• Ecco perché il #Tav diventa un bancomat Ue per i costruttori

    L’eterna telenovela del Tav Torino-Lione ha la sua immancabile puntata estiva. Arrivano nuovi finanziamenti dall’Europa, quelli che dovrebbero coprire il 55% dei costi dell’opera. Bruxelles comunica l’assegnazione di 700 milioni di euro del #Cef, #Connecting_Europe_Facility, il programma per finanziare i grandi progetti infrastrutturali. Da #Telt, la società italo-francese che sta lavorando per realizzare la Torino-Lione, arriva intanto la notizia che i costi sono saliti da 8,6 a 11,1 miliardi e che la consegna è posticipata al 2033. L’arrivo dei 700 milioni – sottolinea Telt – è segno dell’impegno dell’Europa per il Tav: sono il 10% del budget europeo disponibile e rendono quest’opera, per importo erogato, il terzo progetto finanziato dall’Unione. Per gli ingegneri della commissione tecnica sul Tav dell’Unione montana Valle di Susa, invece, quei 700 milioni sono briciole: neppure il 3% del budget europeo 2021-2027 per le infrastrutture di trasporto, che ammonta a quasi 26 miliardi di euro. Nel 2014 la Torino-Lione portò a casa 814 milioni, cioè il 7% del budget 2014-2020 (che era di 11,7 miliardi). Oggi, malgrado i soldi disponibili fossero più del doppio (quasi 26 miliardi, appunto), il contributo diminuisce sia in cifra assoluta sia in percentuale. Non solo. Questi fondi europei arrivano dopo 10 anni dall’ultima assegnazione, avvenuta con il bando Cef 2014. E sono l’ultima erogazione possibile per il settenato 2028-2034. Insomma – secondo i tecnici del movimento No-Tav – l’Europa nei fatti non dimostra molta passione per la grande opera che piace tanto a Matteo Salvini e a molti anche a sinistra. La lentezza con cui arrivano i finanziamenti europei dipende anche dai ritardi nei lavori: per chiedere soldi nuovi, bisogna prima finire di spendere quelli già assegnati; e in questi anni Telt non ha brillato per capacità di spesa. Lo ha segnalato anche la Corte dei conti europea nel 2020: con i fondi erogati nel 2014, si dovevano completare entro 5 anni, cioè nel 2019, gli studi e i lavori finanziati. Telt ha chiesto ben tre proroghe, terminando quei lavori in 10 anni, ovvero nel doppio del tempo previsto. Sono stati chiusi in fretta e furia nel febbraio 2024, per poter partecipare in extremis all’ultimo bando di finanziamento del settenato europeo, dopo aver perso i due bandi precedenti. Così sono arrivati i 700 milioni appena annunciati. Dal 2001 ad oggi, sono già stati spesi quasi 2 miliardi in opere preparatorie, senza che le cinque talpe comprate per scavare il tunnel ferroviario tra Italia e Francia siano entrate in funzione: sono ancora parcheggiate nello stabilimento in Germania dove sono state assemblate. Per scavare la galleria serviranno almeno altri 11 miliardi, di cui il 45% dovrà essere pagato da Italia (almeno 2,5 miliardi) e Francia (altri 2,5) e il 55% dall’Europa (almeno 6). Arriveranno? E quando? L’entrata in servizio della linea, prevista ora per il 2033, sembra un miraggio: imporrebbe una capacità di spesa entro quella data di 11 miliardi. Ma a questo ritmo di spesa e di finanziamenti – circa 750 milioni europei ogni sette anni – per finire il tunnel ci vorranno altri sette settenati, ossia una cinquantina d’anni. Al di là degli annunci e delle previsioni, sembra che i soldi servano a finanziare nel tempo la lobby del Tav, amministratori e costruttori, senza alcuna garanzia di riuscire a realizzare davvero l’opera. Del resto, la linea ferroviaria già esistente è più che sufficiente a trasportare le merci che viaggiano tra Italia e Francia. E ormai il progetto si è ridotto al solo tunnel, abbandonando l’idea di nuove linee d’accesso in Italia (Val di Susa) e soprattutto in Francia (Modane-Dijon, saltando Lione). Il Tav non è più un progetto infrastrutturale: è ormai solo una bandiera per la politica e un bancomat per i costruttori.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/08/02/ecco-perche-il-tav-diventa-un-bancomat-ue-per-i-costruttori/7645124

    #TAV #Turin-Lyon #Lyon-Turin #business #train #train_à_grande_vitesse #géologie #Val_de_Suse #Vallée_de_Suse #Maurienne #Savoie #infrastructure_ferroviaire #coût

  • Da #Melilla a #Beni_Mellal: dove sono finiti i respinti tra Spagna e Marocco

    Dopo le brutali violenze al confine con l’enclave spagnola di fine giugno, più di 200 persone sono state allontanate con la forza nel Sud del Marocco, in una zona impreparata alla loro assistenza. Ecco come ha risposto il territorio

    Le immagini dei violenti respingimenti dei migranti avvenuti il 24 giugno scorso da parte delle forze dell’ordine marocchine e spagnole alla frontiera con l’enclave spagnola di Melilla sono rimbalzate su tutte le testate europee. Quei 37 morti e le centinaia di feriti hanno suscitato sgomento e sdegno in tutta la comunità internazionale e diverse riflessioni su come ripensare alla gestione delle migrazioni ai confini dell’Unione europea. Mentre i riflettori erano puntati sul filo spinato dell’ingresso di Barrio Chino, file e file di autobus carichi di migranti partivano da Nador, dieci chilometri a Est di Melilla, e si snodavano lungo le diverse routes nationales del Marocco verso destinazioni il più possibile lontane.

    A 678 chilometri più a Sud, nel cuore della catena montuosa del Medio Atlante la città di Beni Mellal da un giorno all’altro si è trovata ad ospitare un flusso senza precedenti di migranti. Circa 210 persone si sono riparate nei pressi della stazione degli autobus, luogo di elezione dei senzatetto della zona. L’erba dei giardini di Boulevard Mohamed VI a fare da letto e i rami degli alberi a fare ombra dal sole cocente per proteggersi dai 45 gradi tipici della stagione estiva. Beni Mellal è il capoluogo di Beni Mellal-Khenifra, una regione grande come la Sicilia e la Valle d’Aosta messe insieme. A vocazione agricola e con un’intensa attività di estrazione di fosfati, è storicamente sempre stata considerata un’area di emigrazione di cittadini marocchini verso il Nord Italia, specie in Piemonte e Lombardia. Negli ultimi 15 anni però l’area è soggetta alla migrazione di ritorno e circolare. Altro fenomeno che la caratterizza è quello del transito dei migranti provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana che tentano di raggiungere l’Europa. Tuttavia, a causa della pandemia da Covid-19 e del rafforzamento dei controlli alle frontiere di Ceuta e Melilla, per alcuni, soprattutto ivoriani e ciadiani, il transito si è tramutato in uno stanziamento. Si tratta perlopiù di migranti in situazione “irregolare” che vivono in strada o in edifici in costruzione, mendicando agli incroci. L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    La richiesta d’asilo è valutata prima dall’Unhcr e poi, in caso di esito positivo, da un ufficio del governo marocchino. Nel 2020 sono state riconosciute 847 “carte del rifugiato”

    In Marocco non esiste una legge che regoli il diritto alla protezione internazionale, nonostante dal dicembre 2014 sia in vigore la Strategia nazionale di immigrazione e asilo che ha come obiettivo quello di facilitare l’accesso ai servizi, all’educazione, alla salute e all’alloggio per gli stranieri presenti sul territorio nazionale. Non essendoci un sistema di asilo consolidato nel Regno, è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che affianca il governo marocchino prendendo in carico ed esaminando le richieste di protezione internazionale. In caso di esito positivo rilascia un documento che attesta lo status di rifugiato, ma che non regolarizza la posizione sul territorio. Con tale documento è possibile rivolgersi al Bureau des réfugiés et des apatrides (Bra), istituzione dipendente dal governo marocchino, che riesamina la documentazione e in seconda battuta può confermare o rigettare lo status. Nel primo caso, il beneficiario ottiene una “carta del rifugiato” con la quale successivamente è possibile richiedere un titolo di soggiorno e quindi regolarizzare la propria presenza. Nel rapporto di bilancio del 2020 sulla politica di immigrazione e asilo si parla di 847 persone con lo stato di rifugiato riconosciute dal Bra. Le statistiche aggiornate al 31 luglio scorso raccontano di una popolazione di 18.985 persone prese in carico da Unhcr di cui 9.277 richiedenti asilo e 9.708 con un primo esito positivo.

    Dal 25 al 30 giugno 2022, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena

    A fine giugno le Organizzazioni non governative internazionali e le associazioni di Beni Mellal che si occupano di sviluppo, improvvisamente si sono trovate a gestire centinaia di persone, molte delle quali gravemente ferite, senza aver una particolare esperienza nella gestione dell’emergenza. La nazionalità più presente quella dei sudanesi, seguiti da ciadiani, etiopi, nigeriani e nigerini. Età media 23 anni. Nessuna donna. Per comunicare gli operatori internazionali si sono affidati all’intermediazione dei ciadiani che parlando sia francese sia arabo hanno fatto da traduttori per le altre nazionalità arabofone.

    A fare da capofila nella gestione dei primi soccorsi è Progettomondo, un tempo Mlal, Ong veronese attiva in Marocco e in particolare nella regione da circa 20 anni, specializzata in migrazione e sviluppo. La sede, situata nel quartiere di Hay Ghita, si è trasformata nella base operativa di coordinamento della società civile. Hanno unito le forze l’Ong italiana Cefa, partner storico di Progettomondo in Marocco specializzato in accompagnamento dei migranti, la Chiesa cattolica di Beni Mellal che si è offerta di pagare i medicinali e l’operazione per un giovane con il ginocchio in frantumi, l’associazione Cardev sempre disponibile per le attività con i migranti, la Mezzaluna Rossa che ha offerto i propri locali per fare le medicazioni e l’associazione Maroc solidarité médico sociale (MS2), attiva tra Rabat e Oujda, le cui operatrici si sono spostate eccezionalmente a Beni Mellal per mettere a disposizione risorse e competenze nell’accompagnamento medico. Costante la partecipazione degli operatori di Unhcr, attore non presente nella regione ma che proprio il giorno degli episodi di Melilla stava tenendo una formazione alle associazioni locali sul diritto all’asilo. “Nonostante l’area non sia specializzata nell’ emergenza, i vari attori avevano già in atto delle attività di assistenza” spiega Rachid Hsine, senior protection associate a Unhcr.

    “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una rete in Marocco, non c’è interesse a restare. Dati i maggiori controlli a Nord, molti si muovono verso le Isole Canarie” – Hsine

    La comunicazione, secondo Fabrizia Gandolfi, rappresentante Paese di Progettomondo in Marocco è stata la chiave di volta: “Le relazioni e la fiducia delle autorità locali e di sicurezza ci hanno permesso di portare gli aiuti. Per settimane, sono state condotte una decina di distribuzioni di viveri a beneficio di centinaia di persone con il benestare della Prefettura che collabora con Progettomondo da anni. I contatti continui con la Delegazione regionale della salute hanno facilitato l’accesso ai poliambulatori, laddove insorgesse reticenza nell’accogliere migranti irregolari. Anche le precedenti formazioni erogate al personale sanitario sull’accoglienza dei migranti nel corso dei nostri progetti hanno facilitato la ricezione”.

    Solo dal 25 al 30 giugno di quest’anno, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena. Aimée Lokake, agente di terreno dell’Ong Cefa applaude lo staff medico locale: “I primi soccorsi sono stati garantiti a decine di migranti alla volta, nonostante l’arrivo inaspettato e la diffidenza nell’accogliere persone protagoniste di atti di violenza, come riportato dei media locali”. Emblematico della collaborazione tra i diversi attori il caso di Ahmed, sudanese di 22 anni arrivato a Beni Mellal con un piede in cancrena a causa delle medicazioni frettolose e sommarie ricevute all’ospedale di Nador subito dopo gli scontri. La prima diagnosi all’ospedale di Beni Mellal aveva dato un esito nefasto: amputazione. Tuttavia, società civile e istituzioni si sono mobilitate per dare una speranza al giovane. La Delegazione regionale della salute ha fatto da intermediario con medici e assistenti sociali, Progettomondo e Cefa hanno vegliato il ragazzo in ospedale, Unhcr, MS2 e l’Association de planification familiale di Rabat hanno tenuto i contatti con l’ospedale della capitale per verificare la possibilità di trasferimento, infine Progettomondo ha assicurato la presenza di un’ambulanza privata per il trasporto e Cefa si è fatta carico delle cure. A Rabat la diagnosi è stata più clemente, il piede è stato salvato e il giovane è stato inserito nei registri di Unhcr per richiedere la protezione internazionale.

    Sono 360 i milioni di euro versati dall’Ue al Marocco negli ultimi otto anni per la gestione del fenomeno migratorio. Di questi, il 75% (270 milioni) sono stati stanziati per “proteggere” le frontiere europee. Nell’agosto 2022 è trapelata la notizia di un ulteriore finanziamento di 500 milioni di euro che lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi

    Uno dei problemi emersi è stato quello della presa in carico: “Purtroppo sono le Ong e le associazioni che devono pagare i costi delle cure accessorie. Una volta ricevute quelle di base, i migranti finiscono in strada con conseguenti problemi di igiene. Le organizzazioni si sono trovate a mobilitare fondi straordinari per trovare alloggi consoni” racconta Hsine. Secondo i dati rilasciati da Progettomondo, alla fine di agosto il numero di migranti è sceso a 100. Alcuni hanno preso la volta di Melilla, altri si sono spostati a Casablanca e a Rabat, alcuni sono riusciti ad arrivare in Spagna prendendo il mare da Sud-Ovest. “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una presenza comunitaria in Marocco, non vi è alcun interesse a restare. Dato il rafforzamento dei controlli alle frontiere a Nord del Paese, molti tentano di arrivare alle Isole Canarie attraverso Laayoune (città a circa 30 chilometri dalla costa, ndr)” evidenzia Hsine. Ad agosto la notizia trapelata da fonti comunitarie di un prossimo finanziamento di 500 milioni di euro da parte dell’Unione europea al Marocco per la gestione delle migrazioni lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi, dato che negli ultimi otto anni 270 su 360 milioni di euro ricevuti sono stati allocati alla protezione delle frontiere.

    “La situazione dei migranti bloccati in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee” – Gandolfi

    Uno dei nodi è l’utilizzo di questi fondi, considerando che le organizzazioni internazionali stimano che tra le 60 e le 80mila persone all’anno transitino irregolarmente sul territorio marocchino e solo nel 2020 sono stati 40mila i tentativi di ingressi e di uscita bloccati dalle autorità: “Le alternative sono diverse: approccio securitario, adattamento dei programmi alle popolazioni in movimento, intervento umanitario, integrazione oppure intervento nei Paesi di origine”, spiega Hsine. Secondo Gandolfi, la ricetta per far fronte a nuovi flussi massicci è andare oltre la risposta emergenziale: “Dal momento che la situazione delle persone migranti presenti irregolarmente e bloccate in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee, è necessario creare dei tavoli di coordinamento permanenti tra società civile e collettività territoriali dove elaborare risposte condivise e responsabilizzare le istituzioni sul loro ruolo di governance”. Nel frattempo gli autobus continuano a partire dal Nord verso il Sud del Paese carichi di giovani che prima o poi ritenteranno di passare il confine, sperando di essere tra i fortunati a valicare il muro di quella che ormai sembra sempre di più somigliare a una fortezza.

    https://altreconomia.it/da-melilla-a-beni-mellal-dove-sono-finiti-i-respinti-tra-spagna-e-maroc

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    #toponymie_politique:

    L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    #toponymie_migrante

    #Maroc #expulsions #renvois #déportation #migrerrance #Atlas_marocain #montagne #migrations #asile #réfugiés #Bureau des_réfugiés_et_des_apatrides (#Bra) #Progettomondo #Cefa #Mlal #Cardev #société_civile #HCR

  • La grande #malbouffe

    Que mangeons-nous réellement en avalant un cordon bleu industriel ? Ce documentaire met la main à la pâte pour déconstruire les pratiques souvent douteuses de l’industrie agroalimentaire.

    Toujours plus abondante et moins chère, la nourriture industrielle a envahi nos assiettes, avec des incidences sur la santé de plus en plus fortes : jamais l’obésité et le diabète n’ont été aussi répandus. Et jamais les étiquettes n’ont été aussi compliquées à déchiffrer. Pour percer les secrets du secteur agroalimentaire, Maud Gangler et Martin Blanchard sont eux-mêmes devenus… des industriels. Avec l’aide d’un laboratoire alimentaire spécialisé en recherche et développement, ils se lancent dans la production d’un plat populaire : le cordon bleu. Un projet offensif qui leur permet de comprendre de l’intérieur les rouages de l’ultratransformé, où la fabrication d’un produit en apparence simple tient de l’assemblage complexe. Pourquoi, alors que l’escalope panée cuisinée à la maison ne nécessite que cinq ingrédients, en faut-il ici une trentaine ? La viande du cordon bleu mérite-t-elle encore son nom ? Peut-on appeler fromage cette pâte fondante obtenue à grand renfort d’additifs ? L’emballage lui-même est-il nocif pour la santé ?

    Riche et digeste
    En partant d’un produit emblématique comme le mal nommé cordon bleu, puis en élargissant l’enquête, ce documentaire détricote les fils cachés d’un système ultraconcurrentiel. Se jouant des frontières, l’industrie agroalimentaire se révèle diaboliquement novatrice, usant de technologies toujours en avance sur les réglementations et d’astuces marketing rodées, ou s’aidant de puissants lobbies pour servir ses intérêts. Les autorités nationales et européennes s’avouent techniquement débordées et peinent à contrôler les substances toxiques qu’elles ont commencé par autoriser. Pourtant, l’espoir d’un changement qualitatif est impulsé par la société civile : sous la pression des consommateurs et d’applications de notation alimentaire comme Yuka, certains industriels cherchent à mieux faire pour bénéficier d’un « clean label » auquel s’attache le grand public. Réduction du nombre d’ingrédients, abandon d’additifs, choix de protéines végétales : une démarche vertueuse qui tourne parfois au casse-tête, quand elle n’aboutit pas à un effet inverse, avec des plats végans à la qualité sanitaire douteuse. Au menu de cette enquête riche mais remarquablement digeste, experts, nutritionnistes, docteurs en sciences des aliments ou consultants en « transformation positive » éclairent une question devenue cruciale : que mange-t-on aujourd’hui ?

    https://www.arte.tv/fr/videos/091150-000-A/la-grande-malbouffe

    #film #documentaire #film_documentaire

    #alimentation #prix #industrie_agro-alimentaire #industrie_alimentaire #marketing #aliments_ultra-transformés #budget_alimentaire #viande_séparée_mécaniquement (#VSM) #polyphosphates #additifs_alimentaires #effet_cocktail #dioxine_de_titane #nano-particules #E_171 #E171 #cefic #TDMA #EFSA #principe_de_précaution #précaution #MOAH #MOSH #huiles_minérales #substances_réactives #Yuka (application smartphone) #publicité #malnutrition #obésité #surpoids #santé #clean_label #végétarianisme #végétarisme #ingrédientistes #transglutaminose #junk_food #auxiliaires_technologiques #chimie #anti-mousse #packaging

  • Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi A.I.C.S.


    https://sciabacaoruka.asgi.it/wp-content/uploads/2020/07/Profili-critici-delle-attivita%CC%80-delle-ONG-italiane-nei-centr

    Résumé du rapport en anglais :
    https://sciabacaoruka.asgi.it/wp-content/uploads/2020/07/ENG-executive-summary.pdf

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    Commentaire sur le site de Melting Pot :

    Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi #AICS. ASGI presenta il rapporto sugli interventi finanziati dall’#Agenzia_Italiana_per_la_Cooperazione_e_lo_Sviluppo nei centri di detenzione libici

    Tra queste troviamo: #Emergenza_Sorrisi, #Helpcode (già #CCS), #CEFA, #CESVI, #Terre_des_Hommes_Italia, #Fondation_Suisse_de_Deminage, #GVC (già #We_World), #Istituto_di_Cooperazione_Universitaria, #Consorzio_Italiano_Rifugiati (#CIR), #Fondazione_Albero_della_Vita.
    I progetti, alcuni dei quali sono ancora in corso di realizzazione, sono stati finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (AICS).

    L’iniziativa ha suscitato, sin dall’emanazione del primo bando a novembre 2017 molto scalpore nell’opinione pubblica, sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi (“è troppo compromesso per essere aggiustato”, aveva detto il Commissario ONU per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia-Libia del febbraio 2017. I centri di detenzione libici infatti, soprattutto quelli ubicati nei dintorni di Tripoli che sono destinatari della maggior parte degli interventi italiani, sono destinati ad ospitare anche migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, a cui l’Italia ha fornito e tuttora fornisce un decisivo appoggio economico, politico e operativo.

    Il rapporto si interroga quindi sulle conseguenze giuridiche degli interventi attuati, a spese del contribuente italiano, nei centri di detenzione libici.

    Anzitutto, si mette in discussione la logica stessa dell’intervento ideato dall’AICS, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri, che i Bandi mirano in parte a migliorare, dipendano da precise scelte del governo di Tripoli (politiche oltremodo repressive dell’immigrazione clandestina, gestione affidata a milizie, assenza di controlli sugli abusi, ubicazione in strutture fatiscenti, mancata volontà di spesa, ecc.). I Bandi non condizionano l’erogazione delle prestazioni ad alcun impegno da parte del governo libico a rimediare a tali criticità, rendendo così l’intervento italiano inefficace e non sostenibile nel tempo.

    In secondo luogo, il rapporto osserva come nei centri nei pressi di Tripoli le ONG italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico. Inoltre, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri.

    In terzo luogo, alcuni interventi sono volti a mantenere in efficienza infrastrutture anche costrittive, come cancelli e recinzioni, cosicché potrebbe profilarsi un contributo al mantenimento di detenuti nella disponibilità di soggetti notoriamente coinvolti in gravissime violazioni di diritti fondamentali.

    Infine, il rapporto si interroga sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati. L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie indubbiamente ostacolano un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’approssimativa rendicontazione da parte di alcune ONG delle spese sostenute sembra avvalorare il quadro di scarso o nullo controllo su quanto effettivamente attuato dagli implementing partner libici sul campo. Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti.

    Il rapporto conclude osservando che l’intervento italiano è direttamente funzionale alla strategia di contenimento dei flussi irregolari di migranti attraverso meccanismi per la loro intercettazione, trasferimento in Libia, detenzione e successiva rimozione dal territorio libico attraverso rimpatrio nel paese di origine o resettlement in Paesi terzi.

    Il rapporto, pur ponendo alcuni interrogativi cruciali, non fornisce un quadro esaustivo, in quanto l’AICS ha sempre negato l’accesso ad alcuni documenti-chiave, quali i testi dei progetti, necessari a comprendere appieno la situazione.

    https://www.meltingpot.org/Profili-critici-delle-attivita%CC%80-delle-ONG-italiane-nei.html

    #Libye #asile #migrations #centres_de_détention #détention #ONG #ONG_italiennes #rapport #aide_du_développement #développement #coopération_au_développement #financement

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    Ajouté à la métaliste migrations et développement :
    https://seenthis.net/messages/733358

    • La realtà libica raccontata attraverso un rapporto sugli interventi finanziati da fondi AICS nei centri di detenzione

      Il rapporto presentato da ASGI nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka

      Il 15 luglio nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka è stato pubblicato dall’ASGI un interessante rapporto sugli interventi attuati da alcune ONG italiane nei centri di detenzione per stranieri in Libia.

      Il rapporto «Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi A.I.C.S.» [1] rappresenta un’analisi critica sull’operato in Libia dei progetti di alcune ONG finanziate dal nostro Paese. Si tratta di un’analisi che evidenzia soprattutto le grandi contraddizioni che si celano dietro tali interventi, le enormi lacune e soprattutto le pesanti violazioni dei diritti umani da parte del governo di Tripoli.

      Si parla di progetti, alcuni dei quali ancora in corso, finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (AICS). Progetti che non hanno sicuramente migliorato le condizioni dei tanti migranti detenuti presso i centri libici.

      In particolare, il rapporto osserva come “nei centri nei pressi di Tripoli le ONG italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico”, ma purtroppo tale attività non serve a superare le mancanze del governo libico e a migliorare la condizione generale dei soggetti detenuti. Infatti, vi sono delle pre-condizioni che non permettono di cambiare lo stato delle cose neppure con gli interventi che arrivano attraverso questi progetti.

      A tale proposito, è significativo il contesto generale in cui si inseriscono i progetti presi in considerazione dal rapporto pubblicato da ASGI. Non va infatti dimenticato che in Libia la detenzione di cittadini stranieri nei centri è disposta da un’autorità amministrativa (il Ministero dell’Interno) e che tale decisione non è soggetta ad alcun vaglio da parte delle autorità giurisdizionali. La detenzione, poi, è disposta per un tempo indeterminato e si accompagna alla pratica dei lavori forzati.
      Ma non solo.

      Le autorità libiche, con la limitata eccezione di alcune nazionalità, non distinguono tra migranti irregolari e richiedenti asilo bisognosi di protezione internazionale e, in ultimo, non sono previsti meccanismi successivi di controllo sulla legalità della detenzione disposta. Un quadro molto chiaro che si pone in netta violazione dei più elementari principi di tutela dei diritti umani e in aperto contrasto con il diritto internazionale.

      In questo quadro generale, si inseriscono gli interventi finanziati dal Governo italiano con i Bandi che vengono specificamente analizzati nel rapporto in commento. E, la descrizione che ne viene data è, a dir poco, drammatica. Una situazione, quella nei centri libici, “non determinata dalla temporanea impossibilità di un governo in difficoltà nel fornire assistenza volta a salvare le vite delle persone più vulnerabili”.

      Infatti, le condizioni in cui sono detenute migliaia di cittadini stranieri in Libia sembrano essere dovute non da circostanze esterne indipendenti dalla volontà del governo libico ma da sue precise scelte in merito alla:
      – mancata erogazione di servizi di base (cibo, medicine, ecc.), a fronte di una non trascurabile capacità di spesa pubblica;
      – detenzione di un numero di persone eccessivo rispetto agli spazi disponibili;
      – ubicazione in strutture intrinsecamente inadeguate allo scopo;
      – detenzione di persone vulnerabili quali donne e bambini anche in assenza di garanzie ed appositi servizi loro dedicati;
      – detenzione di persone in modo arbitrario (per durata indefinita, senza alcuna procedura legale, controllo giurisdizionale, registrazione formale o possibilità di accesso ad un avvocato);
      – gestione solo nominale da parte del Ministero libico di molti centri, di fatto gestiti da milizie;
      – assenza di meccanismi di prevenzione o controllo sugli abusi commessi in tali centri.

      Nello specifico, il rapporto fa emergere una serie di contraddizioni che sono intrinseche alla situazione politica della Libia e rispetto alle quali gli aiuti economici e logistici approvati con gli accordi tra Libia ed Italia del 2017 nulla possono.

      La ragione di questi accordi allora è da rinvenire esclusivamente nella volontà di limitare l’afflusso di migranti verso il continente europeo, senza alcuna considerazione di quelle che sono le condizioni in cui versano coloro che vengono trattenuti nel paese libico.

      Come più volte sottolineato dai più attenti osservatori, assistiamo ad un fenomeno di “esternalizzazione” delle frontiere europee con l’aggravante che in questi nuovi territori ove si esercita il controllo si ha una vera e propria sospensione del diritto internazionale e continue violazioni dei diritti umani. Non interessa se chi viene trattenuto sia un richiedente asilo o possa essere iscritto ad una categoria protetta. Non vi è distinzione tra uomini, donne e bambini. Sono tutti semplicemente migranti destinati a vivere la stessa drammatica situazione di detenzione arbitraria e indefinita, di violenze e di torture.

      In più, dalla lettura del rapporto, viene in evidenza l’esistenza di un problema a monte che concerne le politiche migratorie europee che sono, purtroppo, finalizzare esclusivamente al contenimento dei flussi migratori. Si tratta di una impostazione del discorso da parte dei Paesi europei che influenza pesantemente le scelte legislative che vengono compiute e gli interventi concreti che vengono fatti. Una errata impostazione delle politiche migratorie che si aggiunge ai tanti problemi concreti presenti in Libia. Non possiamo infatti dimenticare che la Libia è un paese politicamente instabile, caratterizzato da un controllo del territorio da parte di milizie armate che estromettono lo Stato e si sostituiscono a questo. Milizie rispetto alle quali è impossibile intervenire da parte delle ONG che non possono neppure effettuare un controllo sull’utilizzo effettivo che viene fatto dei beni acquistati con il denaro pubblico.

      Stando così le cose, non stupisce lo stato dei centri di detenzione libici. Una situazione di grande precarietà, di sovraffollamento, di carenza di cibo, di carenze strutturali degli edifici utilizzati, di mancanza di attenzione alle donne e ai bambini, di assenza di assistenza sanitaria.

      Nelle conclusioni del Rapporto, i ricercatori che si sono dedicati a questa attenta analisi dei progetti delle ONG italiane in Libia evidenziano quanto già abbiamo avuto modo di dire in precedenza. Tali progetti sono uno dei tasselli di cui si compone il complesso mosaico che riguardo i rapporti bilaterali tra Italia e Libia.

      Una stagione di accordi che prende le mosse dal noto memorandum del mese di febbraio 2017 e che mira soprattutto a limitare l’afflusso di migranti privi di visto di ingresso dal territorio libico a quello italiano.

      Un altro tassello è sicuramente costituito dalle missioni (peraltro rifinanziate dal nostro Parlamento pochi giorni fa) di addestramento e sostegno alla Guardia Costiera libica sempre da parte del nostro Stato.

      Lo scopo di questi accordi è quello di bloccare o riportare in Libia i migranti irregolari, detenerli in questo Paese e, poi, eventualmente smistarli verso altri paese terzi come il Niger o il Ruanda (o rimpatriarli nei paesi di origine).

      Tutto quello che accade durante e dopo non interessa. Non interessano gli strumenti che vengono utilizzati per bloccare le partenze, non interessano i metodi che vengono adoperati dalla Guardia costiera per bloccare i migranti, non interessa lo stato di detenzione a cui sono sottoposti. In vista del contenimento dei flussi migratori tutto è consentito alla Libia.

      https://www.meltingpot.org/La-realta-libica-raccontata-attraverso-un-rapporto-sugli.html