• Réadmission des migrants venant d’Europe : #Soueisssya, ciblée pour un centre de transit ?

    Mine de rien, les autorités mauritaniennes et européennes seraient avancées dans leur projet de « #partenariat_renforcé » dans la lutte contre l’immigration clandestine entre les deux rives. Malgré la levée du ton de l’Opposition, le projet commun est déjà -si l’on en croit des sources autorisées- bien lancé. Le dernier déplacement conjoint de la présidente de la commission européenne, Urusla Van Der Leyen, et du premier Ministre espagnol, Pedro Sanchez, attesterait de l’importance de la question pour les deux parties.
    Les discussions entre les deux parties, entamées de plus plusieurs mois, auraient même déjà identifiée la zone de Soueissiya, 60 km de notre capitale économique, sur la route de Nouakchott, pour élire le futur centre de rétention des immigrés interceptés en haute mer.
    Pour ce faire, un autre accord de statut pour les forces du Frontex devrait permettre aux gardes-frontières européens de patrouiller, avec les garde-côtes mauritaniens, pour intercepter les candidats à l’immigration clandestine.
    Ces derniers qui voient les filets se resserrer sur eux pourraient donc être interceptés et renvoyés vers ce centre de reflux où ils devraient être recueillis dans l’optique de les faire retourner chez eux. En plus de soutien sonnant et trébuchant, l’UE aurait également accéder à des demandes locales pour la construction de tronçons routiers entre Boulenouar, 98km, et Tmeimichatt, 319 km sur la voie ferrée. Le projet de centre en lui-même sera bien équipé et gardé. Rien n’a été donc jusqu’à présent scellé. La date butoir du 7 mars 2024 où séjournera une Haute délégation de l’UE à Nouakchott permettra d’entrevoir plus de transparence, peut-être, dans ce dossier qui fait couler beaucoup d’encre. Il aidera, en tout cas, à estomper les supputations qui vont bon train sur cette délicate question.
    Si officiellement on évoque l’enveloppe de 210 millions d’euros, d’ici la fin de l’année, l’investissement européen, pour convaincre la partie mauritanienne, est estimé à quelques 522 millions d’euros.
    Néanmoins, les autorités mauritaniennes dénient tout accord avec l’UE permettant de recaser sur leur territoire d’immigrés chassés d’Europe. La perspective de renvoi d’immigrés, en majorité africains, serait pour le moins imprudente au moment où la Mauritanie tient les brides de l’UA.

    https://ladepeche.mr/?p=8575
    #externalisation #migrations #asile #réfugiés #Mauritanie #accord #partenariat #Europe #UE #EU #centre_de_transit #centre_de_rétention #rétention #détention_administrative #Frontex

    • La Mauritania diventerà un centro di accoglienza per i migranti espulsi dall’Europa?

      Il 7 marzo è previsto un nuovo incontro congiunto tra l’Ue, la Spagna e lo Stato africano

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      La Mauritania diventerà un centro di accoglienza per i migranti espulsi dall’Europa?

      Il 7 marzo è previsto un nuovo incontro congiunto tra l’Ue, la Spagna e lo Stato africano
      Nagi Cheikh Ahmed
      6 Marzo 2024

      La Mauritania è un paese situato nell’angolo nord-occidentale del continente africano e affacciato sull’oceano Atlantico: questa sua posizione è strategica ed estremamente importante per le persone migranti che cercano di raggiungere il continente europeo e l’arcipelago spagnolo delle Canarie. Negli ultimi anni, infatti, il paese ha registrato un significativo aumento del numero di migranti che lo attraversano nel tentativo di raggiungere le isole spagnole e altri paesi dell’Unione Europea. Le stime indicano che questo aumento potrebbe essere il risultato del rafforzamento delle misure contro le migrazioni nei paesi limitrofi che portano a deviare le rotte verso nuovi percorsi, rendendo la Mauritania un luogo di transito sempre più “attraente” per raggiungere l’Europa.

      È in questo contesto che la Spagna e lo Stato africano stanno avanzando nella costruzione di una forte partnership per combattere l’immigrazione irregolare e rafforzare la sicurezza dei confini attraverso una serie di misure e azioni. Questi sforzi includono la cooperazione nello scambio di informazioni di intelligence, la formazione delle forze di sicurezza e della guardia nazionale, nonché il rafforzamento del controllo delle frontiere e un supporto operativo per lo sviluppo di capacità nell’affrontare tale fenomeno. Secondo i dati spagnoli, l’83% dei migranti che attualmente arrivano alle isole Canarie sono transitati dalla Mauritania.
      I migranti come strumento di pressione e ricatto

      Di fronte alle crescenti tensioni attorno le questioni migratorie, i Paesi europei cercano di trovare “soluzioni” che garantiscano una riduzione del flusso di migranti verso i loro confini. È quella che viene definita la politica di esternalizzazione delle frontiere, ossia una politica di “estensione” dei confini per impedire ai migranti di raggiungere o avvicinarsi al loro territorio, attraverso accordi con diversi Paesi africani considerati punti di transito potenziali per i migranti africani. L’accordo contro l’immigrazione tra la Spagna e la Mauritania è un altro esempio evidente di come i Paesi europei sfruttino le necessità finanziarie dei paesi poveri. Questo accordo che si basa su sforzi congiunti per la lotta all’immigrazione, riflette chiaramente la dinamica tra la necessità di sicurezza europea e la necessità finanziaria dei paesi africani, sollevando controversie sul costo umano che viene pagato in questo processo.

      Nella politica internazionale contemporanea, l’immigrazione emerge come una delle questioni più controverse e complesse, specialmente quando viene utilizzata come strumento di pressione nelle negoziazioni politiche ed economiche. La Turchia, con la sua posizione geografica unica tra l’Europa e il Medio Oriente, ha utilizzato abilmente l’immigrazione nelle sue negoziazioni con l’Unione Europea. L’accordo del 2016 è stato un punto di svolta, in cui l’Unione Europea ha accettato di pagare miliardi di euro ad Ankara in cambio del controllo del flusso di rifugiati verso l’Europa. Questo accordo ha dimostrato come i paesi possano sfruttare le crisi migratorie per rafforzare le loro posizioni economiche e politiche.

      Come la Turchia, anche il Marocco ha sfruttato la sua posizione come principale porta d’accesso all’Europa per ottenere concessioni finanziarie e commerciali dalla Spagna e dall’Unione Europea, e persino posizioni politiche nel suo conflitto con il Fronte Polisario. Controllando i flussi migratori, il Marocco ha rafforzato la sua posizione come partner chiave dell’Unione Europea nella lotta contro l’immigrazione irregolare, migliorando così le sue relazioni economiche e politiche con l’Europa.

      Oltre a Turchia e Marocco, il comportamento di Russia e Bielorussia emerge come un esempio evidente di sfruttamento delle questioni migratorie per il ricatto politico contro l’Unione Europea. Questi due paesi hanno facilitato l’accesso dei migranti ai confini orientali europei, creando una crisi migratoria artificiale mirata a esercitare pressione politica ed economica. La Bielorussia, sotto la guida di Alexander Lukashenko, ha utilizzato l’immigrazione come mezzo per rispondere alle sanzioni europee imposte contro di essa. Facilitando il passaggio dei migranti verso Lituania, Lettonia e Polonia, la Bielorussia ha cercato di creare problemi di sicurezza e umanitari all’Unione Europea, costringendola a rinegoziare i termini delle sanzioni e le relazioni diplomatiche.

      Anche la Mauritania vuole partecipare

      Considerati i numerosi accordi bilaterali sottoscritti negli ultimi anni, anche il governo mauritano cerca opportunità per trarre vantaggio da questa situazione ottenendo guadagni politici e finanziari. Pertanto, l’uso dei migranti come strumento di ricatto riflette una strategia che consente alla Mauritania di richiedere più supporto e assistenza dall’Unione Europea in cambio della sua cooperazione nella lotta contro l’immigrazione irregolare e l’arresto del flusso di migranti. La Mauritania, che trova difficoltà nel controllare i suoi vasti confini, potrebbe tollerare l’ingresso dei migranti nel suo territorio, al fine di accumularne un gran numero per dimostrare la sua necessità di fronte all’Europa e quindi ottenere supporto e assistenza finanziaria, ignorando tutti i rischi che tali politiche potrebbero comportare per un paese già fragile con una infrastruttura carente, trascurando i diritti di migliaia di migranti.

      Il governo nega, ma i documenti confermano

      L’accordo stipulato tra la Mauritania e l’Unione Europea per combattere il fenomeno dell’immigrazione irregolare ha sollevato polemiche a livello locale, considerato come un “accordo” tra le due parti per insediare i migranti sul territorio mauritano in cambio di un pacchetto di aiuti finanziari, cosa che le autorità negano. Alcuni media indipendenti hanno riportato l’intenzione dell’Unione Europea di offrire subito 220 milioni di euro di aiuto alla Mauritania: questa proposta è emersa durante un incontro tenutosi giovedì 8 febbraio nella capitale Nouakchott, tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez e il presidente mauritano Mohamed Ould Ghazouani.

      Il Ministero dell’Interno mauritano ha negato ciò, affermando che la Mauritania “non sarà una patria alternativa per i migranti irregolari“, confermando al contempo di aver avviato negoziazioni preliminari con l’Unione Europea “su una bozza di dichiarazione congiunta relativa all’immigrazione, in linea con la roadmap discussa tra le parti a Bruxelles l’11 dicembre 2023“. Il ministero ha aggiunto in una dichiarazione che “le negoziazioni tra le parti rimarranno aperte, al fine di raggiungere un’intesa comune che serva gli interessi di entrambe le parti in materia di immigrazione legale e lotta contro l’immigrazione irregolare, tenendo conto delle sfide che la Mauritania affronta in questo campo, lontano da ciò che alcuni promuovono riguardo l’ipotesi di insediare i migranti irregolari in Mauritania”.

      Il ministero ha negato con enfasi qualsiasi ipotesi di accordo che punti a rendere la Mauritania un luogo dove insediare, accogliere o ospitare temporaneamente migranti stranieri irregolari, affermando che queste voci sono completamente infondate e che questo argomento non è stato affatto discusso, non è all’ordine del giorno e non è assolutamente contemplato. Il ministero ha dichiarato che gli incontri tra le parti hanno discusso la bozza del documento, allo scopo di “avvicinare i punti di vista riguardo ciò che stabilisce un accordo equilibrato e giusto che garantisca il rispetto della sovranità e degli interessi comuni di entrambe le parti, e sia in linea con le convenzioni e le leggi internazionali in materia di immigrazione“.

      Il ministero ha sottolineato che gli incontri continueranno a esaminare e analizzare i termini del documento, incluso ciò che sarà discusso durante l’incontro previsto tra la Mauritania e l’Unione Europea che si terrà nuovamente a Nouakchott giovedì 7 marzo. Tuttavia, il documento ottenuto dai media, relativo al verbale di discussione tra una delegazione mauritana e l’Unione Europea a Bruxelles il 9 febbraio 2024, mostra nei suoi termini l’accettazione della Mauritania di accogliere i rifugiati e i migranti espulsi dall’Europa, al fine di assisterli nella loro integrazione e “facilitare” la loro vita.

      Il documento non parla chiaramente dell’accoglimento da parte della Mauritania di re-insediare in modo permanente i migranti espulsi dagli Stati dell’Ue sul suo territorio, ma c’è un punto che rivela senza ambiguità la sua disponibilità ad accogliere i migranti espulsi dall’Europa, in assenza totale di qualsiasi meccanismo specifico per il successivo rimpatrio nei loro paesi d’origine.

      Questa estrema ambiguità getta diversi dubbi sulla serietà delle misure adottate, specialmente quando si considerano le enormi difficoltà che anche i paesi europei, con le loro vastissime risorse, incontrano nell’identificare i migranti che spesso sono senza documenti. Sembra che la soluzione europea si limiti a liberarsi del problema, rimpatriando i migranti in Mauritania senza considerare il loro destino successivo, il che significa che alla fine rimarranno in Mauritania a tempo indeterminato.

      Questo approccio ignora deliberatamente le cause profonde dell’immigrazione, come i cambiamenti climatici, i conflitti e le violazioni dei diritti umani, che spingono le persone a rischiare la vita in cerca di una loro sicurezza e di una possibilità di vita dignitosa. Concentrandosi esclusivamente sulla deportazione, l’Unione Europea dimostra una certa indifferenza verso la sofferenza delle persone più vulnerabili, ignorando così gli obblighi internazionali relativi alla protezione dei rifugiati e ai diritti umani, che garantiscono il diritto delle persone a presentare domande di protezione internazionale basate sulle loro storie personali e a dare loro tempo sufficiente per elaborare le richieste di protezione e asilo.

      D’altra parte, la firma di tali accordi con la Mauritania solleva serie domande sulla situazione della sicurezza e dei diritti umani nel paese. La disponibilità ad accettare questi migranti senza misure chiare per proteggerli o rispettare i loro diritti trascura gravemente l’assenza di tutele civili e sociali, a causa del pessimo record della Mauritania in materia di diritti umani.

      «Le relazioni internazionali sul Paese mettono in luce violazioni continue che includono schiavitù, discriminazione, detenzione arbitraria e repressione della libertà di espressione.»

      Ad esempio, lunedì 4 marzo 2024 in Mauritania è iniziato il processo contro due giovani. Una ragazza di 19 anni è stata arrestata lo scorso luglio e la pubblica accusa le ha imputato il “reato di derisione e insulto al Profeta Maometto“, chiedendo la sua incarcerazione. È inoltre accusata di utilizzare i social media per offendere l’Islam, reati per cui il codice penale mauritano prevede la pena di morte. L’altro giovane è un mauritano che aveva abbracciato il cristianesimo da tempo e viveva in Germania, dove aveva chiesto protezione, ma le autorità tedesche non hanno riconosciuto la sua richiesta e lo hanno deportato in Mauritania, dove è stato arrestato immediatamente all’arrivo in aeroporto ed è in carcere da mesi. In questo momento, c’è una grande carenza di informazioni sul loro stato di salute fisico e psicologico. Le autorità stanno facendo pressione per oscurare il processo e non parlare di queste vicende, il tutto si svolge in un’atmosfera cupa. Questi due casi sono anche esemplificativi dei seri dubbi sulla volontà della Mauritania di fornire protezione ai migranti e ai rifugiati rimpatriati.

      Inoltre, l’assenza di legislazione specifica per regolare lo status di rifugiati e migranti in Mauritania complica la possibilità di garantire efficacemente i diritti di queste categorie. Senza un quadro legale chiaro che regoli le procedure di asilo e immigrazione, e garantisca la protezione necessaria, rifugiati e migranti rimangono in una posizione legale precaria, esposti a rischi e senza diritti tangibili.

      Il fatto che l’Europa firmi tali accordi ignorando la realtà in Mauritania costituisce una chiara violazione dei trattati internazionali che proibiscono il trasferimento di migranti in paesi dove potrebbero affrontare il rischio di incarcerazione o discriminazione, e subire trattamenti inumani e degradanti. Questo accordo, per gli esperti del diritto, contraddice esplicitamente perfino gli approcci di sicurezza adottati dall’Europa nel settembre 2015, quando la Commissione Europea ha proposto un progetto per creare una lista comune dei “paesi di origine e transito sicuri“, dove i richiedenti asilo che passano attraverso il paese indicato potrebbero essere rimpatriati. Paesi considerati appunto “sicuri” in quanto le procedure relative alle loro richieste di asilo dovrebbero essere in linea con gli standard del diritto internazionale ed europeo sui rifugiati. Tuttavia, l’Unione Europea non ha incluso la Mauritania in questa lista dei paesi sicuri. Quindi, come può l’Europa firmare tali accordi con un paese che non considera sicuro?
      Verso un nuovo orizzonte

      L’incontro congiunto di giovedì 7 marzo nella capitale Nouakchott deve essere considerato come un momento cruciale che richiede una profonda riflessione e una revisione delle basi e dei principi su cui si fondano tali accordi. Entrambe le parti dovrebbero guardare con occhi critici alle esperienze passate, valutando i risultati e gli impatti reali delle politiche adottate sui diritti umani e sulla dignità dei migranti e dei rifugiati.

      C’è un bisogno urgente di adottare un approccio più inclusivo e umano nel trattare le questioni dell’immigrazione, un approccio che vada oltre le misure di sicurezza e restrittive per includere le dimensioni sociali e umane. Questo approccio dovrebbe concentrarsi sul diritto e sulla libertà dell’individuo di muoversi e migrare, piuttosto che limitarsi alla semplice gestione dei flussi migratori o tutt’al più a deviare i tragitti da un paese all’altro.

      È anche essenziale rafforzare i meccanismi di trasparenza e responsabilità nell’attuazione e nel monitoraggio degli accordi. L’Unione Europea e la Mauritania devono garantire che le politiche sull’immigrazione siano conformi agli obblighi internazionali e rispettino i diritti umani e la dignità di tutte le persone. La cooperazione internazionale in materia di immigrazione non dovrebbe portare a minare questi diritti o ignorare le difficili condizioni umane affrontate da migranti e rifugiati.

      È richiesto inoltre che la Mauritania lavori per migliorare il suo approccio sui diritti umani e rafforzare la protezione per migranti e rifugiati sul suo territorio. Ciò dovrebbe includere la riforma delle leggi e delle pratiche che permettono l’arresto arbitrario e la discriminazione, e fornire meccanismi efficaci per il ricorso e la protezione legale degli individui.

      Dall’altro lato, spetta all’Unione Europea non solo fornire supporto finanziario e tecnico, ma anche lavorare con la Mauritania e altri paesi partner per sviluppare politiche sull’immigrazione giuste ed eque, che rispettino i diritti e la dignità umana di tutte le persone, indipendentemente dal loro status migratorio.

      La sfida che l’Unione Europea e la Mauritania devono affrontare non è solo rinnovare questi accordi, ma reinventarli in modo che realizzino sicurezza e stabilità e, allo stesso tempo, rispettino i diritti umani e promuovano lo sviluppo sostenibile e inclusivo.

      Questo incontro congiunto a Nouakchott dovrebbe essere un’opportunità per presentare una nuova visione della cooperazione in materia di immigrazione, una visione basata sulla responsabilità condivisa, solidarietà e rispetto reciproco. Infine, l’obiettivo dovrebbe essere costruire un futuro in cui le persone possano vivere con dignità e sicurezza nei loro paesi, o scegliere di migrare come un diritto e non come una necessità imposta dalla disperazione.

      https://www.meltingpot.org/2024/03/la-mauritania-diventera-un-centro-di-accoglienza-per-i-migranti-espulsi-

    • Migration : petit à petit, l’UE verrouille des accords fragiles avec les pays tiers

      Ce jeudi, la secrétaire d’Etat de Moor, accompagne la commissaire européenne aux Affaires intérieures à Nouakchott pour signer un mémorandum d’accord migratoire avec la Mauritanie. Après la Turquie, la Libye, et la Tunisie récemment, ces accords se multiplient autant que les critiques qui les entourent.

      Ce dimanche, partis de Mauritanie, six migrants voulant rallier l’Europe ont péri dans leur traversée. 65 autres personnes, également à bord de leur pirogue, sont toujours portées disparues. En 2023, plus de 40.000 personnes ont risqué leur vie dans l’Atlantique – près de 1.000 en sont mortes – en voulant rejoindre l’Espagne via les îles Canaries au départ de l’Afrique de l’Ouest. Une hausse sans précédent (+ 160 % par rapport à 2022) que les autorités locales ont du mal à gérer. C’est dans ce contexte que la commissaire européenne aux Affaires intérieures Ylva Johansson, le ministre de l’Intérieur espagnol Fernando Grande-Marlaska et notre secrétaire d’Etat à l’Asile et la Migration Nicole de Moor se rendent à Nouakchott ce jeudi afin de signer un mémorandum d’accord avec la Mauritanie.

      Ce protocole d’accord s’inscrit dans la lignée de celui, polémique, conclu en juillet dernier avec la Tunisie. Avec ces « partenariats stratégiques mutuellement bénéficiaires », la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen entend « combattre la migration irrégulière à la racine et travailler mieux avec des pays partenaires », c’est-à-dire ceux où les migrants embarquent ou prennent la route pour l’UE. L’idée est que les pays de départ ou de transit bloquent l’arrivée de migrants vers les côtes européennes et réadmettent leurs citoyens en séjour illégal dans l’UE en échange d’investissements ou de coups de pouce économiques. Contacté, il est question, pour l’exécutif européen, de passer d’autres « partenariats sur mesure » similaires avec l’Egypte, prochainement. Voire avec le Maroc ? Bref, petit à petit, la Commission complète sa carte du pourtour méditerranéen.

      Stratégie électoraliste

      « Ce type d’accord n’est pas nouveau », avance Eleonora Frasca, chercheuse doctorante sur la coopération entre l’UE et les pays africains en matière d’immigration (UCLouvain). « Il y a notamment celui passé avec la Libye ou encore avec la Turquie. Mais le deal passé avec Ankara, aussi critiqué soit-il, avait le mérite de prévoir des fonds pour l’accueil et l’accompagnement des exilés sur le sol turc. Ce qui a disparu des accords qui ont suivi et qui se concentrent sur les aspects sécuritaires. »

      Certes, la coopération migratoire n’est pas neuve. Ce qui l’est davantage, c’est la stratégie de communication de l’UE autour de ce type de deal, pointe Eleonora Frasca : « On déplace des membres de la Commission pour en faire un événement majeur. » Florian Trauner, doyen de la Brussels School of Governance (VUB) et spécialiste de la politique migratoire de l’UE, y lit une stratégie électoraliste. « Ces accords symbolisent une politique migratoire plus restrictive. En année électorale, les dirigeants européens envoient un signal à la population : “Regardez, on empêche les migrants d’arriver en Europe.” » Pour lui, cela montre aussi que les Etats membres s’accordent plus facilement sur une politique d’externalisation des frontières plutôt que sur une réponse solidaire. « La négociation du nouveau pacte sur la migration et l’asile l’illustre très bien. »

      Ces annonces et ces signatures en grande pompe contrastent avec l’opacité des négociations. « Les pourparlers avec la Tunisie hier, la Mauritanie aujourd’hui et l’Egypte demain en sont les parfaits exemples. Il est très difficile, voire impossible, de suivre les discussions. On assiste à un processus “d’informalisation ou de déformalisation” du droit international auquel l’UE contribue de manière significative, ainsi qu’à la multiplication d’instruments de droit non contraignant », regrette la chercheuse de l’UCLouvain. Pour son collègue de la VUB, ces accords informels sont par définition plus flexibles, moins contraignants juridiquement et politiquement. « Ce qui arrange les deux parties. Ils permettent, pour les pays tiers, de mettre hors du débat public ces arrangements souvent contestés par la population locale. »

      Le « chantage » aux migrants

      Et puis ces accords reposent sur le bon vouloir des régimes en place. En témoignent les soubresauts dans l’application de l’accord tunisien, décrié puis accepté… par le même président qui l’avait signé. « L’exemple récent du Niger est criant », ajoute Eleonora Frasca. « Depuis le coup d’Etat de juillet dernier et l’abrogation d’une loi réprimant le trafic illicite de migrants, l’UE est très préoccupée. »

      Florian Trauner soulève un autre « danger » : le « chantage » aux migrants. « Sachant l’Europe divisée, sensible et fragile quand il s’agit d’immigration, les pays tiers en jouent pour négocier, notamment de l’argent. Ce n’est pas pour rien qu’autant de migrants sont arrivés à Lampedusa depuis la Tunisie cet été… » Et le doyen de la Brussels School of Governance de citer les pressions d’Erdogan en 2020 afin que l’Europe appuie ses initiatives en Syrie ou encore le jeu du Maroc avec l’Espagne sur la question du Sahara occidental. Par ailleurs, pointent nos deux experts, ces accords sont passés avec des pays loin d’être des exemples en termes de respect des droits fondamentaux. L’exemple tunisien est encore une fois parlant : la situation déplorable des migrants en Tunisie ne s’est pas améliorée depuis la signature, dénoncent les ONG.

      Mais ces arrangements sont-ils « efficaces » ? S’il est impossible de chiffrer le nombre d’entrées évitées grâce aux accords, Florian Trauner les a étudiés sur dix ans, entre 2008 et 2018. « Hormis l’accord passé avec la Turquie qui a montré des résultats dans la prise en charge par Ankara des réfugiés syriens, ces accords ont un bilan modeste. Les pays des Balkans jouent le jeu, mais les pays africains peu ou pas du tout », constate-t-il. « A court terme, ces arrangements peuvent paraître efficaces parce qu’ils font écho à une réduction des entrées irrégulières », explique Eleonora Frasca. « On a dans un premier temps diminué les flux au départ de la Libye, ils se sont alors dirigés vers la Tunisie. Raison pour laquelle on a passé un accord avec Tunis, dont on voit timidement les résultats… Mais les migrations s’adaptent et se réorganisent. Ça ne sert à rien de passer des accords avec tous les pays africains, cela rend juste les routes de plus en plus dangereuses. »

      https://www.lesoir.be/572896/article/2024-03-06/migration-petit-petit-lue-verrouille-des-accords-fragiles-avec-les-pays-tiers

    • La Mauritanie, nouvelle voie d’entrée de migrants vers l’Union européenne... qui réagit

      L’Union européenne a initié jeudi un nouveau partenariat en matière de migration avec la Mauritanie, État d’Afrique du Nord-Ouest par où transitent des migrants vers les îles Canaries (Espagne). La route des îles Canaries, passant par une dangereuse traversée dans l’Atlantique, est davantage fréquentée ces derniers temps. Plus de 12.000 personnes l’ont empruntée sur les deux premiers mois de cette année, soit plus de six fois plus que sur la même période l’an dernier.

      Ce partenariat doit ouvrir la voie à un financement européen afin de soutenir la gestion des migrations - notamment la lutte contre le trafic de migrants -, ainsi que la sécurité et la stabilité, l’aide humanitaire en faveur des réfugiés et le soutien aux communautés d’accueil.

      Une déclaration en ce sens a été signée à Nouakchott par la commissaire aux Affaires intérieures, Ylva Johansson, et le ministre mauritanien de l’Intérieur, Mohamed Ahmed Ould Mohamed Lemine, en présence de son homologue espagnol, Fernando Grande-Marlaska, et de la secrétaire d’État belge à l’Asile et à la Migration, Nicole de Moor, au nom de la présidence belge du Conseil. « Nous avons besoin de partenariats avec ces pays d’Afrique du Nord pour prévenir les départs irréguliers et les pertes de vies humaines. Une gestion efficace des migrations constitue un défi européen nécessitant une réponse collective », a déclaré Mme de Moor.

      Le partenariat vise entre autres à renforcer les capacités des garde-frontières mauritaniens, en accroissant la coopération avec Frontex, l’agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, pour ce qui est de la formation et des équipements. La coopération sur les opérations de recherche et de sauvetage sera aussi intensifiée. L’UE veut également appuyer les efforts de la Mauritanie dans ses capacités d’accueil, en particulier des plus vulnérables. Dans le pays résident quelque 150.000 réfugiés du Mali. Des enquêtes conjointes doivent aussi aider à prévenir la migration irrégulière.

      La coopération sera renforcée en matière de retour et de réadmission en ce qui concerne les Mauritaniens en séjour irrégulier dans l’UE, « dans le respect de leurs droits et de leur dignité », assure la Commission dans un communiqué. Comme c’est le cas pour d’autres accords en gestation, ou pour l’accord controversé avec la Tunisie, l’UE vise un partenariat large. Il visera donc aussi la création de perspectives d’emploi (accès à la formation professionnelle et au financement pour les entreprises), mais aussi la promotion de la migration légale (mobilité des étudiants, chercheurs et entrepreneurs). Le mois dernier, la présidente de la Commission Ursula von der Leyen avait annoncé, lors d’un déplacement en Mauritanie, la mobilisation de 210 millions d’euros en faveur de ce pays.

      L’UE cherche encore à nouer un autre partenariat stratégique de ce type avec l’Égypte, qui est non seulement un pays de transit, mais aussi de départ et de destination. « Des Égyptiens quittent leur pays, qui est le cinquième pays d’entrée dans l’UE, tandis que de nombreuses autres personnes fuient vers l’Égypte. Un partenariat solide est plus que nécessaire pour ne pas les laisser seuls dans cette tâche difficile », selon Mme de Moor.

      https://www.rtbf.be/article/la-mauritanie-nouvelle-voie-d-entree-de-migrants-vers-l-union-europeenne-qui-re

  • AYER NO, HOY SI, ¿Y MAÑANA? Exploring further the issues of legal uncertainty, opacity, and alterations in the entry criteria for the #CETI in Melilla

    Exploring recent changes in access to the CETI in Melilla, this article addresses legal insecurity, lack of transparency and changes in admission criteria. From the context of Melilla to the experiences of Latin American migrants, it reveals the shortcomings of the system and the ongoing struggle for rights.

    https://en.solidarywheels.org/informes
    https://en.solidarywheels.org/_files/ugd/0a7d28_f46a4434524342228757205389c8ed22.pdf

    #rapport #Melilla #Espagne #Maroc #frontières #migrations #réfugiés #Solidarity_Wheels #centre_d'accueil #hébergement #accueil #centre_temporaire #violence #violence_systématique #violences_policières

  • En Israël, la colère gronde sous l’unité nationale | Libé | 21.01.24

    (...) la contestation enfle dans le pays. Alors que l’opposition se prépare, de plus en plus d’Israéliens réclament des élections, avec l’espoir de déloger Benyamin Nétanyahou.

    https://www.liberation.fr/international/moyen-orient/en-israel-la-gronde-couve-sous-lunite-nationale-20240121_IYVE4HZLXBGRRIKE

    C’était un rare moment de télévision, impensable il y a encore quelques semaines. Jeudi soir, dans l’émission d’enquête de grande écoute Uvda, sur la chaîne la plus populaire du pays, un membre du cabinet de guerre israélien a ouvertement critiqué la politique de Benyamin Nétanyahou.

    « Ce qu’il se passe à Gaza aujourd’hui, c’est que les buts de guerre n’ont pas été accomplis », a dit l’ancien général Gadi Eisenkot, membre du parti centriste de Benny Gantz, Unité nationale. « Ceux qui parlent d’une défaite totale [du Hamas] ne disent pas la vérité », a ajouté l’ancien général, court et corpulent, assis au milieu d’une bibliothèque, habillé tout de noir. « Est-ce que les décideurs sont honnêtes avec le public ? » demande la journaliste. « Non », répond simplement Eisenkot.

    Ses commentaires lui ont valu quelques critiques, mais Gadi Eisenkot est intouchable : en décembre, il a perdu son fils et son neveu à Gaza. Ancien chef d’Etat-major, et membre du cabinet de guerre, il est plus que quiconque à même de comprendre la réalité et les implications des actions militaires israéliennes. Et quand il laisse flotter que des élections sont nécessaires « dans les mois qui viennent », c’est un message clair : l’opposition n’attendra pas la fin d’une guerre qui sera longue, comme l’a encore promis Benyamin Nétanyahou jeudi soir, pour forcer le pays à aller aux urnes.

    Le Premier ministre semble cerné. Les familles d’otages ont amené, pour la première fois, la contestation devant sa villa balnéaire de Césarée, dans le nord d’Israël, vendredi. Samedi, des milliers d’Israéliens se sont rassemblés à Tel-Aviv pour exiger son départ. Les critiques fusent sur le nouveau budget du gouvernement et son manque d’allocations aux déplacés et au social. Cette contestation enfle, de semaine en semaine, rappelant désormais les mois d’avant le 7 octobre.

    « Reconstruire l’espace démocratique »

    Sur l’autoroute Ayalon, le grand boulevard qui contourne Tel-Aviv par l’est, de nouveaux panneaux publicitaires crient « Nous avons besoin d’élections » en blanc sur fond bleu. Tous les jours, près d’un million de véhicules passent devant ce message. La campagne, très coûteuse, est anonyme. Derrière, il y aurait « des vétérans des manifestations contre la réforme judiciaire et quelques personnes de la tech » souffle un membre du QG de la Lutte, l’organisation fédératrice des différentes associations de contestation de ces derniers mois. Toutes sont en train de prendre le pouls, comprendre quel serait le bon moment pour quitter les eaux calmes de l’unité nationale et se lancer dans la tempête électorale.

    « Cela ne sert à rien tant que Benny Gantz est encore au gouvernement », explique Ronen Koehler, le regard doux et intelligent. Cet ancien capitaine sous-marinier reconverti dans la tech fait partie du leadership de Frères d’armes. De toute la Lutte, cette association de réservistes est de loin la plus institutionnalisée. Depuis les bureaux vitrés, un espace de coworking reconverti à Herzliya, la Silicon Valley israélienne, l’œil se perd dans l’horizon méditerranéen. L’étendue des activités de l’association est impressionnante : son mode opératoire volontaire et souple, ses poches profondes, l’expertise variée de ses 400 bénévoles et leurs carnets d’adresses bien fournis en a fait l’acteur incontournable de la mobilisation civile qui a suivi la déclaration de guerre le 7 octobre.

    Aujourd’hui, dans ces bureaux, des couturières hipster cousent des pochettes en textile sur mesure pour les soldats d’unités d’élite, d’anciens officiers forment des équipes d’urgence pour les villages proches des frontières, des psychologues aident les déplacés des frontières sud et nord. Mais on parle aussi du jour d’après. « Ce que nous voulons, c’est reconstruire l’espace démocratique en encourageant nos membres à rejoindre la vie civique, de comprendre que c’est important de travailler dans le service public, même si on y gagne moins d’argent, explique Ronen Koehler. Il faut que nos valeurs laïques, libérales, reviennent sur le devant de la scène. Que nous nous battions pour le cœur des Israéliens. » C’est un projet ambitieux, en miroir presque parfait de ce qu’a fait l’extrême droite colonisatrice israélienne ces quinze dernières années. Aujourd’hui, cette dernière, bien qu’elle ne représente « que 5 % de la population » insiste Ronen Koehler, détermine la teneur du débat politique. Et cela est aussi vrai en temps de guerre.

    Rhétorique guerrière

    Nétanyahou et ses partenaires sont en campagne depuis au moins la mi-décembre, et l’opposition a pris une longueur de retard, et qui continue de s’allonger. Certes, la colère est grande contre le Premier ministre et les sondages le donnent perdant à tous les coups. Mais au-delà de sa rhétorique guerrière et de ses sorties messianiques, il est le seul à proposer un projet simple et cohérent pour ce jour d’après : il n’y aura pas de retour au monde d’avant le 7 octobre. Et donc, pas de concessions faites aux Palestiniens, qui meurent encore et encore à Gaza.

    C’est ce qu’il a déclaré avec emphase pendant une conférence de presse jeudi soir : « Israël gardera le contrôle sécuritaire de tout le territoire à l’ouest du Jourdain. » Ce qui a rendu furieux Joe Biden, qui voudrait au moins construire une paix durable sur les ruines de Gaza, détruite avec les dollars américains. Benyamin Nétanyahou lui aurait cependant assuré au téléphone vendredi que ses propos ne fermaient pas la porte à un Etat palestinien. Le chef du Likoud a toujours excellé à ce numéro d’équilibriste entre la pression américaine et celle de son public israélien.

    Si des élections devaient se tenir aujourd’hui, c’est sans doute Benny Gantz qui deviendrait Premier ministre, à la tête d’un gouvernement de centre droit guerrier, sans projet politique clair. L’opposition israélienne semble encore croire que se débarrasser de Nétanyahou changera tout, que c’est la clé d’un nouveau départ. Mais cela revient à ne pas voir la soif de réponses constructives à leurs problèmes communs des sociétés israélienne et palestinienne, traumatisées. Ce manque d’un projet politique ambitieux ne leur permettra pas de couper l’herbe sous les pieds de l’extrême droite.

  • Enfermées dans un contrat engagement jeune (via Yann Gaudin) 
    https://twitter.com/yanngaudin/status/1728337305717387373

    Un autre témoignage sur une autre situation avec #Pôle_emploi :

    « Je suis maman de 2 jumelles de 22 ans qui ont été en décrochage scolaire et qui n’ont donc pas de diplômes.

    Depuis l’âge de 18 ans elles vivotent de petites missions d’#intérim essentiellement dans la #grande_distribution ou en #usine. Lassées de ne pouvoir prétendre à mieux, je les ai encouragées à suivre une #formation. Je travaille dans la fonction publique d’état, au service d’impôts des entreprises et suis en contact avec des comptables qui toute la journée se plaignent de ne pas avoir suffisamment de personnel. Je propose donc à mes filles de voir si ce métier pourrait leur correspondre. Elles se lancent dans des recherches sur le métier et ce qu’il pourrait leur offrir ainsi que les nombreux débouchés.

    C’est donc gonflées à bloc qu’elles se tournent vers Pôle emploi après avoir trouvé une formation d’#assistante_comptable ET plusieurs cabinets qui sont prêts à les prendre en #stage avec la possibilité d’un #emploi par la suite. Elles ont trouvé également le #centre_de_formation qui les prennent après avoir passé un #entretien. Reste plus qu’à obtenir une prescription de Pôle emploi pour finaliser le tout.

    Sauf que lors de leur premier entretien, chacune des conseillères qui les ont reçues individuellement les ont orientées vers un contrat engagement jeune (#CEJ). Elles ont dû suivre des formations d’une journée totalement farfelues : stage de cuisine, de judo, atelier pour apprendre à écrire (chose qu’elles savent parfaitement faire) et j’en passe. Le CEJ impose de nombreux ateliers notamment faire son #CV, sa #lettre_de_motivation, l’apprentissage des outils bureautiques, ateliers qu’elles avaient déjà suivis auparavant dans un autre dispositif à la Mission locale. Elles ont une espèce de #livret qui valide tous ces ateliers. L’une des deux conseillères, plus virulente que l’autre, a commencé à menacer mes deux filles de #radiation si elles ne faisaient pas d’efforts. Mes filles ont commencé leurs démarches en décembre 2022, la formation débutait en avril 2023. Durant ces quelques mois, tout a été prétexte pour ne pas fournir cette prescription et les forcer à suivre les ateliers qui au final permettaient j’imagine à leurs conseillères d’obtenir des primes. [et/ou simplement de remplir leur quota, ndc]

    Et devinez quoi ? Nous sommes en novembre 2023 et elles n’ont pas eu la prescription. Elles sont #captives de leur contrat engagement jeune et totalement abattues moralement. Une des deux est retournée vers l’intérim, l’autre cherche désespérément n’importe quel emploi pour fuir ce contrat. A chacun des entretiens qu’elles ont pu avoir avec leur conseillère, elles se sont vues infantilisées, dévalorisées et culpabilisées. Elles voulaient simplement obtenir une formation qualifiante pour prétendre à des emplois moins précaires dans un secteur qui offre de larges possibilités. Aujourd’hui, elles économisent l’argent qu’elles gagnent en intérim pour se payer ladite formation et ne plus dépendre de Pôle emploi. »

    edit : une réunion de demandeurs de salaire dans une agence Policemploi : menacer pour être obéi
    https://seenthis.net/messages/1028421

    #prescription

  • Dans les #lagons polynésiens, les #déchets invisibles du temps du nucléaire

    En trente ans de présence sur le territoire polynésien puis à la suite de son démantèlement, le #Centre_d’expérimentation_du_Pacifique a produit de très nombreux déchets. Si certains ont été enterrés, d’autres ont été jetés dans le lagon. Les #risques que représentent ces déchets contaminés restent difficile à établir.

    Combien de tonnes de déchets gisent au fond des lagons polynésiens ? Difficile à dire. Il existe bien des #chiffres de l’Agence nationale pour la gestion des déchets radioactifs (Andra) : « 3 200 tonnes de déchets radioactifs ont ainsi été immergées dans les eaux territoriales françaises en Polynésie. » Mais prennent-ils réellement en compte l’ensemble des déchets jetés dans l’océan à l’époque des #essais_nucléaires ? Rien n’est moins sûr. Une partie de ces déchets n’ont sans doute pas été comptabilisés car ils n’ont simplement pas été inventoriés.

    Entre 1966 et 1996, 193 essais nucléaires ont été menés en #Polynésie, sur les #atolls de #Moruroa et #Fangataufa, dans l’#archipel_des_Tuamotu. Ces tirs aériens dans un premier temps, puis souterrains à partir de 1975, ont généré une très grande quantité de déchets plus ou moins radioactifs, c’est-à-dire qui ont la particularité d’émettre des rayonnements pouvant présenter un risque pour l’homme et l’environnement. Ces déchets sont très hétérogènes, ce sont à la fois les avions qui récupéraient les #poussières_radioactives dans les nuages, des moteurs d’engins, des matières plastiques, des tenues et des chaussures, des déchets inertes (gravats, terre…).

    Jeter dans le #lagon : une solution rapide et peu coûteuse

    L’immersion des déchets, soit le dépôt sur les #fonds_marins, est, à l’époque, une pratique commune. On parle « d’#océanisation » des déchets. En Polynésie, ces derniers sont ainsi stockés sur plusieurs sites entre les atolls d’#Hao et Moruroa, à partir de 1967. Une fosse de 2 500 mètres de profondeur est d’abord creusée à 8 km de Hao. Selon les chiffres de l’Andra, 310 tonnes de déchets radioactifs conditionnés en fûts de béton et 222 tonnes de #déchets_radioactifs en vrac ont été immergées sur le site nommé #Hôtel. Deux sites (#November et #Oscar) sont utilisés à Moruroa, pour procéder à des immersions de plusieurs tonnes déchets à partir d’hélicoptères et de bateaux.

    Mais pourquoi avoir pollué les eaux polynésiennes ? Selon l’Andra, « l’#évacuation en mer a été un moyen de gestion de tout type de déchets. Les déchets radioactifs n’ont pas fait exception à cette règle. Cette solution était considérée à l’époque comme sûre par la communauté scientifique car la dilution et la durée présumée d’isolement apportées par le milieu marin étaient suffisantes ».

    En l’absence de filière de gestion, l’océanisation apparaît comme la seule solution. L’éloignement des sites explique aussi ce choix, selon Jean-Marie Collin, directeur de la Campagne ICAN en France (Campagne Internationale pour Abolir les Armes Nucléaires) : « Ramener les déchets jusque dans l’Hexagone était une solution plus coûteuse et plus complexe. Creuser un trou dans le désert en Algérie ou jeter par-dessus bord en Polynésie étaient une alternative bien plus simple », regrette-t-il.

    Dans le livre Des bombes en Polynésie, l’historien Renaud Meltz détaille la pratique : « Les militaires tiennent l’inventaire à la Prévert, mois après mois, des quelques tonnes de petits matériels (900 paires de gants, 272 kg ; 883 combinaisons, 618 kg, 200 paires de pataugas 200 kg, etc.) et des milliers de tonnes de gros matériel sont livrés à l’océan. »

    En 1972, la Convention de Londres sur la prévention de la pollution des mers interdit l’immersion de déchets fortement radioactifs. Elle entre en vigueur en août 1975. Mais les Français font fie des réglementations internationales. Alors que l’immersion au large des côtes métropolitaines s’arrête en 1969, elle continue en Polynésie jusqu’en 1986.

    Des conditionnements sommaires

    Mais si ces déchets posent problème c’est aussi parce que leur #conditionnement a souvent été négligé. Pourtant, une procédure impose que « tous les déchets radioactifs doivent être déposés dans des sacs en vinyles soudés ou fermés hermétiquement par bandes adhésives. Ces sacs sont ensuite placés dans des fûts ou autres récipients lestés (ciment ferrailles). »

    En théorie, les déchets doivent donc être conditionnés selon leur #radioactivité. Dans les faits, tous ne le sont pas. « Seuls ceux dont la taille permet d’être entreposé dans des fûts profitent d’un conditionnement, les autres restent en vrac. Aussi, une partie des résidus, produits au fond des puits ou les bombes détonnaient n’ont jamais été remontés », écrit le chercheur spécialiste du nucléaire Teva Meyer dans l’ouvrage Des bombes en Polynésie.

    En 1970, huit fûts provenant des laboratoires de Mahina sont immergés sans conditionnement, après avoir été percés pour éviter l’éclatement. À partir de mars 1975, cinq avions Vautour utilisées pour traverser les nuages des explosions pour récupérer les poussières radioactives, sont coulés.

    En 1982, le rapport de la #mission_Haroun_Tazieff pointe les problèmes liés aux déchets dans le lagon, entraînés par la tempête en mars 1981. En 1988, la #mission_Calypso, dirigé par le commandant Cousteau, indique que Moruroa n’est pas un bon site de #stockage de déchets radioactifs. Ils considèrent qu’« il n’y a aucune raison de croire que si certains critères de confinement semblent nécessaires au stockage des déchets des centrales nucléaires civiles, ils ne soient plus nécessaires pour stocker les déchets des essais nucléaires militaires. » Trop tard, les immersions ont été faites, trop souvent sans protection.

    Quels #risques pour la population ?

    Aujourd’hui, les déchets datant de l’époque du nucléaire n’ont pas disparu des eaux polynésiennes. Représentent-ils un risque pour les populations ? Selon l’Andra, ces 3 200 tonnes de déchets radioactifs immergés représentent une activité totale inférieure à 0,1 TBq (térabecquerel).

    Le département de suivi des centres d’expérimentations nucléaires (DSCEN) en lien avec le Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives (CEA) effectue une surveillance radiologique de Moruroa et Fangataufa depuis 1998. « Les #radionucléides d’origine artificielle mesurés dans les échantillons sont présents à des niveaux très faibles et souvent inférieurs ou voisins de la limite de détection des appareils de mesure de la radioactivité. Les concentrations mesurées dans le milieu terrestre et les sédiments marins gardent la trace des essais atmosphériques effectués sur les atolls de Moruroa et Fangataufa. Les niveaux d’activité dans ces compartiments restent stables, voire en légère diminution », note le rapport de 2021 du Ministère des Armées.

    « Mais qu’est-ce qu’un faible taux ? », s’interroge Patrice Bouveret, directeur de l’Observatoire des armements. « Un taux est acceptable lorsqu’il est socialement accepté par la population ? Toute radioactivité a un impact sanitaire sur l’humain, le végétal, l’animal, sur la vie en général ».

    Selon Patrick Bouisset, directeur du laboratoire d’étude et de suivi de l’environnement à l’IRSN (Institut de radioprotection de sûreté nucléaire), les déchets immergés ne représentent pas de risque particulier puisque la radioactivité s’est « diluée dans l’océan ». Quant aux déchets contenus dans des fûts, même « s’ils vont fuir avec le temps car rien n’est hermétique à l’échelle de quelques siècles », ces pollutions ne seront « pas visibles » considère ce physicien, chargé d’évaluer l’exposition radiologique en Polynésie hors des sites de Moruroa et Fangataufa.

    L’#imperméabilité des conditionnements inquiète aussi Bruno Chareyron, ingénieur et directeur du laboratoire de la CRIIRAD (Commission de recherche et d’information indépendantes sur la radioactivité) : « Il est difficile d’anticiper les conséquences de l’immersion des déchets. Ce qui est certain, c’est qu’on aurait dû les conditionner sur des sites capables de garantir le confinement pendant des dizaines et des milliers d’années. Balancer des déchets en mer, sans emballage particulier, comme pour les avions Vautour, ou même en considérant une enveloppe en vinyle, c’est dérisoire pour des éléments à très longue période physique. »

    Une étude indépendante pour confirmer l’absence de danger

    « Le problème c’est qu’on ne connaît pas la quantité exacte de déchets immergés », pointe Jean-Marie Collin qui regrette que les études concernant la radioactivité soient menées par « des instituts qui appartiennent à l’État ». « D’après les études réalisées, il semblerait qu’il n’y a pas de danger concernant ces déchets immergés. Je suppose donc qu’il n’y a pas de danger. Mais il serait intéressant que des études indépendantes soient menées pour corroborer les études existantes et ainsi assurer la sécurité et rétablir la confiance des Polynésiens ».

    Les impacts sanitaires et environnementaux découlant des déchets immergés sont ainsi difficiles à établir. Reste que, Moruroa et Fangataufa demeurent des atolls contaminés, où le plutonium subsiste dans les sols comme en surface. Hao, longtemps considéré comme« la poubelle du CEP » subit aussi d’importantes pollutions aux hydrocarbures.

    Durant plus de trente ans, si une partie des déchets ont été océaniser, les autres ont été enterrés ou abandonnés. Radioactifs ou pas, ces déchets portent « la charge symbolique des essais », estime Teva Meyer. « Ils demeurent souillés, voire ‘nucléaires’ pour certains, qui demandent qu’ils soient traités comme tels ».

    https://outremers360.com/bassin-pacifique-appli/dossier-dans-les-lagons-polynesiens-les-dechets-invisibles-du-temps-du
    #pollution #santé #contamination #France

  • "On fait ce que devrait faire l’État" : dans la #Roya, #Cédric_Herrou ouvre un #centre_d'hébergement_d'urgence pour migrants

    Cédric Herrou va ouvrir prochainement un centre d’hébergement d’urgence d’une trentaine de places chez lui, dans la vallée de la Roya. Le fondateur de la communauté #Emmaüs_Roya explique sa décision par l’absence de structures prévue pour les migrants de passage dans cette région française frontalière de l’Italie.

    Cédric Herrou se souvient du soir où il a entendu aux informations les premières réactions politiques à la suite des arrivées de migrants sur l’île italienne de Lampedusa, dans la semaine du 11 septembre. « J’étais tout seul, ma compagne était sortie et je me suis dit qu’il fallait faire quelque chose », se souvient-il.

    Dans sa maison perchée dans les hauteurs de #Breil-Sur-Roya, à la frontière franco-italienne, le militant se doute de l’arrivée prochaine de ces milliers d’exilés vers chez lui. Souvent, les migrants qui arrivent à Lampedusa, et qui sont transférés sur le continent, continuent leur chemin en remontant l’Italie pour aller vers la France et l’Allemagne notamment. Certains passent par Vintimille pour rejoindre Menton, d’autres traversent plus au nord les Alpes et atterrissent dans la région de la Roya, où vit Cédric Herrou.

    L’agriculteur décide cette semaine-là d’ouvrir de nouveau sa porte aux migrants. « On va reprendre comme on faisait en 2016/2017 », explique-t-il. À l’époque, les arrivées de migrants en Europe étaient bien plus importantes qu’aujourd’hui. De l’autre côté de la frontière italienne, tous les migrants ou presque ont entendu parler de ce Français qui accueille les exilés épuisés par la route. À Breil-Sur-Roya, la maison ne désemplissait pas.

    Son futur centre d’hébergement d’urgence sera « structuré par Emmaüs Roya » (l’association qu’il a créée) et les personnes seront logées dans les cabanes en bois déjà présentes sur la propriété, détaille Cédric Herrou. Une trentaine de personnes pourront être accueillies en tout dans les semaines à venir.

    "On ne prend aucun plaisir à mettre des tentes dans nos jardins mais il y a une nécessité de le faire, affirme-t-il. « Il y a une prise de conscience. Le discours politique actuel inquiète. En fait, beaucoup de gens se mobilisent grâce au discours de Gérald Darmanin », ajoute le militant.

    « On va agir à la place de l’État »

    La semaine dernière, le ministre français de l’Intérieur a martelé qu’en aucun cas un camp de migrants ne serait créé à Menton, à la frontière italienne. « Il y a 500 policiers et gendarmes à la frontière italienne. On a décidé de renforcer la frontière. Il y a 200 effectifs supplémentaires, pour leur permettre de travailler, de faire les contrôles et de renvoyer » les migrants, avait-il annoncé sur TF1.

    Pour Cédric Herrou, au contraire, il y a urgence à ouvrir un lieu d’accueil sur cette route migratoire. « Il n’y a pas de centre d’urgence dans la vallée. Il n’y a que des habitants et des associations. Donc on va agir à la place de l’État », affirme le militant. Celui qui a réussi à faire consacrer par le Conseil constitutionnel le principe de fraternité dans l’aide aux migrants en 2018 assure que les habitants de la vallée sont très nombreux à « mal vivre » les refoulements à la frontière et le non-accueil des exilés.

    « Ce que l’on voit dans la vallée de la Roya, ce sont beaucoup de migrants à la rue et des habitants qui veulent les aider. Ca dépasse les clivages politiques qu’on entend à la télévision », indique -t-il.
    Nombreux soutiens

    Pour le moment, Cédric Herrou dit bénéficier de l’aide de la Fondation Emmaüs pour lancer le projet. D’autres associations devraient également apporter une aide matérielle. « On a la chance d’avoir pas mal de gens qui nous soutiennent financièrement. Mais, si besoin, on fera des appels aux dons matériels », ajoute le militant.

    Près de 10 000 exilés sont arrivés sur l’île de Lampedusa en quelques jours autour du 15 septembre. L’événement a été largement récupéré par l’extrême droite et a relancé le débat sur la répartition de l’accueil des migrants en Europe. Gérald Darmanin a indiqué que les personnes arrivées sur l’île italienne ne seraient pas accueillies en France, sauf si elles sont éligibles à l’asile.

    « En revanche, nous avons dit à nos amis italiens que nous étions prêts à les aider pour reconduire des personnes dans les pays avec qui nous avons de bonnes relations diplomatiques », a déclaré le ministre de l’intérieur, citant la Côte d’Ivoire et le Sénégal.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/52118/on-fait-ce-que-devrait-faire-letat--dans-la-roya-cedric-herrou-ouvre-u
    #vallée_de_la_Roya #accueil #hébergement #migrations #asile #réfugiés #France #frontière_sud-alpine

  • Ventimiglia: migranti in ostaggio tra confini militarizzati e nuovi cpr

    La Francia si blinda e Ventimiglia rischia di essere al centro di un nuovo scontro europeo sulla gestione dei flussi migratori.

    Sono ormai giorni che, in nome dell’ “emergenza migranti”, le autorità francesi mantengono un massiccio dispiegamento di mezzi antiterrorismo in frontiera, effettuando controlli sempre più stringenti anche in val Roya, nelle zone collinari a cavallo tra Italia e Francia, sulle principali linee ferroviarie e sui sentieri che connettono i due Paesi a sud-est.

    Una situazione sempre più complessa e gravosa per le persone migranti che cercano di lasciare l’Italia e, al momento, bloccate nella cittadina ligure.
    La partita europea sulla gestione dei flussi migratori continua a esser giocata sulla loro pelle e, in questo quadro, difficile prevedere le conseguenze dirette e indiretta della recente bocciatura dei respingimenti eseguiti dalla Francia sulle frontiere interne da parte della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

    A complicare il quadro, l’inizio dei lavori per la realizzazione di un Centro di Identificazione per Migranti sul versante francese della frontiera di #Ponte_San_Ludovico e l’annuncio del Ministro Pientedosi circa la possibile realizzazione, proprio a Ventimiglia, di uno dei nuovi Centri di Permanenza per il Rimpatrio previsti dal #Decreto_Legge_Sud.

    https://www.osservatoriorepressione.info/processano-riace-vogliono-carceri-innocenti

    Interview audio avec Gregorio de #Progetto_20k:
    https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/09/Gregorio-progetto-20k-xxmiglia.mp3


    #CPR #détention_administrative #Centro_di_permanenza_per_rimpatri #centre_d'identification #migrations #asile #réfugiés #frontières #Alpes_Maritimes #Alpes

    voir aussi ce fil de discussion sur la militarisation de la frontière italo-française à #Vintimille (automne 2023):
    https://seenthis.net/messages/1018121

    • Je poste ici des citations tirées de ce texte d’un texte de Fulvio Vassallo Paleologo, en mettant en avant les parties consacrées à la construction de nouveaux centres d’identification (et détention/rétention) dans les zones de frontière prévus dans les nouveaux décrets italiens :

      Oltre le sigle, la detenzione amministrativa si diffonde nelle procedure in frontiera e cancella il diritto di asilo ed i diritti di difesa

      Il governo Meloni con un ennesimo decreto sicurezza, ma se ne attende un’altro per colpire i minori stranieri non accompagnati,” al fine di rendere più veloci i rimpatri”, cerca di raddoppiare i CPR (https://www.openpolis.it/aumentano-i-fondi-per-la-detenzione-dei-migranti) e di creare di nuovi centri di detenzione amministrativa vicino ai luoghi di frontiera (https://pagellapolitica.it/articoli/meloni-errori-centri-rimpatri-blocco-navale), meglio in località isolate, per le procedure accelerate destinate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”. La legge 50 del 2023 (già definita impropriamente “#Decreto_Cutro”: https://www.a-dif.org/2023/05/06/il-decreto-cutro-in-gazzetta-ufficiale-con-la-firma-del-viminale) prevede che il richiedente asilo, qualora sia proveniente da un Paese di origine sicuro, e sia entrato irregolarmente, possa essere trattenuto per 30 giorni, durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.

      (...)

      Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo Meloni, dopo l’annuncio, da parte dell’ennesimo Commissario all’emergenza, di un piano nazionale per la detenzione amministrativa (https://www.laverita.info/valenti-sbarchi-governo-2663754145.html), al fine di applicare “procedure accelerate in frontiera” in centri chiusi, dei richiedenti asilo, se provengono da paesi di origine definiti “sicuri”. si richiamano una serie di decreti ministeriali (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/03/25/23A01952/sg) che hanno formato una apposita lista che non tiene conto della situazione attuale in gran parte dell’Africa, soprattutto nella fascia subsahariana, dopo lo scoppio della guerra civile in Sudan e il rovesciamento in Niger del governo sostenuto dai paesi occidentali. Non si hanno ancora notizie certe, invece, dei nuovi centri per i rimpatri (CPR) che si era annunciato sarebbero stati attivati in ogni regione italiana (https://altreconomia.it/ors-ekene-engel-badia-grande-le-regine-dellaffare-milionario-dei-cpr). Le resistenze delle amministrazioni locali, anche di destra, hanno evidentemente rallentato questo progetto dai costi enormi, per l’impianto e la gestione.

      I rimpatri con accompagnamento forzato nei primi sette mesi dell’anno sono stati soltanto 2.561 (+28,05%) rispetto ai 2.000 dello scorso anno. Nulla rispetto ad oltre 100.000 arrivi ed a oltre 70.000 richieste di asilo, conteggiati proprio il 15 agosto, quando il Viminale dà i suoi numeri, esibendo quando conviene le percentuali e lasciando nell’ombra i dati assoluti. Ed oggi i numeri sono ancora più elevati, si tratta non solo di numeri ma di persone, uomini, donne e bambini lasciati allo sbando dopo lo sbarco, che cercano soltanto di lasciare il nostro paese prima possibile. Per questo il primo CPR targato Piantedosi (https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/23_settembre_20/nuovi-cpr-dalla-valle-d-aosta-alla-calabria-dove-saranno-e-chi-dovra-a) che si aprirà a breve potrebbe essere ubicato a Ventimiglia, vicino al confine tra Italia e Francia, mentre Svizzera ed Austria hanno già annunciato un inasprimento dei controlli di frontiera.

      La prima struttura detentiva entrata in attività lo scorso primo settembre (https://www.regione.sicilia.it/istituzioni/servizi-informativi/decreti-e-direttive/ampliamento-hotspot-pozzallo-l-attivazione-centro-incremento-accogli), per dare applicazione, ancora chiamata “sperimentazione”, alle procedure accelerate in frontiera previste dal Decreto “Cutro”, è ubicata nell’area industriale tra i comuni confinanti di Pozzallo e Modica. dove da anni esiste un centro Hotspot, nella zona portuale, che opera spesso in modalità di “centro chiuso”, nel quale già da tempo è stata periodicamente limitata la libertà personale degli “ospiti”. Si tratta di una nuova struttura da 84 posti nella quale vengono rinchiusi per un mese coloro che provengono da paesi di origine definiti “sicuri”, prima del diniego sulla richiesta di protezione che si dà come scontato e del successivo tentativo di rimpatrio con accompagnamento forzato, sempre che i paesi di origine accettino la riammissione dei loro cittadini giunti irregolarmente in Italia. Le informazioni provenienti da fonti ufficiali non dicono molto, ma la natura detentiva della struttura e i suoi costi sono facilmente reperibili on line.

      (...)

      L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera (https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-nuove-procedure-accelerate-lo-svilimento-del-diritto-di-asilo_), soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
      In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso”.

      https://seenthis.net/messages/1018938

      #décret_Cutro #decreto_Sud #rétention #détention_administrative #Italie #France #frontières #pays_d'origine_sure #pays_sûrs #frontière_sud-alpine #procédure_accélérée #procédures_accélérées #tri #catégorisation

    • Le nuove procedure accelerate : lo svilimento del diritto di asilo

      –-> un texte juridique qui date du 3 novembre 2019, mais qui explique différents éléments des procédures à la frontière

      Numerose sono le deroghe alle procedure ordinarie, sia amministrative sia giurisdizionali, applicabili alle domande di protezione internazionale nelle articolate ipotesi introdotte dal dl 113/2018. L’analisi delle nuove disposizioni rivela profili di incompatibilità sia con la cd. direttiva procedure sia con il diritto di asilo costituzionale

      Premessa

      Il dl 113/18 (cd. Decreto Salvini 1, convertito in l. 132/18) ha profondamente inciso nella configurazione del diritto di asilo in Italia, anche tramite la riforma delle procedure accelerate.

      L’istituto è poco conosciuto e la riforma del dl113/18 su questo aspetto decisamente sottovalutata dagli analisti. Eppure, si tratta di un complesso di norme congegnate in modo tale da svuotare di significato il diritto di asilo, mantenendone l’impalcatura ma di fatto rendendo estremamente difficile il suo reale esercizio.

      Il dl113/18 in gran parte utilizza i margini lasciati aperti dal legislatore europeo con la direttiva procedure (direttiva 2013/32/UE)[1], e in parte va oltre, introducendo norme in contrasto con il diritto europeo la cui legittimità dovrà essere valutata in un prossimo futuro dalla Corte di Giustizia UE e dalla Corte costituzionale[2]. Al contempo, per cogliere il significato pratico di questa parte di riforma, è necessario considerare anche la modifica di alcuni altri istituti, quale la detenzione a fini identificativi, anch’essa introdotta dal dl113/18 e la nuova configurazione della domanda reiterata.

      Secondo la direttiva procedure[3] e la normativa italiana, essere sottoposti ad una procedura accelerata significa subire una contrazione significativa del proprio diritto di difesa, e non solo. Come è noto, in caso di diniego a seguito di una procedura accelerata, il termine per l’impugnazione è (quasi sempre) dimezzato e il ricorso perde il suo effetto sospensivo automatico (in differente misura, come si dirà in seguito). Ma non basta. In caso di procedure accelerate, l’esame della domanda di asilo viene svolto in tempi molto rapidi (di norma sette o quattordici giorni prorogabili alle condizioni di cui all’art. 28-bis comma 3 del d.lgs. 25/2008) e in molte circostanze ciò accade al momento dell’arrivo in Italia, ossia nei luoghi di frontiera e in condizioni di trattenimento. Il richiedente asilo, in questa fase, si trova presumibilmente in una situazione di isolamento sociale, non avendo contatti con le organizzazioni e con gli operatori che svolgono attività di informazione e preparazione all’intervista presso la Commissione territoriale. Eccezion fatta per la possibile presenza in zona di frontiera dell’Unhcr, che su incarico del Ministero dell’Interno fornisce informative generali al momento dell’arrivo, che in nessun modo possono considerarsi realmente propedeutiche alla preparazione del richiedente asilo all’intervista in Commissione. Si tratta di una evoluzione del c.d. approccio hotspot, indebitamente introdotto di fatto e non di diritto dal Ministero dell’interno nell’autunno del 2015 su insistenza della Commissione UE, che ne richiese a gran voce il suo utilizzo con l’agenda UE sulle migrazioni del maggio 2015[4]. L’approccio hotspot viene introdotto come una tecnica di fatto per distinguere i richiedenti asilo dai c.d. presunti migranti economici, mantenendo una postazione di garanzia generale affidata alle Nazioni Unite e ad alcune Ong, su incarico e finanziamento ministeriale, che potessero formalmente garantire il diritto ad essere informati, alle forze di polizia di i cittadini stranieri, immediatamente dopo lo sbarco, quali richiedenti asilo o come migranti economici irregolari e sottoponibili a un respingimento differito o ad una espulsione[5]. Il dl113/18 completa il quadro. Introduce per la prima volta le procedure di frontiera, la nozione di paesi di origine sicuri e il trattenimento a fini identificativi in frontiera, amplia le ipotesi di manifesta infondatezza e riporta il tutto nell’ambito delle procedure accelerate.

      1. Il trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo

      In tale direzione, l’art.3 del dl 113/18 anzitutto introduce, per la prima volta in Italia, la figura del trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo (art. 6 comma 3-bis, d.lgs. 142/15), che potrà essere trattenuto in una struttura di cui all’art. 10 ter d.lgs 286/98 (i c.d. hotspot e la prima accoglienza, ossia i cd. hub) fino a 30 giorni e successivamente fino a 180 gg in un Cpr, ogniqualvolta si renda necessario verificarne o determinarne l’identità o la cittadinanza: dicitura pericolosamente ampia che di fatto potrebbe investire la totalità dei nuovi arrivi in Italia[6]. Il richiedente asilo, quindi, al suo arrivo in Italia può essere trattenuto in una struttura di frontiera o di primissima accoglienza per un tempo sufficiente per essere sentito dalla Commissione territoriale e per ricevere la notifica dell’eventuale diniego. Potrà in seguito essere poi trattenuto in un Cpr per un lasso di tempo di altri 5 mesi, che saranno di norma sufficienti ad arrivare ad un diniego con procedura accelerata con eventuale rigetto della richiesta di sospensiva contenuta nel ricorso. Il richiedente quindi resterebbe in una condizione di grande isolamento, dovrebbe preparare la Commissione in tempi strettissimi e senza un reale sostegno. Inoltre, lo stesso richiedente asilo si troverebbe a disposizione delle Forze di polizia in caso di diniego e per un eventuale rimpatrio forzato.

      In ogni caso, il dl113/18 chiarisce che tutti i richiedenti asilo trattenuti anche solo a fini identificativi saranno sottoposti a procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis comma 1 che richiama l’art. 28 comma 1 lett. c) e dunque saranno sentiti dalla Commissione entro 7 giorni dall’invio degli atti da parte della Questura (che provvede “immediatamente” dopo la domanda di asilo). I richiedenti asilo trattenuti riceveranno la risposta nei successivi due giorni e in caso di diniego avranno il diritto di restare in Italia per la presentazione del ricorso (entro 15 giorni) e – in caso di richiesta di sospensiva – fino a quando il Tribunale non avrà respinto tale richiesta (in via definitiva, ossia dopo le eventuali repliche del difensore ai sensi dell’art. 35-bis comma 4 d.lgs. 25/08). La decisione del giudice viene adottata inaudita altera parte, sulla base delle motivazioni trasfuse nel ricorso dal difensore, che ha avuto solo 15 giorni per apprestare la difesa con il suo assistito trattenuto (in un c.d. hotspot o in un Cpr) sin dal suo arrivo in Italia, con presumibile carenza di strumenti comunicativi e limitata cognizione degli elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale in Italia.

      Il trattenimento a scopo identificativo appare in chiaro contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione italiana, che delineano una disciplina rigorosa della privazione della libertà solo come extrema ratio e in condizioni di parità di trattamento tra cittadini stranieri e italiani. Tuttavia, la Consulta non ha ancora avuto modo di valutarne la legittimità, in quanto, non essendo ancora mai stati adottati decreti di trattenimento a fini identificativi, la questione di legittimità costituzionale non è stata sollevata. Tuttavia, stante le denunce pubbliche e i ricorsi alla Corte EDU[7], appare molto probabile che il Ministero degli Interni stia ancora ricorrendo al trattenimento di fatto sine titulo dei cittadini stranieri appena giunti in Italia, secondo l’ormai noto schema dell’approccio hotspot: la persona straniera viene trattenuta senza alcun provvedimento nell’hotspot per il tempo necessario a sottoporlo al c.d. foglio notizie e al foto-segnalamento. Con il foglio notizie, come ormai di dominio pubblico[8], il cittadino straniero viene guidato ad autodefinirsi o come richiedente o come migrante economico irregolare e in quest’ultimo caso sottoposto a respingimento differito previo eventuale trattenimento in Cpr.

      2. Le procedure di frontiera

      L’art. 9 del dl 113/18 introduce, anche in questo caso per la prima volta in Italia, la procedura di frontiera, aggiungendo due nuovi commi all’art. 28-bis del d.lgs 25/2008, la norma che si occupa delle procedure accelerate. Più esattamente, il comma 1-ter, secondo cui la procedura accelerata – già vista per i casi di domanda di asilo presentata da richiedenti asilo trattenuti – si applica anche al richiedente che “presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito (…) dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli (…)” e “nei casi di cui all’art. 28, comma 1, lettera c-ter” (ossia nei casi di cittadino proveniente da paese di origine sicuro) . In tali casi la procedura, “può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. Mentre, il comma 1-quater specifica che “(…) le zone di frontiera o di transito sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Con il medesimo decreto possono essere istituite fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali (…) per l’esame delle domande di cui al medesimo comma 1-ter.”. Quindi, ai sensi della nuova norma, chi presenta la domanda in frontiera o nelle zone di transito viene sottoposto a procedura accelerata (7 gg + 2 gg) ogni qualvolta sia stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera oppure provenga da uno Stato dichiarato dall’Italia come paese di origine sicuro (come meglio si dirà nel prosieguo). In entrambi i casi, si tratta di una domanda presentata in frontiera o zone di transito.

      Il ricorso avverso il rigetto della Commissione anche in questo caso non ha effetto sospensivo automatico (art. 35-bis comma 3 lett. d), e può essere presentato entro 30 giorni (e non 15) dalla relativa notifica, stante la nuova formulazione dell’art. 35-bis comma 2.

      Diviene, anzitutto, fondamentale interpretare correttamente la nozione di elusione delle frontiere. Se la si intende come violazione delle norme di ingresso, la quasi totalità dei richiedenti asilo rientrerà nel suo ambito (essendo per lo più privi di passaporto o di visto di ingresso)[9] . Viceversa, si ritiene che debba interpretarsi secondo l’accezione principale del verbo eludere, ossia “Sfuggire, evitare con astuzia o destrezza”[10], limitando quindi l’applicazione della legge ai soli casi in cui il richiedente non si presenti spontaneamente ai controlli di frontiera (o perfino richiedendo il soccorso) ma venga bloccato quando è in atto un tentativo strutturato di superarli furtivamente.

      In secondo luogo, appare decisiva una corretta delimitazione della nozione di frontiera e zona di transito, per evitare una applicazione indebita della nuova forma di procedura accelerata. Per frontiera deve intendersi necessariamente il luogo di prossimità fisica con il confine territoriale con un territorio non europeo. Tipicamente Lampedusa, ma anche altre parti del sud Italia in caso di sbarco diretto dal mare al porto interessato (meno di frequente, ma sono registrati molti casi in Sicilia, Calabria, Puglia, etc.). Per zone di transito, anche più semplicemente, si devono intendere gli aeroporti e i porti internazionali, dove per convenzione esistono dei passaggi dal vettore aereo o marino al territorio italiano che rappresentano di fatto una frontiera virtuale, perché immettono la persona proveniente da paese extra Schengen in territorio italiano. Non possono essere considerate frontiere o zone di transito i confini con i paesi europei e tanto meno i luoghi non immediatamente prossimi, dove le persone soccorse o bloccate vengono condotte per ragioni logistiche. Dovrà, quindi, in gran parte ritenersi illegittimo il decreto ministeriale[11] emanato nelle scorse settimane ai sensi dell’art. 28-bis comma 1-quater che individua le zone di frontiera in numerose città del centro sud che non sono affatto interessate da arrivi diretti (se non eventualmente negli aeroporti) da zone extra Schengen, ma al contrario sono sedi di accoglienze o Cpr in cui vengono condotti i richiedenti asilo giunti in frontiere molto distanti[12]. Il decreto, a titolo esemplificativo, individua come zona di frontiera la città di Messina, che di certo non è interessata da arrivi diretti di cittadini non comunitari, ma al contrario è la sede di un cd. hotspot dove vengono condotti i cittadini stranieri giunti a Lampedusa[13]. L’intenzione del legislatore europeo di intendere in senso proprio le zone di frontiera come quelle che fisicamente confinano con una zona extra Schengen si evince tra l’altro dall’art. 43, par. 3, direttiva 2013/32 UE (Procedure di frontiera) che recita significativamente “Nel caso in cui gli arrivi in cui è coinvolto un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi che presentano domande di protezione internazionale alla frontiera o in una zona di transito, rendano all’atto pratico impossibile applicare ivi le disposizioni di cui al paragrafo 1, dette procedure si possono applicare anche nei luoghi e per il periodo in cui i cittadini di paesi terzi o gli apolidi in questione sono normalmente accolti nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito”. Il legislatore UE considera, pertanto, eccezionale l’ipotesi di utilizzo, ai fini delle procedure di frontiera, di un luogo diverso da quello dell’arrivo; anche in questo caso (eccezionale afflusso) prevede, comunque, che si tratti di un luogo collocato nelle immediate vicinanze, cosa che non può dirsi, a scopo esemplificativo, per il cd. hotspot di Messina rispetto alle persone che sbarcano a Lampedusa.

      La procedura di frontiera, dunque, consiste in una procedura accelerata che viene applicata da Commissioni ad hoc in zona di frontiera a chi vi è giunto direttamente da un paese extra Schengen con l’intenzione di sottrarsi dolosamente ai controlli di frontiera[14] (o proviene da un paese di origine sicuro). Questa appare l’interpretazione più consona dei commi 1-ter e 1-quater introdotti dal dl 113/2019, che tuttavia anche in questa lettura appaiono contrari alla direttiva 2013/32/UE. Quest’ultima, infatti, nel combinato disposto degli artt. 43 e 31, par. 8, delineano un sistema di procedure accelerate e procedure di frontiera con l’indicazione di una serie di ipotesi tassative non suscettibili di ampliamenti[15]. Il legislatore europeo è ben consapevole che tali procedure contraggono in modo radicale i diritti dei richiedenti asilo e ne evidenza in modo chiaro il carattere eccezionale, non derogabile. Viceversa, il legislatore italiano con il dl 113/18 sancisce che le procedure di frontiera siano applicate ai richiedenti fermati in frontiera che eludono o cercano di eludere i valichi, ossia in un caso non incluso nella lista tassativa delle ipotesi di procedure accelerate e di frontiera di cui all’art. 31, par. 8, direttiva 2013/32/UE. Sarà dunque possibile disapplicare la norma nazionale posto che quest’ultima disposizione della direttiva procedure è suscettibile di produrre effetti diretti. A tal fine è possibile, sebbene non sia necessario, sollevare una questione pregiudiziale all’interno di un procedimento art. 35-bis d.lgs 25/08 e attendere una sentenza interpretativa della Corte di Giustizia.

      3. I Paesi di origine sicuri

      Un’altra novità del dl 113/2018 (introdotta in sede di conversione), con enormi potenzialità, è rappresentata dall’art. 7-bis (trasfuso nell’art. 2-bis al d.lgs 25/08) che introduce per la prima volta il concetto di Paesi di origine sicuri.

      Il 4 ottobre 2019 il Ministro degli Affari Esteri e il Ministro della Giustizia hanno presentato in conferenza stampa il decreto contenente una lista di 13 paesi di origine sicuri.

      Attraverso l’introduzione dell’art. 2-bis al decreto 25/2008 (cd. Decreto procedure), la norma ha previsto infatti la possibilità per il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’interno, di adottare con decreto interministeriale un elenco di paesi di origine sicuri in base ai criteri stabiliti nei commi successivi del medesimo articolo.

      L’introduzione di tale concetto ha potenzialità rivoluzionarie dell’attuale sistema di tutela, comportando un estremo svilimento dell’asilo che passa attraverso lo slittamento della protezione da un piano individuale a un piano collettivo e attuando, attraverso la previsione – come si vedrà, piuttosto confusa – di una procedura estremamente restrittiva delle garanzie del richiedente protezione, uno svuotamento di fatto della possibilità di accedere alla protezione.

      Per quanto riguarda criteri e modalità di valutazione, si prevede (art. 2-bis cc. 2, 3 e 4) che uno stato possa essere considerato paese di origine sicuro ove sia possibile dimostrare, in via generale e costante, che, sulla base del suo ordinamento, dell’applicazione della legge in un sistema democratico e della situazione politica generale, non sussistano atti di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o degradanti, una situazione di violenza indiscriminata. Per effettuare tale valutazione si tiene conto della misura in cui è offerta protezione contro persecuzioni e maltrattamenti mediante le disposizioni legislative e la loro applicazione, il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nei principali strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, il rispetto del principio di non-refoulement, e un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni. Gli strumenti di cui si dota l’esecutivo per la valutazione di tali criteri sono le informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, da Easo, Unhcr, Consiglio di Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.

      Il decreto recentemente presentato dai Ministri, tuttavia, si limita a riportare una lista di 13 paesi considerati sicuri, attraverso un riferimento a fonti (non pubbliche) del Ministero degli affari esteri e della Commissione nazionale utilizzate per l’individuazione di tali Stati. Alcuna informazione è contenuta nel Decreto relativamente ai criteri sopra elencati. Non viene inoltre utilizzata la possibilità, contenuta all’art. 2-bis, di escludere determinate parti del territorio o determinate categorie di persone dalla valutazione di sicurezza complessiva che viene fatta del paese.

      Gli stati contenuti in tale lista sono: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

      È utile rilevare che, trattandosi di una lista determinata da un atto amministrativo (ossia il decreto interministeriale), questa avrà un valore non vincolante per il giudice che in sede di valutazione del ricorso potrà disapplicare il decreto .

      Il paese di origine si considera sicuro per il richiedente che non abbia “invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova” (art. 2-bis). Questa previsione comporta una radicale modifica nel regime probatorio: la sicurezza del paese di origine per il richiedente asilo si presume, e questi è tenuto a invocare i motivi che rendono il paese insicuro per lui, o, secondo quanto stabilito all’articolo 9 c. 2-bis, addirittura, a dimostrare la sussistenza di tali motivi.

      Ciò che qui interessa sono però le conseguenze connesse alla provenienza di un richiedente asilo da un Paese di origine dichiarato sicuro dal sopracitato decreto interministeriale. Il nuovo articolo 28 d.lgs 25/08 lo inserisce fra le ipotesi di esame prioritario (con scarse conseguenze pratiche), ma soprattutto il nuovo art 28-ter, comma 1 lett. b), lo inserisce nell’elenco delle ipotesi in cui la domanda di asilo può essere considerata manifestamente infondata (concetto su cui si tornerà nel prosieguo). A sua volta, l’art. 28-bis d.lgs 25/08 lo annovera tra le ipotesi di procedura accelerata. Più esattamente, il comma 1-bis stabilisce che, in questi casi (richiedente proveniente da Paese di origine sicuro), “la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”. Dal tenore letterale, sembrerebbe affermarsi che in queste ipotesi la Commissione operi una valutazione sulla base di quanto dichiarato dal richiedente nella domanda di asilo (modello C3) senza procedere all’audizione.

      Tuttavia, questa interpretazione sarebbe da considerarsi illegittima per chiara contrarietà (tra l’altro) alla direttiva 2013/32/UE, che tassativamente consente di adottare una decisione senza un esame completo della domanda nei soli casi di inammissibilità di cui all’art 33 par. 2, che a sua volta annovera tra le possibilità tassative quella del richiedente proveniente da Paese terzo sicuro di cui all’art. 38, concetto del tutto differente da quello del Paese di origine sicuro di cui agli artt. 36 e 37. Il Paese terzo sicuro è, infatti, una nozione giuridica relativa ai paesi di transito del richiedente asilo e prodromica a un giudizio di ammissibilità che non è stato recepito nel nostro ordinamento. Il concetto di Paese di origine sicuro è, invece, attinente al paese di provenienza del richiedente ed è disciplinato dalla direttiva ai fini di una procedura accelerata, con ordinaria audizione del richiedente.

      Si tratta probabilmente di un errore grossolano del legislatore del dl 113/18, salvo si voglia attribuire un significato compatibile con il diritto UE: quello per cui il nuovo art. 28-bis, comma 1-bis sopra citato, attribuisce alla Commissione – all’interno della procedura accelerata – un termine di 5 giorni invece che di 2 giorni (come al comma 1 sempre dell’art. 28-bis) per adottare la decisione dopo aver effettuato l’audizione del richiedente, che andrebbe convocato presumibilmente nel termine di 7 giorni dalla trasmissione degli atti da parte della questura (come per le ipotesi già analizzata di cui al primo comma dell’art. 28-bis). In definitiva, la specifica procedura accelerata prevista dal comma 1-bis dell’art. 28-bis del dl 25/08 (come modificato dal dl 113/08) o è da considerarsi radicalmente illegittima per contrarietà alla direttiva procedure oppure deve interpretarsi nel senso di prevedere un termine di 7 giorni per la convocazione del richiedente asilo con una nazionalità tra quelle inserite nella lista dei Paesi di origine sicuri e un termine di 5 giorni (invece che 2) per la adozione della decisone da parte della Commissione.

      Inoltre, in caso di diniego della domanda presentata da richiedente che proviene da un Paese di origine sicuro, il termine per la proposizione del ricorso sarà di 15 giorni solo nella ipotesi in cui la domanda di protezione venga dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’art. 28-ter d.lgs 25/08 (che come si dirà più avanti prevede numerose ipotesi, tra cui anche quella del richiedente proveniente da Paese di origine sicuro). Questo poiché l’art. 35-bis, comma 2, nel dimezzare i termini ordinari, non richiama l’art. 28-bis comma 1-bis (quello specifico sui Paesi di origine sicuri) ma il comma 2, che disciplina le ipotesi in cui la Commissione può emanare un diniego con espressa dicitura di manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28 ter (combinato disposto con l’art. 32 comma 1 lett. b-bis), che tra le ipotesi prevede anche il caso di richiedente proveniente da Paese di origine sicuro (ma si tratta evidentemente di una possibilità e non di un automatismo, in quanto anche in questi la domanda potrebbe considerarsi infondata ma non anche manifestamente infondata)[16].

      In termini identici deve risolversi il dubbio interpretativo relativo all’efficacia sospensiva. L’art. 35-bis, comma 3, stabilisce che non è riconosciuta un’efficacia automaticamente sospensiva nei casi espressamente richiamati, tra cui non annovera direttamente quello del Paese di origine sicuro di cui all’art. 28-bis comma 1-bis. Tuttavia, tra le ipotesi contemplate si rinviene quella del diniego per manifesta infondatezza ai sensi del combinato disposto dell’art. 32, comma 1 lett b-bis), e dell’art. 28-ter. Come per il dimezzamento dei termini, dunque, il ricorso avverso il rigetto di una domanda di asilo presentata da un richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non avrà effetto automaticamente sospensivo nella misura in cui il provvedimento della Commissione espressamente rigetti la domanda per manifesta infondatezza.

      Per i casi di diniego di richiedenti provenienti da paesi di origine sicuri, inoltre, il legislatore del dl 113/18 ha contratto ulteriormente il diritto di difesa, stabilendo che il normale obbligo motivazionale in fatto e in diritto previsto in caso di diniego da parte della Commissione Territoriale, sia sostituito da una motivazione che dà “atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso”. Sembrerebbe, quindi, vincolare o quanto meno consentire alla Commissione di rigettare una domanda di asilo con una stereotipata motivazione, priva degli ordinari elementi valutativi e giustificativi. Così intesa, appare evidente la contrarietà della norma agli ordinari parametri costituzionali in tema di motivazione e razionalità degli atti della pubblica amministrazione e agli obblighi motivazionali in fatto e in diritto a cui sono tenuti gli Stati membri in caso di rigetto della domanda di asilo ai sensi dell’art. 11, par. 2, della direttiva 2013/32/UE. D’altro canto, difficilmente della è immaginabile una lettura costituzionalmente orientata che modifichi l’obbligo motivazionale della Commissione in modo compatibile con la Costituzione e con la Direttiva procedure.

      Infine, come accennato nel precedente paragrafo, la provenienza da un paese di origine sicuro è rilevante anche in un’altra ipotesi, ossia quando il richiedente presenta la domanda di asilo in frontiera o in una zona di transito. Se la domanda di asilo è presentata in uno di questi due luoghi, da un richiedente che provenga da un paese di origine dichiarato sicuro, la Commissione territoriale potrà applicare una procedura accelerata e potrà (inoltre ma non necessariamente) svolgerla in frontiera. Si tratta del già esaminato comma 1 ter dell’art. 28-bis (procedure accelerate), che recita. “La procedura di cui al comma 1 [7 gg + 2 gg] si applica anche nel caso in cui il richiedente presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 1-quater (…) nei casi di cui all’articolo 28, comma 1, lettera c-ter). In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. In queste ipotesi, il ricorso avverso l’eventuale diniego non avrà effetti sospensivi automatici (art. 35-bis comma 3 lett. d “La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto: …avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 28-bis, commi 1-ter …)”[17]. Il termine per l’impugnazione rimarrebbe quello ordinario di 30 giorni. Appare evidente come l’applicazione congiunta delle nuove norme relative alle procedure in frontiera e ai paesi di origine sicuri (tanto più se lasciata a una interpretazione estensiva, come sembra implicare il decreto sulle zone di frontiera o di transito) può condurre a una procedura accelerata svolta in zona di frontiera (in gran fretta e in condizioni di semi-isolamento) di tutti i cittadini che provengono da uno dei paesi dichiarati sicuri (si pensi a tutti i cittadini tunisini che approdano nelle acque siciliane). Con la conseguente massiccia e sistematica contrazione dei diritti di difesa.

      4. La manifesta infondatezza

      Un’altra norma introdotta dal dl 113/18 (art. 7-bis, comma 1 lett. f), in sede di conversione) che potrebbe avere nella pratica un effetto vastissimo è l’art. 28-ter D.lgs 25/08, che prevede una complessa serie di casi di manifesta infondatezza. Precedentemente l’unica ipotesi di manifesta infondatezza era prevista dall’art. 28-bis, tra le ipotesi in cui si poteva applicare una procedura accelerata e di conseguenza giungere ad un eventuale rigetto per manifesta infondatezza. Si trattava dell’ipotesi in cui il richiedente aveva sollevato “esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale”. Era già avvertita come norma insidiosa, tanto è vero che la Commissione Nazionale nella circolare del 30.07.2015[18] aveva precisato come, per giungere a un rigetto per manifesta infondatezza, fosse necessario che la decisione collegiale della Commissione territoriale fosse stata adottata all’unanimità, che non riguardasse categorie vulnerabili (di cui all’art. 17 d.lgs 142/15) e che non fosse stata espletata una valutazione sull’attendibilità del richiedente, in quanto relativa a questioni non attinenti alla protezione internazionale dove non si pone neppure un problema di credibilità.

      Inoltre, la Corte di appello di Napoli,[19] nel sistema previgente la riforma 2018, aveva precisato che poteva giungersi a una decisione di manifesta infondatezza solo nella misura in cui fosse stata espletata (con il rispetto dei termini e delle garanzie) una procedura accelerata, mentre non era possibile nel caso di una decisone adottata a seguito di una procedura ordinaria. Ciò in ragione del fatto che l’art. 32 d.lgs 25/08, comma 1 lett.b-bis), nel disciplinare il caso in cui la Commissione poteva adottare una decisione per manifesta infondatezza, faceva espresso richiamo all’art. 28-bis, comma 2, ossia alla procedura accelerata in caso di possibile manifesta infondatezza. La sentenza della Corte di Appello di Napoli aveva posto fine a un dibattito complesso che aveva coinvolto molti attori. Tuttavia, la l. 132/2018, in sede di conversione, a fronte di un confronto serrato tra istituzioni e società civile, è intervenuta con l’art. 7, comma 1 lett. g), che modifica puntualmente il richiamo effettuato dal sopra menzionato art. 32 d.lgs 25/08. Infatti, quest’ultimo, nel prescrivere che il rigetto della Commissione territoriale può avere come contenuto anche una dichiarazione di manifesta infondatezza, non richiama più l’art. 28-bis, che disciplina le ipotesi di procedura accelerata, ma richiama il nuovo art. 28-ter, che introduce una gamma molto più articolata di ipotesi di manifesta infondatezza. Potrebbe dunque sostenersi che, a seguito della l. 132/2018, la Commissione territoriale possa adottare una decisione di manifesta infondatezza anche nel caso in cui abbia espletato una procedura ordinaria e non solo una procedura accelerata.

      Il nuovo art. 28-ter d.lgs 25/08 introduce, come accennato, nuove e rilevanti ipotesi di manifesta infondatezza che si aggiungono a quella appena sopra illustrata che viene confermata.

      La prima nuova ipotesi è quella del comma 1 lett. b), del richiedente che “(…) proviene da un Paese designato di origine sicuro”. Ipotesi già illustrata.

      Al comma 1 lett. c), viceversa si introduce il caso del richiedente che ha “(…) rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie o palesemente false, che contraddicono informazioni verificate sul Paese di origine”. In questa ipotesi, sarà possibile da parte della Commissione effettuare una valutazione di credibilità, ma il giudizio sarà operato sulla base della evidenza, in quanto si richiede che l’incoerenza e la contraddittorietà del richiedente siano palesi.

      Alla lettera d), la manifesta infondatezza viene sancita per il caso del richiedente che “(…) ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi o omettendo informazioni o documenti riguardanti la sua identità o cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente, ovvero ha dolosamente distrutto o fatto sparire un documento di identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza”. Evidentemente, deve trattarsi di comportamenti posti in essere dal richiedente con la specifica intenzione di trarre in inganno la Commissione: non dovranno rilevare, dunque, i comportamenti finalizzati ad entrare nel territorio italiano (come tipicamente la distruzione del passaporto in zona di transito) o dichiarazioni non veritiere rese al momento della compilazione della domanda di asilo e determinati da mancanza di informazioni, possibili fraintendimenti linguistici o iniziali timori del richiedente appena giunto sul territorio.

      La successiva lett. e) introduce l’ipotesi potenzialmente più insidiosa, che potrebbe investire una gamma molto ampia di soggetti, prevedendo la manifesta infondatezza nel caso del richiedente che “(…) è entrato illegalmente nel territorio nazionale, o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno, e senza giustificato motivo non ha presentato la domanda tempestivamente rispetto alle circostanze del suo ingresso”. Moltissimi cittadini stranieri vivono sul territorio italiano privi di un permesso di soggiorno e molto spesso non presentano tempestivamente la domanda di asilo per ragioni non sempre facilmente comprensibili: mancanza di informazioni, timori del tutto infondati, etc. Sarà dunque necessario interpretare la locuzione “senza giustificato motivo” in maniera da tener conto anche della complessità interculturale e della più generale diversità di approccio che possono determinare le scelte dei cittadini stranieri che presentano la domanda di asilo anche molto tempo dopo il loro arrivo in Italia. Ulteriore perplessità suscita l’utilizzo del termine tempestivamente il quale, non essendo riferito ad un arco temporale ben determinato, si presta a dar luogo a numerose e differenziate interpretazioni applicative.

      La lett. f) aggiunge alla lista delle ipotesi quella del richiedente che “(…) ha rifiutato di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013”. Infine, la lettera g) è relativa al richiedente “ (…) che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 6, commi 2, lettere a), b) e c), e 3, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”, ossia in condizioni di trattenimento, salvo che nel caso sia determinato dal mero rischio di fuga.

      Le nuove ipotesi di manifesta infondatezza che sono state introdotte con l’art. 28-ter trovano corrispondenza nella Direttiva procedure, che disciplina l’istituto nel combinato disposto dell’art. 32 e dell’art. 31, par. 8. Rimane la necessità di un’interpretazione rigorosa di alcuni requisiti, soprattutto relativi alla lett. e) per evitare un’applicazione distorta dell’istituto, che costituisce un’ipotesi derogatoria dell’ordinaria procedura e genera una contrazione importante dei diritti del richiedente asilo. Infatti, il richiedente che versa in una di queste condizioni potrà essere soggetto ad una procedura accelerata in forza del richiamo dell’art. 28-bis, comma 2 lett. a), d.lgs 25/08 (14 gg per la convocazione e 4 gg per la decisione) e qualora la Commissione confermi l’esistenza dei requisiti richiesti dalla norma sarà possibile un rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 32, comma 1 lett. b-bis). In tal caso, il ricorso avverso il diniego soggiace al termine per la sua proposizione di 15 giorni (ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08) e non avrà un effetto sospensivo automatico (ai sensi dell’art. 35-bis comma 3 lett. c d.lgs 25/08). La Direttiva procedure, tuttavia, stabilisce espressamente nell’art. 46, par. 6 lett. a) ultimo inciso, che non può escludersi l’effetto automaticamente sospensivo in caso di ricorso avverso un rigetto per manifesta infondatezza, qualora quest’ultima sia stata determinata dall’ingresso o dalla permanenza irregolare del richiedente sul territorio dello Stato membro avendo presentato la domanda di asilo in ritardo senza giustificato motivo[20].

      5. La domanda reiterata

      La riforma dell’istituto della domanda reiterata, operata dall’art. 9 del dl 113/18 che ha modificato gli artt. 7, 28, 29 e 29-bis del d.lgs 25/08, è probabilmente quella che assume un peso maggiore nell’effettivo esercizio del diritto di accedere alla procedura di asilo. Un intervento legislativo molto incisivo, strutturato e in gran parte contrario alla direttiva 2013/32/UE.

      In questa sede non sarà possibile una disamina completa, ma ci si limiterà a quei profili utili a completare il quadro dell’operazione portata a termine con la riforma delle procedure accelerate.

      L’art. 29, comma 1 lett. b), disciplina l’ipotesi preesistente di domanda reiterata, ossia quella del richiedente che, dopo aver ricevuto un rigetto definitivo della sua domanda di asilo, ha presentato una seconda domanda di asilo “identica” (…) , “senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine”. Questa seconda domanda di asilo può essere (come già in precedenza previsto) sottoposta a un giudizio di ammissibilità da parte della Commissione. Ossia un giudizio condotto sulla base del modello C3 e degli altri eventuali documenti prodotti dal richiedente al momento della presentazione della domanda. L’individuazione dei casi da sottoporre al giudizio di ammissibilità è affidata al Presidente della Commissione territoriale (art. 28. comma 1-bis, d.lgs 25/08) mentre la sua valutazione è di competenza della Commissione territoriale in composizione collegiale (art. 29, comma 1, d.lgs 25/08). Il Presidente, dunque, procede a un “esame preliminare” (art. 29, comma 1-bis) senza alcuna audizione del richiedente e la Commissione adotta l’eventuale decisione di inammissibilità. Prima della riforma del dl 113/18, il Presidente aveva l’obbligo di avvisare (ai sensi dell’art. 29 comma 1-bis) il richiedente che si stava svolgendo un esame preliminare ad una dichiarazione di inammissibilità e quest’ultimo, entro 3 giorni, aveva il diritto di inviare una memoria per integrare o meglio illustrare i nuovi elementi posti alla base della sua seconda domanda di asilo. Questa garanzia del richiedente è stata abrogata, in linea con le facoltà concesse a ogni Stato membro dalla Direttiva 2013/32/UE all’art. 42 comma 2 lett. b). Ovviamente, se dall’esame preliminare e cartaceo della domanda di asilo dovesse risultare che “(…) sono emersi o sono stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi che aumentano in modo significativo la probabilità che al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale” il richiedente sarà convocato per una nuova e ordinaria audizione (art. 40, par. 3, direttiva 2013/32/UE). È evidente che ciò che giuridicamente rileva è l’esistenza nella nuova domanda di asilo (in pratica nel modello C3) che siano stati addotti nuovi elementi e non anche che questi appaiano già fondati ad una prima lettura. Al contempo, devono considerarsi nuovi anche gli elementi che precedentemente non erano stati addotti per una qualsiasi ragione[21] dal richiedente asilo. Infine, tali elementi possono essere relativi alla storia personale del richiedente (ed essere anche intesi come elementi probatori) o alla condizione socio-politico del suo paese di origine.

      La procedura prevista per la dichiarazione di inammissibilità è accelerata ai sensi dell’art. 28-bis, comma 1-bis, d.lgs 25/08, secondo cui in questi casi “(…) la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”.

      La decisione di inammissibilità è impugnabile innanzi al Tribunale civile entro 30 giorni dalla notifica (l’art. 35-bis, comma 2, che stabilisce i casi di riduzione a 15 gg del termine di impugnazione, infatti, non richiama il comma 1-bis dell’art. 28-bis). Il ricorso avverso la decisione di inammissibilità non ne sospende automaticamente gli effetti, ma sarà necessario come negli altri casi già esaminati presentare apposita istanza cautelare. Tuttavia, il legislatore del dl 113/18 ha apportato un’importante modifica relativa al diritto del richiedente di attendere in Italia la decisione del Tribunale civile in merito alla propria richiesta di sospensiva. Infatti, il nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08 stabilisce che, nel caso di questa ipotesi di inammissibilità, il richiedente ha diritto di permanere in Italia fino al deposito del ricorso (o allo spirare del termine), ma non anche di attendere che il giudice adotti una decisione sulla domanda cautelare di sospensione degli effetti che il richiedente ha avanzato con il ricorso medesimo. Questa previsione, tuttavia, è da considerarsi illegittima per contrarietà alla direttiva 2013/32/UE, art. 41, che espressamente indica i casi in cui è possibile derogare al diritto di rimanere sul territorio del Paese membro in attesa della decisione definitiva del Giudice sull’istanza di sospensiva. I casi previsti dall’art. 41 sono solo due: il primo è quello del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41, lett. b) e il secondo è relativo al richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione” di un provvedimento che ne comporterebbe “l’imminente” rimpatrio forzato. Sull’esatto significato di queste due ipotesi si ritornerà a breve, per il momento interessa evidenziare che la limitazione del diritto di rimanere in Italia dopo il deposito del ricorso avverso l’inammissibilità e in attesa della decisone del giudice sulla istanza di sospensiva, sancita dal nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08, è illegittima, in quanto la Direttiva procedure nell’art. 41 permette una tale limitazione esclusivamente in altri casi, del tutto differenti, che, infatti (come vedremo a breve), hanno una indipendente disciplina anche nell’ordinamento giuridico italiano.

      Più precisamente, l’art. 46 della Direttiva (Diritto a un ricorso effettivo) al par. 5 detta la regola generale per cui il richiedente ha diritto di attendere sul territorio dello stato membro la decisione del giudice sul merito del ricorso presentato[22]. Il paragrafo 6 stabilisce le eccezioni, chiarendo che in alcuni casi, il diritto a rimanere sul territorio dello Stato membro è limitato e sussiste solo fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva[23]. Tra queste eccezioni, è inclusa quella dell’art. 33 par. 2 lett. d): la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE. Il paragrafo 8 dell’art. 46 ribadisce il diritto in modo inequivocabile: “Gli Stati membri autorizzano il richiedente a rimanere nel territorio in attesa dell’esito della procedura volta a decidere se questi possa rimanere nel territorio, di cui ai paragrafi 6 e 7”.

      L’art. 35, comma 5, è in definitiva da considerarsi illegittimo e non sembra suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata. Si prospetta dunque la disapplicazione da parte del giudice della norma in contrasto con le disposizioni sopra richiamate della direttiva procedure, idonee a produrre effetti diretti, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

      5.1. La domanda reiterata in fase di esecuzione di un imminente allontanamento

      Esistono viceversa, come accennato, due ipotesi in cui la Direttiva prevede una eccezione al diritto sopra illustrato di attendere la decisone del giudice sulla richiesta di sospensiva. Queste eccezioni sono previste dall’art. 41 della Direttiva procedure[24]. Si tratta dei due casi sopra menzionati, ovverosia quella del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41 lett. b) e quella del richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento”. I tali casi, l’art. 41 par. 2 lett. c) espressamente attribuisce agli stati membri la facoltà di escludere il paragrafo 8 dell’art. 46 (appena soprariportato), che attribuisce il diritto a rimanere sul territorio dello stato membro fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva. Il legislatore del dl 113/18 ha introdotto per queste due ipotesi una disciplina molto rigida. Il nuovo art. 29-bis (Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento) recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”. In maniera speculare, il nuovo art. 7 del d.lgs 25/08 (sempre modificato dal dl 113/18), rubricato Diritto di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda stabilisce che il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio italiano fino alla decisione della Commissione territoriale salvo che: lett. d) [abbia] presentato una prima domanda reiterata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale.

      Bisogna quindi chiedersi, anzitutto, quale sia il significato della locuzione fase di esecuzione di un imminente allontanamento. Ma soprattutto, chi sia designato dalla norma a dichiarare inammissibile la domanda reiterata (ossia una seconda domanda di asilo) in fase di imminente esecuzione e con quale procedura, per valutare così la compatibilità o meno con la Direttive procedure. Si tratta di una operazione ermeneutica complessa, ma che si rende assolutamente necessaria, anche in ragione dell’enorme importanza pratica rivestita da questo istituto. Una importanza, che ancor meglio si può apprezzare dalla lettura della Circolare del Ministero dell’Interno (Commissione Nazionale) del 2 novembre 2019[25] che attribuisce alla Questura il compito di dichiarare inammissibile la domanda di asilo ai sensi dell’art. 29-bis e qualifica tale inammissibilità come automatica (non soggetta a prova contraria): “È stato, inoltre, previsto che nel caso in cui lo straniero presenti una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’allontanamento imminente dal territorio nazionale, la stessa è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento. Opera, dunque, in tale circostanza, iure et de iure, una presunzione di strumentalità correlata alla concomitanza di due condizioni riferite l’una alla preesistenza di una decisione definitiva sulla domanda precedente e l’altra alla circostanza che sia iniziata l’esecuzione del provvedimento espulsivo. La sussistenza di tali presupposti esclude, pertanto, l’esame della domanda. In tali casi, come concordato con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, la Questura competente comunicherà all’interessato l’inammissibilità della domanda sancita ex lege”. Sulla base di questa circolare, in molte questure italiane, è di fatto precluso l’esercizio del diritto di asilo a chi ha già presentato in passato una prima domanda di asilo. Infatti, molti di questi ultimi hanno già un decreto di espulsione (o di respingimento differito o di un ordine di allontanamento) nel momento i cui si presentano alle forze di polizia per la presentazione della seconda domanda di asilo. La Questura dunque provvede a dichiarare automaticamente la inammissibilità senza sottoporre il caso alla Commissione e senza neppure valutare l’esistenza o meno di nuovi elementi addotti. Dunque, la Questura procede all’esecuzione immediata dell’espulsione. Il cittadino straniero che ha provato a presentare una seconda domanda si ritrova così immediatamente in stato di trattenimento, teso al rimpatrio forzato per una decisione (vincolata) della Questura. Senonché, la direttiva 2013/32/UE stabilisce un principio opposto, secondo cui è sempre necessario che l’autorità accertante (in Italia la Commissione territoriale) proceda all’esame preliminare di una domanda reiterata (anche in fase di esecuzione di un imminente allontanamento), per valutare se sono stati sollevati nuovi elementi al fine di dichiararne la inammissibilità. Secondo la direttiva 2013/32/UE non c’è modo di attribuire in via automatica ad una domanda reiterata la qualifica di domanda inammissibile. La direttiva si limita a prevedere che in casi di imminente allontanamento dal Paese membro possa essere limitato il diritto del cittadino straniero a restare sul territorio dello stato durante la fase giudiziaria di impugnazione della dichiarazione di inammissibilità. La direttiva non ricollega alla imminenza dell’allontanamento alcuna conseguenza in termini di esame preliminare che l’autorità competente (in Italia, la Commissione) deve svolgere per accertarsi che esistano o meno elementi nuovi attinenti alla domanda di asilo.

      Più precisamente, la direttiva sopra richiamata afferma al considerando 36 che: “Qualora il richiedente esprima l’intenzione di presentare una domanda reiterata senza addurre prove o argomenti nuovi, sarebbe sproporzionato imporre agli Stati membri l’obbligo di esperire una nuova procedura di esame completa”. Ciò che si ammette che gli Stati membri possano escludere è l’esame completo (ossia la nuova audizione del richiedente asilo) e non quello preliminare, infatti, l’art. 33 recita: “2. Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se: (...) d) la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE”. La domanda è inammissibile solo qualora non vi siano nuovi elementi, la cui emersione è possibile solo ad un esame preliminare. Prima di allora la domanda non può essere giudicata inammissibile. L’art. 40, inoltre, ribadisce che: “2. Per decidere dell’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d), una domanda di protezione internazionale reiterata è anzitutto sottoposta a esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rilevanti per l’esame dell’eventuale qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE […]. 5. Se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame ai sensi del presente articolo, essa è considerata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d)”. Solo se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame perché, ad un esame preliminare, non siano emersi elementi nuovi, essa può essere giudicata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d). L’art. 41 stabilisce, inoltre, che: “1. Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione”. L’imminente allontanamento rileva dunque ai soli fini di attribuire agli Stati membri la facoltà di circoscrivere il diritto di rimanere in Italia del richiedente asilo che a seguito di un esame preliminare abbia ricevuto una dichiarazione di inammissibilità e decida di avvalersi del diritto di proporre ricorso o riesame avverso tale decisione. L’art. 42 espressamente prevede, altresì, che: “1. Gli Stati membri provvedono affinché i richiedenti la cui domanda è oggetto di un esame preliminare a norma dell’articolo 40 godano delle garanzie di cui all’articolo 12, paragrafo 1. 2. Gli Stati membri possono stabilire nel diritto nazionale norme che disciplinino l’esame preliminare di cui all’articolo 40. Queste disposizioni possono, in particolare: a) obbligare il richiedente a indicare i fatti e a produrre le prove che giustificano una nuova procedura; b) fare in modo che l’esame preliminare si basi unicamente su osservazioni scritte e non comporti alcun colloquio personale, a esclusione dei casi di cui all’articolo 40, paragrafo 6. Queste disposizioni non rendono impossibile l’accesso del richiedente a una nuova procedura, né impediscono di fatto o limitano seriamente tale accesso. 3. Gli Stati membri provvedono affinché il richiedente sia opportunamente informato dell’esito dell’esame preliminare e, ove sia deciso di non esaminare ulteriormente la domanda, dei motivi di tale decisione e delle possibilità di presentare ricorso o chiedere il riesame della decisione”. Lo Stato membro, ai sensi dei paragrafi 1 e 2, può quindi disciplinare ma non eliminare l’esame preliminare (prevedendo una dichiarazione di inammissibilità sancita ex lege). Precisando inoltre al paragrafo 3 che il richiedente deve essere informato dell’esito dell’esame preliminare al fine di apprestare le proprie difese.

      In definitiva, l’art. 29-bis, così come interpretato dal Ministero con la circolare sopra menzionata, sarebbe da considerare sicuramente contrario alla normativa europea e quindi destinato ad essere espunto dall’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, la norma può anche essere interpretata diversamente, in modo da attribuire alla Commissione il compito di analizzare la domanda di asilo anche in questo caso[26], tramite un esame preliminare (identico a quello già visto in relazione alla ordinaria domanda reiterata)[27]. L’art. 29-bis avrebbe dunque il solo effetto di non riconoscere il diritto a un ricorso effettivo. Ma in tal caso bisognerà chiedersi se la sopra illustrata deroga consentita dall’art. 41 all’art. 46 par. 8 (ossia al diritto di attendere una decisione del giudice sull’istanza di sospensiva) possa giustificare anche l’esclusione da tutte le garanzie dell’art. 46 e quindi, in definitiva, consentire il rimpatrio forzato del richiedente asilo immediatamente dopo la notifica della decisione di inammissibilità o se viceversa deve essere conservato il diritto di rimanere in Italia fino alla presentazione del ricorso (che sostanzialmente è la soluzione illegittima che il legislatore del dl 113/18 ha riservato alla domanda reiterata ordinaria).

      In ogni caso, per evitare un uso eccessivamente ampio di questo strumento (come sembra stia accadendo) devono correttamente interpretarsi i concetti di esecuzione/imminente/ allontanamento. Per imminente allontanamento deve intendersi esclusivamente la condizione di chi si trovi nelle ipotesi in cui il processo espulsivo è in stato avanzato, tanto che la Pubblica Amministrazione non solo sia certa di poter coattivamente costringere il cittadino straniero al rimpatrio forzato (quindi che abbia già disposto il suo trattenimento), ma che al contempo abbia già portato a compimento il complesso iter organizzativo necessario in questi casi: fissazione di un appuntamento con l’autorità consolare per il previo riconoscimento e acquisizione del lasciapassare, individuazione certa del vettore e dello specifico volo verso il paese di origine con relativo ordine di spesa ed emanazione dell’ordine di servizio per le forze dell’ordine deputate nel caso specifico ad effettuare l’accompagnamento all’interno del territorio italiano ed eventualmente durante la scorta internazionale. L’art. 29-bis quindi non troverebbe applicazione in presenza di un mero decreto di espulsione a carico del cittadino straniero, ma esclusivamente nei casi di presentazione della domanda reiterata in una fase di reale imminenza del rimpatrio, ossia solo quando questo sia effettivamente in corso, a fronte di una già avvenuta individuazione del volo, del personale coinvolto e della specifica tempistica effettiva di rimpatrio.

      Non può nascondersi, infatti, che molti cittadini stranieri non hanno di fatto la possibilità di esercitare appieno il diritto a richiedere la protezione internazionale, tanto più in presenza di un crescente utilizzo delle procedure accelerate e dell’approccio hotspot. Le prime, di fatto, mettono molti richiedenti nella condizione di affrontare l’audizione in Commissione e successivamente il ricorso avverso il diniego con pochissimi strumenti a causa della tempistica e delle condizioni di isolamento. Allo stesso tempo, l’approccio hotspot conduce moltissimi cittadini stranieri ad auto-dichiararsi al loro arrivo migranti economici, subendo così un decreto di respingimento differito o di espulsione che li conduce in stato di trattenimento e quindi ad affrontare ancora una volta la prima domanda di asilo (sempre che riescano nei Cpr a formalizzarla) in tempi strettissimi e con pochissimi strumenti. Ecco che dunque l’estrema rigidità con cui è stata disciplinata dal legislatore del dl 113/18 la domanda reiterata, oltre che per molti versi illegittima, appare pericolosamente nei fatti appartenere a una più ampia operazione di svuotamento del diritto di asilo.

      Relativamente alla domanda reiterata, infine, sarà necessario nel tempo interpretare correttamente anche l’ipotesi prevista dal nuovo art. 7 comma 2 lett. e) del d.lgs 25/08 come modificato dall’art. 9 del dl 113/08, secondo cui, il richiedente perde il diritto di attendere in Italia la decisione della Commissione territoriale nel caso in cui manifesti “la volontà di presentare un’altra domanda reiterata a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 29, comma 1, o dopo una decisione definitiva che respinge la prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettere b) e b-bis)”. Si tratta del caso in cui il richiedente manifesti la volontà di presentare una terza (quarta, ecc.) domanda di asilo. In questo caso, conformemente alla Direttiva procedura (come sopra esposto) si disciplina diversamente la condizione del richiedente, che esprime la volontà, ancor prima di formalizzarla. Dal tenore delle norme della Direttiva, si evince chiaramente che in tal caso al richiedente non venga assicurato il diritto ad attendere che la Commissione si esprima, ma rimangono dubbi alcuni profili. In particolare, se deve comunque essergli riconosciuto il diritto di formalizzare la domanda di asilo prima del rimpatrio forzato (e quindi attendere nel proprio paese di asilo una eventuale decisone della Commissione) e se la convalida del suo trattenimento e dell’esecuzione del rimpatrio forzato debba considerarsi di competenza del Tribunale civile (come per tutti i casi di richiedenti asilo) o del giudice di pace (come per i casi dei cittadini stranieri non richiedenti asilo).

      6. Il cd. procedimento immediato di cui all’art. 32 comma 1-bis d.lgs 25/08

      L’art. 10 del dl 113/18 ha, infine, introdotto un nuovo istituto al comma 1.bis dell’art. 32 del d.lgs 25/08, secondo cui: “Quando il richiedente è sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui agli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16, comma 1, lettera d-bis), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e successive modificazioni, e ricorrono le condizioni di cui all’articolo 6, comma 2, lettere a), b) e c), del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva per uno dei predetti reati, il questore, salvo che la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale competente, ne dà tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione, valutando l’accoglimento della domanda, la sospensione del procedimento o il rigetto della domanda. Salvo quanto previsto dal comma 3, in caso di rigetto della domanda, il richiedente ha in ogni caso l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione. A tal fine si provvede ai sensi dell’articolo 13, commi 3, 4 e 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. In sostanza, nel caso in cui il richiedente asilo sia sottoposto a procedimento penale o sia stato condannato per taluni reati (tra cui alcuni di media gravità) viene sottoposto immediatamente all’audizione della Commissione territoriale, con una sorta di procedura accelerata. In caso di diniego[28] (anche in forza all’art. 35-bis comma 4 d.lgs 25/08) perde il diritto ad attendere in Italia non solo l’esito del ricorso ma anche quello della eventuale domanda cautelare di sospensione degli effetti del diniego stesso. Al pari di quanto sopra illustrato per il caso di inammissibilità della domanda reiterata “ordinaria” ex art. 29 comma 1 lett.b). Avrebbe dunque solo il diritto di rimanere in Italia per il tempo necessario a depositare il ricorso, ossia 30 giorni dalla notifica del diniego. Inoltre, nel caso in cui dovesse già trovarsi (al momento dell’apertura del procedimento penale) in sede di ricorso cesserebbero gli effetti della sospensione automatica, aprendo così la via al rimpatrio forzato immediato.

      Brevemente, si tratta di una disposizione che va evidentemente incontro all’esigenza mediatica, più volte espressa da alcune forze politiche, di procedere in tempi rapidi al rimpatrio forzato di richiedenti asilo che vengono accusati di aver commessi dei reati. Tuttavia, come si evince chiaramente anche dalle norme già analizzate della Direttiva procedure, si tratta di una disposizione del tutto illegittima in quanto totalmente estranea alle ipotesi (tassative) che la Direttiva stessa ha previsto in deroga alla ordinaria procedura di asilo. E’ una norma destinata ad essere espunta dall’ordinamento giuridico italiano, seppur è immaginabile che troverà applicazione fino a quando il complesso iter giurisdizionale non ne decreterà la illegittimità.

      Oltre alle ipotesi di procedura accelerata già analizzate e che sono state introdotte o riformate dal legislatore del dl 113/18, è opportuno ricordare che l’art. 28-bis d.lgs 25/08 ne prevede un’altra che non è stato oggetto di modifiche sostanziali. Questo articolo al comma 2 lett. c) stabilisce una procedura accelerata (14 gg per l’audizione e 4 per la decisione, prorogabili ai sensi del comma 3 dell’art. 28-bis) nei casi in cui il richiedente ha presentato “(…) la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento”. Ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08 il termine per proporre ricorso avverso il diniego della Commissione territoriale è ridotto a 15 giorni e non è previsto l’effetto sospensivo automatico del ricorso stesso (art. 35-bis comma 3). La previsione appare conforme alla Direttiva procedure.

      7. Considerazioni conclusive

      In conclusione, le norme introdotte in tema di procedure accelerate dal decreto 113/18 e dalla relativa legge di conversione destano fortissima preoccupazione per la potenziale capacità di svuotare, di fatto, il diritto di asilo, soprattutto se operate in concomitanza con talune prassi illegittime (come quelle connesse al c.d approccio hotpot) e in presenza di importanti carenze strutturali del sistema italiano (privo in frontiera e nei Cpr di reali servizi di supporto e di vigilanza). La riforma in parte sfrutta al massimo i margini lasciati aperti dalla direttiva procedure 2013/32/UE e in parte sconfina nella aperta illegittimità, anche se può leggersi in quest’ultima una forte propensione ad anticipare con grande zelo le nuove politiche legislative che da anni vengono promosse dalla Commissione Europea, che già a partire dal maggio del 2015 (con la prima agenda sulle immigrazioni) sostiene uno stravolgimento del Ceas (il sistema europeo comune di asilo), non da ultimo anche con le proposte di riforma dell’aprile 2016[29]. Una complessa riforma, bloccata nel 2019 dalla fine del mandato europeo, che immagina un sistema che conservi un’impeccabile impalcatura di principi generali in cui l’Unione Europea riesca a specchiare la propria superiorità giuridica e culturale, ma che allo stesso tempo si munisca di strumenti che possano ridurre drasticamente il numero delle persone che riescono a raggiungere l’Europa per avanzare la domanda di asilo (c.d. esternalizzazione) e riescano ad incanalare questi ultimi in una serie di procedure di eccezione (che di fatto sostituiscono la regola) con cui si riducono drasticamente di fatto le possibilità di ottenere una protezione internazionale, condannando per lo più i cittadini stranieri giunti sul territorio dell’UE ad una condizione di subalterna irregolarità. Un ritorno ad una concezione elitaria del diritto di asilo, dove a fronte di ampie dichiarazioni di principio si aprono canali reali di protezione internazionale solo per pochi altamente scolarizzati o con un ruolo politicamente strategico a cui chiedere un atto di abiura nei confronti del proprio paese di origine.

      [*] Qualifiche: Avv. Salvatore Fachile, socio Asgi Foro di Roma; Avv. Loredana Leo, socia Asgi Foro di Roma; dott.ssa Adelaide Massimi, socia Asgi - progetto “In Limine”.

      [1] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione);

      [2] Per una più ampia disamina relativa ai profili di illegittimità costituzionale delle norme introdotte dal dl 113/2018, si veda l’analisi pubblicata da Asgi nell’ottobre del 2018: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/10/ASGI_DL_113_15102018_manifestioni_illegittimita_costituzione.pdf.

      [3] Si veda la Direttiva 2013/32/UE, in particolare l’articolo 31 par. 8 (che individua le ipotesi in cui possono essere applicate procedure accelerate e/o in frontiera) e il par. 9 che stabilisce che “gli Stati membri stabiliscono termini per l’adozione di una decisione nella procedura di primo grado di cui al par. 8. I termini sono ragionevoli”. Si veda, inoltre, l’art. 46 parr. 6, 7 e 8 circa l’effetto sospensivo della presentazione del ricorso;

      [4] Agenda Europea sulla migrazione, Bruxelles, 13.5.2015 COM(2015) 240 final https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0240&from=EN;

      [5] Per un’analisi più approfondita dell’approccio hotspot si veda: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/02/2018-Lampedusa_scenari-_di_frontiera_versione-corretta.pdf; e https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2018/04/detention-and

      [6] Non sembra che ad oggi sia mai stata utilizzata questa nuova forma di detenzione, che appare chiaramente in contrasto con l’art. 13 della Costituzione italiana. Nell’ambito del progetto In Limine, Asgi ha chiesto e ottenuto informazioni in tal senso dal Ministero dell’Interno e dalle Prefetture competenti, che, in base alla Circolare ministeriale del 27 dicembre, sono incaricate di individuare gli appositi locali adibiti al trattenimento dei richiedenti asilo. Ad oggi alcuna Prefettura ha infatti individuato gli “appositi locali” in cui eseguire il trattenimento. Si veda: https://inlimine.asgi.it/il-trattenimento-dei-richiedenti-asilo-negli-hotspot-tra-previsioni-le.

      [7] Si veda a tal proposito il lavoro svolto da Asgi, Cild, ActionAid e IndieWatch nell’ambito del progetto In Limine per quanto riguarda i ricorsi presentati alla Corte Edu: http://www.indiewatch.org/wp-content/uploads/2018/11/Lampedusa_web.pdf; il lavoro di monitoraggio e denuncia delle pratiche di trattenimento arbitrario: https://inlimine.asgi.it/il-trattenimento-dei-richiedenti-asilo-negli-hotspot-tra-previsioni-le; https://inlimine.asgi.it/da-un-confinamento-allaltro-il-trattenimento-illegittimo-nellhotspot-d; e il lavoro svolto in relazione alla procedura di supervisione della sentenza Khlaifia in collaborazione con A Buon Diritto: https://inlimine.asgi.it/lattualita-del-caso-khlaifia; https://inlimine.asgi.it/hotspot-litalia-continua-a-violare-il-diritto-alla-liberta-personale-d; https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/07/Khlaifia_-hotspot-Lampedusa_Progetto-In-limine_ITA-giugno-2018.pdf; https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22EXECIdentifier%22:[%22DH-DD(2019)906E%22]}.

      [8]A tal proposito si vedano i numerosi approfondimenti condotti circa l’utilizzo del foglio notizie e le problematiche legate alle modalità di compilazione dello stesso e le denunce presentate dalla società civile: https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2018/04/detention-and; https://www.meltingpot.org/Determinazione-della-condizione-giuridica-in-hotspot.html; https://www.asylumineurope.org/reports/country/italy/asylum-procedure/access-procedure-and-registration/hotspots; http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/6f1e672a7da965c06482090d4dca4f9c.pdf; https://www.asgi.it/notizie/hotspot-violazioni-denuncia-associazioni-lampedusa-catania.

      [9] Questa lettura era stata già in passato sistematicamente sostenuta dalle Forze di polizia nell’ambito di una norma che richiama l’identica nozione allo scopo di determinare quali categorie di soggetti fossero obbligati ad essere accolti nei cd. CARA. Il Tribunale di Roma con l’ordinanza dd 13.04.2010 aveva già chiarito sul punto che: “le fattispecie per le quali è disposta l’ ‘ospitalità’ presso il centro Cara sono disciplinati per legge e non sono suscettibili di interpretazione estensiva perché di fatto incidono sul diritto alla libera circolazione del richiedente asilo (l’allontanamento dal centro senza giustificato motivo comporta, tra l’altro, che la Commissione territoriale possa decidere senza la previa audizione del richiedente, cfr. art 21 del d.lgs 25/08) e debbono poter essere esaminati e verificati dal giudice in sede di ricorso avverso il provvedimento amministrativo e di preliminare istanza di sospensione del provvedimento impugnato”. V. anche Trib. di Roma sent. n. 733 del 10.12.2012.

      [10] Dal Devoto-Oli, Dizionario della Lingua italiana, Le Monnier, 2011.

      [11] Decreto 5 agosto 2019, Individuazione delle zone di frontiera o di transito ai fini dell’attuazione della procedura accelerata di esame della richiesta di protezione internazionale, pubblicato in CU Serie Generale n. 210 del 07.09.2019.

      [12] A tal proposito si veda inoltre il commento di Asgi al dm del 5 agosto del 2019: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/10/2019_scheda_ASGI_decreto_zone_frontiera.pdf

      [13] Si veda, sul punto, la nota condivisa di Asgi, ActionAid, Arci, Borderline Sicilia, IndieWatch, MEDU, SeaWatch sulla situazione dei migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 in condizione di detenzione arbitraria a Messina, Sa un confinamento all’altro. Il trattenimento illegittimo nell’hotspot di Messina dei migranti sbarcati dalla SeaWatch, 10.07.2019, https://inlimine.asgi.it/da-un-confinamento-allaltro-il-trattenimento-illegittimo-nellhotspot-d.

      [14] Si noti come il modello di procedura di frontiera disegnato dalla “Direttiva procedure” prevede un terzo elemento caratterizzante questa fattispecie, ossia la possibilità di detenere per un tempo massimo di 4 settimane il richiedente asilo in frontiera o zona di transito allo scopo di condurre la procedura di frontiera medesima. Tuttavia, il legislatore italiano ha preferito immaginare una forma di detenzione amministrativa simile ma differente, ossia quella sopra analizzata del trattenimento a scopo identificativo nei cd. hotspot e negli hub. Una procedura che nei fatti potrebbe molto somigliare alla detenzione in frontiera ma che giuridicamente si incardina su altre motivazioni, ossia sull’esigenza di identificazione, che probabilmente è apparsa al legislatore del dl 113/08 più vicina ai canoni costituzionali (rispetto a una detenzione basata esclusivamente sull’arrivo in frontiera).

      [15] Le ipotesi di procedura accelerata previste dall’art. 31 c. 8 della direttiva 2013/32 sono le seguenti:

      “a) nel presentare domanda ed esporre i fatti il richiedente ha sollevato soltanto questioni che non hanno alcuna pertinenza per esaminare se attribuirgli la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE; oppure
      il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva; o
      il richiedente ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi od omettendo informazioni pertinenti o documenti relativi alla sua identità e/o alla sua cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente; o
      è probabile che, in mala fede, il richiedente abbia distrutto o comunque fatto sparire un documento d’identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza; o
      il richiedente ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie, palesemente false o evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul paese di origine, rendendo così chiaramente non convincente la sua asserzione di avere diritto alla qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE; o
      il richiedente ha presentato una domanda reiterata di protezione internazionale inammissibile ai sensi dell’art. 40, paragrafo 5; o
      il richiedente presenta la domanda al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione anteriore o imminente che ne comporterebbe l’allontanamento; o
      il richiedente è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno e, senza un valido motivo, non si è presentato alle autorità o non ha presentato la domanda di protezione internazionale quanto prima possibile rispetto alle circostanze del suo ingresso; oIT l. 180/78 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea;
      il richiedente rifiuta di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce «Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e sulle richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto ( 1 ); o
      il richiedente può, per gravi ragioni, essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro o il richiedente è stato espulso con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza o di ordine pubblico a norma del diritto nazionale.”

      [16] Inoltre, da una attenta lettura dell’art. 35-bis comma 2 (che stabilisce i casi di dimezzamento del termine di impugnazione) si potrebbe dedurre che i termini sono dimezzati solo nel caso in cui la manifesta infondatezza (anche eventualmente per provenienza da paese di origine sicuro) sia dichiarata a seguito di una procedura accelerata e non anche di una procedura ordinaria. Infatti l’art. 35-bis comma 2 richiama l’art. 28-bis, ossia quello delle procedure accelerate (e non invece l’art. 28-ter o l’art. 32 comma 1 b-bis, che disciplinano in generale la manifesta infondatezza derivante sia da procedura ordinaria che accelerata). Sarebbe dunque la natura accelerata della procedura (coniugata con la motivazione di manifesta infondatezza del diniego) a comportare la contrazione del termine per l’impugnazione. Sul punto si dovrà necessariamente ritornare in separata sede, per una lettura più analitica delle norme e degli spunti giurisprudenziali.

      [17] Una corretta lettura dovrebbe portare a ritenere che la mancanza di effetto sospensivo sia esclusivamente ricollegata all’adozione di una procedura accelerata. Nel caso in cui non venga adottata una tale procedura (con il correlativo rispetto della tempistica prevista) si dovrà ritenere che il ricorso avverso il diniego abbia effetto sospensivo automatico (salvo ovviamente che il diniego rechi la dicitura di manifesta infondatezza, che comporterebbe il ricadere in una diversa ipotesi in cui il ricorso viene privato del suo ordinario effetto sospensivo automatico). Il punto non può che essere affrontato con maggiore analiticità in una differente sede.

      [18] Ministero dell’Interno – Commissione nazionale per il diritto di asilo, Circolare prot. 00003718 del 30.07.2015 avente ad oggetto “Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Casi di manifesta infondatezza dell’istanza”.

      [19] Corte d’Appello di Napoli, sent. n. 2963 del 27.06.2017.

      [20] Direttiva procedure art. 46 par. 5. Fatto salvo il par. 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. Par. 6. Qualora sia stata adottata una decisione: a) di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’art. 32, par. 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, par. 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, par. 8, lettera h).

      [21] Infatti, il legislatore non si è avvalso della clausola di cui al par. 4 art. 40 Direttiva procedure, secondo cui: “Gli Stati membri possono stabilire che la domanda sia sottoposta a ulteriore esame solo se il richiedente, senza alcuna colpa, non è riuscito a far valere, nel procedimento precedente, la situazione esposta nei parr. 2 e 3 del presente articolo, in particolare esercitando il suo diritto a un ricorso effettivo a norma dell’articolo 46.”

      [22] Par. 5 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso”.

      [23] Par. 6 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Qualora sia stata adottata una decisione: (…) b) di ritenere inammissibile una domanda a norma dell’articolo 33, paragrafo 2, lettere a), b) o d); (…) un giudice è competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e, ove il diritto nazionale non preveda in simili casi il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso”.

      [24] “Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione; o b) manifesti la volontà di presentare un’altra domanda reiterata nello stesso Stato membro a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, o dopo una decisione definitiva che respinge tale domanda in quanto infondata”.

      [25] Ministero dell’Interno – Commissione Nazionale per il Diritto d’asilo, Circolare prot. n. 0000001 del 02.01.2019 avente ad oggetto Decreto-legge del 4 ottobre 2018, n. 113, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata’, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132;

      [26] Più precisamente, anzitutto bisogna rilevare che la direttiva 2013/32/UE sin dai considerando (in particolare n. 16) prevede che: “È indispensabile che le decisioni in merito a tutte le domande di protezione internazionale siano adottate sulla base dei fatti e, in primo grado, da autorità il cui organico dispone di conoscenze adeguate o ha ricevuto la formazione necessaria in materia di protezione internazionale”. Tale autorità è quella che nel prosieguo della direttiva è definita “autorità accertante”. In Italia, tale ruolo è assolto dalle Commissioni territoriali nominate dal Ministero dell’interno. La direttiva ammette che in luogo dell’autorità accertante alcune specifiche funzioni in materia siano svolte da altra autorità, purché adeguatamente formata. L’art. 4 della Direttiva “Autorità responsabili”, infatti, prevede che: “1. Per tutti i procedimenti gli Stati membri designano un’autorità che sarà competente per l’esame adeguato delle domande a norma della presente direttiva. (…) 2. Gli Stati membri possono prevedere che sia competente un’autorità diversa da quella di cui al paragrafo 1 al fine di: a) trattare i casi a norma del regolamento (UE) n. 604/2013 [c.d. Regolamento Dublino, ndr]; e b) accordare o rifiutare il permesso di ingresso nell’ambito della procedura di cui all’articolo 43, secondo le condizioni di cui a detto articolo e in base al parere motivato dell’autorità accertante [c.d. Procedure di frontiera, ndr].”. Inoltre, ai sensi dell’art. 34 “Norme speciali in ordine al colloquio sull’ammissibilità”: “[…] 2. Gli Stati membri possono disporre che il personale di autorità diverse da quella accertante conduca il colloquio personale sull’ammissibilità della domanda di protezione internazionale. In tal caso gli Stati membri provvedono a che tale personale riceva preliminarmente la necessaria formazione (…)”.

      Le competenze che possono essere attribuite ad autorità diversa da quella accertante possono riguardare, quindi, l’applicazione del cd. Regolamento Dublino e le procedure di frontiera (entrambe estranee al caso in esame), nonché la possibilità di condurre anche nei procedimenti sulle domande reiterate il colloquio del richiedente, ma non anche di assumere la decisione sulla domanda. Si consideri tuttavia che il colloquio con il richiedente costituisce una misura differente rispetto all’esame preliminare teso a valutare l’esistenza di elementi nuovi: si tratta di un eventuale fase del procedimento di inammissibilità a garanzia del richiedente che tuttavia nel caso di domande reiterate può essere escluso dal legislatore di ciascun Paese membro. Così come infatti ha deciso di fare il legislatore italiano che ha semplicemente escluso la fase del colloquio del richiedente nei casi di domanda reiterata. Per cui in Italia non è previsto il colloquio, ossia l’unica fase nel procedimento di valutazione della prima domanda reiterata che poteva essere affidata ad una autorità diversa (ossia alla Questura). Infatti ai sensi dell’art. 34 paragrafo 1 “Prima che l’autorità accertante decida sull’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale, gli Stati membri consentono al richiedente di esprimersi in ordine all’applicazione dei motivi di cui all’articolo 33 alla sua situazione particolare. A tal fine, gli Stati membri organizzano un colloquio personale sull’ammissibilità della domanda. Gli Stati membri possono derogare soltanto ai sensi dell’articolo 42, in caso di una domanda reiterata”. La Direttiva quindi rende obbligatorio l’esame preliminare (valutazione cartacea sulla base della domanda scritta del richiedente) ma facoltativo il colloquio (unica fase affidabile ad una autorità diversa). In attuazione della Direttiva, l’art. 29 del D.lgs. n. 25/2008 “casi di inammissibilità della domanda” esclude il colloquio in caso di domanda reiterata, prevedendo espressamente che il Presidente delle Commissione Territoriale conduca un esame preliminare sulla domanda. A sua volta, l’art. 29-bis del Dl.lgs. n.25/2008, recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”, nulla aggiungendo in merito alla competenza a giudicare inammissibile la domanda reiterata. Dunque si potrebbe interpretare l’art. 29-bis in modo differente da quanto proposto dal Ministero con la circolare del 2.01.2019 e con il decreto di inammissibilità qui impugnato.

      [27] Il Tribunale di Roma ha avuto modo di esprimersi in differenti occasioni annullando il decreto di inammissibilità emanato dalla Questura per difetto di competenza, ribadendo che si tratta di una prerogativa della Commissione, cfr. Trib. di Roma, decreto dd. 03.04.2019. Si veda, sul punto, G. Savio, Accesso alla procedura di asilo e poteri “di fatto” delle Questure, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it/articolo/accesso-alla-procedura-di-asilo-e-poteri-di-fatto-delle-questure_29-05-2019.php;

      [28] Si dovrà comunque valutare anche l’esistenza di una necessità di riconoscere ai sensi dell’art. 32 comma 3 una protezione speciale, ossia il ricorrere delle condizioni di non refoulement di cui all’art. 19 comma 1 e 1.1 del D.lgs 286/98.

      [29] Sul punto si veda: Asgi, I nuovi orientamenti politico-normativi dell’Unione Europea – La prospettiva di nuove e radicali chiusure al diritto di asilo, settembre 2017, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/09/2017_9_Articolo_politiche-_UE_ok.pdf;

      https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-nuove-procedure-accelerate-lo-svilimento-del-diritto-di-asilo_
      #procédures_de_frontière

    • Nuovi Cpr, Piantedosi: «Pensiamo a un centro per migranti a Ventimiglia»

      Al via il monitoraggio in 12 regioni per individuare le nuove strutture che saranno controllare (all’esterno) dalle forze dell’ordine. Si pensa ad ex caserme e aree industriali, comunque lontane dai centri abitati.

      Entro due mesi il ministero della Difesa dovrà avere la lista dei nuovi Centri di permanenza per i rimpatri decisi dal Consiglio del ministri lo scorso 18 settembre per fare fronte all’emergenza migranti, soprattutto di quelli irregolari. Un’operazione complessa, già iniziata da qualche settimana comunque dopo che il ministro dell’Interno #Matteo_Piantedosi ha espresso l’indicazione di aprire una struttura in ogni regione. Attualmente ci sono nove Cpr attivi, mentre quello di Torino è stato chiuso per i danneggiamenti causati da chi si trovava all’interno e deve essere ristrutturato. Ne mancano quindi 12 all’appello. Il ministro stesso nel pomeriggio ha annunciato in diretta tv (al programma «Cinque Minuti» su Rai 1), durante un’intervista. «Ventimiglia ha sempre sofferto, soffre dei transiti di migranti. Noi stiamo collaborando con la Francia per il controllo di quella frontiera ed è uno di qui luoghi a cui stiamo dedicando attenzione per la realizzazione di una di quelle strutture che abbiamo in animo di dedicare proprio per contenere il fenomeno».
      Chi sarà trattenuto nei Cpr?

      Innanzitutto in queste strutture vengono accompagnati gli stranieri irregolari considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, quelli condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati e i cittadini che provengono da Paesi terzi con i quali risultino vigenti accordi in materia di cooperazione o altre intese in materia di rimpatri. Secondo la direttive il trattenimento in un Cpr è utile per evitare la dispersione sul territorio nazionale di persone che sono irregolari per quanto riguarda il soggiorno in Italia quando non sia possibile eseguirne con immediatezza il rimpatrio (per la necessità di accertarne l’identità, trattandosi spesso di stranieri privi di documenti di riconoscimento, di acquisire il lasciapassare delle autorità consolari del Paese di origine o semplicemente di organizzare le operazioni di allontanamento). Anche coloro che hanno richiesto asilo in Italia possono ritrovarsi in un Cpr ma soltanto se nei guai con la legge oppure se persone considerate pericolose o ancora se bisogna ancora analizzare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale, che non potrebbero essere acquisiti senza il trattenimento e se c’è al tempo stesso il rischio di fuga.

      Dove si trovano i Cpr e dove saranno costruiti gli altri 12?

      Attualmente i Centri sono a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino (chiuso, come detto), Palazzo San Gervasio (Potenza), Trapani, Gorizia, Macomer (Nuoro) e Milano. A oggi ci sono 1.338 posti su una capienza effettiva di 619 posti. Il più grande è quello romano a Ponte Galeria, uno dei primi ex Cie d’Italia con 117 posti utilizzabili. Gli altri dovranno essere costruiti Calabria, Molise, Campania, Marche, Abruzzo, Toscana, Emilia Romagna, Veneto, Liguria, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta in strutture che saranno individuate dalla Difesa e poi adattate dal Genio militare. Si pensa ad ex caserme ma anche a complessi in aree industriali che rispondono alle esigenze descritte dal governo: lontano da centri abitati, controllabili e perimetrabili. La vigilanza sarà affidata a polizia e carabinieri e comunque non all’Esercito che si limiterà all’organizzazione logistica.

      Quanto tempo i clandestini rimarranno nei Cpr?

      Al massimo 18 mesi, come stabilito nel corso dell’ultimo Cdm, partendo da sei mesi prorogabili ogni tre mesi, come consentito dalla normativa europea per gli stranieri che non hanno fatto domanda di asilo, per i quali sussistano esigenze specifiche (se lo straniero non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi). Attualmente nei Cpr si rimane per 90 giorni con una proroga fino a 45. E comunque i richiedenti asilo non possono essere trattenuti per più di un anno. Nel caso il migrante irregolare dovesse invece collaborare subito alla sua identificazione certa e dovesse anche accettare il rimpatrio, allora il suo trattenimento sarebbe molto più breve. In ogni circostanza è il questore a disporre l’accompagnamento al Cpr del soggetto e a inviare entro 48 ore la comunicazione al giudice di pace che deve convalidare il provvedimento. Il magistrato è chiamato anche a decidere sulle eventuali proroghe.
      Chi gestisce un Cpr?

      Ogni struttura è di competenza del prefetto, massima autorità provinciale dello Stato, che con i bandi affida a soggetti privati la gestione dei servizi interni al Cpr, sia sul fronte logistico-organizzativo sia su quello dei rapporti con chi è trattenuto. Le forze dell’ordine pattugliano l’esterno e possono entrare solo su richiesta dei gestori in caso di necessità ed emergenza. Ogni straniero trattenuto può invece presentare istanze e reclami al Garante nazionale e a quelli regionali delle persone detenute o private della libertà personale. La prima autorità può peraltro inviare raccomandazioni ai prefetti e ai gestori su specifici aspetti del trattenimento.
      Da quanto tempo esistono i Cpr?

      I Centri di permanenza per i rimpatri sono stati istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (art. 12 della legge 40/1998) per adempiere agli obblighi previsti dalla normativa europea. All’inizio furono chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea), poi Cie (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi-Fini (L.189/2002). Oggi Cpr con la legge Minniti-Orlando (L. 46/2017).

      https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/23_settembre_20/nuovi-cpr-dalla-valle-d-aosta-alla-calabria-dove-saranno-e-chi-dovra-a

  • Social Killer Vol I : L’intérim - DSOL / CASVP [Centre d’Action Sociale de la Ville de Paris] SUPAP-FSU
    http://dases-supap-fsu.over-blog.com/2023/08/social-killer-vol-i-l-interim.html

    4.066.828,72€

    C’est le coût du recours aux agences d’intérim en 2022 pour le seul Centre d’Action Sociale de la Ville de Paris (CASVP). On n’a pas réussi à avoir le montant pour la DSOL et l’ASE qui, avec ses foyers de l’enfance, doit être de loin le plus gros consommateur d’intérim. Selon les estimations de Dr SUPAP le budget intérim de l’ensemble de la Direction des SOLildarités (DSOL - Paris) permettrait de mettre un hôtel rue de la Paix.

    Le recours à l’#intérim dans le #secteur_social n’est pas nouveau. A la DSOL, il est utilisé quotidiennement dans les établissements qui accueillent du public en continu (#EHPAD, #CHRS, « #foyers » de l’#ASE). Ce qui est relativement nouveau c’est le volume des demandes et la dépendance totale des établissements aux agences d’intérim. Et on parle pas d’une petite dépendance, on parle d’établissements en mode consommateurs de crack. 

    Un problème de personnel ? Conditions de travail de merde, personnels en arrêt pour burn out, impossibilité de recruter parce que plus personne n’accepte de travailler dans ces conditions ? Pas de soucis, les agences d’intérim sont là pour te facturer un intérimaire pour la modique somme d’un bras, une jambe, un rein et un poumon (l’intérimaire ne percevra que le coude hein, le reste c’est pour les actionnaires). #Synergie, fournisseur officiel des intérimaires de la DSOL, a un chiffre d’affaires 2022 de 2,9 milliards d’euros (et des actionnaires bien contents que ce soit la merde pour gérer Djayson au foyer de l’enfance de Saint Brioul sur Marne).

    Tes équipes tombent comme des dominos ? #Domino_RH est là pour ça ! D’ailleurs chez Domino ils sont tellement forts et bien implantés, ils ont tellement compris que le social est la nouvelle poule aux œufs d’or, qu’ils ont déjà géré entièrement des foyers de l’enfance. Ouaip. Projet éducatif : maintien du calme / qu’il se passe rien / prendre la thune / faire grimper le Chiffre d’Affaire.

    Parce que les agences d’intérim sont des entreprises privées à la recherche de profits, elles éclaboussent les politiques sociales d’intérêts privés et participent pleinement à la #marchandisation du secteur. L’effondrement d’un système ça rapporte toujours ! Et en consacrant une part toujours plus importante de leurs budgets contraints à engraisser les entreprises d’intérim, les institutions se privent de moyens financiers qu’il serait urgent de consacrer aux conditions de travail (celles-là même qui, améliorées, réduiraient drastiquement les besoins d’intérim). C’est ce qu’on appelle se mordre la queue.

     

    « Je suis pas venue ici pour souffrir ok ? » Monique, assistante sociale à la DSOL

    « Si vous êtes pas contente vous avez qu’à partir » Patrick, membre de la direction à la DSOL (et actionnaire de Synergie)

     

    Côté #intérimaires on n’est pas beaucoup mieux ! [dit le syndicat, ndc]

    Si pour les travailleurs sociaux, la demande permet souvent de ne pas craindre de se retrouver sans #mission et #salaire, il n’en va pas toujours de même pour les agents moins qualifiés qui subissent l’intérim et la #précarité. Et difficile pour eux d’accéder à la stabilité en étant recrutés par une structure cliente de l’agence d’intérim : les contrats prévoient des pénalités de plusieurs milliers d’euros dans le cas où une structure recruterait un intérimaire. Sans compter qu’en fonction des structures et missions, les intérimaires, prestataires, peuvent être traités comme de la crotte ou mis dans des situations de travail impossibles.

    Mais l’intérim peut aussi être un choix (avec toutes les nuances cachées derrière le mot choix, parce que par exemple, t’as choisi ton mec mais en vrai si Brad Pitt avait été accessible t’aurai pas « choisi » Robert [attention, ils vont filer la chose, ndc]). Il permet à un nombre important de professionnels non diplômés (principalement des faisant fonction d’éducateurs spécialisés) d’exercer leurs missions. Il permet à de jeunes professionnels de tester différents secteurs et missions. Il permet d’avoir un meilleur salaire. Il permet parfois d’accéder à plus d’autonomie et de liberté.

    L’intérim permet aussi de ne pas s’impliquer, de prendre de la distance vis-à-vis d’institutions et d’équipes bien souvent en difficulté voire dysfonctionnantes. Le poids de la chaine hiérarchique, des procédures, des collègues... pèse moins quand t’es juste de passage. Et pour les nombreux travailleurs sociaux qui ont fait le tour des institutions, l’intérim peut être le moyen de limiter son implication et de se mettre à distance d’un système qui en a épuisé plus d’un ! C’est pas nouveau ni limité à l’intérim que de refuser de s’engager après des expériences douloureuses. Et dans le social c’est pas les coups foireux qui manquent : c’est eux qui poussent à préférer les coups d’un soir pour satisfaire des besoins primaires plutôt que de s’engager dans des histoires compliquées qui finissent toujours mal !

    #centre_d'action_sociale_de_la_Ville_de_Paris #Paris #travail_social

    • L’action sociale municipale m’emmerde. Je renvoie l’ascenseur à purin.

      Bonjour,
      je constate que si, conformément à la loi, le règlement de l’aide sociale municipale est accessible en ligne, il n’en est pas de même de ses annexes alors que celles-ci définissent pour partie les critères d’attribution des aides sociales. J’imagine qu’il s’agit d’un oubli, puisque la Ville ne cherche évidemment pas à dissimuler des éléments essentiels à la vie de nombre de ses habitants. J’aimerais donc être informé de leur date de publication.
      M’apprêtant à demander une aide, je ne souhaite pas perdre mon temps en me voyant répondre par un refus qui pourrait être anticipé. Auriez-vous l’obligeance de me communiquer lesdites annexes ? Par avance, merci.
      Salutations.

      Impossible de poster sans pj ?! Alors bon, j’obéis.

  • Je ne sais pas où vous serez demain, film de #Emmanuel_Roy

    Reem est médecin généraliste au #Centre_de_Rétention_Administrative de #Marseille. Des hommes se succèdent devant elle. Leur vie est suspendue et personne ne peut prédire où ils seront envoyés demain. Auprès d’eux, Reem tente malgré tout de tenir une ligne de soin, de respect et d’écoute.

    https://www.youtube.com/watch?v=jjMg5cO1V6E

    #CRA #détention_administrative #rétention #migrations #sans-papiers #France #film #documentaire #film_documentaire #renvois #expulsions

  • #Nucléaire en #Polynésie : en quête de vérité

    Sous la présidence du général de Gaulle, la France se dote de la force de dissuasion nucléaire convoitée depuis le début de la Ve République. À quel prix ?
    Les 193 essais nucléaires réalisés de 1966 à 1996 en Polynésie, dans les atolls de Fangataufa et Mururoa, ont bouleversé l’existence des Polynésiens, contaminant certains par les retombées toxiques, dégradant des écosystèmes fragiles dans lesquels des déchets radioactifs ont été hâtivement jetés à la mer. Au long de cette gigantesque entreprise qui a mobilisé une centaine de milliers d’hommes et des milliards de francs, le mode de vie des habitants s’est trouvé transformé, des Marquises à Bora-Bora.
    Depuis les hésitations des décideurs politiques métropolitains sur le choix du lieu jusqu’aux conséquences sanitaires, environnementales et socio-économiques, ce film lève le voile sur une période de l’histoire polynésienne et postcoloniale française longtemps demeurée sous le signe du secret.

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/67435_0
    #film #documentaire #film_documentaire
    #France #Polynésie_française #De_Gaulle #essais_nucléaires #dissuasion_nucléaire #Pacifique #DOM-TOM #surveillance #Centre_d'expérimentation_du_Pacifique (#CEP) #Tahiti #Moruroa #Fangataufa #Hao #tourisme #modernisation #Commissariat_de_l'énergie_atomique (#CEA) #bombe_atomique #Archipel_des_Gambier #contamination #Général_Thiry #comité_d'indemnisation_des_victimes_des_essais_militaires (#CIVEM) #santé #déchets_nucléaires #indemnisation

  • En Corrèze, un maire ne veut pas « subir le même sort que celui de Saint-Brevin »

    L’ouverture d’un Cada cet hiver à Beyssenac a provoqué de nombreuses manifestations dans la commune. L’élu, qui a reçu des menaces de mort, se sent « abandonné par l’Etat ».

    L’actualité de Saint-Brevin-les-Pins a résonné jusqu’à Beyssenac, en Corrèze. Dans ce petit village d’environ 350 habitants entouré de champs et de vergers, l’ouverture d’un centre d’accueil pour demandeurs d’asile (Cada) a fait grand bruit. Après avoir découvert la nouvelle dans la presse locale, au milieu de l’hiver, la population s’est divisée entre opposants et défenseurs, plus silencieux, du projet. Au milieu : le maire (LR) Francis Comby, cinq mandats au compteur. Il a été témoin des affrontements entre membres de l’Action française et militants antifas, des cagoules et des fumigènes devant sa mairie, fin février. 150 personnes réunies, du jamais-vu. « Depuis, il ne passe pas un jour sans que l’on me parle du Cada. Aujourd’hui, quand je vois ce qu’il est arrivé à ce maire [Yannick Morez, ndlr]… Je me sens dans la même situation que lui et j’espère que je ne vais pas subir le même sort », réagit-il.

    L’édile a déposé trois plaintes : une pour menaces de mort reçues sur sa boîte mail dans les jours qui ont suivi l’annonce et deux pour diffamation. Francis Comby préfère se mettre en retrait et « calmer le jeu ». Il assure que la municipalité n’a jamais été concertée et, « mis devant le fait accompli », c’est à lui que les habitants demandent des explications. « Je me sens totalement abandonné. L’Etat ignore les élus, impose son projet et, en plus, m’envoie au tribunal », s’emporte celui qui a fait valoir, mi-mars, le droit du conseil municipal de préempter les parcelles où s’est depuis installée la structure. La procédure a été attaquée par la préfecture de la Corrèze devant le tribunal administratif de Limoges (Haute-Vienne), qui a suspendu la délibération du conseil municipal.
    « Nous sommes là pour avoir la paix »

    Toutes les prises de paroles du maire sont désormais scrutées et font régulièrement l’objet de reprises sur les réseaux sociaux. Les deux collectifs d’opposants restent à l’affût du moindre événement lié à l’accueil d’étrangers, qu’il soit en Limousin ou ailleurs en France. Mercredi 10 mai au soir, les membres de Sauvons Beyssenac – l’un des deux collectifs locaux qui souhaitent l’abandon du projet, appuyé par Reconquête – relayaient sur Facebook la démission du maire de Saint-Brevin fraîchement annoncée. La dernière sortie du collectif Non au Cada de Beyssenac – le deuxième, qui se revendique « apolitique » tout en étant soutenu par le délégué départemental Rassemblement national, Valéry Elophe – remonte au 1er mai. Un petit groupe s’est retrouvé en face de l’ancien hôtel-restaurant où sont accueillis les exilés pour manifester. Un moment « très convivial », racontent-ils sur Internet. « Contrairement à ce qui a été dit dans les journaux, les manifestations continuent et continueront dans les prochaines semaines. »

    Plusieurs demandeurs d’asile ont assisté à la scène depuis les fenêtres de la réception, devant lesquelles patrouille régulièrement la gendarmerie. Cela faisait tout juste deux semaines que six femmes et un bébé venaient de s’installer sur place, encore secoués par leur périple. « C’était difficile. On entendait les cris, les gendarmes sont venus pour les faire partir », décrit Doris, Congolaise de 46 ans. Elle a découvert ce qu’il se disait au sujet du Cada avant même d’arriver. « Je me demandais pourquoi les gens ne voulaient pas de notre présence. Nous sommes là pour avoir la paix », poursuit Doris. L’association leur a expliqué comme elle pouvait. « Dès qu’il y a quelque chose de nouveau, les gens ont peur. Il y a aussi une méconnaissance du statut de demandeurs d’asile. S’ils sont là, c’est qu’ils sont en danger dans leur pays », insiste Camille, travailleuse sociale à Viltaïs, l’association mandatée par l’Etat pour gérer l’accueil.
    Lieu de vie et de passage

    Depuis un mois, l’ancienne auberge du village est redevenue un lieu de vie et de passage. Des habitants passent régulièrement saluer, déposer des dons ou proposer de l’aide. Dans la cuisine, Mariama prépare un plat typique de Guinée. L’odeur du mouton mijotant dans sa sauce au piment embaume la salle de vie où discutent les autres résidentes. « Certaines se sont déjà liées d’amitiés. Il y a beaucoup de solidarité entre elles », constate Patricia. L’animatrice sociale jongle entre les coups de téléphone pour organiser des activités sur place : cours de français, cuisine, couture, yoga… Un couple et leur bébé doivent arriver le lendemain. A la fin du mois, ils seront 20 sur place, la moitié de la capacité totale à terme du centre. Dans la matinée, trois résidentes ont marché jusqu’à la supérette d’une commune voisine. Se promener leur évite de cogiter. Un habitant les a récupérées sur le chemin du retour pour leur éviter de porter leurs sacs de courses sur plusieurs kilomètres. « Voir tous ces gens qui sont gentils avec nous, ça fait chaud au cœur, disent-elles. Nous, on est heureuses ici. »

    https://www.liberation.fr/societe/en-correze-un-edile-ne-veut-pas-subir-le-meme-sort-que-le-maire-de-saint-

    #Beyssenac #Cada #réfugiés #anti-réfugiés #asile #migrations #hébergement #France #centre_d'accueil #Francis_Comby #menaces_de_mort #Sauvons_Beyssenac #Non_au_Cada_de_Beyssenac #manifestation #Viltaïs #solidarité

    voir ce fil de discussion sur #Saint-Brévin :
    https://seenthis.net/messages/992104

    ping @karine4

    • Demandeurs d’asile : A Beyssenac, la mécanique du #mensonge au service de l’extrême-droite

      L’affaire de Saint-Brévin - et la démission de son maire après l’incendie de son domicile - a sidéré la France. Mais ailleurs aussi dans le pays, l’extrême-droite jette de l’huile sur le feu sur la question de l’accueil des réfugiés. Cette atmosphère teintée de haine et de xénophobie fracture des communautés jusqu’alors paisibles, dans les campagnes où on se regarde désormais en chien de faïence. A 550 km de Saint-Brévin, à Beyssenac, la vie s’écoule tranquillement. Ou plutôt s’écoulait : depuis plusieurs semaines la tension est au plus haut dans le petit village de Corrèze, secoué par une affaire identique.

      Sur la toile, Beyssenac est un point presque invisible. Et il faut zoomer, et re-zoomer encore, sur la carte d’Internet pour que l’invisible apparaisse. Dans la vie réelle, le village corrézien de 357 âmes tient en une place avec sa mairie, la demeure du maire en miroir, une église, un cimetière, des toilettes publiques, un bar associatif. Beyssenac s’étend en revanche sur des centaines d’hectares bornés par des fermes, maisons individuelles, qui émergent au milieu de prés troués d’étangs où paissent des bovins. Quelques bois cachent des hameaux et des chasseurs, des pêcheurs, quelques animaux sauvages peuvent être aperçus à la dérobée.

      Il n’existe aucun commerce de proximité et l’économie, outre l’élevage de vaches limousines, consiste à cultiver frénétiquement la fameuse pomme golden importée d’Amérique, que la politique agricole commune européenne a fait prospérer.

      Depuis quelque temps, la coupe sauvage et la vente de grands arbres fait aussi office de complément à cette agriculture peu soigneuse de l’environnement mais, au premier coup d’œil, la carte postale de cette France immobile donne le change. Simplement, les nappes phréatiques ont bu les intrants et autres pesticides, et le tronçonnage des forêts a fait découvrir aux habitants de nouvelles perspectives, dans lesquelles le vent désormais s’engouffre.
      Des migrants en Corrèze

      Mike (le nom a été changé) est Anglais. Il est venu s’installer à Beyssenac avec sa femme il y a environ 5 ans. Il y a acheté et rénové avec goût une jolie vieille maison de pierres, comme beaucoup de Britanniques et de Néerlandais, parmi d’autres nationalités. « En Angleterre, explique-t-il, une maison comme celle-ci et un terrain équivalent sont inabordables pour nous ». Le Brexit a fait le reste.

      Mike travaillait près de Liverpool, dans une concession automobile. Il fait partie d’une petite communauté étrangère qui s’est progressivement installée ici, à cinq minutes de la « frontière » avec la Dordogne. Elle a été renforcée ces derniers mois par l’arrivée de réfugiés ukrainiens, encadrés par une association locale de Pompadour, une commune non loin, et une Néerlandaise, qui a pris l’initiative de louer un bus pour aller chercher des femmes et des enfants à la frontière polonaise.

      Qui dit maisons à vendre dit tout (aussi) d’un exode local à peine compensé par l’arrivée de citadins ou d’étrangers. Européens ou pas, ils vivent généralement une existence parallèle aux habitants, aussi peu polyglottes que les Britanniques eux-mêmes, à de rares exceptions.

      « Nous sommes des migrants », sourit William, en montrant sa carte de séjour. Artisan débarqué de la région de Brighton, il a élu domicile avec sa jeune famille il y a une quinzaine d’années dans la communauté de communes dite du « Pays de Lubersac-Pompadour », dont Francis Comby, 60 ans, est le président. Le maire LR de Beyssenac est aussi vice-président du conseil départemental de Corrèze. En 2021, il aurait été barré par son propre camp, ayant prétendu accéder au siège de Pascal Coste selon des Beyssacois moqueurs.
      Des acquéreurs pour La Mandrie

      La vie politique dans ces communes n’est guère excitante. Bien souvent les élections se jouent sur une liste unique (c’était le cas pour Francis Comby), ce qui ne stimule pas spécialement la créativité des conseils municipaux. La gestion de l’existant suffit. Et l’existant est morne et silencieux. Tenter de se faufiler dans les alcôves de la politique régionale puis nationale est plus exaltant. La seule menace pour les élus (de droite) de la Com’com, dans leurs rêves de carrière, sont les votes en faveur de l’extrême-droite qui se consolident à chaque élection nationale à cause de la passivité et du suivisme de ces mêmes élus. Cela n’a pas l’air d’inquiéter.

      Sauf que, en novembre 2022, le maire UDI d’Arnac-Pompadour, raconte un témoin de la scène, Alain Tisseuil, élu lui aussi sans opposition, s’enquiert auprès de Francis Comby de la façon dont il va cohabiter avec Viltaïs. Cette association a acheté l’auberge de La Mandrie pour héberger et accompagner des demandeurs d’asile le temps (plusieurs mois) qu’ils préparent leur dossier pour l’OFPRA (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides, qui instruit ces dossiers pour le compte du ministère de l’Intérieur), dans le but d’obtenir (sans garantie) le statut de réfugié.

      Cela fait plus d’un an et demi que la famille Millot cherchait un acheteur pour son auberge, qui vivote. Il n’y a plus beaucoup de baptêmes, peu de fêtes de famille. Le tourisme ne prend guère, le manque d’activités - à part le rugby amateur et le cheval, auxquels tout le monde ne s’adonne pas - dans le périmètre est patent. Sinon, les amateurs de randonnées autour de Beyssenac ne trouveront que des parcours goudronnés. Et culturellement, la Com’com est un désert. Le cinéma et la salle de spectacle les plus proches sont à une demi-heure de route, à Uzerche.
      La Montagne vend la mèche

      L’auberge dispose d’un restaurant et de maisonnettes séparées, d’une piscine. Elle est située à l’écart du village, à quelques trois ou quatre kilomètres. Une seule habitation la jouxte. Avant Viltaïs, il n’y a eu qu’un vague projet privé consistant à accueillir des personnes âgées, dont la région vieillissante est déjà, par la force des choses, pourvue. Francis Comby avait eu vent d’une reprise éventuelle par quelques-unes de ses connaissances - le trésorier de la Société des courses de Pompadour et Philippe Bombardier, ancien DRH des Haras nationaux et ex-directeur de cabinet à la mairie de Limoges après son passage à droite en 2014, aujourd’hui directeur général des services au Conseil départemental de la Creuse mais aussi président de la Société de concours hippique, toujours à Pompadour.

      Les deux hommes sont donc aussi des connaissances d’Alain Tisseuil. Le maire de Pompadour cumule pour sa part avec la présidence du conseil d’administration de l’Institut français du cheval et de l’équitation (IFCE). Le cheval, activité dépensière, réclame des sollicitudes. L’hypothèse tournait autour d’un gite qui aurait été bien utile aux officiels et socio-professionnels autour des activités hippiques. Claude Chabrol y reconnaitra le sien. Las ! La Montagne, le quotidien local, rend publique fin janvier l’ouverture prochaine d’un centre d’accueil pour demandeurs d’asile. Une annonce que le maire déplore immédiatement, expliquant « qu’on a besoin de restaurants et d’hébergements dans le secteur ».

      Le site correspondait bien aux critères d’évaluations demandés par l’État : « 30 places minimum », une localisation qui ne « contribue pas à surcharger des zones déjà socialement tendues ».

      Quand Alain Tisseuil s’enquiert auprès de Francis Comby de la façon dont les choses se présentent, ce dernier lui fait comprendre qu’il est capable de gérer la situation. Les maires des petites communes peuvent se rejoindre au cas par cas mais ils restent jaloux de leurs prés carrés électoraux.
      Le tract incendiaire

      « Bientôt des dizaines de migrants dans notre village ! » Mi-février, Mike a trouvé dans sa boîte un tract de Reconquête !. Quinze jours seulement après le premier article de La Montagne. Il ne comprend pas le zemmourien et s’interroge. « Quel est le problème ? »

      Le gros problème est que les habitants ne sont pas au courant. Le second est que les premières communications sur le Cada sont le fait de l’extrême-droite. Une pétition circule sur Change.org, via Facebook. Soit disant initiée par le collectif « Sauvons Beyssenac », elle est en réalité l’œuvre de Philippe Ponge, homme de Reconquête !, et de quelques affidés de circonstances. Ajoutez, pour que l’affaire monte, de multiples pages Facebook nourries toujours par les mêmes personnages, sous divers pseudonymes.

      Les élus ont failli en amont à anticiper et expliquer en quoi consiste une telle structure, informer de la vente de l’auberge à Viltaïs et indiquer quelle serait l’attitude républicaine à adopter. Trop tard, pas pensé, pas réfléchi. Le tapage de l’extrême-droite a fait le reste, remplissant le silence des agneaux.

      Ainsi, une avalanche de fausses informations se répercute sur les réseaux sociaux avant même que les maires, submergés, aient pu lever le petit doigt. Parmi ces télégraphistes de mauvais augure, on trouve le responsable du Rassemblement national (RN) en Corrèze, Valéry Elophe, conseiller départemental. Mais surtout deux autres défenseurs acharnés de la Corrèze… venus du Var : Camille Dos Santos de Oliveira, transfuge RN dans ce département, qui s’est présentée en 2022 à la députation sous la bannière Reconquête ! à Brive-La-Gaillarde. Ou encore Philippe Ponge, déjà cité, qui s’exprime également sur la toile sous le nom de Philippe Lebloque ou encore de Philippe Corrèze, lequel a l’oreille compréhensive de Sud Radio.

      Ponge-Lebloque-Corrèze, au choix ou tout ensemble, a été suppléant de la jeune femme précitée sur la liste de Brive. L’homme est apparu dans la presse en 2014, dans Var Matin, quand des colistiers se sont désolidarisés de la liste FN qu’il menait, avant les municipales à Bandol. Elle ne passa pas le premier tour, en dépit de ses responsabilités dans la sécurité auprès du département.

      À la faveur de l’éviction de Jean-Marie Le Pen du FN en 2015 par sa fille, Ponge dit faire partie des déçus de la nouvelle ligne pour tenter sa chance ensuite chez les zemmouristes, plus francs du collier.

      Pour parfaire le tableau, Philippe Bombardier, l’homme des concours hippiques de Pompadour connu de Francis Comby et Alain Tisseuil, est lui connu à Limoges pour ses sympathies monarchistes. Un détail qui a son importance. Comme le fait qu’au fil de ses diverses affectations dans l’administration, Bombardier avait eu l’occasion de croiser Philippe Ponge dans le Sud de la France.
      La peur, l’arme fatale

      La mécanique se met en place. C’est du grand classique : on bourre les systèmes de référencement et de calcul des plateformes et très vite il suffit de taper « Beyssenac » pour voir apparaître une communauté fictive vent debout contre le Cada. Bien sûr la peur est l’arme fatale pour dénoncer en vrac « Les migrants », les « clandestins », alerter sur le « Grand remplacement », le tout financé par « nos impôts », en fustigeant ceux qui ne s’opposent pas à l’arrivée (très strictement encadrée) des réfugiés en quête du statut de réfugié en les accueillant chez eux.

      Dans cette accélération des particules de la haine, personne ne songe que les Cada existent pour que cela ne soit pas possible : ces structures ont justement « pour mission d’assurer l’accueil, l’hébergement ainsi que l’accompagnement social, administratif et juridique des personnes dont la demande d’asile a été enregistrée au sens de l’article L.741-1 du CESEDA, pendant toute la durée de leur procédure ». Cela n’est aucunement rappelé.

      Au lieu de se questionner sur les subventions publiques fléchées vers les associations liées au cheval à Pompadour, ces « échos » de Beyssenac laissent entendre que les locaux auraient donc estimé que les « migrants » avaient déjà ruiné et mis à sac ce joli coin de Corrèze. On lit la crainte de voir les vaches « écorchées ». Sur la page de Francis Comby, les commentaires fusent, envisagent des « viols » ou des risques de « maltraitance aux enfants », en référence aux mineurs isolés. « Partout Callac » fait valoir sa prise de guerre. Saint-Brévin arrive.

      L’incendie sur la toile est instantané. Le maire de Beyssenac éprouve les pires difficultés à simplement expliciter en quoi il est incompétent sur le dossier qui relève de la préfecture. Et qu’il n’y a pas le début d’un débat à aviver, hormis celui sur le danger que constitue la diffusion de fausses informations. Il sait pertinemment en revanche que le vote RN est arrivé en tête dans son canton lors des législatives de 2022, et il préfère en tenir compte.

      Jointe par Blast fin février pour savoir quelle attitude adopter face à la panique et la paranoïa qui se répandent, l’association Viltaïs a répondu dans un mail : « Les services de l’État sont informés des agissements de certains partis politiques et ces derniers nous demandent de ne pas répondre pour l’instant. » Preuve aussi que Viltaïs est joignable sans problème, ce que réfute Francis Comby au même moment.
      La Reconquête des esprits

      Le 18 février, quelques jours plus tôt, une petite poignée de militants Reconquête ! déploie une longue banderole devant le château du marquisat de Pompadour - oui, le cadeau de Louis XV à sa maîtresse roturière -, à quelques kilomètres de là. Avec un message qui claque - « Zemmour président ! » - devant lequel ils se prennent en photo en connaissance de cause. Face à eux, il n’y a que deux gendarmes, le parking devant la vieille bâtisse qui abritait les bureaux des Haras nationaux étant désert. Les rares passants jettent un œil circonspect à la manif à cinq. Quelques militants de gauche et de la LDH se tiennent à distance.

      https://i.imgur.com/Ex7DX3i.png

      En réalité, Philippe Ponge est à la manœuvre. Reconquête ! compte à peine 490 adhérents déclarés dans toute la Corrèze. Mais les cinq du 18 février s’expriment pourtant au nom de tous les Corréziens. Les responsables du parti ont le don d’ubiquité. Ils sont partout.

      https://i.imgur.com/fl03p3y.png

      Pourtant, ce rapt de l’opinion ne sera pas davantage combattu par le maire de Beyssenac, qui trouvera « normal » l’inquiétude que les partisans d’Éric Zemmour sèment. Pire, l’élu la favorise en acceptant, parce que les sympathisants des idées d’extrême-droite existent à bas bruit et l’ont fait maire, une réunion publique au cours de laquelle va s’exprimer Valéry Elophe. Le Rassemblement national a pris ombrage de l’offensive des zemmouristes. Le 5 mars, le RN local manifeste devant la préfecture de Tulle. À Tulle, tout le monde s’en fiche royalement.

      Le 13 mars, le conseiller départemental intervient sur Boulevard Voltaire, au sujet de Beyssenac : « Je ne roule pas avec des gens de Reconquête qui font n’importe quoi en affichant des banderoles "Zemmour Président" et ne maîtrisent pas les dossiers. » A cheval sur ses dossiers, Elophe préfère s’attaquer à Viltaïs, qui « roule dans de luxueux SUV » - en réalité des voitures de service... comme l’Institut français du cheval et de l’équitation en possède quelques-unes. Ici comme à l’Assemblée, le RN roule lui avec le pied sur le frein, attend et fait diversion sur des questions accessoires.

      Quelques jours plus tard, le même Elophe interpelle le conseil départemental sur le financement de l’association sur la base d’un rapport. Ce rapport, signé par la chambre régionale des comptes Auvergne-Rhône-Alpe, réclamait simplement des précisions et émettait des recommandations à Viltaïs, comme cela est heureusement son rôle. Peu importe, Reconquête ! et le RN se disputent la même proie. Les frères-ennemis de la droite extrême aboient contre l’État qui finance « les immigrés ». Le vocabulaire est approximatif mais il résonne clairement dans nos campagnes.
      Des approximations concurrentielles

      La première réunion publique avec des membres du RN s’est tenue la veille d’un conseil municipal, le 22 février dernier. Dans cette ambiance alarmiste le véritable sujet n’est pas abordé – le fait que la municipalité doit se conformer aux lois de la République et au droit d’asile. Au cours de cette réunion, aucune allusion non plus au cas d’Uzerche, un peu plus à l’Est, où un autre Cada a donné des résultats très satisfaisants en termes d’intégration ou de projets de vie. Un couple de Syrien vient d’ailleurs d’ouvrir un kebab à Pompadour : de la petite restauration, peu chère, dans un climat amical. Sur place, tout s’est passé au mieux grâce à l’implication du maire PCF Jean-Paul Grador. La municipalité s’était portée volontaire pour accueillir un centre d’accueil. La population n’a émis aucun cri.

      https://i.imgur.com/UTuurep.png

      A Beyssenac, une folle machine s’est emballée. L’extrême-droite ayant produit une bouillie de communiqués sur un terrain favorable, le conseil municipal vote une motion contre l’installation du centre d’accueil. C’est encore hors sujet mais le maire suit. Cette motion pose une série de questions sur le service proposé par le Cada, auxquelles Francis Comby ne donne pas de réponse. Il n’a pas travaillé.

      L’édile, acculé, se défend maladroitement contre ses propres électeurs qui l’accusent d’avoir donné son accord pour l’ouverture du centre. « J’ai demandé plusieurs fois depuis trois semaines à Monsieur le Préfet de Corrèze de tenir une réunion d’information à Beyssenac, écrit-il dans une lettre. À ce jour, je n’ai toujours pas reçu une lettre, un mail, ou un mot officiel à la mairie. » Cette molle et peu convaincante tentative de prise de contact d’une part, et la discrétion du préfet, c’est vrai, de l’autre, fermentent un pain béni pour le RN et Reconquête !, qui mènent le bal de la communication entre autres omissions épistolaires. Piégé par ses propres manquements, Francis Comby n’aura cessé de se justifier, en dénonçant les manques de l’État, du préfet, de Viltaïs, sans jamais questionner la présence de l’extrême-droite dans et hors sa mairie, qui d’ordinaire est plutôt adepte du chuchotement privé.

      Il se regarde marcher

      Ce manque cruel de clarté n’est pas passé inaperçu aux yeux de tous. Une habitante de Beyssenac (dont le nom ne sera sciemment pas cité) se désole de l’absence de position claire de son maire, qui se fait balader par son conseil municipal lui-même sous l’emprise de fausses informations, et qui ignore les lois encadrant le droit d’asile. « Il est maire ? Mais c’est le conseil municipal qui l’a désigné. Son nom a souvent été barré sur la liste unique, il n’apparaissait pas en tête. Francis Comby, il se regarde marcher. Mais il est élu au département, a fait des études de pharmacie… »

      Dans ces campagnes, le notable est censé connaître l’administration, le droit, la Constitution, en tirer avantage. On s’en remet à lui et patatras !
      Le nationalisme d’opérette

      Les choses empirent. Viltaïs prudente, le préfet jouant la montre, l’Action française se met à son tour en scène devant la mairie de Beyssenac. Le 27 février, une quinzaine de jeunes activistes identitaires plus que monarchistes, cagoulés, casques de moto en main, hurlent des slogans xénophobes. Devant eux un cordon de police. Un gendarme explique qu’ils ont l’autorisation de la mairie pour manifester une heure.

      https://i.imgur.com/rtJVtCO.png

      Ces militants viennent de Limoges, à plus de 60 kilomètres de là. Derrière le cordon de policiers, peu d’habitants du village mais plutôt des communes limitrophes, une petite centaine de partisans de formations de gauche, humanitaires et un petit groupe d’anarchistes se positionnent. Ils sont beaucoup plus nombreux. Dans la petite foule, il y a même des étrangers, tiens : des Britanniques venus dire leur incompréhension devant le spectacle de ce nationalisme d’opérette qui, lui aussi, se manifeste par des phrases sans aucun sens.

      « Ils vont prendre notre boulot », entend-on alors que les demandeurs d’asile n’en ont pas le droit tant que l’OFPRA n’a pas statué sur leur cas, ou passé un délai de six mois – s’il ne l’a pas fait. Par ailleurs, la cueillette des pommes oblige chaque automne les agriculteurs locaux à faire venir par bus entiers une main d’œuvre étrangère. Mais, dans ce cas, cela est nécessaire. Car dans ces campagnes, autre non-dit, beaucoup de jeunes touchent des allocations et évitent les travaux pénibles. Parmi eux, le sentiment de jalousie perle. Le fait que le Cada soit installé dans un ancien Logis de France avec piscine et aire de jeux pour enfants a l’air d’agacer.

      Revoir ça à Beyssenac

      Francis Comby observe la scène de son jardin, pendant qu’une vieille dame, la larme à l’œil, glisse ce commentaire : « Et ce sont les mêmes qui déposent des gerbes devant les monuments aux morts ou à la Résistance… » Le premier magistrat, lui, se plaint de la division et du désordre crée par cette foutue Cada. Un axe qu’il reprendra devant les médias, dénonçant bien évidemment l’action de « l’ultra-gauche » après le face-à-face du samedi 25 février avec l’Action française. « Je ne veux plus revoir ça à Beyssenac ! En plus, je n’ai pas d’informations, ni de la préfecture, ni de l’association Viltaïs sur ce projet. »

      Le mantra de Francis Comby se heurte surtout au fait qu’il consent à ce que l’extrême-droite s’exprime librement devant chez lui ou l’auberge de La Mandrie. Ailleurs en France, d’autres élus ont eu le courage de contredire ces idées préconçues et même interdire à l’extrême-droite d’utiliser pour faire sa pub un symbole de la République. Francis Comby ne s’exprimera jamais sur le chaos et la sidération que seule la propagande a créés.

      Il en connaît pourtant les principaux agents. Certains de ses administrés témoignent clairement avoir peur de représailles à se déclarer sans opinion ou favorables au Cada. Et le maire se dit lui-même « menacé de mort. » Mais le 8 mars une autre réunion publique avec des membres du RN se tiendra à nouveau dans le village. Dans La Montagne, Francis Comby se défend encore à propos de ces deux réunions du Rassemblement national tenues dans la salle polyvalente de Beyssenac : « Elle est à la disposition de tous ceux qui en ont besoin. »

      En sillonnant par les champs, en rencontrant et discutant avec les habitants, les réactions sont très diverses. On n’est pas unanimement contre le Cada mais le sujet effraie. Pas sur le fond, personne n’en sait grand-chose, mais le climat importé par l’extrême-droite. La plupart des Beyssenacois voudrait simplement savoir comment cela fonctionne et qui sont ceux qui prétendent au droit d’asile. Des anciens sont touchés par le fait que La Mandrie fut jadis l’école du village.

      On va vous fusiller !

      Entre ceux qui se taisent, ceux que cela ne gêne pas et ceux qui connaissent les membres de « Sauvons Beyssenac ! », des jeunes ou des vieux fermiers sont désemparés. « Ils vont tuer les moutons. » Un jeune éleveur de chèvres, membre du collectif précité, justifie son courroux par une confidence de son agent immobilier : il lui a dit que sa ferme avait perdu 30% de son prix de vente. Comptait-il la vendre et abandonner le terrain, qu’il dit vouloir défendre ? Mystère. Face à l’insistance d’un petit groupe - des locaux venus de villages à proximité pour compenser l’inertie du maire, pour qu’il comprenne d’où viennent les gens qui arrivent au Cada et leur situation objective -, le jeune exploitant explose : « Chacun chez soi, et ce sera très bien. Partez ! Maintenant. Moi, s’il y avait la guerre chez moi, je me battrais, vous, vous partiriez ? On va vous fusiller ! »

      À Beyssenac, la conclusion du tour du village effectué par des militants de gauche ou des Droits de l’homme dément que la majorité des habitants s’oppose au Cada. Ils ont formé un collectif pour démontrer que, non, comme l’affirment les banderoles tendues par un pomiculteur devant La Mandrie, la majorité des habitants ne sont pas contre l’ouverture. Mais Facebook et les autres réseaux l’ont fait croire. Et ceux qui l’ont cru ont désormais peur.

      Le 16 mars dernier, la visite tardive du préfet de Corrèze a confirmé un racisme latent chez certains - « les Ukrainiens, ce n’est pas pareil », a-t-on entendu dans la salle de réunion - mais aussi le soutien de locaux dénonçant cette distinction.

      La stratégie de Viltaïs (avancer à pas feutré, prudence légitime) et l’incapacité du maire de Beyssenac à dépasser son propre ego ont facilité le travail de l’extrême-droite. Francis Comby persistera en instituant sous la pression de son conseil municipal un droit de préemption urbain sur le lieu-dit « Les Garennes », à l’endroit où se trouve le centre d’accueil pour demandeurs d’asiles. Sans aucune chance d’aboutir : un mois plus tard, le 25 avril, le tribunal administratif saisi par la préfecture a annulé son arrêté, contraire au droit.

      En réalité, ces errements d’élus locaux correspondent à la posture actuelle de la frange droitière des Républicains et d’une formation sans repères. À vouloir composer avec l’extrême-droite, en flirtant avec ses idées pour conserver des sièges, le risque est grand d’être débordé. Surtout quand on n’a soi-même pas d’idées.

      De quoi a-t-on peur au juste à Beyssenac ? Aujourd’hui, de son voisin. L’extrême-droite est parvenue à instiller la méfiance et la défiance des habitants les uns contre les autres, sur leurs pensées, leurs opinions, leurs libertés. Localement, la mécanique propagandiste de la droite dure a révélé que les élus et les principaux acteurs de cette agitation agressive ne sont pas étrangers les uns aux autres. Liés par les intérêts d’une politique locale souvent opaque, ils se sont habitués à composer ensemble pour exister. En creux, cette sinistre histoire a mis à jour les liens créés par la micro-économie du cheval, seul produit d’appel pour faire connaître ce recoin de France et à travers lequel ceux-là fabriquent leur réputation.

      Beyssenac est désormais identifié comme un de ces villages d’une France rurale où l’extrême-droite peut semer le désordre quand elle le désire, faisant passer des exilés pour une menace pour la survie des rites tribaux du « Pays vert ».

      Le 11 mars dernier, les sept premiers demandeurs d’asile accueillis à l’auberge de La Mandrie se sont installés sous protection de la gendarmerie. Six femmes et un bébé. L’une d’elles s’appelle Doris, elle a confié à La Montagne demander la protection de la France. Parce que « c’est un pays de lois. »

      https://www.blast-info.fr/articles/2023/demandeurs-dasile-a-beyssenac-la-mecanique-du-mensonge-au-service-de-lext

  • Manifestation à Paris du 4 mars 2023 contre la loi Darmanin

    Partant de Château Rouge, le cortège a remonté les quartiers populaires du 18e arrondissement jusqu’à la Porte de la Chapelle. Nous sommes passés devant le futur site olympique « Arena », notoirement connu, comme d’autres chantiers des jeux de 2024, pour employer des travailleurs sans papiers.

    Nous avons ensuite emprunté les maréchaux par le Boulevard Ney, en nous arrêtant devant le bâtiment de la Poste. Un porte-parole a dénoncé la responsabilité en cascade de cette entreprise dans l’emploi de travailleurs sans papier par l’intermédiaire de ses filiales DPD et Chronopost, ces dernières faisant elles-mêmes appel à des sous-traitants.

    D’autres prises de paroles se sont succédé, à la fin de la manifestation, au niveau de la Porte d’Aubervilliers.

    Prochaine échéance, partout en France : samedi 25 mars 2023

    https://blogs.mediapart.fr/uni-es-contre-limmigration-jetable/blog

    https://www.geo.fr/geopolitique/sur-les-chantiers-des-jeux-olympiques-de-paris-2024-le-tabou-des-travailleurs-sa

    https://solidaires.org/sinformer-et-agir/actualites-et-mobilisations/communiques/greve-des-travailleurs-sans-papiers-de-dpd-et-chronopost

    #loi_Darmanin #CRA #Centre_de_rétention_administrative #sans_papier #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #IRTF #interdiction_de_retour_sur_le_territoire_français #Arena #jeux_olympiques #la_Poste #Chronopost

  • À #Saint-Brévin, la solidarité avec les réfugiés triomphe des fauteurs de haine

    L’#extrême_droite, qui souffle le vent raciste pour récolter la tempête identitaire, a échoué, samedi 25 février, à #Saint-Brévin-les-Pins. Sa tentative de rameuter contre un #centre_d’accueil pour demandeurs d’asile a fait #flop, face à la #mobilisation antifasciste.

    Nous voilà posté du mauvais côté, en ce samedi 25 février après-midi : derrière un cordon de CRS protégeant une centaine de manifestants d’extrême droite, plantés entre l’église et la mairie de Saint-Brévin, pour s’opposer, en toute turpitude tapageuse, à l’implantation d’un centre d’accueil de demandeurs d’asile (#Cada) dans la ville.

    Semeurs de zizanie xénophobe, ils espèrent tirer profit de leur fait d’arme qui les galvanise : avoir obtenu, en janvier dernier, qu’un projet d’accueil de quelques familles de réfugiés fût abandonné, à Callac, village à une vingtaine de kilomètres de Guingamp, dans les Côtes d’Armor. Rebelote à Saint-Brévin ? Tel est leur fâcheux espoir.

    Face aux CRS, des protestataires antifascistes conspuent le rassemblement raciste ; tout en prônant le droit des exilés fuyant les guerres et les dictatures à trouver refuge en France. « Solidarité ! », s’époumone une voix féminine, devant nous. Derrière nous, un butor issu des rangs nazillons vocifère : « Parle plus fort, on t’entend pas, sale pute ! »

    Alors, les CRS se boyautent bruyamment. « J’ai cru que c’était un collègue », lâche avec une ingénuité confondante un jeune fonctionnaire des forces de l’ordre.

    Peu auparavant, de jeunes antifas confusionnistes, dissimulés par des masques sanitaires et des bonnets jusqu’aux sourcils, nous avaient fait passer un sale quart d’heure : au prétexte que nous sommes journaliste, donc forcément vendu à tous les pouvoirs – même, et pourquoi pas surtout, en travaillant à Mediapart.

    Un vieux paysan libertaire nous tira d’une telle agressivité inféconde, laissant ses camarades à leurs réflexes pavloviens, pour désigner, d’un geste large, la flicaille casquée, suréquipée, sur le pied de guerre civile : « Les CRS sont là d’abord et avant tout contre nous, plutôt que pour contenir les fachos. Ceux-ci ont droit à toute leur sympathie. »

    Le meeting identitaire bat son vide, en un concours fort riquiqui de quidams caricaturaux, ligués devant l’hôtel de ville de Saint-Brévin-les-Pins. Une voix s’élève du microphone : « Les forces de l’ordre font un travail exceptionnel pour qu’on puisse s’exprimer. Et on remercie aussi le service d’ordre de l’Action française ! »

    Un représentant local du parti de Marine Le Pen prend la parole : « Le Rassemblement national s’est désolidarisé de la manifestation mais pas de notre combat – la preuve c’est que je suis parmi vous. Le Cada auquel nous nous opposons, en plus d’être à côté d’une école, ne sera pas loin d’un camping où des grands-parents accueillent l’été leurs petits-enfants. Qu’arrivera-t-il aux jeunes filles qui déambulent en maillot de bain ? Pas besoin de faire un dessin. »

    Des cataractes de propos vipérins et anxiogènes submergent la place de la mairie tout l’après-midi : « L’Afrique, c’est ici et maintenant à Saint-Brévin. […] Implantation d’une boucherie halal, qui va vite se transformer en mosquée gérée par les Frères musulmans. […] L’insécurité tout court. […] Non-assistance à personnes en danger. »

    Un furieux de Reconquête, la faction factieuse d’Éric Zemmour, est venu d’Île-de-France : « Non à la répartition de l’immigration dans les campagnes françaises ! Les bonnes âmes gauchistes, la charité en bandoulière avec l’argent des autres, qu’ils [sic] les prennent chez eux dans leur maison, dans leur appartement, au lieu de les inciter à mourir en Méditerranée. Ce sont des irresponsables sans aucune humanité. Ils veulent déraciner les peuples africains – accueillis, régularisés, naturalisés. Et ce, pendant que les Français, de plus en plus pauvres, vivent dans leur voiture. Qui paie pour les migrants ? C’est vous ! »

    Le Monsieur Loyal du moment fustige « l’indécence des journalistes de gauche qui osent se plaindre au moindre coup de téléphone menaçant », puis passe le microphone à sa femme. Celle-ci, sous quelques sifflets, avoue avoir commencé à militer au Parti socialiste. Puis ce fut Chevènement. Puis enfin, là où elle est aujourd’hui : « Ce qu’on appelle l’extrême droite, c’est simplement le peuple français ! »

    La foule clairsemée s’époumonne : « On est chez nous ! Ensemble, ensemble, on va gagner ! » Le flot des propos se déverse : « Projet mondialiste de Macron, de Mélenchon et de toutes les ordures. […] Idéologie mortifère. Ils s’attaquent à nos clochers et même aux statues de l’île de Ré. […] Délinquance étrangère désaxée. […] La loi “Asile immigration” va accélérer la politique de peuplement de nos territoires par des populations subsahariennes. » Etc., etc.

    Ce matin-là, dans l’espoir d’être plus nombreux – et il l’aura été dix fois plus –, le peuple de gauche occupait le terrain à Saint-Brévin. Une minorité voulait donc en remontrer à l’extrême droite, au point de lui réserver un comité d’accueil d’une hostilité légitime et sérieuse en s’attardant sur place l’après-midi. L’immense majorité, obéissant à l’appel au calme et à la soif de tranquillité des vieilles troupes humanistes, décampa sur le coup de midi.

    Non sans avoir réussi, en rassemblant presque 900 personnes, une démonstration de force tranquille. Même si toutes les prises de parole transpirent l’inquiétude défensive, face à un fond de l’air bien plus brun que rouge.

    François Prochasson, conseiller municipal de Nantes, rappelle les récentes exactions commises par l’extrême droite dans sa ville contre un squat et contre une association d’aide aux migrants : « Les valeurs d’accueil et d’hospitalité sont menacées. »

    Jérôme Alemany, conseiller départemental de Loire-Atlantique chargé de l’insertion et de la lutte contre l’exclusion, rappelle que la « terre de rencontres, d’échanges et d’accueil » qu’il représente voit ses valeurs défendues « par une traduction juridique : la Convention de Genève, qui protège les réfugiés. C’est une obligation internationale mais il en va aussi de notre honneur et de notre humanité, à laquelle nous n’entendons pas renoncer. »

    Le député européen Damien Carême prône un « accueil inconditionnel » qui ne soit pas limité aux Ukrainiens, qui ne trie pas en fonction « de la couleur de peau ou de la religion », sur un Vieux Continent tenté de se faire forteresse.

    Andy Kerbrat, élu La France insoumise (LFI) de Nantes à l’Assemblée nationale, évoque la haine antimigrants des parlementaires d’extrême droite auxquels il se heurte, mais auxquels le gouvernement donne des gages avec la loi dite « Asile immigration » concoctée par Gérald Darmanin.

    Toutes les interventions antiracistes semblent graves et parfois sépulcrales. Elles appellent non seulement à se ressaisir mais à inventer de nouvelles formes de lutte, pour ne point laisser le terrain à l’ultradroite identitaire et raciste, qui croit pouvoir imprimer la cadence en toute impunité.

    L’espérance ne saurait être en berne plus que de raison. La manifestation montre qu’il est possible de porter un coup d’arrêt à l’extrême droite. Celle-ci fait un four aussi patent qu’humiliant. Et les jeunes pousses d’une gauche qui ne s’en laisse plus conter irradient, au bon sens du verbe, la confiance en l’avenir.

    Un couple de militants à peine trentenaires, membres de LFI tout en souhaitant ardemment la relève et l’après-Mélenchon, évoque la richesse des réseaux qui se nouent et fermentent, entre Nantes et Rennes. Entendez-vous dans nos campagnes…

    Laurence Goubet, de l’association Les Bouillonnantes, nous détaille les modalités du RFF (Refugee Food Festival), qui se tient dans une douzaine de villes de France autour du 20 juin, à l’occasion de la Journée mondiale des réfugiés.

    Antoine de Clerck, engagé au service des autres « depuis les scouts de France », nous parle de l’appel pour l’organisation d’une Convention citoyenne sur la migration, inspirée de la Convention sur le climat. Sa complice sur le sujet, Vanessa Krycève, aura du reste imposé, l’air de rien, l’une des interventions les plus émouvantes et revigorantes de cette matinée. Ainsi fut préempté, samedi 25 février 2023, le centre de #Saint-Brévin-les-Pins, au détriment d’une coalition des préjugés racistes heureusement réduite à la portion congrue.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/260223/saint-brevin-la-solidarite-avec-les-refugies-triomphe-des-fauteurs-de-hain
    #réfugiés #anti-réfugiés #solidarité #asile #migrations #résistance #antifascisme #hébergement #France

    via @karine4

    • C’était en 2016 (signalé par @karine4)...
      Loire-Atlantique : Des coups de feu contre le futur centre d’accueil de migrants à Saint-Brévin

      La tension ne redescend pas. Alors que se divise sur le futur accueil de 70 migrants venus de Calais, des coups de feu ont été tirés mardi soir sur devant les accueillir. Une enquête a été ouverte, a-t-on appris mercredi auprès des gendarmes.

      Les tirs ont eu lieu vers 20h35 contre le centre de vacances EDF choisi par l’Etat pour héberger ces migrants, ont indiqué les gendarmes, sans donner plus de précision. Aucune interpellation n’avait été effectuée mercredi soir.
      Un réunion publique organisée par les opposants

      « Cet acte est inadmissible et irresponsable », s’est ému le maire divers droite de Saint-Brévin, Yannick Haury. Le 17 septembre, à l’arrivée de 70 migrants étaient descendus dans la rue et s’étaient lancé « quelques invectives », lors de deux manifestations qui s’étaient déroulées sans incident notable, avait alors indiqué la préfecture de Loire-Atlantique.

      « Il y a quelques personnes qui entretiennent ce climat, mais la majorité des Brévinois (...) souhaite que cet accueil de personnes réfugiées puisse se faire dans les meilleures conditions », a déclaré Yannick Haury.

      Le collectif des a décidé la semaine dernière d’organiser lui-même une « réunion publique d’information », ce samedi. Dans un communiqué, il condamne « fermement » les coups de feu. « L’imposition de migrants dans notre commune, sans aucune concertation, sans aucune information, sans demander l’avis des Brévinois est également une violence qu’il convient de condamner », ajoute la déclaration.
      Soutien de la CGT

      Dans un communiqué, la CGT a « condamné avec la plus grande fermeté cette lâche tentative d’intimidation », et apporté son « soutien total à la CCAS, à ses élus et aux salariés de la Caisse centrale des activités sociales des personnels des industries électriques et gazières ».

      https://www.20minutes.fr/nantes/1937239-20161006-loire-atlantique-coups-feu-contre-futur-centre-accueil-mi

    • Solidaires avec le maire de Saint-Brevin-les-Pins

      Nous, élu·es de l’ANVITA, membres d’ONG, d’associations et de syndicats, tenons à apporter notre soutien sans faille à M. Yannick Morez, maire de Saint-Brevin-les-Pins, suite à l’annonce de sa démission, poussée par les menaces et violences de l’extrême droite qui l’ont visé personnellement en mars dernier.

      Une situation intolérable

      La situation à Saint-Brevin est extrêmement grave : il est intolérable qu’un·e élu·e de la République soit menacé·e de mort, son intégrité physique mise en danger, et qu’il soit ainsi contraint de renoncer à son mandat et de quitter sa ville. Combien de temps le gouvernement va-t-il encore fermer les yeux sur les agissements des groupuscules d’extrême-droite radicaux passant à l’action ? Doit-on renoncer à une société ouverte et accueillante devant les mobilisations haineuses d’une minorité qui empoisonnent nos territoires ?

      Nous, élu·es de l’ANVITA, membres d’ONG, d’associations et de syndicats, refusons de nous laisser dicter par l’extrême droite les orientations politiques que nous devons suivre. Nous œuvrons pour l’intérêt général au sein du pays, de nos territoires. Accueillir et porter des projets d’hospitalité est non seulement une chance pour nos collectivités : c’est un devoir moral et une obligation légale. Nous ne céderons jamais sur cet engagement.

      La réaction de l’Etat

      Nous nous questionnons également sur le retard voire l’absence de réactions et de soutiens de la part des représentant·es de l’État et du gouvernement. Yannick Morez le dénonçait lui-même dans l’émission Envoyé Spécial en avril dernier. Face à Élise Lucet, il disait ressentir : « Un abandon, en quelque sorte ».

      En tant qu’élu·es de la République et membres d’ONG, d’associations et de syndicats, nous considérons intolérable que l’État et le gouvernement abandonnent des élu·es et porteur·ses de projet confronté·es à de telles violences ! L’État doit sortir de sa posture ambivalente qui impose des projets d’une main et refuse de les défendre de l’autre ; il a le devoir de réagir avec la plus grande rapidité et fermeté lorsqu’un·e élu·e est menacé·e. À Saint-Brevin-les-Pins, ce ne sont pas seulement l’accueil et la solidarité qui ont été attaqués : c’est la démocratie et la République !

      Les collectivités et élu·es membres de l’ANVITA, les ONG, les associations et les syndicats signataires renouvellent leur engagement de rester mobilisé·es et vigilant·es à toute situation similaire. Nous apporterons notre soutien systématique et indéfectible à tout·e élu·e, toute collectivité, tout porteur·se de projet d’hospitalité visé·e. Nous affirmons qu’il est indispensable de ne plus rien céder à l’extrême droite.

      M. le Maire, bravo et merci pour votre engagement. Votre combat en faveur de l’accueil, d’une société solidaire et ouverte est le nôtre.

      https://www.gisti.org/spip.php?article7017

  • Le 18 février 2023 nous avons manifesté contre la loi Darmanin et contre la construction, le maintien et la modernisation des Centres de Rétention Administrative (CRA). À Paris, le cortège est parti de la Porte Dorée jusqu’au niveau du CRA de Vincennes (à plusieurs centaines de mètres). La préfecture avait interdit, le matin même, le parcours jusqu’au CRA. Nous avons traversé le bois de Vincennes et son quartier résidentiel, bien bourgeois. Un manifestant a été interpellé après avoir régulé la circulation pour la manifestation.


    https://antiracisme-solidarite.org
    https://abaslescra.noblogs.org/contre-la-loi-darmanin-les-centres-de-retention-manifestation-le
    https://blogs.mediapart.fr/1528952/blog/130223/tract-et-visuels-ucij-pour-impression-et-communication-sur-les-resea

    Prochaine échéance, le samedi 4 mars partout en France

    #loi_Darmanin #CRA #Centre_de_rétention_administrative #sans_papier #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #IRTF #interdiction_de_retour_sur_le_territoire_français

  • « Programme B », « Travail (en cours) »… Les podcasts de la semaine
    https://www.nouvelobs.com/teleobs/20230121.OBS68583/programme-b-travail-en-cours-les-podcasts-de-la-semaine.html

    TéléObs attire votre attention sur des émissions à découvrir ou à réécouter. Cette semaine, « Les Sans-dents, une histoire politique du sourire » par Hélène Goutany et « Une vie sans travail est-elle possible ? » par Marion Bothorel.

    « Les Sans-dents, une histoire politique du sourire » par Hélène Goutany

    Ancienne ministre, Marie-George Buffet se souvient de la gêne d’avoir été photographiée lors d’un débat public alors qu’elle portait une dentition provisoire : « J’avais le sentiment, parce que cela touche à l’intime, qu’il ne fallait pas que cela se voit. Refaire ses dents, c’est un peu reconnaître qu’on a mal géré ses affaires. » Alors que les politiques sont les premiers à modifier leur sourire (François Mitterrand s’est fait limer des canines trop agressives), les « sans-dents » - l’expression de Jean de La Fontaine, remise au goût du jour, à ses dépens, par François Hollande en 2016 - portent sur leur visage la culpabilité de ceux à qui l’on reproche de ne pas faire assez pour s’en sortir.

    Seuls 43 % des Français consultent un dentiste contre 71 % de la population allemande ou anglaise. Premier poste de #soins auquel on renonce dans la #précarité, les dents attirent le cynisme mercantile des centres low cost comme Dentexia qui a fini par fermer ses portes après avoir arnaqué 3 000 personnes. Certains, comme Jérémie Bazart, qui sillonne la Seine-Saint-Denis avec son bus dentaire, sauvent l’honneur de la profession. A.S.

    https://www.binge.audio/podcast/programme-b/les-sans-dents-une-histoire-politique-du-sourire

    #podcast #violence_sociale #centre_dentaires #sans_dents

  • "On nous a abandonnés dans le désert à 2h du matin" : le calvaire des migrants refoulés de l’Algérie vers le Niger

    Chaque année, l’Algérie expulse des milliers d’Africains subsahariens vers le Niger, abandonnant les migrants non-nigériens au lieu dit Point-Zéro, qui marque la frontière entre les deux pays en plein Sahara. Le village nigérien d’#Assamaka, à plusieurs heures de #marche au sud, est aujourd’hui débordé par ces vagues de refoulements successives. Reportage.

    Quinze kilomètres de marche dans le Sahara avec un pied cassé. Les efforts pour soulever les béquilles qui s’enfoncent trop profondément lors des franchissements de dune, tandis que les grains de sable s’infiltrent dans les pansements à chaque pas, pendant des heures et des heures. C’est ce qu’ont enduré Alpha Mohamed et Houssain Ba début novembre lorsque ces deux jeunes Guinéens ont été abandonnés au #Point-Zéro, qui marque la frontière entre l’Algérie et le Niger.

    Un lieu inhospitalier avec du sable à perte de vue, où les autorités algériennes ont refoulé des dizaines de milliers d’Africains subsahariens ces dernières années.

    « On nous a abandonnés à Point-Zéro à 2h du matin et nous avons dû marcher avec nos béquilles pendant des heures. Nous ne sommes arrivés à Assamaka qu’à 11h du matin », confie Alpha Mohamed à InfoMigrants.

    Les deux amis de 18 ans sont alors loin d’être seuls. Autour d’eux, plus de 600 Maliens, Guinéens, Ivoiriens, Soudanais, Nigérians et Sénégalais errent hagards, la peau du visage recouverte par la poussière ocre du Sahara, les yeux plissés vers les quelques lumières scintillant à 15 kilomètres un peu plus au sud.

     Une armée de l’ombre composée d’ouvriers, de serveurs, de boulangers - les petites mains qui contribuent à faire tourner l’économie algérienne. Certains ont encore les bottes de chantier qu’ils portaient lorsque les autorités les ont arrêtés sur leur lieu de travail. Tous ont été brutalement arrachés à leur quotidien, alors qu’ils étaient chez eux au réveil, dans un restaurant pendant un repas, lors d’une quelconque sortie en ville, ou au travail.

    C’est le cas de Alpha et Houssain, qui ont été arrêtés sur le chantier d’un immeuble à Oran, où ils travaillaient comme manoeuvres. « Les policiers sont arrivés à 9h du matin et tous les ouvriers noirs se sont aussitôt enfuis. Nous, on a essayé de partir en montant dans les étages mais un policier nous a rattrapés. Il nous a bousculés exprès et nous sommes tombés : c’est comme ça qu’on s’est cassé le pied », se remémore Alpha.

    Après un passage express dans un hôpital oranais, les deux jeunes Guinéens sont déportés vers le centre de refoulement de #Tamanrasset, à 1 900 kilomètres de route au sud d’Alger. Les migrants qui s’y trouvent ont été complètement dépouillés de leurs maigres biens : téléphones portables, argent liquide, passeports, bijoux... Entassés dans des bétaillères, les migrants sont ensuite abandonnés au Point-Zéro. Pour Alger, c’est la fin de l’opération appelée sobrement « #reconduite_à_la_frontière ».

    Pour Alpha et Houssain, c’est juste le début du calvaire. Après des heures de marche dans le sable, balayé sans répit par l’Harmattan - un vent du Sahara en provenance du Nord-Est qui vous glace les os pendant la nuit - les deux jeunes passent à proximité du lieu-dit La Dune. Situé à trois kilomètres au nord d’Assamaka, c’est le premier endroit où certains des migrants les plus fatigués décident de passer la nuit, dans un décor post-apocalyptique. Le soleil levant découpe les silhouettes des carcasses de voitures, des pneus à demi-enterrés, et des vieux bidons de gasoil utilisés pour délimiter les territoires des cabanes des mécaniciens et commerçants de carburants qui peuplent les lieux.

    Les Guinéens ont eux continué directement leur chemin jusqu’au centre d’enregistrement des autorités nigériennes, avant de se présenter au #centre_de_transit de l’Organisation internationale des migrations (#OIM), le bras de l’ONU qui assiste les retours volontaires des migrants vers leur pays d’origine.

    Des autorités débordées par l’afflux des expulsés

    L’arrivée à Assamaka marque pour les refoulés d’Algérie le début d’une longue attente. La multiplication des vagues d’expulsion conjuguée au ralentissement des #rapatriements a fait gonfler le nombre de migrants sur place à près de 3 000 individus - plus du double de la population initiale d’Assamaka. Alpha et Houssain ont pu s’installer à l’intérieur du camp de transit de l’OIM - dont la capacité maximale est de 1 000 personnes - mais la grande majorité des migrants dort à la belle étoile, s’abritant comme ils peuvent dans des hangars ouverts. Leur patience est mise à rude épreuve.

    « Cela fait deux mois qu’on nous dit qu’on va partir bientôt ! », s’exclame Seyni Diallo, un jeune Sénégalais expulsé après un séjour de six mois en Algérie. « On manque de nourriture et de couvertures, c’est vraiment dur de dormir dehors ici, les nuits sont très fraîches », renchérit Sagma Kaboré, originaire du Burkina Faso.

    La #promiscuité de 3 000 migrants dans ces conditions donne des sueurs froides à plusieurs ONG. « On craint une véritable crise humanitaire à Assamaka si cette situation se prolonge. Une épidémie d’ampleur peut se déclarer très rapidement si une personne a la rougeole, la méningite ou le covid, », affirme Diabry Talaré, coordinatrice de Médecins sans frontières (MSF) à Agadez. L’isolement géographique d’Assamaka renforce les difficultés, à la fois pour la logistique humanitaire et pour la vie quotidienne des migrants qui y sont bloqués.

    Assamaka, un îlot surpeuplé isolé dans le désert

    Assamaka est une bourgade si isolée qu’elle donne l’impression d’un îlot surpeuplé perdu au milieu d’une mer de sable. Les pistes défoncées qui mènent à Arlit puis Agadez pullulent de bandits coupeurs de route. De simples voyageurs sont régulièrement braqués par ces pirates des sables - un 4x4 utilisé comme ambulance a même été intercepté et volé sur la route menant d’Assamaka à Arlit.

     L’#isolement est également marquant sur le plan des télécommunications. La plupart des réseaux téléphoniques nigériens ne fonctionnent pas à Assamaka. Au centre du village, on remarque ainsi quelques échoppes avec de drôles d’antennes improvisées - de longues tiges de bois d’environ six mètres de haut, d’où pendouille une demi-bouteille en plastique contenant un téléphone avec une carte SIM algérienne. C’est le principal moyen de se connecter à Internet.

    Mais pour beaucoup de migrants expulsés d’Algérie sans argent ni téléphone, il est quasiment impossible de contacter leurs proches durant leurs longues semaines d’attente.

    « Certains migrants ont passé deux ou trois mois sans nouvelles de leur famille, c’est une inquiétude permanente qui a un impact sur la santé mentale », explique Mahamadou Toidou, chargé des consultations psychologiques pour MSF à Assamaka. « Il y a des cas comme ce jeune Guinéen, qui a été arrêté dans la rue par les policiers algériens, alors que sa femme enceinte de deux mois et demi était à la maison. Depuis son expulsion il n’a pas pu la contacter, il s’isole dans son coin et pense tout le temps à ça... Il souffre énormément dès qu’il voit une femme avec son enfant », ajoute le psychologue.

    Opérations de « #ratissage » dans le désert

    Le fait que les autorités algériennes procèdent à ces #refoulements sans aucune coordination avec les autorités nigériennes a parfois des conséquences dramatiques. Une trentaine de corps sans vie ont été retrouvés au nord d’Assamaka depuis 2020. Pour éviter que des migrants se perdent et s’épuisent dans le désert, des équipes de l’OIM et de MSF lancent des opérations de ratissage lorsqu’un « #convoi_piéton » est signalé. Des 4x4 s’élancent alors vers le Point-Zéro à la recherche de personnes perdues ou trop fatiguées pour avancer.

    Ils sont rejoints depuis juillet dernier par une équipe d’Alarme Phone Sahara (APS), une organisation humanitaire nigérienne qui dispose d’un tricycle tout-terrain pour aller porter secours aux migrants égarés.

    « Je ne pouvais plus supporter de voir ces pauvres gens dans cette situation », confie Ibrahim François, un membre de l’équipe d’APS qui participe régulièrement aux opérations de ratissage. « Maintenant que les nuits sont froides, les Algériens refoulent toujours les migrants vers 2 ou 3h du matin. C’est fait exprès pour qu’ils se mettent en route pour chercher un abri, et qu’ils ne restent pas sur place », affirme t-il.

    L’éprouvante marche forcée dans le désert vécue par les deux jeunes Guinéens blessés reste marquée au fer rouge dans leur esprit. « On nous a traités comme des animaux en Algérie, on ne veut plus jamais y retourner », affirme Houssain Ba. « Maintenant on veut enfin pouvoir quitter Assamaka et rentrer chez nous. »

    L’expression « convois piétons » au Niger fait référence aux personnes refoulées d’Algérie qui sont non-nigériennes et que les autorités algériennes abandonnent au Point-Zero, à 15 km d’Assamaka. Les migrants nigériens sont refoulés lors de « convois officiels » qui ont fait l’objet d’un accord entre l’Algérie et le Niger en 2014. Les camions des convois officiels sont opérés par le Croissant Rouge algérien, qui transportent directement les expulsés jusqu’à la ville d’Agadez. Pour donner un ordre de grandeur, le « convoi piéton » du 1er novembre comptait 634 individus tandis que le « convoi officiel » du 3 novembre comptait 840 personnes (dont quelques non-Nigériens). Les 3 000 migrants actuellement à Assamaka sont les reliquats des vagues successives de « convois piétons ».

    #asile #migrations #réfugiés #abandon #expulsions #renvois #déportation #désert #Algérie #Niger #Sahara #désert_du_Sahara
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    Ajouté à la métaliste des « #left-to-die in the Sahara desert »
    https://seenthis.net/messages/796051

    via @rhoumour

  • Que prévoit la #France pour les 230 migrants de l’#Ocean_Viking ?

    Les migrants arrivés vendredi à #Toulon font l’objet d’un suivi sanitaire, et de contrôles de sécurité, avant d’être entendus par l’#Ofpra dans le cadre d’une #procédure_d’asile à la frontière. Pendant tout ce temps, ils sont maintenus dans une « #zone_d'attente ». Des associations dénoncent ces conditions d’accueil.

    Si les 230 migrants sauvés par l’Ocean Viking ont bien débarqué en France, vendredi 11 novembre, dans le port de Toulon (http://www.infomigrants.net/fr/post/44677/locean-viking-et-ses-230-migrants-accostent-a-toulon-en-france), ils ne se trouvent « pas techniquement sur le sol français », comme l’a indiqué le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin.

    En effet, les autorités françaises ont choisi de les placer dans une « zone d’attente », définie jeudi soir dans la zone portuaire de Toulon et sur un #centre_de_vacances de la #presqu’île de #Giens à #Hyères, où les exilés sont hébergés pour l’occasion. Un « #centre_administratif » dont ils n’ont pas le droit de sortir.

    Le maintien des personnes dans ce lieu peut durer 26 jours au maximum d’après la loi française.

    « Un système d’#enfermement de #privation_de_liberté et non d’accueil »

    Un dispositif dénoncé par plusieurs associations, dont l’Anafé qui défend les étrangers aux frontières. Interrogée par InfoMigrants, sa directrice Laure Palun souligne que c’est « un système d’enfermement de privation de liberté et non d’accueil, qui pose question quant aux conséquences sur des personnes vulnérables ».

    Gérad Sadik, responsable national de l’asile à La Cimade, estime, quant à lui, que cette #zone_temporaire est « illégale » car ce dispositif est normalement réservé aux espaces situés sur une frontière, dans les aéroports par exemple.

    Une centaine de « #Zones_d'attente_pour_personnes_en_instance » (#ZAPI) existe actuellement en France. Plusieurs associations dont l’Anafé, la Cimade et la Croix-Rouge interviennent dans ces lieux où patientent les étrangers qui ne sont pas autorisés à entrer sur le territoire, pour leur porter une assistance juridique, sanitaire et sociale.

    Mais, concernant les migrants de l’Ocean Viking, la Cimade s’inquiète de ne pas avoir accès aux personnes retenues dans la zone d’attente. Gérard Sadik affirme que l’entrée leur a été refusée. Il alerte également sur le fait que les mineurs non accompagnés ne doivent pas être placés dans ces zones d’attente, or 42 jeunes dans ce cas se trouvaient à bord de l’Ocean Viking selon SOS Méditerranée.

    Dans cette zone d’attente, les migrants feront l’objet d’un suivi sanitaire, puis de contrôles de sécurité des services de renseignement, avant d’être entendus par l’Office français de protection des réfugiés (Ofpra), qui examine les demandes d’asile et décide ou non d’attribuer le statut de réfugié.

    Procédure d’asile à la frontière comme dans les #aéroports

    La France, qui veut décider « très rapidement » du sort des migrants de l’Ocean Viking, a choisi d’appliquer la procédure d’asile à la frontière.

    Habituellement une demande d’asile française est d’abord enregistrée en préfecture, déposée auprès de l’Ofpra sous forme de dossier puis s’ensuit une convocation à un entretien, et entre trois à six mois mois d’attente avant la réponse.

    Mais dans le cas des migrants de l’Ocean Viking, l’Etat a choisi d’appliquer une #procédure_exceptionnelle qui prévoit qu’un agent de la mission asile frontière de l’Ofpra mène un entretien avec ces personnes dans un délai de 48 heures ouvrées afin d’évaluer si la demande d’asile n’est pas « #manifestement_infondée ».

    Cela peut poser problème, car cette notion floue et présentée sous une forme alambiquée laisse un large champ aux autorités françaises pour refuser l’entrée d’une personne, soulèvent les associations d’aide aux migrants.

    « En théorie, l’examen du caractère manifestement infondé ou non d’une demande d’asile ne devrait consister à vérifier que de façon sommaire si les motifs invoqués par le demandeur correspondent à un besoin de protection », soulignait l’Anafé, interrogée par InfoMigrants début novembre sur cette même procédure très régulièrement appliquée sur l’île de La Réunion. « Il ne devrait s’agir que d’un examen superficiel, et non d’un examen au fond, de la demande d’asile, visant à écarter les personnes qui souhaiteraient venir en France pour un autre motif (tourisme, travail, étude, regroupement familial, etc.) en s’affranchissant de la procédure de délivrance des visas », précisait l’association.

    Difficile donc pour des migrants tout juste arrivés après plusieurs semaines d’errance en mer, et parfois la perte de leurs papiers d’identité lors des naufrages, de prouver le fondement de leur demande lors d’un entretien de quelques minutes. D’autres considérations rentrent aussi en ligne de compte lors de ce type d’entretiens, notamment la langue parlée, et la qualité de la traduction effectuée par l’interprète de l’Ofpra.

    Pour accélérer encore un peu plus la procédure, « l’Ofpra a prévu de mobiliser dès ce week-end seize agents pouvant réaliser jusqu’à 90 entretiens par jour », a insisté vendredi le directeur général des étrangers (DGEF) au ministère de l’Intérieur, Eric Jalon.

    Après avoir mené ces entretiens, l’Ofpra donne un avis au ministère de l’Intérieur qui autorise ou non les migrants interrogés à déposer leur demande d’asile. Dans la plupart des cas, les personnes soumises à ce type de procédure échouent avec un taux de refoulement de 60%, indique l’Anafé.

    « Doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement »

    « Pour les personnes dont la demande d’asile serait manifestement infondée, qui présenteraient un risque sécuritaire, nous mettrons en œuvre (...) les procédures d’#éloignement pour qu’elles regagnent leur pays d’origine », a prévenu Eric Jalon. Le ministère de l’Intérieur affirme également que des contacts ont déjà été pris avec les pays d’origine de ces rescapés.

    D’après les informations dont dispose InfoMigrants, les rescapés de l’Ocean Viking sont majoritairement originaires du Bangladesh, d’Érythrée et de Syrie, mais aussi d’Égypte, du Pakistan et du Mali notamment.

    « Nous avons des doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement », fait savoir Laure Palun, « car il faut que la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer.

    Deux-tiers des personnes ne resteront de toute façon pas en France, puisqu’elles seront relocalisées dans neuf pays, a précisé le ministère, citant l’#Allemagne qui doit en accueillir environ 80, le #Luxembourg, la #Bulgarie, la #Roumanie, la #Croatie, la #Lituanie, #Malte, le #Portugal et l’#Irlande.

    Si une personne se voit refuser l’entrée sur le territoire par le ministère de l’Intérieur, un recours juridique est possible. Il s’agit du recours contre le refus d’admission sur le territoire au titre de l’asile à déposer dans un délai de 48 heures à compter de la notification de la décision de refus prise par le ministère de l’Intérieur, explique la Cimade.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/44696/que-prevoit-la-france-pour-les-230-migrants-de-locean-viking
    #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Italie #ports #ports_fermés #frontières #relocalisation #renvois #expulsions

    ping @isskein @karine4 @_kg_

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    ajouté à la métaliste autour de la création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

    • À peine débarqués, les rescapés de l’« Ocean Viking » sont privés de liberté

      C’est sous #escorte_militaire que le navire de #SOS_Méditerranée a pu s’amarrer à Toulon. Les migrants, dont des enfants, ont été transférés dans une « zone d’attente », soit un lieu de privation de liberté. Un député LFI, qui a pu y entrer, a vu « des humains au bord du gouffre ».

      Deux places, deux ambiances pour l’arrivée du bateau de SOS Méditerranée, vendredi, à Toulon. Sur le quai Cronstadt, en fin de matinée, une centaine de personnes se sont rassemblées pour affirmer un message de bienvenue aux 230 exilé·es secouru·es par l’Ocean Viking. Les slogans, cependant, n’ont pas pu être entendus des concerné·es, puisque le gouvernement a organisé leur réception au port militaire, loin des regards, y compris de ceux de la presse.

      Deux heures plus tard, quelques dizaines de soutiens d’Éric Zemmour ont tenu le pavé devant l’entrée de l’arsenal, tandis que leur chef déclamait un énième discours xénophobe devant un mur de caméras. Outre #Marion_Maréchal-Le Pen, il était accompagné d’anciens de #Génération_identitaire, dont l’Aixois #Jérémie_Piano, récemment condamné à huit mois de prison avec sursis pour des faits de violence au siège de SOS Méditerranée en 2018.

      Jeudi, Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur, avait annoncé l’autorisation donnée à l’Ocean Viking de débarquer à Toulon, après trois semaines d’errance en mer dans l’attente d’un port sûr que lui ont refusé Malte et l’Italie. Le navire et ses 230 passagers et passagères, dont 13 enfants accompagnés et 44 mineur·es sans famille, s’est amarré à 8 h 50 ce vendredi. Son entrée en rade de Toulon s’est faite sous escorte de plusieurs bateaux militaires et d’un hélicoptère. Puis les personnes ont été acheminées dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, transformé en « zone d’attente » provisoire. Autrement dit : aux yeux de l’administration, les rescapé·es de l’Ocean Viking ne sont pas entré·es sur le territoire français.

      Des bus sont chargés de les conduire « sous #escorte_policière jusqu’au site d’hébergement situé sur la commune d’Hyères », a précisé le préfet du Var, Evence Richard à l’occasion d’une conférence de presse. Les personnes y seront privées de leur liberté, le temps de l’évaluation de leur situation, et sous la #garde_policière de quelque 200 agents.

      Des centaines de policiers

      Le représentant de l’État annonce d’importants moyens mis en place par ses services pour répondre à un triptyque : « #dignité_humanitaire ; #sécurité ; #rigueur et #fermeté ». 600 personnes en tout, forces de l’ordre comprises, vont se consacrer à cet « accueil » prévu pour un maximum de 26 jours. La prise en charge médicale est assurée par les services des pompiers et du Samu.

      D’un point de vue administratif, le ministère veut d’abord « évaluer les #risques_sécuritaires », via des entretiens menés par la direction générale de la sécurité intérieure (DGSI), selon les mots d’Éric Jalon, directeur général des étrangers en France, présent au côté du préfet. La mise en avant de cet aspect est un gage donné par Gérald Darmanin à l’extrême droite.

      Ensuite, si les personnes demandent l’asile et rentrent dans les critères, elles pourront, pour un tiers seulement des adultes, rester en France ou bien être « relocalisées », selon le jargon administratif, dans au moins neuf autres pays européens : Allemagne, Luxembourg, Bulgarie, Roumanie, Croatie, Lituanie, Malte, Portugal et Irlande.

      Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), l’instance dépendant du ministère de l’intérieur chargée d’attribuer ou non le statut de réfugié, évalueront les situations « sous 48 heures », insistent les hauts fonctionnaires. Une procédure express réservée aux « zones d’attente », ces sites habituellement installés dans les aéroports, les ports ou à des postes-frontières, régulièrement dénoncés par des associations comme des lieux où les droits de certains étrangers et étrangères sont bafoués.

      Si les personnes ne demandent pas l’asile, si l’Ofpra rejette leur demande ou si elles sont considérées comme présentant un risque pour la sécurité, le ministère de l’intérieur s’efforcera de les renvoyer dans leur pays d’origine. « Des contacts ont d’ores et déjà été pris avec les pays vers lesquels les personnes ont vocation à retourner », affirme Éric Jalon.

      Les 44 mineur·es non accompagné·es déclaré·es par SOS Méditerranée, pour leur part, verront leur situation évaluée par les services de l’Aide sociale à l’enfance du Var. Si celle-ci ne met pas en cause leur minorité, ils pourront quitter la zone d’attente et être sous la protection du département, comme la loi l’impose.

      Des parlementaires interdits d’accès au quai

      Venue à Toulon pour observer, Laure Palun, de l’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers), organisation active pour défendre les droits des étrangers et étrangères en zones d’attente, critique la méthode. « Il n’y a pas assez d’agents de l’Ofpra formés aux demandes d’asile formulées à la frontière. Il risque d’y avoir plein d’erreurs, dit-elle. Et puis, pour des gens qui ont failli se noyer, qui sont restés autant de temps sur ce bateau, comment pourront-ils être opérationnels dès demain pour faire un récit de vie qui va être crédible aux yeux des autorités françaises ? »

      Sur le plan humain, « enfermer ces personnes, c’est rajouter une couche de #violence à ce qu’elles ont déjà vécu. La zone d’attente n’est pas un lieu qui permet d’aborder sereinement l’asile. Je ne suis pas certaine qu’il y aura une prise en charge psychologique », juge la responsable associative. Dans de nombreuses zones d’attente temporaire habituellement mises en place dans les départements d’outre-mer, l’association a observé que l’information sur la demande d’asile n’est pas toujours donnée aux individus. « C’est une obligation d’informer les étrangers de leurs droits », assure pour sa part Éric Jalon.

      Des rescapés harassés, pieds nus, sans pantalon

      L’opération du gouvernement interpelle aussi par le secret qu’elle s’évertue à organiser. En dehors des agents de l’État, personne n’a eu accès à l’arsenal vendredi, une zone militaire, donc confidentielle. Le député de Marseille Sébastien Delogu (La France insoumise – LFI) s’est vu refuser l’accès à l’Ocean Viking, alors que la loi autorise n’importe quel parlementaire à visiter une zone d’attente à l’improviste, et que celle créée dans le village vacances englobe « l’emprise de la base navale de Toulon », d’après l’arrêté publié vendredi par le préfet.

      Le gouvernement prétend faire primer, semble-t-il, le secret défense. « Moi je ne viens pas pour faire du théâtre comme l’extrême droite, je veux exercer mon droit de parlementaire, s’agace le député insoumis. J’ai aussi été élu pour ça. Sinon, qui a un droit de regard ? » Son collègue Hendrik Davi (LFI) a également été repoussé.

      Plus tard, Sébastien Delogu a pu, tout de même, se rendre au village vacances et « constater toute la souffrance et la détresse physique et mentale dans laquelle se trouvent les rescapés ». « Ces jeunes hommes et femmes sont épuisés, parfois pieds nus ou sans pantalon, harassés par ce périple durant lequel ils ont tout quitté et risqué leur vie. Je n’ai vu que des humains au bord du gouffre, a-t-il précisé, à la sortie, dans un communiqué. Nous ne céderons pas un centimètre d’espace politique aux fascistes qui instrumentalisent ces drames pour propager la haine et la xénophobie. »

      Entre soulagement et amertume, les responsables de SOS Méditerranée ont quant à eux fustigé vendredi des blocus de plus en plus longs imposés à leur navire, au détriment de la sécurité physique et psychologique des naufragé·es recueilli·es à bord. Comme elle le fait depuis sept ans, l’ONG a appelé à la (re)constitution d’une flotte européenne pour faire du sauvetage en Méditerranée centrale et à la mise en place d’un processus de solidarité entre États européens pour la répartition des personnes secourues, qui respecte le droit maritime (soit un débarquement dans le port sûr le plus proche).

      Les finances de l’association étant en baisse à cause de l’explosion des coûts due à l’inflation et à la diminution des dons reçus, elle a relancé un appel aux soutiens. « Dans l’état actuel de nos finances, on ne peut continuer encore que quelques mois, précise sa directrice Sophie Beau. Depuis le premier jour, SOS Méditerranée est essentiellement soutenu par la société civile. » Si quelques collectivités complètent le budget par des subventions, l’État français, lui, ne verse évidemment pas un centime.

      « C’est essentiel qu’on retourne en mer, déclare Xavier Lauth, directeur des opérations de SOS Méditerranée. Parce qu’il y a eu déjà au mois 1 300 morts depuis le début de l’année [en Méditerranée centrale, face à la Libye – ndlr]. » Le décompte de l’Organisation internationale pour les migrations (liée à l’ONU) a précisément dénombré 1 912 personnes disparues en Méditerranée depuis le début de l’année, que les embarcations aient visé l’Italie, la Grèce ou encore l’Espagne. Et depuis 2014, plus de 25 000.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/111122/peine-debarques-les-rescapes-de-l-ocean-viking-sont-prives-de-liberte

    • Le jour où la France n’a pas (vraiment) accueilli l’Océan Viking…

      Après trois semaines à errer, sans qu’on lui assigne de port où débarquer les 234 rescapés secourus en mer, l’Océan Viking, de Sos-Méditerranée, a enfin accosté à Toulon. Entre soulagement et indignation, les associations dénoncent l’instrumentalisation politique de cette crise et les défaillances des États membres de l’Union Européenne.

      « Le sauvetage que nous avons débuté le 22 octobre n’est toujours pas terminé », c’est en substance ce qu’explique Louise Guillaumat, directrice adjointe des opérations de SOS-Méditerranée, lors de la conférence de presse tenue, le vendredi 11 novembre à midi. À cette heure, plus de la moitié des rescapés tirés des eaux par l’ONG, trois semaines auparavant, sont toujours à bord de l’Océan Viking, qui a accosté le matin même, sur le quai de l’artillerie de la base navale varoise.

      Au soleil levant, sur le quai Cronstadt, au pied du « cul-vers-ville », une statue évoquant le génie de la navigation, les caméras de télévision se sont frayé une place parmi les pêcheurs matinaux. Il est 7 h 00, le bateau de Sos-méditerranée est à moins de six miles marins des côtes toulonnaises. Il accoste deux heures plus tard. Pourtant, les 231 exilés à son bord ne sont pas accueillis par la France.
      44 enfants isolés

      « Les passagers ont été placés en zone d’attente. Ils n’ont pas été autorisés à entrer sur le territoire national. » explique Éric Jalon, préfet, et directeur général des étrangers en France (DGEF). Le port militaire et le centre où vont être hébergés les exilés ont été, par décret, définis, la veille, comme « zone d’attente provisoire » gérée par la Police des airs et des frontières (PAF). « Des évaluations de leur état de santé sont faites dès leur descente du navire », promet le préfet.

      Après quoi, ils sont conduits en bus dans un centre de vacances, mis à disposition par la Caisse centrale d’activités sociales (CCAS) des agents des industries électriques et gazières en France, en solidarité avec les personnes réfugiées. Une fois là-bas, ces dernières, parmi lesquelles 44 mineurs isolés, doivent pouvoir formuler une demande d’asile en procédure accélérée.

      « Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) ont été détachés sur place pour y mener des entretiens », poursuit le DGEF. Ceux pour qui la demande d’asile sera jugée « irrecevable et manifestement infondée » feront l’objet de reconduites dans leur pays d’origine. Ce n’est qu’après cette procédure, pouvant durer jusqu’à 26 jours, que les autres pourront alors prétendre à demander l’asile en France ou dans un des neuf pays de l’union européenne s’étant déclaré prêt à en accueillir une partie.
      Une façon de détourner le règlement de Dublin

      « Ce n’est pas ce que prévoit le droit dans l’état », pointe Laure Palun, la directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), présente au rassemblement organisé sur le port, en milieu de matinée, par les associations, syndicats et partis solidaires des exilés. « Les demandeurs d’asile doivent normalement être accueillis sur le territoire d’un État avant leur relocalisation. » explique-t-elle.

      Le choix fait par la France est une façon de détourner le règlement de Dublin qui prévoit qu’une demande d’asile ne puisse être étudiée que par le pays de première entrée du candidat. Et ce n’est pas la seule entorse à la loi que revêt le dispositif « exceptionnel » mise en place par Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur. « Ce matin, on nous a refusé l’entrée dans la zone d’attente alors que nous sommes une des associations agréées pour y accéder en tant qu’observateur », dénonce ainsi la responsable associative. La loi prévoit, d’ailleurs, dans le même cadre un libre accès aux parlementaires. Le député LFI de la 7e circonscription de Marseille, Sébastien Delogu, s’est porté volontaire ce matin. Mais « le cabinet de Sébastien Lecornu, ministre des armées, nous interdit l’accès au port », confia-t-il, en début d’après-midi, au téléphone depuis le bureau du préfet maritime. Même les membres de Sos-Méditerranée n’ont pas pu venir à la rencontre de leur équipage bloqué en mer depuis 21 jours.
      L’indignité monte d’un cran

      « La France a su accueillir dignement les réfugiés venus d’Ukraine », rappelle Olivier Masini, secrétaire général de l’UD CGT du Var, alors que plusieurs centaines de militants entament une marche solidaire en direction du théâtre de la liberté où les représentants de SOS-Méditerranée tiennent leur conférence de presse. « Nous sommes ici pour affirmer les valeurs humanistes de notre syndicat et pour demander que les réfugiés débarqués aujourd’hui puissent bénéficier d’un traitement similaire. »

      C’est avec les traits tendus par la colère et la fatigue que les quatre dirigeants de l’Ong de sauvetage en mer accueillent leur auditoire. « Les États Européens négligent depuis sept ans la situation » , lance Sophie Beau, Co-fondatrice de SOS-Méditerranée. « Il est temps que soit mis en place un véritable mécanisme opérationnel et pérenne de répartition des exilés secourus en Méditerranée centrale. L’instrumentalisation politique de cette crise est indigne des démocraties européennes. »

      L’#indignité est d’ailleurs montée d’un cran en début d’après-midi, lorsque devant l’arsenal, les représentants du parti d’extrême-droite, Reconquête, sont venus s’exprimer devant une poignée de groupies haineux. Pas de quoi décourager, cependant, les sauveteurs de Sos-Méditerranée. «  Je préfère rester optimiste, reprend Sophie Beau. Les citoyens européens sont porteurs de solidarité. Nous repartirons rapidement en mer pour continuer notre mission de sauvetage. Et dans le contexte économique actuel, nous avons plus que jamais besoin du soutien de la société civile… Répondez à ce SOS. »

      https://www.humanite.fr/societe/ocean-viking/le-jour-ou-la-france-n-pas-vraiment-accueilli-l-ocean-viking-770755#xtor=RS

      #migrerrance

    • « Ocean-Viking », un désastre européen

      Editorial du « Monde » . Les trois semaines d’errance du navire humanitaire, qui a fini par accoster à Toulon sur fond de crise diplomatique entre la France et l’Italie, rappellent l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains.

      L’Union européenne (UE) n’avait pas besoin de cela. Déjà aux prises avec une guerre à ses portes, une crise énergétique, la montée de l’inflation et les tensions que ce contexte exacerbe entre ses membres, voilà que la terrible errance depuis trois semaines d’un navire humanitaire, l’Ocean-Viking, chargé de migrants secourus en Méditerranée, remet en lumière son incapacité à organiser la solidarité en son sein. Cela sur la principale question qui nourrit l’extrême droite dans chaque pays – l’immigration – et, partant, menace l’avenir de l’Union elle-même.

      Si la France a, finalement, sauvé l’honneur en acceptant que l’Ocean-Viking accoste à Toulon, vendredi 11 novembre, après le refus italien, l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains qui la fondent historiquement – en l’occurrence la sauvegarde de 234 vies, dont celles de 57 enfants – est extrêmement préoccupante.

      Que la France et l’Italie, que rapprochent mille liens historiques, géographiques et humains, en viennent à s’apostropher par ministres de l’intérieur interposés donne la mesure de la déstabilisation d’un équilibre déjà fragile, consécutif à l’arrivée à Rome de Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien issue de l’extrême droite.

      Sept ans après la crise migratoire de 2015, au cours de laquelle l’UE avait manqué de solidarité à l’égard de l’Italie, y nourrissant la xénophobie, les ingrédients du malaise sont toujours là. Même si les migrants de l’Ocean-Viking doivent être répartis dans l’UE, le fragile système de partage des demandeurs d’asile dans une douzaine d’Etats européens, obtenu par la France en juin, qui n’a jusqu’à présent connu qu’une application homéopathique, a déjà volé en éclats avec l’Italie.

      Volte-face

      Pour l’exécutif français, enclin à présenter l’Union européenne comme un facteur de protection, le scénario de l’Ocean-Viking est également désastreux. S’il a pris en définitive la bonne décision, il semble s’être fait forcer la main par le gouvernement italien. Alors qu’Emmanuel Macron avait refusé en 2018 l’accostage de l’Aquarius, un autre bateau humanitaire, pour ne pas « faire basculer le pays vers les extrêmes », sa volte-face intervient alors que le Rassemblement national, avec ses 89 députés, a renforcé son emprise sur la vie politique.

      Si le dénouement de Toulon devrait logiquement être salué à gauche, il risque de compromettre le ralliement déjà incertain de la droite au projet de loi sur l’immigration, construit sur un équilibre entre régularisation de travailleurs étrangers et fermeté sur les mesures d’éloignement.

      Le poids des images et des symboles – le navire chargé de malheureux, le débarquement sous escorte militaire – ne saurait cependant faire perdre la véritable mesure de l’événement : l’arrivée de quelques dizaines de demandeurs d’asile est bien loin de déstabiliser un pays comme la France. Une centaine de milliers de réfugiés ukrainiens y sont d’ailleurs accueillis à bras ouverts. Comme eux, les migrants venus d’autres continents ont droit à un examen sérieux de leur demande d’asile.

      Les difficultés d’intégration, les malaises et les craintes que suscite l’immigration dans l’opinion sont évidents et doivent être sérieusement écoutés et pris en compte. Mais, alors que l’extrême droite fait des migrants le bouc émissaire de tous les dysfonctionnements de la société et tient la mise au ban des étrangers pour la panacée, il faut rappeler que des hommes, des femmes et des enfants sont là, derrière les statistiques et les joutes politiques.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/11/12/ocean-viking-un-desastre-europeen_6149574_3232.html

    • Pour le plein respect des droits et de la dignité des passager.e.s de l’Ocean Viking, pour une véritable politique d’accueil européenne [Communiqué de presse inter-associatif]

      L’accueil de l’Ocean Viking à Toulon en France a été un soulagement face au drame terrible et indigne que vivaient ses passager.e.s depuis plusieurs semaines, balloté.e.s sur les flots en attente d’une décision sur leur possibilité de débarquement.

      Maintenant se pose la question des conditions de l’accueil des passager.e.s.

      Nous demandons la mise en place des dispositions suivantes :

      – Pas de privation de liberté en zone d’attente, qui ne ferait qu’accroitre les souffrances et traumatismes vécus en mer et sur le parcours d’exil ; de nos expériences sur le terrain, le respect des droits des personnes et de leur dignité n’est pas compatible avec l’enfermement de ces dernières, quel que soit le contexte de leur arrivée, et a fortiori après un périple tel que l’on vécut les rescapés de l’Océan Viking.
      En outre, il est inadmissible que le gouvernement ait fait le choix de « fabriquer » une zone d’attente temporaire dans une base militaire, rendant impossible l’accès des associations habilitées et des élu.e.s de la République, sous prétexte de secret défense, ne permettant pas à des personnes en situation de particulière vulnérabilité d’avoir accès à l’assistance minimale que la loi leur reconnaît.

      – Mobilisation d’un centre d’accueil ouvert, permettant de mettre en place l’accompagnement sanitaire, social, et également psychologique nécessaire.

      – Protection immédiate, mise à l’abri et hébergement des passager.e.s, dépôt de demandes d’asile pour toutes les personnes le souhaitant, et examen approfondi de toutes les situations des personnes afin de garantir le respect de l’exercice effectif de leurs droits.

      Plus globalement, pour éviter demain d’autres drames avec d’autres bateaux :

      – Nous rappelons le nécessaire respect du droit international de la mer, en particulier l’obligation de porter secours aux passagers d’un bateau en difficulté, le débarquement des personnes dans un lieu sûr dans les meilleurs délais ainsi que le principe de non-refoulement vers des pays où les personnes encourent un risque d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou dégradants.

      – La solidarité en Europe ne fonctionne pas. Le « mécanisme de solidarité » proposé dans le cadre du pacte européen « migrations et asile » est non seulement non respecté par les pays mais très en-deçà d’une véritable politique d’accueil respectueuse de la dignité des personnes et de leurs droits fondamentaux. L’Italie est à la pointe des égoïsmes nationaux mais globalement les pays européens dans leur ensemble ne sont pas à la hauteur.

      – C’est donc un changement de modèle politique qui est indispensable : passer de politiques européennes fondées sur la fermeture et le repli vis-à-vis des migrant.e.s considéré.e.s comme indésirables pour prôner un autre système :

      > permettre un accès inconditionnel au territoire européen pour les personnes bloquées à ses frontières extérieures afin d’examiner avec attention et impartialité leurs situations et assurer le respect effectif des droits de tou∙te∙s
      > permettre l’accueil des réfugié.e.s non pas sur la base de quotas imposés aux pays, mais sur la base des choix des personnes concernées (selon leurs attaches familiales, leurs compétences linguistiques ou leurs projets personnels), dans le cadre d’une politique de l’asile harmonisée, fondée sur la solidarité entre Etats et le respect inconditionnel des droits fondamentaux.

      http://www.anafe.org/spip.php?article655

    • Zone d’attente de Toulon : violations des droits des personnes sauvées par l’Ocean Viking [Communiqué de presse]

      Depuis 5 jours, l’Anafé se mobilise pour venir en soutien aux personnes enfermées en zone d’attente de Toulon après le débarquement de l’Ocean Viking, le vendredi 11 novembre. Ses constats sont alarmants. Les personnes sauvées par l’Ocean Viking sont victimes de violations de leurs droits fondamentaux dans ce lieu d’enfermement qui n’a rien d’un village de vacances : violations du droit d’asile, personnes portant des bracelets avec numéro, absence d’interprétariat, absence de suivi psychologique effectif, pas de téléphones disponibles et pas de visites de proches, pas d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Violation du droit d’asile
      Toutes les personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon ont demandé l’asile. L’Anafé dénonce le choix des autorités de priver de liberté ces personnes en demande de protection internationale alors que ces mêmes autorités n’ont pas nié l’état psychologique dégradé dans lequel elles se trouvent après un long parcours au cours duquel elles ont failli se noyer et après avoir été débarquées d’un bateau de sauvetage sur lequel elles avaient passé 21 jours. Or, la procédure d’asile à la frontière est une procédure d’asile « au rabais », réalisée dans l’urgence mais aussi dans un lieu d’enfermement, quelques heures seulement après le débarquement.
      Les autorités auraient pu, à l’instar de ce qui a été mis en œuvre l’année dernière à l’arrivée de personnes ressortissantes d’Afghanistan ou lors de l’arrivée de ressortissants d’Ukraine depuis le début d’année, prévoir des mesures d’hébergement et un accès à la procédure de demande d’asile sur le territoire, après un temps de repos et de prise en charge médicale sur le plan physique et psychologique.

      Les conditions d’entretien Ofpra
      Les entretiens Ofpra doivent veiller au respect de la confidentialité des échanges et de la dignité des personnes, tout en prenant en compte leur vulnérabilité. L’Ofpra aurait pu refuser de réaliser les entretiens de personnes à peine débarquées au regard de leur vulnérabilité. Cela n’a pas été le cas. Au contraire, elles ont dû expliquer leurs craintes de persécutions sitôt enfermées en zone d’attente. Surtout, des entretiens se sont déroulés dans des tentes, dont certaines laissant une visibilité depuis l’extérieur et sans respect de la confidentialité des échanges, les conversations étaient audibles depuis l’extérieur. Les autres ont été faits dans des locaux où avaient été réalisés des entretiens avec les services de police, ajoutant à la confusion des interlocuteurs et des rôles. Rien, hormis le petit badge porté par les officiers de protection, ne pouvait les distinguer des policiers en civil ou des associations présents dans le camp.

      L’absence d’interprétariat
      Les personnes ainsi enfermées n’ont pas eu accès à des interprètes. Seulement deux interprètes en arabe étaient présentes lors d’une visite organisée par des sénateurs et un député. Leur rôle : traduire les entretiens avec la police aux frontières. Hormis ces deux interprètes, l’ensemble des entretiens sont effectués via un interprétariat téléphonique assuré par un prestataire, y compris pour les entretiens Ofpra. L’Anafé a pu observer les difficultés de la police aux frontières pour contacter un interprète, faisant parfois appel à une personne maintenue en zone d’attente.
      Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants.

      Des numéros aux poignets
      Les personnes maintenues sont identifiées par des bracelets de couleur au poignet portant un numéro. Les autorités n’ont donc pas hésité à les numéroter sans aucun respect pour leur individualité et leur identité.

      L’absence de suivi psychologique effectif
      L’Anafé a pu constater dans la zone d’attente que si la CUMP83 (cellules d’urgence médico-psychologique) était présente, les conditions d’enfermement ne permettent pas aux infirmiers d’échanger avec les personnes maintenues, les services d’interprétariat téléphonique toujours assurés par le même prestataire étant saturés. De plus, la CUMP83 ne bénéficie pas d’un local adapté pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes mais d’une tente située dans le « village Croix-Rouge » au milieu de la zone d’attente. Cette disposition ne permet donc pas aux personnes maintenues de bénéficier d’un soutien psychologique confidentiel et adapté au traumatisme qu’elles ont subi lors de leur parcours migratoire et des trois semaines passées en mer.
      De plus, si un médecin, une sage-femme et une infirmière étaient présents le samedi 13 novembre 2022, nous avons pu constater le lendemain qu’aucun médecin n’était présent sur le site. Il nous a été indiqué qu’en cas de nécessité, il serait fait appel à SOS Médecin.

      Impossibilité d’avoir des contacts avec l’extérieur, contrairement à la législation régissant les zones d’attente
      Les numéros utiles ne sont pas affichés. Le wifi installé par la Croix-Rouge ne fonctionne pas correctement. Si huit téléphones portables sont disponibles toute la journée, les conversations sont limitées à 5 minutes et jusqu’à 18h environ. Il n’est pas possible d’être appelé sur ces numéros et ils ne servent que dans le cadre du rétablissement des liens familiaux. Hormis ces téléphones, aucune cabine téléphonique n’est prévue sur le site de la zone d’attente. Il n’est donc pas possible pour les personnes maintenues de s’entretenir de manière confidentielle, notamment avec un avocat, une association ou leurs proches. Il est impossible pour les personnes maintenues de se faire appeler de l’extérieur.
      Aucune visite de proche n’est possible en raison de l’absence de de mise en place d’un système de visite ou d’un local dédié.

      L’impossible accès aux avocats et aux associations
      L’Anafé a pu constater que les personnes maintenues n’avaient aucune connaissance de leur droit à contacter un avocat et qu’aucun numéro de téléphone ne leur avait été communiqué, là encore, contrairement à la législation applicable. Après la visite de la Bâtonnière de l’Ordre des avocats de Toulon et des élus, les avocats se sont vu attribuer deux chambres faisant office de bureau qui ne sont équipées ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’internet pour transmettre les recours.
      L’Anafé n’a pas de local pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes maintenues, notamment en faisant appel à un service d’interprétariat. D’après les informations fournies par la protection civile, il n’y avait pas de local disponible.
      Il est donc impossible pour les avocats et pour les associations de défense des droits d’exercer leur mission dans des conditions garantissant la confidentialité des échanges et un accompagnement digne des personnes.

      Toutes ces violations constituent des manquements graves aux droits des personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon. Ces atteintes inacceptables sont le résultat du choix fait par les autorités d’enfermer ces personnes au lieu de les accueillir. Comme à chaque fois que des gens sont enfermés en zone d’attente, leurs droits ne sont pas respectés. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis la création des zones d’attente. Il est temps de mettre fin à ce régime d’enfermement.

      http://www.anafe.org/spip.php?article656

    • Comment l’affaire de l’Ocean Viking révèle l’ambiguïté des « zones d’attente »

      Vendredi 11 novembre, les 234 migrantes et migrants secourus par le navire Ocean Viking ont pu rejoindre la base navale de Toulon, après trois semaines d’errance en mer. Ultime épisode du drame de la migration qui se joue en Méditerranée et dont le déroulement puis le dénouement peuvent donner lieu à plusieurs clés de lecture. Au niveau de la politique et de l’intégration européennes, le bras de fer entre Paris et Rome, rejouant le duel ayant opposé en 2018 Emmanuel Macron avec l’alors Président du Conseil des ministres italien et actuel Vice-Président Matteo Salvini, a souligné les obstacles à l’affirmation de la solidarité européenne sur la question. Au niveau de la politique interne, ensuite, l’on a vu combien la situation de l’Ocean Viking a accusé les clivages entre « humanistes » et partisans de la fermeté.

      Rappelons d’ailleurs que les propos ayant valu l’exclusion pour deux semaines du député du Rassemblement national Grégoire de Fournas ont précisément été tenus à l’occasion de l’allocution d’un député de la France insoumise dénonçant le sort réservé aux passagers du navire humanitaire.

      Le dernier épisode en date dans l’épopée de l’Ocean Viking est également et entre autres justiciable d’une analyse juridique.
      Les limites du droit international de la mer

      Pendant son errance, les difficultés à trouver un lieu de débarquement ont de nouveau souligné les limites d’un droit de la mer peinant à imposer à un État clairement défini d’ouvrir ses ports pour accueillir les rescapés. La décision de laisser les passagers de l’Ocean Viking débarquer à Toulon est également significative. Elle signe certes leur prise en charge temporaire par la France, mais n’emporte pas, du moins dans un premier temps, leur admission sur le territoire français (au sens juridique). Ce dont le ministre de l’Intérieur ne s’est d’ailleurs fait faute de souligner).

      Cette situation permet alors de mettre en exergue l’une des singularités de la conception juridique du territoire, notamment en ce qui concerne la situation des étrangers. Les zones d’attente en sont une claire illustration.
      Les « zones d’attente »

      Les aéroports ont été les premiers espaces où sont apparues ces zones considérées comme ne relevant pas juridiquement du territoire de l’État les accueillant. Le film Le Terminal, dans lequel Tom Hanks campait un iranien ayant vécu plusieurs années à Roissy – où il s’est d’ailleurs éteint ce samedi 12 novembre –, avait en 2004 porté à la connaissance du grand public cette situation.

      En France, les « zones internationales », initialement nimbées d’un flou quant à leur fondement juridique et au sein desquelles les autorités prétendaient par conséquent n’y être pas assujetties au respect des règles protectrices des droits humains, ont cédé la place aux « zones d’attente » à la faveur de la loi du 6 juillet 1992).

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      À une situation d’exclusion – du moins, alléguée par les autorités – du droit, s’est alors substitué un régime d’exception : les personnes y étant maintenues n’étaient toujours pas considérées comme ayant pénétré juridiquement le territoire français.

      N’étant plus – prétendument – placées « hors du droit » comme l’étaient les zones internationales, les zones d’attente n’en restaient pas moins « hors sol ». L’une des conséquences en est que les demandes d’asile qui y sont le cas échéant déposées relèvent alors de l’« asile à la frontière ». Elles sont par conséquent soumises à un régime, notamment procédural, beaucoup moins favorable aux demandeurs (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile CESEDA, Titre V, article L.350-1 à L.352-9).
      La « fiction juridique »

      La « fiction juridique » que constituent les zones d’attente s’étend désormais entre autres aux gares ferroviaires ouvertes au trafic international, aux ports ou à proximité du lieu de débarquement (CESEDA, article L.341-1). Ces « enclaves » au sein du territoire, autour d’une centaine actuellement, peuvent par ailleurs inclure, y compris « à proximité de la gare, du port ou de l’aéroport ou à proximité du lieu de débarquement, un ou plusieurs lieux d’hébergement assurant aux étrangers concernés des prestations de type hôtelier » (CESEDA, article L.341-6).

      Tel est le cas de la zone d’attente créée par le préfet du Var par le biais d’un arrêté, à la suite de l’accueil de l’Ocean Viking.

      « pour la période du 11 novembre au 6 décembre 2022 inclus, une zone d’attente temporaire d’attente sur l’emprise de la base navale de Toulon et sur celle du Village Vacances CCAS EDF 1654, avenue des Arbanais 83400 Hyères (Giens) ».

      Accueillis dans ce Village Vacances dont les « prestations de type hôtelier » ne semblent aucunement correspondre à la caricature opportunément dépeinte par certains, les rescapés demeurent, juridiquement, aux frontières de la France.
      Aux portes du territoire français

      Ils ne se situent pas pour autant, de ce fait, dans une zone de non-droit : placés sous le contrôle des autorités françaises, ils doivent se voir garantir par elles le respect de leurs droits humains. Aux portes du territoire français, les migrantes et migrants secourus par l’Ocean Viking n’en relèvent pas moins de la « juridiction » française comme le rappelle la Cour européenne des droits de l’Homme. La France est ainsi tenue d’observer ses obligations, notamment au regard des conditions de leur maintien contraint au sein de la zone.

      Une partie des rescapés recouvreront leur liberté en étant admis à entrer juridiquement sur le territoire de la France. Tel est le cas des mineurs non accompagnés, dont il est annoncé qu’ils seront pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance.

      Tel est également le cas de ceux qui auront été autorisés à déposer une demande d’asile sur le territoire français et se seront vus, à cette fin, délivrer un visa de régularisation de huit jours. Parmi eux, la plupart (175) devraient être acheminés vers des États européens qui se seraient engagés à les accueillir, vraisemblablement afin que soient examinées leurs demandes de protection internationale. Expression d’une solidarité européenne a minima dont il faudra cependant voir cependant les suites.

      À lire aussi : Podcast : « Quand la science se met au service de l’humanitaire », le Comité international de la Croix-Rouge

      Pour tous les autres enfin, ceux à qui un refus d’entrer sur le territoire français aura été notifié et qui ne seront pris en charge par aucun autre État, le ministre de l’Intérieur précise qu’ils seront contraints de quitter la zone d’attente vers une destination qui demeure cependant encore pour le moins incertaine. Ceux-là auront alors été accueillis (très) temporairement par la France mais seront considérés comme n’ayant jamais pénétré sur le territoire français.

      https://theconversation.com/comment-laffaire-de-locean-viking-revele-lambigu-te-des-zones-datte

    • « Migrants » de l’« Ocean Viking », « réfugiés » d’Ukraine : quelle différence ?

      Comme elle l’a fait après l’invasion russe, la France doit mener une véritable politique d’accueil pour les passagers de l’« Ocean Viking » : permettre l’accès inconditionnel au territoire sans présupposé lié à leur origine ni distinction entre « migrants » et « réfugiés ».

      Après trois semaines d’errance en Méditerranée, la France a accepté « à titre exceptionnel » de laisser débarquer le 11 novembre, à Toulon, les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking. Tout en précisant, par la voix du ministre de l’Intérieur, que ces « migrants ne pourront pas sortir du centre administratif de Toulon » où ils seront placés et qu’« ils ne sont donc pas légalement sur le territoire national » : à cette fin, une zone d’attente a été créée en urgence où les personnes, qui ont toutes déposé une demande d’asile, sont donc enfermées sous surveillance policière.

      Pour la suite, il est prévu que la France ne gardera sur son sol, s’ils remplissent les conditions de l’asile, qu’environ un tiers des passagers du bateau. Les autres seront autoritairement relocalisés dans neuf pays de l’Union européenne. Voilà donc « l’accueil » réservé à des femmes, des enfants et des hommes qui, après avoir fui la guerre, la misère, l’oppression, et pour beaucoup subi les sévices et la violence du parcours migratoire, ont enduré une longue attente en mer aux conséquences notoirement néfastes sur la santé mentale et physique. L’accueil réservé par la France à ceux qu’elle désigne comme « migrants ».
      Pas de répartition entre les Etats européens

      Rappelons-nous : il y a moins d’un an, au mois de février, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion russe se sont précipités aux frontières des pays européens, la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue. Pas question de compter : au ministère de l’Intérieur, on expliquait que « dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra », tandis que le ministre lui-même annonçait que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ». Pas question non plus de répartition entre les Etats européens : « Ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent », affirmait la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur. Et pour celles qui choisiraient de rester en France, un statut provisoire de protection immédiate était prévu, donnant droit au travail, à un logement et à un accompagnement social. On n’a pas manqué de se féliciter de l’élan formidable de solidarité et d’humanité dont la France avait fait preuve à l’égard des réfugiés, à l’instar de ses voisins européens.

      Une solidarité et une humanité qui semblent aujourd’hui oubliées. Parce qu’ils sont d’emblée qualifiés de « migrants », les passagers de l’Ocean Viking, sans qu’on ne connaisse rien de leurs situations individuelles, sont traités comme des suspects, qu’on enferme, qu’on trie et qu’on s’apprête, pour ceux qui ne seront pas expulsés, à « relocaliser » ailleurs, au gré d’accords entre gouvernements, sans considération de leurs aspirations et de leurs besoins.

      On entend déjà les arguments qui justifieraient cette différence de traitement : les « réfugiés » ukrainiens sont les victimes d’un conflit bien identifié, dans le contexte d’une partie de bras de fer qui oppose l’Europe occidentale aux tentations hégémoniques du voisin russe. Des « migrants » de l’Ocean Viking,on prétend ne pas savoir grand-chose ; mais on sait au moins qu’ils et elles viennent de pays que fuient, depuis des années, d’innombrables cohortes d’exilés victimes des désordres du monde – guerres, corruption, spoliations, famines, désertification et autres dérèglements environnementaux – dont les Européens feignent d’ignorer les conséquences sur les mouvements migratoires mondiaux, pour décréter que ce ne sont pas de « vrais » réfugiés.
      Une hospitalité à deux vitesses

      Mais cette hospitalité à deux vitesses est aussi la marque du racisme sous-jacent qui imprègne la politique migratoire de la France, comme celle de l’Union européenne. Exprimée sans retenue par un élu d’extrême droite sur les bancs de l’Assemblée à propos de l’Ocean Viking (« qu’il(s) retourne(nt) en Afrique ! »), elle s’est manifestée dès les premiers jours de l’exode ukrainien, quand un tri des exilés s’est opéré, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, à la frontière polonaise, au point que la haut-commissaire aux droits de l’homme de l’Onu s’était dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine ». Le traitement réservé depuis des années en France aux exilés privés d’abri et de nourriture, harcelés et pourchassés par la police, dans le Calaisis comme en région parisienne, à la frontière italienne ou dans le Pays basque est la traduction quotidienne de cette politique xénophobe et raciste.

      Au-delà d’une indispensable réorganisation du secours en mer afin que les passagers d’un navire en détresse puissent être débarqués sans délai dans un lieu sûr, comme le prescrit le droit international, l’épisode de l’Ocean Viking nous rappelle, une fois de plus, la nécessité d’une véritable politique d’accueil, dont l’exemple ukrainien montre qu’elle est possible. Elle doit être fondée sur l’accès inconditionnel au territoire de toutes celles et ceux qui demandent protection aux frontières de la France et de l’Europe, sans présupposé lié à leur origine ni distinction arbitraire entre « migrants » et « réfugiés », la mise à l’écart de tout dispositif coercitif au profit d’un examen attentif et de la prise en charge de leurs besoins, et le respect du choix par les personnes de leur terre d’asile, à l’exclusion de toute répartition imposée.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/migrants-de-locean-viking-refugies-dukraine-quelle-difference-20221115_WG

    • « Ocean Viking » : les fourberies de Darmanin

      Le ministre de l’intérieur a annoncé, mardi 15 novembre, que 44 des 234 rescapés de l’« Ocean Viking » seront expulsés dans leur pays d’origine, tandis que la majorité des autres seront relocalisés dans des pays de l’Union européenne. La #fable de la générosité française s’est rapidement fracassée sur l’obsession de Gérald Darmanin de ne pas donner de prises au RN, en acceptant de secourir, mais pas d’accueillir.

      « Expulsés », « relocalisés » : ces termes affreux pour désigner des personnes résument à eux seuls le vrai visage de l’« accueil » que la France réserve aux rescapés de l’Ocean Viking, bien loin d’une certaine idée que l’on pourrait se faire de l’hospitalité due à des hommes, des femmes et des enfants ayant risqué de se noyer en mer pour fuir leur pays. On avait bien compris depuis ses premières interventions que Gérald Darmanin avait agi contraint et forcé. Que les autorités françaises, par la voix blanche du ministre de l’intérieur, avaient fini, à contrecœur, par autoriser les passagers à débarquer à Toulon, dans le Var, vendredi 11 novembre, uniquement parce qu’elles estimaient ne pouvoir faire autrement : à la suite du refus de la nouvelle présidente post-fasciste du conseil italien, Giorgia Meloni, de voir le bateau affrété par SOS Méditerranée accoster sur les rives italiennes, les exilés étaient à bout de forces, et risquaient de mourir.

      Après avoir failli dans le sauvetage de 27 exilés dans la Manche en 2021 (les secours français ayant attendu leur entrée dans les eaux anglaises sans envoyer de moyen de sauvetage, selon les récentes révélations du Monde), la France cette fois-ci ne les laisserait pas périr en mer. Mais elle s’en tiendrait là, sans accueil digne de son nom, ni élan de solidarité. Et ce qui a été vécu par Paris comme un affront ne resterait pas sans conséquences. Tels étaient les messages passés après la décision à reculons d’accepter le débarquement.

      Le courroux français s’est logiquement abattu sur la dirigeante italienne, qui, contrevenant au droit international, a bloqué l’accès de ses côtes au navire humanitaire. Mais il y a fort à parier que la discorde diplomatique finisse par se dissiper. Et qu’en définitive les exilés eux-mêmes soient les principales victimes des mesures de rétorsion françaises.

      Mardi 15 novembre, lors des questions au gouvernement à l’Assemblée nationale, le ministre de l’intérieur a ainsi annoncé, telle une victoire, qu’au moins 44 des 234 rescapés seraient renvoyés dans leur pays d’origine. « Dès que leur état de santé » le permettra, bien sûr, et alors même que l’étude des dossiers est toujours en cours, selon son propre aveu devant les députés. « J’ai déjà pris […] contact dès [lundi] avec mes homologues étrangers pour que ces reconduites à la frontière puissent se faire dans les temps les plus courts possible », s’est-il réjoui, espérant que ces expulsions seront réalisées d’ici à la fermeture de la zone d’attente « dans une vingtaine de jours ». Sachant que le ministre avait d’emblée assuré que les deux tiers des rescapés acceptés sur le sol européen feraient l’objet d’une « relocalisation » vers onze autres pays de l’UE, le nombre de celles et ceux autorisés à demander l’asile en France sera réduit à la portion congrue.

      Gérald Darmanin, en vérité, avait commencé ses calculs d’apothicaire avant même le débarquement, en déclarant que la France suspendait immédiatement l’accueil pourtant prévu de longue date de 3 500 réfugiés se trouvant en Italie et qu’il renforcerait les contrôles à la frontière franco-italienne.

      Entre les « expulsés », les « relocalisés » et les « refusés », la générosité de la France s’est vite muée en démonstration de force à visée politique sur le dos de personnes qui, venues du Bangladesh, d’Érythrée, de Syrie, d’Égypte, du Pakistan, du Mali, du Soudan et de Guinée, ont enduré les dangers de l’exil dans l’espoir d’une vie meilleure. Personne, faut-il le rappeler, ne quitte ses proches, son pays, sa maison, son travail, ses habitudes, avec pour seul bagage quelques billets en poche, pour le plaisir de traverser la Méditerranée. Politiques, économiques, sociaux, climatiques, leurs motifs sont le plus souvent solides. Sauvés en mer par l’équipage de l’Ocean Viking, les 234 rescapés ont attendu trois semaines, dans des conditions indicibles, la possibilité de poser un pied sur la terre ferme. La Commission européenne avait rappelé la nécessité, la veille du feu vert français, de les laisser accoster, soulignant « l’obligation légale de sauver les vies humaines en mer, claire et sans équivoque, quelles que soient les circonstances ».
      « Secourir et reconduire »

      Guidé par sa volonté de répondre à l’extrême droite qui l’accuse de « complaisance », le ministre de l’intérieur a en réalité anticipé son attente, telle qu’exprimée par une élue RN du Var, Laure Lavalette, dans l’hémicycle mardi, l’appelant à « secourir et reconduire ».

      Le cadre répressif de cet accueil à la française a été posé au moment même où les rescapés sont arrivés en France. Leur débarquement s’est fait sous escorte militaire, à l’abri des regards des élus, des ONG et des journalistes, dans le port militaire de Toulon (lire ici et là). Ils ont aussitôt été placés dans une « zone d’attente » créée pour l’occasion, dans un ancien « village de vacances » de la presqu’île de Giens, c’est-à-dire dans un lieu d’enfermement. Ainsi l’« accueil » a commencé sous de sombres auspices.

      Placés sous la garde de deux cents policiers et gendarmes, les 234 rescapés ont été soumis, sans attendre d’être remis des épreuves physiques et psychologiques de la traversée, à un examen de leur situation administrative. Pratiquée dans l’urgence, la procédure, dans ce cadre « exceptionnel », est particulièrement expéditive : les agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), instance dépendant du ministère de l’intérieur, sont tenus de délivrer un avis « sous 48 heures » sur le « caractère manifestement fondé ou non de la demande d’asile », charge ensuite au ministère de l’intérieur de poursuivre – ou non – l’examen du dossier. Comment peut-on humainement demander à des personnes venant de passer trois semaines d’errance en mer, et qui ont pour la plupart subi des chocs de toute sorte, de retracer posément – et de manière convaincante, c’est-à-dire preuves à l’appui – les raisons qui leur permettraient d’obtenir une protection de la France ? L’urgence, l’arbitraire et le respect de la dignité des personnes font rarement bon ménage.

      Habilitée à intervenir en zone d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, qui a pu se rendre sur place, estime dans un communiqué publié mardi que les rescapés de l’Ocean Viking sont « victimes de violation de leurs droits fondamentaux » dans cette zone d’attente. Ses constats sont « alarmants ». Elle regrette tout d’abord le manque de temps de repos à l’arrivée et une prise en charge médicale passablement insuffisante. Elle évoque ensuite de nombreuses violations du droit d’asile dans le déroulement des entretiens administrés par l’Ofpra, liées notamment au manque d’interprétariat, à l’absence de confidentialité des échanges et à l’absence d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Mais discuter de la légalité des procédures n’est, à cette heure, pas la priorité du ministre de l’intérieur dont l’objectif est de montrer qu’il prend garde à ce que la France ne soit pas « submergée » par quelques dizaines d’exilés. Sa célérité à annoncer, le plus vite possible, et avant même la fin de la procédure, qu’une partie des rescapés seront expulsés, en est la preuve.

      Quand on se souvient de l’accueil réservé aux Afghans fuyant le régime des talibans ou aux Ukrainiens fuyant la guerre, on observe pourtant qu’il existe d’autres manières d’assurer que les droits des demandeurs d’asile soient respectés. Pour ne prendre que cet exemple, il y a un an, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens ont fui l’invasion russe, « la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue », souligne Claire Rodier, membre du Groupe d’information et de soutien des immigré·es (Gisti) et du réseau Migreurop, dans une tribune à Libération. Et de rappeler les déclarations du ministre de l’intérieur lui-même assurant alors que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ».

      Précédent également notable, la France, en 2018, avait refusé d’accueillir l’Aquarius, soumis au même sort que l’Ocean Viking. À l’époque, Emmanuel Macron n’avait pas voulu céder et le navire avait fait route vers Valence, en Espagne, suscitant la honte d’une partie des soutiens du président de la République. L’accueil alors réservé aux exilés par les autorités et la société civile espagnole avait été d’une tout autre teneur. Le pays s’était largement mobilisé, dans un grand élan de solidarité, pour que les rescapés trouvent le repos et le réconfort nécessaires après les épreuves de l’exil.

      Il faut se souvenir enfin de l’émoi national légitimement suscité, il n’y a pas si longtemps, par les propos racistes du député RN Grégoire de Fournas, en réponse à une intervention de l’élu LFI Carlos Martens Bilongo concernant… l’Ocean Viking. « Qu’il(s) retourne(nt) en Afrique », avait-il déclaré (lire notre article), sans que l’on sache trop s’il s’adressait à l’élu noir ou aux exilés en perdition. Alors qu’il est désormais établi qu’au moins quarante-quatre d’entre eux seront renvoyés dans leur pays d’origine, vraisemblablement, pour certains, sur le continent africain, il sera intéressant de constater à quel niveau notre pays, et plus seulement nos gouvernants, placera son curseur d’indignation.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/161122/ocean-viking-les-fourberies-de-darmanin

    • Ocean Viking : 123 « #refus_d'entrée » en France et une grande confusion

      Une semaine après leur débarquement à Toulon, une soixantaine de migrants de l’Ocean Viking a été autorisée à demander l’asile. En parallèle de la procédure d’asile aux frontière, des décisions judiciaires ont conduit à la libération d’une centaine de rescapés retenus dans la « zone d’attente », désormais libres d’entrer sur le sol français. Une vingtaine de mineurs, ont quant à eux, pris la fuite vers d’autres pays.

      Sur les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking débarqués à Toulon il y a une semaine, 123 migrants se sont vu opposer un refus à leur demande d’asile, soit plus de la moitié, a indiqué vendredi 18 novembre le ministère de l’Intérieur. Ils font donc « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, soit plus de la moitié, a ajouté le ministère de l’Intérieur.

      Hormis les 44 passagers reconnus mineurs et placés dès les premiers jours sous la protection de l’Aide sociale à l’enfance, les 189 adultes restant avaient été retenus dans une « zone d’attente » fermée, qui n’est pas considérée comme appartenant au territoire français. Un espace créé dans le cadre de la procédure d’asile à la frontière, pour l’occasion, dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, à proximité de Toulon.

      Ils sont tous passés cette semaine entre les mains de la police et des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), pour des contrôles de sécurité et de premiers entretiens effectués depuis cette « zone d’attente », afin d’évaluer si leur demande d’asile était fondée.

      Au terme de ces entretiens, l’Ofpra a émis « 66 avis favorables » a précisé Charles-Edouard Minet, sous-directeur du conseil juridique et du contentieux du ministère de l’Intérieur. Cette soixantaine de migrants a donc été autorisée à déposer des demandes d’asile, et autorisée à entrer sur le territoire français. Ils ont été conduits vers des centres d’hébergement du Var, dont des #Centres_d'accueil_et_d'évaluation_des_situations (#CAES).

      Parmi eux, certains seront « relocalisés » vers les onze pays européens (dont l’Allemagne, la Finlande ou le Portugal) qui s’étaient portés volontaires pour se répartir les efforts et les accueillir après leur débarquement en France.

      Des avis défavorables mais pas d’expulsions massives et immédiates

      Les « 123 avis défavorables », quant à eux, ne sont pas pour autant immédiatement expulsables. Le gouvernement français veut aller vite, le ministre de l’Intérieur Gerald Darmanina ayant affirmé dès le 15 novembre que ces personnes « seront reconduites [vers leur pays d’origine] dès que leur état de santé » le permettra. Mais les refoulements pourraient prendre un temps plus long, car ces procédures nécessitent que « la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer, avait expliqué l’Anafé, association de défense des étrangers aux frontières, à InfoMigrants il y a quelques jours.

      D’autre part, des décisions de justice sont venues chambouler le calendrier annoncé par l’Etat. La cour d’appel d’Aix-en-Provence a annoncé vendredi 18 novembre avoir validé la remise en liberté de la « quasi-totalité, voire la totalité » des 108 rescapés qui réclamaient de ne plus être enfermés dans la « zone d’attente ».

      En cause, des vices de procédure dans les dossiers montés dans l’urgence et de juges dépassés par la centaine de cas à traiter. Les juges des libertés et de la détention (JLD) qui doivent en France, se prononcer pour ou contre un maintien en « zone d’attente » après 4 jours d’enfermement, ont estimé dans une majorité de cas que les migrants devaient être libérés. Le parquet a fait appel de ces décisions, mais la cour d’appel a donné raison au JLD pour une non-prolongation du maintien dans la « zone d’attente » dans la plupart des cas.

      Certains des migrants libérés avaient reçu ces fameux avis défavorables de l’Ofpra, notifiés par le ministère de l’Intérieur. D’après l’Anafé, ils devraient néamoins pouvoir désormais « faire une demande d’asile une fois entrés sur le territoire ».

      Douze migrants en « zone d’attente »

      Après ces annonces de libération, le gouvernement a estimé dans l’après-midi, vendredi, que seuls douze migrants se trouvaient toujours dans ce centre fermé vendredi après-midi. A ce flou s’ajoutent « les personnes libérées mais revenues volontairement » sur le site « pour bénéficier » de l’hébergement, a reconnu, désabusé, le représentant du ministère.

      Ces complications judiciaires et administratives ont perturbé nombre des rescapés, parmi lesquels se trouvent des personnes fragiles, dont la santé nécessite des soins psychologiques après les 20 jours d’errance en mer sur l’Ocean Viking qui ont précédé cette arrivée chaotique en France. Et ce d’autant que les autorités et les associations présentes dans la « zone d’attente » ont été confrontés à une pénurie de traducteurs dès les premiers jours.

      A tel point que le préfet du Var, Evence Richard, a alerté le 16 novembre sur le manque d’interprètes, estimant qu’il s’agissait d’"un vrai handicap" pour s’occuper des migrants. « Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants », avait aussi fait savoir l’Anafé dans un communiqué publié mardi.

      Des scènes de grande confusion

      En effet, la presse locale du Var et d’autres journaux français ont rapporté des scènes de grande confusion lors des audiences devant le tribunal de Toulon et la cour d’appel d’Aix-en-Provence, avec des « interprètes anglais pour des Pakistanais, une femme de ménage du commissariat de Toulon réquisitionnée comme interprète de langue arabe, des entretiens confidentiels tenus dans les couloirs », comme en atteste dans les colonnes du Monde, la bâtonnière du barreau varois, Sophie Caïs, présente le 15 novembre au tribunal.

      Dans une autre audience, décrite par un journaliste du quotidien français ce même jour, une mère Malienne « fond en larmes lorsque la juge lui demande ce qu’elle a à ajouter aux débats. Sa petite fille de 6 ans, qui, depuis le début de la matinée ne la quitte pas d’un pouce, ouvre de grands yeux ».

      Des mineurs en fugue

      En parallèle, parmi les 44 rescapés mineurs logés hors de la « zone d’attente », dans un hôtel où ils étaient pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance, 26 ont quitté les lieux de leur propre chef, a-t-on appris le 17 novembre dans un communiqué du Conseil départemental du Var.

      Les mineurs qui ont fugué « ont eu un comportement exemplaire, ils sont partis en nous remerciant », a insisté Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var. D’après lui, ces jeunes, dont une majorité d’Erythréens, « ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du nord » tels que les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches.

      Les services sociaux ont « essayé de les en dissuader », mais « notre mission est de les protéger et pas de les retenir », a ajouté M. Paquette.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/44849/ocean-viking--123-refus-dentree-en-france-et-une-grande-confusion

    • Ocean Viking : le #Conseil_d’État rejette l’#appel demandant qu’il soit mis fin à la zone temporaire d’attente où certains passagers ont été maintenus

      Le juge des référés du Conseil d’État rejette aujourd’hui la demande de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) de mettre fin à la zone d’attente temporaire dans laquelle ont été placés certains passagers de l’Ocean Viking. L’association requérante, avec le soutien d’autres associations, contestait les conditions de création de la zone d’attente et estimait que les personnes qui y avaient été placées n’avaient pas accès à leurs droits. Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé. Il observe également que les demandes d’asile à la frontière ont pu être examinées, 66 personnes étant finalement autorisées à entrer sur le territoire pour déposer leur demande d’asile, et que les procédures judiciaires ont suivi leur cours, la prolongation du maintien de la détention n’ayant d’ailleurs pas été autorisée pour la très grande majorité des intéressés. Enfin, il constate qu’à la date de son intervention, les associations et les avocats peuvent accéder à la zone d’attente et y exercer leurs missions dans des conditions n’appelant pas, en l’état de l’instruction, que soient prises des mesures en urgence.

      Pour des raisons humanitaires, le navire « Ocean Viking » qui transportait 234 personnes provenant de différents pays, a été autorisé par les autorités françaises à accoster au port de la base militaire navale de Toulon. Le préfet a alors créé une zone d’attente temporaire incluant cette base militaire et un village vacances à Hyères, où ont été transférées, dès le 11 novembre dernier au soir, les 189 personnes placées en zone d’attente.

      L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) a saisi en urgence le juge des référés du tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’exécution de l’arrêté préfectoral créant la zone d’attente temporaire, estimant que les personnes placées en zone d’attente se trouvaient illégalement privées de liberté et n’avaient pas un accès effectif à leurs droits. Après le rejet de son recours mercredi 16 novembre, l’association a saisi le juge des référé-liberté du Conseil d’État, qui peut, en appel, ordonner toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d’une liberté fondamentale en cas d’atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale. Ce dernier confirme aujourd’hui la décision du tribunal administratif et rejette l’appel de l’association.

      Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé (nombre important de personnes, nécessité d’une prise en charge médicale urgente, considérations d’ordre public), ce qui a conduit à la création par le préfet d’une zone d’attente temporaire sur le fondement des dispositions issues d’une loi du 16 juin 20111, en cas d’arrivée d’un groupe de personnes en dehors d’une « zone de passage frontalier ». Il observe également que les droits de ces étrangers n’ont pas, de ce seul fait, été entravés de façon grave et manifestement illégale. L’Office français de protection des réfugiés et apatrides (OFPRA) a pu mener les entretiens légalement prévus, ce qui a conduit à ce que 66 personnes soient autorisées à entrer sur le territoire pour présenter une demande d’asile, et le juge des libertés et de la détention puis la cour d’appel d’Aix-en-Provence se sont prononcés sur la prolongation des mesures de détention, qui a d’ailleurs été refusée dans la grande majorité d’entre eux.

      S’agissant de l’exercice des droits au sein même de la zone, le juge des référés, qui se prononce en fonction de la situation de fait à la date à laquelle son ordonnance est rendue, note qu’à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, l’association requérante a pu accéder au village vacances sans entrave. Si la persistance de difficultés a pu être signalée à l’audience, elles ne sont pas d’une gravité telle qu’elles rendraient nécessaires une intervention du juge des référés. Le ministère de l’intérieur a par ailleurs transmis à l’association, une liste actualisée des 16 personnes encore maintenues, afin de lui faciliter l’exercice de sa mission d’assistance, comme il s’y était engagé lors de l’audience au Conseil d’État qui a eu lieu hier.

      Les avocats ont également accès au village vacances. Là encore, des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente. Mais des mesures ont été progressivement mises en œuvre pour tenter d’y répondre, notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et internet.

      A la date de l’ordonnance et en l’absence d’une atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale, il n’y avait donc pas lieu pour le juge des référés de prononcer des mesures en urgence.

      1 Loi n° 2011-672 du 16 juin 2011 relative à l’immigration, à l’intégration et à la nationalité.

      https://www.conseil-etat.fr/actualites/ocean-viking-le-conseil-d-etat-rejette-l-appel-demandant-qu-il-soit-mis
      #justice

    • Le Conseil d’État valide l’accueil au rabais des rescapés de l’Ocean Viking

      Des associations contestaient la création de la zone d’attente dans laquelle ont été enfermés les exilés après leur débarquement dans le port militaire de Toulon. Bien qu’elle ait reconnu « des insuffisances », la plus haute juridiction administrative a donné raison au ministère de l’intérieur, invoquant des « circonstances exceptionnelles ».

      LeLe Conseil d’État a donné son blanc-seing à la manière dont le ministère de l’intérieur a géré l’arrivée en France des rescapés de l’Ocean Viking. Débarqués le 11 novembre à Toulon après vingt jours d’errance en mer, à la suite du refus de l’Italie de les faire accoster sur ses côtes, les migrants avaient immédiatement été placés dans une zone d’attente temporaire à Hyères (Var), sur la presqu’île de Giens. Gerald Darmanin avait en effet décidé de secourir, sans accueillir. 

      Ce lieu d’enfermement, créé spécialement pour y maintenir les exilés avant qu’ils ne soient autorisés à demander l’asile, est-il légal ? L’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) posait cette fois la question au Conseil d’État, après avoir été déboutée une première fois par le tribunal administratif de Toulon. 

      La plus haute juridiction administrative du pays a rejeté samedi 19 novembre la demande de l’association qui souhaitait la fermeture de la zone d’attente au motif que les droits des exilés n’étaient pas respectés. Le Conseil d’État reconnaît que « des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente ». Mais il invoque « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé ». 

      L’audience s’est déroulée vendredi matin, sous les moulures et lustres recouverts d’or du Conseil d’État. Si 189 personnes étaient initialement maintenues dans la zone d’attente le 11 novembre, elles étaient de moins en moins nombreuses au fil de la journée, assurait d’entrée de jeu le représentant du ministère de l’intérieur, Charles-Édouard Minet. « Vous êtes en train de me dire qu’à la fin de la journée, il peut n’y avoir plus personne en zone d’attente », s’était étonnée la magistrate qui présidait l’audience. « Absolument, oui », confirmait Charles-Édouard Minet. Rires dans la salle.

      Symbole de la grande improvisation ministérielle, la situation évoluait d’heure en heure, à mesure que la justice mettait fin au maintien prolongé des exilés en zone d’attente. Au moment de l’audience, entre 12 et 16 personnes étaient encore enfermées. Deux heures plus tard, la cour d’appel d’Aix-en-Provence décidait de remettre en liberté la « quasi-totalité voire la totalité » des personnes retenues dans la zone d’attente d’Hyères. Moins de dix personnes y seraient encore retenues. 

      Devant le Conseil d’État, s’est tenue une passe d’armes entre les avocats défendant les droits des étrangers et le ministère de l’intérieur. Son représentant a assuré que l’accès aux droits des personnes retenues était garanti. Ce qu’a fermement contesté le camp adverse : « Il existe un vrai hiatus entre ce que dit l’administration et ce qu’ont constaté les associations : les avocats ne peuvent pas accéder comme il le devrait à la zone d’attente », a affirmé Cédric Uzan-Sarano, conseil du Groupe d’information et de soutien des immigrés (GISTI). 

      En creux, les représentants des associations dénoncent les choix très politiques de Gerald Darmanin. Plutôt que de soumettre les rescapés de l’Ocean Viking à la procédure classique de demande d’asile, la décision a été prise de les priver de leurs libertés dès leur débarquement sur le port militaire de Toulon. « Tous les dysfonctionnements constatés trouvent leur source dans l’idée de l’administration de créer cette zone d’urgence, exceptionnelle et dérogatoire », tance Patrice Spinosi, avocat de l’Anafé. 

      Les associations reprochent aux autorités le choix de « s’être placées toutes seules dans une situation d’urgence » en créant la zone d’attente temporaire. La procédure étant « exceptionnelle » et « mise en œuvre dans la précipitation », « il ne peut en découler que des atteintes aux droits des étrangers », ont attaqué leurs avocats.

      Dans sa décision, le Conseil d’État considère toutefois que la création de la zone d’attente est conforme à la loi. Il met en avant « le nombre important de personnes, la nécessité d’une prise en charge médicale urgente et des considérations d’ordre public ». L’autorité administrative note par ailleurs qu’au moment où elle statue, « à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, [l’Anafé] a pu accéder au village vacances sans entrave ».

      À écouter les arguments de l’Anafé, les dysfonctionnements sont pourtant nombreux et persistants. À peine remis d’un périple éprouvant, les exilés ont dû sitôt expliquer les persécutions qu’ils ont fuies aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra).

      « Puisque les entretiens avec l’Ofpra sont devenus l’alpha et l’oméga des procédures d’asile, il est indispensable que les personnes soient préparées par des avocats », juge Gérard Sadik, représentant de La Cimade, une association qui vient en aide aux réfugiés. 
      Plus de la moitié des rescapés interdits d’entrée sur le territoire

      L’Anafé estime que les conditions sur la zone d’attente d’Hyères ne permettent pas aux associations et aux avocats d’accomplir leur mission d’accompagnement. Si les autorités ont mis à disposition deux locaux, ceux-ci « ne sont équipés ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’Internet pour transmettre les recours », indique l’Anafé. Par ailleurs, ces pièces, très vite remplacées par des tentes, empêchent la confidentialité des échanges, pourtant imposée par la loi. 

      Laure Palun, directrice de l’Anafé, est la seule personne présente ce jour-là à l’audience à avoir visité la zone d’attente. « Quand on passait à côté des tentes, on pouvait entendre et voir tout ce qui se passait à l’intérieur, décrit-t-elle. Un moment, on a même vu un exilé quasiment couché sur une table pour comprendre ce que l’interprète lui disait au téléphone. »

      Le Conseil d’État a préféré relever les efforts réalisés par les autorités pour corriger les « insuffisances constatées dans les premiers jours » : « Des mesures ont été progressivement mises en œuvre [...], notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et Internet. »

      Conséquence de cette procédure d’asile au rabais et des obstacles rencontrés par les exilés dans l’exercice de leurs droits ? Charles-Édouard Minet a annoncé que plus de la moitié des rescapés du navire de SOS Méditerranée, soit cent vingt-trois personnes, ont fait « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, à la suite de leur entretien individuel avec l’Ofpra. Pour l’heure, le ministère de l’intérieur n’a pas précisé s’ils allaient être expulsés. 

      D’un ton solennel, Patrice Spinosi avait résumé l’enjeu de l’audience : « La décision que vous allez rendre sera la première sur les zones d’attente exceptionnelles. Il existe un risque évident que cette situation se reproduise, [...] l’ordonnance que vous rendrez définira une grille de lecture sur ce que peut faire ou pas l’administration. » L’administration n’aura donc pas à modifier ses procédures.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/191122/le-conseil-d-etat-valide-l-accueil-au-rabais-des-rescapes-de-l-ocean-vikin

    • Ocean Viking : « On vient d’assister à un #fiasco »

      Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) énumère les multiples entraves aux droits des personnes recueillies par l’Ocean Viking et déplore que le choix de l’enfermement l’ait emporté sur celui de l’accueil.

      La France avait annoncé vouloir faire vite. Se prononcer « très rapidement » sur le sort des passager·ères de l’Ocean Viking tout juste débarqué·es sur la base navale de Toulon (Var), après que le gouvernement italien d’extrême droite avait refusé (en toute illégalité) que le navire accoste sur son territoire. Ces personnes étaient maintenues dans une zone d’attente temporaire créée dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens.

      Un lieu de privation de liberté qui, juridiquement, n’est pas considéré comme étant sur le sol français. Dans les quarante-huit heures, avaient estimé les autorités, l’ensemble des rescapé·es auraient vu examiner la pertinence de leur demande d’asile par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra). Une procédure accélérée qui n’a pas vocation à attribuer une protection internationale, mais à examiner si la demande d’entrée sur le territoire au titre de l’asile est manifestement fondée ou pas.

      Rien, toutefois, ne s’est passé comme prévu puisque la quasi-totalité des rescapé·es, à l’heure où nous écrivons ces lignes, ont pu être libéré·es au terme de différentes décisions judiciaires (1). Pour Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étranger·ères (Anafé) – la principale association autorisée à intervenir en zone d’attente –, « on vient d’assister à un fiasco ». Tant pour l’administration que pour les demandeur·ses d’asile.

      En créant une zone d’attente temporaire, les autorités ont choisi d’accueillir les passager·ères de l’Ocean Viking sous le régime de la privation de liberté. Que dit la méthode ?

      Laure Palun : Que nous aurions pu faire le choix de l’accueil, plutôt que celui de l’enfermement ! La zone d’attente est un lieu privatif de liberté où la procédure d’asile « classique » ne s’applique pas. La procédure d’asile à la frontière permet de procéder à une sorte de tri en amont et de dire si, oui ou non, la personne peut entrer sur le territoire pour y demander la protection internationale. Mais l’expérience nous le montre : le tri, les opérations de filtrage et les procédures d’asile à la frontière, ça ne fonctionne pas si on veut être en conformité avec le respect des droits.

      La situation des personnes sauvées par l’Ocean Viking et enfermées dans la zone d’attente de Toulon nous a donné raison puisque la plupart d’entre elles ont été libérées et prises en charge pour entrer dans le dispositif national d’accueil (DNA). Soit parce qu’elles avaient été admises sur le territoire au titre de l’asile, soit parce qu’elles avaient fait l’objet d’une décision judiciaire allant dans le sens d’une libération.

      Lire aussi > Ocean Viking, un naufrage diplomatique

      On vient d’assister à un fiasco. Non seulement du côté des autorités – considérant l’échec de leur stratégie politique –, mais aussi pour les personnes maintenues, qui auraient pu se reposer et entrer dans le processus d’asile classique sur le territoire une semaine plus tôt si elles n’avaient pas été privées de liberté. Au lieu de ça, elles ont été fichées, fouillées et interrogées à de multiples reprises.

      Le point positif, c’est que les mineur·es non accompagné·es – qui ont bien été placé·es quelques heures en zone d’attente, contrairement à ce qu’a déclaré le ministère de l’Intérieur – ont été libéré·es le premier jour pour être pris·es en charge. Le Ceseda [code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile] prévoit en effet que les mineur·es non accompagné·es qui souhaitent demander l’asile ne peuvent être maintenu·es en zone d’attente « sauf exception ». Mais c’est généralement le cas.

      Le 16 novembre, devant l’Assemblée nationale, le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, avait pourtant annoncé l’expulsion de 44 personnes d’ici à la fin de la période de maintien en zone d’attente.

      Une telle déclaration pose de vraies questions sur le non-respect de la convention de Genève, de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales, et du droit national : il n’est pas possible de dire une chose pareille, alors même que les personnes sont en cours de procédure d’asile. Même si les demandes de ces personnes ont été rejetées, il existe des recours, et ça fait partie de la procédure !

      Le droit à un recours effectif est inscrit dans la Convention européenne des droits de l’homme et a même été consacré concernant la procédure d’asile à la frontière en 2007 (2). Mais Gérald Darmanin a aussi dit qu’il avait pris contact, la veille [le 15 novembre, NDLR], avec les autorités des pays d’origine.

      Non seulement les décisions de l’Ofpra n’avaient pas encore été notifiées aux demandeur·ses d’asile à ce moment-là – et quand bien même ça aurait été le cas, elles étaient encore susceptibles de recours –, mais il s’agit encore d’une atteinte grave et manifeste à la convention de Genève. Contacter les pays d’origine de personnes en cours de demande d’asile, a fortiori pour envisager leur expulsion, ajoute des risques de persécutions en cas de retour dans le pays.

      Dans un communiqué, vous avez dénoncé de « nombreuses violations des droits » au sein de la zone d’attente, notamment dans le cadre des procédures d’asile. Lesquelles ?

      À leur arrivée, les personnes ont été prises en charge d’un point de vue humanitaire. À ce sujet, l’Anafé n’a pas de commentaire à faire. En revanche, elles n’ont reçu quasiment aucune information sur la procédure, sur leurs droits, et elles ne comprenaient souvent pas ce qui se passait. En dehors de la procédure d’asile, il n’y avait pratiquement aucun interprétariat.

      Cela a représenté une immense difficulté sur le terrain, où les conditions n’étaient globalement pas réunies pour permettre l’exercice effectif des droits. Notamment le droit de contacter un·e avocat·e, une association de défense des droits, ou un·e médecin. Et ni les associations ni les avocat·es n’ont pu accéder à un local pour s’entretenir en toute confidentialité avec les demandeur·ses d’asile.

      Concernant les demandes d’asile, ça a été très compliqué. Déjà, à l’ordinaire, les procédures à la frontière se tiennent dans des délais très courts. Mais, ici, l’Ofpra a dû mener environ 80 entretiens par jour. Pour les officier·ères de protection, cela paraît très lourd. Et ça signifie aussi que les personnes ont dû passer à la chaîne, moins de 48 heures après leur débarquement, pour répondre à des questions portant sur les risques de persécution dans leurs pays.

      Les entretiens ont été organisés sans confidentialité, dans des bungalows ou des tentes au travers desquels on entendait ce qui se disait, avec des interprètes par téléphone – ce que nous dénonçons mais qui est classique en zone d’attente. Ces entretiens déterminants devraient être menés dans des conditions sereines et nécessitent de pouvoir se préparer. Cela n’a pas été le cas, et on le constate : 123 dossiers de demande d’entrée sur le territoire ont été rejetés.

      Le Conseil d’État a pourtant estimé que, malgré « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé », les droits des personnes placées en zone d’attente n’avaient pas été « entravés de façon grave et manifestement illégale ».

      Nous avons déposé une requête devant le tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’arrêt de création de la zone d’attente, mais cela n’a pas abouti. L’Anafé a fait appel et porté l’affaire devant le Conseil d’État. Ce dernier n’a pas fait droit à notre demande, constatant que des améliorations avaient été apportées par l’administration avant la clôture de l’instruction, tout en reconnaissant que des manquements avaient été commis.

      Le Conseil d’État a néanmoins rappelé que les droits des personnes devaient être respectés, et notamment l’accès à un avocat, à une association de défense des droits et à la communication avec l’extérieur. Par exemple, ce n’est qu’après l’audience que l’administration a consenti à transmettre à l’Anafé le nom des personnes encore enfermées (16 au moment de l’audience) pour qu’elle puisse exercer sa mission de défense des droits.

      Il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés après avoir vécu l’enfer.

      Ces entraves affectent notre liberté d’aider autrui à titre humanitaire découlant du principe de fraternité, consacré en 2018 par le Conseil constitutionnel, mais surtout les droits fondamentaux des personnes que l’Anafé accompagne.

      Il est à déplorer que les autorités ne respectent pas les droits des personnes qu’elle enferme et qu’il faille, à chaque fois, passer par la voie contentieuse pour que des petites améliorations, au cas par cas, soient apportées. Le respect des droits fondamentaux n’est pas une option, et l’Anafé continuera d’y veiller.

      Avec le projet de réforme européenne sur la migration et l’asile, qui prévoit notamment de systématiser la privation de liberté aux frontières européennes le temps de procéder aux opérations de « filtrage », faut-il s’attendre à ce que de telles situations se reproduisent et, en l’absence de condamnation du Conseil d’État, à des expulsions qui seraient, cette fois, effectives ?

      La situation vécue ces derniers jours démontre une nouvelle fois que la procédure d’asile à la frontière et la zone d’attente ne permettent pas de respecter les droits des personnes qui se présentent aux frontières européennes. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis de nombreuses années et c’est ce qu’elle a mis en avant dans le cadre de sa campagne « Fermons les zones d’attente ».

      La perspective d’étendre cette pratique au niveau européen dans le cadre du pacte sur la migration et l’asile est un fiasco politique annoncé. Surtout, cela aura pour conséquence des violations des droits fondamentaux des personnes exilées. Au-delà du camouflet pour le gouvernement français, il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés, et pour certains qui le sont encore, dans la zone d’attente de Toulon, après avoir vécu l’enfer – camps libyens, traversée de la Méditerranée…

      Le filtrage, le tri et l’enfermement ne peuvent pas être la réponse européenne à de telles situations de détresse, sauf à ajouter de la souffrance et de la violence pour ces personnes.

      En représailles de l’action de l’Italie, le gouvernement a annoncé le déploiement de 500 policiers et gendarmes supplémentaires à la frontière franco-italienne, où l’Anafé constate quotidiennement des atteintes aux droits. À quoi vous attendez-vous dans les prochains jours, sur le terrain ?

      Nous sommes évidemment très mobilisés. Actuellement, nous constatons toujours la même situation que celle que nous dénonçons depuis de nombreuses années. Conséquence de ces contrôles, les personnes prennent de plus en plus de risques et, pour certaines, mettent leur vie en péril… Preuve en est l’accident qui a eu lieu ce week-end à la frontière franco-italienne haute (3).

      Il me paraît surtout important de rappeler que ces effectifs sont mobilisés dans le cadre du rétablissement du contrôle aux frontières intérieures, mesure ininterrompue depuis sept ans par les autorités françaises. Or ces renouvellements [tous les six mois, NDLR] sont contraires au droit européen et au code frontières Schengen. Il est temps que ça s’arrête.

      (1) Soit parce qu’elles ont reçu une autorisation d’entrée sur le territoire au titre de l’asile, soit parce que les juges des libertés et de la détention (JLD) ont refusé la prolongation du maintien en zone d’attente, soit parce que les JLD se sont dessaisis par manque de temps pour traiter les dossiers dans le délai imparti, soit en cour d’appel.

      (2) À la suite d’une condamnation par la Cour européenne des droits de l’homme, la France a modifié sa législation (Gebremedhin contre France, req n° 25389/05, 26 avril 2007).

      (3) Un jeune Guinéen est tombé dans un ravin dans les environs de Montgenèvre (Hautes-Alpes), ce dimanche 20 novembre.

      https://www.politis.fr/articles/2022/11/ocean-viking-on-vient-dassister-a-un-fiasco-45077

    • « Ocean Viking », autopsie d’un « accueil » à la française

      La sagesse, comme la simple humanité, aurait dû conduire à offrir aux rescapés de l’Ocean Viking des conditions d’accueil propres à leur permettre de se reposer de leurs épreuves et d’envisager dans le calme leur avenir. Au contraire, outre qu’elle a prolongé les souffrances qu’ils avaient subies, la précipitation des autorités à mettre en place un dispositif exceptionnel de détention a été la source d’une multitude de dysfonctionnements, d’illégalités et de violations des droits : un résultat dont personne ne sort gagnant.
      Dix jours après le débarquement à Toulon des 234 rescapés de l’Ocean Viking – et malgré les annonces du ministre de l’Intérieur affirmant que tous ceux qui ne seraient pas admis à demander l’asile en France seraient expulsés et les deux tiers des autres « relocalisés » dans d’autres pays de l’Union européenne – 230 étaient présents et libres de circuler sur le territoire français, y compris ceux qui n’avaient pas été autorisés à y accéder. Ce bilan, qui constitue à l’évidence un camouflet pour le gouvernement, met en évidence une autre réalité : le sinistre système des « zones d’attente », consistant à enfermer toutes les personnes qui se présentent aux frontières en demandant protection à la France, est intrinsèquement porteur de violations des droits humains. Principale association pouvant accéder aux zones d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) le rappelle depuis 2016 : « Il est illusoire de penser pouvoir [y] enfermer des personnes dans le respect de leurs droits et de leur dignité. » Ce qui s’est passé dans la zone d’attente créée à Toulon en est la démonstration implacable.

      Une gestion calamiteuse

      Pour évaluer a posteriori la gestion calamiteuse du débarquement de ces naufragés, il faut rembobiner le film : poussé dans ses ultimes retranchements mais y voyant aussi l’occasion de se poser en donneur de leçon à l’Italie, le gouvernement annonce le 10 novembre sa décision d’autoriser « à titre tout à fait exceptionnel » l’Ocean Viking à rejoindre un port français pour y débarquer les hommes, femmes et enfants qui, ayant échappé à l’enfer libyen, puis à une mort certaine, ont passé trois semaines d’errance à son bord. « Il fallait que nous prenions une décision. Et on l’a fait en toute humanité », a conclu le ministre de l’Intérieur.

      Preuve que les considérations humanitaires avancées n’ont rien à voir avec une décision prise à contrecœur, le ministre l’assortit aussitôt de la suspension « à effet immédiat » de la relocalisation promise en France de 3 500 exilés actuellement sur le sol italien : sous couvert de solidarité européenne, c’est bien le marchandage du non-accueil qui constitue l’unique boussole de cette politique du mistigri.

      Preuve, encore, que la situation de ces naufragé·e·s pèse de peu de poids dans « l’accueil » qui leur est réservé, une zone d’attente temporaire est créée, incluant la base navale de Toulon, où leur débarquement, le 11 novembre, est caché, militarisé, « sécurisé ». Alors même qu’ils ont tous expressément demandé l’asile, ils sont ensuite enfermés dans un « village vacances », à l’exception de 44 mineurs isolés, sous la garde de 300 policiers et gendarmes, le ministre prenant soin de préciser que, pour autant « ils ne sont pas légalement sur le territoire national ».

      La suspicion tenant lieu de compassion pour ces rescapés, débutent dès le 12 novembre, dans des conditions indignes et avec un interprétariat déficient, des auditions à la chaîne leur imposant de répéter inlassablement, aux policiers, puis aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), les récits des épreuves jalonnant leur parcours d’exil, récits sur la base desquels doivent être triés ceux dont la demande d’asile pourra d’emblée apparaître « manifestement infondée », les empêchant de fouler le sol de cette République qui prétendait, quelques heures auparavant, faire la preuve de son humanité.

      Seuls 66 de ces demandeurs d’asile échappent à ce couperet, si bien que les juges des libertés et de la détention du tribunal de Toulon sont alors chargés d’examiner la question du maintien dans la zone d’attente, au-delà du délai initial de quatre jours, de plus de 130 d’entre eux. La juridiction se révélant rapidement embolisée par cet afflux de dossiers, les juges se trouvent dans l’impossibilité de statuer dans les vingt-quatre heures de leur saisine comme l’impose la loi et ils n’ont d’autre solution que d’ordonner la mise en liberté de la plupart.

      En deux jours 124 dossiers examinés au pas de charge

      Le calvaire pourrait s’arrêter là pour ces exilé·e·s perdu·e·s dans les arcanes de procédures incompréhensibles, mais le procureur de la République de Toulon fait immédiatement appel de toutes les ordonnances de mise en liberté, sans doute soucieux que les annonces du ministre ne soient pas contredites par des libérations en masse. C’est alors la cour d’appel d’Aix-en-Provence – qui est soumise au train d’enfer imposé par la gestion de l’accueil à la française : entre le 16 et le 17 novembre 124 dossiers sont examinés au pas de charge pendant que les personnes concernées sont parquées dans un hall de la cour d’appel jusque tard dans la nuit. Mais les faits étant têtus et la loi sans ambiguïté, les juges d’appel confirment que leurs collègues de Toulon n’avaient pas d’autres choix que de prononcer les mises en liberté contestées. A l’issue de ce marathon, il ne reste, le 21 novembre, que quatre personnes en zone d’attente.

      « Tout ça pour ça » : ayant choisi la posture du gardien implacable des frontières qu’un instant de faiblesse humanitaire ne détourne pas de son cap, le gouvernement doit maintenant assumer d’avoir attenté à la dignité de ceux qu’il prétendait sauver et aggravé encore le sort qu’ils avaient subi. Il faudra bien qu’il tire les leçons de ce fiasco : la gestion policière et judiciaire de l’accueil qu’implique le placement en zone d’attente se révélant radicalement incompatible avec le respect des obligations internationales de la France, il n’y a pas d’autre solution – sauf à rejeter à la mer les prochains contingents d’hommes, de femmes et d’enfants en quête de protection – que de renoncer à toute forme d’enfermement à la frontière.

      Signataires : Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde) Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et trans à l’immigration et au séjour (Ardhis) La Cimade, groupe d’information et de soutien des immigré·e·s (Gisti) La Ligue des Droits de l’homme (LDH) Syndicat des avocats de France (SAF) Syndicat de la magistrature (SM).

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/ocean-viking-autopsie-dun-accueil-a-la-francaise-20221127_B53JAB6K7BDGFKV

    • #Mineurs_non_accompagnés de l’« Ocean Viking » : « Un #hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin »

      Pour Violaine Husson, de la Cimade, la France, signataire de la convention des droits de l’enfant, contrevient à ses engagements en plaçant des mineurs dans des situations loin d’être adéquates.
      L’information a fuité par voie de presse jeudi : 26 des 44 mineurs arrivés en France à bord du bateau humanitaire Ocean Viking ont fugué de l’hôtel où ils étaient logés à Toulon. « Le département a vocation à mettre les mineurs en sécurité mais pas dans des geôles, on ne peut pas les maintenir de force dans un foyer. Ils peuvent fuguer et c’est ce que certains on fait. On ne peut pas les contraindre, il n’y a pas de mesures coercitives à leur égard », a assuré Jean-Louis Masson, le président du conseil départemental du Var. Parmi ces 26 mineurs se trouvaient une majorité d’Erythréens qui, selon Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var, « ne restent jamais » car « ils ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du Nord » comme les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches. Les associations et les ONG, elles, pointent du doigt les conditions d’accueil et de prise en charge de ces jeunes, souvent inadaptées. Violaine Husson, responsable nationale Genre et Protections à la Cimade, répond à nos questions.

      Quelles sont les conditions de vie des mineurs étrangers non accompagnés, comme ceux de l’Ocean Viking, pris en charge dans des hôtels en France ?

      Il faut d’abord préciser une chose : la loi Taquet de février 2022 interdit le placement des mineurs non accompagnés dans des établissements hôteliers. Cela dit, il y a une exception : dans leur phase de mise à l’abri, en attendant l’entretien d’évaluation de leur minorité, il y a une possibilité de les placer à l’hôtel jusqu’à deux mois. C’est le cas pour cette quarantaine d’enfants, ça l’est aussi pour des centaines d’autres chaque année.

      Un hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin. Ils sont placés dans des chambres à plusieurs – en fonction des établissements, ils peuvent se retrouver à une deux ou trois personnes dans une chambre, voire plus –, ils ne parlent pas la même langue, ils n’ont pas la même religion… Il n’y a rien qui les relie vraiment. Par ailleurs, il n’y a pas de suivi social, personne ne vient les voir dans la journée pour leur demander si ça va ou ce qu’ils font. Il n’y a pas de jeux prévus, ils sont indépendants. Ce sont aussi souvent des hôtels miteux, pas chers, avec des toilettes et des salles de bains communes. C’est un quotidien qui est loin de l’idée que l’on se fait des mesures de protection de l’enfance en France.

      Ça peut expliquer pourquoi certains décident de quitter ces établissements ?

      Oui, il y a des enfants qui partent parce que les conditions ne vont pas du tout, elles ne sont pas adéquates. Certains ont dû tomber des nues. Dans certains hôtels, il n’y a pas que des mineurs, parfois ils peuvent être placés avec d’autres publics, des majeurs notamment. Ça les rend particulièrement vulnérables : ils sont des enfants étrangers isolés qui viennent d’arriver d’une traversée éprouvante et des personnes peuvent leur mettre la main dessus.

      La question des mineurs non accompagnés est souvent débattue, certaines personnalités politiques estiment qu’ils coûtent énormément d’argent, qu’ils seraient des délinquants. Qu’en est-il réellement selon vous ?

      En effet, on a parlé des mineurs non accompagnés de manière très négative : il y a la délinquance mais aussi le fait qu’ils mentiraient et qu’ils frauderaient, qu’ils coûteraient beaucoup à l’Aide sociale à l’enfance… Certains politiques ont même affirmé que 80 000 mineurs non accompagnés arriveraient en France chaque année. La réalité est toute autre : il y en a eu un peu plus de 9 000 en 2021. On est quand même loin du fantasme véhiculé.

      La protection de l’enfance est problématique aujourd’hui, il y a un véritable manque de moyen et de compétences, y compris pour les enfants français. Mais c’est bien plus simple de dire que c’est la faute des étrangers, même si leur proportion dans la prise en charge est dérisoire. Il y a cette injonction des politiques politiciennes de dire : le problème de l’Aide sociale à l’enfance, c’est les étrangers. Selon eux, ils mentent, ils fraudent, ils fuguent, ils ne sont pas mineurs ou ne sont pas vraiment isolés. Alors que le système de protection ne fait pas la différence entre les enfants français et étrangers.

      La France, comme d’autres pays, a signé la convention internationale des droits de l’enfant. Les démarches doivent donc être faites en fonction de l’intérêt supérieur de l’enfant. On voit bien que quand on les place à l’hôtel ou qu’on les suspecte de mentir sur leur âge parce qu’ils sont étrangers, ce n’est pas le cas.

      https://www.liberation.fr/societe/mineurs-non-accompagnes-de-locean-viking-un-hotel-ca-ne-correspond-pas-au
      #MNA #enfants #enfance

  • Luigi, le premier, est parti...

    Cette exposition inédite, produite par Le Cpa autour du #film_d’animation #Interdit_aux_chiens_et_aux_Italiens_ , retrace sur près d’un siècle l’histoire sociale des Italiens ayant quitté leur pays pour s’installer en France. Portée par un récit familial, elle met en lumière les difficultés rencontrées pour reconstruire un foyer en #exil et questionne la transmission de cette #mémoire.

    Histoires et mémoires d’Italiens en migration

    En l’espace d’un siècle, quelque 25 millions d’Italiens ont quitté la péninsule pour s’établir en Europe, en Amérique ou en Australie. Essaimant aux quatre coins du monde, ils ont emporté avec eux la culture de leur pays, leurs rêves et leurs espoirs, leur volonté de réussir sur une terre nouvelle. S’appuyant sur l’œuvre de fiction d’#Alain_Ughetto, _Interdit aux chiens et aux Italiens et sur de nombreuses archives régionales, elle constitue un #récit incarné de ces migrations, du massif des Alpes jusqu’à la vallée du Rhône. En creux, elle sonde également l’imaginaire véhiculé par ces Italiens en exil en France.

    Zoom sur : le film d’Alain Ughetto

    Entre le récit biographique et l’œuvre de fiction, ce film d’animation réalisé à Beaumont-lès-Valence en #stop_motion raconte les pérégrinations d’une famille piémontaise à travers les #Alpes. Luigi, le grand-père du réalisateur, et Cesira, la grand-mère, en sont les personnages principaux. Cette famille au destin romanesque traverse plusieurs #frontières, affronte deux guerres, la misère et le fascisme, à cheval entre l’Italie et la France. Leurs descendants posent leurs valises au bord du Rhône et, comme bien d’autres, se passionnent pour le Tour de France en vibrant au son de l’accordéon.

    L’exposition, construite autour de ce film, navigue entre l’histoire de cette famille et la grande histoire, tout en faisant la part belle à l’univers artistique d’Alain Ughetto.

    https://www.youtube.com/watch?v=QdQO3oo0nPg&feature=youtu.be

    https://www.le-cpa.com/expositions-1/expos-du-moment/luigi-le-premier-est-parti
    #immigration #France #migrants_italiens #Italie #frontière #exposition #immigration_italienne

    #Valence #CPA #Centre_du_patrimoine_arménien

  • #Ter_Apel, emergenza migranti. In 700 hanno dormito in strada, arriva Medici senza Frontiere

    Medici Senza Frontiere è intervenuta presso il centro per richiedenti asilo di Ter Apel, dove la notte scorsa 700 persone hanno dormito in strada, dice NOS.

    Da oggi l’organizzazione umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere ha un’équipe a Ter Apel e presta assistenza ai richiedenti asilo che devono rimanere fuori dalla struttura per mancanza di posti di accoglienza.

    Il team è composto da cinque persone che forniscono assistenza sanitaria di base, dice NOS; curano ferite, infezioni e malattie della pelle e forniscono un primo soccorso psicologico ad adulti e bambini.

    È la prima volta che l’organizzazione umanitaria internazionale schiera una squadra nei Paesi Bassi.

    Ieri notte, circa 700 persone hanno dormito di nuovo all’aperto, dice la Croce Rossa. L’Agenzia centrale per l’accoglienza dei richiedenti asilo (COA) aveva già avvertito che potesse presentarsi una situazione come questa.

    Secondo MSF la situazione è simile a quella di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Non c’erano docce e i servizi igienici non erano puliti.

    Il team ha parlato con persone che non riuscivano a lavarsi da una settimana: Alcuni avevano contratto una malattia della pelle a causa della mancanza di igiene. Negli ultimi giorni centinaia di persone hanno trascorso la notte all’aperto, indipendentemente dalle condizioni meteorologiche. “Tra questi donne incinte, bambini e persone con malattie croniche, come il diabete”.

    Alcuni malati cronici hanno esaurito i farmaci. “Se questa situazione persiste, potrebbe portare a gravi emergenze mediche”, ha affermato MSF.

    Secondo il sottosegretario Van der Burg, è molto importante che Medici senza frontiere vada a Ter Apel e si rammarica per la situazione

    “Abbiamo toccato il fondo”, dice il sindaco di Groningen, Koen Schuiling, a NOS Radio 1 Journaal. Il sindaco, che è anche presidente della Comitato per la sicurezza di Groningen, afferma che la situazione al centro di per richiedenti asilo “è insostenibile da un po’ di tempo” e, come MSF, fa un paragone con il campo di Moria.

    La direttrice di MSF Judith Sargentini definisce senza precedenti che MSF debba agire nei Paesi Bassi, “ma le circostanze in cui si trovano queste persone sono disumane”. Vuole che il governo centrale e i comuni mettano fine a tutto questo. Il team di MSF dovrebbe rimanere a Ter Apel per quattro o sei settimane. “Questa è davvero una soluzione a breve termine.”

    Il sindaco di #Groningen si vergogna di Ter Apel che definisce ‘La nostra Lampedusa’, dice NOS.

    https://www.31mag.nl/ter-apel-emergenza-migranti-in-700-hanno-dormito-in-strada-arriva-medici-senza

    #MSF #migrations #réfugiés #Pays-Bas #Groningue #SDF #logement #hébergement #centre_d'accueil #médecins_sans_frontières

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    MSF débarque donc aux Pays-Bas, comme elle avait débarqué à #Briançon en novembre 2021 quand le Refuge Solidaire a fermé temporairement pour faire pression sur l’Etat... qui s’en est lavé les mains...


    https://seenthis.net/messages/934336#message936406

    • Dutch asylum center disaster: Housing crisis and politics to blame for Ter Apel crisis

      Displaced people are still in limbo at Ter Apel’s asylum center in The Netherlands. Migration experts blame Dutch politicians and the lack of housing facilities for the asylum reception fiasco in the country.

      “Stress, insomnia and anger. That’s what I’ve been experiencing over the past few days,” said Saleh (name changed) a displaced person from Yemen, who is keen to seek asylum in The Netherlands.

      Seated on a torn mattress on a muddy footpath outside the Ter Apel asylum center in the northern province of Groningen — The Netherlands’ largest and main asylum reception center — he described how the inhumane conditions there had also left him feeling suicidal.

      “I fled horrible living conditions in Yemen in July this year hoping to live a better life in Europe. I reached The Netherlands in early August and continue to live in a harsh manner. I have been sleeping outside with the mosquitoes for more than three weeks since the Ter Apel center is overcrowded. They won’t even let me register for asylum and all this waiting and uncertainty has left me feeling like killing myself,” he told DW.
      Overcrowding and health hazards at Ter Apel

      Located in the lush green village of Ter Apel, this center can house up to 2,000 people and is also the place where refugees have to declare their arrival in order to begin their asylum application process.

      But over the past few weeks, bureaucracy in asylum procedures and overcrowding at the center led to more than 700 people camping outside. A three-month-old baby also died at the center last week.

      While investigations around the cause of the baby’s death are still ongoing, Nicole van Batenburg, press officer at Red Cross Netherlands, told DW that the health conditions in the center have been terrible for months.

      “We’ve seen a lot of health hazards. Many people get blisters, foot problems and skin issues because they can’t shower and have been sleeping in rough conditions outside. Some have also had heart and respiratory problems and we’ve been working together with Doctors Without Borders who have also set up their base here for the first time, to help people,” she said.

      Dutch Prime Minister Mark Rutte has said he was “ashamed” and announced several measures over the weekend to try and get the situation under control. So far, more than several hundred have been evacuated by bus to other asylum shelters around the country, in order to ensure that nobody had to sleep outside.

      Yet some like Saleh refused to leave, fearing they would lose their turn of registering their asylum claims at the main Ter Apel center. “I need to get my asylum papers and will continue waiting for however long it takes,” he said.

      According to Milo Schoenmaker, Chairman of the board of the Central Agency for the Reception of Asylum Seekers (COA), there are currently 16,000 people inside the center. He said in a statement that the Dutch cabinet, was now focusing on transferring the 16,000 people who live in the center and already hold asylum status.

      “This offers them perspective and creates space for new people who need asylum reception,” he said.

      Yahia Mane, a refugee from Sierra Leone, thinks this is a false claim.

      “They are lying about no place inside the center. There are rooms still empty. I saw that when I was inside with my family. They just don’t want to admit more people. That makes them criminals,” he said.

      “I lived inside with my wife and two kids for three weeks after registering, but it was horrible. We didn’t even get proper food. They now want to transfer me to another prison-like asylum center and separate me from my family, and make place for new arrivals. I didn’t expect this from the Netherlands. I came here hoping I would have a safe roof for my family,” he told DW.
      Politics and housing crisis behind asylum reception fiasco

      Sophie in’t Veld, a member of the European Parliament and politician from the liberal D66 party, told DW that the asylum reception crisis is mainly a political problem.

      “Being one of the richest countries in the world, I find it absolutely shameful that the political system of our country has resulted in people living in such conditions. The current government has mismanaged migration over the past few years with some political parties in the country wanting to stop immigration. They want no more asylum seekers, which I think is an illusion,” she said.

      Veld was also critical of the Dutch government’s solution of tackling the Ter Apel reception crisis by limiting family reunification visas and restricting migrant arrivals agreed under a 2016 European Union deal with Turkey.

      “This is clearly a violation of human rights and also EU law. I particularly find the family reunification restriction disturbing because that means people can be cut off from their children, their parents and relatives for a long period of time,” she said.

      The Dutch government has set a September 10 deadline to have all refugees living in proper shelters and also instructed the Dutch army to build a second asylum reception center.

      But Bram Frows, Director of the Mixed Migration Center, said the problem is also linked to a huge housing crisis brewing in The Netherlands.

      “There just aren’t enough houses in the country which affects the availability of houses for asylum seekers. So this means they will continue living in asylum reception centers across the country for months. In turn, the asylum centers have no capacity to receive new arrivals and people have to sleep outside,” he told DW.

      Rising house prices and property investors manipulating the housing market are some of the main reasons behind the lack of enough housing facilities in the Netherlands according to a study commissioned by the Dutch Interior Ministry.

      Frows lists a number of other issues that are exacerbating the problem.

      “Shortage of laborers means there aren’t enough people to construct new homes. A nitrogen emission crisis is stalling the process of building houses. And farmers are being told by the far right that the Dutch elite who support immigration will encroach farmlands to build new homes for migrants. So in the end, it is the asylum seekers who bear the brunt,” he added.
      Pathway ahead with EU help

      The European Union Agency for Asylum has already stepped in to support the Dutch authorities in increasing asylum reception capacity. According to an EU Commission spokesperson, the operational plan was signed between the Agency and the Dutch authorities on May 6 this year.

      “The plan, with one year validity, aims to extend reception and accommodation capacities for asylum seekers and displaced people, deploying seven European Union Agency for Asylum staff on the ground and providing 160 containers. As of August 23, the first Reception Officer from the European Union Agency for Asylum has been deployed to Ter Apel,” the spokesperson told DW.

      Yet Frows thinks the EU should also critically assess the Dutch asylum policy, including the government’s newly proposed ideas on family reunification.

      “The government’s plan to handle this crisis by reducing family reunification arrivals in order to avoid congestion at Ter Apel should be avoided. So far, these people arrive on family reunification visas and also need to register at Ter Apel. There is no need for that since they have already been vetted. This isn’t a solution to stop overcrowding,” he said.

      He added that the Dutch government can find creative solutions like using empty office buildings as temporary housing sectors.

      Cities like Velsen-North and Amsterdam have already been proactive. According to local media reports, both have approved an agreement with the central government to house at least 1,000 refugees on a cruise ship anchored to their ports for at least six months.

      For Saleh, who still remains in limbo on the streets of Ter Apel, such solutions give him hope for the near future.

      “I know the Dutch people are amazing and will find solutions. But the bureaucracy of the migration system is what is really affecting us right now. I hope I get my papers soon so I can live and work in any place here to give back to this country,” he said.

      https://www.dw.com/en/dutch-asylum-center-disaster-housing-crisis-and-politics-to-blame-for-ter-apel-crisis/a-62979784

      #modèle_hollandais

  • Nucléaire : le projet de centre d’enfouissement des déchets Cigéo déclaré d’utilité publique
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2022/07/08/nucleaire-le-projet-de-centre-d-enfouissement-des-dechets-cigeo-declare-d-ut

    Le dossier était déjà sur la table de son prédécesseur, mais c’est finalement Elisabeth Borne qui a acté l’intérêt général du centre d’enfouissement des déchets nucléaires Cigéo. Le décret déclarant le projet d’utilité publique, signé par la cheffe du gouvernement ainsi que par la ministre de la transition énergétique, Agnès Pannier-Runacher, et le nouveau ministre de la transition écologique, Christophe Béchu, a été publié au Journal officiel, vendredi 8 juillet. L’opposition à ce projet, mobilisée depuis plusieurs décennies, a dénoncé un « passage en force » au « mépris des interrogations et propositions » émanant de la société civile.

    Cigéo vise à enfouir, sous 500 mètres de roches argileuses, les déchets nucléaires dits « de moyenne et haute activité à vie longue », soit les plus dangereux, sur un terrain situé à cheval sur les départements de la Meuse et de la Haute-Marne.

    #nucléaire

  • Le gouvernement s’accorde sur une capacité d’#urgence via la Défense pour l’accueil des demandeurs d’asile

    Le gouvernement s’est accordé mercredi sur des mesures qui doivent soulager le réseau d’accueil des demandeurs d’asile saturé depuis plusieurs semaines, a annoncé la secrétaire d’État à l’Asile, Nicole de Moor, en commission de la Chambre. “La situation est urgente”, a-t-elle ajouté dans un communiqué.

    Pour permettre un accueil d’urgence, la Défense sera mise à contribution à court terme pour fournir une capacité de 750 places d’urgence dans les quartiers militaires et ensuite, à plus long terme, 750 places dans des villages de #conteneurs. Un appel sera par ailleurs lancé à l’adresse des communes et aux ONG afin qu’elles fournissent des #initiatives_locales d’accueil et des places collectives.

    750 #abris_temporaires

    Dans la première phase, la Défense fournira 750 #abris temporaires dans des #hangars, avec des installations sanitaires mobiles si nécessaire, a précisé la ministre de la Défense, Ludivine Dedonder. Les hangars seront compartimentés afin d’offrir un #confort_de_base aux demandeurs d’asile. La #restauration sera assurée provisoirement par la #Défense, dans l’attente d’un contrat structurel de restauration. Dans cette phase, la Défense fournit l’infrastructure, Fedasil en coopération éventuelle avec des ONG sera responsable de l’exploitation des centres d’accueil temporaires avec du personnel qualifié.

    Village de conteneurs

    Dans la deuxième phase, la Défense utilisera des contrats-cadres existants pour construire un #village_de_conteneurs de 750 places d’accueil. L’emplacement de ce village de conteneurs sera bientôt déterminé en fonction de la présence de commodités de base telles que l’eau et l’électricité. La Défense assurera la coordination de la logistique et de la construction du village de conteneurs. Là encore, Fedasil se chargera du fonctionnement du centre d’accueil.
    Structures adaptées ou adaptables

    Dans la troisième et dernière phase, la Régie des bâtiments est chargée de trouver des infrastructures adaptées ou adaptables pour accueillir des familles.

    “Aujourd’hui, la Défense est à nouveau sollicitée pour désamorcer une crise. Même si la Défense fait aujourd’hui face à des défis internes majeurs et qu’elle est en pleine reconstruction et transformation, le département est toujours présent pour définir une méthode de travail et un cadre pour désamorcer la crise d’accueil”, a souligné la ministre. Celle-ci a rappelé que son département fournissait déjà 6.000 places d’accueil, soit 20% de la capacité d’accueil totale du pays.
    Dissuader des demandeurs présents en Europe

    Le gouvernement intensifiera par ailleurs les #campagnes cherchant à dissuader des demandeurs qui se trouvent dans d’autres États membres de l’UE d’entamer une nouvelle procédure en Belgique. Plus de 50 % des demandes d’asile ont déjà une demande correspondante dans un autre État membre de l’UE, dont les Pays-Bas, la France et l’Allemagne. Un centre “Dublin” -en référence à la procédure européenne qui détermine le pays européen, et lui seul, compétent pour examiner une demande d’asile- sera aménagé dans un centre existant à #Zaventem, avec une capacité de 220 personnes. Il devra faciliter le #retour des demandeurs dans le pays de leur premier enregistrement.

    “La pression de l’asile devient énorme dans notre pays si les demandeurs d’asile ne retournent pas dans le premier pays d’arrivée de l’UE”, a insisté Mme de Moor.

    Afin d’accélérer le flux sortant de demandeurs, ceux qui ont un emploi pourront sortir des centres d’accueil et libérer de la sorte de la place pour les autres. Le Commissariat Général aux Réfugiés et Apatrides (CGRA) est appelé à prendre davantage de décisions. Leur nombre devrait se situer entre 2.200 et 2.500 par mois alors qu’il s’établissait à une moyenne de 1.600 entre janvier et mai. L’instance qui se prononce sur les demandes d’asile œuvrait déjà à un plan visant augmenter les décisions. Des recrutements sont également en cours.

    Grâce à ces mesures, le gouvernement entend éviter le paiement d’astreintes prononcées par la justice parce que des demandeurs d’asile resteraient à la rue, a encore précisé la secrétaire d’État. “Le contribuable ne veut pas voir son argent servir à payer des astreintes”.

    https://www.7sur7.be/belgique/le-gouvernement-s-accorde-sur-une-capacite-d-urgence-via-la-defense-pour-laccu

    #renvois #Dublin #centre_Dublin #règlement_Dublin #armée

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    Commentaire reçu via la mailing-list Migreurop :

    La Belgique, condamnée depuis la fin de l’année 2021 par la justice pour le non-accueil des demandeur.se.s d’asile, a finalement trouvé une « solution d’urgence » afin de faire face à cette crise.

    La solution ? Passer par l’armée belge et utiliser les hangars disponibles de la Défense afin de les aménager sommairement et de fournir un toit à plusieurs centaines de personnes.

    Cette réponse est censée être de courte durée et restera en place le temps d’installer un village de containers pouvant abriter 750 personnes. Une sorte d’encampement organisé et voulu par les autorités belges...

    Autre mesure prévue : le rassemblement des demandeur.se.s d’asile Dublin en un lieu unique, à proximité de l’aéroport de Bruxelles, et ce afin de faciliter leur expulsion vers le pays de prise en charge. Il deviendra bientôt difficile de faire la différence entre les centres d’accueil, supposés être des lieux ouverts pour demandeur.se.s d’asile et les centres fermés, ces lieux de détention administrative, entourés de barbelés et surmontés de miradors.

    #encampement #Belgique #accueil #réfugiés #migrations #asile #campagne #dissuasion

    ping @isskein @karine4

  • Santé : dans la Drôme, le secteur privé fait son entrée dans la médecine générale

    A Pierrelatte, c’est peu de dire que le nouveau centre de santé était attendu. Trois jours après son ouverture, le 31 janvier, le carnet de rendez-vous d’Anne Dubois, médecin généraliste, était déjà plein jusqu’au mois de juin. Dans cette petite ville de la Drôme, l’offre de soins était « catastrophique », selon le maire (divers droite) Alain Gallu : « On avait cinq médecins pour 14 000 habitants, et aucun de garde depuis des années. On a tout fait pour l’accueillir. »

    Et peu importe que ce centre d’un nouveau genre soit géré par le groupe Ramsay Santé, filiale européenne du géant australien Ramsay Health Care et leader de l’hôpital privé en France. Peu importe, aussi, qu’il inaugure l’entrée du privé à but lucratif dans le champ de la médecine de ville. « Quand on a une rage de dent un vendredi soir, ce n’est pas le sujet pour le patient », balaie l’édile.

    Le centre de soins primaires (accès aux soins, prévention...) de Pierrelatte est le premier d’une expérimentation pilotée par le ministère de la santé et la Caisse nationale de l’Assurance-maladie dans le cadre de l’article 51 de la loi de financement de la Sécurité sociale, permettant de tester des innovations dans l’organisation du système de santé.

    Et, en l’occurrence, un nouveau mode de rémunération des soignants. Le principe : l’Assurance-maladie verse un forfait au centre, calculé en fonction du nombre et du profil de ses patients – le coût des soins n’est pas le même pour un octogénaire diabétique ou un trentenaire sans pathologie chronique. A partir de cette somme, le centre salarie une équipe de médecins et d’autres professionnels de santé.

    Outre Pierrelatte, ce modèle sera testé par Ramsay Santé dans quatre autres centres des régions Auvergne-Rhône-Alpes et Ile-de-France, tous situés dans des déserts médicaux. Il est censé apporter une solution à la pénurie de médecins, qui devrait se poursuivre jusqu’en 2030 et devient particulièrement alarmante dans certaines zones. S’il démontre son efficacité d’ici à cinq ans, il entrerait dans le droit commun français. Ramsay Santé veut prendre de l’avance : il pourrait ouvrir d’autres centres – une centaine au maximum – dans les années à venir et ambitionne de racheter ceux de la Croix-Rouge en Ile-de-France.

    Partage des tâches

    Dans le centre de santé de Pierrelatte, tout est fait pour optimiser le temps médical. Dans quelques mois, quatre médecins y exerceront, épaulés par plusieurs infirmières. Celles-ci sont en première ligne pour recevoir le patient, le prendre en charge ou l’orienter vers d’autres soignants.

    « Le médecin n’est plus un soliste mais un chef d’orchestre, explique François Demesmay, directeur innovation médicale chez Ramsay Santé. Il fait ce qu’il est le seul à pouvoir faire, et délègue le reste aux infirmières, aux psychologues, aux assistantes sociales… » Grâce à ce partage des tâches, « on espère soigner 50 % de patients de plus par médecin », calcule Janson Gassia, directeur des soins primaires. La télémédecine fera aussi partie de l’équation. Le centre devrait accueillir à terme au moins 7 000 patients.

    https://justpaste.it/8ow0p

    #santé #médecine #centre_de_santé

    • Santé : les centres de la Croix-Rouge en Ile-de-France bientôt rachetés par Ramsay Santé

      La filiale française du groupe australien devrait devenir propriétaire des six établissements de l’organisation humanitaire. Cette cession, justifiée par un déficit, suscite l’inquiétude parmi les personnels ainsi que dans les communes concernées.

      Si les négociations vont à leur terme, le logo de la Croix-Rouge devrait prochainement disparaître des vitrines de ses centres de santé franciliens. Les six établissements que gère l’association sont en effet sur le point d’être rachetés par le groupe Ramsay Santé (ex-Générale de santé, aujourd’hui filiale du géant australien Ramsay Health Care), avec qui la Croix-Rouge est en négociation exclusive. Deux sont situés à Paris, le reste dans les Hauts-de-Seine, à Boulogne-Billancourt, Antony, Meudon, et Villeneuve-la-Garenne. Si le calendrier exact de la cession n’est pas connu, les deux parties évoquent le mois de juillet. Les discussions sont toujours en cours. Interrogé sur le montant du rachat, le groupe Ramsay n’a pas souhaité s’exprimer.

      Motif de cette vente : une activité déficitaire « depuis plusieurs années », selon la direction de la Croix-Rouge, qui ne donne pas de chiffre précis en raison d’un accord de confidentialité. En 2021, pour trouver un repreneur, l’association fondée par Henry Dunant avait lancé une consultation au cours de laquelle Ramsay Santé s’était positionné. La filiale française du groupe australien revendique 350 établissements à travers cinq pays (la France, la Suède, la Norvège, le Danemark et l’Italie), dont 130 en France. Si elle prévoit la création d’un statut associatif pour la gestion des centres de la Croix-Rouge, l’inquiétude demeure du côté des élus du personnel. « C’est un groupe privé, qui n’aura pas comme modèle économique des centres déficitaires. Comment vont-ils arriver à les rendre bénéficiaires ? », s’interrogent-ils.

      « Système à deux vitesses »

      A l’heure actuelle, les centres de la Croix-Rouge pratiquent des tarifs de secteur 1 (sans dépassements d’honoraires) pour les consultations de médecine générale. Sur les soins spécialisés, comme les soins dentaires, des dépassements « très modérés » existent, précisent les élus du personnel. Chaque année, les centres accueillent 62 000 patients, dont près de 30 % sont en situation de précarité. François Demesmay, directeur de l’innovation médicale et de l’expérience patient chez Ramsay Santé, assure que le groupe continuera à « avoir la même politique d’accueil ». « Au sein du groupe, 10 % des patients accueillis dans nos cliniques sont des patients bénéficiaires de la CMU. Ce n’est pas une population que l’on va découvrir du jour au lendemain », appuie-t-il.

      Les élus du personnel redoutent en revanche une optimisation des soins, afin de combler le déficit. Selon eux, elle se traduirait par des soins plus coûteux pour les patients disposant d’une bonne mutuelle, créant alors un « système à deux vitesses ». Une option que M. Demesmay réfute : pour ramener les comptes à l’équilibre, il indique vouloir augmenter le nombre de praticiens salariés. Quant au personnel actuel, « cette cession devra permettre de maintenir l’ensemble des emplois des établissements », souligne la direction de la Croix-Rouge.

      Eric May, vice-président de l’Union syndicale des médecins de centres de santé, dit porter un regard « extrêmement réservé » sur cette cession. Précisant vouloir éviter tout « procès d’intention », il craint, tout comme les élus du personnel, un « fléchage » des patients, c’est-à-dire « une orientation des usagers du centre de santé vers un établissement lucratif Ramsay ». Si François Demesmay s’en défend, il reconnaît de possibles passerelles, d’ailleurs déjà existantes : « Il y a des endroits où on a des structures hospitalières qui ne sont pas très loin des centres de la Croix-Rouge, et où on reçoit des patients de ces centres. Mais celui qui choisit, in fine, c’est le patient. »

      « Maintenir une offre de soins »

      Dans les communes où sont situés les centres de la Croix-Rouge, le sentiment est à la prudence. A Antony, la municipalité est propriétaire des locaux qu’utilise l’association. Elle se dit prête à les mettre à disposition du groupe Ramsay Santé, « à condition qu’il s’engage réellement à rendre les services que la Croix-Rouge rendait auparavant », explique le maire, Jean-Yves Sénant (Les Républicains, LR).

      A Meudon, les murs appartiennent également à la mairie. Pour l’édile, Denis Larghero (Union des démocrates et indépendants), l’objectif est « de pouvoir maintenir une offre de soins, notamment en secteur 1, accessible à toute la population ». La ville envisage de louer les locaux à Ramsay, comme c’est actuellement le cas avec la Croix-Rouge.

      Du côté de Boulogne-Billancourt, la situation est légèrement différente, puisque la ville n’est pas propriétaire des bâtiments. En plus du centre de santé, la Croix-Rouge possède notamment un institut médico-éducatif, un Ehpad, et un espace d’accueil et de soutien pour les parents et leurs enfants en bas âge. Surpris de la cession du centre, Pierre-Christophe Baguet (LR), le maire, tente pourtant de voir le verre à moitié plein : « Ici, la Croix-Rouge est très présente et rend des services à beaucoup de Boulonnais. Si l’activité sanitaire [du centre] est maintenue, et que, grâce à ça, la Croix-Rouge peut poursuivre les autres activités sur la ville, ça me convient. »
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/04/26/les-centres-de-sante-de-la-croix-rouge-en-ile-de-france-bientot-rachetes-par

  • Suisse : Ils doivent laisser leur place aux Ukrainiens

    L’accueil des Ukrainiens et Ukrainiennes à #Genève se répercute sur d’autres réfugié·es. Une députée intervient.

    Genève s’apprête à prendre en charge entre 4000 et 15’000 Ukrainiens et Ukrainiennes.

    L’accueil risque d’être compliqué au-delà du premier millier et des alternatives sont à l’étude, indiquait Christophe Girod, directeur général de l’Hospice général, la semaine passée sur Léman Bleu. Les alternatives en question auraient-elles déjà été trouvées ? Des résident·es, majoritairement des hommes célibataires, du centre d’hébergement collectif de Rigot, situé avenue de France, ont reçu l’ordre de déménager au début de cette semaine afin de faire de la place pour les nouvelles et nouveaux venus.

    Avec effet immédiat

    Sur place, la surprise est totale. « Je ne comprends pas. Mon cousin est apprenti, il est en Suisse depuis six ans, et il a reçu cette semaine une visite des responsables de #Rigot qui lui ont dit qu’il devait vider son appartement parce que des Ukrainiens allaient arriver », explique un parent logé lui aussi dans le centre. Et les résident·es n’ont apparemment pas eu voix au chapitre. « On nous a dit que c’était obligatoire. La moitié des chambres ont été vidées et des gens se retrouvent à deux dans des chambres prévues pour une seule personne. »

    D’après les témoignages recueillis, l’#Hospice_général aurait expliqué aux personnes concernées qu’il s’agit d’une décision fédérale, laissant entendre que la Confédération est intervenue dans la gestion cantonale du flux de réfugié·es d’Ukraine. Selon Samuel*, dont plusieurs amis sont logés dans le #centre_de_Rigot, le directeur de l’Hospice général aurait aussi évoqué la construction de bâtiments modulables ou encore la transformation de salles de gymnastique en locaux d’urgence. « Ils déplacent les personnes sans se demander si elles parlent la même langue ou ont des affinités. Un de mes amis s’est retrouvé à partager une chambre pour une personne avec un résident souffrant de problèmes psychiatriques. »

    Terre d’asile à deux vitesses ?

    Françoise Nyffeler a déposé jeudi soir une question urgente au Grand Conseil visant à clarifier cette situation. « Dans le milieu de la défense des réfugiés, on entendait dire qu’un tel accueil était impossible, et tout à coup on arrive à mobiliser des moyens pour traiter 1200 dossiers par jour, s’étonne l’élue d’Ensemble à gauche. Bien sûr qu’il faut trouver de la place pour les Ukrainiens, mais pas au détriment des autres réfugiés. »

    La députée s’inquiète de l’existence de « réfugiés de première classe » à la faveur desquels d’autres, pourtant présents depuis des années, pourraient être opportunément déplacés. Elle s’interroge également sur le sort des Afghanes et Afghans présent·es en Ukraine : « Bénéficieront-ils chez nous des mêmes droits que les Ukrainiens ? ». La situation ne surprend pas Alain Bolle, directeur du CSP Genève. « On craignait que ça arrive avec l’afflux de réfugiés ukrainiens. »

    Optimisation des #logements

    L’Hospice général reconnaît qu’un maximum de places doivent être trouvées pour accueillir les familles nouvellement arrivées. « Pour optimiser les logements à disposition dans les centres d’hébergement collectif et libérer des places pour des familles, nous devons procéder à des #rocades, explique Bernard Manguin, son chargé de communication. Les rocades sont faites de façon à ce que les gens gardent leur cadre de vie et leurs habitudes, dans le centre d’hébergement et dans le quartier. Elles sont annoncées à l’avance, afin que les personnes aient le temps de s’y préparer. » Personne ne devra quitter les centres d’hébergement, assure le porte-parole.

    Pourtant, certains résidents affirment avoir reçu l’ordre de déménager d’ici à quelques jours. D’autres établissements pourraient d’ailleurs être concernés, puisqu’au foyer de la #Seymaz, un courrier de l’#Hospice_général annonce une prochaine réunion « en vue d’une réorganisation ». La lettre avertit que les résident·es absent·es pourraient être sanctionné·es.

    https://lecourrier.ch/2022/03/20/ils-doivent-laisser-leur-place-aux-ukrainiens
    #déménagement #Suisse #réfugiés_ukrainiens #Ukraine #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #racisme

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    ajouté à cette métaliste sur les formes de racisme qui ont émergé avec la guerre en Ukraine :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Ukrainer ja, Afghanen nein: Der Grenzbahnhof #Buchs ist Schauplatz unserer Willkommenskultur – und wie sie sich verändert hat

      Afghanen wurden hier noch im Januar aus den Zügen geholt. Ukrainerinnen hingegen dürfen durchfahren, von ihnen ist am Grenzbahnhof Buchs nichts zu sehen. Das ist kein Zufall. Ein Rückblick auf 150 Jahre Schweizer Willkommenskultur.

      Etwas talaufwärts, nach Sargans links um die Ecke, liegt Maienfeld, das Heidiland. Benannt nach jenem Roman, der weltweit das Bild der Schweiz prägte: mit Heidi, Alpöhi, Geissenpeter, den saftigen Matten und den weissen Bergen unter blauem Himmel. Ein Sehnsuchtsort für Touristen genauso wie für Verfolgte und Vertriebene aus aller Welt.
      Doch anders als wohlhabende Feriengäste gelangen Flüchtlinge kaum je ins Heidiland. Sie stranden vielmehr an einem gesichtslosen Grenzbahnhof. Zum Beispiel in Buchs, St.Gallen: einer Bahnstation in einem Industriequartier mit fensterlosen Bauten, einer Recyclinghalle, der in Beton gegossenen Bus-Station auf dem Vorplatz und einer Industriebrache mit Kies, Unkraut und Stumpengleis. Kein Postkartensujet.
      Und doch ein Ort, der eben so typisch ist für die Schweiz wie das Heidiland. Kaum wo lässt sich die wechselvolle Geschichte der eidgenössischen Flüchtlings- und Migrationspolitik nachzeichnen wie hier. Die einen wurden als Helden begrüsst. Andere hinter Stacheldraht in der Desinfektionsanlage entlaust und bürokratisch erfasst. Von den Nazis verfolgte Juden versuchten, versteckt im Güterzug in Sicherheit zu gelangen. Manche von ihnen vergraben in Kohletransporten – auch um der direkten Rückweisung an der Schweizer Grenze zu entgehen.
      Für Kaiserin Sissi stand sogar Portier Rohrer stramm
      Erbaut wurde der Bahnhof 1858, etwas abseits des Dorfes, weil die Bauersleute von der Bahn zunächst nichts wissen wollten. Der Anschluss an die weite Welt folgte 1884 mit der direkten Anbindung an die neue Arlbergbahn. Sie brachte den wirtschaftlichen Aufschwung. Güterzüge mit Schlachtvieh aus Ungarn, Weinbeeren aus der Türkei und Holz aus Serbien kamen hier an. «Da waren auch die Sammelwagen mit den Auswanderern aus den Oststaaten, deren Ziel Amerika war: Fremde, armselig reisende Menschen, deren Sprache niemand verstehen konnte», heisst es in einem Beitrag des «Werdenberger Jahrbuchs» über das Jahr 1890.
      Adlige reisten durch, der König von Bulgarien, Balkanfürsten mit ihrem Hofstaat. Ja, selbst Kaiserin Elisabeth, die Sissi, erfrischte sich auf ihren regelmässigen Durchreisen im Bahnhofbuffet: «Da stand selbst der Portier Rohrer stramm, Vorstand Gasser hielt bahndienstliche Ordnung, der österreichische Zollinspektor Lutz, ein liebenswürdiger, fein gebildeter Mann, erwartete in Galauniform und mit einem Paradedegen an der Seite die Kaiserin und machte die Honneurs», heisst es im Jahrbuch. Es war eine Blütezeit, der Aufstieg Buchs’ als das «Tor zum Osten».
      Für viele Flüchtlinge hingegen wurde Buchs zum Nadelöhr in die Schweiz – je nach Herkunft und politischer Grosswetterlage. Denn in ihrer Flüchtlingspolitik war die Schweiz nie neutral. Das zeigt sich gerade in diesen Tagen wieder. Die kriegsvertriebenen Ukrainerinnen und ihre Kinder brauchen in Buchs nicht auszusteigen. Sie profitieren von der Reisefreiheit, die ukrainischen Staatsangehörigen schon vor dem russischen Angriff auf ihr Land in ganz Europa gewährt wurde. Sie brauchen kein Visum, fahren in Buchs durch und lassen sich später wahlweise in Zürich, Altstätten oder sonst einem Bundesasylzentrum registrieren, um vom Schutzstatus S zu profitieren. Tausende von Gastfamilien bieten ihnen Unterkunft an.
      «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns»
      Wie anders die Bilder noch im Winter: Junge Männer aus Afghanistan, die von den Grenzbehörden aus dem Nachtzug aus Wien geholt werden, müssen sich auf Perron 4 in Reih und Glied aufstellen. Danach werden sie ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs (POB) geführt und asylrechtlich erfasst. So schildert es das «St.Galler Tagblatt» im Januar in einer Reportage. Das POB hat der Kanton Anfang Jahr eröffnet, um die Registrierung gemäss den Regeln des Dublin-Abkommens der sogenannt illegal eingereisten Personen zu beschleunigen. An jenem Januarmorgen sind es rund 30 junge Afghanen.
      Die Ukrainerinnen und die Afghanen sind lediglich die letzten beiden von sehr vielen verschiedenen Flüchtlingsgruppen, die im Laufe der Jahrzehnte am Grenzbahnhof vorbeigekommen sind. Einer, der diese Geschichten kennt, über sie in der Lokalzeitung berichtet hat, ist Hansruedi Rohrer, langjähriger Fotoreporter des «Werdenberger und Obertoggenburgers» sowie Buchser Stadtchronist. Der 72-Jährige führt ein Archiv mit Tausenden von Bildern und kaum weniger Geschichten. Rohrer ist Buchser, durch und durch. Und ausgesprochen sesshaft: Ein einziges Mal unternahm er eine Reise ins Ausland mit Übernachtung – nach München für eine Reportage. Sonst beschränken sich seine Auslandvisiten auf Kinobesuche ennet dem Rhein im liechtensteinischen Schaan. «Ich reise nicht gern. Wozu auch? Die Welt kommt ja zu uns», sagt Rohrer.
      Auf einem Rundgang vom Bahnhof durch das Industriequartier zeigt er die Schauplätze: Die Rheinbrücke, wo die Züge über eine Rechtskurve in die Schweiz einfahren, die ehemaligen Standorte eines Auffanglagers und eines Aufnahmezentrums. Er erzählt von den ersten Flüchtlingen, die 1871 in Buchs angekommen seien, notabene aus Westen: Soldaten der Bourbaki-Armee, die im Jura über die Grenze gekommen waren und auf die Schweiz verteilt wurden. «Man sammelte damals in unserem Städtchen warme Kleider und Schuhe für sie.»
      Kriegsinternierte skandieren: «Evviva la Svizzera!»
      Rohrer händigt von ihm verfasste Artikel und Archivtexte über die Weltkriege aus. Über das «Flüchtlingsjahr 1915 in Buchs» etwa: Nach Ausbruch des Krieges wurden die italienischen Familien, die in Österreich gelebt hatten, als Angehörige eines nun plötzlich feindlichen Staates interniert und über die Schweiz in ihre Heimat abgeschoben. In Buchs gelangten sie auf Schweizer Boden. Im grossen Auswanderersaal, der seit Kriegsbeginn unbenutzt blieb, wurde ein Verpflegungsstand eingerichtet: «Für die ersten Transporte wurden zunächst 50 Zentner Brot und 2000 Liter Milch bereitgestellt. Die einheimischen Bäcker und Metzger hatten als Lieferanten alle Hände voll zu tun», heisst es in Rohrers Artikel. Bezahlt habe dies später die italienische Regierung. Und bei der Abfahrt aus Buchs riefen die italienischen Heimreisenden aus dem Zug: «Evviva la Svizzera!»
      Weniger zu erfahren ist, wie im Zweiten Weltkrieg jüdische Flüchtlinge an der Grenze abgewiesen wurden. Immerhin finden sich Arbeiten von Studentinnen über einzelne jüdische Flüchtlingsfamilien, die versteckt in Güterzügen über Buchs in die Schweiz einreisten. Besser dokumentiert ist der Ansturm von Flüchtlingen, die sich kurz vor dem Zusammenbruch des Nazireichs aus deutscher Kriegsgefangenschaft befreiten und in der Schweiz Zuflucht suchen wollten. Die Gegend zwischen dem Städtchen Feldkirch in Österreich und der Grenze glich Ende April 1945 «einem Heerlager, in dem Tausende und Abertausende sich zusammendrängten, um noch die Grenze passieren zu können, ehe sie aufs Neue durch die letzten kriegerischen Handlungen in diesem nun plötzlich zur Front gewordenen Gebiet in den Mahlstrom des Verderbens gerissen wurden», so wird im «Werdenberger Jahrbuch» ein Zeitzeuge zitiert.
      Mit einer Rangierlokomotive und ein paar alten österreichischen Waggons zog man in Buchs kurzerhand einen Pendelverkehr auf, um die Flüchtlinge in die Schweiz zu holen. Beim Bahnhof wurden die Ankömmlinge «hinter die Stacheldrähte des Auffanglagers praktiziert. Man wusste ja keineswegs, mit was für ansteckenden Krankheiten diese Leute behaftet waren, und darum sollte ein Kontakt mit der Zivilbevölkerung so gut als möglich vermieden werden.» Die Flüchtlinge wurden verpflegt, registriert und «durch die Desinfektionsräume geschleust», so der Zeitzeuge. Danach ging es mit dem Zug weiter ins Landesinnere, etwa ins Hallenstadion Zürich. An einzelnen Tagen kamen so über 3500 Flüchtlinge in Buchs an.
      Grosser Bahnhof für die Opfer des Kommunismus
      Wie viel herzlicher fiel da der Empfang der Flüchtlinge aus Ungarn 1956 aus. In der Buchser Stadtchronik, die Hansruedi Rohrer heute nachführt und verwaltet, findet sich ein Bericht vom 9. November 1956: «Kurz nach zwei Uhr nachmittags traf ein Sonderzug mit 364 Flüchtlingen in Buchs ein. Eine grosse Menschenmenge hatte sich zur Ankunft auf dem Bahnhof eingefunden, um den Flüchtlingen in herzlicher Weise Sympathie und Willkomm zu entbieten.» Freilich wurden auch die Ungarinnen und Ungarn im Barackenlager des Grenzsanitätsdienstes aufgenommen, einer «notwendigen sanitarischen Untersuchung unterzogen» und verpflegt. Später reisten sie weiter an verschiedene Orte in der Schweiz.
      In jenen Tagen profilierte sich der Bahnangestellte Peter Züger, der seit 1950 am Grenzbahnhof tätig war, in besonderer Weise: Züger sprach Ungarisch und begrüsste die Flüchtlinge über die Lautsprecheranlage in ihrer Sprache. Diese reagierten laut Jahrbuch «mit Akklamation, Freudentränen und lautstarken Zurufen Eljen- eljen! (hoch -hoch!)». Die Stimmung gegenüber den Opfern des Sowjetregimes war vergleichbar zur heutigen Situation mit den Ukrainerinnen: Die Bevölkerung in der Schweiz solidarisierte sich mit den Opfern des russischen Angriffs.
      Dazu erhielt sie 1968 noch einmal Gelegenheit, als nach der Niederschlagung des Prager Frühlings tschechische und slowakische Flüchtlinge in Buchs eintrafen. Auch sie erhielten einen warmen Empfang. Auf einem Plakat bei der neu errichteten Auffangstation etwas südlich des Bahnhofs hiess es: «Wir bewundern euren Mut und eure Tapferkeit.» In der Zeitung wurde rapportiert: «Die Bevölkerung von Buchs hat in den letzten Tagen wiederholt Blumen in die Auffangstelle gebracht und für die Neuankömmlinge ein Kinderzimmer eingerichtet.»
      Niemand winkt den bosnischen Flüchtlingen zu
      Flüchtlingsbewegungen gab es seither immer wieder: die Boatpeople aus Vietnam 1979, die Polen 1982. Stets waren auch Rotkreuzmitarbeiterinnen vor Ort, die sich um Kinder, Verletzte, Kranke und Schwache kümmerten. Von einem grossen Bahnhof wie 1956 aber konnte kaum mehr je die Rede sein. Als im Juli 1992 ein Zug mit 1000 bosnischen Flüchtlingen eintrifft, berichtet der «Werdenberger und Obertoggenburger» von einer peinlichen Situation: Als die «müden und matten» Flüchtlinge den Personen am Bahnhof zuwinken, erwidert niemand diese schüchternen Grüsse. Der Grund: «Das Gelände, auf das der Flüchtlingszug einfährt, ist nämlich von Sicherheitskräften von Polizei, Feuerwehr und Bahn abgeriegelt. Im Innenraum befinden sich nur mehrere Dutzend Journalisten und viele Helfer. Und von denen winkt niemand.»
      In den letzten beiden Jahrzehnten, mit der Personenfreizügigkeit, hat Buchs viel von seinem Charakter als Grenzbahnhof verloren. Die Zollstation ist weg, das Bahnhofbuffet sowieso. Flüchtlinge kommen immer noch, sei es aus Syrien oder wie bis vor kurzem vor allem aus Afghanistan. Doch mit dem Zoll sind die Szenen von Ankunft, Betreuung und Kontrolle aus dem Bahnhofgebiet verschwunden. Sogenannt illegal Einreisende werden diskret ins Provisorische Bearbeitungszentrum Buchs im Industriegebiet oder das Bundesasylzentrum in Altstätten gebracht. Ein Willkommensakt der anonymen Art. Wie viele aus der Ukraine über Buchs einreisen – niemand weiss es.

      https://www.tagblatt.ch/schweiz/migration-grenzbahnhof-buchs-schauplatz-unserer-willkommenskultur-ld.227072

      #réfugiés_afghans

    • Ils sont réfugiés – et bienvenus

      Fuyant la guerre, des dizaines de milliers d’Ukrainiens ont trouvé refuge en Suisse. L’accueil non bureaucratique qui leur est réservé témoigne de la solidarité de la Suisse, mais révèle aussi les zones d’ombre de sa politique d’asile

      « La nuit, dans mes rêves, je vois ma datcha », relate Alexander Volkow. Il rêve des vignes dont il devrait prendre soin à cette saison. Mais cet ingénieur en métallurgie retraité de Kramatorsk se trouve à 2500 kilomètres de sa maison de vacances, dans un petit village bernois dont il ignorait même l’existence il y a peu : Mittelhäusern. Alexander Volkow est ukrainien, et le chemin qu’il a parcouru jusqu’ici – hormis sa destination, due au hasard – ressemble à celui de millions d’autres personnes arrivées d’Ukraine. Avec sa belle-fille Julia et son petit-fils Sergueï, il a fui sa ville du Donbass sous le feu des missiles, fui la guerre, la mort, la destruction et la misère. En Suisse, les autorités en matière de réfugiés lui ont finalement notifié que lui et sa famille avaient « reçu une invitation pour Mittelhäusern ». Une chance dans leur détresse : « Des gens chaleureux nous ont accueillis ». Malgré la cordialité de la famille d’accueil, Alexander Volkow est toujours, dans sa tête, dans le Donbass assiégé, à Kramatorsk : « Chaque matin, nous commençons par chercher à savoir ce qui est encore debout, si notre maison est encore debout ». En même temps, il est hanté par cette question : vaut-il mieux une « bonne guerre », qui fera beaucoup de victimes, ou une « mauvaise paix », qui entraînera plusieurs années d’incertitude et de discorde dans son sillage ?

      Il n’est pas le seul à se poser de telles questions. Quand il se promène, appuyé sur sa canne, à travers le village, il rencontre par exemple Anhelina Kharaman, qui est elle aussi hébergée chez des particuliers, avec sa mère et sa fille. Elle vient de Marioupol, cette ville en ruines au sud de l’Ukraine. Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna, un couple de Dnipro, séjournent eux aussi à Mittelhäusern pour l’instant. Et eux aussi parlent du jardin dont il faudrait s’occuper pour qu’il donne des récoltes suffisantes pour l’hiver.

      Une vague de solidarité

      Une douzaine de réfugiés ukrainiens vivent en ce moment à Mittelhäusern, une douzaine sur les plus de 50 000 femmes, enfants et personnes âgées qui sont arrivés en Suisse au cours des trois premiers mois de la guerre. Depuis la Deuxième Guerre mondiale, la Suisse n’avait jamais connu un tel afflux de réfugiés en si peu de temps. Les personnes déplacées ont bénéficié d’une vague de solidarité : la population a rassemblé du matériel de secours, fourni de l’aide et proposé des logements privés. Cela rappelle les grands mouvements de solidarité du passé, par exemple quand les troupes soviétiques ont envahi la Hongrie, en 1956, ou la Tchécoslovaquie, en 1968. La Suisse avait alors aussi accueilli les réfugiés d’Europe de l’Est à bras ouverts.

      Face à l’invasion russe en Ukraine, le Conseil fédéral a activé au mois de mars, peu après le début de la guerre, le statut de protection S. Sur le papier, cette catégorie de réfugiés existe déjà depuis les années 1990. À l’époque, le conflit armé faisant rage en ex-Yougoslavie avait contraint de nombreuses personnes à prendre la fuite. Toutefois, ce statut de protection spécifiquement prévu pour les personnes déplacées n’avait encore jamais été appliqué, pas même pendant la guerre en Syrie, qui a également jeté sur les routes des millions d’individus.

      Le statut de protection S offre aux personnes concernées de précieux avantages : il leur suffit de s’annoncer auprès des autorités, sans devoir faire une demande d’asile effective. Elles peuvent chercher immédiatement un emploi, faire venir leur famille en Suisse et voyager librement, y compris à l’étranger. Tout cela reste refusé aux réfugiés issus d’autres régions en conflit. Les Afghans, les Syriens, les Érythréens, les Éthiopiens ou les Irakiens doivent passer par la procédure d’asile ordinaire et n’ont le droit ni de travailler ni de voyager jusqu’à la décision officielle. Cela s’applique également aux personnes accueillies temporairement en Suisse parce qu’il ne peut être exigé d’elles qu’elles retournent dans leur pays.

      L’aide aux réfugiés exige l’égalité de traitement

      Les organisations d’aide aux réfugiés saluent l’accueil généreux et pragmatique des dizaines de milliers de réfugiés ukrainiens, mais revendiquent l’égalité de traitement pour toutes les personnes fuyant des conflits violents. « Pour les réfugiés, que la guerre qu’ils fuient soit une guerre née de l’agression d’un autre État ou une guerre civile entre deux camps d’un seul et même pays importe peu », note Seraina Nufer, co-responsable du département Protection de l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés. Des experts du droit de la migration trouvent eux aussi choquant que les déplacés de guerre issus d’autres pays ne soient pas traités de la même manière et ne puissent, par exemple, faire venir leur famille en Suisse qu’après une période d’attente de trois ans. Toutefois, la volonté de la majorité politique fait défaut pour une facilitation de l’asile en Suisse. La crainte d’un effet d’« appel d’air » est trop grande.
      Des angoisses existentielles croissantes

      Toutefois, même pour les réfugiés ukrainiens, la vie quotidienne en Suisse n’est pas paradisiaque. Il y a tout d’abord la vive inquiétude pour les proches qui sont restés dans la zone de guerre – les maris, les pères et les fils mobilisés dans l’armée. À cela s’ajoutent des angoisses existentielles. Seule une minorité de réfugiés possède des connaissances linguistiques suffisantes pour trouver rapidement un emploi en Suisse. Les personnes sans ressources peuvent demander l’aide sociale d’asile. Mais les prestations de celle-ci sont inférieures de 30 à 40 % à l’aide que les Suisses en situation de détresse financière reçoivent ordinairement. En d’autres termes, les aides étatiques ne suffisent guère à subvenir aux besoins quotidiens. On trouve donc de plus en plus d’Ukrainiens faisant la queue devant les organisations d’aide alimentaire parmi les autres personnes dans le besoin. Les organisations d’aide aux réfugiés mettent en garde contre une précarisation des personnes concernées et critiquent la culture d’accueil « bon marché » d’une Suisse pourtant fortunée.

      Les familles suisses qui ont généreusement accueilli chez elles plus de 20 000 réfugiés pendant au moins trois mois font aussi des sacrifices financiers. Selon les cantons, elles ne reçoivent que des indemnités symboliques, et peu de soutien au quotidien dans la plupart des cas. « De nombreuses familles d’accueil se sentent abandonnées », note Christoph Reichenau, co-initiateur du mouvement d’entraide Ukraine-Hilfe Bern. L’organisation a ouvert un centre d’écoute pour les réfugiés et les familles d’accueil près de la gare de Berne. Elle organise aussi des cours de langue et réunit sur son site web les nombreuses offres de soutien bénévole. La solidarité au sein de la population reste élevée, relate Christoph Reichenau. Mais des perspectives claires et un renforcement des structures sont nécessaires, souligne-t-il, « afin que la disposition spontanée à aider devienne un soutien permanent ».
      Pas de retour rapide en vue

      Les autorités tablent elles aussi sur le fait que les réfugiés ukrainiens resteront en Suisse plus d’un an. Un retour rapide dans les villes ukrainiennes bombardées semble de plus en plus improbable. À la clôture de la rédaction, à la mi-mai, les attaques russes sur le pays n’avaient pas faibli. Face à l’afflux croissant de réfugiés – la Confédération s’attend à ce que leur nombre atteigne entre 80 000 et 120 000 personnes au total d’ici l’automne –, les autorités doivent non seulement trouver davantage de lieux d’hébergement, mais aussi clarifier les perspectives des réfugiés en Suisse. Si cela ne tenait qu’à eux, Alexander Volkow, Anhelina Kharaman, Mykola Nahornyi et Lilia Nahorna rentreraient à Kramatorsk, Marioupol ou Dnipro pour s’occuper de leur maison et de leur jardin. Pour l’heure, Lilia Nahorna cultive de jeunes pousses en pot : ainsi, elle pourra ramener les plantes chez elle facilement. Chez elle, en Ukraine.

      https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/ils-sont-refugies-et-bienvenus

      #permis_S

    • Stanze – di Gianluca e Massimiliano De Serio – Videoinstallazione – Italia 2010

      Il diritto d’asilo calpestato, poesia civile sulle tracce delle “catene poetiche” della tradizione orale somala. E i muri, e le vicende, dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino, autentica «centrifuga» simbolica della storia d’Italia.

      «Quanto è sconnessa la terra sotto i miei piedi,/ quanto è vasta la sabbia,/ andavo avanti sballottato e dappertutto le dune si moltiplicavano».

      «Mi hanno preso le impronte, non sono più come i miei coetanei./ Mi hanno reso povero in tutto, sono senza prospettiva di vita qui in via Asti./ Chi ci ha respinto ci ha fatto restare sul marciapiede in mezzo a una strada, ci ha relegato a dormire lungo i muri./ Ci obbligano a tornare indietro,/ non possono capire che il trattato di Dublino è il colonialismo: a chi possiamo denunciarlo?».

      In Stanze si respira la vertigine deserto, si intuisce la fatica del viaggio. Si ascolta una madre che teme per il figlio emigrato. Si sente sotto i piedi la lastra nera del mare. Si impara che cosa sia il bisogno di fuggire da una terra invivibile, ma anche la disillusione per essere finiti in un Paese diverso da come lo si sognava. Si diventa testimoni della miseria e dell’indifferenza vissuti in Italia. E si è inchiodati alla denuncia: «Gli italiani non hanno mantenuto la promessa fatta», quella di un’accoglienza che dia un minimo di sostanza al diritto d’asilo concesso sulla carta.

      Nato come videoinstallazione, Stanze è stato girato con un gruppo di giovani rifugiati somali che sono stati “ospiti” degli spogli locali dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino. Le riprese, senza luce artificiale, si sono svolte in un’unica giornata ma la preparazione è durata mesi, in collaborazione con la mediatrice culturale e scrittrice Suad Omar. In questo «film di parola e non di azione» (è la definizione dei fratelli De Serio) gli attori, a turno, narrano le loro storie per circa un’ora, fermi davanti alla camera da presa, in versi somali con sottotitoli in italiano.

      La forma recupera e riattualizza il genere della “catena poetica” (una serie di liriche collegate fra loro, strumento di dibattito pubblico e politico nella tradizione orale della Somalia). Mentre, nei contenuti, la cronaca e la testimonianza si fanno poesia civile, con un’asprezza senza tempo che ricorda a tratti i salmi più scabri e le denunce più dure dei profeti dell’Antico Testamento.

      Una parte dei testi proposti dal gruppo di giovani rifugiati non si limitano alla situazione del diritto d’asilo ma “interpretano” anche la storia dell’ex caserma La Marmora, decifrando in quelle mura «una vera e propria centrifuga della storia italiana», come ricorda l’associazione di “mutuo soccorso cinematografico” Il Piccolo Cinema di Torino: «Fondata durante il primo periodo coloniale italiano nel corno d’Africa, la caserma è poi diventata sede, durante il fascismo, della Guardia nazionale repubblicana e vi si sono consumate torture e fucilazioni dei partigiani prigionieri». Da qui la ripresa in Stanze (stanze come strofe poetiche, stanze di mattoni) di alcuni stralci degli atti del processo che, nel 1946, vide alla sbarra alcuni fascisti che “lavorarono” in via Asti. Ancora Il Piccolo Cinema: «Nel film gli ex abitanti della caserma, attraverso un percorso di sdoppiamento storico ed esistenziale, si fanno carico della nostra stessa storia e delle sue mancanze».

      Prodotto per la prima edizione del “Premio Italia Arte Contemporanea” del Maxxi di Roma, Stanze ha ottenuto la menzione speciale della giuria «per l’uso innovativo del linguaggio filmico nel rappresentare la condizione umana di sofferenza e di oppressione che attraversa la nostra storia».

      Alcune scene e una presentazione del video da parte di Gianluca e Massimiliano De Serio sono presenti su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=GvWW0Ui7Nr0

      Il sito Internet dei fratelli De Serio è: www.gmdeserio.com
      https://viedifuga.org/stanze

    • Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio - Quella stanza fuori dall’Africa

      Quella stanza fuori dall’Africa Teresa Macri ROMA Incontro con i gemelli De Serio, menzione speciale della giuria per il Premio Italia Arte Contemporanea al Maxxi. «Abbiamo girato un film-catena poetica che recupera la tradizione orale somala, prima dell’avvento della scrittura. Nel nostro caso, la narrazione orchestrata dalla poetessa Suad Omar è declinata da alcuni rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati» Gianluca e Massimiliano De Serio con il mediometraggio Stanze, si sono aggiudicati una menzione speciale da parte della giuria e una passione smodata da parte del pubblico. Sarebbe stato un esemplare epilogo se, nel catastrofico crinale italiano come quello che stiamo attraversando, la giuria avesse inviato un chiaro segno politico puntando sul loro film che riesce a coagulare paradigma storico, displacement, soggettività e funzione del linguaggio poetico attraverso i racconti di alcuni politici somali in Italia. Comunque sia i fratelli De Serio (Torino, 1978) sono stati appena premiati alla 28ma edizione di Torino Film Festival con il documentario Bakroman sui ragazzi di strada del Burkina Faso. Fin dal 1999, i gemelli indagano senza tregua e senza alcun rigurgito ideologico sui temi dell’identità culturale, «negoziata», fluida e in divenire nell’epoca tardo-capitalista, sui conflitti tra urbanità e minoranze etniche che stanno ridefinendo le nostre società occidentali. La loro è una ricerca «etica», indirizzata sullo scontro degli spazi sociali e sul disagio dell’estetica, nei confronti della politica. Una ricerca in con-trotendenza con l’immaginario simulacra-le così ripercorso dalla loro stessa I-Generation. Ragione dei numerosissimi riconoscimenti internazionali ricevuti finora: Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio (2004), il festival di Edimburgo (2006), Oberhausen (2006), Stoccarda (2005), Vendó me (2005 e 2006) e, come miglior film italiano, per tre anni consecutivi al Tff. L’asserzione dell’artista Francis Alys «a volte fare qualcosa dl poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa dl politico può diventare poetico» sembra descrivere li vostro film. Come è nata e si è sviluppata l’idea dl «Stanze»? Poesia e politica non sono per forza estranee. Al contrario. Cosl come l’estetica può veicolare un contenuto etico, il rapporto fra le due sfere deve essere il più coerente possibile. In particolare, Stanze è un lavoro che si sviluppa in entrambe le direzioni. E un film/catena poetica che recupera la tradizione orale somala prima dell’avvento della scrittura. La poesia era lo strumento di discussione etica e politica della società somala, con essa si creavano catene poetiche attraverso le quali si dibatteva: venivano apprese a memoria dalla società e servivano per un dibattito pubblico, sublimato dalla bellezza e dal rigore della metrica. Nel nostro caso, le poesie, create sotto la maestria della poetessa Suad Omar, sono declinate da un gruppo di rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati e si fanno carico della nostra storia e delle nostre mancanze.
      «Stanze» è centrato sulle forme di potere autoritarie: dal colonialismo italiano In Africa al fascismo del ventennio fino all’attuale stato dl diritto discrezionale... Il film è un lento scivolare dalla diaspora dei somali all’inadeguatezza del nostro paese nell’accoglierli secondo le regole internazionali. Progressivamente, i rifugiati arrivano ad interpretare stralci del processo, del 1946 nella caserma di via Asti di Torino, in cui vennero condannate alcune guardie nazionali repubblicane fasciste, colpevoli di sevizie, di torture e uccisioni di numerosi partigiani (tutti amnistiati, creando in questo modo un vuoto storico e giudiziario). I somali, figli indiretti della nostra storia e delle colpe coloniali e fasciste e oggi rifiutati dalla nostra società, prendono la voce dei testimoni del processo, attuando una sorta di sdoppiamento storico ed esistenziale che incolpa prima di tutto l’Italia e ne riempie il vuoto morale e politico. I luoghi di ogni «stanza poetica» sono alcune sale della tremenda caserma di via Asti, che paradossalmente è stata un provvisorio posto di accoglienza di centinaia di rifugiati politici somali nel 2009, alcuni dei quali protagonisti del film. Lo sradicamento del soggetto post-coloMale è al centro delle vostre analisi sia In «Zakarla» che in «Stanze». In ciò conta molto l’humus torinese dove vivete? Torino è una città che ha visto nascere i movimenti di potere, ma anche di protesta e di avanguardia in Italia. E un luogo di spe:
      * rimentazione sociale dove si cerca di supplire alle mancanze del govemo in materia di rifugiati politici. Molte delle nostre storie nascono e si creano nel nostro quartiere o nella nostra città. Qui ha sede il Centro Studi Africani, dove ha avuto inizio la ricerca per realizzare Stanze. Il presidente, ora purtroppo scomparso, era Mohamed Aden Sheickh, ex ministro somalo che è stato sei anni in cella di isolamento sotto la dittatura di Siad Barre ed è a lui e ai rifugiati politici che dedichiamo il lavoro. Grazie a lui abbiamo incontrato Abdullahi, Suad Omar e tutti i rifugiati politici protagonisti. La necessità dl ritornare su accadimenti passati della storia Italiana (come II film dl Martone "Nol credevamo») è un meccanismo dl presa di coscienza del presente attraverso una di logica della memoria? Il nostro è un tentativo di creare una nuova immagine del presente, fuori da ogni formato e da ogni cliché, capace di farsi carica di significato e di aprirsi a riflessioni future e a ri-letture del passato, sotto una nuova estetica e rinnovati punti di vista. Stanze, per esempio, parte dalle storie della diaspora presente, dalle torture in Libia e dai respingimenti, dai non diritti dei rifugiati, che si perpetuano tutti i giorni tra Africa e Italia, fin dentro il nostro stesso paese. Questa diaspora ha radici profonde e interpella la nostra storia più nera, sconosciuta o opportunisticamente dimenticata, quella del colonialismo, degli eccidi in Somalia da parte degli italiani, delle colpe dei fascisti, mai pagate fino in fondo come ci insegna via Asti. C’è nella vostra ricerca una attenzione alla struttura metrica che stabilisce anche Il ritmo del film. II riferimento è alla catena poetica dl Stanze», alla rima del rappers in «Shade ? Da anni onnai lavoriamo sul tentativo, di volta di volta diverso, di creare una «nuova oralità». La trilogia dedicata a Shade era un lungo flusso di coscienza in freestyle, che abbandonava le classiche regole del genere per farsi nuova parola e immagine, icona, memoria di se stessa. In Stanze abbiamo spazializzato il suono, lo abbiamo reso scultura, capace di riflettersi su un’immagine aderente al concetto di catena poetica e in grado di farsi bella, perfetta, ipnotica, sia nella metrica e nel suono, ma anche nei colori e nelle luci. Solo così crediamo si possa restituire la dignità e il coraggio di mettersi in gioco dei nostri protagonisti: ognuno con i suoi strumenti, in un dialogo continuo che si fa scambio, dialettica, alleanza.
      PREMIO ITALIA ARTE Rossella Biscotti presenta il suo «Processo» dopo il 7 aprile L’artista Rossella Biscotti è la vincitrice della prima edizione del Premio Italia Arte Contemporanea, curato da Bartolomeo Pietromarchi e organizzato dal Mani per sostenere e promuovere l’arte italiana rigosamente under 40. «II Processo», realizzato dalla Biscotti (Molfetta, 1978, ma vive in Olanda) consta in una installazione molto formale di architetture residuali in cemento armato ispirate alla conversione logistica subita dalla razionalista palestra della scherma realizzata da Luigi Moretti al Foro Italico in aula bunker durante i processi politici degli anni di piombo, tra cui quelli legati al caso Moro. Parallelamente e più pregnantemente un audio, disseminato nel museo, invia le registrazioni del famoso processo .7 Aprile». A colpire la giuria è stata «l’intensità del lavoro e il forte legame che l’artista ha saputo costruire fra l’architettura del museo e quella dell’opera». L’installazione sarà acquisita dal Marci e verrà pubblicata una monografia dell’artista. Tre gli altri finalisti in lizza: Rosa Barba (Agrigento, 1972) con il suo museo nascosto» nei depositi; Piero Golia (Napoli 1974) che cerca di confondere lo spettatore spostando continuamente il punto di vista, e i gemelli De Serio, menzione speciale per il loro mediometraggio «Stanze».

      https://archive.ph/Ob2nj#selection-68.0-68.2

    • Italy’s De Serio Brothers on CineMart-Selected Colonial-Era Drama ‘Prince Aden’ (EXCLUSIVE)

      Gianluca and Massimiliano De Serio, the Italian directing duo best known internationally for their Locarno premiere “Seven Acts of Mercy,” are developing a colonial-era drama that they’re presenting during the Rotterdam Film Festival’s CineMart co-production market.

      “Prince Aden” begins in 1935, when a 16-year-old Somali boy passes the test to become a dubat, a soldier in the Italian army that has invaded Ethiopia on the orders of Mussolini. Aden Sicré is sent to the frontlines, but after being injured on his first day of service he’s forced to return home – where he is unexpectedly hailed as a war hero by the Fascist regime.

      Five years later, Aden is recruited to take part in a recreation of the daily life of an African village at the newly built Mostra d’Oltremare exhibition center in Naples. But when Italy enters the Second World War, the “human zoo” suddenly closes, stranding Aden and the other African inhabitants for three years as Allied bombs destroy the city around them.

      Inspired by the book “Partigiani d’Oltremare,” by the Italian historian Matteo Petracci, the film follows the unexpected turns in the years after, as Aden and other African fighters play a pivotal role in the partisan struggle against fascism in Europe, and the would-be shepherd is hailed as the film’s titular prince.

      “Prince Aden” sheds light on an “unknown story” that helped shape the course of Italy in the 20th century, according to Gianluca. Yet it’s a story that’s become increasingly relevant against the backdrop of modern-day Europe.

      “We found that this story is not so far from those of thousands of young people who leave their homeland and come to Italy and Europe to find a new life today,” he said. “There is a kind of mirror” with current events.

      Massimiliano said that “this story is a contemporary story, not only a story of our recent past,” which reflects how events between the colonial era and the present day are connected.

      “We need to talk about not only our origin [as colonizers and fascists], but also we need to talk about the importance of Africa to our story, and also the importance of the Italian story to the African one,” he added. “The film will not only be a film about colonialism, because everything starts from there, but also about post-colonialism.”

      The De Serio Bros. addressed similar topics in their 2010 film installation “Stanze” (Rooms) (pictured), which looked at issues of colonialism, post-colonialism and their consequences on the condition of migrants today.

      Central to “Prince Aden” will be an interrogation of the ways in which the Fascist regime exploited the image of its young African hero for its own purposes. The brothers will also examine the role played by the Mostra d’Oltremare, as well as the Italian film industry, in promoting the propaganda of the Fascist government, raising questions of how history is staged and narratives framed.

      It’s a timely subject in an era when previously marginalized voices across the world are struggling to reclaim their own stories. Massimiliano noted how an increasing number of young Italian writers, artists and musicians with African roots have in recent years begun to produce art that echoes their own experiences as second- and third-generation Italians.

      However, he said, “there is not a real debate in Italy’s culture about our colonialism and the ashes of this colonialism after the ‘60s” similar to how the Black Lives Movement has cast fresh light on race history in the U.S.

      That lack of accountability or reflection extends to cinema, which “didn’t really face up to colonialism” after the fall of the fascist regime, Massimiliano said. That, in turn, has had a profound effect on Italian culture today.

      “Cinema works with images. It gives visibility to something, and it hides something else,” said Gianluca. “For us, cinema is a responsibility…. It’s a choice. It’s close to the work of archaeologists: going under the surface and looking for pieces of our identity that are hidden not only in the past, also in the present.”

      The De Serio Brothers’ debut feature, “Seven Acts of Mercy,” made a splash on the festival circuit after premiering in competition in Locarno in 2011. The brothers later premiered in the Venice Film Festival in 2016 with the documentary “River Memories,” about one of the largest shanty towns in Europe. Two years ago, they bowed “The Stonebreaker,” starring “Gomorrah’s” Salvatore Esposito, in the festival’s Venice Days strand.

      “Prince Aden” is produced by Alessandro Borrelli for La Sarraz Pictures. As the filmmakers search for potential co-producing partners during CineMart, Massimiliano stressed that their film is inherently a “European project” that is “important for Europe.”

      “We are the doors of Europe in the Mediterranean today,” he said, “and I think that this project could be a way for Europe to understand better the European roots that are not only the European, Christian roots, but also the roots of our tragic and somehow also beautiful links [and] violent links with Africa. The film will be violent and tender at the same time.”

      https://variety.com/2022/film/global/rotterdam-cinemart-de-serio-brothers-prince-aden-1235167410

    • La macabra storia dell’ex Caserma La Marmora di Torino

      Ormai in disuso, la vecchia Caserma La Marmora dal ’43 al ’45 fu luogo di detenzione e di tortura, dove persero la vita molti italiani.

      Al giorno d’oggi, al civico numero 22 di via Asti a a Torino si trova l’ex #Caserma_Dogali, ora Caserma La Marmora.

      La struttura militare fu il centro di terribili atti di tortura e fucilazione durante il Secondo conflitto mondiale.

      Alle origini, la caserma di via Asti divenne la sede di un Reggimento di fanteria.

      Costruita dal 1887 al 1888, il progetto della struttura fu opera del capitano del Genio, #Giuseppe_Bottero.

      Inizialmente, all’inaugurazione si scelse il nome di caserma “Dogali” di Torino (solo in futuro poi prenderà il nome “La Marmora”).

      Questa denominazione in particolare, richiama l’infausta battaglia di Dogali, la quale ebbe luogo in corrispondenza della costruzione dell’edificio.

      Al tempo, il corpo si spedizione italiano era impegnato nel Corno d’Africa, in Eritrea, per portare avanti le pretese coloniali del governo #Depretis.

      Risaputa è la sconfitta dell’esercito italiano, che proprio durante la battaglia di Dogali del 26 gennaio del 1887 venne piegato da un’impensabile esercito etiope.

      La disfatta coprì di vergogna l’Italia agli occhi delle potenze mondiali.

      In seguito, il ministro Depretis diede le dimissioni a distanza di poche settimane.

      Indubbiamente, il catastrofico evento generò clamore in tutta la penisola.

      Nel capoluogo piemontese si prese la decisione di intitolare una via con il nome del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, casalese di origini che perse la vita durante la campagna africana.

      Mentre, invece la nuova caserma prese il nome dell’infima battaglia.

      Come primo impiego militare, si ospitarono al suo interno due reggimenti di fanteria.

      Mentre dal luglio del 1912, fu sede del comando del Battaglione Aviatori della neo-aeronautica militare italiana.

      Nel 1920, su richiesta dell’Alto Comando militare, la caserma ospitò un reggimento di Bersaglieri, il IV.

      Mentre l’anno successivo cambiò nome, diventando Caserma “La Marmora”, in onore di #Alfonso_La_Marmora, generale e politico de Regno di Sardegna, ideatore dell’unità dei bersaglieri.

      Purtroppo, nel 1943 la Caserma La Marmora divenne il centro di terribili avvenimenti.

      Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, i partigiani, grazie all’appoggio degli alleati, misero a ferro e fuoco il Piemonte.

      Così si decise di riconvertire la caserma come quartier generale dell’#Ufficio_Politico_Investigativo (l’#Upi).

      Sotto la gestione della #Guarda_Nazionale della neo-nata #Repubblica_Sociale.

      Il nuovo incarico era quello di reprimere ed eventualmente annichilire ogni forma di lotta clandestina partigiana, con ogni maniera necessaria.

      Nelle camere della caserma, sotto il comando del colonnello #Giovanni_Cabras e del maggiore #Gastone_Serloreti, si rinchiudevano e si interrogavano i partigiani catturati.

      Gli interrogatori venivano portati avanti attraverso spietate torture psicologiche e fisiche.

      Che si concludevano con la fucilazione o con la deportazione in Germania dei ribelli, in accordo con i nazisti.

      Tra la notte del 27 e del 28 gennaio però, un’incursione partigiana, comandata da #Livio_Scaglione, riuscì ad occupare la caserma e liberare i prigionieri.

      Con la fine della guerra, l’ex struttura militare cadde inevitabilmente nella desuetudine, che continua fino ai giorni nostri.

      Tuttavia nel 1962, in ricordo degli eroi che persero la vita, venne posta una lapide nella caserma, esattamente nel luogo in cui avvennero le esecuzioni.

      https://mole24.it/2021/05/05/la-macabra-storia-dellex-caserma-la-marmora-di-torino
      #partisans