Il ricatto europeo targato #Frontex sui rimpatri “volontari” dei migranti
In sei anni il numero di persone straniere a cui l’Agenzia ha dato supporto per “ritornare” è aumentato del 2.181%. Con un #budget superiore al miliardo di euro, le “divise blu” sono le vere protagoniste della politica europea sulle frontiere.
“Giro per strada e mi vergogno. Tutti sanno che non ce l’ho fatta e che non sono riuscito a restituire neanche i soldi necessari per pagare il mio viaggio per l’Europa”. Nuha sospira mentre descrive una quotidianità difficile a Sukuta, città del Gambia che dista una ventina di chilometri dalla capitale Banjul. “Non ho un lavoro stabile e anche se sono passati tanti anni spesso ripenso al giorno in cui sono stato rimpatriato -racconta-. Non avevo commesso nessun reato: solo una volta non ho pagato il biglietto dell’autobus ma sono tornato nel mio Paese con le manette ai polsi”.
Era il novembre 2019 e dopo cinque anni vissuti tra Italia e Germania, Nuha è stato rimpatriato su un volo gestito da Frontex. Come lui, negli ultimi dieci anni, altri 1.158 cittadini gambiani sono tornati nel loro Paese con l’assistenza dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che nel 2025 ha superato per la prima volta dalla sua istituzione il miliardo di euro di budget.
“Soffrono molto”, sottolinea Bakary Camara, direttore sanitario dell’ospedale psichiatrico Tanka Tanka che si trova proprio a Sukuta, nella città in cui vive Nuha. “Spesso vengono ricoverati qui per problemi di salute mentale e dipendenza da sostanze stupefacenti sviluppate in Europa. Non è facile ricominciare da capo”.
Guardare dal Gambia l’ossessione europea per i rimpatri dei cittadini irregolari è particolarmente significativo. Da quando nel 2017 è finita la dittatura dell’ex presidente Yahya Jammeh, molti giovani hanno deciso di lasciare uno dei più piccoli Paesi del continente africano che conta 2,5 milioni di abitanti in poco più di 11mila chilometri quadrati.
L’aumento dell’emigrazione ha avuto un effetto decisivo sull’economia di uno Stato che nel 2022 era al 174esimo posto su 191, secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. I 513 milioni di dollari inviati nel 2023 dagli emigrati ai propri familiari dall’estero (le cosiddette rimesse) hanno coperto il 21,9% del Prodotto interno lordo del Paese. Una fetta fondamentale dell’economia.
Anche per questo il presidente Adama Barrow è stato duramente contestato quando nel 2018 ha siglato un accordo con l’Unione europea in materia di rimpatri. “Quando una persona è deportata non si perdono solo i soldi che questa inviava alla famiglia -spiega Yahya Sonko, attivista gambiano che dal 2015 vive in Germania- ma anche lo sviluppo di realtà imprenditoriali in loco. Dall’Europa io garantisco lavoro a 15 persone nella mia città di origine”.
Le proteste hanno costretto Barrow a un passo indietro e all’inizio di un braccio di ferro con le istituzioni europee che più volte, l’ultima a luglio 2024, hanno minacciato una stretta sul rilascio dei visti come punizione per la mancata cooperazione sui rimpatri. “Un ricatto inaccettabile e uno spreco di soldi per gli europei -osserva Sonko-. Rimandare indietro una persona costa tantissimo e non è detto che questa, una volta rientrata, non riparta. Una politica dannosa e inutile”. Una strategia che numericamente ha fallito.
Prendiamo come esempio il terzo trimestre del 2024: in Europa su un totale di 112.055 persone che hanno ricevuto un cosiddetto “ordine di espulsione”, quelle poi effettivamente rimpatriate sono state 28.630. Uno ogni cinque. “Una percentuale troppo bassa”, ha sottolineato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel presentare, a inizio marzo, il nuovo sistema comune di rimpatrio europeo che prevede procedure più snelle e che ha un protagonista indiscusso: Frontex.
“Ricordo bene gli agenti che ci hanno accompagnato sull’aereo”, riprende Nuha. Sono quelli di Frontex, l’Agenzia guidata oggi dall’olandese Hans Leijtens che quest’anno celebra vent’anni di attività e si è vista destinare dalla Commissione europea la stratosferica cifra di 1,1 miliardi di euro, un budget che non ha eguali in istituzioni simili. Ad esempio, supera di ben 42 volte quello dell’Agenzia europea sulla cybersicurezza e dieci volte quello dell’Agenzia europea per l’ambiente.
Di questa cifra monstre solo 2,5 milioni di euro vengono destinati alle attività relative ai diritti umani mentre ben 133 milioni ai rimpatri, con un aumento del 42% rispetto al 2024. “Nel nuovo Regolamento proposto dalla Commissione -spiega Silvia Carta, advocacy officer della Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti (Picum)- emerge chiaramente la centralità dell’Agenzia e si prevede un ulteriore aumento delle disponibilità di spesa per i rimpatri”. L’attività di Frontex in questo settore non è una novità.
Fin dalla sua nascita, infatti, ha collaborato con gli Stati membri supportandoli con la copertura dei costi degli aerei e delle attività pre-partenza ma è con il nuovo regolamento del 2019 che si è ritagliata un ruolo sempre più importante. Grazie a maggiori possibilità di operare anche in Paesi terzi dell’Ue, attraverso agenti dislocati sul territorio, è diventata protagonista della delicata attività di cooperazione con le autorità locali.
I problemi principali dei bassi numeri di rimpatri dall’Europa, infatti, oltre ai costi stratosferici (almeno quattromila euro a persona, solo per il noleggio dell’aereo, per l’espulsione di un cittadino dall’Italia alla “vicinissima” Tunisia) sono proprio gli accordi con gli Stati di origine: spesso, come si è visto nel caso del Gambia, questi sono restii ad accettarli.
Così, per ovviare a questo problema, l’Agenzia con sede a Varsavia e le istituzioni europee puntano sempre di più sui cosiddetti rimpatri volontari che hanno almeno due vantaggi: non richiedono il coinvolgimento dei Paesi di origine perché la persona collabora e il viaggio costa meno perché avviene su un volo di linea. E infatti, oggi, più della metà delle persone che lasciano l’Europa lo fanno “volontariamente” e Frontex è sempre più protagonista.
Dal 2019 l’Agenzia può aiutare i Paesi Ue anche sui rimpatri volontari assistiti e i dati dimostrano che la sua attività da quell’anno è esplosa. Si passa dalla collaborazione con nove Stati membri per 155 persone rimpatriate alle 35.637 (+2.181%) del 2024 da 26 Stati Ue diversi. Inoltre cresce tantissimo anche il numero dei Paesi di destinazione coinvolti nell’attività delle “divise blu” che oggi sono 117 contro i 41 di sei anni fa. In totale quindi Frontex supporta i rimpatri nel 74% degli Stati del mondo extra-Ue: se si guarda al continente africano mancano all’appello solo eSwatini e Malawi.
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Per Frontex questi aiuti avvengono nell’ambito del “Reintegration program” che garantisce un “supporto a breve termine” (615 euro per i rimpatri volontari, 205 per quelli forzati) e uno a “lungo termine” che prevede forme indirette di aiuto per un anno (dalla copertura dell’assistenza sanitaria alla possibilità di supporto nell’aprire un’attività) per un importo di duemila o mille euro, a seconda di rientro volontario o forzato per il richiedente principale, più mille per ogni familiare.
Questa dote è gestita da sei Ong che sono state selezionate tramite bando pubblico per operare in 38 diversi Paesi del mondo: Caritas international Belgium, Women empowerment, literacy and development organization (Weldo), Irara, European technology and training centre (Ettc), Life makers foundation Egypt, Micado migration. Se nel 2022 i cittadini rimpatriati supportati all’interno di questo progetto erano 867, nel 2024 sono cresciuti del 1.362% (12.676): le principali nazionalità delle persone sono Turchia (2.750), Iraq (2.469), Georgia (1.472), Gambia (1.162), Nigeria (816), Pakistan (794) e Bangladesh (620).
“Spesso queste forme di aiuto non sono efficaci per chi ritorna nel proprio Paese perché è molto problematico l’utilizzo dei fondi -chiarisce Rossella Marino, professoressa all’Università di Gent in Belgio che ha svolto un dottorato proprio sul tema dei progetti di reintegrazione in Gambia-. Sono estremamente utili però alle istituzioni europee perché descrivono attraverso una narrazione positiva e accettabile, ovvero aiutare le persone che rientrano, quello che è un approccio neocoloniale e che mira in definitiva al controllo della mobilità”. Marino sottolinea, infatti, come la “macchina” dei rimpatri coinvolga tantissimi attori sul campo. “Tutte attività che consolidano la presenza delle istituzioni europee su quel territorio ma soprattutto che aiutano a evitare la ripartenza di chi è rientrato. Questo processo avviene anche attraverso la digitalizzazione di tutte le informazioni”.
Proprio con questo scopo è stata sviluppata la piattaforma digitale Reintegration assistance tool (Riat), finanziata dalla Commissione europea e implementata dal Centro internazionale per lo sviluppo delle politiche migratorie (Impcd), attraverso cui avviene un monitoraggio costante dei casi che accedono al programma di Frontex e viene migliorata la cooperazione degli Stati.
C’è poi un enorme tema di responsabilità rispetto al ruolo di Frontex nei rimpatri. Tutto ruota attorno alla questione se le divise blu siano o meno responsabili di quello che avviene prima del rimpatrio. Che cosa succede ad esempio se il decreto di espulsione alla base del rimpatrio della persona è illegittimo? Chi ne risponde? Oppure se, nel caso della partenza volontaria, la persona non si trovava in una condizione adeguata per decidere liberamente? Questo aspetto è decisivo. “Frontex si fa forte del fatto che la responsabilità di tutto ciò che succede prima del rimpatrio ricade unicamente sullo Stato membro. Ma non è così -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue dell’Università Ramon Llull di Barcellona che da anni si occupa di queste tematiche-. L’Agenzia deve valutare caso per caso se quella espulsione sia legittima o meno: glielo impone il suo stesso Regolamento all’articolo 80. O si cambiano le regole di ingaggio, oppure è così”.
Tutto questo riguarda da vicino anche l’Italia. Il nostro Paese è il fanalino di coda in Europa, insieme alla Romania, per il numero di rimpatri volontari. In dieci anni (2015-2024), secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno ad Altreconomia, sono state 4.059 le persone rimpatriate con questo programma per un totale di 35,5 milioni di euro investiti dal Viminale. Nel 2024 tutti i 290 casi di rimpatrio assistito, che riguardavano per il 42% persone in posizione di irregolarità, sono stati gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).
Negli ultimi mesi, però, nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani crescono le testimonianze di chi racconta una forte pressione da parte degli operatori per accedere a quelle che vengono definite “partenze volontarie”. Un funzionario di Oim che preferisce mantenere l’anonimato ci conferma che l’organizzazione per cui lavora non attiva rimpatri volontari dal Cpr.
A intervenire è Frontex con il suo “Reintegration program”, che ora sembra una priorità anche per l’Italia: tutto è gestito dalla questura che segue caso per caso segnalando a Varsavia coloro che accettano di lasciare subito il Paese. La longa manus dell’Agenzia è arrivata così anche nei centri di detenzione italiani. E chi lo sa, forse presto sbarcherà anche in Albania.
“A sei anni di distanza -conclude Nuha- una delle cose che mi fa più male è non aver potuto abbracciare mia moglie e mia figlia prima di partire: mi hanno fatto uscire dal retro della stazione di polizia, lei ha provato a seguire la macchina ma l’hanno seminata. Piangeva, urlava e con lei anche la bambina. Questa è l’ultima immagine che ho dell’Europa”.
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