sous l’essieu d’un poids lourd. Et finalement, les « règlements de compte » ou les violences « inter ou intra-communautaires » se concluant par des morts restent des événements marginaux.

      La majeure partie des exilés tentent de passer la frontière cachés dans la remorque d’un camion ou en dessous. Cette méthode s’avère extrêmement dangereuse et les risques de mourir écrasé par le contenu de la marchandise, par suffocation ou en tombant du camion (en particulier une fois arrivé sur le territoire britannique) sont importants. On pense notamment aux 58 personnes migrantes de nationalité chinoise cachées dans un camion frigorifique et découvertes mortes par asphyxie à Douvres en juin 2000. Un événement qui fait terriblement écho à la tragédie survenue 15 ans plus tard en Autriche, quand 71 exilés syriens cachés dans un camion furent abandonnés sur le bord d’une autoroute par le conducteur et décédèrent par suffocation.

      Même si le phénomène reste minoritaire, on recense plusieurs cas de noyades. Si quelques-unes se sont produites à la suite de rixes ou afin d’échapper à des violences policières, la plupart sont survenues pendant des tentatives de franchissement de la frontière. On observe ainsi plusieurs cas désespérés, et finalement mortels, survenus lors de la traversée du détroit du Pas-de-Calais, par embarcation ou à la nage. Le 12 juin 2002, un exilé russe parti en canoë s’est noyé dans la Manche. Son corps n’a jamais été retrouvé et le camarade qui l’accompagnait est resté accroché pendant cinq heures à l’embarcation à la dérive avant d’être secouru. Le précieux travail d’investigation du journaliste norvégien Anders Fjellberg [1] a permis de retracer le parcours de deux exilés syriens, Mouaz Al Balkhi et Shadi Omar Kataf. Après plusieurs semaines passées entre les Jungles de Calais et de Grande-Synthe et une douzaine de tentatives de passage « classiques » ratées, les deux compatriotes optèrent pour une autre stratégie. Le 7 octobre 2014, ils se procurèrent une combinaison de plongée au magasin Décathlon de Calais. Leurs corps ont été retrouvés quelques semaines plus tard, l’un sur une plage de Norvège, l’autre sur une plage des Pays-Bas.
      Petits arrangements entre voisins

      Les modes de franchissement de la frontière évoluent en fonction de son niveau de sécurisation. Plus un point de passage est rendu inaccessible, plus il y a de prises de risque et plus ces tentatives impliquent le recours à un « tiers », le passeur. En septembre 2014, le ministre de l’intérieur français, Bernard Cazeneuve, signait avec son homologue britannique, Theresa May, un accord bilatéral « incluant une contribution britannique de 5 millions d’euros par an pendant trois ans » dont l’une des mesures principales visait à « renforcer la sécurité, à la fois autour du port et dans la zone portuaire [2] ». Cet accord visait à empêcher, d’une part, les tentatives d’intrusions collectives sur le site portuaire et, d’autre part, les incursions sur la rocade accédant au port, technique consistant à profiter des embouteillages pour se cacher dans la remorque d’un camion La mise en œuvre du versant « sécurisation » de cet accord a été confiée à l’entreprise Zaun, une firme britannique [3], et s’est déroulée en plusieurs étapes. Dans un premier temps, à partir d’octobre 2014, les barrières ont été doublées à l’intérieur du site portuaire. Puis, au printemps 2015, sur une distance de deux kilomètres le long de la rocade accédant à la zone portuaire, a été érigée une double clôture, l’une de 4 mètres de haut et l’autre d’un peu moins de 3 mètres, équipée d’une rampe d’accès incurvée pour éviter qu’on ne s’y s’agrippe, et surmontée d’un fil barbelé. Entre les deux clôtures, un espace de détection infrarouge a été installé. La mise en place de cet arsenal autour de la zone portuaire a obligé les exilés à se détourner du port pour trouver d’autres voies de passage, plus dangereuses, notamment celle du tunnel sous la Manche. Les conséquences ne se sont pas fait attendre : alors qu’aucun des 17 décès recensés en 2014 n’avait eu lieu sur le site d’Eurotunnel, on en comptait 15 sur les 25 enregistrés en 2015. Il serait difficile d’en conclure que plus on boucle la frontière franco-britannique, plus celle-ci devient meurtrière. En effet, l’augmentation significative du nombre de morts entre 2014 et 2015 s’explique aussi par celle du nombre d’exilés présents dans le Calaisis. Les militants locaux estiment qu’il a crû, en un an, de 1 500 à environ 5 000 personnes. Il est en revanche certain qu’à la multiplication des barrières et des dispositifs dissuasifs, se sont ajoutées les désastreuses conditions de vie des exilés, obligés de survivre dans une extrême précarité et dans un contexte de surpopulation croissante, tout en tentant d’échapper aux violences policières : un cocktail explosif qui les a poussés plus nombreux à prendre des risques pour espérer passer. En août 2015, un nouvel accord franco-britannique fut signé dans lequel les deux ministres reconnaissaient que « depuis la fin du mois de juin, en raison de la sécurisation du port, les migrants ont changé de stratégie, cherchant au péril de leur vie, à s’introduire au niveau des points d’entrée dans le tunnel sous la Manche ». Mais qu’imaginent-ils pour remédier à ce constat inquiétant ? Que « la France renforce l’actuel dispositif de sécurité et l’action de ses policiers et de ses gendarmes, grâce au déploiement d’unités mobiles additionnelles » et que le Royaume-Uni alloue des moyens supplémentaires pour « sécuriser le périmètre de l’entrée du tunnel, grâce à un dispositif de clôtures, de vidéosurveillance, de technologie de détection infrarouge et de projecteurs lumineux » tout en « [aidant] la société Eurotunnel à augmenter nettement ses effectifs en charge de la sécurité et de la protection du site [4] ». Ce qui s’est traduit par l’installation de 29 kilomètres de nouvelles barrières et le « renforcement » de 10 kilomètres déjà existants. Le paysage du site d’Eurotunnel a été radicalement bouleversé : 100 hectares ont été rasés afin de faciliter la surveillance et une partie de cette zone a été volontairement inondée « pour créer des obstacles naturels qui empêchent l’accès aux clôtures » [5].
      Fortification

      Cette séquence n’est finalement qu’une étape supplémentaire dans la longue histoire de la fortification de la frontière franco-britannique. Elle a commencé avec le code international pour la sûreté des navires et des installations portuaires (code ISPS) régissant les zones portuaires fournissant des services internationaux et s’est prolongée, depuis le début des années 1990, par une succession d’accords bilatéraux. Alors que le protocole de Sangatte (1991) avait initié la mise en place de contrôles juxtaposés français et britanniques des deux côtés de la frontière, son protocole additionnel (2000) les a étendus aux principales gares du nord de la France et du sud de l’Angleterre.

      Au tournant des années 2000, la fortification de la frontière prend une autre dimension. Du côté du site portuaire, « en 2000, un premier programme de 6 millions d’euros est engagé pour clôturer une partie du port, installer un réseau de vidéo surveillance ainsi qu’un bâtiment spécifique au département sûreté ». Jusqu’alors, la zone portuaire n’était que très sommairement clôturée. « À partir de 2005, un deuxième programme d’investissement de 7 millions d’euros est engagé […] [permettant] de finaliser l’année suivante, un réseau de 48 caméras fixes et mobiles de vidéo surveillance [6]. » De son côté, Eurotunnel renforce la surveillance de son site à partir du printemps 2001 et bénéficie, en février 2002, du prêt d’un radar PMMW (système à détection thermique) de l’armée britannique. Tandis que la signature du traité du Touquet (2003) étend les dispositions relatives aux contrôles juxtaposés à tous les ports de la Manche et de la mer du Nord, « l’arrangement » franco-britannique de 2009 accentue le recours aux dispositifs de détection et crée un centre de coordination conjoint « chargé de recueillir et partager toutes les informations nécessaires au contrôle des biens et de personnes circulant entre la France et le Royaume-Uni » [7]. Les accords franco-britanniques de 2014 et 2015 sont venus compléter cet empilement de textes.

      Retracer de manière précise et tenter de cartographier l’évolution des dispositifs mis en place autour de la frontière franco-britannique n’est pas chose aisée. En effet, l’accès à l’information est relativement restreint, du fait notamment de la multiplicité des acteurs impliqués (services de l’État, gestionnaires des sites portuaires et du tunnel, prestataires de sécurité privés, etc.) et du manque de transparence qui en résulte. Dans ses déclarations, le porte-parole d’Eurotunnel indique que « depuis l’apparition des clandestins [sic] dans le Calaisis, Eurotunnel a, au-delà de ses obligations contractuelles, investi massivement dans les moyens physiques (clôtures, éclairages, caméras, barrières infrarouges) et humains de protection du terminal de Coquelles : plus de 160 millions d’euros, dont 13 millions d’euros au premier semestre 2015 » [8]. Difficile d’évaluer finement ce que coûte cette surenchère. Cette question fait l’objet d’une bataille de communication, notamment entre l’État et Eurotunnel, le premier reprochant au second de ne pas en faire assez en matière de sûreté tandis que le second réclame toujours plus d’aides pour protéger le site. L’affaire, connue sous le nom de « contentieux de Sangatte », s’est d’ailleurs conclue devant les tribunaux en 2003 par une victoire d’Eurotunnel qui a obtenu de la France et de la Grande-Bretagne une indemnisation pour les investissements qu’il avait consentis à cet effet [9].

      Du coût humain, il n’en est bien entendu pas question. Aux morts recensées s’ajoutent celles qui n’ont pu l’être. Par manque de sources, car « il y a suffisamment à faire avec les vivants [10] » ou par oubli tout simplement. Et puis il y a les personnes blessées, « des jeunes aux mains et aux jambes lacérées par les barbelés qui entourent le site d’Eurotunnel […] ces clôtures [qui] déchiquettent la peau de manière anarchique [11] ». Mutilées ou accidentées, ces personnes n’entrent dans aucun décompte. Le 21 octobre 2001, dans La Voix du Nord, la journaliste Sophie Leroy titrait son article « Assez de mort aux frontières » [12] en reprenant l’un des slogans de la manifestation organisée à Calais par le collectif C’Sur [13] pour dénoncer cette frontière meurtrière. Quinze années plus tard, la liste des morts n’a cessé de s’allonger.

      https://www.gisti.org/spip.php?article5426

  • #Mapquote

    MapQuote, la carte des #citations_cartographiques est un projet libre de cartographie mondiale de citations de cartes présentes dans les #romans, plus généralement, dans la littérature.

    Il prend la forme d’une #carte_interactive disponible en ligne - https://neocarto.github.io/mapquote - qui géolocalise les citations au lieu de naissance de leur auteur, en utilisant la méthode dite des clusters de points pour positionner et gérer le regroupement des lieux en fonction de l’échelle de la carte.

    La carte MapQuote est en effet générée quasi-automatiquement grâce à un programme informatique qui rassemble l’information archivée dans différents fichiers (de citations, d’auteurs/autrices, ...), fichiers qui sont eux-mêmes renseignés par les informations collectées via un court formulaire de saisie.

    Ce formulaire de saisie des citations est accessible directement sur la carte - ou à cette adresse.

    Nous vous invitons à contribuer à la constitution du corpus inédit de MapQuote, en saisissant les citations qui vous ont plu ou non, que vous avez pu / pourrez relever au gré de vos lectures.

    Initié par Nicolas Lambert et moi-même dans le cadre du carnet de recherches Néocarto, ce projet, ludique à ce stade, se veut avant tout collectif et collaboratif. Alors n’hésitez pas.

    https://neocarto.github.io/mapquote
    #citations #littérature #cartes #cartographie #Map_quote

    via @fbahoken

    • Dans l’idée, c’est un peu similaire à ce qu’on avait fait pour la Région Limousin avec Géoculture, mais c’était plus beau :p
      https://geoculture.fr/oeuvres

      Et surtout c’était pas que positionné suivant la naissance des auteurices, mais indépendamment, donc parfois c’était effectivement parce que l’auteurice était né⋅e à tel endroit mais parfois parce que l’œuvre elle-même parle de cet endroit, ou a été écrite là.

    • Bonjour @rastapopoulos,

      merci pour votre commentaire sur ce projet MapQuote, ainsi que pour le lien vers votre propre projet, qui ne semble pas concerner la question de localisation de citations...

      Quoi qu’il en soit, étant tous deux géographes et cartographes, nous avons souhaité en première intention localiser des citations de cartes en les positionnant de manière pertinente sur un fond de carte - et non en leur affectant « indépendamment » une localisation.

      C’est pourquoi, pour cette première version, nous avons choisi comme positionnement le lieu de naissance de l’auteur - d’autres lieux étant et sont, bien entendu, possibles.

      La discussion sur le choix du lieu en référence à une citation est une très bonne question ; elle est d’ailleurs ouverte, de même que la manière de définir ce que l’on qualifie de « lieu » et celle de positionner cette qualification sur une carte.

      Vue votre expérience sur un projet similaire, n’hésitez pas à contribuer à MapQuote, nous vous y accueillerons avec plaisir :
      https://github.com/neocarto/mapquote

      D’ici là, bonne après-midi.

    • Oui bien sûr, ce n’est pas du tout le même but premier, puisque là il s’agit de citations en rapport avec la cartographie, mais qui n’évoquent pas forcément un lieu précis, ni n’ont été écrites imprégnées d’un lieu, etc. Donc par défaut le critère géo est de les localiser par le lieu de naissance de l’auteurice.

      Cela dit, je me pose la question de ce que ça apporte, le fait de présenter tout ça sur une carte, en terme de navigation, de manière de trouver l’information, puisque justement les citations en question n’ont pas de rapport avec l’endroit où on a cliqué pour les ouvrir. Je n’ai pas l’impression que ça apporte une « vue » supplémentaire sur la citation. Disons que c’est plus un clin d’œil, comme il s’agit de texte parlant de cartographie, de les présenter sur une carte. :)

      Sur Géoculture (que je ne gère pas, j’ai juste fait la technique), c’est effectivement très subjectif, c’est l’équipe d’admin qui choisi, et ça peut être pour des raisons bien différentes (naissance, ou habitat de l’auteurice, mais souvent parce que la citation évoque cet endroit, ou parce que l’œuvre a été faite à cet endroit…).

    • Ce qui est commun dans ces deux projets, c’est la méthode de positionnement des lieux sur la carte (dite clustering) via la bibliothèque de cartographie en ligne Leaflet.

      La question de la définition du lieu en fonction de l’échelle géographique, celle de sa symbolisation tout comme le choix du type de lieu à associer à une référence, quelle que soit cette référence, n’est pas un problème technique. Cette question concerne le sujet / le thème de la carte.

  • Outil pour une #répartition plus équitable des réfugié·e·s en Europe

    L’#accueil de personnes réfugiées peut se révéler très positif à long terme pour une société sur le plan démographique et économique, mais il est très coûteux pour l’Etat social durant les premières années de séjour et suscite de violents débats politiques. Au cours des dernières décennies, les pays d’Europe ont donc, à quelques exceptions près, tout fait pour laisser la #responsabilité de l’accueil à leurs voisins.

    Quelle serait une #répartition_équitable de cette #responsabilité ? Certains ont mis en avant la taille du pays, d’autres sa richesse ou un faible taux de chômage. Grâce à un nouvel outil cartographique développé par #Andreas_Perret, data manager du « nccr – on the move », le Pôle de recherche national (PRN) consacré aux études sur la migration et la mobilité de l’Université de Neuchâtel, sur la base de mon étude de 2014, il est désormais possible de choisir et de pondérer les critères de répartition sur la période 2008-2018. Il s’agit d’une base de réflexion fondamentale dont on espère qu’elle stimulera les Etats à coopérer.

    Une première série de cartes permet de comparer l’effectif de demandeurs·euses d’asile reçu·e·s (représenté par un demi-cercle rouge) avec l’effectif « équitable » en proportion de différents critères (autre moitié du cercle, en gris).

    Ainsi, compte tenu de sa population en 2018 (1.6% de l’UE+AELE), la Suisse a reçu « trop » de demandeurs·euses d’asile (2.3%, soit 15’160 au lieu de 10’386) tout comme l’Allemagne, le Luxembourg, la Belgique, la France, la Suède et surtout la Grèce (66’965 au lieu de 13’615 !), tandis que le Portugal, la Norvège, Le Danemark, le Royaume-Uni et tous les pays de l’Est n’en ont pas reçu « assez ». Compte tenu de son produit intérieur brut (PIB) qui pèse 3.72% de celui de l’UE+, la Suisse aurait, par contre, dû accueillir nettement plus de personnes (24’418). Les mêmes simulations peuvent être effectuées en fonction de la surface géographique et du taux de chômage (proportion inverse) ou d’une combinaison de critères. Si l’on adopte la pondération suggérée dans un rapport de la fondation Mercator (Angenendt et al.), soit 40% pour le PIB et la population et 10% pour le chômage et la surface, on observe que la Suisse reçoit une proportion assez équilibrée des demandeurs·euses d’asile en 2017 et 2018. En 2016 par contre, en pleine crise syrienne, elle aurait « dû » accueillir plus de demandes, surtout en comparaison de l’Allemagne.

    Débat politique informé à l’aide de simulations cartographiques

    La deuxième série de cartes (#Choroplèthe) permet d’identifier en un coup d’œil les pays qui devraient recevoir plus (en rouge) ou moins (en vert) de demandeurs·euses d’asile.

    Un tableau de synthèse (Heat) permet de suivre l’évolution entre 2008 et 2018. Il en ressort – toujours avec la pondération « Mercator » – que si certains pays sont chroniquement « trop peu accueillants » (pays de l’Est européen, Portugal, Espagne, Irlande, Luxembourg, Royaume-Uni), d’autres comme la Suisse, la Grèce et la France ont alterné des périodes d’ouverture et de fermeture. L’Allemagne, la Suède, l’Autriche et la Belgique sont les pays qui ont le plus souvent été aux avant-postes de l’accueil.

    Les cartes n’apportent pas de réponses directes à la question d’une répartition « équitable ». Elles ne donnent pas non plus de réponses à la question des #critères à utiliser ni du nombre total de personnes qui devraient être accueillies. En permettant d’effectuer des simulations, elles ont pour ambition de faciliter un débat politique informé visant à faire progresser l’indispensable #harmonisation des politiques d’accueil à l’échelle du continent européen.

    Note : Exemple pas à pas pour créer une carte : dans le volet « Symbolic » choisir l’année 2018 et affecter un poids de 100% à l’effet de la surface : la carte présentée donne en demi-cercle rouge le nombre effectif de demandes d’asile reçues et en gris le nombre qu’un pays aurait dû recevoir compte tenu de sa taille (surface) par rapport à la surface totale de l’UE+. Pour la France, on compte 119’190 demandes d’asile effectives en 2018, mais la France occupe 11% du territoire ce qui correspond à 73’370 demandes d’asile (11% du total). La France a donc reçu « trop » de demandes d’asile si l’on prend la surface comme unique clé de répartition. En choisissant une autre pondération on peut combiner l’effet de la population, du chômage, du PIB et de la surface.

    https://blog.nccr-onthemove.ch/outil-pour-une-repartition-plus-equitable-des-refugie%c2%b7e%c2%b7s-en-europe/?lang=fr
    #cartographie #visualisation #équité
    #asile #migrations #réfugiés #Europe #quotas #coopération #pondération #statistiques #chiffres

    #Simulation interactive :
    https://public.tableau.com/profile/nccr.on.the.move#!/vizhome/FairShare_0/Symbolic
    #carte_interactive

    –--------------------

    –-> Petit commentaire (mais qui, évidemment, me semble indispensable pour une réforme du droit d’asile européen) :
    Mais... aucune référence est faite sur les besoins, envies, projets et aspirations des demandeurs et demandeuses d’asile !!!!!
    Les demandeurs d’asile sont considérés comme des paquets interchangeables qu’un bureau central pourrait envoyer à droite et à gauches selon son besoin et le besoin des petits bureaux situés sur le territoire européen... la poste, quoi !
    Il n’y a pas du tout l’idée de #matching entre les besoins et nécessités du pays et ceux des personnes concernées...

    ping @karine4 @isskein

    #paquets_de_la_poste

  • La carte de Greenpeace qui pointe la pollution de l’air autour des écoles de Marseille - Journal La Marseillaise

    #Greenpeace publie ce jeudi cette #carte_interactive alarmante sur les niveaux de pollution de l’air relevés autour des #écoles marseillaises. L’ONG appelle les citoyens à interpeller leurs élus sur cette situation.


    #cartographie #pollution #air #Marseille