• Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana

    Napoli, 1940. L’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sorprende un gruppo di somali, eritrei ed etiopi chiamati ad esibirsi come figuranti alla #Mostra_delle_Terre_d’Oltremare, la più grande esposizione coloniale mai organizzata nel Paese. Bloccati e costretti a subire le restrizioni provocate dalle leggi razziali, i “sudditi coloniali” vengono successivamente spostati nelle Marche dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sfaldamento dello Stato, alcuni decidono di raggiungere i gruppi di antifascisti, militari sbandati, prigionieri di guerra e internati civili che si stanno organizzando nell’area del #Monte_San_Vicino.

    Attraverso testimonianze, documenti e fotografie, l’autore ricostruisce il percorso di questi Partigiani d’Oltremare, raccontandone il vissuto, le possibili motivazioni alla base della loro scelta di unirsi alla Resistenza e la loro esperienza nella “#Banda_Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni: un crogiuolo mistilingue che trova nella lotta al fascismo e al nazismo una solida ragione unificante.

    https://www.pacinieditore.it/prodotto/partigiani-oltremare
    #Italie #résistance #exposition_coloniale #Italie_coloniale #colonialisme #histoire #colonialisme_italien #antifascisme #Marches #résistance #partisans #livre

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Perché è importante ricordare la storia di #Giorgio_Marincola, partigiano italo–somalo

    Cento anni fa nasceva uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza, simbolo di una patria aperta e plurale che ancora oggi fa paura

    Figlio di un maresciallo di fanteria calabrese e di una donna somala, studente antifascista e partigiano. Il 23 settembre 1923 a Mahaddei Uen, presidio militare a cinquanta chilometri da Mogadiscio, nasceva Giorgio Marincola, uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza.

    La sua vicenda è arrivata per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica con Razza Partigiana (Iacobelli 2008) (http://www.razzapartigiana.it), una ricerca storica realizzata da due studiosi romani: Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Nonostante una circolazione tutto sommato limitata, il testo ha acceso una luce che negli ultimi quindici anni non si è più spenta sul partigiano italo-somalo, dando vita a numerose letture e presentazioni pubbliche, senza contare la pubblicazione di altri titoli legati alla sua figura. Tra questi il più importante è Timira. Romanzo meticcio (Einaudi 2012). Il libro è incentrato su Isabella, sorella minore di Giorgio scomparsa nel 2010, ed è stato scritto dal figlio Antar Mohamed Marincola e da Wu Ming 2, pseudonimo di Giovanni Cattabriga.

    Il riconoscimento da parte del padre Giuseppe dei due figli avuti da #Aschirò_Hassan e la decisione di portarli entrambi in Italia non sciolgono le contraddizioni di un rapporto sbilanciato e problematico, ma impediscono ingenerose semplificazioni. “A differenza di tante altre vicende, erano due persone che sostanzialmente si volevano bene”, sottolinea Teodonio.

    Dopo aver trascorso l’infanzia in Calabria con la famiglia dello zio paterno, nel 1933 Giorgio si trasferì a Roma. Nella capitale frequentò il liceo-ginnasio Umberto I ed ebbe come professore di storia e filosofia Pilo Albertelli, importante esponente antifascista ucciso alle Fosse Ardeatine. Questo incontro segnò profondamente il giovane Marincola.

    Nel 1943 entrò a far parte del movimento di liberazione nelle fila del #Partito_d’azione. Aderì alla #Resistenza_romana, spostandosi poi nel viterbese nella primavera del 1944, dove combatté in una formazione composta da partigiani di diverse aree e militari sbandati dopo l’8 settembre.

    All’indomani della liberazione di Roma il 4 giugno 1944, si offrì per l’arruolamento nell’intelligence militare britannica. Fu inserito in un’unità paramilitare che venne paracadutata in Piemonte, nel biellese. Arrestato durante un rastrellamento venne deportato al campo di concentramento di Bolzano. Sopravvissuto al lager, da cui uscì il 30 aprile 1945, decise di unirsi a una formazione partigiana della Val di Fiemme. Venne ucciso a Stramentizzo nell’ultima strage tedesca in territorio italiano il 4 maggio 1945.

    Secondo lo storico della mentalità e formatore Francesco Filippi “parlare della Resistenza fatta da persone come Giorgio Marincola, con un’idea di patria aperta e plurale lontana dalle brutalità razziste e dal nazionalismo becero di stampo fascista, potrebbe essere un ottimo esempio per l’antifascismo di oggi”.

    Sia Teodonio che Filippi ritengono che la figura di Giorgio Marincola abbia permesso di far emergere altre storie. Il pensiero di entrambi va alla vicenda rocambolesca raccontata da Matteo Petracci in Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini Editore 2019), la storia di un gruppo di eritrei, somali, etiopi e libici che nel 1943 si ritrovarono bloccati nelle zone di montagna del centro Italia e decisero di unirsi alla Resistenza contro i nazifascisti. Petracci ha ricostruito attraverso testimonianze, documenti e fotografie l’esperienza di questi “sudditi coloniali” all’interno della “#Banda_Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni.

    Due anni dopo l’uscita di Razza Partigiana il sociologo Mauro Valeri pubblicò un libro dedicato al partigiano nero #Alessandro_Sinigaglia, nato a Fiesole da un ebreo di origini mantovane e da una donna afroamericana giunta in Italia come cameriera di una famiglia di Saint Louis.

    Il 9 settembre, in occasione dell’imminente centenario della nascita di Giorgio Marincola, la famiglia ha donato il suo piccolo ma prezioso archivio al Museo storico della Liberazione di via Tasso, a Roma.

    “Giorgio Marincola non è solo un mio parente. Non penso che i legami siano dettati dal sangue”, spiega il nipote Antar Mohamed, educatore e mediatore culturale che da anni vive e lavora a Bologna. “Per quanto mi riguarda i suoi cento anni servono a dire e dirci da che parte stiamo. Non ci sono messaggi o proclami da fare. Tuttavia ricordare che la memoria resistenziale italiana era qualcosa di sovranazionale stride in un Paese come il nostro in cui la cittadinanza è ancora legata al principio dello ius sanguinis”.

    Un’altra scelta politica che secondo alcuni stona non poco è quella adottata dall’attuale amministrazione comunale di Roma. Nell’estate del 2020 una petizione promossa dal giornalista Massimiliano Coccia e rilanciata da Roberto Saviano aveva ottenuto dall’allora sindaca Virginia Raggi l’impegno di intitolare la stazione della metropolitana Amba Aradam / Ipponio al partigiano italo-somalo Marincola.

    Ma come racconta Teodonio “l’attuale giunta Gualtieri con cui dovremmo avere un’affinità politica maggiore e che tra l’altro è composta da molti storici ha modificato questa intitolazione. Ad oggi il nome predisposto per quella fermata è Porta Metronia, senza richiamare né Giorgio né l’Amba Aradam, altopiano montuoso che dà il nome a una battaglia del 1936 che vide le truppe italiane utilizzare armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali contro migliaia di etiopi”.

    https://www.rollingstone.it/politica/attualita/perche-e-importante-ricordare-la-storia-di-giorgio-marincola-partigiano-italo-somalo/789405
    #histoire #résistance #Italie #afro-descendants #partisan #WWII #seconde_guerre_mondiale #mémoire

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    voir aussi ce texte que j’ai écrit pour le blog @neotoponymie :
    La guérilla odonymique gagne une bataille : une nouvelle station du métro romain sera dédiée à #Giorgio_Marincola, partisan italo-somalien, et non à un lieu d’oppression coloniale
    https://neotopo.hypotheses.org/3251
    https://seenthis.net/messages/871903

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    ajouté à la métaliste sur l’#Italie_coloniale
    https://seenthis.net/messages/871953
    #colonialisme_italien

  • Sardegna, in arrivo pastori del #Kirghizistan per ripopolare i paesi dell’isola

    È l’accordo raggiunto tra #Coldiretti e il governo kirghiso che prevede l’arrivo di pastori abili nei lavori agricoli, assieme alle loro famiglie, in base all’intesa siglata col ministero del Lavoro della repubblica ex sovietica. L’obiettivo è salvare gli allevamenti e la tradizione agroalimentare nelle aree a rischio di spopolamento sull’isola

    Un accordo tra il lontano Kirghizistan - la repubblica ex sovietica più a est - e la Sardegna per salvare gli allevamenti e la tradizione agroalimentare nelle aree a rischio di spopolamento sull’isola nostrana. È l’accordo raggiunto da Coldiretti che prevede l’arrivo di pastori kirghisi abili nei lavori agricoli, assieme alle loro famiglie, in base all’intesa siglata col ministero del Lavoro della repubblica ex sovietica distante circa 6 mila chilometri dall’isola.

    Un progetto pilota

    Sarà avviato un progetto pilota, professionale e sociale, che prevede l’arrivo di un primo gruppo di un centinaio di kirghisi in Sardegna ( tra i 18 e i 45 anni) con capacità professionali specifiche nel settore primario che seguiranno un percorso di formazione e integrazione nel tessuto economico e sociale della Sardegna, con opportunità anche per le mogli nell’attività dell’assistenza familiare. Coldiretti lo presenta come un progetto di medio-lungo periodo per l’inserimento di migliaia stranieri, a seconda della domanda, in tre distretti rurali: Sassari, Barbagie e Sarrabus, con l’aiuto di mediatori culturali. «In Kirghizistan - precisa la Coldiretti - è fortemente presente l’attività allevamento con profonde conoscenze dell’attività casearia, diffuse competenze soprattutto nella realizzazione di formaggio da latte di pecora ma anche nell’allevamento dei cavalli. Nel Paese sono allevate soprattutto pecore di razza karakul e argali che raggiungono per il maschio adulto sino a 80 chili di peso». Il progetto pilota è stato concordato in collaborazione con l’ambasciatore del Kirghizistan in Italia, Taalay Bazarbaev.
    Contratti di apprendistato e poi tempo indeterminato

    L’accordo - precisa Coldiretti - prevede contratti di apprendistato e poi a tempo indeterminato, con la possibilità di occupare le tante case sfitte nei piccoli centri dell’Isola. Una prima selezione sarà affidata inizialmente dal ministero del lavoro kirghizo che preparerà i bandi per l’individuazione di personale per la Sardegna, dopo la firma di un protocollo tra Coldiretti e il governo kirghiso, col sostegno del ministero degli Affari esteri e di quello dell’Agricoltura, della sovranià alimentare e foreste.
    In Italia i lavoratori stranieri occupati in agricoltura - secondo Coldiretti - sono per la maggior parte provenienti da Romania, Marocco, India e Albania. Si tratta soprattutto di dipendenti a tempo determinato che arrivano dall’estero e che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale per poi tornare nel proprio Paese.

    https://tg24.sky.it/cronaca/2023/09/18/sardegna-pastori-kirghizistan

    #dépeuplement #Sardaigne #repeuplement #migrations #travail #travailleurs_étrangers #accord #pasteurs #élevage #Italie

  • 🛑 Frantz Fanon, trajectoire d’un révolté | LCP

    À lui seul, Frantz Fanon incarne toutes les problématiques de l’Histoire coloniale française. Résistant martiniquais, il s’engage, comme des millions de soldats coloniaux, dans l’Armée Libre par fidélité à la France et à l’idée de liberté qu’elle incarne pour lui. Écrivain, il participe au bouillonnement de la vie de Saint-Germain avec Césaire, Senghor ou encore Sartre, débattant sans relâche sur le destin des peuples colonisées. Médecin, il révolutionne la pratique de la psychiatrie allant chercher dans les rapports de domination des sociétés coloniales les fondements des pathologies de ses patients de Blida. Militant, il rassemble par son action et son histoire, les colères des peuples écrasés par des siècles d’oppression coloniale (...)

    #FrantzFanon #colonialisme #racisme #psychiatrie...

    ▶️ https://lcp.fr/programmes/frantz-fanon-trajectoire-d-un-revolte-174709

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2018/03/peau-noire-masques-blancs-en-guise-de-conclusion.html

  • Unser Abschiedsbrief - Wir stellen die elinor Plattform ein
    https://elinor.network/de/posts/abschiedsbrief

    Ces jeunes gens sympatiques ont travaillé pendant six an pour l’idée de la création d’une plateforme collective et démocratique de financement d’initiatives citoyennes naissantes. Son grand succès est à l’origine de la mort du projet.

    On nous fait comprendre que toutes les administrations de l’état se réuniront et nous menaceront comme le ferait n’importe quelle mafia si nous risquons d’avoir du succès avec nos tentatives de démocratisation.

    Pourtant les gens à l’origine du projet ont respecté toutes les lois. Ils ont obtenu l’aval de la BAFIN et ils travaillaient en étroite collaboration avec la banque GLS qui les protégeait contre les risques d’abus par les professionnels du blanchiment d’argent.

    Le constat est atterrant : il n’y aura jamais de gestion démocratique du financement de nos activités tant que l’état allemand existera dans sa forme présente. Nous aurons toujours besoin pour agir de personnages bizarres comme Parvus ou de mécènes et philantropes .

    Un collectif ? Il semble qu’il n’y ait rien que l"état bougeois craigne plus que nos forces réunies hors de sa tutelle.

    1. September 2023 von elinor Team - Diese Entscheidung ist uns alles andere als leichtgefallen. Wir sind für eine zivilgesellschaftliche Infrastruktur zur gemeinschaftlichen Geldverwaltung angetreten, weil wir wissen, dass ihr und viele andere Gruppen für eure Aktivitäten genau eine solche Lösung braucht. Aber in den letzten Monaten haben sich immer mehr öffentliche Stellen dagegen positioniert. Darum müssen wir mit schwerem Herzen die elinor Plattform einstellen.

    Wir haben gehofft, diesen Text niemals schreiben zu müssen. Dass diese Entscheidung eure Projekte, eure Aktivitäten und euer Engagement ausbremst, tut uns besonders leid. Das Angebot von elinor war aber so ungewöhnlich, dass unsere Arbeit in den letzten Monaten von Auseinandersetzungen mit einer ganzen Reihe von öffentlichen Stellen geprägt war. Das hat unsere Handlungsfähigkeit erstickt. Als Start-up konnten wir das nicht länger durchhalten. Darüber sind wir außerordentlich traurig. Trotzdem wollen wir an dieser Stelle auch auf eine sehr spannende und erfahrungsreiche Zeit zurückschauen, für die wir von Herzen dankbar sind.

    Alles fing 2018 an, mit Lukas Kunert, Ruben Rögels, Falk Zientz und der Finanz-Mathematikerin Daria Urman. Sie gründeten elinor zur peer-to-peer Absicherung als solidarische Alternative zu Versicherungen. Doch die Nachfrage entwickelte sich anders, als erwartet: Die Fridays for Future Aktivist*innen haben 2019 die Plattform positiv zweckentfremdet, um gemeinschaftlich ihre Gelder zu verwalten. Schlagartig wurde uns klar, dass genau solche Gruppenkonten einen echten Bedarf decken könnten. Tatsächlich kamen schnell weitere Gruppen hinzu, die über elinor gemeinsame Projekte und Ideen realisierten. Darum bündelten wir unsere Ressourcen für ein Relaunch, so dass die elinor Plattform ab 2021 auf Gruppenkonten spezialisiert war. Über die Umsetzung im deutschen Rechtsrahmen waren wir von Anfang an mit der Bankenaufsicht (BaFin) im Austausch. Nach eingehender Prüfung stimmte uns diese in allen Punkten zu. Damit hatten wir das erste digitale Gruppenkonto für Projekte und Initiativen in Deutschland geschaffen! Mit viel Leidenschaft entwickelten wir elinor weiter. Unsere Community ist gewachsen, genauso wie unser Team, und wir durften immer wieder eure Dankbarkeit spüren, weil wir es geschafft haben, für Initiativen wie euch eine große Hürde abzubauen.
    Es war sehr bereichernd und motivierend zu sehen, wie viele Menschen sich zu Gemeinschaften zusammenschließen, um Projekte umzusetzen, aktiv an unserer Gesellschaft mitzuwirken und einen Wandel anzustoßen. Dabei langen uns auch besonders die kleinen zarten und sich noch im werden befindenden Initiativen besonders am Herzen, denn gerade sie brauchen ein förderndes und ermöglichendes Umfeld.

    Zwischendurch haben wir eigene Initiativen gestartet, teilweise mit großer öffentlicher Aufmerksamkeit: Am ersten Tag des Lockdowns im März 2020 riefen wir die #KunstNothilfe ins Leben, um betroffene Kunst- und Kulturschaffende zu unterstützen. Mehr als 500 Menschen machten ad hoc mit, lange bevor die öffentliche Hand darüber nachdachte. 2022 starteten wir am ersten Tag des russischen Angriffs auf die Ukraine ohne zu zögern das Projekt #Unterkunft Ukraine, eine digitale Bettenbörse für ukrainische Geflüchtete. Daraus wurde die bislang größte zivilgesellschaftliche Initiative dieser Art. Beide Initiativen lösten eine riesige öffentliche Resonanz aus und brachten damit auch weitere Aufmerksamkeit für die Gruppenkonten. Solche Projekte stellten unser kleines Team vor großen Herausforderungen, doch sie zeigten gleichzeitig, wie wertvoll eine solche agile Plattform gerade in Krisensituationen sein kann. Durch Kooperationen mit Ministerien und Berichten auf den besten Sendeplätzen sahen wir das bestätigt.

    Ihr könnt euch bestimmt vorstellen, wie sehr es uns nun trifft, dass wir unsere Ermöglichungsplattform nicht mehr zur Verfügung stellen können. Für uns ist es nicht nur eine Firma, die wir aufgeben müssen, sondern auch unsere Ideen, unsere Wünsche für Gemeinschaften und Gruppen, ein wunderbares Team und eine große Portion Idealismus dahinter.
    Wir sind besonders traurig darüber, dass unsere Idee an vielen Stellen befürwortet wird, wir jedoch wegen eng ausgelegten Regularien und politischem Druck keine Möglichkeit mehr haben, unseren Betrieb aufrecht erhalten zu können.

    Darum ist es für uns Zeit, tschüss zu sagen. Unser großes Herzensthema bleibt weiterhin, Gemeinschaft zu leben und dafür passende Formen zu entwickeln. Scheitern gehört immer wieder dazu und kann Entwicklung und Solidarität auslösen. In diesem Sinne danken wir allen, die uns an unterschiedlichen Ecken und Enden unterstützt und mit uns mitgefiebert haben. Mit euch haben wir erlebt, was gemeinschaftlich möglich ist. Lasst uns das weitertragen.

    Euer elinor Team

    Chiara, Bonina, Ruben, Calvin, Guida, Richard, Anne, Falk und Lukas

    Wir brauchen eure Solidarität!

    elinor muss seine Arbeit einstellen. Das geht nicht ohne Aufwand, vor allem für Rechtskosten, Jahresabschlüsse und die letzten Gehälter. Hier könnt ihr euch daran solidarisch beteiligen:

    Kontoinhaber: elinor Treuhand e.V.
    IBAN: DE37430609677918887704
    BIC: GENODEM1GLS

    Vielen Dank!

    #Allemagne #finances #répression #autonomie

  • Nouvelle-Calédonie : le principal parti indépendantiste suspend les discussions avec l’Etat

    L’Union calédonienne, composante majoritaire du front indépendantiste FLNKS, suspend ses rencontres prévues avec l’Etat pour préparer l’avenir institutionnel de l’archipel du Pacifique Sud, a-t-elle annoncé jeudi dans un communiqué publié à l’issue d’une commission exécutive élargie.

    Jugeant « irrecevable » le projet d’accord de « cinq pages » proposé à Paris la semaine dernière sous l’égide du ministère de l’Intérieur, l’Union Calédonienne estime qu’il ramènerait « 30 ans en arrière » la population kanake. Elle annonce suspendre « toutes [ses] rencontres avec les représentants de l’Etat, y compris les réunions techniques », jusqu’à la tenue du congrès annuel du mouvement, qui se réunira du 9 au 12 novembre.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/09/19/nouvelle-caledonie-le-principal-parti-independ

    #international #kanaky #colonisation

  • Des Thaïlandais dénoncent des abus sexuels commis par des missionnaires français
    https://www.radiofrance.fr/franceinter/des-thailandais-denoncent-d-abus-sexuels-commis-par-des-missionnaires-fr

    #MEP #Missions_Etrangeres_de_Paris #viols #capitalisme #colonialisme #eglise #france_2023 #pédophiles

    avec derrière un sacré patrimoine …


    7e arrondissement de Paris, au 128 rue du Bac

    Aujourd’hui, cet argent sert, selon les MEP, à financer la formation de prêtres, à la construction d’églises, de centres de santé ou d’éducation à l’étranger. Mais au sein de la congrégation, certains s’interrogent sur une financiarisation trop poussée, qui, selon eux, n’est pas au cœur de leur mission. D’autant plus que le nombre de missionnaires en poste à l’étranger a été divisé par plus de 10 depuis la fin du 19e siècle. Cet argent servira-t-il un jour à indemniser d’éventuelles victimes comme le fait aujourd’hui l’Église de France ? Personne ne peut le dire pour l’instant.

    Le film documentaire Un si lourd silence de Karina Chabour et Julie Dungelhoeff sera diffusé le samedi 16 septembre 2023 sur France 24.

  • Mayotte : le combat de la LDH contre les arrêtés Elan peut se poursuivre

    Le 19 juillet 2023, le Conseil d’Etat confirme l’intérêt à agir de la LDH contre les arrêtés Elan visant à l’évacuation et à la destruction des habitats informels à Mayotte.

    Dans la poursuite de sa politique de destruction des habitats informels, le préfet de Mayotte a pris, le 19 septembre 2022, un arrêté n°2022-SG-1158 portant évacuation et destruction des constructions bâties illicitement au lieu-dit Doujani, commune de Mamoudzou, sur le fondement de l’article 197 de la loi Elan.

    Par des requêtes en annulation, assorties de référé-suspension, introduites les 18, 19 et 22 octobre 2022, la LDH a entendu une nouvelle fois contester cet arrêté aux côtés des occupants sans titre des parcelles visées par l’arrêté.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/09/13/mayotte-le-combat-de-la-ldh-contre-les-arretes

    #international #mayotte #colonisation

  • 🛑 « C’est pour cacher la misère » : plutôt que l’abaya, des profs mobilisés dénoncent le manque de moyens - Basta !

    Postes vacants ou supprimés, classes surchargées… Dans l’ombre de l’interdiction de l’abaya décidée par le gouvernement, des enseignants sont mobilisés pour pouvoir accueillir dignement les élèves plutôt que de les exclure (..)

    #abaya #discrimination #ostracisme #éducationnationale #enseignant #mobilisation #colère...

    ▶️ Lire la suite...

    ▶️ https://basta.media/c-est-pour-cacher-la-misere-plutot-que-l-abaya-des-profs-mobilises-denoncen

  • Polynésie française – Toxique : enquête sur les essais nucléaires

    C’est à plus de 15 000 km de son territoire que l’État français décide, dans les années 1960, de tester sa machine de guerre nucléaire : en Polynésie française, « collectivité d’outre-mer » en droit, mais « colonie » dans les faits, comme le prouve l’histoire de ces essais nucléaires et leurs conséquences dramatiques.

    En 2021 est parue la première enquête journalistique approfondie sur les essais nucléaires français en Polynésie : le livre Toxique. Fruit de la rencontre entre l’ONG Interprt spécialisée sur les écocides, Sébastien Philippe, un ingénieur et enseignant chercheur spécialisé en nucléaire militaire, et Tomas Statius, un journaliste du média d’investigation Disclose, cette enquête balaie tous les tenants et aboutissants de ces essais nucléaires, dans un ouvrage synthétique et très accessible.

    sur : Toxique : Enquête sur les essais nucléaires français en Polynésie, Sébastien Philippe et Tomas Statius

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/09/12/polynesie-francaise-toxique-enquete-sur-les-es

    #colonisation #nucléaire

  • Au Maroc, « la #montagne a été trop longtemps marginalisée »

    La géographe marocaine #Fatima_Gebrati, spécialiste du Haut Atlas de Marrakech, souligne l’insuffisance de l’#aménagement_du_territoire dans les zones les plus violemment frappées par le #séisme. Une #marginalisation qui commence dès la période coloniale.

    Autour d’elle, le décor est apocalyptique. Lundi 11 septembre, la géographe marocaine Fatima Gebrati roule en direction de Talat N’Yacoub, une commune de la province d’#El-Haouz, pulvérisée par le séisme – même les bâtiments construits aux normes antisismiques. Elle y achemine de l’aide humanitaire aux victimes livrées à elles-mêmes.

    Elle est aussi l’autrice d’une thèse sur la mobilisation territoriale des acteurs du développement local dans le Haut Atlas de Marrakech, soutenue en 2004. Un travail qu’elle a poursuivi depuis, à l’université Cadi Ayyad. Dans un entretien à Mediapart, elle déplore les efforts insuffisants de l’État marocain pour aménager les territoires de montagne, particulièrement meurtris par le séisme.

    Mediapart : Quelles leçons tirez-vous du séisme survenu vendredi 8 septembre ?

    Fatima Gebrati : Il faut revoir l’aménagement du territoire au #Maroc principalement dans les #zones_de_montagne. L’État a fourni des efforts qui restent insuffisants. Ce séisme nous l’apprend encore de manière dramatique. J’espère qu’il va y avoir une prise de conscience et une vraie volonté au sein du gouvernement pour repenser les politiques publiques et l’aménagement du territoire.

    La montagne a été trop longtemps marginalisée en matière d’aménagements du territoire. Les raisons sont multiples et la première a à voir avec la #colonisation du Maroc par la #France. Bien avant l’indépendance, dès la colonisation, l’État a concentré ses efforts de développements dans les plaines. Comme la Tunisie ou l’Algérie, le Maroc a constitué un laboratoire d’#expérimentations. Des #barrages ont été créés pour alimenter la France, « le territoire mère », en matière agricole, industrielle, pas pour les beaux yeux des Marocains.

    Seul le « #Maroc_utile » et non « l’inutile » comptait pour la France, comme l’affirmait le maréchal #Lyautey [le grand artisan de la #colonisation_française – ndlr]. Ce Maroc « inutile », c’était la montagne, la #marge qui a une connotation politique. C’est dans les montagnes que la lutte contre la colonisation a été la plus farouche.

    Après l’indépendance, l’État a fait des efforts dans plusieurs domaines mais les sédiments hérités de la colonisation demeurent très lourds, jusqu’à aujourd’hui. Malgré les nombreux programmes dédiés, on n’a pas réussi à combler le vide et les failles qui existent sur ces territoires.

    Le plus grand déficit demeure l’aménagement du territoire. L’état des routes est catastrophique, il n’y a pas assez de routes, pas assez de connexions. Il faut renforcer le tissu routier, construire d’autres routes, désenclaver. Au niveau du bâti, les politiques ne sont pas à la hauteur. Des villages entiers se sont effondrés comme des châteaux de cartes.

    On ne s’est jamais posé la question au Maroc de savoir comment construire les maisons en montagne. Faut-il le faire en béton et autres matériaux modernes ou inventer un modèle qui préserve la spécificité des zones montagneuses et les protège des catastrophes naturelles ? C’est d’autant plus invraisemblable que les montagnes du Haut #Atlas de Marrakech sont un berceau de la civilisation marocaine à l’époque des Almoravides et des Almohades.

    Comment expliquez-vous que ce soit la société civile qui pallie depuis des années au Maroc, tout particulièrement dans les zones les plus marginalisées, les défaillances de l’État jusqu’à l’électrification ou l’aménagement des routes ?

    À la fin des années 1990, alors qu’émergeait la notion de développement durable, on a assisté à une certaine effervescence de la société civile, d’associations locales, et à une forte mobilisation d’ONG nationales et internationales. Elles ont commencé à intervenir dans le #Haut_Atlas. Dans certaines vallées, des développements touristiques ont vu le jour comme dans la vallée de Rheraya dans la province d’El-Haouz. Des microprojets locaux ont permis de ramener l’électricité avec un groupe électrogène, puis d’électrifier un douar [village – ndlr], comme Tachdirt, bien avant l’électrification menée par l’État.

    De nombreuses études ont été réalisées pour comprendre la réalité de la montagne et orienter l’État. Malheureusement, les universitaires marocains n’ont pas l’oreille du gouvernement. Nos travaux de recherche sont restés dans les tiroirs de nos universités. Deux programmes essentiels ont été investis par l’État à partir des années 1990 – l’électrification du monde rural et l’accès à l’eau potable, deux nécessités vitales –, puis dans un autre temps, la scolarisation. Des efforts colossaux ont été réalisés mais ils restent insuffisants.

    Ces régions rurales et montagneuses sont-elles marginalisées parce qu’elles sont #berbères ou plutôt #amazighes – « berbère » étant un terme colonial ?

    C’est très difficile de vous répondre. Je considère que la marginalisation de ces territoires est plus économique que politique. Après l’indépendance, le Maroc s’est retrouvé considérablement affaibli. L’État colonial a tout pompé, volé, les caisses étaient vides.

    Le Maroc s’est retrouvé sans ressources financières ou humaines puisque de nombreux hommes ont donné leur sang pour libérer le pays. Il fallait orienter l’#économie du Maroc. Le choix s’est porté sur l’#industrie et l’#agriculture. Ce fut un échec. Puis le Maroc a ciblé l’essor économique par le #tourisme. À la fin des années 60, les premières infrastructures ont été construites, des hôtels, des aéroports, des personnels ont été formés.

    Mais ces piliers restent fragiles, l’agriculture, par exemple, est soumise aux précipitations. Si une saison est sèche, le Maroc souffre. Quant au tourisme, on a vu la fragilité du secteur avec le tourisme quand, notamment, Marrakech est devenue une ville fantôme pendant la pandémie de Covid-19. Il faut créer d’autres pôles économiques aux alentours des pôles régionaux, créer de l’infrastructure de base, renforcer le tissu économique pour limiter le taux de chômage, insérer les jeunes. Le tourisme en fait partie mais il ne doit pas être tout.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/110923/au-maroc-la-montagne-ete-trop-longtemps-marginalisee

    • Séisme. Maroc : le silence gênant de Mohammed VI
      https://www.courrierinternational.com/article/seisme-maroc-le-silence-genant-de-mohammed-vi

      Depuis Paris, où il séjournait, Mohammed VI a tardé à s’exprimer après le terrible tremblement de terre qui a frappé son pays, s’étonne la presse internationale.

      Depuis la France, où il séjournait, le monarque marocain s’est exprimé le 9 septembre au soir, à travers une déclaration officielle dans laquelle il décrétait trois jours de deuil et ordonnait le déploiement d’un programme d’urgence pour venir en aide aux victimes.

      Mais jusqu’à la publication, détaille l’hebdomadaire espagnol, le royal silence a contraint toutes les autres autorités marocaines à adopter la même attitude. Ni le chef du gouvernement, Aziz Akhannouch, pourtant originaire de la région touchée, ni le ministre de l’Intérieur, Abdelouafi Laftit, ne se sont exprimés ni ne se sont rendus dans les endroits les plus durement touchés par le tremblement de terre. À l’échelon local, même absence de réaction et attentisme des autorités.
      Le seul membre de la famille royale à avoir dérogé à cette réserve du roi a été le prince Moulay Hicham, son cousin germain. Le “Prince rouge”, son surnom en raison de ses positions réformatrices sur la monarchie, a exprimé sa solidarité avec le peuple marocain depuis sa résidence de Boston.

  • La siccità e le politiche israeliane assetano i contadini palestinesi

    La crisi idrica ha stravolto l’economia del villaggio di #Furush_Beit_Dajan, in Cisgiordania: la tradizionale coltivazione di limoni ha lasciato spazio a serre di pomodori. E lo sfruttamento intensivo rischia di impoverire ulteriormente la terra

    Il telefono squilla incessantemente nello studio di Azem Hajj Mohammed. Il sindaco di Furush Beit Dajan, un villaggio agricolo nel Nord della Cisgiordania, ha lavorato tutta la notte per cercare di identificare due uomini del vicino villaggio di Jiftlik che, sfruttando l’oscurità, si sarebbero allacciati illegalmente alla rete di distribuzione idrica. Secondo la regolamentazione di epoca ottomana, gli abitanti di Furush Beit Dajan hanno diritto al 10% dell’acqua estratta dal pozzo artesiano situato a Nord del villaggio, mentre il 90% spetta a Jiftlik. Ma quando la pressione dell’acqua è bassa, alcuni residenti che ritengono di non riceverne abbastanza si allacciano illegalmente ai tubi, generando tensioni in questa comunità dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito per nove abitanti su dieci.

    “Devo individuare rapidamente i responsabili e trovare una mediazione prima che il furto sfoci in un conflitto tra famiglie e che intervenga l’esercito israeliano -spiega il sindaco in un momento di pausa tra due chiamate-. Nessuno vuole autodenunciarsi. Dovrò visionare i filmati delle telecamere di sorveglianza, trovarli e andare a parlarci”, dice a un suo collaboratore. Il viso è segnato dalle occhiaie, dalla fatica e dallo stress accumulati per amministrare un villaggio la cui esistenza affoga in un paradosso: nonostante sorga su una ricca falda, l’acqua è centellinata goccia per goccia. Le restrittive politiche israeliane in materia, aggravate dalla siccità nella Valle del Giordano, hanno causato una profonda crisi idrica che ha stravolto l’economia del luogo, portando i contadini a optare per l’agricoltura intensiva.

    Se Azem Hajj Mohammed è così preoccupato è perché l’accesso all’acqua garantisce la pace sociale a Furush Beit Dajan. Il villaggio si era costruito una reputazione e una posizione sul mercato agricolo palestinese grazie alle floride distese di alberi di limone, piante molto esigenti in termini di fabbisogni idrici. “Il profumo avvolgeva il villaggio come una nuvola. L’acqua sgorgava liberamente, alimentava i campi e un mulino. I torrenti erano così tumultuosi che i bambini rischiavano di annegare”, ricorda l’agricoltore ‘Abd al-Hamid Abu Firas. Aveva diciannove anni quando nel 1967 gli israeliani consolidarono il loro controllo sul territorio e le risorse idriche in Cisgiordania dopo la Guerra dei sei giorni. Da allora, l’acqua ha iniziato a ridursi.

    Nel 1993 gli Accordi di Oslo hanno di fatto conferito a Israele la gestione di questa risorsa, che oggi controlla l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania. Le Nazioni Unite stimano che gli israeliani, compresi i coloni, abbiano accesso in media a 247 litri d’acqua al giorno, mentre i palestinesi che vivono all’interno dell’Area C, sotto controllo militare, si devono accontentare di venti litri. Solo un quinto del minimo raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

    Il progressivo esaurimento delle falde e le crescenti esigenze idriche delle vicine colonie israeliane di Hamra e Mekhora hanno spinto gli agricoltori a una scelta radicale: abbandonare le varietà di limoni autoctone per sostituirle gradualmente con le coltivazioni verticali e pomodori in serra, che presentano un rapporto tra produttività e fabbisogno idrico più alto. Secondo l’istituto olandese di Delft, specializzato su questi temi, per produrre una tonnellata di pomodori sono necessari mediamente 214 metri cubi d’acqua. La stessa quantità di limoni ne richiederebbe tre volte di più. L’acqua, tuttavia, ci sarebbe. La vicina colonia di Hamra -illegale secondo il diritto internazionale e costruita nel 1971 su terreni confiscati ai palestinesi- possiede una coltivazione di palme da dattero di 40 ettari: per produrre una tonnellata di questi frutti servono 2.300 metri cubi d’acqua, quasi dieci volte la quantità necessaria per la stessa quantità di pomodori.

    Le distese di campi di limoni hanno lasciato il posto a quelle che Rasmi Abu Jeish chiama le “case di plastica”. Il paesaggio è radicalmente mutato: il bianco delle serre ha sostituito il verde delle piante. Dei suoi 450 alberi di limone, il contadino ne ha lasciati in piedi soltanto 30 per onorare la tradizione familiare. Il resto dei suoi 40 dunum di terre (unità di misura di origine ottomana corrispondente a circa mille metri quadrati) sono occupate da serre.

    La diminuzione dell’acqua per l’irrigazione ha generato un cambiamento nei metodi di produzione, portando gli agricoltori ad aumentare le quantità di pomodori prodotte per assicurarsi entrate sufficienti. “Le monocolture rendono i contadini più vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi, più inclini a usare pesticidi e fertilizzanti per assicurarsi entrate stabili. Sul lungo termine questo circolo vizioso rende il terreno infertile e inutilizzabile per l’agricoltura”, avverte Muqbel Abu-Jaish, del Palestinian agricultural relief committees, che accompagna gli agricoltori del villaggio nella gestione delle risorse idriche.

    Senza l’ombra degli alberi di agrumi, anche le temperature registrate all’interno del villaggio sono aumentate, rendendo la vita ancora più difficile d’estate, quando nella Valle del Giordano si superano i 40 gradi. La mancanza di accesso all’acqua e la politica espansionistica dei coloni israeliani, aggravate dalla crisi climatica, hanno portato così l’agricoltura a contribuire soltanto al 2,6% del Prodotto interno lordo della Cisgiordania.

    Il cambiamento di produzione è stato affrontato con più elasticità dalla nuova generazione di agricoltori, non senza difficoltà. “Nonostante questa situazione abbiamo deciso di continuare. Il lavoro è diminuito molto ma qui non abbiamo altre possibilità. È come se senza l’acqua fosse sparita anche la vita. Dobbiamo adattarci”, racconta Saeed Abu Jaish, 25 anni, la cui famiglia ha ridotto i terreni coltivati da 15 a due dunum convertendoli interamente alla coltivazione di pomodori in serra. Oggi il villaggio fornisce circa l’80% dei bisogni del mercato palestinese di questo prodotto.

    Le difficoltà sono accentuate dall’impossibilità di costruire infrastrutture, anche leggere, per la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana. Tutto il villaggio si trova in Area C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano, dove ogni attività agricola e di costruzione è formalmente vietata. Quando, nel 2021, il sindaco di Furush Beit Dajan ha fatto installare un serbatoio d’acqua per uso agricolo l’esercito israeliano si è mobilitato per smantellarlo nel volgere di poche ore. Come era accaduto ad altri 270 impianti idrici negli ultimi cinque anni.

    Il sindaco non può nemmeno avviare lavori di ammodernamento della rete idrica, risalente al mandato britannico terminato nel 1948. Dei nove pozzi da cui dipendeva il villaggio, la metà si sono prosciugati, mentre il flusso d’acqua di quelli restanti è diminuito inesorabilmente, passando da duemila metri cubi all’ora prima del 1967, a soli 30 metri cubi oggi, secondo il sindaco Azem Hajj Mohammed.

    Le restrizioni sull’erogazione dell’acqua in Cisgiordania hanno anche un’altra conseguenza, cruciale sul lungo periodo, in questo territorio conteso. Una legge risalente all’epoca ottomana e incorporata dal sistema legislativo israeliano permette infatti allo Stato ebraico di dichiarare “terra di Stato” tutti i campi palestinesi lasciati incolti per almeno tre anni. La carenza d’acqua, i costi, e la disperazione spingono così i contadini palestinesi ad abbandonare il loro terreni che, senza la possibilità di essere irrigati, non producono reddito e pesano sulle finanze familiari. “Non vedo possibilità di miglioramento nell’attuale status quo, con gli Accordi di Oslo che conferiscono il controllo dell’acqua ad Israele. Il numero di coloni aumenta costantemente mentre l’acqua diminuisce. Senza un cambiamento, la situazione non può che peggiorare”, analizza Issam Khatib, professore di Studi idrici e ambientali dell’Università di Birzeit.

    Adir Abu Anish ha 63 anni e coltiva ormai soltanto un sesto dei 50 dunum che possiede. Oltre alle serre di pomodoro, si è concesso di piantare delle viti che afferma essere destinate a seccarsi in un paio d’anni. Il torrente da cui si approvvigionava è contaminato dalle acque reflue provenienti dalla vicina città di Nablus, un caso di inquinamento che il sindaco ha portato in tribunale. All’ombra del suo vigneto, Abu Anish sospira: “Di solito i genitori lasciano in eredità ai loro figli possedimenti e ricchezze. Noi lasciamo campi secchi”.

    https://altreconomia.it/la-siccita-e-le-politiche-israeliane-assetano-i-contadini-palestinesi

    #sécheresse #crise_hydrique #Palestine #Israël #Cisjordanie #agriculture #serres #citrons #tomates #agriculture_intensive #eau #Jiftlik #accès_à_l'eau #réserves_hydriques #Hamra #Mekhora #irrigation #températures #colonies_israéliennes #paysage #puits #terres_d'Etat #Accords_d'Oslo #Nablus

  • Mayotte : Wuambushu – malgré un court répit, la violence demeure

    Depuis son lancement, l’opération « Wuambushu » a fait face à plusieurs déconvenues qui ont ralenti sa marche, sans pour autant changer la politique mortifère de l’État français ni la complicité du pouvoir comorien.

    Officiellement lancée le 24 avril, l’opération « Wuambushu » aura connu en guise de prologue un véritable déchaînement de violence coloniale : dès le dimanche 23 avril, face à une centaine d’assaillants armés de machettes, les policiers dépêchés sur place (notamment ceux de la tristement célèbre CRS 8) ont utilisé pas moins de 650 grenades lacrymogènes, 85 grenades de désencerclement, 60 tirs de LBD et même des tirs à balles réelles vers le sol et dans les airs.

    Cette brutalité manifeste est à l’image de l’opération dans son ensemble, infâme démonstration de force qui prétend régler les problèmes de pauvreté et de violence qui touchent Mayotte à coup de pelleteuses, d’opérations policières et d’expulsions massives. Mais le scandale humain qu’est « Wuambushu » a subi dès ses premières semaines plusieurs revers qui l’ont fait tourner à l’imbroglio diplomatique et judiciaire.


    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/09/07/mayotte-wuambushu-malgre-un-court-repit-la-vio

    #mayotte #comores #colonisation

  • #bifurquer avec le #Collège_européen de #Cluny
    https://framablog.org/2023/09/07/bifurquer-avec-le-college-europeen-de-cluny

    Changer de voie professionnelle pour être plus en phase avec ses valeurs, ça se prépare : le #master of Advanced Studies « Innovation territoriale », organisé conjointement par le Collège européen de Cluny et la prestigieuse Université de #Bologne, recrute sa promo 2023-2024 … Lire la suite­­

    #Dans_notre_archipel #Éducation #Enjeux_du_numérique #Interviews #abbaye #diplôme #formation #modules #post-master #stages #univesité #UPLOAD

  • Patrick Chamoiseau : « Si nous restons à patauger dans l’imaginaire colonial, la guerre des langues restera en vigueur »

    « L’idée d’une « langue officielle » s’inscrit dans
    l’imaginaire monolingue des proto-colonialistes.
    Ces barbares avaient hiérarchisé les langues entre
    elles pour mieux positionner la leur. Ils avaient
    bâti leurs États-nations antagonistes sur l’apartheid
    entre une « langue officielle » et celles qui ne le
    seraient pas. Depuis, toute « langue officielle »
    se dresse sur un cimetière de langues minorées
    ou sur leurs muséographies folkloriques. »

    Face au risque de voir annulée la décision faisant du créole la langue officielle de la Martinique au côté du français, l’écrivain antillais offre, dans une tribune au « Monde », une réflexion sur la notion de « langue officielle » et souligne la nécessité d’accepter que les imaginaires soient multilingues.

    La résolution du 25 mai de l’Assemblée de Martinique est réjouissante : elle déclare le kreyol [« créole »] langue officielle de la Martinique au côté du français. Cette décision vient s’ajouter à l’adoption d’un hymne, d’un drapeau, aux adhésions à des instances caribéennes, et à d’autres dispositifs certainement à l’étude. Elle vise à conforter notre niveau de conscience collective comme peuple et comme nation. Les élus martiniquais ont enfin quitté les étroitesses économiques, pour s’avancer dans le domaine du politique. Il s’agit pour eux de densifier une présence collective innovante, riche de ses sources, de ses racines, de ses alliances géographiques et historiques multiples.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/09/06/patrick-chamoiseau-si-nous-restons-a-patauger-

    #langue #colonisation

  • Les demandes d’asile dans l’Union européenne, la Norvège et la Suisse en hausse de 28 % au premier semestre
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/09/05/les-demandes-d-asile-dans-l-union-europeenne-la-norvege-et-la-suisse-en-haus

    Les demandes d’asile dans l’Union européenne, la Norvège et la Suisse en hausse de 28 % au premier semestre
    Les requêtes sont au plus haut depuis 2015-2016, années au cours desquelles l’afflux de réfugiés en Europe dépassait 1,2 million de personnes.
    Le Monde avec AFP
    Les demandes d’asile enregistrées dans les pays de l’Union européenne, la Norvège et la Suisse au premier semestre 2023 ont augmenté de 28 % par rapport aux six premiers mois de 2022, a annoncé l’Agence de l’Union européenne pour l’asile (AUEA), mardi 5 septembre. Quelque 519 000 demandes d’asile ont été déposées dans ces vingt-neuf pays entre janvier et la fin de juin, selon l’agence, qui estime que, « d’après les tendances actuelles, les demandes pourraient excéder 1 million d’ici à la fin de l’année ». Les Syriens, Afghans, Vénézuéliens, Turcs et Colombiens sont les principaux demandeurs, comptant pour 44 % des requêtes.
    Les demandes au premier semestre sont au plus haut à cette période de l’année depuis 2015-2016. Lors de l’afflux de réfugiés en Europe provoqué notamment par l’enlisement du conflit en Syrie, le nombre de demandes d’asile avait atteint 1,3 million (en 2015) et 1,2 million (en 2016). En 2022, elles étaient de 994 945.
    L’Allemagne est le pays qui a reçu le plus de dossiers (30 %). C’est près de deux fois plus que l’Espagne (17 %) et la France (16 %). L’AUEA souligne qu’en raison de cette hausse de nombreux pays européens « sont sous pression pour traiter les demandes », et que le nombre de dossiers en attente de décision a augmenté de 34 % par rapport à 2022. En première instance, 41 % des demandes ont reçu une réponse positive. Par ailleurs, quelque 4 millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion de l’armée russe bénéficient actuellement d’une protection temporaire dans l’UE.

    #Covid-19#migrant#migration#UE#asile#demandeurdasile#AUEA#syrie#afghanistan#venezuela#turquie#colombie#allemagne#espagne#france#ukraine#protection#sante#crisemigratoire#norvege#suisse

  • Explained: Why Israel’s Far-right Government Is Trying to Oust the Head of Yad Vashem - Israel News - Haaretz.com
    https://www.haaretz.com/israel-news/2023-09-04/ty-article/.premium/explained-why-israels-far-right-government-is-trying-to-oust-the-head-of-yad-vashem/0000018a-6044-d895-ab8b-6e6619400000


    Yad Vashem Chairman Dani Dayan at the Holocaust memorial center last year.
    Credit: Emil Salman

    There are three reported reasons why the Netanyahu government is looking to fire Dani Dayan as head of the Israel’s Holocaust memorial center – ranging from a diplomatic push with far-right European parties to plain old revenge

    The Biden administration, the European Union and the U.S. Holocaust Memorial Museum all issued statements in recent days in support of Dani Dayan, who heads Yad Vashem – Israel’s national institution for commemoration of the Holocaust. To many supporters of Israel in the United States and elsewhere, these statements came as a surprise: They were not aware of any crisis at the respected, Jerusalem-based institution.

    So what is happening at Yad Vashem, and how is it related to the policies of Israel’s far-right, ultranationalist government? Haaretz explains.

    Dayan has been leading Yad Vashem since August 2021, after being appointed by the previous Israeli government headed by Naftali Bennett and Yair Lapid. He succeeded the previous Yad Vashem chairman, Avner Shalev, who had retired after 18 years on the job. Dayan had served in the past as Israel’s consul general in New York – a role to which he was appointed in 2016 by Prime Minister Benjamin Netanyahu. Prior to that, he led the Yesha Council of settlements in the occupied West Bank.

    Dayan was for years a Netanyahu supporter, but changed his view of the prime minister after completing his diplomatic service in the United States. In the March 2021 Israeli election, he was part of the New Hope party led by Gideon Sa’ar, who had left Likud in protest over Netanyahu’s adoption of a populist, Trumpist style of politics.

    Ever since Netanyahu’s return to power in December 2022, his government has reportedly set its sights on replacing Dayan, even though there is no apparent justification for doing so. Dayan is highly appreciated among the professional ranks of Yad Vashem, enjoys consensus support in the Jewish Diaspora (where he won many allies during his years in New York) and has not been involved in any scandal during his time leading the institution. His two immediate predecessors both held the position for almost two decades.

    At first, Dayan’s removal was seen as a relatively low priority for the government, which was focused exclusively on passing its controversial legislation against the judicial system. In recent weeks, however, there has been a renewed push to oust him and replace him with a Likud loyalist (though the national and international backlash may have caused the government to now rethink).

    The main reason for this is seemingly a desire to punish a critic of the government. But there are other forces at play, which is perhaps why the Biden administration chose to get involved.

    The current Netanyahu government is leading a diplomatic effort to “whitewash” far-right European parties with problematic histories of antisemitism and Holocaust denial. A recent example has been the decision by Foreign Minister Eli Cohen to end Israel’s boycott of the far-right Alliance for the Union of Romanians (AUR) party. There is a similar push regarding far-right parties in Sweden, Finland and, down the line, also the Alternative for Germany (AfD) party.

    Dayan has faithfully represented the position of Yad Vashem historians against legitimizing far-right European parties unless they unequivocally rid themselves of Holocaust denial. This has made him a thorn in the side of the Netanyahu government’s diplomatic agenda.

    Yad Vashem has strongly opposed these efforts, warning that statements put out by these parties in which they express opposition to antisemitism, without fully accepting the historical facts of the Holocaust, should be treated with skepticism by Israel. In the Romanian case, Yad Vashem’s opposition to AUR was so persistent that Likud’s Cohen ordered the institution’s experts no longer be invited to meetings on the subject.

    Behind this policy of recognizing far-right parties is a transparent diplomatic “deal”: Israel provides these parties with public legitimacy and a mark of approval that they are no longer antisemitic or Holocaust-denying. In return, these parties support Israeli settlements in the West Bank.

    In the Romanian case, the Israeli ambassador came to his meeting with AUR leadership accompanied by Yossi Dagan, a settler leader who has spent years forging relations with Europe’s far right.

    Dayan, as noted, is also a settler and opposes the two-state solution. But as chairman of Yad Vashem, he has given full backing to the historians and experts working for the institution, and has faithfully represented their position against legitimizing far-right European parties unless they unequivocally rid themselves of all forms of Holocaust denial. This has made him a thorn in the side of the Netanyahu government’s diplomatic agenda.

    A chilling message
    Last week, Israel’s Channel 12 reported another, pettier reason behind the efforts to replace Dayan. According to the report, Netanyahu and his wife Sara were offended by the fact that Keren Peles – a popular Israeli singer who has taken part in protests against the judicial overhaul – was invited to sing at a public Yad Vashem event that they both attended. As a result, they began to pressure Education Minister Yoav Kisch to oust Dayan.

    None of the alleged reasons for seeking to replace Dayan are reassuring: the purely political motivation to install a loyalist at a nonpartisan, national consensus institution like Yad Vashem; the blatant attempt to remove a “troublemaker” who opposes ties with Holocaust deniers; or the alleged “insult” caused by Yad Vashem’s invitation of a popular singer who also happens to be a critic of the government.

    One thing is clear: replacing Dayan under these circumstances would send a chilling message that Yad Vashem is not an independent institution, loyal to no one but the victims and survivors of the Holocaust. It would taint the institution as political and loyal to the desires and needs of a temporary government. And it would weaken Yad Vashem and provide ammunition for Holocaust deniers worldwide.

  • Interdiction de l’#abaya :

    Des #équipes_Valeurs_de_la_République et des #équipes_mobiles_académiques_de_sécurité (#Emas) seront déployées dans les collèges. "Malheureusement, cela ne réglera pas les petites transgressions quotidiennes comme les longs gilets, les écharpes, les bandeaux" dit une proviseure". J’ai l’impression d’être catapultée en #Iran...

    Dès ce lundi, les équipes « Valeurs de la république » seront déployées dans les collèges et lycées qui pourraient en avoir besoin. Ces équipes sont constituées de personnels de l’éducation nationale chargés tout au long de l’année d’accompagner et soutenir les chefs d’établissement confrontés à des difficultés pour faire appliquer les principes de la laïcité.

    L’information n’est pas officielle, mais les équipes mobiles académiques de sécurité (Emas) seront aussi postées près des établissements sensibles. Celles-ci comprennent des personnels de l’Éducation nationale, du ministère de l’Intérieur et de psychologues qui interviennent dans les établissements en prévention ou en règlement de situation de crise. « En cas de problème, on peut aussi prévenir le cabinet du recteur, nous explique Julie, la proviseure, qui doute encore de l’entière efficacité de l’interdiction. Malheureusement, cela ne réglera pas les petites transgressions quotidiennes comme les longs gilets, les écharpes, les bandeaux… et le jeu permanent avec les codes. »

    –----------

    Source :

    Interdiction de l’#abaya à l’école : comment devront réagir les établissements « en cas de problème »

    Alors que la #rentrée_scolaire, ce lundi 4 septembre, est marquée par la mise en place de l’interdiction l’abaya, les chefs d’établissements oscillent entre le soulagement de pouvoir enfin s’appuyer sur une #règle_claire et l’#inquiétude de voir apparaître des tensions.

    Comme l’ensemble de ses collègues, Julie (le prénom a été changé), proviseure dans un lycée technologique de Paris, a glissé deux nouveaux documents dans son cartable avant de faire sa rentrée scolaire, ce lundi 4 septembre. « Notre hiérarchie nous a transmis une #note_de_service, où il est stipulé qu’une élève ne peut pas aller en cours avec une abaya. Et nous avons également une lettre type signée de la main du ministre de l’Éducation nationale à envoyer aux familles », explique cette cheffe d’établissement.

    Pour l’ensemble des personnels de direction, cette rentrée est placée sous le signe de l’#interdiction_de_l’abaya, même si seuls un peu plus de 150 établissements sont concernés, parmi les 6 980 collèges et 3 710 lycées que comptent le pays. À Paris et ailleurs, les recteurs ont réuni les principaux et les proviseurs pour les informer des mesures à prendre si un élève se présente avec un #qamis (longue tunique portée par les hommes dans les pays musulmans) ou une élève avec une abaya (longue robe ample religieuse pour certains, culturelle pour d’autres).

    En ces premiers jours de classe, seront privilégiés le dialogue « dans un temps resserré » et les explications sur le respect des règles de #laïcité à l’école. « Après les annonces du ministre, nous nous sommes mis en relation avec les quelques établissements scolaires potentiellement concernés, très peu en réalité, pour leur apporter le soutien et l’accompagnement nécessaires au bon déroulement de cette rentrée », nous explique-t-on à l’académie d’Amiens.

    « Ça risque d’être compliqué »

    Dès ce lundi, les équipes « #Valeurs_de_la république » seront déployées dans les collèges et lycées qui pourraient en avoir besoin. Ces équipes sont constituées de personnels de l’#éducation_nationale chargés tout au long de l’année d’accompagner et soutenir les chefs d’établissement confrontés à des difficultés pour faire appliquer les principes de la laïcité.

    L’information n’est pas officielle, mais les équipes mobiles académiques de sécurité (Emas) seront aussi postées près des établissements sensibles. Celles-ci comprennent des personnels de l’Éducation nationale, du ministère de l’Intérieur et de psychologues qui interviennent dans les établissements en prévention ou en règlement de situation de crise. « En cas de problème, on peut aussi prévenir le cabinet du recteur, nous explique Julie, la proviseure, qui doute encore de l’entière efficacité de l’interdiction. Malheureusement, cela ne réglera pas les petites transgressions quotidiennes comme les longs gilets, les écharpes, les bandeaux… et le jeu permanent avec les codes. »

    Ces premiers jours vont en tout cas faire office de test pour les personnels de direction et le ministère, qui n’a pas hésité à ouvrir huit établissements aux médias. « Il y aura des tentatives de détournement de la règle. On voit bien que, sur TikTok, certains encouragent les jeunes filles à aller acheter des vêtements amples, et ensuite à nous présenter la facture pour prouver que ce n’est pas une abaya », prévient Carole Zerbib, proviseure du lycée Vauquelin, dans le XIIIe arrondissement de Paris et membre du syndicat des chefs d’établissement SNPDEN.

    « Certains élèves cherchent des #variantes, donc ça risque d’être compliqué, poursuit-elle. Mais à côté de ça, on sent une démarche volontariste du ministère, on se sent moins seuls. » En cas de refus persistant de l’élève de se conformer aux principes de la laïcité, les personnels de direction ont pour consigne d’engager une #procédure_disciplinaire à son encontre.

    https://www.leparisien.fr/societe/interdiction-de-labaya-a-lecole-comment-devront-reagir-les-etablissements

    #école #France

  • L’Europe des camps d’enfermement - 2010
    https://visionscarto.net/europe-des-camps

    Titre : L’Europe des camps d’enfermement - 2010 Mots-clés : #migrations #réfugiés #asile #encampement #frontières #UE #Europe #politique_migratoire #politique_d'asile #violence Auteur : Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz Date : Juin 2010 L’Europe des camps d’enfermement Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz, juin 2010. #Collection_cartographique

  • L’avancée des frontières européennes
    https://visionscarto.net/avancee-des-frontieres

    Titre : L’avancée des frontières européennes : la politique de voisinage — 2010 Mots-clés : #frontières #UE #Europe #politique_migratoire #politique_de_voisinage #marges #asile #politique_d'asile Auteur : Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz Date : Juin 2010 L’avancée des frontières européennes Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz, juin 2010. #Collection_cartographique

  • Accords en toile d’araignée sur les migrations
    https://visionscarto.net/migrations-accords-en-toile-d-araignee

    Titre : Accords en toile d’araignée sur les migrations — 2010 Mots-clés : #frontières #UE #Europe #asile #politique_de_voisinage #marges #France #migrations #politique_migratoire #accord_de_réadmission Auteur : Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz Date : Juin 2010 Accords en toile d’araignée sur les migrations Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz, juin 2010. #Collection_cartographique

  • Incapables de faire face à l’afflux de demandeurs, les Restos du cœur appellent à l’aide

    L’association a annoncé qu’elle allait devoir éconduire 150 000 personnes. Le gouvernement a promis 100 balles par tête (15 millions d’€), mais pas de Mars.

    « Nous demandons des réponses concrètes, précises, immédiates, et le lancement d’un plan d’urgence alimentaire. » Le président des #Restos_du_cœur, Patrice Douret, a adressé un appel à l’aide aux « forces politiques et aux forces économiques » lors du « 13 heures » de TF1, dimanche 3 septembre. Il décrit une « situation inédite » : jamais, depuis leur création en 1985 par Coluche, les Restos du cœur n’avaient aidé autant de monde – ils ont déjà accueilli 1,3 million de personnes cette année, contre 1,1 million en 2022. Et jamais l’association n’avait autant dépensé, du fait de ces besoins accrus et de l’inflation : elle doit acheter plus du tiers de la nourriture qu’elle distribue et faire face aux surcoûts d’électricité, de transports…
    « A ce rythme-là, si on ne fait rien, les Restos du cœur pourraient [comme l’école et l’hôpital] mettre la clé sous la porte d’ici trois ans ». Ils vont « réduire fortement » le nombre de personnes accueillies pour se concentrer sur ceux qui ont les plus faibles « restes à vivre ». « On devra aussi réduire les quantités pour tous ceux qu’on pourra accueillir ».
    (...) Avec les trois autres associations bénéficiant de l’#aide_alimentaire européenne – les banques alimentaires, le Secours populaire et la Croix-Rouge –, il a demandé au printemps à rencontrer Maquereau. Il a aussi appelé, dans une tribune au Monde, à renforcer le Soutien européen à l’aide alimentaire. Sans résultat.

    Cette fois, des élus de nombreux partis (HellFI, RN, Pécéèfe, EELV, Répoublicains, P$) se sont émus de la situation, plusieurs ont soutenu l’idée du « plan d’urgence alimentaire ». Les Mousquetaires et Carrefour ont promis d’effectuer des dons et d’organiser des #collectes.

    La ministre des solidarités, Aurore Bergé a indiqué que l’aide alimentaire du gouvernement avait été portée à 156 millions d’euros cette année et que, « dans les prochains jours, 15 millions d’euros » seront « mis sur la table » pour aider les Restos du cœur à « passer cette période », et 6 millions d’euros débloqués en faveur des associations d’aide aux tout-petits. Elle a elle-aussi lancé « un appel solennel aux grandes entreprises », qui avaient su se mobiliser pour la reconstruction de la cathédrale Notre-Dame de Paris, et compte les recevoir rapidement, en même temps que les présidents des grandes associations de solidarité.

    Cette annonce « ne répond pas à l’urgence », puisque « même en réduisant le nombre de personnes accueillies et les quantités données, nous avons besoin de 35 millions d’euros pour terminer notre exercice à l’équilibre en mars, réagit le pédégé des Restos. De plus, arnaque classique, les 15 millions annoncés englobent une dizaine de millions d’euros déjà budgétés dans le cadre du plan “Mieux manger pour tous”.

    Les autres grands acteurs de l’aide alimentaire soulignent l’urgence à agir. « Nous recevons moins de dons de nourriture de la #grande_distribution et de l’#industrie_agroalimentaire, et nous avons moins d’aides européennes que durant la crise sanitaire, tandis que les besoins augmentent fortement, résume Laurence Champier, D.G. des B.A.. Nous sommes obligés de rationner les associations que nous aidons et de limiter leur nombre. Notre secteur a besoin de crédits suffisants et pérennes, d’autant plus que les particuliers risquent de moins pouvoir donner ! »
    Côté du Secours pop : « Nous accompagnons désormais 3,5 millions de personnes, y compris de plus en plus d’étudiants, de retraités et des personnes qui travaillent. Nous essayons de partager plutôt que de refuser des gens, car il y en a déjà beaucoup trop qui sont en dehors des radars, explique le D.G. de l’association, Thierry Robert. Il faut plus de soutien, et aussi plus d’accompagnement humain de la part de l’Etat. Nos bénévoles constatent combien la dématérialisation des services publics prive de nombreuses personnes de leurs droits. »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/04/l-appel-a-l-aide-des-restos-du-c-ur-confrontes-a-une-situation-inedite_61876

    #alimentation #plan_d’urgence_alimentaire