• L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • Blancs des cartes et boîtes noires algorithmiques

    Chaque carte présente ses propres #blancs, inconscients ou volontaires. Ces lacunes ou ces oublis, d’aucuns l’ont bien montré, ont joué un rôle déterminant dans l’histoire, en particulier coloniale. Hier privilège des États, ce pouvoir de blanchir ou de noircir la carte est aujourd’hui celui des données numériques. Car le déluge d’#informations_géographiques, produit par une multitude d’acteurs, n’est pas uniformément réparti sur l’ensemble des territoires, laissant des zones entières vides.
    S’inscrivant dans le champ émergent des #critical_data_studies, cette recherche singulière, abondamment illustrée, revient sur les enjeux politiques des cartes et nous invite à explorer les rouages les plus profonds de la cartographie contemporaine. En s’attachant à l’#Amazonie, Matthieu Noucher déconstruit les vides pour interroger le sens de la #géonumérisation du monde. Pour mener son enquête, il s’intéresse à trois dispositifs en particulier : la détection de l’#orpaillage illégal, la mesure de la #biodiversité et le repérage des #habitats_informels.
    Ce livre débouche sur deux modalités de #résistance au comblement des blancs des cartes : la #contre-cartographie et la #fugue_cartographique pour appréhender les blancs des cartes comme une opportunité de diversifier nos manières de voir le monde.


    https://www.cnrseditions.fr/catalogue/geographie-territoires/blancs-des-cartes-et-boites-noires-algorithmiques
    #cartographie #vides #vide #livre #Matthieu_Noucher #colonialisme #géographie_du_vide #géographie_du_plein

    ping @reka

    • Commémor’action des mort.e.s aux frontières le 6 février 2022

      Depuis 2014, et le massacre de Tarajal, le 6 février est devenu un jour de commémoration pour toutes les personnes décédées ou disparues aux frontières, victimes - sur leur parcours d’exil - de politiques migratoires assassines.
      En plus de la traditionnelle Marche pour la Dignité à Ceuta le 5 février (IXe édition), de nombreux évènements de commémor’action sont prévus en Afrique et en Europe le 6 février pour rendre hommage à ces victimes que nous n’oublions pas, réclamer justice, et rappeler que la migration est un droit.
      Liberté de circulation pour toutes et tous !

      https://migreurop.org/article3082.html?lang_article=fr

      La #liste des lieux de commémoraction :
      https://migreurop.org/IMG/pdf/events_commemoraction_2022.pdf

    • #6_février_2014 : Massacre de #Tarajal

      Le permis de tuer des gardes-frontières

      Aujourd’hui, les familles des victimes et leurs soutiens commémorent, pour la quatrième année consécutive, le massacre de Tarajal. Cette date est devenue l’un des symboles tragiques de politiques migratoires qui portent atteinte aux droits et à la vie des personnes en exil.

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes, parties des côtes marocaines, ont tenté d’accéder à la nage à l’enclave espagnole de Ceuta. Alors qu’elles n’étaient plus qu’à quelques dizaines de mètres de la plage du Tarajal, la Guardia civil a utilisé du matériel anti-émeute – fumigènes et balles en caoutchouc – pour les empêcher d’arriver en « terre espagnole ». Ni la Guardia civil ni les militaires marocains présents n’ont porté secours aux personnes qui se noyaient devant eux. Quinze corps ont été retrouvés côté espagnol, des dizaines d’autres ont disparu, les survivants ont été refoulés, certains ont péri côté marocain.
      Les investigations menées par des journalistes et des militant·e·s européen·ne·s ont permis de produire des images et de récolter des témoignages de survivants et témoins oculaires établissant directement la responsabilité des gardes civils pour ces morts. La juge en charge de l’affaire a elle conclu à l’absence d’irrégularités quant au matériel utilisé par la Guardia civil. Elle a également validé la décision de refouler directement vers le Maroc les 23 personnes qui avaient réussi à atteindre la plage.
      Le 16 octobre 2015, la juge a classé l’affaire et abandonné les poursuites contre les 16 gardes civils mis en examen. Dans son ordonnance, elle allait jusqu’à souligner la responsabilité des victimes : « Les migrants ont assumé le risque d’entrer illégalement sur le territoire espagnol par la mer, à la nage, faisant de plus abstraction des agissements dissuasifs tant des forces marocaines que de la Guardia civil ». L’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía avait alors répliqué qu’« en aucun cas le droit de migrer n’implique d’assumer le fait que l’on peut mourir pendant son parcours ou à la frontière. Ce qui s’est passé n’est pas un accident et il est nécessaire de faire lumière, de sanctionner les responsables et de garantir que ça ne se reproduise plus » [1].

      En juin 2016, des familles de victimes se sont vu refuser leur demande de visa pour aller identifier le corps de leurs fils à Ceuta. Après que de nombreux vices de procédure ont été soulevés, l’enquête a cependant été rouverte avant d’être à nouveau classée en janvier 2018.
      Pour que ces morts ne sombrent pas dans l’oubli, la société civile espagnole s’est mobilisée et a organisé le 3 février 2018 la cinquième « Marche de la dignité » à Ceuta.

      Migreurop soutient ces mobilisations et toutes les initiatives visant à faire la lumière sur le massacre de Tarajal. À la suite de la condamnation de l’Espagne par la Cour européenne des droits de l’Homme [2], le réseau et ses membres exigent l’arrêt immédiat et définitif des pratiques illégales opérées à cette frontière par la Guardia civil, notamment les refoulements menés en coopération avec les autorités marocaines, tant au niveau des barrières de Ceuta ou Melilla que sur les côtes de ces enclaves.
      La semaine passée, au moins 110 nouvelles personnes, dont une vingtaine parties des côtes marocaines, ont perdu la vie en tentant d’atteindre l’Europe. Elles ont rejoint la liste des plus de 16 000 personnes mortes en Méditerranée depuis 2013. Au travers de la militarisation de ses frontières extérieures, l’Union européenne pratique depuis de nombreuses années une politique du laissez-mourir incarnée notamment dans la criminalisation des actions de secours et de sauvetage [3]. Le massacre de Tarajal rappelle que, sans respect du droit à émigrer, formulé notamment dans l’art. 13 de la Déclaration universelle des droits de l’Homme (DUDH), les politiques de « contrôle des flux » relèvent non seulement de la non assistance à personne en danger mais sont également à l’origine d’atteintes délibérées au droit le plus fondamental, celui à la vie (art. 3 DUDH).

      http://migreurop.org/article2856.html?lang=fr

    • 6 février : journée internationale de CommemorAction des disparu·es aux frontières

      Avec notre terme « Commemor’Action », nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. « Leur vie, notre lumière leur destin, notre colère ».

      Leur vie, notre lumière
      leur destin, notre colère"
      ont fait partie des mots choisis à Marseille pour exprimer les émotions face à ces injustices.

      Avec notre terme "Commemor’Action", nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. Nous ne sommes pas seul.e.s et nous n’abandonnerons pas. Nous continuerons à lutter pour la liberté de mouvement de toutes et tous dans notre vie quotidienne, nous exigeons la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Depuis 2020, nous consacrons la journée de 6 février à la Commemor’Action dans différents endroits du monde. (le lien pour une vidéo vers un extrait des différentes mobilisations ici )

      Nous, sommes des parent.e.s, ami.e.s et connaissances de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Afrique, en Amérique, en Asie, en Europe et partout dans le monde. Des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur. Des citoyen.e.s solidaires qui assistent et secourent les personnes en mobilité se trouvant dans des situations de détresse. Des pêcheurs, des activistes, des militant.e.s, des migrant.e.s, des académicien.e.s,…etc. Nous sommes une grande famille.

      La Commemor’Action, c’est un mémento chargé d’actions mêlant messages politiques et performances artistiques, mais surtout, mettant en relation les proches en deuil avec le plus grand nombre de personnes possible pour créer ensemble des plateformes et ainsi faire connaître leurs histoires et leurs revendications. Les journées de Commémor’Action sont des moments pour se souvenir de ces victimes et construire collectivement des processus de soutien aux familles dans leurs revendications de vérité et de justice aux noms de leurs êtres chers.

      Les crimes contre l’humanité en mobilité marquent tellement de jours de l’année avec peine et colère qu’il est impossible d’en choisir un seul. La date symbolique du 6 Février fait référence au massacre de 2014 à Tarajal où la Guardia Civil, a tiré des balles en caoutchouc pour dissuader les migrant.e.s tentant de rejoindre les côtes espagnoles. Cet acte criminel et inhumain qui demeure impuni a causé la mort de 15 personnes sous les yeux du système qui les traque et plusieurs disparu.e.s, laissant leurs familles et proches dans l’oubli.

      Nous nous engageons à ne pas les oublier : chaque année, à travers des actions décentralisées dans des horizons différents et contextes variés (Tarajal, Agadez, Berlin, Calais, Dakar, Douala, Marseille, Mexique, Niamey, Oujda, Palerme, Paris, Tunisie, Zarzis…etc.)nous nous réunirons pour protester contre ces régimes assassins.

      A Marseille, en ce 6 février 2023, de nombreuses personnes se sont retrouvées et rencontrées sous l’ombrière du vieux port en début de soirée afin de visibiliser et rendre hommage. Les mots sont difficiles à trouver pour résumer ces quelques heures partagées ensemble mais elles étaient puissantes et importantes. Merci à toutes les personnes qui se sont exprimées. Merci d’avoir parlé de ce qu’il se passe aux portes de nos frontières internes (en France et notamment avec la nouvelle loi contre l’immigration de Darmanin qui va précariser et diviser davantage les personnes en situation d’exile en France, les situations entre l’Italie et la France, entre la France et le Royaume Uni) mais aussi aux portes de l’Europe, sur la route des Balkans, en Méditerranée et bien au delà entre les Etats Unis et le Mexique notamment. . Merci d’avoir abordé la question de l’externalisation des frontières, du fait que les crimes et la répression des états européens commencent déjà bien au Sud, au Sahel, au Niger, en Lybie, au Maroc, en Tunisie et font là aussi de nombreuses victimes et injustices. Merci d’avoir rappelé que les Etats Européens sont responsables et coupables, notamment à l’aide de Frontex, organe assez opaque et pourtant étant celui recevant le + d’argent des pays européens (budget 2022 : 704 703 142 d’euros. 2021 : 499 610 042 d’euros) ( voir campagne Abolish Frontex). Merci aux personnes qui se sont exprimées pour parler de leurs expériences sur diverses routes migratoires pour arriver jusqu’ici, des personnes laissées en chemin, des milliers de kilomètres parcourus, parfois à pieds pour arriver jusqu’ici et faire face à cet accueil, ou plutôt trop souvent ce non-accueil, honteux. Et merci à toutes les personnes qui n’ont pas pu s’exprimer mais que nos coeurs ont honorées, pour lesquelles nos pensées se sont unies et ont rendu hommage à leur silence subi.

      Nous exigeons que ces morts soient reconnues comme des victimes des régimes impérialistes racistes et des états capitalistes. Et parce que nos politiques gouvernementales ne leur rendent pas justice nous construisons ensemble cette justice et nous ne cesserons de lutter pour la faire reconnaître. Nos états ne prennent pas leurs responsabilités, empirent la situation et rendent ce monde de plus en plus inhumain et justifient leurs crimes racistes de manières abjectes et insensée. Nous n’abandonnerons jamais parce que notre objectif est bien plus puissant que les leurs, celui de vivre dans un monde plus juste pour toutes et tous. Et parce que nous ne voulons pas d’un monde qui perpétue le colonialisme et le racisme et dans lequel certaines vies et certaines morts ont davantage de valeur que d’autres.

      Depuis les nombreuses mobilisations qui ont eut lieu dans d’autres villes au Mali, au Togo, en Grèce, en Tunisie, au Sénégal, au Liban, au Maroc, en Allemagne, ailleurs en France, en Espagne, en Italie, à Malte, en Sierra Leone, en Autriche, on a pu lire :

      Des vies pas des nombres !

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ni oubli, ni pardon !

      Combattre le racisme, partout tout le temps.

      Vos frontières, nos morts !

      Ensemble luttons pour la liberté de circulation !

      Pour plus d’informations et soutenir cet engagement noble et pour retrouver la collection des actions menées partout dans le monde :

      Adresse mail : globalcommemoraction@gmail.com

      Facebook : Commemor-Action

      Pages : www.missingattheborders.org ; www.alarmephonesahara.info

      https://blogs.mediapart.fr/clementine-seraut/blog/080223/6-fevrier-journee-internationale-de-commemoraction-des-disparu-es-au

      #2023

    • 6 Février 2021 : Journée internationale de Commémoraction pour les personnes tuées et disparues sur les routes de migration

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes migrantes ont essayé d’entrer dans la ville de Ceuta, enclave espagnole, depuis le territoire marocain à travers la plage de Tarajal. La Guardia Civil espagnole tirait des cartouches de fumée et des balles en caoutchouc sur les personnes dans l’eau pour les empêcher aux personnes d’entrer dans le territoire espagnol. Quinze migrants étaient tués du côté espagnol, des dizaines ont disparu et d’autres sont morts sur le territoire marocain.

      Depuis lors, le 6 février a été déclaré un jour de commémoration pour les personnes migrantes tuées et disparues le 6 février 2014 entre Tarajal et Ceuta et au-delà pour toutes les personnes migrantes et réfugiées tuées et disparues dans les mers, dans les déserts, aux frontières et sur les routes de migration.

      Malgré les conditions difficiles et exceptionnelles imposées par la pandémie de Covid-19, le samedi 6 février 2021, des CommémorActions transnationales pour les mort-e-s de la migration ont eu lieu, entre autres, à Agadez au Niger ; à Sokodé au Togo ; à Oujda et Saidia au Maroc ; à Dakar et Gandiol au Sénégal ; à Madrid et d’autres villes en Espagne, à Bruxelles et à Liège en Belgique et à Berlin et Frankfort en Allemagne.

      https://alarmephonesahara.info/fr/blog/posts/6-fevrier-2021-journee-internationale-de-commemoraction-pour-les

    • 6 février : Journée mondiale de Commémor‘Action pour les mort.e.s, disparu.e.s et les victimes de disparitions forcées en mer et aux frontières !

      Le 6 février 2021, les militant.e.s du réseau Alarm Phone organisent des actions dans différentes villes au Maroc et au Sénégal. “Nous connaissons tout.e.s la tragédie qui s’est produite le 6 février 2014 à Ceuta, sur la plage de Tarajal” explique Babacar Ndiaye, militant du réseau Alarm Phone qui prépare actuellement les activités de commémoration à Dakar, au Sénégal. “La Guardia Civil espagnole a tiré sur des migrants qui tentaient de rejoindre la plage. Par la suite, on a parlé de 14 morts, mais il y en a eu beaucoup d’autres. Depuis nous avons organisé des journées de commémor‘action chaque année. Cette année avec la pandémie, nous nous réunirons en petits groupes dans différentes villes, y compris ici au Sénégal”.

      Abdou Maty, membre de Alarm Phone basé à Laayoune ajoute : “Jusqu’à présent ces décès n’ont pas été reconnus pour ce qu’ils sont : des meurtres. Par nos actions, nous voulons commémorer les vies qui ont été perdues. Luttons pour la justice, pour la liberté de circulation ! Le 6 février, nous nous réunissons pour échanger avec les familles des mort.e.s et des disparu.e.s en mer. Nous rendons visibles nos luttes, la souffrance des personnes qui traversent les frontières. Le 6 février est une journée de commémor‘action mondiale !”

      En raison de la pandémie plusieurs actions décentralisées seront organisées à travers le Maroc au lieu d’un seul grand événement. Parmi les activités prévues figurent une manifestation “Main sur le coeur – Action aux disparus” à Berkane (est du Maroc), une caravane de solidarité sur la plage de Saidia à la frontière maroco-algérienne organisée par Alarm Phone Oujda, une minute de silence avec la communauté des migrant.e.s et un match de football à Tanger, ainsi que des prières et une cérémonie de commémoration dans le port de Laayoune (Sahara Occidental).

      Des activités auront également lieu dans d‘autres pays pour commémorer les mort.e.s en mer. À Dakar, au Sénégal, une manifestation est organisée par les membres de Alarm Phone et d’autres groupes devant la mairie, une liste des naufrages survenus en Méditerranée occidentale et dans l’Atlantique en 2020 sera affichée. À Sokodé, au Togo, des militant.e.s organisent une campagne de sensibilisation et une émission radio ainsi qu’une action symbolique en déposant des fleurs dans le fleuve Na. À Agadez, au Niger, des militant.e.s et des migrant.e.s se réuniront pour écouter les témoignages de ceux qui ont perdu leurs proches à la frontière, projetteront des films et animeront des débats sur le thème des politiques meurtrières de l’Europe. En Espagne, des groupes d’activistes organisent des manifestations et des ateliers en ligne dans de nombreuses villes espagnoles les 5 et 6 février.

      Khady Ciss, membre de Alarm Phone Tanger, veut envoyer un message fort à l’Union européenne : “L’immigration n’est pas un crime ! L’Union européenne et le gouvernement marocain ont des obligations internationales en matière de droits humains, mais leur préoccupation est axée sur la protection de leurs frontières et pas tournée vers les vies humaines qu’ils détruisent ! Nous dénonçons toute forme de racisme, de violence physique et nous demandons justice !”

      Junior Noubissy, également membre de Alarm Phone Tanger, souligne le travail essentiel des organisations de sauvetage en mer : “Sauver des vies en mer n’est pas un crime, mais une nécessité. Notre objectif est de faire du 6 février une date connue dans le monde entier. Nous luttons pour qu’un jour, les migrant.e.s soient des êtres humains libres”.

      Les meurtres du 6 février 2014 ne sont pas le seul incident autour duquel les militants du Alarm Phone s’organisent ces jours-ci. Dans plusieurs villes européennes et en Tunisie, des rassemblements et des manifestations commémoreront le naufrage du 9 février 2020, au cours duquel 91 personnes sont mortes en mer méditerrannée entre la Libye et l’Italie.

      Hommage à tous et à toutes les migrant.e.s mort.e.s et disparu.e.s en mer et aux frontières !

      Toute notre solidarité avec leurs familles et leurs amis !

      Nous ne les oublierons pas !

      https://www.youtube.com/watch?v=K6ucdt8TGvo&source_ve_path=Mjg2NjY&feature=emb_logo

      https://alarmphone.org/fr/2021/02/05/6-fevrier-journee-mondiale-de-commemoraction

    • Tarajal : transformer la douleur en Justice

      Le 6 février 2014, quatorze personnes ont perdu la vie en tentant de rejoindre l’Espagne après avoir été violées avec du matériel anti-émeute par les autorités espagnoles. Leurs familles favoriseraient un processus organisationnel sans précédent pour transformer leur profonde douleur en justice.

      https://i.imgur.com/uq3NV19.png
      LES FAITS

      Le 6 février 2014, nous avons reçu à l’aube un appel d’une personne désespérée alertant d’un « massacre » qui était en train de se perpétrer sur une plage espagnole. Selon ce que les rescapés ont rapporté à l’autre bout du fil, trois cents personnes ont tenté de gagner Ceuta à la nage en essayant de contourner la jetée du Tarajal. C’est alors que des agents de la Guardia civil espagnole ont commencé à tirer du matériel anti-émeute (bombes lacrymogènes et balles en caoutchouc) sur les personnes qui nageaient pour atteindre le rivage.

      De la violence a été exercée à partir de plusieurs points. En effet, on a tiré à bout portant sur les bouées et les corps de ceux qui nageaient à partir des blocs de pierre de la jetée du Tarajal elle-même et au moins d’un bateau et d’une embarcation de type Zodiac avec des agents de la Guardia civil à bord. Par ailleurs, des coups de feu de dissuasion ont été tirés depuis le « mirador » (la tour de contrôle de la Guardia civil espagnole), pour décourager ceux qui protégeaient les corps de leurs compagnons de voyage déjà décédés.

      « Les premières fois ils ont tiré en l’air, mais quand ils ont réalisé que nous avions dépassé la déviation de la jetée et que nous nous approchions de la côte espagnole, ils ont commencé à tirer sur les corps. Dans mon cas, la première balle m’a atteint dans le dos et la seconde dans la mâchoire. »

      « Sanda a appelé à l’aide, a tendu sa main vers le rocher et la Guardia civil l’a frappé et renvoyé dans l’eau. »

      La non-assistance à personne en danger par la Guardia civil espagnole et l’absence de tentatives de réanimation des personnes inconscientes par les forces de l’ordre marocaines ont éliminé toute possibilité de pouvoir sauver la vie de ceux qui étaient en danger et qui ont fini par mourir. Ce sont les migrants eux-mêmes qui ont tenté d’aider leurs compagnons évanouis et qui, avec l’aide des forces marocaines, ont ramené les corps inertes sur la côte marocaine. L’État espagnol a refusé toute collaboration pour repêcher les corps au motif que les décès s’étaient produits sur le territoire marocain. Au moins quinze personnes sont mortes, et le corps de l’une d’entre elles n’a jamais été retrouvé. Au moins seize des survivants arrivés en Espagne ont subi un renvoi immédiat, dont un mineur de dix-sept ans.
      LES FAMILLES

      « Je me suis faite la promesse de voir un jour, avec l’aide de Dieu, l’endroit où repose la dépouille de mon fils, ne serait-ce qu’une fois, et de ramener ses cendres sur la terre de nos ancêtres afin que nous puissions lui organiser des funérailles dignes, conformes à nos traditions africaines. Je vous livre mon témoignage alors que je n’ai toujours pas surmonté le traumatisme causé par la disparition de Larios. Que justice soit faite, au nom de mon fils. »
Ndeubi Marie-Thérèse, mère de Larios Fotio.

      Les familles des victimes nous ont contactés au fur et à mesure qu’elles recevaient des informations sur ce qui s’était passé : elles cherchaient à connaître les faits et à savoir quoi faire pour retrouver le corps de leurs proches décédés. Le premier à le faire était le frère de Larios Fotio. En effet, en voyant que ses amis mentionnaient Helena Maleno sur les réseaux sociaux après la tragédie, il a décidé de nous écrire en même temps qu’il annonçait à sa mère, Ndeubi Marie-Thérèse, la mort de son fils Larios.

      Les familles ont fait confiance à notre collectif pour reconstruire le déroulement des faits qui ont mené à la mort de leurs proches, une tâche qu’aucune institution espagnole n’a daigné réaliser. Le 8 février, nous nous sommes rendus aux morgues de l’hôpital Hassan II à Fnideq et de l’hôpital Mohamed VI à M’diq avec des parents et des amis des victimes. L’ambassade du Cameroun au Maroc a soutenu cette opération et a pris en charge l’enterrement de quatre morts identifiés. Le 25 février, nous avons lancé notre enquête sur les faits et quelques semaines plus tard nous avons publié un rapport inédit reconstituant la tragédie et ses conséquences.

      Pour lever les multiples doutes qui planaient sur l’affaire et répondre au besoin de connaître les détails de ce qui s’est passé, plusieurs visites ont été nécessaires au Cameroun, pays d’origine de plusieurs des défunts. Lors de la première réunion, les familles des victimes nous ont donné leur consentement exprès pour les représenter à travers diverses entités qui se sont présentées en tant qu’accusation populaire lorsqu’en février 2015 la juge d’instruction a convoqué seize agents de la Guardia civil espagnole pour apporter leur témoignage sur ce qui s’était produit.

      Sur le plan judiciaire, « l’affaire Tarajal » a été une suite d’ouvertures et de clôtures d’enquête. Notre collectif a exprimé son désaccord avec la décision de ne pas recueillir les témoignages des survivants, même par vidéoconférence, ainsi qu’avec le refus d’accorder des visas pour que les familles puissent se rendre sur le lieu de décès de leurs proches et leur rendre hommage. Finalement, l’affaire a été classée en octobre 2019, sans que les responsables n’aient été condamnés ni que les familles n’aient été indemnisées pour leurs pertes. Caminando Fronteras parie toujours sur l’accompagnement des familles dans des actions alternatives à la justice européenne afin d’obtenir la vérité, la réparation et des garanties de non-répétition.

      Nous sommes retournés au Cameroun en 2016 dans le but de réaliser un documentaire mettant en avant les proches des victimes. « Tarajal : Transformar el dolor en justicia » (Tarajal : transformer la douleur en justice) (Caminando Fronteras, 2016) a mis en lumière la lutte pour rendre leur dignité aux victimes et le processus communautaire pour y parvenir. En effet, pour la première fois, des familles d’Afrique subsaharienne se sont organisées pour exiger des responsabilités à la suite de morts survenues à la frontière. Cette deuxième visite a abouti à la naissance de « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » (l’association des familles de victimes du Tarajal).

      « La justice signifie la lumière, connaître les circonstances dans lesquelles les faits se sont produits, « la vérité »… Si on connaît « la vérité », il faut que la culpabilité des personnes impliquées soit établie. La réparation aura lieu lorsque justice sera faite » 24:58 (déclaration du frère d’une des victimes lors de l’assemblée de fondation de l’association).

      En 2017, l’association « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » a décidé, à l’occasion du troisième anniversaire de la tragédie, d’organiser un hommage aux victimes des frontières à Douala, auquel ont participé des dizaines de familles de morts aux frontières. Au cours de cette rencontre, que nous avons contribué à promouvoir, les proches des victimes ont relaté la violence de la situation aux frontières, ont montré leur inquiétude face au nombre croissant de jeunes qui émigrent et ont expliqué ce que signifiait faire le deuil de leurs proches au milieu de tant d’incertitudes. À la fin de l’hommage, une liaison en direct avec le parlement espagnol a été organisée, après la projection de notre documentaire devant des députés. Bien qu’insuffisant, ce fut le seul acte de réparation par une institution espagnole aux familles, qui ont pu occuper le Parlement de leurs voix pour demander, une fois de plus, justice pour leurs défunts.

      https://caminandofronteras.org/fr/tarajal-transformer-la-douleur-en-justice

    • L’#appel


      À l’approche du 6 février et de la commémoration du massacre de Tarajal, le CRID appelle à soutenir et relayer l’appel de #Global_Commemoraction « 6 février 2023 : migrer est un droit ! », pour une Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      L’appel :

      Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles

      Nous sommes parents, amis et amies de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Europe, en Afrique, en Amérique.

      Nous sommes des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur.

      Nous sommes des citoyen.e.s solidaires qui aident les immigré.e.s durant leur voyage en fournissant une aide médicale, de la nourriture, des vêtements et un soutien lorsqu’ils se trouvent dans des situations dangereuses pour que leur voyage ait une bonne fin.

      Nous sommes des activistes qui ont recueilli les voix de ces immigrés et de ces immigrées avant leur disparition, qui s’efforcent d’identifier les corps anonymes dans les zones frontalières et qui leur donnent une sépulture digne.

      Nous sommes une grande famille qui n’a ni frontières ni nationalité, une grande famille qui lutte contre les régimes de mort imposés à toutes les frontières du monde et qui se bat pour affirmer le droit de migrer, la liberté de circulation et la justice globale pour tous et toutes.

      Année après année, nous assistons aux massacres en cours aux frontières et dans les lieux de détention conçus pour décourager les départs des personnes migrantes. Nous ne pouvons pas oublier ces victimes ! Nous ne voulons pas rester silencieux face à ce qui se passe !

      En février 2020, familles et militants se sont réunis à Oujda pour organiser le premier Grand CommémorAction. A cette occasion, nous avons choisi la date du 6 février, jour du massacre de Tarajal, comme date symbolique pour organiser des événements décentralisés dans tous les pays du monde contre la militarisation des frontières et pour la liberté de circulation.

      En septembre 2022, nous nous sommes réunis à Zarzis en Tunisie pour la deuxième Grand CommémorAction et à cette occasion nous avons réaffirmé notre volonté de continuer à construire la date du 6 février comme une journée pour unifier toutes les luttes que de nombreuses organisations mènent chaque jour pour dénoncer la violence mortelle des régimes frontaliers du monde et pour exiger vérité, justice et réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Nous demandons à toutes les organisations sociales et politiques, laïques et religieuses, aux groupes et collectifs des familles des victimes de la migration, aux citoyens et citoyennes de tous les pays du monde d’organiser des actions de protestation et de sensibilisation à cette situation le 6 février 2023.

      Nous vous invitons à utiliser le logo ci-dessus, ainsi que vos propres logos, comme élément pour souligner le lien entre toutes les différentes initiatives. Tous les événements qui auront lieu seront publiés sur la page Facebook Commemor-Action

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ce sont des personnes, pas des chiffres !

      Liberté de mouvement pour tous et toutes !

      https://crid.asso.fr/appel-de-global-commemoraction-pour-le-06-fevrier-migrer-est-un-droit

    • Journée de commémoration pour les morts aux frontières : « On veut migrer pour vivre, pas pour mourir »

      Comme dans de nombreuses villes d’Afrique du Nord et d’Europe, une centaine de personnes se sont retrouvées, à Paris, lundi soir, pour la quatrième journée internationale de « CommémorAction ».

      A la lumière du jour qui décline, quelques manifestants se rejoignent près de la fontaine des Innocents, à Paris. Majoritairement issus du secteur associatif, ils commentent, emmitouflés dans leurs vestes d’hiver, le projet de loi sur l’immigration, l’expulsion d’un squat la veille dans le XVe arrondissement ou encore les projets de leurs structures respectives tout en acceptant les bougies que leur tendent les organisateurs. La mobilisation à laquelle ils participent est organisée dans une quarantaine de villes d’Afrique du Nord et d’Europe et rend hommage aux quinze hommes morts le 6 février 2014.

      Ce jour-là, environ 200 personnes ont essayé de traverser à la nage la délimitation entre le Maroc et l’enclave espagnole de Ceuta. Afin de les empêcher d’accéder au territoire européen, la Guardia civil a tiré 145 balles de caoutchouc et cinq fumigènes, selon Amnesty International. Dans une panique générale, quinze hommes se sont noyés et une dizaine ont disparu. Les seize gardes-frontières espagnols assignés en justice pour non-assistance à personne en danger et pour avoir utilisé du matériel anti-émeute ont été acquittés en octobre 2015 et l’affaire a été classée. La mobilisation des familles des victimes, des associations et de journalistes a poussé à la réouverture de l’enquête, qui a été classée à nouveau, en 2018. La commémoration de cet événement tragique est devenue celle de tous les morts et disparus aux frontières notamment françaises.
      « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés »

      Dès 2014, des manifestations et des commémorations ont eu lieu en Espagne, au Maroc, au Cameroun, en Guinée, au Mali ou encore au Niger pour honorer la mémoire des défunts et réclamer justice. En 2020, les proches des disparus se sont retrouvés à Oujda (Maroc) pour organiser la première « journée mondiale de CommémorAction contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles ».

      A Paris, devant les portraits alignés des morts de la plage de Tarajal – des carrés noirs ont été accrochés pour ceux dont l’identité n’a pas encore été définie –, un texte commun signé par la liste des associations organisatrices (Coordination des sans-papiers 75, 20 et de Montreuil, le Crid, Emmaüs International, la Cimade…) est lu, avant une prise de parole. Une militante de la Coordination des sans-papiers du 75 évoque la situation de la Tunisie, son pays d’origine. « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés. […] On veut migrer pour vivre, pas pour mourir ! » assène-t-elle.
      Bribes de témoignage

      Nayan K. de l’organisation Solidarités Asie France cite, lui, l’exemple de Tonail, 38 ans, originaire du Bangladesh, mort fin 2022 à la frontière turque. Il aurait payé des passeurs plus de 10 000 euros pour arriver en France. C’est son compagnon de route qui le trouvera mort de froid alors qu’ils cherchaient à traverser la frontière turque. Sur la photo que celui-ci a diffusée sur les réseaux sociaux pour pouvoir l’identifier, on voit Tonail vêtu de toutes les couches de vêtements qu’il a pu trouver, allongé dans la neige, immobile, les yeux mi-ouverts. Sa famille, dont il était l’aîné, a pu rapatrier son corps au Bangladesh pour lui offrir des funérailles.

      En France, on pourrait aussi nommer Ibrahima Diallo, originaire du Sénégal, et Abdouraman Bah, de nationalité guinéenne, qui se sont noyés dans le fleuve Bidassoa, à la frontière basque, respectivement le 12 février et le 18 juin 2022, selon l’association d’aide aux migrants Bidasoa Etorkinekin. Ou encore Ullah Rezwan Sheyzad, un garçon de 15 ans qui avait quitté l’Afghanistan en juin 2021 et a été retrouvé mort en février 2022 près d’une voie ferrée à la frontière franco-italienne. Dans son sac à dos, quelques adresses de connaissances à Paris.

      Pour retrouver un proche disparu sur les routes des migrations, les familles peuvent s’adresser à Restoring Family Links, un programme proposé par la Croix-Rouge internationale. Du fait de la longueur des procédures, elles se tournent également vers les associations et ONG présentes dans les pays de sorties et d’arrivées qui collectent le maximum d’informations et de bribes de témoignages possibles. Lors des départs, Alarm Phone, spécialisée dans le sauvetage en mer, peut aussi leur fournir des informations sur la localisation de leurs proches.
      « Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation »

      En attendant, parfois, de retrouver le corps d’un proche, « faire son deuil est difficile », affirme Mohammed T., du Collectif des sans-papiers du XXe. Quand des obsèques finissent par être organisées, avec ou sans la dépouille du défunt, elles prennent place dans le pays d’origine de la personne et dans celui où elle est décédée. « On loue une grande salle, et pendant tout le week-end, de 8 heures à 16 heures, des personnes viennent et donnent de l’argent pour la famille », raconte le militant.

      Après quelques chansons écrites en solidarité aux personnes en situation d’exil, la « CommémorAction » s’achève et la foule d’une centaine de personnes se disperse. Orianne S., militante de Paris d’exil, rappelle l’intérêt de ce genre de mobilisations : « Il s’agit d’un espace de témoignage qui permet de ne pas oublier les morts et de tenir les Etats pour responsables de ce qu’ils font. Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation. » Une autre militante renchérit : « Il n’y a aucune fatalité, on pourrait reconnaître l’égale valeur des vies humaines en admettant la liberté de circulation et d’installation pour tous. »

      Selon l’Organisation internationale des migrations, plus de 20 000 personnes ont disparu ou ont perdu la vie sur les routes migratoires depuis 2014, dont la moitié en Méditerranée. Pour l’année 2022, l’organisation estime ce bilan humain à 2 000 personnes.

      https://www.liberation.fr/societe/journee-de-commemoration-pour-les-morts-aux-frontieres-on-veut-migrer-pour-vivre-pas-pour-mourir-20230207_6IBCSHNYMRBYRMQ5TB22G2JFPI/?redirected=1

  • Japanese Aqarium’s Flowchart Illustrates the Complex Relationships of Their Penguins | Spoon & Tamago
    https://www.spoon-tamago.com/japanese-aqarium-penguin-relationship-flowchart

    Quelqu’un·e comprend le nippon ?

    Penguins are highly social species. They like being with others and, like humans, this can often lead to polyamorous and sometimes scandalous situations. Penguin drama can include serious crushes and heartbreaks but also adultery and egg-stealing. Penguins may even develop crushes on their caretakers. And these Japanese aquariums have it all charted in a flowchart that can be studied for hours.

    Kyoto Aquarium


    https://www.kyoto-aquarium.com/sokanzu/2023sokanzu

    Sumida Aquarium


    https://www.sumida-aquarium.com/sokanzu/2023sokanzu
    #cartographie #pingouins #relations

  • Pesticide Atlas 2022: Facts and figures about toxic chemicals in agriculture | Heinrich Böll Stiftung | Brussels office - European Union
    https://eu.boell.org/en/PesticideAtlas

    The European Union is one of the world’s biggest markets for pesticides with almost a quarter of all pesticides sold in the EU. It is also the top exporting region, increasingly selling to countries of the Global South to which pesticides that are banned in the EU can still be exported. The Pesticide Atlas raises awareness, provides comprehensive information and fosters nuanced debate around agrochemicals used for pest control. It sheds light on different aspects from scientific research, including the impact of pesticides on soils, waters, biodiversity and health, and highlights alternative models with a more stringent implementation of integrated pest management where synthetic substances are only a last resort option.

    Le pdf
    https://eu.boell.org/sites/default/files/2023-04/pesticideatlas2022_ii_web_20230331.pdf

    #pesticides #agro-alimentaire #cartographie #data #visu

  • Petite cartographie des polices parisiennes
    https://lundi.am/Cartographie-des-polices-parisiennes

    Voilà le printemps ! dans les campagnes comme dans les villes et en sus des allergies au pollen, chacun a pu constater la prolifération de forces de l’ordre aux costumes divers et à l’hostilité variable. De nombreux observateurs en déduisent que le pouvoir d’Emmanuel Macron n’aurait plus que la maréchaussée pour se faire respecter et repousser par la violence toute idée d’une prise de son palais. Si nous sommes temporairement amenés à croiser de plus en plus régulièrement ces fonctionnaires dont le comportements ne s’avère pas toujours des plus appropriés, nous avons pu constater une méconnaissance diffuse et inquiétante quant à leur organisation, leur organigramme, leur fonction. Combien de fois avons-nous vu un voyou de la BAC accusé à tort d’appartenir à la Brav-M, un gendarme pris pour un CRS ? Cette confusion et ce brouillage semblent d’ailleurs s’étendre jusqu’à la Préfecture de police de Paris qui s’est avérée incapable de savoir pour qui travaillent les 5 militants fascistes cagoulés en intervention chez Cyril Hanouna. Trève de fake news et d’approximations : sigles, emblèmes, QG, équipement et anecdotes historiques croustillantes, l’un de nos reporters s’est plongé dans les méandres de cette institution qui maintient l’ordre... et l’institution. Voici une cartographie critique, précise, historique et imagée des différentes unités de maintien de l’ordre.

    #police #Paris

  • Navigators From The Marshall Islands Used Wave Charts To Guide Their Way
    https://www.neatorama.com/2023/03/25/Navigators-From-The-Marshall-Islands-Used-Wave-Charts-To-Guide-Their-Way

    For the untrained eye, the sea only looks like a featureless expanse of water. But for master navigators of Oceania, the sea is full of signs and clues that could help them reach their destination — from driftwood, birds, and even the direction of the waves.

    Navigators from the Marshall Islands use wave charts to travel through the small islands and atolls in the region. These charts, which capture the distinctive patterns of ocean swells, are a result of constant observation of the sea from land. But as these are not maps, they are not brought to sea. Instead, the sailors memorize these stick charts.

    Wave charts have three types: the rebbelib, which show whole island chains; meddo, which represent ocean swell patterns in small areas; and mattang, which teach basic interactions between land and sea.

    The wave charts have been a crucial element in making the Pacific Ocean trade routes possible. These routes stretched “at some points all the way from New Zealand to South America.” Now that’s bonkers!

    #cartographie

  • Guerre en Ukraine : cartographie inédite des attaques de l’armée russe contre les civils
    https://disclose.ngo/fr/article/guerre-ukraine-cartographie-inedite-des-attaques-russes-contre-les-civils

    Depuis un an, les soldats de Vladimir Poutine terrorisent la population civile ukrainienne. Exécutions arbitraires, tortures, viols, mais aussi attaques contre des écoles, des hôpitaux ou des infrastructures énergétiques… Disclose a recensé et cartographié près de 6 000 événements susceptibles d’être qualifiés de crimes de guerre par la Cour pénale internationale. Lire l’article

  • Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei Cpr italiani

    Nei #Centri_di_permanenza_per_il_rimpatrio le persone ristrette vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico. Dati inediti mostrano la gravità del fenomeno. Da Milano a Roma

    “Mentre sono addormentati o storditi, le loro richieste diminuiscono: così le persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) non mangiano, non fanno ‘casino’, vengono rimpatriate e non pretendono i propri diritti. E soprattutto l’ente gestore risparmia, perché gli psicofarmaci costano poco. Il cibo e una persona ‘attiva’, invece, molto di più”. Il racconto di Matteo, nome di fantasia di un operatore che ha lavorato diversi mesi in un Cpr, è confermato da dati inediti ottenuti da Altreconomia e che fotografano un utilizzo elevatissimo di questi farmaci all’interno dei centri di tutta Italia. Una “macchina per le espulsioni” -dove “l’essere umano scompare e restano solo i soldi”, racconta Matteo- a cui il Governo Meloni non vuole rinunciare. Nell’ultima legge di Bilancio sono stati previsti più di 42,5 milioni di euro per l’ampliamento entro il 2025 della rete dei nove Cpr già attivi e il nuovo decreto sull’immigrazione licenziato a marzo 2023, appena dopo i fatti di Cutro, prevede procedure semplificate per la costruzione di nuove strutture, con l’obiettivo di realizzarne almeno una per Regione. Questo nonostante le percentuali dei rimpatri a seguito del trattenimento siano bassissime mentre incalcolabile è il prezzo pagato in termini di salute dalle oltre cinquemila persone che nel 2021 sono transitate nei centri.

    Per confrontare i dati ottenuti sulla spesa in farmaci effettuata dagli enti gestori delle strutture, abbiamo chiesto le stesse informazioni al Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio delle Asl che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno (non iscrivili quindi al sistema sanitario nazionale) e segue una popolazione simile a quella dei trattenuti del Cpr anche per età (15-45 anni), provenienza e condizione di “irregolarità”. A Vercelli la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale: al Cpr di via Corelli a Milano, invece, questa cifra è 160 volte più alta (il 64%), al “Brunelleschi” di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%), a Caltanissetta Pian del Lago 30 (12%) e a Macomer 25 (10%).

    Numeri problematici non solo per l’incidenza degli psicofarmaci sul totale ma anche per la tipologia, all’interno di una filiera difficile da ricostruire e che coinvolge tre attori: l’azienda sanitaria locale, la prefettura e l’ente gestore a cui è affidata, tramite bando, la gestione del centro. “A differenza della realtà carceraria, nel Cpr la cura della salute non è affidata a medici e figure specialistiche che lavorano per il sistema sanitario nazionale, bensì al personale assunto dagli enti gestori il cui ruolo di monitoraggio si è dimostrato carente, se non assente”, spiega Nicola Cocco, medico ed esperto di detenzione amministrativa.

    Grazie ai dati raccolti dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e dall’associazione di volontariato Naga relativi ai farmaci acquistati per il Cpr di Milano tra ottobre 2021 e febbraio 2022, sappiamo però che in cinque mesi la spesa in psicofarmaci è superiore al 60% del totale, di cui oltre la metà ha riguardato il Rivotril (196 scatole): farmaco autorizzato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) come antiepilettico ma usato ampiamente come sedativo.

    Nel primo caso necessiterebbe una prescrizione ad hoc ma le visite psichiatriche effettuate alle persone trattenute nei mesi che vanno da ottobre 2021 a dicembre 2022 sono solo otto. In alternativa, un utilizzo del farmaco diverso rispetto a quello per cui è stato autorizzato dovrebbe avvenire solo previo consenso informato della persona a cui viene somministrato. “Chiedevano a me, operatore, di darlo, ma io mi rifiutavo perché non potevo farlo, non sono né un medico né un infermiere: i più giovani non sanno neanche che cosa sia questo medicinale ma no, non ho mai visto nessuna acquisizione del consenso”, racconta Matteo. A Torino la spesa in Clonazepam (Rivotril) dal 2017 al 2019 è di 3.348 euro, quasi il 15% del totale (22.128 euro) mentre a Caltanissetta tra il 2021 e il 2022 sappiamo che sono state acquistate 57.040 compresse: 21.300 solo nel 2021, a fronte di 574 persone trattenute. Significa mediamente 37 a testa. “L’utilizzo degli psicofarmaci all’interno dei Cpr è troppo spesso arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico e sulla cura degli individui trattenuti, concorrendo ad aggravare la patogenicità di questi luoghi di detenzione”, osserva Cocco.

    Si registra inoltre un elevato consumo di derivati delle benzodiazepine, che dovrebbero essere utilizzate quando i disturbi d’ansia o insonnia sono gravi. A Roma in tre anni (2019, 2020 e 2021) sono state acquistate 3.480 compresse di Tavor su un totale di 2.812 trattenuti, cui si aggiungono, tra gli altri, 270 flaconi di Tranquirit da 20 millilitri e 185 fiale intramuscolo di Valium. Gli stessi farmaci li ritroviamo a Caltanissetta: 2.180 pastiglie di Tavor (più 29 fiale) tra il 2021 e il 2022; Zoloft (antidepressivo, 180 compresse); Valium e Bromazepam. Simile la situazione a Milano: tra ottobre 2021 e febbraio 2022 sono state acquistate, tra le altre, 27 scatole di Diazepam e 32 di Zoloft. Una “misura” del malessere che si vive nei centri è dato anche dall’alta spesa in paracetamolo, antidolorifici, gastroprotettori e farmaci per dolori intestinali. Un esempio su tutti: a Roma, in cinque anni, sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan su un totale di 4.200 persone transitate. In media, 36 pastiglie a testa quando un ciclo “normale” ne prevede al massimo 15.

    Un quadro eloquente in cui è fortemente problematica la compatibilità tra la permanenza della persona nel centro e l’assunzione di farmaci che prevedono precisi piani terapeutici. Qui entrano in gioco anche i professionisti assunti dall’ente gestore, che devono effettuare lo screening con cui si valuta lo stato di salute della persona trattenuta e l’eventuale necessità di visite specialistiche o terapie specifiche.

    A Milano gli psicofarmaci pesano per il 64% sul totale della spesa sanitaria. A Torino per il 44%, a Roma per il 51%. All’Isi di Vercelli appena per lo 0,6%

    Infatti, come previsto dallo schema di capitolato che disciplina i contratti d’appalto legati alla gestione dei Cpr italiani, “sono in ogni caso assicurati la visita medica d’ingresso [screening, ndr] nonché, al ricorrere delle esigenze, la somministrazione di farmaci e altre spese mediche”. Non è chiaro però, né dal capitolato né dalla nuova direttiva che regola diversi aspetti del funzionamento dei centri siglata il 19 maggio 2022 dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, quali siano le modalità con cui avviene la somministrazione di farmaci e chi effettivamente si faccia carico dei relativi costi.

    Dunque ogni Cpr (e quindi ogni ente gestore e ogni prefettura) adotta le proprie prassi, anche in virtù dell’esistenza o meno di protocolli con le Asl che gli uffici del governo sarebbero obbligate a stipulare. Una disomogeneità che genera scarsa trasparenza. Un altro caso di scuola: a Milano la prefettura chiarisce come “i farmaci acquistati dall’ente gestore sono prescritti da personale sanitario dotato di ricettario del Servizio sanitario nazionale, in capo al quale ricadono i relativi costi”. L’Asl a sua volta, ricordando l’esistenza di un protocollo d’intesa stipulato con la Prefettura, riporta che i medici del Cpr possono avvalersi del ricettario regionale per tutto un elenco di prestazioni, ma “non per la prescrizione di farmaci ai cittadini stranieri irregolari”. Un cortocircuito.

    Se anche i farmaci venissero forniti seguendo attente prescrizioni e piani terapeutici il problema sarebbe comunque la compatibilità del trattenimento con le patologie delle persone. I “trattenuti” accedono infatti nei Cpr solamente dopo una “visita di idoneità alla vita in comunità ristretta”, che dovrebbe sempre essere svolta da un medico della Asl o dall’azienda ospedaliera. Secondo quanto stabilito dalla citata direttiva del maggio 2022 la visita di idoneità serve a escludere “patologie evidenti come malattie infettive contagiose, disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possano ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”.

    La presenza tra le “spese” di antipsicotici, antiepilettici o di creme e gel che curano, ad esempio, la scabbia, sembra quindi un “controsenso”. “Se non si può arrivare a parlare di incompatibilità assoluta è perché il regolamento è un riferimento normativo secondario -sottolinea Maurizio Veglio, avvocato di Torino e socio dell’Asgi specializzato in materia di detenzione amministrativa-. Se una prescrizione legislativa specifica che persone con determinate patologie non possono stare nel centro e poi abbiamo percentuali di spesa così alte per farmaci ‘congruenti’ con quel profilo c’è una frizione molto forte”.

    “Nel Cpr la cura della salute non è affidata a medici e figure specialistiche che lavorano per il Ssn, bensì al personale assunto dagli enti gestori” – Nicola Cocco

    Una frizione che si traduce, concretamente, nella presenza di farmaci acquistati in diversi Cpr come Quetiapina, Olanzapina o Depakin, indicati nella terapia di schizofrenia e disturbo bipolare; Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta), piuttosto che il Rivotril. A Macomer, in provincia di Nuoro, l’ente gestore Ors Italia in una comunicazione rivolta alla prefettura il 9 settembre 2020 di cui abbiamo ottenuto copia scrive che la “comunità di persone trattenute è caratterizzata da soggetti con le più svariate criticità […]: tossicodipendenza, soggetti con doppia diagnosi (dipendenza e patologia psichiatrica, ndr), pazienti affetti da patologie dermatologiche”. Uomini e donne per cui non è problematizzato l’ingresso o meno nel centro. E il Servizio per le dipendenze patologiche territoriale (Serd), dal canto suo, ci ha fornito i piani di trattamento degli ultimi tre anni.

    Il metadone è presente anche nelle spese di Torino (circa 1.150 euro in quattro anni). Sempre nel capoluogo piemontese, nello stesso periodo, la spesa per la Permetrina, un gel antiscabbia, è di quasi 2.800 euro; una voce che si ritrova anche a Milano e Caltanissetta dove, nel 2022, sono stati acquistati 109 tubetti di Scabianil mentre a Roma, nel 2020, troviamo un farmaco per la tubercolosi (50 compresse di Nicozid). In tutti i Cpr in analisi troviamo anche antimicotici, legati a infezioni fungine (dermatologiche o sistemiche). “Se non c’è incompatibilità assoluta, l’idoneità non può essere valutata su una ‘normale’ vita comunitaria, ma va ‘calibrata’ sulla specificità di quello che sono quelle strutture -conclude Veglio-. A Torino, prima della sua momentanea chiusura a inizio marzo 2023 dormivano sette persone in 35 metri quadrati”. Luoghi definiti eufemisticamente come “non gradevoli” dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a metà marzo 2023 a commento delle nuove regole sull’ampliamento della rete dei centri rispetto a cui le informazioni sono spesso frammentate o mancanti.

    Un tema che ritorna anche rispetto alla spesa sui farmaci. Due esempi: a Palazzo San Gervasio, struttura situata in provincia di Potenza e gestita da Engel Italia, secondo l’Asl nel 2022 la spesa totale è pari ad appena 34 euro (un dato costante dal 2018 in avanti) senza la presenza di psicofarmaci o antipsicotici. Un quadro diverso da quello descritto dai medici operanti all’interno del Centro che, secondo quanto riportato dall’Asgi in un report pubblicato nel giugno 2022, dichiaravano un “massiccio utilizzo di psicofarmaci (Rivotril e Ansiolin) da parte dei trattenuti”. Un copione che si ripete anche per il centro di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, già finito sotto i riflettori degli inquirenti. A metà gennaio 2023 è iniziato infatti il processo per la morte di Vakhtang Enukidze, 37 anni originario della Georgia, avvenuta il 18 gennaio 2020.

    Vakhtang Enukidze è morto nel Cpr di Gradisca d’Isonzo il 18 gennaio 2020 per edema polmonare e cerebrale causato da un cocktail di farmaci e stupefacenti

    Come ricostruito sul quotidiano Domani, l’autopsia ha accertato che la causa della morte è edema polmonare e cerebrale per un cocktail di farmaci e stupefacenti. Pochi mesi dopo, il 20 luglio 2020, Orgest Turia, 28enne originario dell’Albania, è morto per overdose di metadone. Due morti che danno ancor più rilevanza all’accesso ai dati. Ma sia l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asugi) sia la prefettura di Gorizia riferiscono ad Altreconomia di non averli a disposizione. In particolare, l’ufficio del governo sottolinea che “l’erogazione dei servizi non avviene tramite rendicontazione delle spese mediche affrontate”. Citando la “documentazione di gara” si specifica che le spese per i farmaci sono ricomprese “nell’ammontare pro-capite pro-die riconosciuto contrattualmente”. Buio pesto anche a Brindisi, Trapani e Bari.

    Qualche tribunale inizia però a fare luce. È il caso di Milano, dove a fine gennaio 2023 la giudice Elena Klindani non ha convalidato il prolungamento della detenzione di un ragazzo di 19 anni, rinchiuso in via Corelli da cinque mesi, perché “ogni ulteriore giorno di trattenimento comporta una compromissione incrementale della salute psicofisica per il sostegno della quale non è offerta alcuna specifica assistenza, al di fuori terapia farmacologica” e la salute del giovane “è suscettibile di ulteriore compromissione per via della condizione psicologica determinata dalla protratta restrizione della libertà personale”. Altro che “luogo non gradevole”.

    https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani
    #rétention #détention_administrative #Italie #CPR #asile #migrations #sans-papiers #médicaments #psychotropes #données #chiffres #cartographie #visualisation #renvois #expulsions #coût #Rivotril #sédatif #Clonazepam #benzodiazépines #Tavor #Tranquirit #Valium #Zoloft #Bromazepam #Buscopan #Quetiapina #Olanzapina #Depakin #méthadone #Permetrina #Scabianil #Nicozid #Ansiolin

    • Condizioni di detenzione nei Centri per il Rimpatrio - Conferenza stampa di #Riccardo_Magi
      https://webtv.camera.it/evento/22168

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      “Rinchiusi e sedati” alla Camera dei deputati grazie a @riccardomagi e @cucchi_ilaria che chiedono “spiegazioni urgenti” al ministro Piantedosi sull’abuso di psicofarmaci all’interno dei Cpr denunciato dall’inchiesta: “La verità è una sola, questi luoghi vanno chiusi”

      https://twitter.com/rondi_luca/status/1644003698765381632

    • “Perché i Centri di permanenza per il rimpatrio devono indignare”

      L’avvocata Giulia Vicini, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, conosce bene i Cpr e le condizioni di vita di chi vi è trattenuto. In particolare in quello di via Corelli a Milano. Luoghi di privazione della libertà, con garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere. Stigmi cittadini. Il suo racconto

      Cpr. A dispetto del nome e dei nomi che lo hanno preceduto -Centro di permanenza temporanea (Cpt), Centro di identificazione ed espulsione (Cie), e ora l’acronimo sta per Centro di permanenza per il rimpatrio- si tratta di un luogo di privazione della libertà personale. La stessa struttura di questi centri lo dimostra: alte mura, filo spinato e telecamere sul perimetro. Presidio costante di almeno quattro corpi di forze dell’ordine: esercito, carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza.

      I francesi hanno trovato un nome per diversificare la privazione della libertà personale dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio dalla detenzione nelle carceri ed è “retention”. In Italia si parla di trattenimento amministrativo. Come lo si voglia chiamare, si tratta della stessa privazione della libertà personale a cui sono sottoposti coloro che sono stati condannati per avere commesso dei reati. Chi sta nel Cpr non può andare da nessuna parte e risponde a regole che sono proprie del carcere, nonostante siano diversi i presupposti per il trattenimento e anche le garanzie e le tutele del trattenuto.

      I trattenuti nel Cpr sono cittadini stranieri in attesa dell’espletamento delle procedure di esecuzione di un rimpatrio forzato. Tra i presupposti (quantomeno quelli previsti dalla legge) per il trattenimento presso il Cpr vi è quindi anzitutto di non avere o non avere più un titolo per soggiornare regolarmente nel territorio nazionale, un permesso di soggiorno. Prendendo in prestito uno degli alienanti nomi in voga nel dibattito pubblico, chi può essere trattenuto al Cpr è “irregolare”. O, peggio ancora, “clandestino”. Ma, sempre in forza delle norme di legge, l’irregolarità non è sufficiente perché si possa applicare la misura del trattenimento presso il Cpr. È anche necessario che lo straniero sia “espellibile”, che possa essere destinatario di un provvedimento di rimpatrio. Questo perché l’ordinamento nazionale prevede delle ipotesi in cui il cittadino straniero, pur non avendo un permesso di soggiorno, non può essere allontanato dal territorio nazionale. È il caso dei minori, delle donne in stato di gravidanza e -quantomeno fino alla recente riforma della protezione speciale- di coloro che avevano maturato in Italia dei legami famigliari o sociali significativi e degni di protezione.

      Ulteriore presupposto perché le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere al trattenimento è che il provvedimento di rimpatrio comminato possa essere eseguito con la forza. L’uso della forza e il trattenimento sono infatti previsti come ultima ratio per garantire l’esecuzione del rimpatrio. L’ordinamento disciplina delle misure alternative, meno afflittive della libertà personale, quali ad esempio l’obbligo di firma e il ritiro del passaporto.

      Questi i presupposti di legge. L’esperienza però ci mostra che nei Cpr vengono spesso trattenute persone inespellibili o che potrebbero avere accesso a misure alternative. Quello che è certo è che chi è trattenuto presso il Cpr non ha commesso alcun reato, o quantomeno non è trattenuto per avere commesso un reato. Il suo trattenimento è unicamente finalizzato a consentire alle autorità di pubblica sicurezza di rimuoverlo forzatamente dal territorio.

      Che il trattenimento nel Cpr non sia conseguenza di alcun reato è tanto più evidente se si considera che anche chi vi è trattenuto dopo avere espiato una pena in carcere non lo è per “pagare” una pena -appunto già pagata altrove- ma per essere identificato, in un sistema che si rivela incapace, o forse disinteressato a procedere all’identificazione e al riconoscimento durante la (spesso lunga) permanenza in carcere.

      Per riassumere, della popolazione del Cpr fanno parte coloro che entrano nel territorio senza un titolo per l’ingresso o il soggiorno o che entrano con un titolo trattenendosi però oltre la sua scadenza. Coloro che perdono un titolo di soggiorno spesso per cause non a loro imputabili, quali la perdita dell’occupazione. Ma anche i richiedenti asilo. Coloro che chiedono protezione internazionale perché in fuga da persecuzioni e guerre.

      Il decreto legge 20/2023 convertito in legge 50/2023 ha peraltro reso il trattenimento del richiedente asilo la norma ogni qualvolta la domanda è presentata “in frontiera”. Dove il concetto di frontiera si amplia a dismisura ricomprendendo territori scelti senza alcuna apparente ragione (si pensi ad esempio Matera) con la conseguenza che alla domanda di protezione presentata in questi territori seguirà un trattenimento. Le direttive europee prescrivono che il trattenimento del richiedente protezione debba rappresentare una misura eccezionale e che si debbano distinguere i luoghi di trattenimento perché diversi sono i presupposti e diverse le procedure e le garanzie. Nondimeno i richiedenti asilo possono essere trattenuti fino a dodici mesi negli stessi luoghi dei cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio.

      Quando e quanto si può essere trattenuti nel Cpr? Sul quando, si è già detto, lo straniero che viene portato al Cpr non è solo quello che è appena entrato in Italia ma anche quello che si trova nel territorio da moltissimi anni e che nel territorio ha costruito un percorso di vita. Sul quanto vale la pena interrogarsi perché la disciplina degli stessi termini del trattenimento dimostra l’esclusiva funzionalità alla conclusione di un procedimento -quello di espulsione- che molto spesso le autorità non portano a termine. La proroga del trattenimento, dopo i primi trenta giorni, può infatti essere consentita dal Giudice di pace solo se “l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. Il trattenimento può essere prorogato per altri trenta giorni solo se risulta probabile che il rimpatrio venga eseguito. Il trattenimento non solo è funzionale all’esecuzione del rimpatrio ma anche spesso determinato da inefficienze o ritardi della Pubblica amministrazione.

      Dove si consuma il trattenimento ai fini del rimpatrio? Nonostante le nostre preoccupazioni e la nostra indignazione riguardino spesso, legittimamente, i Cpr, gli stranieri destinatari di misure di rimpatrio vengono trattenuti anche negli aeroporti. In quella Malpensa in cui i titolari di passaporto italiano transitano senza alcun ostacolo e in cui i cittadini stranieri a cui si contesta di “non avere i documenti in regola” al momento del loro arrivo vengono trattenuti anche fino a otto giorni, in aree sterili, senza vedere la luce del giorno e senza avere accesso ai loro oggetti personali, e poi vengono “accompagnati” all’aereo che li riporta a casa. Dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 è inoltre possibile trattenere presso dei locali all’interno delle questure in attesa di rimpatrio. E negli uffici di via Montebello della questura di Milano questi locali esistono e vengono comunemente utilizzati.

      Infine, quello che forse più deve indignare è come si svolge il trattenimento. Ai trattenuti nel Cpr sono riconosciute garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere, tanto nel procedimento che porta alla privazione della libertà, quanto nelle condizioni materiali di tale privazione. Il caso dell’utilizzo della forza pubblica per l’esecuzione del rimpatrio di cittadini stranieri è l’unico per cui -in alcune ipotesi- la legge nazionale esclude la necessità di una convalida giudiziaria. Questo vale per i respingimenti “immediati” ai valichi di frontiera e anche, con l’entrata in vigore del decreto legge 20/2023, per chi è destinatario di misure di espulsione di carattere penale. Anche dove una convalida giudiziaria è prevista, la stessa è molto al di sotto degli standard del giusto processo, con udienze che si svolgono da remoto, senza concedere ai legali adeguato tempo per conferire con l’assistito, e hanno una durata complessiva di poco più di un quarto d’ora. Nel procedimento di convalida, inoltre, opera spesso un’inversione de facto dell’onere della prova in cui lo straniero deve offrire prova documentale di tutto quello che deduce mentre sulle dichiarazioni rese dalla Questura, parte istante, si fa cieco affidamento.

      Quanto alle condizioni, l’ampia reportistica risultante dai sopralluoghi effettuati presso i Cpr è più che eloquente. Lo straniero trattenuto non riceve alcuna informativa sui diritti e sui servizi a cui ha titolo. Significativo è che lo stesso venga identificato e arrivando nella sala colloqui con l’avvocato si identifichi con un numero. Quando si iniziano a identificare le persone con i numeri la storia ci insegna che non si arriva mai a nulla di buono.

      https://altreconomia.it/perche-i-centri-di-permanenza-per-il-rimpatrio-devono-indignare

    • Abuso di psicofarmaci nei Cpr: perché la versione del ministro Piantedosi non sta in piedi

      Intervistato da Piazzapulita sulle terribili condizioni dei trattenuti nei Centri, il titolare del Viminale ha provato a confutare i risultati della nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati”. Ma le sue tesi non reggono: dalla presunta richiesta dei reclusi all’ipotizzata presenza solo di persone con reati commessi durante la loro permanenza in Italia

      Giovedì 25 maggio su La7 la trasmissione Piazzapulita (https://www.la7.it/piazzapulita/video/inchiesta-esclusiva-di-piazzapulita-violenze-e-psicofarmaci-ai-migranti-dentro-a) il servizio di Chiara Proietti D’Ambra ha mostrato immagini inedite sulle condizioni di vita delle persone recluse nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani (Cpr). Il lavoro si è concentrato sulle strutture di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) e palazzo San Gervasio (Potenza) dando conto anche dei risultati dell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata da Altreconomia ad aprile e che per la prima volta ha quantificato, dati alla mano, l’abuso di psicofarmaci in cinque delle nove strutture detentive attualmente attive in Italia.

      Le immagini e i dati sono stati mostrati anche al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha risposto alle domande della giornalista Roberta Benvenuto (https://www.la7.it/piazzapulita/video/piantedosi-se-cpr-gestiti-da-privati-in-modo-insoddisfacente-possibilita-di-gest). Risposte lacunose, giunte tra l’altro prima in televisione rispetto alle quattro interrogazioni parlamentari presentate più di un mese fa da diversi senatori e deputati e tuttora rimaste inevase.

      Il ministro ha spiegato di “escludere nella maniera più categorica che vi sia un orientamento della gestione dei Centri finalizzata alla sedazione di massa. C’è una richiesta da parte degli ospiti. Fare il confronto tra le prescrizioni all’esterno e all’interno delle strutture non ha senso perché è più facile che nei Cpr si concentrano persone per cui quel tipo di prescrizioni si rivela normale”. Come descritto nella nostra inchiesta, presentata alla Camera dei Deputati a inizio aprile con Riccardo Magi e Ilaria Cucchi, l’utilizzo di psicofarmaci rispetto a un servizio dell’Asl che prende in carico una popolazione simile è però spropositato: 160 volte in più a Milano, 127,5 a Roma, 60 a Torino e così via.

      Il confronto è nato esattamente dalla necessità di quantificare un utilizzo di cui neanche le prefetture hanno contezza per partire da un dato di realtà che vada oltre le testimonianze dei reclusi. Piantedosi dichiara che non è significativo questo confronto perché il “sovrautilizzo” è dovuto al fatto che all’interno dei centri vi sono delle persone per cui quei farmaci sono necessari. Ma nell’inchiesta abbiamo riscontrato un largo utilizzo di Quetiapina, Olanzapina o Depakin, indicati nel­la terapia di schizofrenia e disturbo bipolare; Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta); Rivotril.

      Se questi farmaci sono forniti tramite prescrizioni e non somministrati al di fuori di quanto previsto dal foglio illustrativo, significa nei centri si trovano persone con patologie psichiatriche gravi. Ma nel maggio 2022 una direttiva dello stesso ministero dell’Interno aveva specificato che la visita d’ingresso nel Centro per valutare l’idoneità alla “vita” in comunità ristretta nella struttura deve escludere “pato­logie evidenti come malattie infettive contagio­se, disturbi psichiatrici, patologie acute o croni­co degenerative che non possano ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”. Delle due l’una: o le persone non possono stare nei Centri per la loro condizione sanitaria, oppure i farmaci vengono forniti off-label, senza cioè seguire un preciso piano terapeutico.

      Nel centro di via Corelli a Milano, nonostante il 60% delle scatole di farmaci acquistate in cinque mesi sia stato di psicofarmaci, le visite psichiatriche svolte in quasi due anni (quindi un periodo più lungo) sono state appena otto. Un altro segnale inquietante sulle modalità di utilizzo di questi psicofarmaci.

      Va ricordato inoltre che all’interno dei Cpr la cura della salute non è affidata a medici che lavorano per il Sistema sanitario nazionale ma da personale assunto dagli enti gestori sulla base di convenzioni ad hoc con prefetture e aziende sanitarie locali. “Il ruolo del monitoraggio si è dimostrato carente se non assente. Il ricorso a specialisti psichiatri e centri di salute mentale, per quanto garantito dalla normativa vigente, risulta spesso difficoltoso dal punto di vista burocratico e poco utilizzato -ha spiegato ad Altreconomia il dottor Nicola Cocco, esperto di detenzione amministrativa-. L’utilizzo degli psicofarmaci all’interno di molti Cpr è appannaggio del personale medico dell’ente gestore, che quasi sempre non ha alcune esperienza di presa in carico della patologia mentale e della dipendenza, tanto più in un contesto complesso come quello della detenzione amministrativa per persone migranti”.

      Questo aspetto è problematico anche rispetto alla “giustificazione” avanzata dal ministro Piantedosi rispetto alla richiesta da parte delle stesse persone recluse della somministrazione di questi farmaci. “Dal punto di vista medico la eventuale ‘richiesta’ dei trattenuti non giustifica nulla: gli psicofarmaci vengono somministrati a discrezione del personale sanitario. Sempre”, ricorda Elena Cacello, referente sanitaria del Centro salute immigrati di Vercelli (VC).

      La presunta richiesta dei reclusi -presentata come giustificazione risolutiva- conferma in realtà l’inefficienza del sistema. “Vi è spesso una gestione improvvisata di eventuali quadri di patologia mentale dei trattenuti -ribadisce Cocco-. Tale improvvisazione si manifesta attraverso la prescrizione arbitraria di psicofarmaci da parte dei medici degli enti gestori, in mancanza spesso di un percorso di presa in carico e cura, ma solo per la risoluzione del sintomo”. Un sintomo che, considerando che non può essere presente già all’ingresso nel Centro (che quindi dovrebbe escludere il trattenimento), insorge a causa delle pessime condizioni di vita nelle strutture -dove non è prevista alcuna attività, spesso neanche nella disponibilità del proprio telefono cellulare- e dettato anche dalla necessità di “tenere buoni” i reclusi. “Un altro aspetto può ‘spiegare’ questo sovrautilizzo di psicofarmaci a scopo sedativo o tranquillizzante funziona: la somministrazione funziona come una vera e propria ‘camicia di forza farmacologica’ nei confronti delle persone trattenute, al fine di evitare disordini e, non meno importante, l’intervento diretto delle forze di polizia; è evidente come in questo caso l’utilizzo degli psicofarmaci non ha una rilevanza clinica per le persone interessate, bensì di sostegno all’apparato di polizia”.

      Il ministro ha dichiarato poi che “all’interno dei Cpr tutte le prestazioni sanitarie sono nella normalità garantite, controllate e monitorate”. Un dato smentito da diverse testimonianze di avvocati e attivisti che si occupano di detenzione amministrativa ma soprattutto da sentenze di tribunali.

      Partiamo da quella della giudice Elena Klindani che a fine gennaio 2023 non ha prorogato il trattenimento di un ragazzo di 19 anni rinchiuso in via Corelli a Milano da cinque mesi perché “ogni ulteriore giorno di trattenimento comporta una compromissione incrementale della salute psicofisica per il sostegno della quale non è offerta alcuna specifica assistenza, al di fuori terapia farmacologica” e la salute del giovane “è suscettibile di ulteriore compromissione per via della condizione psicologica determinata dalla protratta restrizione della libertà personale”. Per avere una panoramica completa di quello che succede è utile leggere, tra gli altri, “Il Libro nero del Cpr di Torino”, a cura dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che racconta “quattro casi di ordinaria ferocia” di persone trattenute nel Cpr da Torino che danno conto dell’insufficiente garanzia rispetto alle cure sanitarie di cui necessitano i trattenuti e il lavoro di denuncia dell’Associazione Naga, con sede a Milano, che da diversi anni segnala la scarsa tutela della salute all’interno del centro di via corelli. E poi i lavori della rete Mai più Lager-No ai Cpr e di LasciateCIEntrare.

      Moussa Balde, Wissem Abdel Latif, Vakhtang Enukidze sono solo alcuni dei nomi delle oltre 30 persone morte nei Cpr. Sul suicidio di Balde e di Enukidze sono tutt’ora in corso procedimenti penali, rispettivamente a Torino e a Trieste, per accertare le responsabilità di chi aveva in custodia i due giovani. Di fronte a questo quadro il titolare del Viminale ha parlato di “salute garantita” e dichiarato, solo a seguito dell’insistenza della giornalista, che è “possibile, probabile” che siano necessari più controlli.

      https://www.youtube.com/watch?v=OQF1F1lyFRY&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

      Infine il ministro ha sottolineato che nei Cpr sarebbero presenti solamente persone con reati commessi durante la loro permanenza in Italia per una “prassi che si è consolidata negli anni”. “L’articolo 32 sul diritto alla salute è garantito a tutti, a prescindere dal loro passato”, ha giustamente risposto in studio lo psicoterapeuta Leonardo Mendolicchio.

      Ma il punto è che quanto detto da Matteo Piantedosi è falso. Secondo dati ottenuti da Altreconomia, e forniti proprio dal ministero dell’Interno, nel 2021 sono state 987 le persone che hanno fatto ingresso nei Cpr direttamente dal carcere: il 19% del totale di 5.174 trattenuti. Una percentuale a cui vanno certamente aggiunti coloro che hanno precedenti penali e vengono rintracciati sul territorio successivamente alla loro scarcerazione ma che comunque smentisce la versione governativa.

      Il ministro dichiara che non voler “rinforzare il sistema di espulsione e rimpatrio” sarebbe “omissivo” da parte di qualsiasi governo. Negli ultimi quattro anni la percentuale delle persone trattenute effettivamente rimpatriate ha superato il 50% solo nel 2017: questi centri non raggiungono quindi nemmeno l’obiettivo per cui sarebbero stati creati, sulla carta. La presunta omissione non passa dall’esistenza di queste strutture.

      Piantedosi ha poi paradossalmente auspicato una “collaborazione da parte degli ospiti” perché terribili scene come quelle mostrate nel servizio non avvengano più. Quasi a dire che i diritti fondamentali fossero materia da elargire, a mo’ di premio al merito, e non invece da garantire punto e basta. “Il Cpr è psicopatogeno di per sé e come sistema -conclude Cocco-. Le proteste sono legittime, sono un diritto. Chiedere più collaborazione è quasi come impedire a qualcuno di poter fare lo sciopero della fame: utilizzare il proprio corpo è la extrema ratio che si ha per manifestare il proprio malessere. Tocca allo Stato evitare che le persone si facciano male o muoiano. Non certo ai reclusi”. Che il ministro, nella lunga sequela di falsità, chiama “ospiti”.

      https://altreconomia.it/abuso-di-psicofarmaci-nei-cpr-perche-la-versione-del-ministro-piantedos

    • Pioggia di ansiolitici al Cpr di #Palazzo_San_Gervasio per rendere innocui i reclusi

      Oltre 2.800 pastiglie in appena sei mesi per poco più di 400 trattenuti transitati: i dati inediti sulla struttura in provincia di Potenza. La Procura intanto indaga sulla gestione di Engel Italia. Gli psicofarmaci sarebbero serviti a “neutralizzare ogni possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere le persone”

      Una scatola di psicofarmaci per ogni persona che è entrata al Cpr di Palazzo San Gervasio tra gennaio e luglio 2022. I dati inediti ottenuti da Altreconomia fotografano l’abuso dell’antiepilettico Rivotril e di benzodiazepine all’interno della struttura, su cui sta indagando anche la Procura di Potenza. “Le situazioni di degrado e non conformità al rispetto della persona umana e dei diritti in cui si trovavano a vivere i reclusi -scrivono gli inquirenti nell’ordinanza applicativa di misure cautelari di fine dicembre 2023 rivolta, tra gli altri, ad Alessandro Forlenza amministratore di fatto della Engel Italia Srl, che ha gestito il centro dal 29 ottobre 2018 al 23 giugno 2023- venivano lenite dall’uso inappropriato di farmaci sedativi volti a rendere gli ospiti innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere”.

      In sei mesi di spesa, da gennaio a luglio 2022, il 38% delle 791 scatole di farmaci acquistati erano psicofarmaci, per un totale di oltre 2.800 tra compresse e capsule e 1.550 millilitri in fiale o flaconi. Numeri esorbitanti se si considera che, secondo i dati della prefettura, la presenza media in struttura è stata di 70 persone con circa 400 transiti in sei mesi. Tra i farmaci acquistati troviamo soprattutto sedativi e ansiolitici come il Diazepam (65 scatole), l’Alprazolam (45), Tavor (14) ma anche Rivotril (77 confezioni), un antiepilettico con importanti effetti secondari di stordimento. “Tale farmaco veniva acquistato sistematicamente in quantità tali da non rimanere mai senza copertura -ha spiegato una delle operatrici sentite dalla Procura di Potenza-. Senza Rivotril sarebbe scoppiata la rivolta”.

      Gli inquirenti hanno così focalizzato la loro attenzione, rispetto all’operato della Engel Italia Srl, società madre di Martinina Srl, sotto indagine a Milano per presunte frodi nella gestione del Cpr di via Corelli, anche sull’utilizzo smodato degli psicofarmaci. Per diversi motivi. L’antiepilettico “Rivotril” dovrebbe essere utilizzato off-label, quindi al di fuori dei casi in cui la persona soffre di epilessia, solo laddove non vi siano “valide alternative terapeutiche” e in ogni caso con l’acquisizione del consenso della persona di cui, però, secondo la Procura, non vi sarebbe “alcuna traccia”.

      “Risulta che l’uso del medicinale -come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare- prescindeva dalla volontà del paziente e corrispondeva alla specifica necessità di controllare illecitamente l’ordine pubblico interno da parte della Engel”. Che per la gestione del centro ha ricevuto oltre 2,8 milioni di euro dalla prefettura di Potenza.

      Un problema di quantità ma anche di modalità di somministrazione e prescrizione. La direzione dell’ente gestore, sempre stando alle ricostruzioni degli inquirenti, avrebbe richiesto “a seconda delle esigenze” di ridurre le dosi “per risparmiare sui costi del farmaco” allungando i flaconi con l’acqua. Ma non solo. Due medici operanti all’interno del Cpr sarebbero indagati per la redazione di “false ricette per la dispensazione dei predetti farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale”.

      Con riferimento sempre agli psicofarmaci, “su 2.635 confezioni dispensate tra gennaio 2018 e agosto 2019 dai due medici ben 2.235 erano destinati a pazienti identificati con Stp (codice fiscale per chi non ha un permesso di soggiorno, ndr) e quindi presumibilmente ospitati presso il Cpr di Palazzo San Gervasio”. Con un dettaglio non di poco conto. Diverse prescrizioni sarebbero state destinate a soggetti, ordinanza alla mano, che erano già usciti dal Cpr. Un modo, presumibilmente, per continuare ad acquistare scatole di farmaci gravando sul sistema sanitario nazionale e non sull’ente gestore.

      I dati ottenuti da Altreconomia sui farmaci comprati dalla Engel Italia Srl potrebbero quindi essere solo una fetta di quelli somministrati perché riguardano quelli per cui la società ha chiesto rimborso dalla prefettura. Ma escludono quelli “passati” dall’azienda sanitaria. Rispetto a cui, però, i conti non tornano: nella nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata ad aprile 2023 si è dato conto del riscontro dell’Asl territoriale che ha dichiarato importi bassissimi. Nei primi dieci mesi del 2022 in totale 19 prescrizioni e 34,7 euro di farmaci destinati al Cpr. Qualcosa, stando anche ai dati della Procura, non torna.

      Oltre agli psicofarmaci -tra cui troviamo anche la Quetiapina, antipsicotico prescrivibile per gravi patologie psichiatriche- nei farmaci acquistati dalla Engel si trovano diverse tipologie di farmaci acquistati che raccontano della presenza all’interno della struttura di persone dalla salute precaria. Due esempi su tutti: la Spiriva, prescrivibile per la broncopneumopatia, una malattia dell’apparato respiratorio caratterizzata da un’ostruzione irreversibile delle vie aeree e il Palexia, usato per il trattamento del dolore cronico grave in adulti che possono essere curati adeguatamente solo con antidolorifici oppioidi.

      Dal 20 giugno 2023 Engel Italia Srl non è più l’ente gestore del Cpr di Palazzo San Gervasio. Ad aggiudicarsi il nuovo appalto per 128 posti, con importo a base d’asta di 2,2 milioni di euro, è stata #Officine_Sociali, cooperativa di Priolo Gargallo in provincia di Siracusa. Officine Sociali ha partecipato a diverse gare per la gestione di Cpr e grandi strutture di accoglienza nel corso degli anni, finendo per aggiudicarsi la gestione dell’hotspot di Taranto e Pozzallo; per quest’utimo ha incassato, da inizio dicembre 2021 a giugno 2023, oltre 1,3 milioni di euro. Pochi mesi prima della gara indetta dalla prefettura di Potenza per la gestione del Cpr, Officine sociali costituiva un “raggruppamento temporaneo di imprese” con Martinina Srl, la nuova “creatura” di Forlenza, per aggiudicarsi la gara per la gestione del Cpr di Gorizia. Un anno prima, le due società avevano gareggiato insieme per vincere l’appalto di Torino. Una sinergia di intenti.

      Tornando alla gestione di #Engel_Italia Srl “il livello di assistenza e di cura”, secondo la Procura, sarebbe stato “insufficiente a garantire loro le modalità di trattenimento idonee ad assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della dignità umana”. Il servizio medico sarebbe stato garantito 4.402 ore in meno di quanto, quello infermieristico di più di 11mila in meno nel periodo compreso tra febbraio 2021 al 31 ottobre 2022. “Nell’ambulatorio è sempre mancata l’acqua corrente”, si legge nell’ordinanza. Per la gestione del Cpr di Potenza sono indagati anche dottori, due albergatori della zona, un commissario e due ispettori di polizia. “Gli ospiti apparivano infatti molto provati proprio dal contesto in cui si trovavano a vivere -ha raccontato un’operatrice sentita dalla Procura-. Dopo qualche settimana di permanenza alcuni di loro cominciavano a sviluppare comportamenti ossessivi come il camminare in cerchio”.

      A Milano intanto si verificano nuove proteste e violenze sui trattenuti nonostante il commissariamento, così come a Caltanissetta, dove la condizione di vita nelle strutture è insostenibile (un video dall’interno lo dimostra) fino ad arrivare Trapani, con la condanna del governo italiano da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti a danni di un recluso nel Cpr. Tutto questo a meno di una settimana di distanza dal suicidio di Ousmane Sylla che ha acceso i riflettori sull’attuale gestione da parte di Ors Italia della struttura di Ponte Galeria a Roma. Intanto il ministero dell’Interno resta in silenzio: a “camminare in cerchio” sembra non essere solamente chi è trattenuto. Perché il sistema Cpr non va messo in discussione.

      https://altreconomia.it/pioggia-di-ansiolitici-al-cpr-di-palazzo-san-gervasio-per-rendere-innoc

    • Sa #thèse de #doctorat :
      La fabrique du parcours migratoire sur la route des #Balkans. Co-construction des récits et écritures (carto)graphiques

      Cette thèse de géographie analyse le #parcours_migratoire sur la route des Balkans, à la lumière de la parole des migrants, par la médiation du #récit_migratoire.

      Dans un contexte d’externalisation du contrôle des flux migratoires vers l’Union européenne, cette recherche place l’expérience du déplacement au cœur de l’analyse, pour répondre à la question suivante : Comment les migrants parviennent-ils à parcourir la route des Balkans, un espace où les États, par l’intermédiaire d’outils de contrôle, tentent de les interrompre ?

      Cette recherche questionne ainsi le déterminisme politique sur lequel se fonde l’externalisation qui voudrait que le contrôle façonne les choix des migrants, et par voie de conséquence, hypothèque l’accomplissement de leurs parcours. À l’inverse, cette thèse soutient l’idée selon laquelle le parcours migratoire relève d’une fabrique : les migrants parviennent à construire la continuité de leur parcours, là où le politique tente d’introduire des ruptures.

      Ce questionnement est posé dans une période qui constitue un temps fort de l’histoire de la route des Balkans : de septembre 2015 à fin août 2016, au moment de ladite « crise migratoire », lorsque l’intensité des flux migratoires est sans précédent dans la région (près de 900 000 migrants enregistrés selon le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les Réfugiés) et lorsque les États des Balkans instaurent un dispositif politique inédit dans la région, le « corridor ».

      En accordant une place centrale à la parole des migrants, cette recherche contribue à la compréhension du parcours migratoire et à l’enrichissement de sa conceptualisation. Elle participe aussi aux réflexions éthiques développées autour de l’approche biographique.

      Enfin, elle place au centre de l’écriture scientifique une diversité de (carto)graphies. En cela, elle réaffirme la portée heuristique de ces outils qui constituent les points de départ et d’aboutissement du travail du géographe.

      https://luciebacon.com/these-de-doctorat-la-fabrique-du-parcours-migratoire
      #migrations #frontières #route_des_Balkans

  • Les mégabassines : tout comprendre en une #carte

    Une carte du bassin de la #Sèvre niortaise, avec des #bassines_artificielles et des #zones_humides, pour comprendre ce qui se passe dans cette région du #marais poitevin.

    Aujourd’hui, dans la région et plus précisément à #Sainte-Soline, on attend une grande #manifestation « anti-bassines ». Cette #mobilisation doit rassembler les opposants à ce programme de stockage de l’eau pour l’#agriculture, mais elle a été interdite par la préfecture des Deux-Sèvres, en raison de la violence des affrontements avec les forces de l’ordre lors des précédents rassemblements. Les organisateurs promettent en revanche une mobilisation historique à laquelle sont censées participer des délégations étrangères, européennes mais aussi venues d’outre-Atlantique.

    Delphine Papin, cartographe au journal Le Monde explique comment a été pensée cette carte du bassin de la Sèvre niortaise, qui coule entre les départements de la #Vendée, des #Deux-Sèvres et de la #Charente-Maritime.

    « En bleu, on a tracé les principaux cours d’eau comme la Sèvres niortaise, la Vendée ou le #Mignon. On a aussi tracé les zones humides très étendues dans cette région, puisque nous sommes ici entre terre et mer, dans la région du marais poitevin, qui est la deuxième plus grande #zone_humide de France, après la Camargue. C’est une zone qui concentre une #biodiversité très riche, mais à l’équilibre écologique fragile et qui a subi dans le temps une forte pression humaine avec entre autres la conversion de certaines prairies en zone de #cultures_céréalières.

    En 2014, cette région a retrouvé son statut de #parc_naturel_régional - qu’elle avait perdu en 1996 en raison de ces transformations - : nous avons représenté avec un liseré vert ce périmètre à l’intérieur duquel l’environnement doit être en principe préservé. En jaune justement, on voit les #zones_agricoles, qui sont prépondérantes dans cette région rurale, ponctuée de zone urbains comme #Niort : on y pratique la #polyculture et l’#élevage, mais surtout la #céréaliculture, avec des grandes étendues irriguées très gourmandes en eau. »

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-cartes-en-mouvement/les-megabassines-tout-comprendre-en-une-carte-6229163

    #cartographie #visualisation #méga-bassines #mégabassines #eau #agriculture #résistance #irrigation

  • CLEARMAP Application
    https://geoservices.un.org/Html5Viewer/index.html?viewer=clearmap

    The United Nations Clear Map (hereinafter “Clear Map”) is a background reference web mapping service produced to facilitate “the issuance of any map at any duty station, including dissemination via public electronic networks such as Internet” and “to ensure that maps meet publication standards and that they are not in contravention of existing United Nations policies” in accordance with the in the Administrative Instruction on “Regulations for the Control and Limitation of Documentation – Guidelines for the Publication of Maps” of 20 January 1997 (http://undocs.org/ST/AI/189/Add.25/Rev.1).

    #nations_unies #cartographie #frontières #référence

  • La prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva

    Una ricerca ha esaminato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte. Dal Perù al Guatemala, dall’India al Sudafrica. Non solo duri impatti ma anche nuove pratiche di resistenza

    Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

    Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

    L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne ai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

    I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

    In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

    L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

    Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

    Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

    La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Maxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

    Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

    La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.

    https://altreconomia.it/la-prima-analisi-globale-dellattivismo-delle-donne-contro-lindustria-es

    #femmes #résistance #extractivisme #justice_environnementale

  • #Mapping_Diversity

    Mapping Diversity is a platform for discovering key facts about diversity and representation in street names across Europe, and to spark a debate about who is missing from our urban spaces.

    We looked at the names of 145,933 streets across 30 major European cities, located in 17 different countries. More than 90% of the streets named after individuals are dedicated to white men. Where did all the other inhabitants of Europe end up? The lack of diversity in toponymy speaks volumes about our past and contributes to shaping Europe’s present and future.


    https://mappingdiversity.eu
    #cartographie #noms_de_rue #toponymie #toponymie_féministe #toponymie_politique #visualisation #Europe #base_données #villes #urban_matter #ressources_pédagogiques

    ping @_kg_ @cede

    • Pocas y ocultas: la infrarrepresentación de las mujeres en el callejero de Europa

      Da igual que sea una calle principal en las afueras de una gran ciudad o un pequeño callejón en el centro histórico; en Escandinavia o en el Mediterráneo; en la ciudad más occidental de Europa o en la sufrida Kiev. Las calles del Viejo Continente tienen una cosa en común: rinden homenaje a muchos más hombres que mujeres.

      La European Data Journalism Network (EDJNet) ha analizado, con la participación de El Orden Mundial, 145.933 calles en 30 grandes ciudades de 17 países de la Unión Europea o candidatos a formar parte del grupo comunitario. De todas ellas, el 91% llevan nombre masculino. Incluso en la ciudad con menor brecha de género, Estocolmo, las calles que homenajean a hombres siguen suponiendo más del 80% del callejero.

      No todas las ciudades son iguales

      En algunas ciudades de Europa, particularmente en el norte y el este del continente, es relativamente común dedicar nombres de calles a personas. Además de la capital sueca, las urbes con mayor representación de mujeres son las españolas (Madrid, Barcelona y Sevilla) y Copenhague, aunque en el caso de España las cifras están condicionadas por la gran cantidad de calles dedicadas a las vírgenes católicas (211 calles en 3 ciudades). En el lado contrario, menos de un 5% de las calles de Atenas, Praga y Debrecen (Hungría) tienen nombre de mujer.

      En total, la EDJNet ha identificado 41.000 individuos con al menos una calle en su honor, y aunque Europa es una región densamente poblada y con cientos de años de rica historia, solo 3.500 mujeres aparecen en el callejero de las 30 ciudades que forman parte de la investigación. Si todas ellas hubiesen coincidido en el tiempo, apenas ocuparían las casas y viviendas de una simple avenida. La preponderancia de figuras masculinas en las calles de Europa es un fuerza sublime pero constate que ayuda a perpetuar la marginación de las mujeres y su contribución a la historia, la cultura y la ciencia.

      La Virgen María y Santa Ana son las figuras femeninas mas populares en el callejero de las ciudades analizadas por la EDJNet. Pese a esto, la mayoría de calles dedicadas a mujeres no son de figuras religiosas, sino del mundo de la cultura y la ciencia, incluidas escritoras y artistas. La nobleza y la política son otros campos con una representación fuerte en el callejero femenino de Europa.

      Existen, eso sí, diferencias entre ciudades. Tanto Copenhague como Cracovia tiene 71 calles dedicadas a mujeres, pero en la primera ciudad solo hay una figura religiosa, mientras que en la capital polaca son diez. Las diferencias son mucho más pequeñas cuando se analiza el origen de estas mujeres: aparte de algunas santas de Oriente Medio, la inmensa mayoría son mujeres europeas. Solo destacan dos excepciones: la líder india Indira Gandhi y la artista sudafricana Miriam Makeba.
      Una brecha que no se cierra

      La gran brecha de género en el callejero europeo no sorprende si se tienen en cuenta los siglos de discriminación que han sufrido las mujeres en la educación, la vida pública y la economía. Los paisajes urbanos tienden a reflejar las relaciones de poder que existían cuando se construyeron las calles. En el caso de Europa, esto sucedió en el siglo XIX y principios del XX.

      Gracias al esfuerzo de activistas o intelectuales, la concienciación en torno a la sobrerrepresentación de hombres blancos y ricos en el callejero ha crecido en Europa. Sin embargo, los datos sugieren que esta concienciación aún no se ha visto acompañada de un cambio significativo en los nombres de las calles. Durante los últimos diez años, ninguna de las grandes ciudades de Europa ha estado cerca de cerrar la brecha de género, y en algunos casos se ha perpetuado: en el periodo 2012-2022, ciudades como Ámsterdam, Berlín, Valencia o Milán siguieron dedicando más calles a hombres que mujeres.

      «Desde 2017, hemos aplicado estrictamente el reparto equitativo en la denominación de las calles, homenajeando a una nueva mujer por cada nuevo hombre. Sin embargo, todavía recibimos muchas más propuestas de nombres masculinos, unas diez veces más, que nombres femeninos», dice Antonella Amodio, la funcionaria a cargo de seleccionar los nombres de las calles en Milán. Una mayor sensibilidad hacia el tema ha llevado a una mayor concienciación: la ciudad ahora monitorea la brecha de género y está construyendo un sitio web dedicado a explorar lugares y monumentos dedicados a mujeres destacadas y sus vidas.

      Pero aplicar la paridad no es suficiente para cerrar la brecha de género. De hecho, ni siquiera sería suficiente si todas las calles nuevas llevasen nombre de mujer. Las ciudades europeas simplemente no crecen tan rápido como solían hacer, y solo se construyen algunas decenas de calles cada año. En la actualidad hay 43.330 calles más dedicas a hombres que a mujeres en las ciudades analizadas, por lo que la desigualdad tardaría siglos en cerrarse.

      Es más, los expertos advierten de que las nuevas valles dedicadas a mujeres tienden a estar localizadas en áreas periféricas, zonas residenciales donde la visibilidad es menor, como el barrio de Sanchinarro en Madrid. Por contra, las calles con nombres de hombres siguen siendo las avenidas y plazas más importantes de los centros históricos.

      https://elordenmundial.com/mapas-y-graficos/infrarrepresentacion-mujeres-callejero-europa

  • La carte des absent·e·s : Téhéran 1979-1988
    https://visionscarto.net/carte-absent-e-s-teheran

    Bahar Majdzadeh cartographie l’absence des militant·e·s de la Révolution de 1979 dans la capitale iranienne. Sa carte interactive et participative fait remonter à la surface la répression sanglante qu’ont subi les partis politiques opposés à la république islamique pendant les années 1980. Cette destruction politique a été suivie par celle de la mémoire de ces révolutionnaires, une mémoire que la chercheuse réinscrit patiemment dans l’espace symbolique des cartes. par Bahar Majdzadeh, docteure en arts, (...) #Billets

  • David Libeau @DavidLibeau ->
    J’ai créé ce week-end un site qui permet de récupérer facilement les vidéos des caméras de surveillance qui vous filment (car oui c’est un droit).
    https://twitter.com/DavidLibeau/status/1629877954070077445?s=20

    #cartographie de la #vidéosurveillance de Paris

    Madame, Monsieur,
    Conformément à l’article L253-5 du Code de la sécurité intérieure, je souhaite avoir accès aux enregistrements vidéos qui me concernent. Je pense avoir été filmé le 26 février 2023 vers 20h-3 par ces caméras :
    – caméra n° 46685 : Lemonnier / Rivoli
    – caméra n° 44805 : Rivoli / 29 juillet
    Merci d’avance.
    Cordialement,

    https://camerci.fr

  • Sécheresse : 27 jours sans pluie en France, du jamais vu en hiver
    https://meteofrance.com/actualites-et-dossiers/actualites/climat/secheresse-27-jours-sans-pluie-en-france-du-jamais-vu-en-hiver

    La pluie n’est pas tombée en France depuis le 21 janvier, soit une série record de 27 jours. Du jamais vu en hiver . Cette situation se traduit par un assèchement des sols, déjà affaiblis par la sécheresse de l’été 2022. Source : Météo-France

    • Abstract

      A prolonged drought affected Western Europe and the Mediterranean region in 2022 producing large socio-ecological impacts. The role of anthropogenic climate change (ACC) in exacerbating this drought has been often invoked in the public debate, but the link between atmospheric circulation and ACC has not received much attention so far. Here we address this question by applying the method of circulation analogs, which allows us to identify atmospheric patterns in the period 1836-2021 very similar to those occurred in 2022. By comparing the circulation analogs when global warming was absent (1836-1915) with those occurred recently (1942-2021), and by excluding interannual and interdecadal variability as possible drivers, we identify the contribution of ACC. The 2022 drought was associated with a persistent anticyclonic anomaly over Western Europe. Circulation analogs of this atmospheric pattern in 1941-2021 feature 500 hPa geopotential height anomalies larger in both extent and magnitude, and higher temperatures at the surface, relative to those in 1836-1915. Both factors exacerbated the drought, by increasing the area affected and enhancing soil drying through evapotranspiration. While the occurrence of the atmospheric circulation associated with the 2022 drought has not become more frequent in recent decades, the influence of the Atlantic Multidecadal oscillation cannot be ruled-out.

      https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/acbc37

    • Même en hiver, la France a soif de pluie

      L’hiver n’a pas été aussi sec depuis 35 ans. La faute à l’homme, qui dérègle le climat. Le niveau des nappes phréatiques est si bas qu’il pourrait mettre en péril les cultures du printemps et de l’été 2023.

      On se croirait un 15 août. Rivières à sec, maigres filets d’eau au départ des #sources, fleuves aux allures de banc de sable : partout dans l’Hexagone, habitant·es et autorités relaient les mêmes images d’une France aux prises avec l’une des #sécheresses_hivernales les plus importantes de son histoire. Il n’a pas plu, selon Météo France, depuis le 21 janvier, ce qui n’était plus arrivé depuis près de 35 ans.

      Si le phénomène préoccupe, c’est qu’il s’inscrit dans un temps devenu très long. Depuis août 2021, tous les mois sont déficitaires en pluie, à l’exception des mois de décembre 2021, juin 2022 et septembre 2022. Après un été très sec, l’hiver 2023 devrait figurer parmi « les dix hivers les moins arrosés depuis 1959 », explique l’institution météorologique.

      Deux départements dans le sud de la France ont pris des mesures de restriction d’eau et au moins une dizaine d’autres ont été placés en « vigilance », selon le ministère de l’écologie. Dans le département du Var, rapporte le journal Ouest-France, alors que les dernières mesures de restriction de l’usage de l’eau avaient été levées le 15 décembre 2022 seulement, 85 communes ont à nouveau été placées en situation d’alerte sécheresse, ce qui a permis au préfet d’interdire d’arroser les jardins la journée, de laver les véhicules des particuliers ou d’utiliser des jeux d’eau. Le milieu agricole n’est pas ciblé par ces mesures.

      Dans les Pyrénées-Orientales, également concernées par des restrictions, l’interdiction prise en janvier de prélever de l’eau dans le fleuve Têt avait déjà provoqué l’ire des syndicats agricoles et d’une partie des élus politiques locaux. Un millier de représentants d’une partie du monde rural avait alors défilé à Montpellier, racontait le journal Le Monde, pour défendre l’accès à l’eau, un bien « de plus en plus rare et convoité ».

      Sans apport de pluie depuis six mois, le fleuve L’Agly, irriguant le Roussillon plus au nord, dévoile lui aussi son fond pierreux à des habitantes et habitants catastrophés, un phénomène très rare selon le syndicat mixte du bassin versant, interrogé par TF1.

      Le journal La Dépêche relaie lui aussi le faible niveau des barrages du Tarn sud, « source d’inquiétudes », malgré les appels dès le début de l’hiver à limiter la consommation d’eau. Les hameaux du Livradois-Forez ou du Velay, dans le Massif central, sont eux carrément alimentés en eau potable par des camions-citernes. La région est pourtant considérée comme « le château d’eau » de la France pour sa pluviométrie.

      Les grands fleuves, comme la Loire ou le Rhin, ne sont pas épargnés. Le faible niveau de ce dernier était même au cœur d’un atelier européen qui s’est tenu jusqu’au 18 février 2022, selon RFI. La France, l’Allemagne, les Pays-Bas, la Belgique, la Suisse et le Luxembourg étaient rassemblés à Strasbourg pour pour lutter contre « le même fléau » : sur cet axe navigable capital pour l’économie, certains transporteurs fluviaux ne peuvent plus circuler. À tel point que l’Union européenne envisage de remplacer une partie de la flotte par des bateaux à faible tirant d’eau.

      La météo pourrait changer la semaine prochaine. Une nouvelle vague froide de pluie et de neige s’annonce en remplacement du soleil et du vent qui prévalaient jusqu’ici. Mais un tel niveau de sécheresse sera difficile à rattraper.

      Le Bureau de recherches géologiques et minières (BRGM) a précisé début janvier dans un rapport que « la recharge des nappes phréatiques reste peu intense. Plus des trois quarts des nappes demeurent sous les normales mensuelles ». Une « bombe à retardement » pour l’été 2023 « si les nappes phréatiques ne sont pas rechargées d’ici le mois d’avril », a mis en garde récemment Serge Zaka, consultant et docteur en agroclimatologie, sur France Info.

      Ces sécheresses quatre saisons, une « anomalie anticyclonique » que l’Europe de l’Ouest affronte tout particulièrement depuis le début de l’année 2022, sont la conséquence directe du dérèglement climatique et de l’activité humaine, comme l’a démontré un nouveau rapport du CNRS (Centre national de recherche scientifique), publié le 27 janvier 2023.

      Commentant leurs résultats, les trois scientifiques à l’origine de cette étude considèrent qu’elle apporte « une preuve claire du rôle du changement climatique dû à l’homme dans l’exacerbation de la sécheresse exceptionnelle de 2022 et souligne la nécessité de poursuivre et d’intensifier les recherches et les actions pour faire face aux impacts du changement climatique sur nos communautés ».

      https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/190223/meme-en-hiver-la-france-soif-de-pluie
      #sécheresse_hivernale

    • Parler de « canicule d’hiver » me semble biaisé : la canicule d’un point de vue étymologique est une période de chaleur sèche se produisant de fin juillet à fin août

      Du latin caniculis (« petite chienne »), Canicula étant également l’un des anciens noms de l’étoile Sirius. Les périodes de grande chaleur furent ainsi nommées parce qu’on les attribuait à l’influence de Sirius. En effet, pendant l’Antiquité, au cours de la période annuelle du 20 juillet au 24 août, cette étoile se couchait et se levait en même temps que le Soleil.

      Donc le phénomène est bien lié à une réalité due à la mécanique céleste.
      Il serait plus pertinent de parler d’anomalies persistantes dans la circulation atmosphérique qui se manifestent par des situations de blocages anticycloniques sur l’Europe de l’Ouest.
      On pourrait aussi parler d’anomalies de géopotentiel mais là ça devient plus technique.
      De toute façon, les conséquences sont on ne peut plus problématiques : nous allons manquer d’eau. Pour nous mêmes dans nos usages domestiques mais plus préoccupant encore, pour les autres êtres vivants que sont les animaux et les végétaux. Et je pense qu’on ne mesure pas l’ampleur du désastre à long terme.

  • La France en plein pic de pollution aux particules fines
    https://reporterre.net/La-France-en-plein-pic-de-pollution-aux-particules-fines

    Cet épisode de #pollution hivernale aux #particules_fines est liée au #refroidissement des températures. D’une part, les émissions dues au chauffage, particulièrement au bois augmentent, s’ajoutant à celles causées par le trafic routier. D’autre part, « lors de journées froides et sans vent, notamment au petit matin, on peut assister à un phénomène d’inversion thermique, explique Atmosud, sur son site internet. La température à quelques centaines de mètres d’altitude est supérieure à celle du sol. Les polluants se trouvent donc piégés sous un couvercle d’air plus chaud et s’accumulent. »

    Ces particules fines (PM10 et PM2,5) présentent de nombreux risques pour la santé, notamment des plus fragiles comme les enfants et ont contraint certaines régions à instaurer des mesures de restriction. Baisse du chauffage à 18 °C, abaissement de la vitesse sur les routes, interdiction de brûler des déchets verts ou d’utiliser le bois comme chauffage d’agrément.

    La carte Atmo
    https://www.atmo-france.org
    Le Mans sent mauvais

  • L’importance des aménagements cyclables dans la pratique du #Vélo
    http://carfree.fr/index.php/2023/02/14/limportance-des-amenagements-cyclables-dans-la-pratique-du-velo

    Quand vous parlez aux gens des différences de pratique vélo selon les endroits, très souvent on vous explique que si la pratique du vélo est plus forte ailleurs, c’est que Lire la suite...

    #Belgique #bruxelles #cartographie #culture #cyclistes #pistes_cyclables #travail

    • En moyenne, l’utilisation du vélo est environ 10 fois inférieure en Wallonie par rapport à celle enregistrée en Flandre.

      Il est rare de voir un phénomène social (la pratique du vélo) correspondre aussi bien à une limite régionale et culturelle. Alors, quelle est la raison profonde d’un tel clivage ? [...] On est donc allé chercher la carte des aménagements cyclables sur le site Geovelo, carte qui regroupe les voies dédiées, les double-sens cyclables, les voies partagées et les zones apaisées. Et surprise, on retrouve la séparation nord-sud que l’on peut constater en matière de pratique vélo…

  • Non si fermano le riammissioni al confine tra Italia e Austria

    Scarsa informativa legale, assenza di mediatori, mancanza di provvedimenti scritti: al Brennero l’attività delle polizie dei due Paesi nega i diritti alle persone in transito. Le Ong denunciano le violazioni e chiedono la fine dei controlli

    Brennero, primi giorni dell’anno 2023. Un operatore del servizio Assistenza umanitaria al Brennero -gestito dal Gruppo Volontarius in collaborazione con la Caritas di Bolzano-Bressanone- attende l’arrivo del treno regionale da Innsbruck al binario tronco Nord. Di solito, quando incontra un migrante in transito gli si avvicina per un primo orientamento legale sulle normative riguardo l’iter di protezione internazionale e la regolare permanenza sul territorio. Ma in presenza delle forze dell’ordine la sua possibilità di intervento è più limitata. “In quel caso è molto difficile avvicinarsi attivamente alle persone per dare informazioni. La possibilità di presentare richiesta d’asilo non viene menzionata dalle forze dell’ordine, che si limitano a far salire le persone intercettate sul primo treno regionale diretto in Austria, se la persona proviene da lì, o in Italia se sta tentando il percorso inverso”, spiega l’operatore.

    È quello che accade dopo la perquisizione dell’Eurocity 81 delle dieci, proveniente da Monaco di Baviera e diretto a Bologna. All’arrivo del treno le forze dell’ordine italiane operano secondo una prassi ben consolidata, con l’impiego di sette agenti di polizia e tre militari. In otto salgono a bordo del treno e procedono con il controllo delle carrozze, mentre due militari restano sul binario seguendo il percorso dei loro colleghi all’interno. L’operazione dura meno di dieci minuti. Due cittadini pakistani vengono fatti scendere. Senza un servizio di mediazione che permetta loro di comprendere quanto stia accadendo, né la consegna di alcun provvedimento, i due vengono scortati al binario tronco Nord. Qui sono sorvegliati a vista da due agenti di polizia e due militari. All’arrivo del regionale proveniente da Innsbruck vengono caricati sul convoglio che dopo cinque minuti riparte in direzione Nord.

    Ogni giorno al Brennero circolano dieci Eurocity della compagnia austriaca ÖBB: cinque percorrono la tratta Bologna-Monaco, gli altri viaggiano in direzione opposta. Al Brennero rimangono fermi quindici minuti. In questo lasso di tempo le forze dell’ordine italiane entrano in azione. Sui treni Eurocity diretti a Monaco, inoltre, tre agenti della polizia austriaca salgono sul convoglio già al Brennero. Si posizionano in coda e procedono con i controlli appena varcato il confine. Le persone sprovviste di un regolare titolo di soggiorno sul territorio austriaco vengono fatte scendere alla prima stazione, Gries am Brenner, e lì, dopo una rapida perquisizione -e in alcuni casi una multa da cento a mille euro che si traduce nel sequestro di soldi e spesso del telefono cellulare, una pratica consentita dalla normativa sull’immigrazione austriaca (articolo 120, par. 1 e 1a del Fremdenpolizeigesetz)- vengono caricate sui furgoni della gendarmeria e riportati subito in Italia.

    Le modalità di controllo sistematiche mostrano che le polizie italiana e austriaca sono particolarmente attente nel colpire i movimenti secondari dei migranti su questa striscia di confine. “Nei mesi invernali le persone soggette a riammissione dall’Italia verso l’Austria e nella direzione opposta sono in media dieci al giorno”, spiega Manocher Moqimi, referente del servizio Assistenza umanitaria al Brennero. Mentre il “Consuntivo della Polizia ferroviaria 2022” rivela che lo scorso anno “le attività svolte in forma congiunta con le polizie austriaca e tedesca lungo le fasce confinarie di Brennero e Tarvisio, hanno permesso di controllare 4.474 stranieri, di cui 949 rintracciati in posizione irregolare”.

    Le riammissioni lungo il confine del Brennero avvengono sulla base dell’accordo bilaterale sottoscritto da Italia e Austria il 7 novembre 1997. Matteo Astuti, operatore legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi), spiega che “le riammissioni dovrebbero essere effettuate secondo le procedure previste dall’accordo tra i due Paesi, che comprendono sempre la notifica di un provvedimento scritto alle persone soggette a riammissione, il diritto all’informazione e a poter manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale”. Quando questi diritti non vengono rispettati la procedura di riammissione si configura come illegittima. Come sottolineato dal report “Lungo la rotta del Brennero”, pubblicato da Antenne migranti, Fondazione Langer e Asgi già nel 2017, le riammissioni informali al Brennero avvengono in contrasto con l’articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attuate “sulla base di decisioni delle autorità di frontiera non scritte, in nessun modo formalmente notificate […] e in alcun modo contestabili e impugnabili di fronte alle autorità giurisdizionali astrattamente competenti”.

    Particolarmente problematico poi è il tema dei controlli effettuati dalle forze di polizia. Italia e Austria hanno ripristinato formalmente quelli sulle rispettive frontiere solo nel periodo tra novembre 2015 e maggio 2016, e pertanto “la presenza di controlli sistematici alle frontiere interne viola l’articolo 22 del Codice Schengen che non prevede ‘verifiche’ per chi attraversa la frontiera qualunque sia la sua nazionalità”, chiarisce Astuti. Al Brennero, inoltre, il diritto all’informazione viene costantemente leso. Il servizio di mediazione, che dovrebbe essere garantito dagli accordi tra il governo italiano l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) è assente. A volte gli operatori di Assistenza umanitaria al Brennero sono chiamati dalle forze di polizia a svolgere la mediazione, visto che alcuni collaboratori del servizio conoscono lingue quali l’arabo e il farsi. Limitandosi a raccogliere informazioni da tradurre, però, gli enti di tutela corrono il rischio di essere strumentalizzati dalla pubblica autorità per giustificare una pratica eseguita in maniera illegittima.

    Per ovviare a situazioni come queste Asgi ha iniziato un ciclo di formazioni per gli operatori del servizio del Brennero. “In questo modo possono disporre di più strumenti per comprendere quando la polizia di frontiera agisce in maniera illegittima”, spiega l’operatore legale che auspica anche il ripristino di un’attività di monitoraggio indipendente, nel solco delle precedenti esperienze “Brenner/o border monitoring” e “Antenne migranti” -operative rispettivamente dal 2014 al 2016 e dal 2016 al 2020- per testimoniare quanto accade su questa frontiera e denunciare le violazioni dei diritti delle persone migranti. “Le persone cercheranno sempre di passare: chi non ce la fa la prima volta spesso ci riprova ancora e ancora -afferma l’operatore del Gruppo Volontarius-. Forse all’ennesimo tentativo riuscirà a varcare la frontiera. Ma in che modo e a quale prezzo?”.

    https://altreconomia.it/non-si-fermano-le-riammissioni-al-confine-tra-italia-e-austria

    #frontière_sud-alpine #Brenner #Italie #Autriche #réadmission #push-backs #refoulements #Alpes #migrations #asile #réfugiés

  • PLUS VITE QUE LE COEUR D’UN MORTEL – Editions Grevis
    https://editionsgrevis.com/2021/11/02/plus-vite-que-le-coeur-dun-mortel

    Il vient de sortir, le bel ouvrage de Max Rousseau et Vincent Béal ! Un #livre qui revient sur les effets de la crise économique sur les #villes à travers l’expérience américaine, mais aussi sur le vernis de la ville décroissante qui cache mal parfois les processus de #ségrégation à l’oeuvre. Le tout accompagné d’un travail de #cartographie de David Lagarde et d’#illustrations de Lauren Hamel !

    Ségréguée, paupérisée et vidée, #Cleveland est passée du statut de métropole florissante à celui de cauchemar urbain. Massivement démolis, ses quartiers noirs sont progressivement rendus à la nature. Les conservateurs y extraient les dernières richesses tandis que racisme et austérité avancent masqués derrière des algorithmes.

    De ce paysage dystopique, une vision alternative émerge pourtant : celle d’un futur agricole et coopératif. Dix ans après le crash déclenché par l’effondrement des subprimes, ce livre offre une plongée dans l’épicentre de la dernière crise globale. En donnant la parole à celles et ceux qui sont confrontés au déclin extrême, il cherche à éclairer l’Amérique urbaine abandonnée.