• Le chef de l’ONU met en garde contre un « effondrement total de l’ordre public bientôt » à Gaza

    https://www.lemonde.fr/international/live/2023/12/06/en-direct-guerre-israel-hamas-l-onu-met-en-garde-contre-un-effondrement-tota

    Le secrétaire général de l’ONU a mis en garde mercredi contre un « effondrement total de l’ordre public bientôt » à Gaza, pilonnée par Israël, dans une lettre inédite au Conseil de sécurité insistant pour un cessez-le-feu humanitaire.

    « Avec les bombardements constants des forces armées israéliennes, et en l’absence d’abris ou du minimum pour survivre, je m’attends à un effondrement total de l’ordre public bientôt en raison des conditions désespérées, ce qui rendrait impossible une aide humanitaire même limitée », écrit Antonio Guterres en invoquant pour la première fois depuis son arrivée à la tête des Nations unies, en 2017, l’article 99 de la Charte qui lui permet d’« attirer l’attention du Conseil » sur un dossier qui « pourrait mettre en danger le maintien de la paix et de la sécurité internationale ».

    https://www.youtube.com/watch?v=fHHPepOmOb4

    _

    La lettre : https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/sg_letter_of_6_december_gaza.pdf

    • Le ministre des affaires étrangères israélien affirme que le mandat d’Antonio Gutteres à la tête de l’ONU est un « danger pour la paix mondiale »
      https://www.lemonde.fr/international/live/2023/12/06/en-direct-guerre-israel-hamas-l-onu-met-en-garde-contre-un-effondrement-tota

      Eli Cohen, le chef de la diplomatie israélienne, a qualifié sur X de « danger pour la paix mondiale » le mandat du chef de l’#ONU, Antonio Guterres, après que ce dernier a invoqué une procédure rare devant le Conseil de sécurité au sujet de la guerre à #Gaza. « Sa demande d’activation de l’article 99 et l’appel à un cessez-le-feu à Gaza constituent un soutien à l’organisation terroriste Hamas », a également fustigé Eli Cohen.

      Israël approuve la construction de nouveaux logements pour colons à Jérusalem-Est, selon l’Agence France-Presse

      La municipalité de Jérusalem a donné son accord final à la construction de nouveaux logements pour #colons à Jérusalem-Est, a annoncé, mercredi, l’ONG israélienne La Paix maintenant à l’Agence France-Presse (AFP).

      Ce « quartier », qui comprendra 1 738 unités d’habitation, sera situé pour une moitié à Jérusalem-Est annexée et occupée et pour l’autre du côté israélien de la ville, précise l’ONG dans un communiqué. « S’il n’y avait pas la guerre, cela ferait beaucoup de bruit. C’est un projet très problématique pour la continuité d’un Etat palestinien entre le sud de la Cisjordanie et Jérusalem-Est », a souligné auprès de l’AFP Hagit Ofran, une responsable de l’ONG.

      #Israël

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • [Les Promesses de l’Aube] #colettes ! allumeuses de sororité et créatrices sonores
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/les-colettes-allumeuses-de-sororite-et-creatrices-sonores

    Ce mercredi 29 novembre nous recevons les participantes de Colettes ! dans la matinale de Panik.

    Colettes ! c’est un #atelier_radio féministe récemment mis en place par la Ligue des familles. Le collectif viendra - présenter sa démarche pour s’ouvrir à d’autres personnes désireuses de faire de la radio ensemble.

    Colettes ! a été mis en place à la suite d’une journée de rencontre féministe organisée par la Ligue des familles en janvier 2023. Tout d’abords sous la forme de « cercles de parole radiophonique », puis à travers un atelier d’écriture qui partageait « notre premier souvenir féministe », nous nous sommes ensuite intéressées à des réalités sociales qui touchent aussi d’autres #femmes.

    Le collectif se décrit comme-ceci :

    Colettes ! Une constellation joyeuse de vulves cosmiques qui donne du sens au quotidien. (...)

    #podcast #sororité #empowerment #ligue_des_travailleuses_domestiques #femmes,podcast,sororité,empowerment,atelier_radio,ligue_des_travailleuses_domestiques,colettes
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/les-colettes-allumeuses-de-sororite-et-creatrices-sonores_16925__1.mp3

  • Jacobin mag à propos de Henry Kissinger - The Good Die Young
    https://jacobin.com/2023/11/henry-kissinger-cold-war-foreign-policy

    Lê Đức Thọ
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/L%C3%AA_%C4%90%E1%BB%A9c_Th%E1%BB%8D
    Son nom résonne dans mes souvenirs d’enfance comme celui du stratège germano-étatsunien.

    ... le comité Nobel a souhaité lui décerner le prix Nobel de la paix, conjointement avec Henry Kissinger, prix qu’il a refusé.

    Dans mes souvenirs Henry Kissinger est comme ce camarade de classe de mon père qu’on est venu chercher au milieu d’un cours qui n’est revenu qu’en 1945 en uniforme « américaine ». A Berlin-Ouest on considérait les juifs allemands devenus citoyens des États Unis comme garants de notre liberté malgré les persécutions qu’ils avaient subi par nos grand parents.

    Comment veux-tu que le commun des gens d’ici sois critique de l’OTAN ou d"Israël.

    puis ...
    Henry Kissinger : To Die at the Right Time
    https://jacobin.com/2023/11/henry-kissinger-to-die-at-the-right-time

    Kissinger and the South American Revolutions
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-and-the-south-american-revolutions

    Kissinger in Angola
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-in-angola

    Kissinger in Central America
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-in-central-america

    Kissinger in the Gulf
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-in-the-gulf

    Kissinger in Cambodia
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-in-cambodia

    Kissinger in Argentina
    https://jacobin.com/2023/11/kissinger-in-argentina

    Cette chanson parle de lui sans le mentionner.

    https://www.youtube.com/watch?v=loFDn94oZJ0&pp=ygUOQm9iIE1hcmxleSBXYXI%3D


    Bob Marley - WAR

    C’est le mérite de Bob Marley d’avoir informé une génération entière d’Allemands de l’Ouest sur la lutte anticoloniale et antiimpérialiste. Sans lui ce sujet n’aurait intéressé que les intellectuels de gauche notoires. Malheureusement l’écoute de sa musique se passait généralement dans les nuages de canbabis, ce qui a sans doute inhibé la prise de conscience politique de son public.

    #guerre #racisme #impérialisme #colinialisme #USA

  • jure qu’elle n’invente rien (de toute façon elle n’a aucune imagination) : acouphènes ou pas, en se promenant tout à l’heure à proximité de l’élevage avicole, elle a très bien entendu que les koulaks diffusent la radio là-dedans ! Si si, à l’attention des poulets ! « Pour les distraire » (ou pour une autre raison new age du même acabit). À tue-tête ! Et puis attention, hein, pas des programmes de musique classique ou de feutrées émissions de philosophie, non non, de la bonne grosse radio commerciale style « NRJ » ou « Europe n°1 » ! Vous vous représentez le cauchemar ? Non seulement les bestioles sont maltraitées, mutilées, nourries à la farine, shootées aux hormones, parquées par milliards dans des cages de vingt centimètres carrés sans jamais voir la lumière du jour, mais en plus on leur impose toute la journée des blagues de Ruquier et des publicités Conforama® ! Remarquez, à toute chose malheur est bon et à ce régime elles doivent être pressées de se faire égorger.

    Pitié, pitié, pitié, cher Lectorat : déjà bouffer de la viande C’EST MAL, mais si vous ne devenez pas végétarien(ne)s exigez au moins des volailles qui écoutent FIP ou France Culture.

    #Colère.

    • Si vous continuez à observer un régime alimentaire non carné (ce qui est tout à votre honneur), vous repousserez d’autant l’heure fatidique.
      De mon côté, je m’y emploie aussi en évitant les radios sous perfusion de la société marchande ainsi que les chaînes TV d’information (ou plutôt désinformation) en continu. Je n’ai pas envie de finir comme tous ces pauvres volatils, à savoir mourir de façon distraite.

  • Henry Laurens : La décolonisation est la solution - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1358738/henry-laurens-la-decolonisation-est-la-solution.html

    La solution à deux Etats semblant de plus en plus complexe à mettre en oeuvre à mesure que les positions des deux parties se cristallisent, le professeur au Collège de France évoque la décolonisation.

    #paywall
    les extraits, fournis par l’auteur de l’interview, qu’il est possible de lire sur X donnent envie…
    https://twitter.com/karimbitar/status/1729283069578719538

  • LA CONDITION DES PERSONNES EXILÉES A PARIS : 8 ANNÉES DE VIOLENCES POLICIÈRES ET INSTITUTIONNELLES

    Trois ans après l’expulsion brutale d’un campement de 500 tentes #place_de_la_République, nous vous partageons le premier #rapport du #CAD (#Collectif_Accès_au_Droit), qui documente les violences policières envers les personnes exilées à Paris et dans sa proche périphérie.

    Ce travail, basé sur le recueil de 448 #témoignages recensés depuis 2015 et sur une enquête flash réalisée ces dernières semaines auprès de 103 personnes exilées, démontre que ces violences constituent depuis 8 ans la condition des personnes exilées à Paris.

    https://collectifaccesaudroit.org/rapport

    #sans-papiers #migrations #France #violences_policières #harcèlement #violence #violence_systémique #violences_institutionnelles #campement #destruction #nasse #nasse_mobile #Paris

    ping @isskein @karine4

  • Opinion | Who Was the Real ‘Shaved Woman of Chartres’ ? - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/11/25/opinion/simone-touseau-france-occupation.html

    Est-ce que la fiction peut tordre l’histoire quand elle s’appuie sur des faits réels ?

    The photograph, “The Shaved Woman of Chartres,” with the young Ms. Touseau at its center, was understood for a long time as a document of the brutal purges that took place during the liberation of France at the end of World War II. Extrajudicial punishments were carried out all over the country, including shaving the heads of women suspected of sleeping with the enemy.

    The truth was more complex. Historians were slow to take an interest in the wartime collaboration and resistance of women, but in the early 2000s, a groundbreaking work by Fabrice Virgili described how many women who were shaved in the purges were being punished not for their intimate relationships with Germans but for denunciations or working for the Germans.

    Eventually we got a clearer picture of Ms. Touseau, too. In 2011 two historians, Gérard Leray and Philippe Frétigné, established that she was a Nazi sympathizer before the war started. She scribbled swastikas in the pages of notebooks she kept as early as the mid-1930s, admired National Socialism and claimed that France “needs someone like Hitler.” Fluent in German, she worked as a translator for the occupying forces and became a member of the nationalist Parti Populaire Français. She was accused of denouncing four neighbors who were deported to the Mauthausen concentration camp, two of whom never returned. The crime, which would have been punishable by death, was not proved, but Mr. Leray told me that he is adamant that she played at least some part in it.

    This August a new, fictionalized portrait of Ms. Touseau was published in France, in the shape of a novel, “Vous Ne Connaissez Rien de Moi” (“You Know Nothing About Me”), by Julie Héraclès, which renders Ms. Touseau, renamed Grivise, as a woman scorned.

    In the novel Simone falls in love with Pierre, who is young and handsome and from a bourgeois family. He sexually assaults Simone, and when she falls pregnant, he abandons her to join the Resistance, leaving her to have an illegal abortion on her own.

    Simone’s desire for revenge drives her to start working as a translator for the Nazis. She begins a relationship with a German officer, Otto, then falls in love with him. After he is injured on the Eastern Front, she joins the Parti Populaire Français to get a transfer to Germany to be with him, with little consideration for the political implications.

    The Simone of the novel has a Jewish friend, lies to the Gestapo to help a member of the Resistance, is “revulsed” by the practice of reporting neighbors and gives food to a little Jewish girl — all “highly implausible facts,” Mr. Leray told me.

    It makes for gripping reading, and the novel was on numerous award lists and won the Stanislas Prize for best first novel. Critics praised it as impressive and audacious, and readers shared their enthusiasm for it — “a beautiful love story,” a “real immersion in Simone’s life,” a story “that shows us that people are never angels or demons but a tangle of good and bad,” several wrote in online reviews.

    But the book has also been the subject of criticism on the question of what fiction can allow itself when it comes to this part of history.

    Ms. Héraclès told me in a phone interview that she was surprised by the debate. Her agenda was not to redeem Ms. Touseau, she said, but “to explore the human condition” by trying to imagine “how a young woman can commit criminal acts.”

    The novel has an epigraph: “I’ve never seen a saint or a bastard. Nothing is all black and white; it’s the gray that wins. Men and their souls, it’s all the same.” But relegating Ms. Touseau to the role of a sentimental being buffeted by history does not enrich our understanding of her. It strips her of agency and impoverishes our sense of history at the same time.

    The shaved woman of Chartres was a driven, ideological woman whom painstaking historical scholarship had liberated from our simplistic understanding of her. At any given time, people are a tangle of good and bad, and it is the prerogative of fiction to mold bare facts for artistic ends. But now fiction has put her back in the limited, familiar role of sacrificial mother that she inhabited in Capa’s photo and the world’s imagination.

    Perhaps we prefer her there, rather than contemplating her and others’ complicity in evil.

    #Fiction #Ecriture #Chartre #Robert_Capa #Collaboration

  • Zhanqiao Pier
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Zhanqiao_Pier


    青岛栈桥 Ehemalige Landungsbrücke Qingdao

    Faire du tourisme en Chine signifie ne jamais être seul le moindre instant. La photo est prise hors saison quand il n’y a pas grand monde


    Bundesarchiv : China 1898.- Landungsmanöver S.M.S. Deutschland bei der Landungsbrücke am Brückenlager.

    #Chine #Qingdao #青岛 #tourisme #colonies #histoire

  • Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »

    Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.

    Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.

    Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).

    Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?

    Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.

    En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?

    « Israël mène une #guerre_totale à une population civile »

    Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.

    Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?

    La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.

    Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.

    L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».

    Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie

    Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.

    Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.

    Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?

    C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.

    Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.

    La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.

    « Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »

    À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.

    Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?

    Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.

    « Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »

    Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.

    Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?

    Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.

    https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
    #agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie

    • La toile carcérale. Une histoire de l’enfermement en Palestine

      Dans les Territoires palestiniens, depuis l’occupation de 1967, le passage par la prison a marqué les vécus et l’histoire collective. Les arrestations et les incarcérations massives ont installé une toile carcérale, une détention suspendue. Environ 40 % des hommes palestiniens sont passés par les prisons israéliennes depuis 1967. Cet ouvrage remarquable permet de comprendre en quoi et comment le système pénal et pénitentiaire est un mode de contrôle fractal des Territoires palestiniens qui participe de la gestion des frontières. Il raconte l’envahissement carcéral mais aussi la manière dont la politique s’exerce entre Dedans et Dehors, ses effets sur les masculinités et les féminités, les intimités. Stéphanie Latte Abdallah a conduit une longue enquête ethnographique, elle a réalisé plus de 350 entretiens et a travaillé à partir d’archives et de documents institutionnels. Grâce à une narration sensible s’apparentant souvent au documentaire, le lecteur met ses pas dans ceux de l’auteure à la rencontre des protagonistes de cette histoire contemporaine méconnue.

      https://livres.bayard-editions.com/livres/66002-la-toile-carcerale-une-histoire-de-lenfermement-en-pal
      #livre

  • On Tocqueville in Algeria and epistemic violence
    https://www.aljazeera.com/opinions/2020/7/7/on-tocqueville-in-algeria-and-epistemic-violence
    On ne peut étudier les peuples barbares que les armes à la main.
    Alexis de Tocqueville, Rapport sur l’Algérie (1847)

    Ce texte est intéressant parce qu’il est l’expression du réformisme académique qui se prend pour radical.

    ... there is no end in sight to all that needs to be renamed, toppled, and changed both on the streets and in academia

    Dans sa conclusion l’auteure n’ose qu’à peine revendiquer qu’on change de nom des endroits et institutions et ne va pas plus loin que de rappeller qu’il y a encore des statues à renverser. Elle ne revendique pas qu’on renverse le reigne des héritiers des profit extorqués aux habitants des pays colonisés. Elle reste sur un plan symbolique alors qu’il faudrait changer la réalité matérielle. Voilà c’est ce qui rend superflues la plupart des publications académiques depuis la disparition des états socialistes.

    Les philosophes n’ont fait qu’interpréter le monde de différentes manières, ce qui importe c’est de le transformer.
    Karl Marx, Thèses sur Feuerbach, XI, 1845/1888

    7.7.2020 by Lina Benabdallah - The news that Princeton University had finally given in to years of student protests and calls to change the name of the Woodrow Wilson School of Public and International Affairs – finding that the former president’s “racism makes him an inappropriate namesake” – reverberated across academic institutions in the United States.

    It was the latest in a series of anti-racist acts that included the toppling of statues of racist historical figures and the removal of racist emblems from state flags. The removal of Wilson’s name from Princeton University buildings has shaken the ivory tower, in particular, scholars of international relations who are being pushed to think or rethink the way they read, teach and write about these classic figures of political thought.

    But while Princeton’s decision is welcome, it is merely one of many steps the discipline of political science must take in order to reckon with its explicit and implicit epistemic violence.

    Alexis de Tocqueville is a case in point. Tocqueville, who is almost synonymous with liberalism, democracy, and individual rights in the US, is known to be an apologist for colonisation and white settlers in North Africa.

    Writing Democracy in America in 1835 made him a hero of sorts, with streets, hedge funds, and restaurants named after him across the US. In the classroom, he is taught as a classic, timeless thinker in many comparative politics and political theory syllabi. His praised work on democracy, however, was built on the twin practice of glorifying democracy in a white-settler society – the US – and defending a French-led total war against North Africans in their own territories.

    Tocqueville was not just a theorist with a knack for travel; he was a member of parliament from 1839 to 1851 and was briefly French foreign minister during the Second Republic in 1849. When the French government and its elites were debating the merits of domination as opposed to partial colonisation of Algeria, Tocqueville wrote, in his 1841, Essay on Algeria, an unequivocal endorsement of a full-on colonisation. His thoughts on the merits of democracy and individual liberties clearly did not extend to North African natives.

    Tocqueville’s plan to subjugate Algerians and replace the population with European settlers included several concrete steps. He contended that the second-most important step in the conquest “after the interdiction of commerce, is to ravage the country”. As he further explained, “I believe that the right of war authorises us to ravage the country and that we must do it, either by destroying harvests during the harvest season, or year-round by making those rapid incursions called razzias, whose purpose is to seize men or herds.”

    If this savage policy recommendation was not clear enough, he reiterated in bullet points the necessity to “destroy everything that resembles a permanent aggregation of population or, in other words, a town.” The essay is littered with Orientalist views on nomads, on Islam, on the uncivilised Africans, and the trigger-happy Arabs. Tocqueville’s most stubborn recommendation comes in repeating throughout the text that “until we have a European population in Algeria, we shall never establish ourselves there (in Africa) but shall remain camped on the African coast. Colonisation and war, therefore, must proceed together.”

    In October 1843, upon returning from a trip to Algeria, Tocqueville revealed his thoughts on Islam in correspondence with French writer Arthur de Gobineau, an early promoter of scientific racism, stating that he was convinced that there were “few religions as deadly to men”, and that Islam was a step back from paganism.

    What Tocqueville observed in (white) America, he had hoped for in North Africa. The Arabs and Amazigh could be, like America’s original peoples, ruled over and governed, but should exist separately, together, from their free, democracy-deserving white colonisers – European settlers in Algeria and white Americans in the US. Opposing dictatorship in Algeria, as Tocqueville did, was not out of a commitment to democracy for native peoples but for a Manichean world with a twin practice of granting freedoms to white settlers and subjugating, in his words, even “ravaging”, Arab-populated towns.
    Should we just ‘learn to appreciate’ the good parts?

    To pause for a moment and ask difficult questions about political thinkers that we have long taken for granted is not a call to stop reading them. Quite the opposite. It is a call to read them fully and unselectively, not in small segments.

    A typical move in defending and sanitising Tocqueville’s political thought has been for some to remind us that he was an eloquent critic of slavery in the US and a proponent of original people’s rights. But is this enough? I am no psychoanalyst to figure out how one can be this and the other at the same time, but I know that Tocqueville’s work on Algeria, from 1841, was much later than his work on the US – 1835.

    I am also ready to believe that Tocqueville might have felt a deeper sense of empathy with causes and peoples that were too distant – slavery in the US – to cause a direct clash with the interests of the government he served. That same empathy, if there was such, was not afforded, in practice, to the natives of North Africa as it was in the context of North America.

    Another one is to tell us that “people are complex” and that there is no merit in pointing out the “bad stuff”. When I posted on Twitter, a year ago, my thoughts about Tocqueville and Algeria, voicing that the continued praise and adoration of him among political scientists is an epistemic violence to so many of us, I was scolded for failing to appreciate what a good piece of writing Democracy in America was. This trope of tone-policing and scolding people for not being able to “appreciate” or at the very least disagree in silence is nothing new, we see it everywhere, but it is part of a larger structure of epistemic violence against people of colour.

    Several awards in the name of Tocqueville are given to students, researchers, and alumni to recognise excellence in scholarship on freedom, democracy, and academic achievement. My favourite is the Prix Alexis de Tocqueville, a prize for political literature awarded every two years to “a person who has demonstrated outstanding humanistic qualities and attachment to pubic liberties.” The winner of the latest edition of the Prize is none other than Henry Kissinger. When I learned of this, I wondered what someone in Cambodia might think humanism looks like with Kissinger as its face.

    What these awards do is, like statues and buildings’ names, institutionalise epistemic violence. At the most basic level, epistemic violence is about dominant systems of knowledge oppressing “other” knowledge structures and normalising a common sense that is inherently violent and unjust. Having to apply to study in buildings and programmes named after organic intellectuals who spent their careers normalising racism and othering is a form of oppression. Likewise, for academics in political science, sitting in a conference room, as I have many times, listening to talks glorifying Tocqueville as a beacon for democracy and individual freedoms is a form of epistemic violence.

    To close, there is no end in sight to all that needs to be renamed, toppled, and changed both on the streets and in academia because the violence that is folded in with these histories we tell, theories we teach, name chairs we hire for, and awards and accolades we seek to add to our credentials are countless. Repairing epistemic violence has got to be a long and challenging path, given how deeply rooted it is and far back it goes, but it is necessary.

    Rapport sur l’Algérie (1847)
    Extraits du premier rapport de 1847 des travaux parlementaires
    de Tocqueville sur l’Algérie
    http://classiques.uqac.ca/classiques/De_tocqueville_alexis/de_la_colonie_algerie/rapport_sur_algerie/rapport_sur_algerie.html

    #histoire #USA #France #Algérie #Israël #génocide #colonialisme #théorie_polutique #libéralisme

  • 🟥 Colonisation en Cisjordanie : l’article à lire pour comprendre pourquoi la guerre entre Israël et le Hamas a ravivé les tensions dans le territoire occupé...

    Dans ce territoire occupé depuis 1967 par l’Etat hébreu, plus de 200 personnes ont été tuées par des colons et des soldats israéliens depuis les attaques du Hamas le 7 octobre, selon le bilan du ministère de la Santé palestinien.
    Routes bloquées, raids armés, puits attaqués... Les Palestiniens des villages de Cisjordanie occupée disent subir le harcèlement croissant des colons israéliens, plus menaçants depuis le début de la guerre entre l’Etat hébreu et le Hamas. Ces violences replacent la question de la colonisation israélienne de ce territoire palestinien au centre de l’attention internationale, alors qu’en parallèle l’armée israélienne poursuit ses opérations dans la bande de Gaza (...)

    #Israël #colonialisme #Cisjordanie #palestine #violence #meurtres

    https://www.francetvinfo.fr/monde/proche-orient/israel-palestine/colonisation-en-cisjordanie-l-article-a-lire-pour-comprendre-pourquoi-l

  • Aux marges coloniales de l’art contemporain
    https://laviedesidees.fr/Larissa-Buchholz-The-global-rules-of-art

    Une riche enquête éclaire la façon dont les artistes non-occidentaux trouvent place dans l’élite mondialisée de l’art contemporain. La valeur de leurs œuvres se construit dans leur interprétation et réappropriation par les intermédiaires qui les promeuvent à l’aide de leurs puissants réseaux. À propos de : Larissa Buchholz, The global rules of art. The emergence and Divisions of a cultural world economy, Princeton University Press

    #Économie #Arts #colonialisme #art_contemporain
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202311_artcolonial.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231124_artcolonial.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231124_artcolonial.pdf

  • Henry Laurens : « On est sur la voie d’un processus de destruction de masse » à Gaza, entretien avec Rachida El Azzouzi (19 novembre 2023).

    Pour l’historien, spécialiste de la Palestine, professeur au collège de France, « l’effondrement des conditions sanitaires et l’absence de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse » dans la bande de Gaza.

    L’historien et universitaire Henry Laurens est l’un des plus grands spécialistes du #Moyen-Orient. Professeur au Collège de France où il est titulaire de la chaire d’histoire contemporaine du #monde_arabe, il a mis la question palestinienne au cœur de son travail. Il est l’auteur de très nombreux livres dont cinq tomes sans équivalent publiés entre 1999 et 2015, consacrés à La question de Palestine (Fayard).
    Dans un entretien à Mediapart, il éclaire de sa connaissance l’exceptionnalité du conflit israélo-palestinien et le « corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer » dans lesquels les deux peuples sont pris depuis des décennies. Il dit son pessimisme quant à la résolution du conflit qui peut durer « des siècles » : « Vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. Aujourd’hui, ils sont 500 000 dont quelques dizaines de milliers qui sont des colons ultrareligieux et armés. »

    Plus d’une vingtaine de rapporteurs de l’organisation des Nations unies (ONU) s’inquiètent d’« un génocide en cours » à Gaza. Est-ce que vous employez ce terme ?

    Il y a deux sens au terme de « génocide ». Il y a le #génocide tel que défini par l’avocat polonais Raphael Lemkin en 1948, la seule définition juridique existante, aujourd’hui intégrée au protocole de Rome créant la #CPI [Cour pénale internationale – ndlr]. Lemkin a été obligé, pour que ce soit voté par les Soviétiques et par le bloc de l’Est, d’éliminer les causes politiques du génocide – massacrer des gens dans le but de détruire une classe sociale –, parce qu’il aurait fallu reconnaître le massacre des koulaks par les Soviétiques.

    La définition de Lemkin implique que ceux qui commettent un génocide appartiennent à un autre peuple que celui des victimes. D’où le problème aussi qu’on a eu avec le #Cambodge, qu’on ne pouvait pas appeler un génocide parce que c’étaient des Cambodgiens qui avaient tué des Cambodgiens. Là, on est dans une définition étroite. C’était le prix à payer pour obtenir un accord entre les deux Blocs dans le contexte du début de la #guerre_froide.

    Vous avez ensuite une définition plus large du terme, celui d’une destruction massive et intentionnelle de populations quelles qu’en soient les motivations.

    Il existe donc deux choses distinctes : la première, ce sont les actes, et la seconde, c’est l’intention qui est derrière ces actes. Ainsi le tribunal international pour l’ex-Yougoslavie a posé la différence entre les nettoyages ethniques dont la motivation n’est pas génocidaire parce que l’#extermination n’était pas recherchée, même si le nombre de victimes était important, et les actes de génocide comme celui de Srebrenica, où l’intention était claire.

    On voit ainsi que le nombre de victimes est secondaire. Pour Srebrenica, il est de l’ordre de 8 000 personnes.

    L’inconvénient de cette #logique_judiciaire est de conduire à une casuistique de l’intentionnalité, ce qui ne change rien pour les victimes. 

    Au moment où nous parlons, le nombre de victimes dans la bande de #Gaza est supérieur à celui de Srebrenica. On a, semble-t-il, dépassé la proportion de 0,5 % de la population totale. Si on compare avec la France, cela donnerait 350 000 morts.

    Le discours israélien évoque des victimes collatérales et des boucliers humains. Mais de nombreux responsables israéliens tiennent des discours qui peuvent être qualifiés de génocidaires. L’effondrement des conditions sanitaires et l’absence même de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse avec des controverses à n’en plus finir sur les intentionnalités. 

    La solution à deux États n’est plus possible.

    La crainte d’une seconde « #Nakba » (catastrophe), en référence à l’exil massif et forcé à l’issue de la guerre israélo-arabe de 1948, hante les #Palestiniens. Peut-on faire le parallèle avec cette période ?

    La Nakba peut être considérée comme un #nettoyage_ethnique, en particulier dans les régions autour de l’actuelle bande de Gaza où l’#intentionnalité d’expulsion est certaine. Des responsables israéliens appellent aujourd’hui à une #expulsion de masse. C’est d’ailleurs pour cela que l’Égypte et la Jordanie ont fermé leurs frontières.

    Dans l’affaire actuelle, les démons du passé hantent les acteurs. Les juifs voient dans le 7 octobre une réitération de la Shoah et les Palestiniens dans les événements suivants celle de la Nakba.

    Faut-il craindre une annexion de la bande de Gaza par Israël avec des militaires mais aussi des colons ?

    En fait, personne ne connaît la suite des événements. On ne voit personne de volontaire pour prendre la gestion de la bande de Gaza. Certains responsables israéliens parlent de « dénazification » et il y a une dimension de vengeance dans les actes israéliens actuels. Mais les vengeances n’engendrent que des cycles permanents de violence.

    Quelle est votre analyse des atrocités commises le 7 octobre 2023 par le Hamas ?

    Elles constituent un changement considérable, parce que la position de l’État d’Israël est profondément modifiée au moins sur deux plans : premièrement, le pays a subi une invasion pour quelques heures de son territoire, ce qui n’est pas arrivé depuis sa création ; deuxièmement, le 7 octobre marque l’échec du projet sioniste tel qu’il a été institué après la Seconde Guerre mondiale, un endroit dans le monde où les juifs seraient en position de sécurité. Aujourd’hui, non seulement l’État d’Israël est en danger, mais il met en danger les diasporas qui, dans le monde occidental, se trouvent menacées ou, en tout cas, éprouvent un sentiment de peur.

    Le dernier tome de votre série consacrée à « La question de Palestine » (Fayard) était intitulé « La paix impossible » et courait sur la période 1982-2001. Vous étiez déjà très pessimiste quant à la résolution de ce conflit, mais aussi concernant l’avenir de la région, comme si elle était condamnée à demeurer cette poudrière. Est-ce que vous êtes encore plus pessimiste aujourd’hui ? Ou est-ce que le #conflit_israélo-palestinien vous apparaît soluble, et si oui, quelle issue apercevez-vous ?

    La réelle solution théorique serait d’arriver à un système de gestion commune et équitable de l’ensemble du territoire. Mais un État unitaire est difficile à concevoir puisque les deux peuples ont maintenant plus d’un siècle d’affrontements.

    Qu’en est-il de la solution à deux États, dont le principe a été adopté en 1947 par l’ONU, après la fin du mandat britannique ? Est-elle possible ?

    La solution à deux États n’est plus possible dès lors que vous avez 500 000 colons, dont quelques dizaines de milliers qui sont des #colons ultrareligieux et armés. Vous avez une violence quotidienne en #Cisjordanie. La sécurité des colons ne peut se fonder que sur l’insécurité des Palestiniens. Et l’insécurité des Palestiniens provoque la violence qui engendre l’insécurité des colons.

    C’est un cercle vicieux et vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette #décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. On pouvait, sans trop de dégâts, faire une décolonisation de la Cisjordanie et de la bande de Gaza. 

    Aujourd’hui, nous sommes dans une position de domination, et cette solution peut prendre des siècles parce qu’il y a l’exceptionnalité juive qui crée une exceptionnalité israélienne qui elle-même crée une exceptionnalité palestinienne. C’est-à-dire que sans être péjoratif, les Palestiniens deviennent des juifs bis.

    Qu’entendez-vous par là ?

    Nous sommes depuis le 7 octobre devant un grand nombre de victimes. Mais ces dernières années, nous en avons eu bien plus en Irak, en Syrie, au Soudan et en Éthiopie. Cela n’a pas provoqué l’émoi mondial que nous connaissons aujourd’hui. L’émotion a été suscitée parce que les victimes étaient juives, puis elle s’est déplacée sur les victimes palestiniennes. Les deux peuples sont dans un corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer.

    Les années 1990 ont été marquées par les accords d’Oslo en 1993. Relèvent-ils du mirage aujourd’hui ?
     
    Non, on pouvait gérer une décolonisation. Mais déjà à la fin des accords d’Oslo, il n’y a pas eu décolonisation mais doublement de la #colonisation sous le gouvernement socialiste et ensuite sous le premier gouvernement Nétanyahou. Ce sont l’occupation, la colonisation, qui ont amené l’échec des processus. Il n’existe pas d’occupation, de colonisation pacifique et démocratique.

    Aujourd’hui, c’est infiniment plus difficile à l’aune de la violence, des passions, des derniers événements, des chocs identitaires, de la #haine tout simplement. Qui plus est, depuis une trentaine d’années, vous avez une évolution commune vers une vision religieuse et extrémiste, aussi bien chez les juifs que chez les Palestiniens.

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre.

    Vous voulez dire que le conflit territorial est devenu un conflit religieux ?

    Il a toujours été religieux. Dès l’origine, le mouvement sioniste ne pouvait fonctionner qu’en utilisant des références religieuses, même si ses patrons étaient laïcs. La blague de l’époque disait que les sionistes ne croyaient pas en Dieu mais croyaient que Dieu leur avait promis la Terre promise.

    Le projet sioniste, même s’il se présentait comme un mouvement de sauvetage du peuple juif, ne pouvait fonctionner qu’en manipulant les affects. Il était de nature religieuse puisqu’il renvoyait à la Terre sainte. Vous avez une myriade d’endroits qui sont des #symboles_religieux, mais qui sont aussi des #symboles_nationaux, aussi bien pour les #juifs que pour les #musulmans : l’esplanade des Mosquées, le tombeau des Patriarches, le mur des Lamentations. Et puis il y a les gens qui se sentent mandatés par Dieu.

    De même, les musulmans ont cherché des alliés en jouant sur la solidarité islamique. Dès les années 1930, la défense de la mosquée Al-Aqsa est devenue un thème fédérateur.

    Pourquoi est-il devenu difficile d’invoquer une lecture coloniale du conflit depuis les massacres du Hamas du 7 octobre ?

    Le sionisme est à l’origine un corps étranger dans la région. Pour arriver à ses fins, il a eu besoin d’un soutien européen avant 1914, puis britannique et finalement américain. Israël s’est posé comme citadelle de l’#Occident dans la région et conserve le #discours_colonial de la supériorité civilisatrice et démocratique. Cet anachronisme est douloureusement ressenti par les autres parties prenantes.

    Jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, les responsables sionistes n’hésitaient pas à se comparer à la colonisation britannique en Afrique noire avec la nécessité de mater les protestations indigènes. 

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre. La constitution de l’État juif impliquait un « transfert » de la population arabe à l’extérieur, terme poli pour « expulsion ». La #confiscation des #terres détenues par les Arabes en est le corollaire. Les régions où ont eu lieu les atrocités du 7 octobre étaient peuplées d’Arabes qui ont été expulsés en 1948-1950.

    Dire cela, c’est se faire accuser de trouver des excuses au terrorisme. Dès que vous essayez de donner des éléments de compréhension, vous vous confrontez à l’accusation : « Comprendre, c’est excuser. » Il faut bien admettre que le #Hamas dans la bande de Gaza recrute majoritairement chez les descendants des expulsés. Cela ne veut pas dire approuver ce qui s’est passé.

    Le slogan « From the river to the sea, Palestine will be free » (« De la rivière à la mer, la Palestine sera libre ») utilisé par les soutiens de la Palestine fait polémique. Est-ce vouloir rayer de la carte Israël ou une revendication légitime d’un État palestinien ?

    Il a été utilisé par les deux parties et dans le même sens. Les mouvements sionistes, en particulier la droite sioniste, ont toujours dit que cette terre devait être juive et israélienne au moins jusqu’au fleuve. Le parti de l’ancêtre du Likoud voulait même annexer l’ensemble de la Jordanie.

    Chez certains Palestiniens, on a une vision soft qui consiste à dire que « si nous réclamons un État palestinien réunissant la bande de Gaza et la Cisjordanie, nous considérons l’ensemble de la terre comme la Palestine historique, comme partie de notre histoire, mais nous ne la revendiquons pas dans sa totalité ».

    Israël depuis sa fondation n’a pas de #frontières définies internationalement. Il a toujours revendiqué la totalité de la Palestine mandataire, voire plus. Il a ainsi rejeté l’avis de la Cour internationale de justice qui faisait des lignes d’armistice de 1949 ses frontières permanentes.

    Cette indétermination se retrouve de l’autre côté. La libération de la Palestine renvoie à la totalité du territoire. D’autres exigeaient la carte du plan de partage de 1947. Pour l’Organisation de libération de la Palestine (#OLP), faire l’#État_palestinien sur les territoires occupés en 1968 était la concession ultime.

    Les Arabes en général ont reçu sans grand problème les réfugiés arméniens durant la Grande Guerre et les années suivantes. Ces Arméniens ont pu conserver l’essentiel de leur culture. Mais il n’y avait pas de question politique. Il n’était pas question de créer un État arménien au Levant.

    Dès le départ, les Arabes de Palestine ont vu dans le projet sioniste une menace de dépossession et d’expulsion. On ne peut pas dire qu’ils ont eu tort…

    Le mouvement islamiste palestinien, le Hamas, classé #terroriste par l’Union européenne et les États-Unis, est aujourd’hui le principal acteur de la guerre avec Israël…

    Définir l’ennemi comme terroriste, c’est le placer hors la loi. Bien des épisodes de décolonisation ont vu des « terroristes » devenir du jour au lendemain des interlocuteurs valables. 

    Bien sûr, il existe des actes terroristes et les atrocités du 7 octobre le sont. Mais c’est plus une méthodologie qu’une idéologie. C’est une forme de guerre qui s’en prend aux civils selon les définitions les plus courantes. Jamais un terroriste ne s’est défini comme tel. Il se voit comme un combattant légitime et généralement son but est d’être considéré comme tel. Avec l’État islamique et le 7 octobre, on se trouve clairement devant un usage volontaire de la cruauté.

    La rhétorique habituelle est de dire que l’on fait la guerre à un régime politique et non à un peuple. Mais si on n’offre pas une perspective politique à ce peuple, il a le sentiment que c’est lui que l’on a mis hors la loi. Il le voit bien quand on dit « les Israéliens ont le droit de se défendre », mais apparemment pas quand il s’agit de Palestiniens.

    D’aucuns expliquent qu’Israël a favorisé l’ascension du Hamas pour qu’un vrai État palestinien indépendant ne voie jamais le jour au détriment de l’#autorité_palestinienne qui n’administre aujourd’hui plus que la Cisjordanie. Est-ce que le Hamas est le meilleur ennemi des Palestiniens ? 

    Incontestablement, les Israéliens ont favorisé les #Frères_musulmans de la bande de Gaza dans les années 1970 et 1980 pour contrer les activités du #Fatah. De même, après 2007, ils voulaient faire du Hamas un #sous-traitant chargé de la bande de Gaza, comme l’Autorité palestinienne l’est pour la Cisjordanie. 

    Le meilleur moyen de contrer le Hamas est d’offrir aux Palestiniens une vraie perspective politique et non de bonnes paroles et quelques aides économiques qui sont des emplâtres sur des jambes de bois. 

    Quel peut être l’avenir de l’Autorité palestinienne, aujourd’hui déconsidérée ? Et du Fatah, le parti du président Mahmoud Abbas, pressé par la base de renouer avec la lutte armée et le Hamas ?

    Le seul acquis de l’Autorité palestinienne, ou plus précisément de l’OLP, c’est sa légitimité diplomatique. Sur le terrain, elle est perçue comme un sous-traitant de l’occupation israélienne incapable de contrer un régime d’occupation de plus en plus dur. Elle est dans l’incapacité de protéger ses administrés. Le risque majeur pour elle est tout simplement de s’effondrer.

    Le Hamas appelle les Palestiniens de Cisjordanie à se soulever. Un soulèvement généralisé des Palestiniens peut-il advenir ?

    En Cisjordanie, on a surtout de petits groupes de jeunes armés totalement désorganisés. Mais la violence et la répression sont devenues quotidiennes et les violences permanentes. À l’extérieur, l’Occident apparaît complice de l’occupation et de la répression israéliennes. L’Iran, la Chine et la Russie en profitent.

    Le premier tome de votre monumentale « Question de Palestine » s’ouvre sur 1799, lorsque l’armée de Napoléon Bonaparte entre en Palestine, il court jusqu’en 1922. Avec cette accroche : l’invention de la Terre sainte. En quoi cette année est-elle fondatrice ?

    En 1799, l’armée de Bonaparte parcourt le littoral palestinien jusqu’à Tyr. En Europe, certains y voient la possibilité de créer un État juif en Palestine. Mais l’ouverture de la Terre sainte aux Occidentaux est aussi l’occasion d’une lutte d’influences entre puissances chrétiennes. 

    Dans le tome 4, « Le rameau d’olivier et le fusil du combattant » (1967-1982), vous revenez sur ce qui a été un conflit israélo-arabe, puis un conflit israélo-palestinien. Est-ce que cela peut le redevenir ?

    Jusqu’en 1948, c’est un conflit israélo-palestinien avant tout. En 1948, cela devient un #conflit_israélo-arabe avec une dimension palestinienne. À partir de la fin des années 1970, la dimension palestinienne redevient essentielle.

    Ben Gourion disait que la victoire du sionisme était d’avoir transformé la question juive en problème arabe. Les derniers événements semblent montrer que le #problème_arabe est en train de redevenir une #question_juive.

    Le rôle des États-Unis a toujours été déterminant dans ce conflit. Que nous dit leur position aujourd’hui ? 

    La question de Palestine est en même temps une question intérieure pour les pays occidentaux du fait de l’histoire de la Shoah et de la colonisation. Il s’y ajoute aux États-Unis une dimension religieuse du fait du biblisme protestant et du « pionniérisme ». Les Palestiniens leur semblent être quelque part entre les Indiens et les Mexicains…

    La « République impériale » vient encore de montrer son impressionnante capacité de projection militaire dans la région, mais aussi son incapacité à obtenir un règlement politique satisfaisant.

    Pourquoi ce conflit déclenche-t-il autant de passions et clive-t-il autant dans le monde entier, où comme en France, le président appelle à « ne pas importer le conflit » ?

    C’est un conflit gorgé d’histoire. La Terre sainte est celle des trois religions monothéistes. Le conflit lui-même porte avec lui la mémoire de la Shoah et de la colonisation, d’où l’extraordinaire position d’exceptionnalité des acteurs.

    Vous avez écrit cinq tomes sur la question de Palestine. Après l’ultime « La Paix impossible », quel pourrait être le sixième ?
     
    Peut-être le retour de la question juive, mais c’est loin d’être une perspective encourageante.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/191123/henry-laurens-est-sur-la-voie-d-un-processus-de-destruction-de-masse-gaza

    #discours_génocidaire #religion (s) #sionisme

  • [Les Promesses de l’Aube] La B.O.U.M: #bibliothèque anarchiste
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/la-boum-bibliotheque-anarchiste

    Ce mercredi on a parlé de la B.O.U.M, la bibliothèque anarchiste qui a sa permanence au #boom café tous les jeudis.

    On a discuté anarchie, rencontre et échanges, bibliothèque, on a écouté des lectures de textes de Voltairine De Cleyre et Marianne Enckell et on a écouté du René Binamé :-)

    L’entretien avec Sam, Bastien et Zoé commence à 1h18 dans le podcast ci-dessous.

    Playlist :

    One too many mornings - Cat Power The Suffering - Bel Canto Preciso me encontrar - Elza Soares, Negra Li Baby Brother - Mattiel Your Ancestor - Nynke Laverman Ca sent pas la bonne nouvelle - Monsieur Lune Universal Guide - Dumbo Gets Mad Keeping Secrets Will Destroy You - Bonnie Prince Billy Mother’s little helper - René Binamé Kestufé du wéékend - René Binamé La vie s’écoule - René Binamé La Zablière - Les Enfants (...)

    #anarchisme #collectifs #anarchisme,bibliothèque,collectifs,boom
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/la-boum-bibliotheque-anarchiste_16854__1.mp3

  • #Gaza, les hantises du #génocide

    S’il faut être prudent sur la #qualification définitive de génocide, et qu’il faut être conscients que ce terme, malgré les détournements, est avant tout juridique et non pas politique, une question doit se poser aujourd’hui : « assistons-nous à un nouveau génocide ? »

    Le 16 novembre 2023, 33 experts onusiens ont signé une déclaration appelant à une réaction internationale urgente et évoquant que « les graves violations commises par Israël contre les Palestiniens au lendemain du 7 octobre, notamment à Gaza, laissent présager un génocide en devenir ». Cette position de l’#ONU sur la question d’un génocide n’est pas inédite.

    Le 2 novembre, le rapporteur spécial sur les territoires palestiniens occupés alertait déjà sur le risque de génocide. Si le mot n’est plus tabou pour qualifier ce que subit la population de Gaza, sa #définition_juridique internationale (fixée par la #Convention_sur_le_génocide et par le #Statut_de_Rome sur la CPI) commande une certaine prudence. Malgré cela, la question d’un génocide à Gaza se pose avec gravité et acuité eu égard aux circonstances de l’offensive militaire israélienne à Gaza.

    La notion de génocide est une #catégorie_juridique complexe qui a évolué au fil du temps pour devenir l’un des #crimes les plus graves de nos ordres juridiques. Il est imprescriptible et plusieurs États se reconnaissent une compétence universelle pour instruire et juger de tels agissements.

    Ce concept a, évidemment, des origines historiques importantes. En combinant les mots grec « genos » (peuple) et latin « cide » (tuer), le juriste polonais #Raphael_Lemkin en 1944 a voulu décrire et caractériser les atrocités commises pendant la Seconde guerre mondiale, en particulier l’Holocauste, qui a vu l’extermination systématique de millions de Juifs par le régime nazi. #Lemkin a plaidé pour la reconnaissance légale de ces crimes et a joué un rôle clé dans l’élaboration de la Convention pour la prévention et la répression du crime de génocide, adoptée par les Nations Unies en 1948.

    Cette Convention, communément appelée la « Convention sur le génocide », est l’instrument juridique principal qui définit le génocide dans le #droit ^_international en définissant en son article 2 le génocide comme : « Tout acte commis dans l’intention de détruire, en tout ou en partie, un groupe national, ethnique, racial ou religieux, en tant que tel. ».

    De cette définition ressortent plusieurs éléments clefs : la question des actes commis, du groupe spécifiquement visé et celui de l’#intention_génocidaire. Au regard des destructions, des bombardements nourris et aveugles notamment sur des camps de réfugiés, sur des écoles gérées par l’ONU servant d’abris aux civils, sur les routes censées être sûres pour permettre aux populations civiles de fuir, mais aussi de ce ratio calculé par des observateurs selon lesquels pour un membre du Hamas tué il y aurait 10 civils massacrés, il apparaît que les premiers critères de la définition sont potentiellement remplis.

    Reste la question décisive de l’intention génocidaire. Celle-ci suppose l’identification de textes, d’ordres, d’actes et de pratiques… En l’état, une série de déclarations d’officiels israéliens interpellent tant elles traduisent une déshumanisation des Palestiniens. Le 19 novembre, point d’orgue d’une fuite en avant en termes de déclarations, l’ancien général et dirigeant du Conseil de Sécurité National israélien, #Giora_Eiland, a publié une tribune dans laquelle il appelle à massacrer davantage les civils à Gaza pour faciliter la victoire d’Israël.

    Avant cela et suite à l’attaque du 7 octobre, le ministre israélien de la Défense, #Yoav_Galant, avait déclaré : « Nous imposons un siège complet à Gaza. Pas d’électricité, pas d’eau, pas de gaz, tout est fermé […] Nous combattons des #animaux_humains et nous agissons en conséquence ».

    Dans une logique similaire, le Premier ministre #Benjamin_Netanyahu a opposé « le peuple des lumières » à celui « des ténèbres », une dichotomie bien connue dans la rhétorique génocidaire. Récemment, le ministre israélien du patrimoine a déclaré : « Le nord de Gaza est plus beau que jamais. Nous bombardons et aplatissons tout (....) au lendemain de la guerre, nous devrions donner des terres de Gaza aux soldats et aux expulsés de Gush Katif ».

    Enfin, en direct à la radio, le même #Amichay_Eliyahu a déclaré qu’il n’était pas entièrement satisfait de l’ampleur des représailles israéliennes et que le largage d’une bombe nucléaire « sur toute la #bande_de_Gaza, la raser et tuer tout le monde » était « une option ». Depuis, il a été suspendu, mais sans être démis de ses fonctions …

    Au-delà de ces déclarations politiques, il faut apprécier la nature des actes commis. Si un « plan » génocidaire en tant que tel n’est pas exigé pour qualifier de génocidaire, une certaine #organisation et ‎une #préparation demeurent nécessaires. Une politique de #colonisation par exemple, le harcèlement criminel quotidien, la #détention_arbitraire de Palestiniens, y compris mineurs, peuvent laisser entendre la mise en place de ce mécanisme.

    La Cour pénale internationale a d’ailleurs déjà ouvert des enquêtes sur ces faits-là avec des investigations qui ne progressent cependant pas notamment car Israël conteste à la Cour – dont il n’est pas membre – toute compétence. Actuellement, les pénuries impactant notamment des hôpitaux, le refus ou la limitation de l’accès de l’aide humanitaire et évidemment les #bombardements_indiscriminés, sont autant d’éléments susceptibles de matérialiser une intention génocidaire.

    Un positionnement politique pour une caractérisation juridique

    Le silence de nombreux pays est assourdissant face à la situation à Gaza. Il suffit de lire le communiqué du Quai d’Orsay sur le bombardement du camp de réfugiés Jabaliya : « La France est profondément inquiète du très lourd bilan pour les populations civiles palestiniennes des frappes israéliennes contre le camp de Jabaliya et exprime sa compassion à l’égard des victimes ».

    Aucune condamnation et, évidemment, aucune mention de la notion de génocide ni même de #crimes_de_guerre ou de #crime_contre_l’Humanité. Cela s’explique en partie par le fait que la reconnaissance du génocide a d’importantes implications juridiques. Les États signataires de la Convention sur le génocide sont tenus de prévenir et de réprimer le génocide sur leur territoire, ainsi que de coopérer entre Etats ainsi qu’avec la Cour pénale internationale pour poursuivre et punir les auteurs présumés de génocide.

    Ainsi, si un État reconnaît la volonté génocidaire d’Israël, il serait de son devoir d’intervenir pour empêcher le massacre. À défaut d’appel à un #cessez-le-feu, le rappel au respect du droit international et l’exigence de « pauses humanitaires » voire un cessez-le-feu par les Etats-Unis ou la France peuvent aussi s’interpréter comme une prévention contre une éventuelle accusation de complicité…

    S’il faut être prudent sur la qualification définitive de génocide, et qu’il faut être conscients que ce terme, malgré les détournements, est avant tout juridique et non pas politique, une question doit se poser aujourd’hui, « assistons-nous à un nouveau génocide ? » et si la réponse est « peut-être », alors il est du devoir des États signataires de la Convention de prévention des génocides de tout faire pour empêcher que le pire advienne.

    https://blogs.mediapart.fr/collectif-chronik/blog/221123/gaza-les-hantises-du-genocide
    #mots #vocabulaire #terminologie #Israël #7_octobre_2023

  • ★ Libertaires contre toutes les guerres - Le Libertaire GLJD

    La guerre qui oppose au Moyen-Orient un gouvernement israélien d’extrême-droite et le Hamas qui aspire à créer une dictature théocratique, a déjà fait plus de 12 000 morts à ce jour. Les colons israéliens s’en donnent aujourd’hui à cœur joie en Cisjordanie et étendent leur colonisation en tuant au passage de nombreux Palestiniens. A Gaza, l’armée israélienne bombardent et tuent des milliers de civils en réponse aux agissements criminels et terroristes du Hamas le 7 octobre dernier. Si les anarchistes sont toujours du côté des opprimés, de toutes les victimes civiles, des résistants à toutes les guerres, ils ne peuvent éluder un problème récurrent, notamment celui de la Palestine depuis l’après Seconde Guerre mondiale. A ce titre, il nous paraît intéressant d’étudier une alternative à la situation actuelle en proposant à nos lecteurs un texte tiré du site « Kurdistan au féminin » (...)

    #Anarchisme #Paix #Liberté #Justice #anticléricalisme #antimilitarisme #émancipation #internationalisme
    #Palestine #Gaza #Cisjordanie #hamas #Israël #haine #massacre #bombardements #destruction #morts #nationalisme #colonialisme #racisme #antisémitisme...

    https://le-libertaire.net/libertaires-contre-toutes-les-guerres

    https://le-libertaire.net/anarchistes-pour-la-paix

    https://le-libertaire.net/palestine-israel-pour-un-reel-processus-de-paix

  • ★ GUERRE ASYMÉTRIQUE... - Socialisme libertaire

    Les guerres coloniales ont été couronnées de succès pendant plusieurs siècles. La supériorité de l’armement ne suffit pas, à elle seule, à l’expliquer. Sinon, pourquoi aujourd’hui n’en irait-il pas de même ? La guerre en milieu colonial ou post-colonial est une guerre asymétrique, opposant un « fort » et un « faible ». C’est une « guerre irrégulière », et non une « guerre frontale classique ». Gérard Chaliand, dans “ Pourquoi perd-on la guerre ? ” présente, sur la base d’un argumentaire solide, un point de vue quelque peu iconoclaste, dont l’intérêt est d’ouvrir la discussion sur des sujets qui, habituellement, font l’objet d’un fort « manque-à-penser ». Nous reprenons ici quelques unes des grandes lignes qu’il développe, sachant que deux pages ne sauraient suffire à résumer cet ouvrage. Les lecteurs intéressés sont donc invités à s’y reporter. Comme toujours, nous rappelons que la recension d’un ouvrage dans nos colonnes est faite sur la base de l’intérêt qu’il présente pour le débat d’idées – que nous espérons bien poursuivre sous une forme ou une autre – et non d’une adhésion à l’ensemble des propos tenus (...)

    #guerre_asymétrique #guerres #colonialisme

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/11/guerre-asymetrique.html

  • ★ Ⓐ Arrêtons le massacre à Gaza ! - Le Libertaire GLJD

    Les informations à grand spectacle véhiculées par les médias sentent souvent la manipulation. On entend à bas bruits des appels à la haine raciale et on ne peut que s’inquiéter des conséquences irrationnelles de ces appels. L’opinion de la rue indispose les gouvernements au point que ces derniers essaient de la marginaliser voire carrément de l’interdire sous couvert de désordres. Mais le désordre est déjà là avec l’horreur et le cynisme de la guerre. L’opinion ne peut cautionner l’absurde et les tragédies car c’est bien de souffrances et de morts dont il s’agit.
    L’intolérable de l’action du Hamas le 7 octobre 2023 ne peut faire oublier la responsabilité qui incombe au gouvernement israélien dans la relégation du peuple palestinien au sein d’une prison à ciel ouvert. Aujourd’hui, après le déclenchement du énième conflit à Gaza, nous ne pouvons que dénoncer une logique de guerre qui plonge ses racines dans l’après Seconde Guerre mondiale. Le système capitaliste a besoin de guerres pour se refaire une santé économique : les ventes d’armes décollent et les usines d’armement tournent à plein régime (...)

    #Gaza #guerre #massacre #bombardements #colonialisme #capitalisme #militarisme #nationalisme
    #anarchisme #antiguerre #anticapitalisme #antimilitarisme #internationalisme...

    https://le-libertaire.net/arretons-le-massacre-a-gaza

  • Le Manifeste de l’O.J.A.M (1962)

    Placardé en Martinique les 23 et 24 décembre 1962

    En décembre 1959, 3 fils de la Martinique, BETZI, MARAJO, ROSILE, tombaient victimes des coups du colonialisme français. Ce sacrifice montra à la jeunesse de notre pays la voie de l’émancipation, de la fierté, de la dignité.

    Depuis, notre peuple, si longtemps plongé dans les ténèbres de l’histoire, offre une résistance de plus en plus grande à l’oppression coloniale. Mais le colonialisme français, suivant ses intérêts, accentue chaque jour son potentiel répressif, voulant ainsi maintenir notre peuple sous le joug colonial.

    Aujourd’hui l’Organisation de la Jeunesse Anticolonialiste de la Martinique déclare :

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2019/05/23/le-manifeste-de-lo-j-a-m-1962

    #international #martinique #colonisation

  • Extraordinaire #déni

    The Extreme Ambitions of West Bank Settlers | The New Yorker
    https://www.newyorker.com/news/q-and-a/the-extreme-ambitions-of-west-bank-settlers

    [Questions/réponses]

    In a lot of these places where settlements have been developed, from 1967 to the present day, there have been Palestinian communities and Palestinian families. What is your feeling about where these people should go?

    It’s the opposite. None of the communities in Judea and Samaria are founded on an Arab place or property, and whoever says this is a liar. I wonder why you said it. Why did you say that, since you have no idea about the real facts of history? That’s not true. The opposite is true. Who got this idea into your mind?

    Palestinian communities have been removed from their land, kicked off their land by—

    No, you never read things like that. No. There are no pictures. [ According to a report by Btselem, an Israeli human-rights group, parts of Kedumim, where Weiss lives, were built on private Palestinian land; in 2006, Peace Now found that privately owned Palestinian land comprised nearly forty per cent of the territory of West Bank settlements and outposts. ]

  • ★ ISRAËL, PALESTINE, FINISSONS EN ! - Socialisme libertaire

    Les médias internationaux et les politiciens de divers camps politiques ont tous des positions diverses et variées au sujet de la guerre actuelle entre l’État d’Israël et la bande de Gaza (proto-État ou État, dans la pratique, ça fait peu de différence).
    Soyons clairs ! S’il s’agit de conflits entre États, alors ce n’est pas notre problème. Si les États pouvaient tous s’autodétruire, ce serait une très bonne chose. Sauf que ce n’est jamais de ça qu’il s’agit : les guerres entre États, c’est avant tout un projet avec et contre les populations. C’est aussi la guerre des capitalistes avec et contre les travailleurs. Ils se servent de nous contre nous. Notre ignorance est leur force.
    Les populations, travailleurs et travailleuses de Gaza et d’Israël sont soumis, comme ailleurs, à l’exploitation capitaliste et à la domination de ces États.
    Nous, on veut annihiler le capital et les États, et non les perpétuer avec des solutions capitalistes ou Étatistes. La solution à ces problèmes est sociale (...)

    #anarchisme #Palestine #Cisjordanie #Gaza #Israël #colonialisme #capitalisme #conflit #guerre #nationalisme #théisme #étatisme #militarisme #antimilitarisme #anticléricalisme #anticapitalisme #internationalisme #Paix

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/11/israel-palestine-finissons-en.html

  • Assemblée Générale de l’ONU
    Commission des questions politiques spéciales et de la décolonisation
    (Quatrième Commission)
    78ème session – 3-6 octobre 2023

    (Pétition du Comité belge de soutien eu peuple sahraoui – EUCOCO)
    Monsieur le Président, Mesdames et Messieurs,

    L’EUCOCO est une organisation réunissant des associations de Droits de l’Homme, des syndicats, des juristes de Droit Internationales, des chercheurs universitaires, des ONGs et les Comités de soutien au peuple sahraoui émanant d’une quarantaine d’États en Europe.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/10/26/communique-de-presse-de-la-delegation-eucoco-a-new-york/#comment-59376

    #international #sahraoui #colonisation

  • « Plus haute #ZAD d’Europe » : faut-il encore aménager les #glaciers alpins ?

    Du 8 au 10 novembre, la France accueille le #One_Planet#Polar_Summit, premier sommet international consacré aux glaciers et aux pôles, pour appeler à une mobilisation exceptionnelle et concertée de la communauté internationale. Dans les #Alpes, les projets d’aménagements des glaciers à des fins touristiques ou sportives sont pourtant toujours en cours malgré leur disparition annoncée. C’est le cas par exemple dans le massif des Écrins (#Hautes-Alpes), sur le glacier de la #Girose où il est prévu d’implanter depuis 2017 le troisième tronçon du téléphérique de la #Grave.

    Du 7 au 13 octobre dernier, les #Soulèvements_de_la_Terre (#SLT) ont occupé le chantier afin d’en bloquer les travaux préparatoires. Ce nouvel aménagement a pour objectif de prolonger les deux tronçons existant, qui permettent depuis 1978 d’accéder au #col_des_Ruillans à 3 221 mètres et ainsi rallier à terme le #Dôme_de_La_Lauze à 3559 mètres. Porté par la #Société_d’aménagement_touristique_de_la_Grave (#SATG) et la municipalité, ce projet est estimé à 12 millions d’euros, investissement dont le bien fondé divise les habitants de #La_Grave depuis cinq ans.

    En jeu derrière ces désaccords, la direction à donner à la transition touristique face au changement climatique : renforcement ou bifurcation du modèle socio-économique existant en montagne ?

    Une #occupation surprise du glacier

    Partis du village de La Grave à 1 400 mètres dans la nuit du 6 au 7 octobre, une quinzaine de militants des SLT ont gravi 2 000 mètres de dénivelé avec des sacs à dos de 15 à 20 kg. Au terme de 12 heures d’ascension, ils ont atteint le haut d’un rognon rocheux émergeant du glacier de la Girose où doit être implanté un pylône du nouveau téléphérique. Ils y ont installé leur camp de base dans l’après-midi, avant d’annoncer sur les réseaux sociaux la création de « la plus haute zone à défendre (ZAD) d’Europe ».

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    Par cette mobilisation surprise, les SLT ont montré qu’ils pouvaient être présents sur des terrains où ils ne sont pas forcément attendus et que pour cela :

    - ils disposent de ressources logistiques permettant d’envisager une mobilisation de type occupationnelle de plusieurs jours à 3 400 mètres d’altitude

    - ils maîtrisent les techniques d’alpinisme et l’engagement physique qu’implique la haute montagne.

    Sur le glacier de la Girose, les conditions de vie imposées par le milieu n’ont en effet rien à voir avec celles des autres ZAD en France, y compris celles de La Clusaz (en novembre 2021 et octobre 2022), premières du type en montagne, dans le bois de la Colombière à 1 400 mètres d’altitude. Au cours de la semaine d’occupation, les températures étaient toutefois clémentes, oscillant entre -7° à 10 °C, du fait d’un automne anormalement chaud.
    Une communication bien rodée

    Très rapidement, cette occupation du glacier a donné un coup de projecteur national sur ce projet controversé d’aménagement local. Dès son annonce publique, les articles se sont succédés dans les médias nationaux à partir des éléments de communication (photographies, vidéos, communiqués de presse, live sur les réseaux sociaux) fournis par les SLT depuis le glacier de la Girose. Les militants présents disposaient en effet des compétences et du matériel nécessaires pour produire des contenus professionnels à 3400 mètres. Ils ont ainsi accordé une attention particulière à la mise en scène médiatique et à sa dimension esthétique.

    Bien qu’inédite par sa forme ainsi que les lieux et les moyens mobilisés, cette mobilisation s’inscrit dans une grammaire politique partagée faisant référence au bien commun ainsi qu’aux imaginaires et narratifs habituels des SLT, qu’elle actualise à partir de cette expérience en haute montagne. Elle est visible dans les stratégies de communication mobilisées : les références à la ZAD, à la stratégie du désarmement, l’apparition masquée des militants, les slogans tels que la « lutte des glaces », « nous sommes les glaciers qui se défendent » et « ça presse mais la SATArde ». Une fois déployée, cette grammaire de la mobilisation est aisément reconnaissable par les publics, qu’ils y soient favorables ou non.
    Une plante protégée sur le chantier

    Cette occupation du glacier a été imaginée dans l’urgence en quelques jours par les SLT pour répondre au début des travaux préliminaires entrepris par la SATG quelques jours auparavant. Son objectif était de stopper ces derniers suite à la décision du tribunal administratif de Marseille de rejeter, le 5 octobre, un référé liberté demandant leurs interruptions d’urgence. Déposé le 20 septembre par les associations locales et environnementales, ce dernier visait notamment à protéger l’androsace du Dauphiné présente sur le rognon rocheux.

    Cette plante protégée, dont la découverte formelle ne remonte qu’à 2021, a été identifiée le 11 juillet sur les lieux par deux scientifiques du Laboratoire d’écologie alpine (CNRS, Université Grenoble Alpes et Université Savoie Mont Blanc) et certifiée par l’Office français de la biodiversité (OFB). Leur rapport d’expertise écologique a été rendu public et remis aux autorités administratives le 18 juillet : il montre qu’il existe plusieurs spécimens de l’androsace du Dauphiné dans un rayon de moins de 50 mètres autour du projet d’implantation du pylône. Or, elle ne figure pas dans l’étude d’impact et le bureau d’étude qui l’a réalisée affirme l’avoir cherchée sans la trouver.

    Deux jours après le début de l’occupation, la SATG a demandé à la préfecture des Hautes-Alpes l’évacuation du campement des SLT afin de pouvoir reprendre au plus vite les travaux. Le 10 octobre, la gendarmerie s’est rendue sur le glacier pour notifier aux militants qu’un arrêté municipal interdisant le bivouac jusqu’au printemps avait été pris. Et que le campement était illégal, et donc passible de poursuites civiles et pénales.

    En réponse, un nouveau recours « référé-suspension » en justice a été déposé le lendemain par les associations locales et environnementales pour stopper les travaux… à nouveau rejeté le 30 octobre par le tribunal administratif de Marseille. Cette décision s’appuie sur l’avis de la Direction régionale de l’environnement, de l’aménagement et du logement (DREAL) et du préfet des Hautes-Alpes qui estiment que le risque d’atteinte à l’androsace du Dauphiné n’était pas suffisamment caractérisé. MW et LGA envisagent désormais de former un recours en cassation devant le Conseil d’État.

    Entre-temps, les SLT ont décidé de redescendre dans la vallée dès le 13 octobre, leur présence n’étant plus nécessaire pour empêcher le déroulement des travaux, puisque les conditions météorologiques rendent désormais leur reprise impossible avant le printemps 2024.

    https://twitter.com/lessoulevements/status/1712817279556084122

    Bien qu’illégale, cette occupation « à durée déterminée » du glacier pourrait permettre à la justice d’aboutir à un jugement de fond sur l’ensemble des points contestés par les associations locales et environnementales. En ce sens, cette occupation a permis de faire « gagner du temps » à Mountain Wilderness (MW) et à La Grave Autrement (LGA) engagées depuis cinq ans contre le projet. Leurs actions menées depuis le 3 avril dernier, date du permis de construire accordée par la mairie de la Grave à la SATG, n’ont jusqu’alors pas été en mesure d’empêcher le début des travaux… alors même que leurs recours juridiques sur le fond ne vont être étudiés par la justice que l’année prochaine et que les travaux auraient pu avoir lieu en amont.

    Cette mobilisation des SLT a aussi contraint les promoteurs du projet à sortir du silence et à prendre position publiquement. Ils ont ainsi dénoncé « quatorze hurluberlus qui ne font rien de leur vie et entravent ceux qui travaillent », ce à quoi la presse montagne a répondu « les glaciers disent merci aux hurluberlus ».
    Sanctuarisation et manque de « cohérence »

    En Europe, cette mobilisation des SLT en haute montagne est inédite dans l’histoire des contestations socio-environnementales du tourisme, et plus largement dans celles des mouvements sociaux. Cela lui confère une forte dimension symbolique, en même temps que le devenir des glaciers est lui-même devenu un symbole du changement climatique et que leur artificialisation à des fins touristiques ou sportives suscite de plus en plus de critiques dans les Alpes. Dernier exemple en date, le creusement d’une piste de ski dans un glacier suisse à l’aide de pelles mécaniques afin de permettre la tenue d’une épreuve de la coupe du monde de ski.

    Une telle situation où un engin de travaux publics brise de la glace pour l’aplanir et rendre possible la pratique du ski alpin a déjà été observée à la Grave en septembre 2020. L’objectif était alors de faire fonctionner le vieux téléski du glacier de la Girose, que le troisième tronçon du téléphérique entend remplacer à terme… sauf que l’objectif de ce dernier est d’accroître le nombre de skieurs alpins sur un glacier qui subit de plein fouet le réchauffement climatique, ce qui impliquera ensuite la mise en place d’une sécurisation des crevasses à l’aide de pelleteuses. Dans ce contexte, la question que pose la mobilisation des SLT peut donc se reformuler ainsi : ne faut-il pas désormais laisser le glacier de la Girose libre de tout moyen de transport pour en faire un avant-poste de la transition touristique pour expérimenter une nouvelle approche de la montagne ?

    Cette question résonne avec la position du gouvernement français au One Planet Summit sur la nécessaire sanctuarisation des écosystèmes que représentent les glaciers… dont le projet d’aménagement du glacier de la Girose représente « quelques accrocs à la cohérence », reconnaît Christophe Béchu, ministre de la Transition écologique, du fait d’un dossier complexe.
    Un dialogue à rouvrir pour avancer

    Au lendemain de la fin de l’occupation du glacier par les SLT, le 14 octobre, une manifestation a été organisée à l’initiative des Enseignes de La Meije (association des commerçants de la Grave) pour défendre l’aménagement du troisième tronçon du téléphérique. Pour eux, comme pour la SATG et la municipalité, l’existence de la station est en péril sans celui-ci, ce que conteste LGA dans son analyse des retombées économiques sur le territoire. Le bureau des guides de la Grave est lui aussi divisé sur le sujet. Le débat ne se résume donc pas à une opposition entre les amoureux du glacier, là-haut, et ceux du business, en bas ; entre ceux qui vivent sur le territoire à l’année et les autres qui n’y sont que quelques jours par an ; entre des « hurluberlus qui ne font rien de leur vie » et ceux qui travaillent, etc.

    Comme partout en montagne, le débat à la Grave est plus complexe qu’il n’y paraît et appelle à rouvrir le dialogue si l’on prend au sérieux l’inévitable bifurcation du modèle de développement montagnard face aux effets du changement climatique. Considérer qu’il n’y a pas aujourd’hui deux montagnes irréconciliables n’implique pas d’être d’accord sur tout avec tout le monde en amont. Les désaccords peuvent être féconds pour imaginer le devenir du territoire sans que l’artificialisation du glacier soit l’unique solution pour vivre et habiter à La Grave.

    Si les travaux du troisième tronçon du #téléphérique étaient amenés à reprendre au printemps prochain, les SLT ont d’ores et déjà annoncé qu’ils reviendront occuper le glacier de la Girose.

    https://theconversation.com/plus-haute-zad-deurope-faut-il-encore-amenager-les-glaciers-alpins-
    #tourisme #aménagement_du_territoire #résistance

    • Écologie : dans un village des Hautes-Alpes, le #téléphérique de la discorde

      À La Grave, dans les Hautes-Alpes, des habitants se mobilisent contre la construction d’un téléphérique, vu comme un levier de #tourisme_de_masse. Éleveurs, mais aussi artisan ou guide de haute montagne, ils défendent un mode de vie alternatif et adapté à la crise climatique.

      Comme tous les matins d’hiver, Agathe Margheriti descend à ski, avec précaution, le sentier enneigé et pentu qui sépare sa maison de la route. Son sac à dos est chargé d’une précieuse cargaison : les œufs de ses 200 poules, qu’elle vend au porte-à-porte, une fois par semaine, aux habitant·es de la vallée de la Romanche. Chaque jour, elle descend la ponte du jour et la stocke dans des boîtes isothermes dans sa camionnette qui stationne en bord de route, au pied du chemin.

      Il y a six ans, cette jeune femme a fait un choix de vie radical. Avec son compagnon Aurélien Routens, un ancien snowboardeur professionnel, elle a acheté un hameau en ruine, le #Puy_Golèfre, dans le village de La Grave (Hautes-Alpes). « Pour 140 000 euros, c’est tout ce que nous avons trouvé à la portée de nos moyens. Il n’y a ni eau ni électricité, et il faut 20 minutes pour monter à pied depuis la route, mais regardez cette vue ! », montre Agathe, rayonnante.

      La petite maison de pierre retapée par le couple, orientée plein sud, chauffée au bois et dotée d’énergie solaire, offre un panorama époustouflant sur la face nord de la Meije, la plus impressionnante montagne des Alpes françaises, toute de glace et de roche, qui culmine à 3 983 mètres.

      Son sommet occupe une place à part dans l’histoire de l’alpinisme : il n’a été atteint qu’en 1877, un siècle après le mont Blanc. L’autre originalité du lieu, à laquelle Agathe et Aurélien tiennent tant, c’est que La Grave est le seul village d’Europe à être doté d’un téléphérique dont la gare d’arrivée, à 3 200 mètres d’altitude, débouche sur un domaine skiable sauvage. Ni piste damée ni canon à neige, mais des vallons de neige vierge aux pentes vertigineuses, paradis des snowboardeurs freeride qui font leurs traces dans la poudreuse.

      Ce paradis, Agathe et Aurélien veulent le préserver à tout prix. Avec une poignée d’amis du village, ils luttent depuis trois ans contre un projet qu’ils jugent aussi inutile qu’anachronique : la construction d’un troisième tronçon de téléphérique par son exploitant, le groupe #SATA, qui permettrait de monter jusqu’au #dôme_de_la_Lauze, à 3 559 mètres. Ce nouvel équipement, d’un coût de 14 millions d’euros (dont 4 millions d’argent public), permettrait de skier sur le #glacier de la #Girose, actuellement doté d’un #téléski vieillissant, dont l’accès est devenu problématique en raison du réchauffement climatique.

      Un téléphérique sur un glacier, alors que les Alpes se réchauffent deux fois plus vite que le reste de la planète et que les scientifiques alertent sur la disparition de la moitié des glaciers de montagne d’ici à 2100 ?

      Pour tenter d’empêcher la réalisation de ce projet fou, des habitant·es de la Grave, constitué·es dans le collectif #La_Grave_autrement, luttent sur deux fronts : judiciaire et médiatique. Deux recours ont été déposés devant le tribunal administratif pour contrer le projet de la SATA, un groupe qui exploite aussi les domaines skiables de l’Alpe d’Huez et des Deux-Alpes, emploie 800 personnes et réalise un chiffre d’affaires de 80 millions d’euros. Les jugements au fond n’interviendront pas avant le printemps 2024… Trop tard, peut-être, pour empêcher le démarrage des travaux.

      Alors, parallèlement, des militant·es se sont activé·es sur le terrain : en octobre, l’association #Mountain_Wilderness a déployé une banderole sur le glacier, puis #Les_Soulèvements_de_la_Terre ont symboliquement planté leurs tentes sur le rognon rocheux situé au milieu du glacier, sur lequel doit être édifié le pylône du téléphérique et où des botanistes ont découvert une plante rare et protégée, l’#androsace_du_Dauphiné.

      Enfin, en novembre, des habitant·es de La Grave, accompagné·es de la glaciologue Heidi Sevestre, ont symboliquement apporté un gros morceau de glace de la Girose à Paris, le jour de l’ouverture du One Planet-Polar Summit, et interpellé le gouvernement sur l’urgence de protéger les glaciers.

      Depuis, la neige est tombée en abondance sur la Meije et dans la vallée. À La Grave et dans le village voisin de Villar d’Arène, les opposant·es au projet prouvent, dans leur vie quotidienne, qu’une #alternative au tout-ski est possible et que la vallée peut se réinventer sans porter atteinte à ce milieu montagnard si menacé.

      Thierry Favre, porte-parole de La Grave autrement, vit dans une ancienne bergerie, au cœur du hameau des Hières, à 1 800 mètres d’altitude, qu’il a achetée il y a trente ans, après être tombé amoureux du site pour la qualité de sa neige et la verticalité de ses pentes. Après avoir travaillé dans l’industrie de la soierie à Lyon et à Florence, il a fondé ici sa propre entreprise de création d’étoffes, #Legend’Enhaut, qui fabrique des tissus haut de gamme pour des décorateurs. « Nous sommes bien situés, sur un grand axe de circulation entre Grenoble et Briançon. Nous avons l’immense chance de ne pas avoir vu notre cadre de vie massacré par les ensembles immobiliers qui défigurent les grandes stations de ski des Alpes. Mais il faut être vigilants. La Grave compte déjà 75 % de #résidences_secondaires. Et le projet de nouveau téléphérique s’accompagnera inévitablement de la construction d’une résidence de tourisme. Il y a urgence à proposer un autre modèle pour l’avenir. »

      À 60 ans, Thierry Favre s’applique à lui-même ce souci de sobriété dans son activité professionnelle. « Mon entreprise marchait bien mais j’ai volontairement mis le pied sur le frein. Je n’ai conservé que deux salariés et deux collaborateurs extérieurs, pour préserver ma qualité de vie et garder du temps pour militer. »

      À deux kilomètres de là, à la ferme de Molières, Céline Gaillard partage la même philosophie. Après avoir travaillé à l’office du tourisme de Serre-Chevalier et à celui de La Grave, cette mère de deux enfants s’est reconvertie dans l’élevage de chèvres. Elle et son mari Martin, moniteur de ski trois mois par an, exploitent un troupeau de 50 chèvres et fabriquent des fromages qu’ils vendent sur place. Pendant les six mois d’hiver, les bêtes vivent dans une vaste chèvrerie, où elles ont de l’espace pour bouger, et en été, elles paissent sur les alpages voisins. « Je ne veux pas en avoir plus de cinquante, par souci du bien-être animal. Nous pourrions produire plus de fromages, car la demande est forte. Mais le travail saisonnier de Martin nous apporte un complément de revenus qui nous suffit. »

      Avec les œufs de ses poules, Agathe fait le même constat : « Je pourrais en vendre dix fois plus. L’an dernier, nous avons planté de l’ail et des framboisiers : nous avons tout vendu très vite. Ce serait bien que d’autres éleveurs s’installent. Si nous avions une production locale plus fournie, nous pourrions ouvrir une épicerie coopérative au village. »

      Contrairement à Agathe qui milite dans le collectif La Grave autrement, Céline, la chevrière, ne s’oppose pas ouvertement au nouveau téléphérique. Mais elle n’est « pas d’accord pour se taire » : « Nous n’avons pas pu avoir un vrai débat sur le projet. Il faudrait un moratoire, le temps d’échanger avec la population. Je ne comprends pas cette volonté d’exploiter la montagne jusqu’à son dernier souffle. »

      Céline et Martin Gaillard ne sont pas seuls à pratiquer l’élevage autrement dans le village. Au hameau des #Cours, à #Villar_d’Arène, un autre jeune couple, originaire de l’ouest de la France, s’est installé en 2019. Sylvain et Julie Protière, parents d’un enfant de 4 ans, ont repris la ferme du Lautaret, dans laquelle ils élèvent 35 vaches d’Herens, une race alpine particulièrement adaptée à la rudesse du climat montagnard.

      Alors que la plupart des fermiers traditionnels de La Grave et de Villar d’Arène élèvent des génisses qu’ils revendent à l’âge de 3 ans et n’exploitent donc pas le lait, Sylvain et Julie traient leurs vaches et fabriquent le fromage à la ferme. Cela leur procure un meilleur revenu et leur permet de fournir en fromage les consommatrices et consommateurs locaux. « Nous vendons toute notre production aux restaurants, refuges et gîtes dans un rayon de 5 kilomètres, et nous n’en avons pas assez pour satisfaire la demande », témoigne Sylvain.

      À mesure que le combat des opposants et opposantes au nouveau téléphérique se médiatise et se radicalise, les tensions s’avivent au sein de la communauté villageoise. Les partisans du téléphérique accusent les opposants de vouloir la mort de l’économie de la vallée. Selon eux, sans le troisième tronçon, le téléphérique actuel n’est plus viable.

      Aucun·e des opposant·es que Mediapart a rencontré·es, pourtant, ne souhaite l’arrêt des remontées mécaniques. Benjamin Ribeyre, guide de haute montagne et cofondateur du collectif La Grave autrement, pense au contraire que l’actuel téléphérique pourrait servir de base à un développement touristique tourné vers la transition écologique. « L’actuelle plateforme d’arrivée, à 3 200 mètres, permet un accès facile au glacier de la Girose. C’est unique en France, bien mieux que la gare du Montenvers de Chamonix, d’où l’on ne voit de la mer de glace que des moraines grises. Ici, grâce au téléphérique, nous pourrions proposer des sorties d’éducation au climat, en particulier pour les enfants des écoles. Le réchauffement climatique bouleverse notre activité de guides de haute montagne. Nous devons d’urgence nous réinventer ! »

      Niels Martin, cofondateur de La Grave autrement, conteste, pour sa part, les calculs économiques des promoteurs du projet. Père de deux jeunes enfants, il partage sa vie entre La Grave et la Savoie, où il travaille dans une institution de la montagne. « Ce troisième tronçon n’est pas indispensable à la survie du téléphérique. Le fait que La Grave soit restée à l’écart des grands aménagements du plan neige des années 1970 doit devenir son principal attrait. » Au nom du collectif, Niels vient d’envoyer une lettre au préfet coordonnateur du massif des Alpes dans laquelle il propose que le village devienne en 2024 un site pilote des États généraux de la transition du tourisme en montagne, où se concoctent des solutions d’avenir pour faire face au réchauffement climatique dans les Alpes. Les Soulèvements de la Terre, eux, n’ont pas dit leur dernier mot. Dès la fonte des neiges, ils ont promis de remonter sur le glacier de la Girose.

      https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/251223/ecologie-dans-un-village-des-hautes-alpes-le-telepherique-de-la-discorde

    • #Guillaume_Gontard : Glacier de la #Girose - La #Grave :

      J’ai interrogé le ministre @Ecologie_Gouv sur l’avenir du glacier de la #Girose dans les #Alpes.
      Ce lieu unique est menacé par un projet de prolongation d’un téléphérique permettant de skier sur un glacier dont les jours sont comptés.

      https://twitter.com/GuillaumGontard/status/1740306452957348349