• Soigner, séparer, précariser : notre rapport d’observation sur les évacuations sanitaires entre Mayotte et La Réunion

    Avec son rapport inédit sur les évacuations sanitaires depuis Mayotte vers La Réunion, La Cimade documente une procédure médicale qui vient percuter les droits des personnes étrangères et révèle une véritable confusion entre contrôle migratoire et politiques de soin.

    Les évacuations sanitaires, dites Evasan, permettent le transfert médicalisé de personnes vers une hospitalisation adaptée lorsque l’offre de soins est insuffisante dans le territoire où vit le ou la patiente. Depuis Mayotte, elles ont concerné près de 1500 personnes en 2021, dont 51% de personnes étrangères et environ un tiers d’enfants. La plupart ont été évacuées vers La Réunion. Opaque et mal connue du grand public, cette procédure médicale fait l’objet de nombreux fantasmes. Elle alimente des peurs de « filière d’immigration sanitaire » depuis Mayotte (et donc, indirectement, depuis les Comores) en total décalage avec la réalité : le départ pour La Réunion est souvent vécu comme un déchirement et 97% des personnes retournent à Mayotte après l’Evasan.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/14/soigner-separer-precariser-notre-rapport-dobse

    #santé #colonisation #reunion #mayotte

  • Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • Time of israel Qui sont les 4 résidents d’implantations extrémistes sanctionnés par Washington ?

    Ces ultra-radicaux sont accusés d’attaques contre les Palestiniens, d’avoir mené l’émeute de Huwara, d’avoir harcelé des villageois et d’avoir frappé des activistes.

    La semaine dernière, le président américain Joe Biden a pris des sanctions à l’encontre de quatre Israéliens condamnés, inculpés ou soupçonnés d’avoir perpétré des attaques violentes contre des résidents palestiniens de Cisjordanie.


    Illustration : Des résidents d’implantations israéliens lançant des pierres sur des Palestiniens près de l’implantation israélienne d’Yitzhar, en Cisjordanie, le 7 octobre 2020. (Crédit : Nasser Ishtayeh/Flash90)

    Cette mesure, qui empêche les individus désignés d’accéder au système financier américain, est le fruit de la frustration de Washington face à ce que les Américains considèrent comme une incapacité de la part d’Israël à faire face à la violence des partisans du mouvement pro-implantation. Elle a aussi été prise dans le cadre des réactions négatives, de la part de certains membres du parti Démocrate, à l’égard de la position adoptée par Joe Biden sur le conflit à Gaza.

    Les quatre hommes ont été accusés de crimes violents contre des Palestiniens, mais seul David Chaï Chasdaï, le plus connu du groupe avec une série de condamnations remontant à plus de dix ans, a déjà purgé une peine.

    Comme Chasdaï, Yinon Levi est une figure connue des milieux activistes des résidents d’implantations radicaux mais s’il a été accusé à de multiples reprises de violence et de harcèlement à l’encontre de Palestiniens en Cisjordanie, il n’a jamais fait l’objet de poursuites.


    David Chaï Chasdaï comparaîssant lors d’une audience au tribunal de Rishon Lezion, le 2 juillet 2013. (Crédit : Yossi Zeliger/FLASH90)

    La semaine dernière, le président américain Joe Biden a pris des sanctions à l’encontre de quatre Israéliens condamnés, inculpés ou soupçonnés d’avoir perpétré des attaques violentes contre des résidents palestiniens de Cisjordanie.

    Cette mesure, qui empêche les individus désignés d’accéder au système financier américain, est le fruit de la frustration de Washington face à ce que les Américains considèrent comme une incapacité de la part d’Israël à faire face à la violence des partisans du mouvement pro-implantation. Elle a aussi été prise dans le cadre des réactions négatives, de la part de certains membres du parti Démocrate, à l’égard de la position adoptée par Joe Biden sur le conflit à Gaza.

    Les quatre hommes ont été accusés de crimes violents contre des Palestiniens, mais seul David Chaï Chasdaï, le plus connu du groupe avec une série de condamnations remontant à plus de dix ans, a déjà purgé une peine.

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    Comme Chasdaï, Yinon Levi est une figure connue des milieux activistes des résidents d’implantations radicaux mais s’il a été accusé à de multiples reprises de violence et de harcèlement à l’encontre de Palestiniens en Cisjordanie, il n’a jamais fait l’objet de poursuites.
    David Chaï Chasdaï comparaîssant lors d’une audience au tribunal de Rishon Lezion, le 2 juillet 2013. (Crédit : Yossi Zeliger/FLASH90)

    Les deux autres personnes sanctionnées, Shalom Zicherman et Einan Tanjil, ont chacune été poursuivies, mais aucune n’a été condamnée.

    Les sanctions ont déjà commencé à être appliquées. Dimanche et lundi, il s’est avéré que les comptes bancaires israéliens de deux des quatre individus – ceux de Chasdaï et Levi – avaient été gelés en raison des exigences de mise en conformité financière auxquelles les banques israéliennes sont légalement tenues.

    Lors d’une réunion d’information organisée la semaine dernière avant l’annonce des sanctions, un haut fonctionnaire américain a déclaré que de multiples formes de preuves corroborantes étaient nécessaires pour qu’une personne soit sanctionnée, notamment des informations publiques, des documents judiciaires et des renseignements.

    David Chaï Chasdaï
    David Chaï Chasdaï, âgé de 29 ans et père de deux enfants, a un long passé criminel. Il a été arrêté à maintes reprises, a fait l’objet d’ordonnances restrictives de toutes sortes, a été inculpé et condamné. Il réside dans l’avant-poste de Givat Ronen, à l’extérieur de Naplouse, en Cisjordanie.

    À l’âge de 19 ans, Chasdaï, qui a grandi dans l’implantation de Beit El, près de Ramallah, avait déjà accumulé une longue liste d’arrestations, de mises en détention et de restrictions de ses déplacements en Cisjordanie car il était soupçonné de violences nationalistes.

    Dans un article publié en 2014 par le journal Makor Rishon, il était cité comme « la cible numéro 1 » de la police de Cisjordanie. Il était précisé qu’il était aussi une source d’inquiétude importante pour le département de l’agence de sécurité intérieure du Shin Bet chargé de la lutte contre la criminalité nationaliste juive.

    L’année dernière, Chasdaï a été arrêté et mis en accusation pour avoir participé, le 26 février, à un saccage dans la ville palestinienne de Huwara, dans le nord de la Cisjordanie, après qu’un terroriste eut tué deux jeunes frères israéliens qui traversaient la ville en voiture.


    Des résidents d’implantations regardant des voitures et des maisons qu’ils ont incendiées dans la ville de Huwara, en Cisjordanie, le 26 février 2023. (Crédit : Twitter ; utilisée conformément à l’article 27a de la loi sur le droit d’auteur)

    Chasdaï a été libéré de prison par le tribunal de Lod avec des conditions restrictives, mais peu de temps après, le ministre de la Défense Yoav Gallant a ordonné son retour en prison dans le cadre d’un ordre de détention administrative de trois mois, déclarant qu’il était soupçonné d’avoir été l’instigateur de ces actes « d’autodéfense ».

    Néanmoins, il n’a pas encore été inculpé pour cette émeute, qualifiée de pogrom par certains responsables israéliens.

    Chasdaï a fait l’objet d’au moins trois condamnations pénales, pour lesquelles il a purgé plusieurs mois de prison. Il a également été condamné à des peines de prison avec sursis et à des travaux d’intérêt général.

    En février 2013, il a été reconnu coupable de coups et blessures après avoir agressé deux chauffeurs de taxi arabes à l’extérieur d’une salle de réception à Jérusalem, où il assistait à un mariage.

    En avril 2015, il a été surpris avec deux autres suspects dans une voiture circulant dans le quartier juif de Jérusalem de Ramot, près du village palestinien de Beit Iksa, à 2h du matin, avec trois bouteilles d’essence, des allumettes, des gourdins en métal et en bois, et des bombes de peinture. Un an plus tard, il a été reconnu coupable d’avoir eu l’intention d’utiliser des substances dangereuses en violation de la loi.

    Et en décembre 2017, il a été reconnu coupable, dans le cadre d’une négociation de peine avec le tribunal de Jérusalem, d’avoir violé plusieurs ordonnances restrictives émises à son encontre par des commandants de l’armée israélienne, notamment des ordonnances lui interdisant de rencontrer certaines personnes et de quitter l’implantation où il vivait, et lui imposant un couvre-feu.

    Yinon Levi
    Yinon Levi est le fondateur de l’avant-poste illégal de la ferme de Meitarim, dans la région des collines du sud de Hébron, en Cisjordanie. Ce père de trois enfants, âgé de 31 ans, a été accusé à maintes reprises d’avoir mené des actions visant à attaquer physiquement et à harceler les communautés palestiniennes de la région.


    Nasser Nawaja, résident de Susya et activiste du village palestinien, à côté de trois bassins délibérément endommagés par des militaires lors d’un incident, le 16 octobre 2023. (Crédit : Jeremy Sharon)

    Plus de 1 000 Palestiniens vivant dans 15 communautés d’éleveurs de la zone C de la Cisjordanie, où Israël exerce un contrôle militaire et civil total, ont été déplacés en raison du harcèlement des résidents d’implantations depuis les atrocités commises par le groupe terroriste palestinien du Hamas, le 7 octobre, et depuis le déclenchement de la guerre à Gaza, a rapporté le Bureau de coordination des affaires humanitaires de l’ONU (OCHA). Le phénomène est particulièrement aigu dans les collines du sud de Hébron et dans la vallée du Jourdain.

    Levi est cité dans un recours qui a été déposé devant la Haute Cour de justice en novembre par l’organisation de défense des droits de l’Homme Haqel, qui demande que l’armée israélienne et la police protègent ces communautés. Les requérants accusent l’homme d’avoir dirigé et participé à plusieurs reprises à des attaques contre ces communautés, leurs habitants et leurs infrastructures.

    À la suite de l’assaut du Hamas commis le 7 octobre dans le sud d’Israël, l’armée israélienne a ordonné de faire des travaux à plusieurs endroits pour empêcher les habitants des villes palestiniennes d’accéder aux routes empruntées par les résidents d’implantations.

    Dans le village palestinien de Susiya, près de l’avant-poste de la ferme de Meitarim, les habitants affirment que Levi a conduit un tracteur pour effectuer des « opérations d’ingénierie » pour l’armée le 16 octobre. Selon leur récit, il a également utilisé le tracteur pour briser et endommager gravement trois citernes d’eau qui étaient utilisées par le village à des fins agricoles.

    l’armée israélienne israélienne a déclaré par la suite que ce travail avait « dépassé les limites » de la mission qui avait été donnée et que « des leçons avaient été tirées » de l’incident.

    Quelques jours plus tôt, selon le recours déposé, Levi a fait partie des 14 résidents d’implantations qui, accompagnés de deux soldats, se sont rendus dans le village palestinien de Zanuta, aujourd’hui abandonné. Certains d’entre eux ont commencé à frapper les habitants, ils ont brisé des panneaux solaires et ils ont détruit des véhicules, selon le recours.

    Les anciens habitants de Zanuta affirment que le 21 octobre, Levi et un homme en uniforme de l’armée israélienne, tous deux armés de fusils d’assaut M16, sont revenus dans le village et qu’ils ont commencé à entrer dans les maisons.

    Les deux hommes « ont commencé à crier, à insulter et à menacer les habitants… [en criant] ‘terroristes, vous devez tous mourir et partir d’ici’ », indique le recours.


    Le village palestinien de Zanutah abandonné par ses habitants à la suite d’une série d’attaques présumées et d’incidents de harcèlement par des résidents d’implantations extrémistes de la région, dans les collines du sud de Hébron en Cisjordanie, le 9 novembre 2023. (Crédit : Jeremy Sharon/Times of Israel)

    Le 25 octobre, une lettre a été envoyée à la police et à l’armée, dénonçant ces attaques – mais aucune mesure n’a été prise en conséquence. À la fin du mois d’octobre, les quelque 250 habitants du village ont quitté les lieux pour échapper au harcèlement.

    La Haute Cour a ordonné à la police et à l’armée de détailler les mesures qu’elles ont prises, y compris le lancement d’éventuelles enquêtes, à la suite de ces plaintes et d’autres, avant le 13 février.

    Dans une interview accordée à la chaîne publique israélienne Kan lundi, Levi a qualifié les accusations portées contre lui de « non-sens » et d’éléments, disant qu’elles entraient dans le cadre d’une « campagne d’allégations de violences qui seraient commises par les résidents d’implantations, une campagne lancée par les gauchistes et par les anarchistes qui viennent ici pour nous harceler ».

    Il a ajouté que depuis qu’il avait créé la ferme Meitarim, il avait essayé d’empêcher les Arabes « de s’emparer de cette région » et que ces efforts avaient « dérangé » les militants palestiniens des droits de l’Homme.

    Einan Tanjil
    Einan Tanjil, 21 ans, est principalement connu pour avoir participé à une attaque en 2021 contre des militants israéliens qui aidaient des Palestiniens à récolter des olives dans une oliveraie située entre le village palestinien de Surif et l’implantation de Bat Ayin, dans la région du Gush Etzion en Cisjordanie, au sud de Jérusalem.

    Tanjil réside officiellement à Kiryat Ekron, dans le centre d’Israël, mais il a passé beaucoup de temps dans des implantations et dans des avant-postes illégaux en Cisjordanie.

    Au cours de l’incident de 2021, une vingtaine d’Israéliens, dont Tanjil, ont commencé à jeter des pierres sur les militants et sur les cueilleurs d’olives palestiniens. Tanjil et un autre agresseur se sont ensuite approchés des militants et ils ont commencé à les frapper avec des gourdins en bois, blessant un activiste de longue date, Rabbi Arik Ascherman, et deux autres personnes.


    Le rabbin Arik Ascherman, militant palestinien de longue date, blessé après avoir été attaqué par Einan Tanjil et d’autres assaillants près de l’implantation de Bat Ayin, en Cisjordanie, le 12 novembre 2021. (Crédit : Shaï Kendler)

    Tanjil a été reconnu coupable d’agression et de lésions corporelles dans le cadre d’une négociation de peine, mais il n’a pas encore été condamné.

    Lors de l’audience qui a permis de déterminer la peine, Ascherman a demandé à la Cour de condamner Tanjil. Même s’il a souligné que ce dernier ne faisait pas figure de leader chez les radicaux qui harcèlent les agriculteurs palestiniens en Cisjordanie, il a déclaré qu’il devait être condamné à une peine aussi sévère que possible dans la mesure où il n’avait affiché ni regret, ni remords pour l’attaque.

    Shalom Zicherman
    Shalom Zicherman, 33 ans, réside à Mitzpe Yair, un petit avant-poste illégal situé dans la région des collines du sud de Hébron, en Cisjordanie.

    En juin 2022, il a été filmé en train de lancer des pierres sur les voitures de militants pacifistes israéliens et de journalistes palestiniens.

    L’une des militantes a été blessée au visage lorsqu’une pierre lancée par Zicherman a traversé la vitre de la voiture dans laquelle elle se trouvait.

    Zicherman a été inculpé pour avoir causé des blessures, pour agression et pour avoir délibérément endommagé un véhicule. Son procès est en cours.

    Source : https://fr.timesofisrael.com/qui-sont-les-4-residents-dimplantations-extremistes-sanctionnes-pa

    #israel #implantations #violence colons #Palestine #occupation #racisme #apartheid #sionisme #impunité

    • Time of israel Des extrémistes filmés lançant des pierres sur des Palestiniens en Cisjordanie

      Le groupe de défense des droits Yesh Din a rapporté deux incidents de violences d’extrémistes israéliens visant les habitants du village de Madama, au nord de la Cisjordanie.

      Le premier incident impliquait le coordinateur de la sécurité d’Yitzhar ainsi que plusieurs autres résidents d’implantations en uniforme identifiés par les Palestiniens comme les responsables des attaques précédentes. Les extrémistes se sont approchés d’un agriculteur palestinien travaillant ses terres sur un tracteur dans la zone B de Cisjordanie, où les civils israéliens n’ont pas le droit d’entrer. Les extrémistes ont arrêté l’agriculteur et lui ont demandé d’arrêter de travailler tout en le menaçant. Le fermier a décidé de retourner à Madama, mais a ensuite été bloqué par les extrémistes en uniforme.

      Un Palestinien conduisant un camion est ensuite arrivé sur les lieux pour aider l’agriculteur, ce qui a amené les extrémistes à ouvrir le feu en l’air et vers le tracteur, a déclaré Yesh Din, ajoutant que le véhicule avait été endommagé par des jets de pierres et des tirs.

      Peu de temps après, un groupe d’extrémistes est descendu d’Yitzhar en direction de Madama et a volé un bidon d’eau appartenant à un Palestinien local. Ils se sont ensuite couverts le visage et ont commencé à lancer des pierres sur les maisons du village. Au cours de l’attaque, les extrémistes en uniforme ont ouvert le feu à plusieurs reprises sur les habitants qui tentaient d’aider ceux dont les maisons étaient attaquées.

      Aucune arrestation n’a été signalée et l’armée israélienne n’a pas publié de commentaire dans l’immédiat à ce sujet.

      Source : https://fr.timesofisrael.com/des-extremistes-filmes-lancant-des-pierres-sur-des-palestiniens-en

      #israel #implantation #violence #colons #Palestine #occupation #racisme #apartheid #sionisme #impunité

    • Time of israel La France annonce des « sanctions » contre 28 résidents d’implantations « extrémistes » Afp

      Le ministère français des Affaires étrangères a annoncé mardi avoir adopté des « sanctions » à l’encontre de 28 « colons israéliens extrémistes » coupables de « violences contre des civils palestiniens en Cisjordanie ».

      « La France réaffirme sa condamnation ferme de ces violences inadmissibles. Comme nous l’avons affirmé à de nombreuses reprises, il est de la responsabilité des autorités israéliennes d’y mettre fin et de poursuivre leurs auteurs », écrit le ministère dans le communiqué.

      Ces 28 individus sont « visés par une interdiction administrative du territoire français », ajoute le Quai d’Orsay, qui a dit « travailler » à « l’adoption de sanctions au niveau européen » à l’encontre des de résidents d’implantations violents.
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      Source : https://fr.timesofisrael.com/la-france-annonce-des-sanctions-contre-28-residents-dimplantations

      #israel #violence #colons #Palestine #occupation #racisme #apartheid #sionisme #impunité

  • Droit du sol, « A Mayotte, les Comoriens ne sont pas des étrangers » !

    Ce dimanche 11 février 2024, le ministre de l’intérieur Gérald Darmanin annonce sa volonté de mettre en place une réforme constitutionnelle pour obtenir « la fin du droit du sol à Mayotte ». Il s’agit d’une aggravation d’une législation déjà exceptionnelle à Mayotte sensée régler une situation considérée par l’État comme délétère mais qui est née du fait colonial imposé par la France aux Comores.

    Cette initiative du ministre de l’intérieur est aussi un danger majeur et plus général pour le droit du sol, cette initiative est perçue comme une opportunité pour des commentateurs et partis d’extrême droite, rêvant déjà d’étendre cette mesure à la France métropolitaine

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/13/droit-du-sol-a-mayotte-les-comoriens-ne-sont-p

    #international #mayotte #comores #colonisation

  • La raison derrière le début tardif du colonialisme allemand
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Joachim_Nettelbeck_(Seemann)

    Angesichts des 1814 bevorstehenden Sieges über Frankreich unternahm Nettelbeck einen dritten und letzten Versuch, die Staatsspitze mit seinen Kolonialplänen zu erreichen. Diesmal wandte er sich nicht direkt an den König, sondern an seinen neuen und einflussreichen Gönner Gneisenau. Preußen solle als Kompensation für seine Kriegskosten mit britischer Genehmigung eine „bereits unter Cultur stehende Kolonie“ in Westindien erhalten, um dort Kolonialwaren zu produzieren. Nettelbeck schlug Französisch-Guayana, Dominica oder Grenada vor. Gneisenau belehrte ihn jedoch, es sei das „System“ des preußischen Staates, keine Kolonien zu haben, um nicht in die Abhängigkeit der Seemächte zu geraten.

    #Allemagne #esclavage #colonialisme

  • Pécresse au temps béni des colonies - Contre Attaque
    https://contre-attaque.net/2024/02/11/pecresse-au-temps-beni-des-colonies

    Pécresse au temps béni des colonies
    11 février 2024Asie, #Colonialisme, #Extrême_droite, #Histoire

    Valérie Pécresse est l’incarnation de la déchéance intellectuelle des « élites » française : candidate ratée de la droite aux élections présidentielles, héritière millionnaire sans jamais avoir travaillé et présidente de la région Île-de-France. Elle a encore commis une double bourde ce dimanche 11 février, révélant son impensé colonial.

    Le Nouvel an lunaire, souvent appelé à tort « Nouvel an chinois », est une fête liée aux cycles lunaires. Pour les pays qui se réfèrent au calendrier chinois traditionnel, ce renouveau à lieu à la deuxième nouvelle lune après le solstice d’hiver, entre janvier et février. Chaque année est symbolisée par l’un des douze signes du zodiaque chinois et un des 5 éléments – l’eau, le feu, le métal, le bois, ou la terre. Nous entrons dans l’année du dragon de bois.

    Ce nouvel an n’est pas que « chinois » car il est aussi célébré en Corée du Sud, au Tibet, au Vietnam, à Singapour, en Indonésie ou encore en Malaisie.

    Première bourde de Pécresse : ses vœux aux franciliens « d’origine asiatique ». Or l’Asie est un continuent peuplé de 4,5 milliards d’habitants avec de nombreuses cultures et religions très différentes, dont une partie ne célèbrent pas le Nouvel an lunaire. La politicienne a supprimé son tweet, avant de republier ses vœux aux Franciliens « d’origine Chinoise et Indochinoise ».

    En France, l’Indochine est le nom de l’administration coloniale comprenant des territoires dont les noms ont été fixés par les colonisateurs : la Cochinchine, l’Anam, le Tonkin… L’Indochine française a pris fin en 1954, après une sanglante guerre de libération connue chez nous comme la « guerre d’Indochine », après une défaite historique de l’armée française à Diên Biên Phu. Ce territoire sera ensuite ravagé par l’impérialisme états-unien durant la guerre du Viêt Nam, qui s’étendra aux pays voisins comme le Laos et le Cambodge.

    Si le terme Indochine désigne bien un territoire d’Asie du Sud-Est, elle a une connotation coloniale évidente en France. Pécresse utilise d’ailleurs le mot Indochine pour parler du Viêt Nam, le Nouvel an lunaire n’est pas fêté au Laos ni au Cambodge, alors qu’il l’est, nous l’avons vu, en Malaisie et en Corée.

  • Restitution au Ghana d’objets royaux en or volés : quel est le deal ?
    https://www.justiceinfo.net/fr/128288-or-asante-pille-ghana-revient-pays-quel-deal.html

    L’or d’Asante, pillé au Ghana, revient au pays – quel est le deal ?
    9 février 2024 Par Rachel Ama Asaa Engmann (pour The Conversation France)

    150 ans après, 39 pièces faisant partie des costumes royaux du peuple Asante doivent être restituées à son souverain, l’Asantehene, qui siège à Kumasi, au Ghana, entre février et avril 2024. Rachel Ama Asaa Engmann, archéologue et spécialiste du patrimoine ghanéen, s’entretient avec Ivor Agyeman-Duah, conseiller technique de l’Asantehene pour ce projet majeur de restitution culturelle, au sujet du retour de ces objets et de ses implications.

    Au XVIIIe siècle, l’empire Asante était le plus grand et le plus puissant de la région et contrôlait une zone riche en or. De nombreux objets royaux en or ont été pillés par les troupes britanniques lors de la troisième guerre anglo-asante de 1874. La première collection de 7 objets est attendue du Fowler Museum de l’Université de Californie à Los Angeles. La deuxième collection de 32 objets proviendra du British Museum et du Victoria & Albert Museum au Royaume-Uni. Ces objets sont prêtés au peuple Asante pour une durée de six ans.

    RACHEL AMA ASAA ENGMANN : Que représentent ces objets et comment ont-ils été pillés ?

    IVOR AGYEMAN-DUAH : Il s’agit d’objets royaux qui ont été pillés en 1874 dans le palais de Kumasi après la mise à sac de la ville par les troupes militaires coloniales britanniques. Une autre expédition punitive a eu lieu en 1896, qui a donné lieu à d’autres pillages. Parmi ces objets figuraient des épées et des coupes d’apparat, dont certaines étaient très importantes pour exprimer la mesure de la royauté dans le palais. Par exemple, l’épée Mponponsuo, créée il y a 300 ans, remonte au légendaire Okomfo (chef spirituel) lié à la fondation de l’empire, Okomfo Anokye. C’est avec cette épée que l’Asantehene prêtait le serment d’allégeance à son peuple. Les chefs utilisaient la même épée pour lui prêter serment.

    Certains objets ont été vendus aux enchères sur le marché libre de Londres ; des collectionneurs d’art les ont achetés et ont finalement fait don de certains d’entre eux à des musées (d’autres ont été conservés dans des collections privées). Le British Museum et le Victoria & Albert Museum en ont également acheté.

    Cependant, tous les objets que vous voyez au British Museum n’ont pas été pillés. Par exemple, il y a eu des échanges culturels entre l’Asantehene Osei Bonsu et Thomas Edward Bowdich, un émissaire de l’African Company of Merchants qui s’est rendu à Kumasi en 1817 pour négocier des échanges commerciaux. Certains cadeaux ont été offerts à Bowdich, qui les a ensuite déposés au British Museum. Ces objets sont au nombre de 14.

    Comment l’accord a-t-il été conclu ?

    La question est à l’étude depuis un demi-siècle. Ce n’est pas seulement une préoccupation de l’actuel Asantehene. Les trois derniers occupants du trône s’en sont préoccupés. Mais cette année est cruciale car elle marque les 150 ans de la guerre de Sagrenti. Elle marque également les 100 ans du retour de l’Asantehene Agyeman Prempeh après son exil aux Seychelles et les 25 ans de l’ascension de l’Asantehene actuel, Oseu Tutu II, sur le trône.

    Ainsi, lors de son séjour à Londres en mai 2023, après avoir eu des entretiens officiels avec les directeurs de ces musées, il a rouvert les discussions et les négociations. Il m’a demandé, ainsi qu’à Malcolm McLeod, ancien conservateur et chercheur au British Museum et vice-principal de l’université de Glasgow, de l’aider à prendre les décisions techniques qui s’imposaient. Nous avons travaillé ensemble sur ce dossier pendant les neuf derniers mois.

    Pourquoi s’agit-il d’un prêt de six ans ?

    Le droit moral à la propriété existe. Mais il y a aussi les lois sur l’antiquité au Royaume-Uni. Le Victoria & Albert et le British Museum sont des musées nationaux. Ils sont régis par des lois très strictes qui n’autorisent pas le retrait permanent d’une œuvre d’art ou d’un autre objet de la collection d’un musée pour le vendre ou s’en débarrasser d’une autre manière.
    Cela a toujours été un facteur contraignant au cours des 50 dernières années. Mais il y avait aussi un moyen de conserver ces objets pour une durée maximale de six ans. Tous les objets ne sont pas exposés au British Museum. Beaucoup n’ont jamais été exposés et sont stockés dans un entrepôt. Compte tenu des circonstances et de la trilogie d’anniversaires, nous sommes parvenus à cet accord. Les discussions se poursuivront toutefois entre nous et ces musées pour trouver un accord durable.

    Bien entendu, l’expérience du Ghana sera importante pour les demandes de restitution émanant d’autres pays d’Afrique.
    Qu’est-ce que cela signifie pour le peuple Asante et pour le Ghana ?

    Le fait qu’au cours des deux derniers mois, nous ayons pu parvenir à une forme d’accord témoigne de l’intérêt que suscitent les accords multiculturels.
    Tout cet ensemble d’objets datant de 150 ans (ou plus) intéressera de nombreuses personnes. Ces pièces nous aident à faire le lien entre le passé et le présent. Elles sont significatives de la façon dont notre peuple était, en termes de créativité et de technologie, de la façon dont il était capable d’utiliser l’or et d’autres propriétés artistiques. Ils sont aussi une source d’inspiration pour ceux qui travaillent aujourd’hui dans le domaine de la production d’or.
    Le musée du palais de Manhiya rouvrira ses portes en avril. L’exposition de ces objets va augmenter la fréquentation du musée. Il accueille déjà environ 80 000 visiteurs par an et nous estimons que ce chiffre pourrait passer à 200 000 par an avec le retour de ces objets. Cela générera des revenus et nous permettra d’agrandir et de développer nos propres musées.

    #restitutions #pillages #musées #Ghana #Grande-Bretagne #colonisation

  • Le Sahara occidental n’est pas à vendre

    La 65ème édition du Salon des Vacances s’est déroulée à Bruxelles du 1er au 4 février 2024, avec comme invité d’honneur le Maroc, de même que le Salon de l’immobilier marocain qui a eu lieu du 2 au 4 février 2024.

    Sur le site du Salon des Vacances, mais aussi dans quelques brochures distribuées aux visiteurs à l’intérieur du Salon, on pouvait lire que « le Maroc est un paradis pour les amateurs de sports, et la lagune de Dakhla, point de rencontre de l’océan et du désert, est le lieu favori des « Kitesurfeurs ». Au Salon de l’immobilier marocain, il y avait de « bonnes occasions » à faire : acheter soit un terrain ou un immeuble à Laâyoune, capitale du Sahara Occidental occupé.

    Nous sommes choqués de découvrir que dans des foires internationales et très connues, organisées dans un pays européen, il soit possible de participer à l’occupation d’un territoire non autonome en attente de décolonisation, par l’achat de quelque paquet-vacances ou même d’un terrain, qui très probablement avant 1975, appartenait à une famille sahraouie forcée de se réfugier dans les campements de Tindouf par les envahisseurs marocains.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/10/le-sahara-occidental-nest-pas-a-vendre

    #international #colonisation #sahraoui

  • How a tiny Pacific Island became the global capital of cybercrime
    https://www.technologyreview.com/2023/11/02/1082798/tiny-pacific-island-global-capital-cybercrime

    2.11.2023 by Jacob Juda - Despite having a population of just 1,400, until recently, Tokelau’s .tk domain had more users than any other country. Here’s why.

    Tokelau, a necklace of three isolated atolls strung out across the Pacific, is so remote that it was the last place on Earth to be connected to the telephone—only in 1997.

    Just three years later, the islands received a fax with an unlikely business proposal that would change everything.
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    It was from an early internet entrepreneur from Amsterdam, named Joost Zuurbier. He wanted to manage Tokelau’s country-code top-level domain, or ccTLD—the short string of characters that is tacked onto the end of a URL.

    Up until that moment, Tokelau, formally a territory of New Zealand, didn’t even know it had been assigned a ccTLD. “We discovered the .tk,” remembered Aukusitino Vitale, who at the time was general manager of Teletok, Tokelau’s sole telecom operator.

    Zuurbier said “that he would pay Tokelau a certain amount of money and that Tokelau would allow the domain for his use,” remembers Vitale. It was all a bit of a surprise—but striking a deal with Zuurbier felt like a win-win for Tokelau, which lacked the resources to run its own domain. In the model pioneered by Zuurbier and his company, now named Freenom, users could register a free domain name for a year, in exchange for having advertisements hosted on their websites. If they wanted to get rid of ads, or to keep their website active in the long term, they could pay a fee.

    In the succeeding years, tiny Tokelau became an unlikely internet giant—but not in the way it may have hoped. Until recently, its .tk domain had more users than any other country’s: a staggering 25 million. But there has been and still is only one website actually from Tokelau that is registered with the domain: the page for Teletok. Nearly all the others that have used .tk have been spammers, phishers, and cybercriminals.

    Everyone online has come across a .tk––even if they didn’t realize it. Because .tk addresses were offered for free, unlike most others, Tokelau quickly became the unwitting host to the dark underworld by providing a never-ending supply of domain names that could be weaponized against internet users. Scammers began using .tk websites to do everything from harvesting passwords and payment information to displaying pop-up ads or delivering malware.
    a proliferation of .Tk emails with faces crying exclamation point tears

    Many experts say that this was inevitable. “The model of giving out free domains just doesn’t work,” says John Levine, a leading expert on cybercrime. “Criminals will take the free ones, throw it away, and take more free ones.”

    Tokelau, which for years was at best only vaguely aware of what was going on with .tk, has ended up tarnished. In tech-savvy circles, many painted Tokelauans with the same brush as their domain’s users or suggested that they were earning handsomely from the .tk disaster. It is hard to quantify the long-term damage to Tokelau, but reputations have an outsize effect for tiny island nations, where even a few thousand dollars’ worth of investment can go far. Now the territory is desperately trying to shake its reputation as the global capital of spam and to finally clean up .tk. Its international standing, and even its sovereignty, may depend on it.
    Meeting modernity

    To understand how we got here, you have to go back to the chaotic early years of the internet. In the late ’90s, Tokelau became the second-smallest place to be assigned a domain by the Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, or ICANN, a group tasked with maintaining the global internet.

    These domains are the address books that make the internet navigable to its users. While you can create a website without registering a domain name for it, it would be like building a house without an easily findable postal address. Many domains are familiar. The UK has .uk, France .fr, and New Zealand .nz. There are also domains that are not tied to specific countries, such as .com and .net.

    Most countries’ domains are run by low-profile foundations, government agencies, or domestic telecom companies, which usually charge a few dollars to register a domain name. They usually also require some information about who is registering and keep tabs to prevent abuse.

    But Tokelau, with just 1,400 inhabitants, had a problem: it simply didn’t have the money or know-how to run its own domain, explains Tealofi Enosa, who was the head of Teletok for a decade before stepping down in July 2023. “It would not be easy for Tokelau to try and manage or build the local infrastructure,” Enosa says. “The best arrangement is for someone else from outside to manage it, trade it, and bring in money from it.”

    This is precisely what Zuurbier, the businessman from Amsterdam, wanted to do.

    Zuurbier had come across Tokelau while chasing the internet’s next big idea. He was convinced that just as people had adopted free email addresses by the millions, the natural next step was for them to have their own free websites. Zuurbier intended to put advertisements on those sites, which could be removed for a small fee. All he needed to turn this billion-dollar idea into reality was a place with a ccTLD that had not yet found a registrar.

    Tokelau—the last corner of the British Empire to be informed about the outbreak of World War I, where regular shortwave radio wasn’t available until the ’70s and most people were yet to even see a website—was the perfect partner.

    Representatives from Tokelau and Zuurbier met in Hawaii in 2001 and put pen to paper on a deal. Quickly, .tk domain names began to pop up as people took advantage of the opportunity to create websites for free. He still had to convince ICANN, which oversees the domain name system, that Tokelau couldn’t host its own servers—one of the criteria for ccTLDs. But Tokelau—which switched off its power at midnight—would still need a reliable internet connection to keep in touch. In 2003 Zuurbier took a grueling 36-hour boat ride from Samoa to Tokelau to install internet routers that he had bought for $50 on eBay.

    Gone was the unreliable dial-up. Tokelau had met modernity. “He provided all the equipment, got all the three atolls connected up, and then he also provided some funding which I used to share with the community,” says Vitale, who established internet cafés that could be used for free by anybody from Tokelau’s four hamlets.

    For the first time, thousands of Tokelauans in New Zealand were able to easily connect with home. “What was important for Tokelau was that we were getting some money that could help the villages,” says Vitale. Many of the initial sign-ups on .tk were completely innocuous individuals wanting to blog about thoughts and holidays, as well as gaming communities and small businesses.

    In an attempt to protect its forests and famous wildlife, Virunga has become the first national park to run a Bitcoin mine. But some are wondering what the hell crypto has to do with conservation.

    Zuurbier sent Teletok regular reports about .tk’s growth, and they indicated that the free-domain model was working better than anybody expected. Tiny Tokelau, which was being paid a small cut of the profits Zuurbier was making, was going global.

    “We were hearing how successful .tk was. We were bigger than China,” says Vitale. “We were surprised, but we didn’t know what it meant for Tokelau. What was more meaningful at the time was that we were getting money to help the villages. We didn’t know about the other side of it then.”

    As the decade wore on, however, it looked to Vitale as if things were beginning to blow off course. “We went in blind,” he says. “We didn’t know how popular it would be.”
    Things fall apart

    It took until the late 2000s for Vitale to realize that something had gone badly wrong. After problems first arose, Zuurbier invited ministers and advisors from Tokelau to the Netherlands, paid for their flights, and explained the business’s nuts and bolts in an effort to reassure them. They went to watch Samoa play at the Rugby World Cup in France.

    “He [Zuurbier] appeared to be a really nice person,” Vitale remembers. “There was all this nice stuff that felt homely, warm fuzzies.” .Tk had hit the milestone of 1 million domain users.

    But soon after this trip, he says, Zuurbier started falling behind on scheduled payments to Tokelau worth hundreds of thousands of dollars. (MIT Technology Review requested an interview with Zuurbier. He initially accepted but subsequently did not answer the phone or respond to messages.)

    Meanwhile, Vitale had begun receiving complaints from concerned members of the “internet community.” He and his peers started to become aware that criminals and other questionable figures had cottoned onto the benefits that registering free domains could bring—providing an almost unlimited supply of websites that could be registered with virtual anonymity.

    “It was obvious from the start that this was not going to turn out well,” says Levine, coauthor of The Internet for Dummies. “The only people who want those domains are crooks.”

    Levine says that .tk had started attracting unsavory characters almost immediately. “The cost of the domain name is tiny compared to everything else that you need to do [to set up a website], so unless you’re doing something weird that actually needs lots of domains—which usually means criminals—then the actual value in free domains is insignificant,” he says.

    What started as techies complaining to Vitale about spamming, malware, and phishing on .tk domains soon turned into more worrisome complaints from the New Zealand administrator tasked with overseeing Tokelau, asking him whether he was aware of who .tk’s users were. Allegations surfaced that .tk websites were being used for pornography. Researchers had found jihadists and the Ku Klux Klan registering .tk websites to promote extremism. Chinese state-backed hackers had been found using .tk websites for espionage campaigns.

    “Satanic stuff” is how Vitale describes it: “There were some activities that were not really aligned with our culture and our Christianity, so that didn’t work very well for Tokelau.” With Zuurbier not replying to worried emails, Vitale moved to unplug him. He opened negotiations with Internet NZ, the registry that runs New Zealand’s squeaky-clean domain, about how Tokelau might be able to wiggle out of its arrangement. He didn’t manage to get an answer before he moved on from Teletok.

    His successor, Enosa, tried to set the relationship on a new footing and signed new deals with Zuurbier on the understanding that he would clean up .tk. However, that never happened. One of Enosa’s final acts as general manager at Teletok, in the summer of 2023, was to reopen negotiations with Internet NZ about how Tokelau might be able to extricate itself from the deal once and for all.

    Meanwhile, most of Tokelau’s residents weren’t even aware of what was happening. Elena Pasilio, a journalist, saw firsthand how much this was hurting her home. When she was studying in New Zealand a few years ago, people—knowing that she was Tokelauan—started to tag her on social media posts complaining about .tk.

    At first, she felt confused; it took time before she even realized that .tk meant Tokelau. “I was really surprised by how many users it had, but then I realized that a lot of people were using .tk to make dodgy websites, and then I felt embarrassed. I was embarrassed because it had our name on it,” Pasilio explains. “It has got our name tangled up there with crimes that people here would not even begin to understand.”

    There is a sense from both Vitale and Enosa that Zuurbier cared little as Tokelau’s reputation was dragged through the mud. “I would argue with Joost,” Enosa says, adding that he would remind him he was the custodian for a legal asset that belonged to Tokelau alone. According to Enosa, he would shoot back: “I built this infrastructure from my own pocket. I spent millions of dollars building it. Do you think that was easy? Do you think that Tokelau can build this kind of infrastructure itself?”
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    “I said: ‘Okay. Understood,’” Enosa recalls. “I understood how a white man looks at it. You know? This is how white men look at things. I understand that.”
    Digital colonialism

    What has happened to Tokelau is not unique. The domains of small islands across the Pacific are cited in numerous stories either celebrating dumb luck or complaining of massive abuse.

    Tuvalu has managed to turn .tv into approximately 10% of its annual GDP. Micronesia’s .fm has been pushed heavily at radio stations and podcasters. Tonga’s .to has been favored by torrent and illegal streaming websites. Anguilla, in the Caribbean, is heavily marketing its .ai at technology startups.

    But these success stories seem to be the exception. In 2016, the Anti-Phishing Working Group found that alongside .tk and .com, the Australian Cocos Islands (.cc) and Palau (.pw) together represented 75% of all malicious domain registrations. They had been flooded by phishers attacking Chinese financial institutions. The Cocos Islands made headlines in Australia when websites allegedly hosting child sexual abuse images were recently found on its domain.

    Those domains whose names—by linguistic luck—seemed to mean something tended to attract better managers. Sharks seem to have circled around those that did not, or had a market that was less clear.

    While the abuse of Pacific Islands’ domains has waxed and waned over the years, the islands’ tiny size means that even small associations with crime can have damaging consequences.

    “There is a problem in Polynesia,” says Pär Brumark, a Swede who represents the Pacific island of Niue abroad. “You had these internet cowboys running around taking domains everywhere.”

    Niue lost control over the domain .nu after it was “stolen” by an American in the late 1990s, Brumark says. Its management was given to the Swedish Internet Foundation—which manages Sweden’s native .se—in a “shady deal” in 2013, he claims. .Nu has been wildly popular in Sweden, as it translates directly to “now.” Niue, which is also linked to New Zealand, is now fighting a David-versus-Goliath battle in the Swedish courts. It is seeking as much as $20 million in lost revenue—almost one year’s worth of Niue’s annual GDP.
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    “Digital colonialism,” claims Brumark. “They exploit resources from another country without giving anything back. They have never spoken to the government. They have no permissions. They exploit. Colonialism to me is if you take resources from a country that you do not have the permission to take.”

    But now there may finally be some accountability—at least in the case of Zuurbier.

    In December 2022, courts in the Netherlands found in favor of an investor suing Freenom, the company that managed .tk and four other domains—those of Gabon, Equatorial Guinea, the Central African Republic, and Mali—that were subsequently added to the model it pioneered. The courts found that Freenom had fallen foul of various reporting rules and appointed a supervisory director.
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    And in March of this year, Meta, which owns Facebook, Instagram, and WhatsApp, also sued Freenom for damages, claiming that sites hosted on .tk and the four African domains were engaging in cybersquatting, phishing, and trademark infringement. Meta provided examples of websites that appeared to be registered at .tk with the express purpose of deceiving users, such as faceb00k.tk, whatsaap.tk, Instaqram.tk.

    In an interview with the Dutch newspaper NRC, Zuurbier denied Meta’s allegations about the “proliferation of cybercrime.” But the Cybercrime Information Center recently reported that “in past years Freenom domains were used for 14% of all phishing attacks worldwide, and Freenom was responsible for 60% of the phishing domains reported in all the ccTLDs in November 2022.” Zuurbier says that Freenom distributed to over 90 trusted organizations, including Meta, an API that allowed them to take down offending sites and that Meta itself failed to continue using it. But many in the tech industry resent what they see as Freenom shifting the cost of policing its domains onto others.

    As of January 2023, it is no longer possible to register a .tk domain. All four African countries—many thousands of times larger than Tokelau—have broken ties with Freenom. Tokelau, which did not seem aware that there were other countries in the same boat, is still trying to figure out what to do next.

    It now looks as if Freenom is essentially finished as a company. But Enosa doesn’t believe that’ll stop Zuurbier from pursuing more shady schemes. “Joost always wins,” he says.
    Shifting tactics

    Without access to the unlimited pool of free domain names that were available through .tk and the four other Freenom ccTLDs, many cybercrime groups that relied on them are being forced to adapt. Certain scattergun approaches to spamming and phishing are likely to go out of fashion. “Spammers are fairly rational,” explains Levine, the spam expert. “If the spam is cheap and the domains are free, they can afford to send out a lot of spam even though the likelihood of response is lower. If they actually have to pay for the domains, then they are likely to make it a lot more targeted.”
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    “Bad things online require a domain name at some point,” says Carel Bitter, head of data at the Spamhaus Project, which tracks malicious activities online. “You need people to go somewhere to fill in their account details. If you can’t get domains for free, you will have to get them somewhere else.” Analysts have noted upticks in malicious use of cheap “new” generic TLDs such as .xyz, .top, and .live, whose reputations have been wrecked by dodgy dealers.

    While other domains may only cost $1, a drop in the ocean for the largest gangs, the fact that they now need to be purchased may limit the damage, says Bitter: “Any cybercrime business that relies on domain names will have some sort of natural limit that determines how much they can spend on domain names.” Others, though, may seek to compromise existing websites with low security.

    It is likely that “basement” operations—so-called “ankle-biters”—will feel the biggest pinch. “What is possible is that the guys that are just doing it as a dabble won’t want to put the money up, but the professionals are not going away,” says Dave Piscitello, director of research activity at the Cybercrime Information Center. “They will go elsewhere. If you are staging a revolution and the cost of a Kalashnikov goes from $150 to $250, you aren’t going to say ‘Forget it.’ It is the business.”
    An existential issue

    The media sometimes reports that Tokelau makes millions from the use of .tk. Zuurbier himself claims on his LinkedIn that his relationship with Tokelau adds over 10% to the atolls’ GDP.

    “Bullshit,” says Enosa when asked. “That’s a lie.”

    Enosa claims that .tk provided a “very small” proportion of Teletok’s income: “It doesn’t give us good money. .Tk was nothing to my revenue.”

    While the arrival of the internet on Tokelau promised to zip information across the Pacific instantaneously, the islands have remained isolated. Even while I was reporting this story, it took weeks to get in touch with Pasilio and other sources there. Interviews were repeatedly delayed because of the price of data packages. Internet in Tokelau is among the most expensive in the world, and NZ$100 (US$60) worth of data can sometimes last only 24 hours at a time. Phone calls to Tokelau from Europe did not connect.

    “I feel sorry for our Tokelau,” Pasilio says. “We have been taken advantage of. I think people would be shocked if they knew what had been going on with .Tk.”
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    Even many Tokelau elders had not fully understood the problem, at least until recently.

    There are other, arguably more existential problems the islands need to deal with, including climate change, emigration, and the atolls’ future relationship with New Zealand. “Our islands are already shrinking as it is, with the sea levels rising,” says Pasilio. She says her father tells her about reefs and sand banks that have sunk beneath the Pacific. “They would rather worry about things that they can see physically and that they know more about, rather than fighting back on this .Tk thing,” she says.

    But the issue of the abused .tk domain was recently raised in the General Fono, or Parliament, indicating that the issue had finally broken out of its technical niche and into the wider public.

    Those existential issues facing the islands are not wholly unrelated to .tk. Questions over the future of the domain have arisen at the same time that a debate over Tokelau’s political future has been revived.

    Tokelau is classified by the United Nations as a “non-self-governing territory” under the oversight of the Special Committee on Decolonization. In 2006 and 2007, referenda on whether Tokelau would enter “free association” with New Zealand—a possible stepping stone toward eventual independence—was approved, but not enough of Tokelau’s population voted to meet the turnout threshold. In May 2022, it was decided that another referendum on Tokelau’s future would be held ahead of the centenary of New Zealand rule in 2025.

    Repairing Tokelau’s devastated international reputation by cleaning up .tk will be a necessity if the atolls are to make any serious bid for sovereignty. Vitale is now the general manager of Tokelau’s government and wants to see its internet domain make a triumphant return to make it clear that the islands are turning a new page.

    “We are building nationhood here,” he explains. “We are on a pathway toward self-determination. We want to use the .tk as a catalyst to promote our nationhood and be proud of it—our domain name and our identity among the internet community.”

    All of Tokelau’s email and website addresses are currently hosted on New Zealand’s .nz. “What does that mean to people? It means that we are in New Zealand,” says Vitale with a sigh. “We should be selling ourselves as being in Tokelau, because .tk is the domain—the identity—for Tokelau.”

    “When you have people coming to knock on your door with attractive packages,” he adds, “you see it as an opportunity you hook onto—not realizing what the consequences will be further down the road.”

    Correction: This story has been updated post-publication as the previous version incorrectly stated that Antigua was the Carribean island with the .ai domain. It is in fact Anguilla. Our apologies.

    #Tokelau #Pays-Bas #Nouvelle-Zélande #internet

  • Un long et très éclairant texte d’un sociologue, Nicolas Roinsard, analysant la situation de l’île de Mayotte (101e département français, dans l’archipel des Comores) comme une situation (post-)coloniale.
    Mayotte ou les symptômes d’une société fragmentée et désorganisée - AOC media

    https://aoc.media/analyse/2024/02/06/mayotte-ou-les-symptomes-dune-societe-fragmentee-et-desorganisee

    Dans son discours de politique générale, le Premier ministre a promis une loi pour Mayotte, département le plus pauvre de France, rapidement suivi par son ministre de l’Intérieur qui envisage même une réforme constitutionnelle en matière de droit du sol… La politique sécuritaire et répressive menée depuis plusieurs années n’a pas pourtant en rien permis de résorber l’insécurité. Au contraire, les recherches démontrent qu’elle tend à l’aggraver.

    Imaginez-vous un département français sans eau courante depuis quatre mois, où des militaires distribuent chaque jour des packs d’eau, où la moindre intervention du SAMU est désormais escortée la nuit par des forces de l’ordre, où il est interdit d’organiser des compétitions de football parce que des jeunes s’entretuent en marge des matchs, où les policiers, eux-mêmes, dénoncent “la politique du chiffre” qui ne mène nulle part, où des élus défilent pour réclamer “l’état d’urgence”, où un maire organise dans sa ville une prière pour la paix parce qu’il n’y a plus que la religion pour tenter d’apaiser, et où il faudrait chaque année construire des dizaines d’écoles tellement la démographie est folle. Bienvenue à Mayotte, le 2 janvier 2024 ! »

    Les mots choisis par le journaliste de France Inter, Maxence Lambrecq, pour introduire son édito politique du 2 janvier 2024 résument assez bien le sentiment communément partagé d’une crise permanente dans le 101e département français. « Crise sociale », « crise migratoire », « crise sécuritaire », « crise de l’eau » ou encore « crise sanitaire » : l’île de Mayotte aurait de quoi occuper à elle seule l’agenda du ministre de l’intérieur et des Outre-mer ! Gérald Darmanin avait d’ailleurs prévu de s’y rendre ce week-end mais une autre crise, celle des agriculteurs, l’a retenu à Paris.

    Sa visite à Mayotte était pourtant très attendue. Des « collectifs de citoyens » tiennent des barrages depuis environ trois semaines pour réclamer le démantèlement d’un camp de réfugiés africains, érigé sur le terrain de football de Cavani à Mamoudzou. Quelques semaines plus tôt, l’île observait une série d’émeutes et de violences juvéniles particulièrement marquante. En marge d’un colloque sur les Outre-mer qui s’est tenu à Paris le 1er février, le ministre a tenu à rassurer les élus mahorais : « L’autorité de l’État va se mesurer non pas simplement en nombre de policiers et gendarmes supplémentaires, mais au changement de droit, sans doute très profond, qu’il faut pour empêcher la venue de ces personnes à Mayotte. »

    Le changement de droit, c’est celui de la nationalité et plus précisément le droit du sol appliqué à Mayotte. Alors que ce dernier a déjà fait l’objet d’une révision en 2018, le nouveau projet – qui suppose une réforme constitutionnelle – prévoit de durcir de nouveau les conditions de la naturalisation : pour qu’un enfant né de parents étrangers sur le sol mahorais puisse obtenir la nationalité à l’âge adulte, il lui faudra prouver que ses deux parents étaient en situation régulière « plus d’un an avant sa naissance ».

    Cette annonce ne surprend guère. Elle s’inscrit dans le droit fil des politiques migratoires et sécuritaires menées à Mayotte depuis une vingtaine d’années et dont les résultats sont pourtant peu probants. L’opération « Wuambushu » lancée au printemps 2023 en est une illustration. Poursuivant un objectif conjoint de lutte contre la délinquance et l’immigration irrégulière, cette opération militaro-policière est regardée aujourd’hui avec amertume par les élus et la population locale qui observent a contrario une recrudescence des violences juvéniles sur le territoire. Des violences aux ressorts multiples qui ne sauraient être attribuées aux seuls enfants d’étrangers de même que leur traitement social ne saurait s’épuiser dans une seule politique répressive.

    L’explosion de la délinquance juvénile au cours des vingt dernières années

    À Mayotte, la rubrique « faits divers » de la presse régionale ne manque pas de sujets. Les faits de délinquance et les procédures judiciaires qui leur sont liées lui fournissent une matière permanente. Dénoncée par les élus qui en appellent à une plus grande intervention de l’État, redoutée par la population qui s’inquiète pour son intégrité physique, sondée par les Métropolitains qui projettent de venir s’installer et travailler, la montée de l’insécurité civile ne relève pas d’un fantasme, loin s’en faut. Deux chiffres permettent d’en prendre la mesure : on comptabilisait 813 faits constatés de délinquance en 1998 contre 11 920 en 2022, selon la Préfecture de Mayotte. En l’espace de 25 ans, les faits ont été multipliés par près de 15 pour une population qui a doublé sur la même période.

    Une des caractéristiques de cette délinquance, outre qu’elle est le fait d’une population essentiellement juvénile et masculine, renvoie aux violences qui très souvent l’accompagnent. On y enregistre une surreprésentation des homicides (5 ‰ à Mayotte contre 1 ‰ en France métropolitaine), des vols avec violence (4,5 ‰ contre 1,1 ‰) et des coups et blessures hors cadre familial (4,1 ‰ contre 2 ‰). Ainsi, pour l’année 2022, les faits constatés se concentrent pour l’essentiel autour des atteintes aux biens (5 237) et des atteintes volontaires à l’intégrité physique (4 861). On retrouve, parmi ces dernières, les violences gratuites caractéristiques des règlements de compte entre bandes rivales qui défraient régulièrement la chronique.

    Ces bandes répondent à une géographie très précise : elles se forment à l’échelle de quartiers que l’on rebaptise pour l’occasion (Gaza, Vietnam, Gotham, La Favela, Bagdad, Soweto, Sarajevo, etc.), de communes et, depuis peu, de l’île dans son ensemble (Watoro vs Terroristes). Bien qu’elles soient fortement attachées à un territoire, elles ne luttent pas pour le contrôle du trafic de stupéfiants comme on l’observe bien souvent dans l’Hexagone.

    Ici, les causes sont tout aussi diverses que futiles, l’enjeu étant avant tout de préserver la réputation du groupe et l’honneur de ses membres ; un affront entraîne mécaniquement une réponse dans un cercle sans fin. Parmi les jeunes qui s’adonnent à ces violences, certains sont tout à fait intégrés par ailleurs : ils sont scolarisés, ils font du sport en club, ils participent aux fêtes villageoises et religieuses, etc. Le fait même d’habiter un quartier ou une commune les inscrit dans des régimes d’obligation : participer aux règlements de compte entre bandes rivales fait partie de l’expérience socialisatrice masculine.

    La poussée de violence observée sur le territoire en fin d’année – les élus évoquent à ce sujet un « Novembre noir » – renvoie précisément à ces conflits entre bandes qui se règlent bien souvent sur la chaussée, occasionnant au passage le caillassage des automobilistes et des forces de l’ordre. La situation a continué de s’embraser courant décembre. Les émeutes se sont propagées sur plusieurs communes et quartiers de l’île : Dembeni, Tsararano, Tsoudzou, Kaweni, Majicavo, Coconi, Kahani, etc. Elles ont donné lieu à deux homicides : un premier par arme à feu le 10 décembre, un second par arme blanche cinq jours après. Le dimanche suivant, des bagarres ont éclaté en marge de deux matchs de football, l’un à Ouangani, l’autre à Tsingoni. Bilan : plusieurs blessés, un jeune dans le coma envoyé au centre hospitalier de La Réunion, un autre décédé de ses blessures.

    Ce bref tableau de la délinquance et des violences juvéniles suffit à planter le décor. On comprend aussi le sentiment d’insécurité qui gagne la population mahoraise : il est déclaré par une personne sur deux, contre une sur dix en France métropolitaine. Un sentiment qui motive des réactions, parfois violentes à leur tour. On a vu fleurir ces dernières années des comités de vigilantisme qui, à l’occasion, recourent eux-mêmes à la force pour attraper et mater des jeunes étiquetés comme délinquants. En marge du mouvement social qui a paralysé l’économie mahoraise pendant près de deux mois au printemps 2018, des milices se sont formées pour capturer des étrangers supposés en situation irrégulière et parmi eux des jeunes soupçonnés de faits de délinquance. Pour beaucoup, immigration et insécurité vont en effet de pair à Mayotte. En prétendant « faire le boulot de l’État », ces collectifs qui agissent en dehors de tout cadre légal mettent le pouvoir central au pied du mur.

    L’opération « Wuambushu » s’inscrit, de fait, dans une reprise en main de la question sécuritaire par l’État. Si l’objectif annoncé sur le front de la lutte contre la délinquance a globalement été rempli – 49 « chefs de bandes » auraient été appréhendés sur les 50 identifiés – ce bilan laisse songeur. Au-delà des épisodes récents de violence, la délinquance a continué de progresser sur les onze premiers mois de l’année 2023 (le bilan final n’a pas encore été communiqué). La délinquance juvénile à Mayotte n’est pas portée par quelques « têtes » qu’il suffirait de neutraliser pour enrayer le phénomène. Son ampleur et sa progression sont à la mesure des logiques d’exclusion vécues par de larges fractions de la jeunesse, française ou étrangère.

    Des jeunesses surnuméraires

    Deux logiques président à la construction de jeunesses surnuméraires à Mayotte. La première est économique et renvoie à la question sociale : quelle place la société mahoraise offre-t-elle à sa jeunesse dans un contexte de chômage de masse et de forte croissance démographique ? La seconde est juridique et renvoie à la question migratoire : quel sort réserve-t-on plus singulièrement aux jeunes nés de parents étrangers dans un contexte de forte répression de l’immigration ? Chacune de ces logiques produit des effets en termes de passages à l’acte et de carrières déviantes.

    En premier lieu – et c’est une donnée trop rarement commentée – on ne saurait comprendre l’accroissement de la délinquance juvénile sans avoir à l’esprit le poids démographique de la jeunesse et sa position dans l’espace social : les moins de 25 ans représentent 60 % de la population (contre 30 % en France métropolitaine) et subissent simultanément des niveaux de déscolarisation, de chômage et de pauvreté particulièrement élevés.

    Autre donnée trop souvent occultée : les processus d’exclusion qui affectent des pans entiers de la jeunesse mahoraise (et précédemment des autres jeunesses ultramarines) sont aussi le produit d’une gouvernementalité postcoloniale qui opère des effets de classement et de division sociale extrêmement prononcés. Quatre segments de l’action publique jouent ici un rôle manifeste : les politiques éducatives, les politiques de développement économique, les politiques sociales et les politiques migratoires.

    Le droit à l’instruction publique est relativement récent à Mayotte. Il s’est imposé au gré de l’évolution statutaire de l’île et de son intégration progressive au sein de la République. Mayotte a connu successivement les statuts de colonie (1841-1946), territoire d’outre-mer (1946-1975), collectivité territoriale de la République (1976-2001), collectivité départementale (2001-2011) et département depuis le 31 mars 2011. La scolarisation obligatoire des enfants de plus de six ans date de 1986, et l’ouverture des écoles maternelles ne s’est généralisée qu’à partir de 1993. Ainsi, on comprend les faibles taux de scolarisation de la population qui étaient encore enregistrés au recensement de 2012 avec un habitant sur trois parmi les plus de 15 ans qui n’avait jamais été scolarisé (contre 2 % en métropole), et un jeune sur cinq parmi les moins de 30 ans.

    Si la scolarisation est aujourd’hui la norme, des efforts restent à consentir pour soutenir la réussite éducative. Les conditions d’accueil et d’enseignement sont très éloignées des standards nationaux : classes surchargées, surreprésentation des enseignants contractuels et de moindre qualification, imposition du français quand les enfants ont été socialisés dans leur langue maternelle (shimaore et kibushi principalement), etc.

    Les difficultés rencontrées dans les apprentissages se mesurent par des taux d’illettrisme et de décrochage scolaire particulièrement élevés. Les évaluations réalisées en 2015 dans le cadre des journées « Défense et citoyenneté » indiquent que plus de la moitié des Mahorais âgés de 17 et 18 ans étaient en situation d’illettrisme contre 3,6 % de leurs homologues métropolitains. À la même époque, parmi les Mahorais âgés de 20 à 24 ans, 30 % n’étaient pas allés au collège. Au total, trois Mahorais sur quatre âgés de 15 ans ou plus sont sortis du système scolaire sans aucun diplôme qualifiant, contre 28 % dans l’Hexagone. Ces ressources en négatif pèsent de facto sur leurs chances d’insertion professionnelle dans une économie portée aujourd’hui par des emplois publics et qualifiés.

    Le développement économique induit par la départementalisation de Mayotte repose pour l’essentiel sur des mesures de mises à niveau de l’administration publique, dans les secteurs en particulier de l’éducation, la santé, l’équipement, les services administratifs et l’action sociale. Ainsi, sur 13 200 emplois créés entre 2009 et 2018, 8 400 sont attribuables à la fonction publique d’État. Compte tenu du faible niveau général de qualification de la population, une part significative des emplois publics est occupée par des Métropolitains ainsi que par une fraction diplômée de la population mahoraise, plus souvent embauchée dans les collectivités locales (communes et Conseil départemental).

    En 2018, le taux d’emploi était de 23 % pour les natifs de l’étranger, 38 % pour les natifs de Mayotte et 80 % pour les natifs de France métropolitaine. Le taux de chômage au sens du Bureau international du travail (BIT) s’établit à 34 % et celui des jeunes de 15 à 25 ans avoisine les 50 % (Enquête Emploi 2022). Des mesures qui sous-estiment le phénomène de privation d’emploi : beaucoup ne sont pas comptabilisés comme chômeurs car ils ne remplissent pas les critères de disponibilité et de recherche d’emplois. Ainsi, pour 27 000 personnes au chômage au sens du BIT, l’INSEE recense 33 000 personnes supplémentaires sans emploi et qui souhaitent travailler. Alors que Mayotte détient le plus fort niveau de chômage au niveau national, paradoxalement l’île est très peu dotée de dispositifs de soutien tels que les emplois aidés et les contrats d’insertion.

    Le modèle de développement déployé à Mayotte a donc pour effet de diviser fortement la population avec, d’un côté, des personnes qui accèdent à une condition salariale protégée (qui plus est pour les fonctionnaires qui bénéficient d’une majoration de leur traitement égale à 40 %) et, de l’autre, une masse d’individus qui en est durablement exclue. Ces inégalités sont par ailleurs faiblement compensées du fait du report ou de la moindre application des lois sociales en vigueur dans les autres départements français. La part des transferts sociaux alloués aux ménages mahorais est environ trois fois moindre que celle enregistrée à l’échelle nationale.

    Par conséquent, les inégalités entre ménages y sont quatre fois plus prononcées qu’en France métropolitaine et trois habitants sur quatre vivent en deçà du seuil de pauvreté national. En référence au revenu médian calculé à Mayotte, le seuil de pauvreté local se situe à 160 euros par mois. Quatre habitants sur dix se situent en dessous de ce seuil, tandis que les prix à la consommation sont 10 % supérieurs à ceux enregistrés dans l’Hexagone.

    Il faut donc se représenter la traduction concrète de ces quelques données chiffrées. Pour beaucoup, le quotidien est saturé par la quête de quelques ressources monétaires et/ou alimentaires. Les stratégies de survie s’articulent principalement autour d’une économie agraire d’autosubsistance, de l’économie informelle, des solidarités privées, des quelques revenus sociaux récemment instaurés et de la petite délinquance, essentiellement juvénile.

    Les données ethnographiques que j’ai collectées auprès de jeunes délinquants révèlent le vide institutionnel auquel ils font face dès qu’ils quittent le système scolaire. Le manque d’opportunités d’emploi, de dispositifs d’aide sociale, de programmes d’animation socioculturelle, d’insertion et de formation professionnelle dessine les contours de ce qu’ils dénomment eux-mêmes « la galère », marquée par une oisiveté quotidienne propice à l’engagement dans des actes délictueux : cambriolages, rackets, vols à l’arraché, usagers-dealers, etc.

    Les pratiques déviantes répondent ainsi à des logiques cumulées de survie économique, de lutte contre l’oisiveté et de tension sociale : le niveau de revenus et de consommation des nouvelles classes moyennes nourrit chez les jeunes désœuvrés un certain conformisme frustré. Elles sont par ailleurs renforcées par des effets de groupe (beaucoup d’entre eux appartiennent à une bande régie en partie par cette économie délictuelle) et le niveau de paupérisation connu dans leurs familles respectives composées, bien souvent, d’une mère isolée et de ses enfants : non seulement ils ne peuvent y trouver un soutien financier, mais beaucoup participent à l’économie familiale en y injectant une part des ressources tirées de leurs méfaits.

    Ces logiques de relégation et les obligations de survie qui leur sont attachées sont exacerbées pour les jeunes de nationalité étrangère. Ces derniers composent avec une politique migratoire particulièrement répressive qui a pour effet de précariser leur existence et celle de leurs parents. Celle-ci s’est durcie au gré de l’intégration politique de Mayotte et de l’accroissement de l’immigration, essentiellement comorienne : la part des étrangers dans la population totale est passée de 15 % en 1990 à 41 % en 2007 et 48 % en 2017. C’est là tout le dilemme auquel est confronté l’État français : le développement de Mayotte creuse l’écart avec les îles comoriennes voisines et soutient les projets migratoires dans un espace archipélagique marqué de longue date par la circulation de ses habitants et les mariages inter-îles.

    Dans l’impossibilité d’obtenir un visa, les candidats à l’émigration deviennent, une fois qu’ils ont posé le pied à Mayotte, des « clandestins » soumis à la traque des forces de l’ordre. Les nombreuses reconduites à la frontière orchestrées tous les ans (entre 20 000 et 23 000 en moyenne annuelle) produisent des ruptures familiales et alimentent le phénomène des mineurs isolés sur le territoire. On en dénombre entre 3000 et 5000 selon les sources, avec des profils hétérogènes qui vont de l’isolement total au recueil, pérenne ou temporaire, par un tiers lui-même soumis à des conditions de vie souvent dégradées. Les manquements manifestes de l’Aide sociale à l’enfance sur le plan à la fois matériel et éthique contribuent à maintenir cette « enfance en danger », la situation d’isolement constituant dès lors une des portes d’entrée dans les bandes délinquantes dans une perspective de survie économique et de protection.

    Parallèlement à la politique du chiffre visant à expulser en masse les « sans-papiers », l’État français durcit ses frontières en adoptant tout un ensemble de dérogations qui rongent le droit des étrangers et le droit de la nationalité. Passant outre le principe de l’indivisibilité de la République, la loi « Immigration maîtrisée, droit d’asile effectif et intégration réussie » du 10 septembre 2018 a ainsi entériné une révision du droit du sol pour le seul territoire de Mayotte : pour qu’un enfant né de parents étrangers puisse obtenir la nationalité française à l’âge adulte, il faut à minima qu’un de ses parents soit en situation régulière en France depuis au moins trois mois avant sa naissance. La loi s’applique pour les enfants nés après la date de son entrée en vigueur mais aussi pour tous ceux qui sont nés avant et qui sont encore mineurs, grevant ainsi toute chance de naturalisation et d’une intégration plus assurée.

    Dans un contexte de forte politisation de la question migratoire, les mesures répressives à l’endroit des étrangers trouvent aussi des relais dans la société civile. Dans bien des cas, les mineurs en sont les premières victimes. Beaucoup d’entre eux rencontrent par exemple des obstacles quant à leur scolarisation. Les mairies qui sont en charge de l’inscription des enfants résidant dans leur commune et soumis à l’obligation scolaire prennent parfois certaines libertés en exigeant des pièces administratives qui n’ont pas lieu d’être, en particulier le titre de séjour du ou des parents. Selon la Défenseure des droits, ce sont environ 15 000 enfants qui n’auraient pas accès à une scolarité classique. Une étude réalisée sous l’égide de l’Université de Nanterre estime que le nombre d’enfants non scolarisés est compris entre 5 379 et 9 575 selon la méthode de calcul retenue.

    Vécue de manière particulièrement violente par les intéressés, la non-scolarisation des mineurs d’origine étrangère se présente, de fait, comme une porte d’entrée vers une chaîne d’exclusions[1]. Pour ceux qui parviennent à maintenir leur cursus scolaire sans encombre, les risques de déscolarisation s’intensifient à l’âge de 16 ans, marquant la fin de l’obligation scolaire. En dehors de l’accès à l’éducation, les enfants de « sans-papiers », en particulier, se voient privés de tout droit. Ils se trouvent dans l’impossibilité de signer un contrat de travail, de bénéficier des services de la Mission locale, de suivre une formation, de disposer d’une couverture maladie, etc.

    Les processus cumulatifs de relégation (scolaire, sociale, juridique, économique, etc.) vécus par les jeunes d’origine comorienne les amènent progressivement à intégrer l’étiquette de « surnuméraire » qui leur est renvoyée. Cette dynamique a pour effet de fédérer des jeunes stigmatisés et d’alimenter, au fil du temps, leur inclination vers des comportements déviants. Si la délinquance d’appropriation répond d’abord à l’impératif de survie économique, les agressions et autres actes de vandalisme témoignent d’une volonté affirmée de retournement de la violence vis-à-vis d’une société et d’une nation perçues comme hostiles.

    Le racket des automobilistes qui se rendent au travail, le caillassage des bus scolaires, les rixes aux abords des collèges et lycées sont autant de délits orchestrés à l’endroit d’un monde qui leur est fermé. Les affrontements réguliers contre les forces de l’ordre, un signe de défiance vis-à-vis de l’autorité d’un État de droit qui produit leur marginalisation sociale. Le sentiment de rage et d’injustice fréquemment exprimé dès l’adolescence puis à l’âge adulte traduit, en creux, le principe de clôture du groupe déviant sur lui-même. La violence sociale subie depuis leur enfance se transforme en une violence à la fois auto-administrée (conduites à risques, addictions, etc.) et renvoyée aux autres (agressions, vols avec menace, etc.).

    À cet égard – et les données récentes qui attestent d’une progression de la délinquance et des violences juvéniles sont là pour appuyer notre propos – on peut se demander si les objectifs conjoints de durcissement des frontières nationales et de lutte contre la délinquance ne sont pas quelque peu antinomiques. Les professionnels de la Protection judiciaire de la jeunesse, par exemple, observent les effets particulièrement délétères de la révision locale du droit du sol dans leur travail de prévention de la délinquance à l’endroit des jeunes nés à Mayotte de parents étrangers.

    Alors que ces derniers ont grandi en nourrissant l’espoir d’une naturalisation à l’âge adulte, ils sont nombreux à apprendre aujourd’hui qu’ils ne peuvent prétendre qu’au titre de séjour, dont on sait les difficultés d’obtention. Désabusés par cette politique d’inimité, certains y renoncent et intègrent leur label juridique : ils sont étrangers et demeureront à jamais des surnuméraires à Mayotte, avec toutes les conséquences que cette condition juridique implique en termes de carrière déviante. En cela, si le nouveau projet de durcissement du droit du sol annoncé par le ministre vise à réduire l’immigration à long terme, il aura un effet plus immédiat : celui de grossir les rangs des surnuméraires…

    Le déclin des institutions coutumières

    Si la délinquance est symptomatique des processus de marginalisation sociale qui affectent les fractions dominées de la jeunesse (sans engagement scolaire, sans diplôme, sans emploi, sans papiers, sans tuteurs, etc.), elle témoigne également de la transformation rapide et brutale de la société mahoraise et de ses effets en termes de désorganisation sociale. Les institutions coutumières qui concouraient hier à la fabrique d’une société intégrée ne sont plus aussi opérantes, tandis que les nouvelles institutions exogènes liées à la mise aux normes françaises de la société locale ne le sont pas encore totalement. La déviance juvénile semble en être l’un des symptômes les plus prégnants alors qu’elle était quasi inexistante jusqu’au début des années 1990.

    Les jeunes, moins nombreux, était alors très encadrés dans leurs villages respectifs. Ils faisaient partie intégrante d’un système de classes d’âge (shikao) qui organisait des travaux collectifs et renforçait les liens au sein des promotions (hirimu). Ils étaient au contact étroit des maîtres coraniques (fundi wa shioni) qui assuraient tout à la fois leur socialisation religieuse et l’apprentissage des règles du vivre-ensemble. Ils étaient sous le contrôle de la famille élargie et des adultes du village qui disposaient d’un droit de regard et de sanction à l’endroit des enfants circulant dans l’espace public. Ce fort contrôle social canalisait ainsi la plupart des comportements.

    Sous l’effet de l’accroissement démographique, d’une ouverture croissante sur le monde occidental et des mesures d’assimilation qui accompagnent la départementalisation, les institutions coutumières ont perdu de leur force. Bénéficiant d’un niveau de scolarisation plus élevé que celui de leurs parents et grands-parents, les nouvelles générations remettent en question les rapports sociaux fondés traditionnellement sur l’âge et le savoir spirituel.

    L’éducation partagée cède la place à une éducation parentale, défaillante dans de nombreuses familles : d’un côté, des mères isolées et fragilisées tant dans leurs rôles éducatifs que matériels ; de l’autre, des pères absents en raison des politiques migratoires répressives (expulsion du père étranger et « sans-papiers ») et de la fragilité des liens d’alliance au sein des familles matrifocales (père de nationalité française qui a quitté le domicile familial). Les relais éducatifs tels que l’oncle maternel (zama) ou la tante paternelle (ngivavi) qui étaient couramment mobilisés en cas de séparation et/ou de difficultés parentales le sont plus rarement aujourd’hui. Si elles n’ont pas totalement disparu, les pratiques de placement des enfants chez un apparenté sont aujourd’hui plus difficilement vécues par les intéressés qui y voient une forme d’abandon et non de régulation. Cette situation peut être source de conflits et, par la suite, de rupture familiale.

    Les transformations contemporaines de la famille et de la communauté villageoise s’accompagnent ainsi d’une crise de la transmission et de l’autorité. Ceci est particulièrement vrai des milieux sociaux les plus modestes et allophones (et ils sont nombreux) qui peinent à saisir les nouvelles formes de socialisation juvénile et le rôle joué par les institutions républicaines dans l’éducation et la protection des mineurs. La notion « d’enfant du juge » (mwana wa jugi), devenue courante à Mayotte, illustre de façon exemplaire la méconnaissance de ces institutions et l’affaiblissement de la position d’autorité des adultes.

    Évoquant tour à tour la justice des mineurs et le droit des enfants, cette expression consacre l’idée selon laquelle les adultes ne sont plus autorisés à « redresser » les jeunes qui s’écartent des normes morales et sociales au risque d’être convoqués sinon condamnés par la justice de droit commun. Les châtiments corporels ont longtemps été un « outil éducatif » parmi d’autres ; en leur absence, beaucoup se sentent dépourvus de moyens d’action. L’éducation et le pouvoir de sanction à l’endroit des « enfants difficiles » relèvent dès lors de la seule compétence de l’État (sirkali).

    Un État que l’on se représente comme tout-puissant – colonial hier, garant des institutions républicaines aujourd’hui – et qui appelle la soumission de ses sujets. Le déclin des institutions coutumières, c’est en quelque sorte le prix à payer d’une intégration française qui a longtemps été réclamée dans une visée séparatiste avec les Comores[2] et dont on découvre aujourd’hui les effets.
    « Occupons-nous de notre jeunesse avant qu’elle ne s’occupe de nous ! »

    Ce pourrait être le mot de la fin. Cette assertion, entendue à maintes reprises chez des élus mahorais, témoigne de l’enjeu d’une intégration de la jeunesse qui pour l’heure fait défaut. Elle exprime, en creux, le lien que nous avons rappelé ici entre insécurité sociale et insécurité civile. Si la lutte contre la délinquance exige un certain équilibre entre mesures éducatives et mesures répressives, elle ne saurait faire l’économie de la question sociale qui recoupe, ici, la question générationnelle. Qu’ils aient la nationalité française ou non, la plupart des jeunes qui résident aujourd’hui à Mayotte y sont nés et/ou y ont grandi. Leurs préoccupations sont des plus triviales : aller à l’école, obtenir un diplôme, trouver un travail. À cela s’ajoute, pour les étrangers nés sur le territoire, l’obtention de la naturalisation à l’âge adulte, clé de voûte de toute autre forme d’insertion.

    Tout en communiquant sur les efforts financiers sans précédent déployés aujourd’hui dans l’île, les gouvernements successifs adoptent pourtant un même type de gouvernance marqué par un alignement différé des droits et une dépense publique par habitant bien inférieure à celle enregistrée à l’échelle nationale. La démographie et la situation dégradée sur le plan sécuritaire appellent, à notre sens, une plus grande intervention publique dans les domaines de l’éducation, l’aide sociale à l’enfance, la prévention spécialisée, la protection judiciaire de la jeunesse, la lutte contre la pauvreté, l’insertion et la formation professionnelles.

    « Occupons-nous de notre jeunesse avant qu’elle ne s’occupe de nous ! », c’est aussi un appel politique à l’adresse de la société civile afin que celle-ci (re)prenne part à la production de la société. Pour les uns, qui convoquent un passé « où l’on vivait en paix », il s’agit de réactualiser certaines des institutions coutumières qui participaient des équilibres sociaux antérieurs. Considérés comme des « juges de paix », les cadis qui ont perdu leur pouvoir judiciaire et notarial en 2010 sont aujourd’hui remis au-devant de la scène pour prévenir la délinquance. Plusieurs communes ont signé une convention avec le Département et le Conseil cadial pour formaliser plus avant cette fonction de prévention et de médiation. Dans la même veine, certains appellent à un renforcement de l’éducation coranique qui a perdu du terrain face à l’école laïque. Dans les représentations émiques, la non-fréquentation de l’école coranique accroît sensiblement, en effet, les risques de basculer dans la délinquance.

    Pour les autres, il ne s’agit pas tant de revenir à un ordre ancien, perçu comme dépassé, mais plutôt de créer les conditions d’une nouvelle forme d’encadrement social de la jeunesse, plus en phase avec ses besoins immédiats. Ainsi en est-il des nombreuses associations de quartier qui se sont créées ces dernières années. Avec, en toile de fond, un objectif affiché de lutte contre la déscolarisation et la délinquance, ces associations s’efforcent de soutenir les différentes étapes des trajectoires juvéniles : aide aux devoirs et mise à disposition de salles informatiques, animation socioculturelle, stages et contrats d’insertion, médiation avec les administrations et le service public de l’emploi, etc.

    Portées par des adultes natifs de leur quartier d’implantation, elles fonctionnent le plus souvent avec un effectif de deux ou trois salariés, quelques services civiques et de nombreux bénévoles, dont certains sont eux-mêmes anciens délinquants. Leur mot d’ordre est d’apporter de l’aide aux jeunes en difficulté sans dépendre des secours de l’État et des collectivités.

    Au regard de l’ensemble des processus d’exclusion qui affectent la jeunesse mahoraise, ce retour du collectif initié par des associations de quartier peut sembler insignifiant à bien des égards. Néanmoins, il révèle une énergie sociale agissant en marge d’une action publique jugée insuffisante et/ou quelque peu décalée par rapport aux réalités du territoire. Examiner et questionner le sens de cette dynamique associative revient à explorer simultanément la dimension conflictuelle d’une société en partie dépossédée de son organisation sociale et les systèmes d’actions (re)construits en réponse à cette désorganisation.

    NDLR : Nicolas Roinsard a récemment publié Une situation postcoloniale. Mayotte ou le gouvernement des marges aux éditions du CNRS.

    #Mayotte #colonie #immigration #délinquance #Comores #pauvreté

  • Mémoire coloniale : le colbertisme, ou du bon usage de l’esclavage

    Contrôleur général des finances et secrétaire d’État de la Marine de Louis XIV, Jean-Baptiste Colbert est célébré en France pour sa doctrine économique, qui sera d’ailleurs baptisée 
« colbertisme ». Mais par sa théorie comme sa pratique, il est aussi indissociable de l’esclavagisme français.

    La figure de Colbert suscite depuis quelques années la polémique. En septembre 2017, à l’initiative de Louis-Georges Tin, président du Conseil représentatif des associations noires de France (CRAN) et du philosophe Louis Sala-Molins, une tribune demandait le retrait du nom de Colbert de l’espace public, notamment de la façade des collèges et des lycées [1]. Le 13 juin 2020, Jean-Marc Ayrault (président de la Fondation pour la mémoire de l’esclavage) proposait que les lieux portant son nom à l’Assemblée nationale et au ministère de l’Économie soient rebaptisés

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/07/memoire-coloniale-le-colbertisme-ou-du-bon-usa

    #colonisation #esclavagisme

  • Präsident von Namibia : Wie Hage Geingob Deutschland noch im Tod einen Spiegel vorhält
    https://www.telepolis.de/features/Praesident-von-Namibia-Wie-Hage-Geingob-Deutschland-noch-im-Tod-einen-Spie

    Avec sa politique en faveur de l’état d’Israël l’Allemagne se montre comme esclave de son passé colonial.

    5.2.2024 von Uwe Kerkow, Harald Neuber - Kritiker westlicher Politik mit 82 Jahren verstorben. Eine der letzten Wortmeldungen galt deutscher Haltung zu Israel-Krieg. Reaktionen werfen Schlaglicht auf unser Weltbild.

    Kritiker westlicher Politik mit 82 Jahren verstorben. Eine der letzten Wortmeldungen galt deutscher Haltung zu Israel-Krieg. Reaktionen werfen Schlaglicht auf unser Weltbild.

    Noch vor gut drei Wochen hatte sich Hage Gottfried Geingob mit scharfer Kritik an Deutschland zu Wort gemeldet. Er sei „zutiefst besorgt“ über die Haltung Berlins zur international viel beachteten Völkermord-Klage gegen Israel vor dem Internationalen Gerichtshof im niederländischen Den Haag, ließ Namibias Präsident wissen.

    Geingobs Letzte Worte: Scharfe Kritik an Deutschland

    Am frühen Morgen des 4. Februar starb Geingob im Alter von 82 Jahren in einem Krankenhaus in Windhoek. In Afrika und in vielen Ländern, die zu Zeiten des antikolonialen Befreiungskampfes dem „Trikont“ - Afrika, Asien und Lateinamerika - zugerechnet wurden, löste die Nachricht Bestürzung aus, in Europa war sie eher eine Randnotiz. Nicht nur daran zeigt sich der unterschiedliche Blick auf den Globalen Süden.

    Geingob wurde am 3. August 1941 im Distrikt Grootfontein in Südwestafrika geboren, das seit Ende des Ersten Weltkriegs nicht mehr unter deutscher Kolonialherrschaft, sondern unter dem Mandat des Völkerbundes stand. De facto stand das Gebiet jedoch unter der Apartheid-Verwaltung Südafrikas.
    Geingobs Wurzeln: Ein Leben unter Kolonialismus und Apartheid

    Mit 17 Jahren begann Geingob eine Lehrerausbildung, die er trotz seiner politischen Aktivitäten mit 21 Jahren abschloss. Seine Stelle als Lehrkraft musste er jedoch nach kurzer Zeit wieder aufgeben, da er gezwungen war, unter dem südafrikanischen Bantu Education Act zu unterrichten. Mit diesem Gesetz sollte die Rassentrennung im Schulsystem durchgesetzt werden. Stattdessen floh Geingob ins benachbarte Botswana, um dort die Südwestafrikanische Volksorganisation (Swapo) zu vertreten.

    Im Jahr 1964 erhielt Geingob ein Stipendium, das es ihm ermöglichte, in die Vereinigten Staaten zu gehen, wo er einen Master-Abschluss in Politikwissenschaft erwarb. Noch im selben Jahr wurde er zum Vertreter der Swapo bei den Vereinten Nationen ernannt. In den folgenden Jahren setzte er sich intensiv für die internationale Anerkennung des namibischen Befreiungskampfes ein, der seit 1966 auch mit Waffengewalt geführt wurde.

    Von der Bildung zur Politik: Geingobs Aufstieg bei der Swapo

    Und Geingob hatte Erfolg: 1976 wurde die Swapo schließlich von der Generalversammlung der Vereinten Nationen in der Resolution 31/146 als „einzige und authentische Vertreterin des namibischen Volkes“ anerkannt.

    Über verschiedene Stationen bei den Vereinten Nationen und Lehraufträge an US-amerikanischen Universitäten erarbeitete sich Geingob in den folgenden Jahren eine Position, die es ihm ermöglichte, 1989 als Mitglied des Politbüros der Swapo den ersten Wahlkampf für die Befreiungsorganisation in Namibia zu leiten.

    Geingob an der Macht: Erster Premierminister Namibias

    Geingob, der auch ein geübter Rhetoriker war und kompromisslos für die Rechte der Unterdrückten eintrat, leitete nun die verfassungsgebende Versammlung in Windhoek und wurde am 21. März 1990 zum ersten Premierminister der Republik Namibia gewählt.

    Seitdem hat Geingob der Republik Namibia mit kurzen Unterbrechungen in verschiedenen Regierungsämtern gedient, unter anderem als Minister für Regional- und Kommunalverwaltung und Wohnungsbau, als Minister für Handel und Industrie und als Vizepräsident, bevor er am 28. November 2014 zum Präsidenten Namibias gewählt wurde. Dieses Amt bekleidete er nach seiner Wiederwahl im Jahr 2019 bis zu seinem Tod.

    Geingob und der antikoloniale Befreiungskampf: Ein Vermächtnis

    Geingob war einer der letzten Vertreter des antikolonialen Befreiungskampfes, der von den westlichen Kolonialstaaten mit einer hierzulande bis heute fast unbekannten Brutalität bekämpft wurde. In vielen Ländern des Südens wird er in einer Reihe mit Fidel Castro oder Nelson Mandela gesehen.

    Ganz anders in den ehemaligen Kolonialstaaten. Dort spielte die Nachricht von seinem Tod eine eher untergeordnete Rolle und wurde teilweise einseitig aufgegriffen. Während Tagesschau.de weitgehend sachlich berichtete, reicherte das Nachrichtenmagazin Der Spiegel eine Agenturmeldung über den Tod Geingobs mit dem Satz an: „Doch seine Versprechen hielt er nicht immer.“

    Kritik und Interpretation: Was sagt Deutschlands Berichterstattung?

    Was das genau heißen soll, warum das relevant ist und ob man das nicht von jedem Politiker sagen kann – all das blieb offen. So sagt der Satz mehr über den deutschen Blick auf Afrika aus als über einen verstorbenen afrikanischen Staatschef.

    Nicht nur die Aussagen über Afrika lassen Rückschlüsse auf den deutschen Blick auf die Welt zu, sondern auch das, was nicht gesagt und berichtet wird. Drei Wochen vor Geingobs Tod hatte er scharfe Kritik an der Haltung der Bundesregierung gegenüber der Anklage Israels wegen Völkermords vor dem Internationalen Gerichtshof (IGH) geübt.

    Deutschland und IGH: Ein Streitpunkt in Geingobs letzten Tagen

    Dort war Ende Januar eine Klage Südafrikas gegen Israel wegen mutmaßlichen Völkermords erörtert worden. Zugleich hatte die deutsche Bundesregierung bekannt gegeben, Israel vor dem IGH zur Seite zu stehen.
    Lesen Sie auch

    In einer Stellungnahme verurteilte die namibische Regierung die Haltung Deutschlands, die ihrer Ansicht nach eine „völkermörderischen Absichten des rassistischen israelischen Staates gegen unschuldige Zivilisten in Gaza“ unterstützt.
    Namibias Standpunkt: Ablehnung der deutschen Unterstützung Israels

    Geingob selbst äußerte am Samstag seine „tiefe Besorgnis“ über die Entscheidung der deutschen Regierung, die Vorwürfe Südafrikas zurückzuweisen. Er bezeichnete dies als „schockierende Entscheidung“ und erinnerte an den Massenmord an Mitgliedern der Volksgruppen der Herero- und Nama durch Deutschland in den Jahren zwischen 1904 und 1908.
    Ein historischer Konflikt: Namibias Kritik an Deutschlands Rolle

    Namibia lehnt Deutschlands Unterstützung der völkermörderischen Absichten des rassistischen israelischen Staates gegen unschuldige Zivilisten in Gaza ab. Auf namibischem Boden beging Deutschland zwischen 1904 und 1908 den ersten Völkermord des 20. Jahrhunderts, bei dem Zehntausende unschuldiger Namibier unter unmenschlichsten und brutalsten Bedingungen starben.

    Die scharfe Kritik aus Windhoek kam in deutschen Medien vor, gibt man Namibia und Gaza ein, finden sich aber weitaus mehr Artikel in englischer Sprache. Womit der 82-jährige ein letztes Mal deutlich machte, wie der Blick Deutschlands auf Afrika und die Welt ist.

    #Allemagne #colonialisme #génocide

  • Une recension de livre qui interroge à la fois la politisation du passé colonial et la possibilité de caractériser des legs coloniaux dans la longue durée

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/02/hecatombe-oceanienne-dans-le-pacifique-la-memoire-d-un-depeuplement_6214429_

    « Hécatombe océanienne » : dans le Pacifique, la mémoire d’un dépeuplement

    Des premiers contacts avec les explorateurs européens, au XVIᵉ siècle, jusqu’au début du XXᵉ siècle, Christophe Sand analyse dans un livre le phénomène massif de dépopulation des Océaniens, lié aux crises et aux guerres engendrées par les maladies.

    Par Nathalie Guibert, 2 février 2024

    Fernand de Magellan, James Cook, Louis-Antoine de Bougainville… Ces navigateurs ont inscrit l’exploration des îles du Pacifique au chapitre de la grandeur européenne. Leurs étapes charrient néanmoins une effroyable hécatombe, exposée par le chercheur basé en Nouvelle-Calédonie Christophe Sand, dans son dernier ouvrage. Entre leurs premiers contacts au XVIe siècle et le début du XXe siècle, la population des Océaniens est passée de quelque 3 millions à 410 000 personnes.

    Christophe Sand n’est pas démographe, mais archéologue. Ce sont « les concentrations de sites d’habitat, de structures cérémonielles inventoriées dans les îles » qui l’ont « obligé à questionner les évaluations démographiques » existantes. Il a travaillé à la lumière des récits d’aventuriers, des textes des missionnaires et des fonctionnaires coloniaux, et des synthèses des chercheurs. Il en résulte une démonstration solide dans un livre, Hécatombe océanienne. Histoire de la dépopulation du Pacifique et ses conséquences (XVIe-XXe siècle), richement illustré.

    Quand ils débarquent, les Européens découvrent des populations nombreuses. Parvenu à Tahiti le 19 juin 1767, avec le capitaine Samuel Wallis, atteint d’une maladie vénérienne et alité, l’officier George Robertson n’en revient pas : sur plus de cinq cents pirogues, quatre mille hommes les entourent, quand, à terre, « personne à bord n’a jamais vu un rassemblement d’autant de gens si loyaux ». Ces derniers vont vite être exposés à de puissants agents pathogènes qui ont pour noms « dysenterie », « grippe », « lèpre », « syphilis », « gonorrhée », « oreillons », « rougeole », « tuberculose », « variole »…
    Lire aussi la critique : Article réservé à nos abonnés « Océaniens », de Nicholas Thomas : le Pacifique cosmopolite

    Faisant exploser les sociétés et les pouvoirs locaux, l’extermination est si violente que, « dans la première moitié du XIXe siècle, tout le Pacifique se trouve en guerre », précise au Monde Christophe Sand. Quant aux conversions chrétiennes massives de l’époque, elles ont servi autant à asseoir de nouveaux pouvoirs politiques qu’à « rechercher une réponse et une protection face à l’incompréhensible effondrement démographique en cours dans les îles ».

    A Tahiti, quand les visites des navires européens s’enchaînent, à la fin du XIXe siècle, « la succession d’épidémies ne laisse pas le temps pour des reprises démographiques », appuie l’auteur. Après l’annexion française de 1842, l’île compte moins de dix mille résidents. Entre 1760 et 1880, elle aura perdu 95 % de ses habitants.

    « Sentiment d’infériorité »

    La célèbre île de Pâques, Rapa Nui, vit « un drame à épisodes multiples ». L’étude de squelettes pascuans démontre la transmission précoce de maladies vénériennes importées à partir de l’arrivée du Hollandais Jakob Roggeveen, en 1772. Les animaux européens débarqués sur l’île ravagent ensuite l’environnement, tandis que les chefferies traditionnelles se déchirent.

    Quand, à partir de 1800, les baleiniers succèdent aux explorateurs commerçants, « la population refuse que les marins débarquent » pour se protéger. Mais les navires négriers du Pérou vont saigner les élites de l’île, déportant mille personnes d’un coup. En 1720, Rapa Nui comptait environ dix mille habitants. Cent soixante ans plus tard, ils sont moins de cent.

    En Nouvelle-Calédonie, les évaluations divergent encore, tant l’effondrement de la population des Kanak demeure un sujet sensible, très politique, entre indépendantistes et héritiers des colons. Avant la prise de possession de la Grande Terre, l’île principale de l’archipel, au nom de la France, en septembre 1853, les épidémies sévissent, là aussi. Puis la violence de la colonisation foncière décime les tribus. Un premier recensement colonial compte 39 000 autochtones en Nouvelle-Calédonie, après l’écrasement de la grande révolte kanak de 1878.

    Pour les Kanak, l’hécatombe serait « au moins comparable », selon l’auteur, à celle des pays voisins, soit une baisse de population de 80 % entre 1850 et 1900. « Jamais l’équipe archéologique calédonienne sous ma direction n’a proposé un chiffre », précise-t-il néanmoins. On peut regretter cette prudence. « J’aurais pris une balle si j’en avais donné un, le pays n’était pas prêt [après la quasi-guerre civile de 1984-1988] », explique-t-il au Monde. Le contexte s’est apaisé. Des archives européennes, et de nouvelles données archéologiques, devraient permettre de proposer une estimation dans un prochain livre, promet-il.

    Les observateurs coloniaux ont longtemps nié leur responsabilité. Outre les « liqueurs » et la « dépravation des mœurs », « la domestication et le désœuvrement (…) sont les véritables raisons de la décadence des Polynésiens », assure le médecin de la marine Charles Clavel, en 1884, au sujet des îles Marquises. Le drame, démontre Christophe Sand, a pourtant touché toutes les générations suivantes, bien au-delà des épidémies.

    L’ouvrage éclaire ainsi la relation contemporaine des peuples du Pacifique vis-à-vis de l’Occident : « Les Océaniens, ayant compris très tôt le lien direct entre les Occidentaux et l’apparition de maladies, ont tenté de se préserver de relations prolongées. » Voyant les Blancs épargnés, les populations ont développé un « traumatisme sur la perte de confiance en soi », un « sentiment d’infériorité ». La mémoire de la dépopulation reste vivace : lors de la pandémie de Covid-19, « des communautés insulaires se sont spontanément isolées » dans de « nombreux lieux du Pacifique ».

    « Hécatombe océanienne. Histoire de la dépopulation du Pacifique et ses conséquences (XVIe-XXe siècle) », de Christophe Sand, Au vent des îles, 376 p., 33 €.

    #Océanie #Polynésie #Nouvelle-Calédonie #épidémies #colonisation #déportations

  • Irlande : le soutien à la Palestine nourri par l’histoire coloniale de l’île

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040224/irlande-le-soutien-la-palestine-nourri-par-l-histoire-coloniale-de-l-ile

    À Dublin, les manifestations pour un cessez-le-feu ne faiblissent pas. Les traumas de la colonisation britannique y sont encore vifs et alimentent le sentiment d’une histoire commune avec la Palestine.

    Ludovic Lamant, 4 février 2024

    Elle arbore sur son pull le dessin d’une pastèque aux couleurs du drapeau palestinien : la chair rouge reprend les motifs d’un keffieh, tandis que l’écorce verte, elle, est couverte d’un nœud celtique. Mary-Kate Geraghty, une musicienne connue sous le nom de scène de MayKay, glisse : « Le réveil en Irlande est immense face à ce qu’il arrive en Palestine. »

    Cette Dublinoise née en 1986 est l’une des figures d’un collectif d’artistes en soutien à Gaza, qui multiplie les concerts depuis l’automne. Un spectacle au 3Arena, l’une des plus grandes salles de la capitale, a récolté plus de 200 000 euros en fin d’année dernière, versés à une fondation, l’Aide médicale à la Palestine (MAP).

    Des écrivains de premier plan ont aussi réalisé des lectures dans plusieurs villes du pays, à l’instar de Paul Lynch, lauréat du Booker Prize l’an dernier, ou Sally Rooney, l’autrice du best-seller Normal People (qui avait refusé dès 2021 la publication de l’un de ses livres en hébreu, en signe de boycott des maisons d’éditions basées en Israël).

    Depuis le début des frappes israéliennes en réaction à l’attaque du Hamas du 7 octobre, l’Irlande semble à part en Europe. Les manifestations réclamant un cessez-le-feu immédiat restent très suivies en ce début d’année, au rythme d’un ou deux défilés par semaine dans la capitale. Dans ces défilés, beaucoup d’artistes déjà mobilisé·es sur un tout autre sujet, pour le droit à l’avortement, lors d’un référendum organisé en Irlande en 2018. Mais l’ampleur du mouvement, cette fois, semble inédite.

    Pour MayKay, c’est un séjour en Cisjordanie, en 2022, qui fut le déclic. « J’ai toujours été favorable à la cause palestinienne. Mais cela restait diffus. Je suis revenue changée, en colère », dit-elle. En cette fin janvier, la chanteuse, rencontrée dans un ancien quartier d’entrepôts de la capitale, Smithfield, milite à présent pour faire dérailler la Saint-Patrick, la fête nationale irlandaise.

    Le premier ministre, Leo Varadkar, doit se rendre à Washington ce jour-là, le 17 mars, pour serrer la main du président des États-Unis, Joe Biden. La coutume est ancienne, témoin de l’histoire partagée des deux pays. Mais pour de nombreux activistes, cette entrevue ne doit pas avoir lieu. « Bien sûr qu’il faut parler aux gens avec qui nous ne sommes pas d’accord. Mais les choses, cette fois, sont allées trop loin, insiste-t-elle. Les États-Unis soutiennent sans réserve Israël dans ce génocide. Cela n’est plus possible », avance la chanteuse.

    Boycotter la Maison-Blanche, et son soutien inconditionnel à Israël ? La revendication est revenue en boucle, lors d’une manifestation le 27 janvier en soutien à la Palestine et pour un cessez-le-feu à Gaza, dans les rues de l’hypercentre de Dublin. « No shamrocks for genocide Joe » (« pas de trèfles – le symbole de l’Irlande – pour Joe le génocidaire ») ont ainsi scandé des milliers de participant·es, au moment d’approcher les bâtiments du Parlement irlandais.

    Des boycotts aussi dans le sport

    Rencontré peu après cette manifestation dans un pub du quartier populaire de Phibsborough, non loin du stade où évolue le club de foot qu’il dirige, Daniel Lambert, lui, se félicite d’un autre boycott, a priori plus anecdotique. Cinq des joueuses de l’équipe nationale de basket-ball viennent de déclarer forfait pour un match de qualification pour l’Euro de l’an prochain, qui doit se tenir le 8 février face à Israël.

    « Tout le monde est consterné par ce qu’il se passe. Et cette idée que le sport existe hors du monde, que les sportifs participent à des compétitions dans des bulles apolitiques, c’est totalement absurde », balaie-t-il.

    Lambert, roux aux yeux bleus, sweat Lacoste violet éclatant, est une célébrité locale : il est le patron du club de football le plus politisé d’Europe, à gauche toute, le Bohemian FC. Fonctionnant sous la forme d’une coopérative détenue par ses supporteurs, le club, 134 ans d’histoire derrière lui, a mené des campagnes pour les sans-abri, l’accueil des réfugié·es ou encore le mariage pour toutes et tous. Depuis l’an dernier, ses joueurs revêtent un maillot aux couleurs de la Palestine. « Les autres clubs en Irlande sont détenus par des capitaux privés et ne prennent pas position sur ces sujets. Mais le sport, c’est une tout autre histoire que de gagner ou de perdre », insiste-t-il.

    MayKay, Sally Rooney ou Daniel Lambert ne sont que quelques-uns des visages d’une mobilisation protéiforme de la société civile sur l’île. « La société irlandaise a toujours été mobilisée sur ces enjeux, mais depuis l’automne, les manifestations sont vraiment massives », assure Brian Ó Éigeartaigh, un bibliothécaire de 34 ans, qui est aussi l’une des chevilles ouvrières de la Campagne de solidarité Irlande-Palestine (IPSC).

    Cette structure, mise sur pied au début de la deuxième Intifada en 2001, entre Dublin et Belfast, visait, à l’origine, à relayer les campagnes de boycott à l’égard d’Israël. Son rôle est devenu central au fil des années, pour articuler partis, associations et collectifs d’artistes. « L’IPSC fait très attention à ce que ces manifs ne soient pas perçues comme des défilés de trotskistes ou d’obscurs gauchistes », assure David Landy, sociologue au Trinity College et cofondateur d’un petit collectif baptisé « Juifs pour la Palestine », impliqué dans les manifestations.

    L’universitaire ajoute : « Les défilés que l’on voit à Dublin sont importants, pas seulement parce qu’un génocide est en cours. Ils sont l’aboutissement d’un travail de fond de l’IPSC, bien plus ancien, qui fait que tout le monde se sent à bord. » Marie-Violaine Louvet, de l’université Toulouse-Jean-Jaurès, et qui a consacré un ouvrage à ce sujet, confirme : « La gauche n’a jamais été très importante numériquement en Irlande. Le sentiment propalestinien dépasse largement l’extrême gauche et la gauche. »
    Des siècles de colonisation britannique

    Des militants du mouvement antiguerre, les mêmes qui s’opposent de longue date à l’utilisation par les États-Unis de l’aéroport de Shannon, dans l’ouest de l’île, sont également présents dans les rangs du défilé du 27 janvier. Au-delà, c’est tout une foule de professions qui se trouvent représentées, des travailleurs et travailleuses de la santé aux avocat·es, en passant par les sportifs et sportives, descendu·es dans la rue avec leurs pancartes « pour une Palestine libre ».

    D’où vient cette mobilisation sans pareille ? « L’Irlande est l’un des rares pays d’Europe à avoir subi lui-même la colonisation d’un voisin plus puissant, explique Marie-Violaine Louvet. Cette colonisation par la Grande-Bretagne a démarré au XIIe siècle [en 1169 – ndlr]. Et quand l’Irlande est devenue indépendante dans les années 1920, elle a considéré qu’elle devait rester non alignée, en partie pour marquer son émancipation de la Grande-Bretagne. »

    Friedrich Engels identifiait déjà l’Irlande comme « la première colonie anglaise », dans une lettre envoyée à Karl Marx en 1856. « Quand on parle de colonisation et d’oppression, les gens ici savent, très concrètement, de quoi on parle, renchérit l’ambassadrice pour la Palestine en Irlande, Jilan Wahba Abdalmajid, qui reçoit Mediapart dans ses bureaux de Leeson Street. Ils savent ce que nos souffrances signifient pour les avoir connues pendant 700 ans environ. »

    « Comme la Palestine, l’Irlande a été occupée par la Grande-Bretagne, et une partie de l’Irlande l’est d’ailleurs toujours », avance de son côté l’eurodéputé Chris MacManus, du Sinn Féin, qui plaide pour la réunification de l’Irlande. « La Belgique, la France, l’Allemagne, le Portugal… Tous étaient des pouvoirs coloniaux. Pas nous, résume avec fierté Daniel Lambert. Nous avons expérimenté l’oppression d’une puissance étrangère, et cela a forgé chez nous une manière de penser différente. Sans exagérer, je pense qu’une majorité des Irlandais est conscient de la gravité de ce qu’il se passe en Palestine. »

    Au fil des échanges avec des activistes propalestiniens en Irlande, c’est toute l’histoire de siècles de colonisation irlandaise qui défile, avec un degré de précision parfois déroutant.

    Gary Daly est un ancien boxeur, passé au jujitsu. Installé depuis 2006 comme avocat pour défendre l’accueil des migrant·es à Dublin, il se lance : « Il y a tellement d’échos entre les batailles pour la liberté de l’Irlande, et pour celle de la Palestine. Prenez la déclaration Balfour de 1917 [qui approuve la création d’un « foyer national pour le peuple juif » – ndlr] : cet Arthur Balfour, avant cela, fut secrétaire en chef pour l’Irlande dans les années 1880. Nous, on le connaissait déjà sous le nom de “Bloody Balfour” [« Balfour le sanguinaire » – ndlr], qui expulsait les simples Irlandais au profit des grands propriétaires fonciers. »

    Gary Daly cite encore les « lois pénales », cette batterie de textes adoptés au fil des siècles par les Britanniques aux dépens de la majorité catholique de l’île. Il insiste : « Ma solidarité avec la Palestine vient de ma conscience des injustices provoquées par l’occupation de l’Irlande, et des lois qui y ont été imposées par les Anglais. Je sais à quel point l’occupation peut poser d’innombrables problèmes. »

    La musicienne MayKay, elle, souligne les échanges épistolaires qui ont existé entre prisonniers en grève de la faim, en Irlande du Nord et en Palestine. Elle voit aussi des parallèles évidents, au moment d’évoquer les risques de famine à Gaza : « On nous a longtemps expliqué que la grande famine [entre 1845 et 1852, plus d’un million de morts en Irlande, dont la moitié d’enfants – ndlr] était la conséquence des dégâts du mildiou. Mais ce fut une stratégie préméditée [par Londres – ndlr] pour affamer des gens de la campagne. Savoir que l’on m’a menti là-dessus durant ma jeunesse me fait encore enrager. »

    Quant à Brian Ó Éigeartaigh, il rappelle que la pratique du boycott, décisive à ses yeux pour freiner le gouvernement israélien aujourd’hui, est une invention irlandaise : pour protester, à la fin du XIXe siècle, contre les violences exercées par un certain Charles Cunningham Boycott, un Britannique, à l’égard des paysans locaux.

    Dans une tribune récente, Jane Ohlmeyer, historienne au Trinity College, qui vient de publier un essai de référence sur l’Irlande et l’impérialisme, va même un peu plus loin, dans le jeu des correspondances : « L’Irlande a servi d’exemple en matière de résistance à la domination impériale et a inspiré des combattants de la liberté dans les empires britannique et européens. Aujourd’hui, certains espèrent que l’Irlande, avec sa “solution à deux États”, pourra également servir de modèle pour la paix. » De là à ce que l’accord du Vendredi saint, en 1998, qui a instauré la paix civile en Irlande, soit revisité pour imaginer les chemins de la paix au Proche-Orient ?

    Le numéro d’équilibriste du premier ministre

    Du côté de la scène politique institutionnelle, les partis de gauche et de centre-gauche, tous dans l’opposition, participent aussi, sans surprise, aux défilés : le Sinn Féin, le parti travailliste, mais aussi les Sociaux-démocrates, formation plus récente, lancée en 2015, qui a le vent en poupe, ou encore People before Profit, qui incarne une gauche plus radicale.

    La cheffe du premier parti d’opposition, le Sinn Féin, Mary Lou McDonald, était allée jusqu’à demander l’expulsion de l’ambassadrice israélienne d’Irlande – ce que Leo Varadkar, chef du gouvernement (Fine Gael, droite) s’est refusé à faire. Ce dernier joue les équilibristes, entre une société civile majoritairement propalestinienne, la ligne de son propre parti, plus modérée sur le sujet, et l’équation européenne, qui oblige à des compromis conclus à 27 avec des pays répétant le droit à Israël à se défendre.

    Varadkar avait ainsi été le premier en Europe à critiquer les bombardements israéliens, s’inquiétant dès novembre d’« une action se rapprochant d’une revanche ». Au même moment, son ministre des affaires étrangères, Micheál Martin (Fianna Fáil, droite), qualifiait de « disproportionnées » les frappes.

    Quant au président irlandais Michael Higgins, il avait jugé que le premier déplacement éclair d’Ursula von der Leyen, la présidente de la Commission européenne, en Israël, était « irréfléchi et même imprudent », témoignant d’une position plus pro-israélienne que la ligne officielle des 27.

    Mais le gouvernement de Varadkar (qui gouverne en coalition avec les écologistes) s’est gardé de soutenir officiellement l’Afrique du Sud qui accuse Israël de « génocide » devant la Cour internationale de justice. La pression des mouvements sociaux sur le sujet l’a tout de même conduit, dans une déclaration le 30 janvier, à dire « examiner » cette option.

    Aucun des ministres irlandais ne va jusqu’à reprendre à son compte le terme de « génocide », que l’on a entendu dans la bouche de certains ministres du parti de gauche Podemos en Espagne l’an dernier. Brian Ó Éigeartaigh, de l’IPSC, regrette par ailleurs que plusieurs textes législatifs, dont un projet de loi déposé en 2018 qui vise à interdire tout commerce avec des entreprises impliquées dans la colonisation de la Cisjordanie, soient bloqués par le Parlement.

    Une hausse de l’antisémitisme ?

    Si l’engagement propalestinien s’exprime plus facilement en Irlande que sur le continent, l’île fait-elle face, comme ailleurs, à une montée des actes antisémites ? « Le débat que l’on connaît en France sur l’antisionisme et l’antisémitisme n’existe quasiment pas en Irlande », prévient Marie-Violaine Louvet.

    _ Une communauté juive peu nombreuse

    La vigueur du mouvement propalestinien en Irlande contraste avec la faiblesse numérique de la communauté juive sur l’île. Ils et elles étaient à peine quelque 2 500 (0,05 % de la population), d’après un recensement de 2016. C’est aussi ce qui rend si spécifique en Europe le cas irlandais.

    Dans le paisible quartier de Portobello, autrefois surnommé la Little Jerusalem, il existe un tout petit musée juif, à la façade couverte de briques rouges, logé dans une ancienne synagogue. L’endroit, qui n’ouvre qu’un jour par semaine, déroule cette histoire peu connue. Il revient par exemple sur les origines irlandaises de Chaim Herzog, élevé à Dublin avant de devenir président de

    l’État d’Israël (1983-1993), ou encore sur les innombrables personnages juifs qui peuplent le plus grand des romans irlandais, l’Ulysse de Joyce (1922).

    Il décrit aussi les violences exercées contre des juifs de la ville de Limerick, sur la côte ouest, de 1904 à 1906, ou encore la neutralité adoptée par l’Irlande pendant la Seconde Guerre mondiale (en partie pour se démarquer de la position prise par Londres). Autant d’éléments qui peuvent avoir découragé des juifs de tenter l’exil en Irlande au fil de l’histoire ._

    Dans la manifestation du 27 janvier, plusieurs collectifs entonnaient le slogan controversé « From the river to the Sea, Palestine must be free » (« Du Jourdain à la Méditerranée, la Palestine doit être libre »). Mais sur l’île, cette chanson n’a pas provoqué autant de remous qu’au Royaume-Uni ou en Allemagne.

    À Londres, un député travailliste a été mis sur pied pour avoir repris ce slogan dans un discours. À Berlin, le slogan a été interdit, considéré comme une incitation à la haine. Les adversaires de ce texte estiment qu’il contient un appel implicite à la destruction d’Israël, et rappellent que le Hamas, auteur des attaques du 7 octobre, l’a aussi repris dans sa rhétorique mortifère contre Israël.

    David Landy, du collectif Juifs pour la Palestine, livre son analyse : « C’est de la pure mauvaise foi. C’est un slogan pour la liberté des Palestiniens. Aucun manifestant ne va vous dire que cela signifie l’extermination des juifs ! » Cet universitaire reconnaît qu’il a mis sur pied cette association juive, précisément pour tenter de désamorcer les critiques sur l’antisémitisme dans le mouvement propalestinien. Il dit encore : « Des juifs sont mal à l’aise avec la situation actuelle. Mais tenter d’évacuer cet inconfort, en dénonçant un antisémitisme croissant, me semble être problématique. »

    Beaucoup des activistes avec qui Mediapart a échangé renvoient, quand on leur pose la question de l’antisémitisme, aux déboires du travailliste Jeremy Corbyn à la tête du Labour à Londres, discrédité dans le débat public pour son manque de fermeté envers des sorties antisémites – avérées – de certains membres du parti. Il avait fini par perdre les élections générales de 2019 face à Boris Johnson.

    #Palestine #Gaza #Israël #Irlande #paix #mobilisations #colonialisme

  • Time of Israel  : 2 Juifs arrêtés suspectés d’avoir craché sur un ecclésiastique chrétien à Jérusalem

    Ramallah et le ministre des Affaires étrangères, Israël Katz, ont condamné les crachats et insultes proférées à l’encontre de l’abbé Nikodemus Schnabel

    Deux Israéliens juifs, soupçonnés d’avoir insulté et craché sur un ecclésiastique chrétien dans la Vieille Ville de Jérusalem, ont été arrêtés, a indiqué dimanche la police dans un communiqué.


    Selon la police, l’incident s’est produit samedi. Les deux suspects ont été retrouvés et interpellés – dont un mineur âgé de 17 ans. Les deux hommes ont été assignés à résidence pendant que l’enquête se poursuit, a déclaré la police, qui a signalé qu’elle ne tolérerait pas ce genre d’incidents.

    Le ministère des Affaires étrangères palestinien a condamné l’incident, pointant du doigt certains ultra-nationalistes israéliens.

    Dans un communiqué, Ramallah a imputé l’incident à « l’incitation à la haine » des ministres israéliens d’extrême-droite Itamar Ben Gvir et Bezalel Smotrich et l’a qualifié d’expression d’une « culture coloniale raciste » qui « nie l’existence de l’autre ».

    La déclaration affirme en outre que les « milices de colons [résidents d’implantations] » se sentent enhardies par un « sentiment d’impunité politique et juridique » qui les encourage à persister à « semer la haine » et à « provoquer les citoyens palestiniens et les membres d’autres religions ».

    La police avait arrêté https://fr.timesofisrael.com/cinq-personnes-arretees-pour-avoir-crache-sur-des-chretiens-a-jeru début octobre cinq Juifs orthodoxes soupçonnés d’avoir craché sur des fidèles chrétiens dans la Vieille Ville de Jérusalem, dans un contexte de multiplication des incidents visant les prêtres et les pèlerins dans la capitale.

    Le ministre de la Sécurité nationale Ben Gvir , s’était alors exprimé lors d’une interview accordée à la radio de l’armée. « Je continue de penser que cracher sur des chrétiens n’est pas un acte criminel. Je pense que nous devons agir par l’instruction et l’éducation. Tout ne justifie pas une arrestation. »

    Avant d’entrer en politique, Ben Gvir avait justifié par le passé les crachats à l’encontre des chrétiens en les qualifiant « d’ancienne coutume juive ».
    . . . . . . .

    Source et suite : https://fr.timesofisrael.com/2-juifs-arretes-suspectes-davoir-crache-sur-un-ecclesiastique-chre

    #Israel #Jérusalem #violence #religieux #religions #racisme #colons

  • Les #Natchez et les Français : histoire d’une alliance et d’un drame méconnu | CNRS Le journal
    https://lejournal.cnrs.fr/articles/les-natchez-et-les-francais-histoire-dune-alliance-et-dun-drame-mecon

    En 1729, près de la Nouvelle-Orléans, les Natchez massacrent soudainement des colons français installés dans leur voisinage. Les représailles, féroces, mèneront le peuple #amérindien au bord de la disparition. Dans un ouvrage qui paraît aujourd’hui, l’historien Gilles Havard, à l’origine d’un projet de « traité de #réconciliation », tente d’apporter un nouvel éclairage sur cet épisode tragique.

    #histoire #colonialisme

  • EDEKA - Einkaufsgenossenschaft der Kolonialwarenhändler im Halleschen Torbezirk zu Berlin
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Edeka

    Depuis 1918 le colonialisme allemand est un souvenir nostalgique. Les locataires de jardins ouvriers forment des associations qui gèrent leurs « colonies » et les colons achetaient leurs fruits et légumes au magasin de marchandises coloniales (Kolonialwarenhandlung). Depuis la disparition des petits commerces dans les années 1970 cette appellation ne survit plus que dans le nom de la chaîne de grandes surfaces Edeka.

    Notre âme de colon ne peut alors s’exprimer qu’à travers la solidarité inconditionnelle avec nos petits apprentis sorciers au proche orient. Comme ça tous les matins mon peiti colon philosemite intérieur acceuille avec joie et le soleil et la.lumière culturelle occidentale qui illumine le proche orient.

    Il faudrait que j’ouvre un commerce de Kolonialwaren pour me libérer de ces velléités démodées.

    Die Edeka-Gruppe (Eigenschreibweise: EDEKA; ehemals Abkürzung für Einkaufsgenossenschaft der Kolonialwarenhändler im Halleschen Torbezirk zu Berlin) ist ein genossenschaftlich organisierter kooperativer Unternehmensverbund im deutschen Einzelhandel. Die Edeka-Zentrale hält jeweils Kapitalanteile in Höhe von 50 Prozent an sieben Regionalgesellschaften, die jeweils anderen 50 Prozent werden von einer oder mehreren regionalen Genossenschaften gehalten. Die Edeka-Zentrale kontrolliert zudem mehrheitlich den Discountfilialisten Netto und betreibt mit Edeka Fruchtkontor eine eigene Beschaffungsorganisation vorrangig für Obst- und Gemüseimporte, eine Wein- und Sektkellerei sowie verschiedene Servicegesellschaften wie die Edekabank, die Edeka Verlagsgesellschaft oder die Edeka Versicherungsdienst Vermittlungsgesellschaft. Die Bezeichnung „EDEKA“ für das Unternehmen wird feminin,[8] die Bezeichnung „Edeka“ für einen Supermarkt maskulin verwendet.

    Stichtag - 21. Oktober 1907 : Gründung der « Edeka » in Leipzig - Stichtag - WDR
    https://www1.wdr.de/stichtag/stichtag-edeka-100.html

    Nur kurz zu Edeka - besser hätte man die Philosophie des Lebensmittelverbunds nicht beschreiben können. Im Schnitt dauert es in Deutschland laut Unternehmen nur sieben Minuten bis zum nächsten Laden. Und da soll der Kunde sich wohlfühlen.

    In Hannover wurde ein Edeka-Markt nach Feng-Shui-Prinzipien errichtet, mit runden Wänden und Springbrunnen im Zentrum; ein Markt in Dortmund erhielt einen Architekturpreis. „Man soll sich wohlfühlen wie im Schlaraffenland“, bemerkt eine Kundin schon 1961, „und kaufen, kaufen, kaufen“.

    Großaufträge sparen Kosten

    Grundlage für Edeka ist der „Verband deutscher kaufmännischer Genossenschaften“. Gegründet wird er von Genossenschaften und Einkaufsvereinigungen am späten Nachmittag des 21. Oktober 1907 im Leipziger Hotel de Pologne, um den darin organisierten Einzelhändlern bessere Einkaufsmöglichkeiten zu eröffnen.

    1911 wird aus dem vom Verband gewählten Kürzel E.d.K. ("Einkaufsgenossenschaft der Kolonialwarenhändler") der Firmen- und Markenname Edeka. Konkurrenz gibt es von Anfang an, namentlich durch die Kula ("Kolonial- und Lebensmittelausstellung") und die PUG ("preiswert und gut").
    Vom Krämerladen zum Supermarkt

    Die Konkurrenten überlebt die Edeka aber ebenso wie einen Lieferboykott von 40 Markenartikelherstellern, der 1913 nach nur einem Jahr zusammenbricht.

    Nach dem Zweiten Weltkrieg mausern sich die Edeka-Geschäfte im Deutschland des Wirtschaftswunders vom Krämerladen zum Supermarkt. Betrieben werden sie unter dem Ketten-Label von selbstständigen Einzelhändlern, die die Geschäfte auf eigene Rechnung und Verantwortung betreiben.

    Die Ladengestaltung ist ebenfalls jedem Einzelnen überlassen, wenn der Marken-Bezug erhalten bleibt. Als Gruppe vergeben die Edeka-Händler Großaufträge an die Lieferanten. So können Gewinne maximiert und die Preise trotzdem möglichst klein gehalten werden.
    Wenige Euro über Mindestlohn

    Rund 4.000 Edeka-Geschäfte gibt es derzeit – ein straff organisiertes Handelsimperium, das aus einer Hamburger Zentrale, sieben Regionalgemeinschaften und der Discount-Tochter Netto besteht.

    2016 erwirtschaftete die „Einkaufsgenossenschaft der Kolonialwarenhändler“ fast 50 Milliarden Euro. Damit ist Edeka der größte Lebensmittelhändler Deutschlands.

    Und er möchte weiter wachsen: 2017 übernimmt der Supermarktriese die rund 400 Filialen der angeschlagenen Kette Kaiser’s Tengelmann mitsamt der Mitarbeiter. Viele davon verdienen laut Gewerkschaftskritik in der Stunde gerade einmal zwei Euro mehr als den vom Staat bestimmten Mindestlohn.

    #colonialisme #Allemagne #commerce #psyholigie #parodie #wtf

  • Yaïr Golan, le héros du 7 octobre qui défie Benyamin Nétanyahou
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2024/01/28/yair-golan-le-heros-du-7-octobre-qui-defie-benyamin-netanyahou_6213491_45000


    « Nous n’allons pas détruire le Hamas, c’est impossible »

    Longtemps qualifié de traître par la droite israélienne pour avoir critiqué la politique du gouvernement, l’ex-numéro deux de Tsahal est aujourd’hui célébré à travers le pays pour sa bravoure lors de l’attaque du Hamas. Ce sioniste de gauche entend transformer sa nouvelle popularité en intention de vote, avec le lancement du mouvement Hitorerut.
    [...]
    Dès les premières alertes à la roquette, tôt, ce matin du 7 octobre, le général de l’armée israélienne à la retraite, ­toujours réserviste, enfile un vieil uniforme avant de récupérer un fusil dans son ancienne caserne de Ramla, au sud-est de Tel-Aviv. Au volant de sa Toyota Yaris, ce père de cinq enfants prend seul la route en direction de la bande de Gaza pour se rapprocher de la zone où le festival Tribe of Nova a été attaqué.

    Par téléphone, sa sœur, qui a des amis sur place, l’informe qu’un groupe de jeunes se trouve au milieu des champs, vaguement cachés par quelques buissons. Le militaire parvient à les retrouver avant de les emmener en lieu sûr, loin des ­combats, quand il est contacté par un journaliste du quotidien de gauche Haaretz dont le fils est au festival. Yaïr Golan reprend alors la route. En tout, il effectue trois allers-retours, à chaque fois de plus en plus proche des combats.

    Prises de position contre la #colonisation

    Dans le récit de ces heures tragiques, qu’il partagera en détail avec les médias israéliens les jours suivants, un détail le hante : « J’étais obligé de conduire lentement, car des dizaines de corps étaient étendus sur la chaussée et dans les champs. » A la suite de cette opération de sauvetage, le courage de Yaïr Golan est célébré à travers le pays. Dans ce qu’il considère comme un « juste retour à la normale », tous les partis politiques lui rendent hommage : « Ça faisait longtemps que je n’avais pas été soutenu et félicité comme ça », sourit légèrement l’homme politique.

    Durant sa longue carrière militaire et politique, Yaïr Golan n’a pas toujours fait l’unanimité. Entré dans l’armée israélienne en 1980, deux ans avant l’intervention de l’Etat hébreu au Liban, le jeune parachutiste grimpe les échelons. Devenu un commandant respecté, il se taille une réputation d’indépendance avec des prises de position qui lui valent des réprimandes régulières de sa hiérarchie.

    En 2006, le général, qui dirige alors les forces armées israéliennes en Cisjordanie, conclut, sans en informer ses chefs, des accords avec des colons juifs à Hébron pour qu’ils évacuent certaines zones de la ville. Au début des années 2010, au moment où Bachar Al-Assad bombarde sa propre population, Yaïr Golan ordonne d’accueillir des blessés dans un hôpital israélien installé à la frontière syrienne, sans se préoccuper des débats politiques en cours.

    A l’époque, selon Haaretz, Benyamin Nétanyahou aurait été impressionné par l’attitude et les compétences du militaire, au point d’envisager sa nomination au poste de chef d’état-major. Mais, devenu numéro deux de Tsahal, ses chances de promotion disparaissent en 2016, quand il critique le « manque de tolérance » dans le pays et compare l’Etat hébreu à « l’Allemagne des années 1930 » dans un discours donné à ­l’occasion de la journée dédiée à la mémoire des victimes de la Shoah. En retour, il est considéré comme un « traître » par une partie de la classe politique. Il soupire : « Trente-huit ans passés dans l’armée et je serais un traître ? Je me suis battu pour ces gens qui me critiquent constamment. »
    [...]
    Comme dans l’armée, l’ancien militaire revendique sa liberté de ton et se fâche avec une bonne partie de la classe politique israélienne. Début 2022, il qualifie les habitants de Homesh – une colonie illégale du nord de la Cisjordanie, évacuée en 2005 sur ordre du premier ministre, Ariel Sharon, de nouveau occupée ces dernières années – de « sous-hommes méprisables ». Il insiste, en les accusant de commettre un « #pogrom » contre Burqa, le village palestinien voisin, où les #colons ont agressé des ­habitants et détruit des pierres tombales.

    Dans les manifestations contre la réforme de la justice

    Après les élections législatives de novembre 2022, où Meretz remporte trop peu de voix pour avoir le moindre élu à la Knesset, l’homme politique sans mandat ne quitte pas le devant de la scène : début 2023, pendant les manifestations massives contre la réforme de la justice voulue par le gouvernement de Benyamin Nétanyahou, l’ancien général se fait remarquer en proposant de « paralyser l’économie » avec des grèves dans tous les secteurs d’activité et dénonce le « gang destructeur » du premier ministre.

    Depuis le début du conflit contre le Hamas, Yaïr Golan continue de prendre régulièrement la parole contre Benyamin Nétanyahou : le 23 décembre, à Tel-Aviv, lors d’une manifestation organisée par les familles d’otages, il affirme que le chef du gouvernement souhaite une « guerre sans fin ». Avant d’appeler à de nouvelles élections immédiates, sous les applaudissements de la foule.

    https://justpaste.it/fx026

    #israël

  • Maroc : « Le drapeau rouge frappé d’un pentagramme vert est le fruit de longues tractations avec la France »
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/24/maroc-le-drapeau-rouge-frappe-d-un-pentagramme-vert-est-le-fruit-de-longues-

    Dans son nouveau livre, l’historien Nabil Mouline retrace les origines de l’étendard marocain. Un emblème qui a évolué avec l’histoire du royaume chérifien.

    Propos recueillis par Alexandre Aublanc (Casablanca), 24 janvier2024

    De quoi le drapeau rouge frappé d’une étoile verte est-il le symbole ? Du Maroc, assurément. Mais encore ? Que nous raconte cet emblème de l’histoire du royaume et quelle est la part de vérité dans les polémiques qui entourent sa construction ? Ces questions sont au cœur de Drapeaux du Maroc, le dernier ouvrage de Nabil Mouline, chercheur au CNRS, avec lequel Le Monde s’est entretenu à distance.

    Vous expliquez qu’il existait jusqu’au XIXe siècle une grande variété d’emblèmes au Maroc, avant que les puissances européennes ne décrètent le drapeau rouge comme unique étendard. Pourquoi ?

    L’évolution des drapeaux au Maroc est étroitement liée aux tumultes politiques, religieux et économiques qui ont marqué la trajectoire du pays depuis l’émergence de l’Etat marocain avec les Almoravides, au XIe siècle. En tant que « regalia » [objets symboliques de royauté], ces instruments de pouvoir ont incarné les aspirations de chaque dynastie à travers leurs formes, leurs couleurs et leurs inscriptions. Noir au départ, l’étendard impérial devient blanc entre le XIIe et le XVIIe siècle. Puis la monarchie adopte deux nouveaux emblèmes entre le XVIIe et le XIXe siècle. Alors que le vert exprime son autorité religieuse, le rouge révèle son pouvoir politique.
    Simultanément, en Europe, les évolutions vers la formation d’Etats-nations engendrent une transformation dans la conception des drapeaux. Chaque communauté politique doit désormais arborer son propre emblème, qui ne symbolise plus la centralité de la maison régnante, mais davantage les valeurs et les ambitions de la nation. L’Europe, en raison de sa supériorité idéologique et organisationnelle, impose petit à petit cette conception au reste du monde. Au Maroc, cette influence s’est manifestée par la consécration graduelle du drapeau rouge en tant que symbole étatique à partir des années 1870. D’abord indifférentes, les élites du sultanat, influencées par les idées européennes, finissent par l’adopter.

    L’origine du drapeau actuel fait débat. Sa paternité revient-elle au premier résident général du protectorat, Hubert Lyautey ?

    Depuis le début des années 1870 jusqu’en 1915, le drapeau étatique du Maroc est rouge, uniquement rouge. Mais après l’instauration du protectorat en 1912, un changement advient progressivement. En 1913, les employés de la douane imposent aux embarcations marocaines d’arborer un drapeau tricolore sur l’angle duquel se trouve un petit rectangle rouge chargé d’une étoile à cinq branches. Cette nouvelle marque distinctive déplaît profondément aux Marocains, car elle ne respecte pas la souveraineté théorique du pays. Pour éviter un conflit inutile, cette « innovation » est rapidement retirée.

    Commencent alors de longues tractations entre l’administration française et le Makhzen. Les deux parties finissent par trouver un terrain d’entente : maintenir l’emblème rouge en y ajoutant un pentagramme vert. Le sultan Youssef entérine ce changement en promulguant un rescrit impérial [dahir] le 17 novembre 1915. En réalité, les autorités n’ont fait qu’officialiser en quelque sorte le choix des douaniers, qui n’ont eux-mêmes fait que reprendre un symbole bien connu dans l’espace social marocain depuis des siècles. Comme le montrent les sources disponibles, Hubert Lyautey a joué un rôle mineur dans ce processus, mais certains mythes ont la peau dure.

    L’étoile présente sur le drapeau marocain est elle aussi sujette à polémique. Est-il vrai qu’elle était à l’origine à six branches, mais qu’elle a été remplacée par un pentagramme afin de se dissocier d’un symbole juif ?

    Les étoiles, particulièrement le pentagramme, l’hexagramme et l’octogramme, constituent l’un des piliers de l’art décoratif marocain depuis de longs siècles. Appelées indistinctement « sceau de Salomon », elles figurent sur différents supports, notamment à partir du VIIIe siècle. Si des étoiles à six branches et à huit branches ont été brodées sur des bannières et des fanions secondaires depuis au moins le XIIe siècle, elles n’ont jamais figuré sur le principal étendard des différentes dynasties. Lyautey ne pouvait donc pas modifier quelque chose qui n’avait aucune existence préalable.

    En réalité, ce mythe découle de ce qu’on appelle une confusion symbolique. Seuls quelques rares témoignages visuels nous permettent en effet de voir des drapeaux rouges étatiques portant des hexagrammes, après la promulgation du rescrit de 1915. D’ailleurs, l’usage de l’étoile à six branches, considérée jusqu’alors comme un symbole musulman, se perpétue tout au long de la première moitié du XXe siècle, particulièrement sur les pièces de monnaie. Ce n’est que quelques années après l’éclatement du conflit israélo-arabe que ce symbole disparaît des artéfacts marocains.
    S’il est l’héritier d’une longue tradition impériale, le drapeau du Maroc doit, selon vous, toute sa popularité au mouvement nationaliste.

    L’instauration du protectorat a engendré des transformations profondes au sein de la société marocaine. A partir des années 1920, le nationalisme surgit dans une partie de la jeunesse urbaine. Des organisations politiques émergent et cherchent, dès 1933, à exprimer et célébrer l’ancienneté, l’unité et la solidarité de la nation marocaine.

    Pour symboliser sa quête d’indépendance, c’est le drapeau rouge frappé d’un pentagramme vert qui va être choisi, notamment à travers la Fête du trône, le premier rituel national et séculier au sens moderne du terme. Cette manifestation politique incontournable va jouer un rôle primordial dans la popularisation de cet objet. Grâce à ce processus de réinvention et d’appropriation, l’insigne étatique lointain devient un véritable emblème national, surtout après son adoption définitive par l’institution monarchique en 1947.

    Drapeaux du Maroc, de Nabil Mouline, éd. Sochepress, 172 pages, 120 dirhams

    #Maroc #France #protectorat #colonisation #souveraineté

  • Sur les traces des colons suisses au Brésil et de leurs esclaves

    Des colons suisses ont été propriétaires d’esclaves à #Bahia au Brésil, un pan sombre de l’histoire de notre pays qui remonte au 19e siècle. Une époque de plus en plus documentée par les historiens, mais qui reste taboue.

    Dans les forêts de Bahia, au Brésil, des vestiges remontant à 150 ans témoignent d’une histoire sombre. « Là-bas, il y avait la ferme », raconte Obeny dos Santos dans l’émission Mise au Point. « Et ici en bas, les #esclaves étaient emprisonnés, torturés. » Cette ferme appartenait à des colons suisses, propriétaires d’esclaves.

    « Regardez comme la structure était bien faite », explique Obeny dos Santos, en montrant des restes de murs mangés par la végétation. « C’est là que les esclaves étaient enfermés. Ils travaillaient pendant la journée et la nuit, on les bouclait là-dedans. » Attachés par des chaînes à un poteau de métal, aucune chance de s’enfuir.

    Les autorités suisses nient

    Les autorités suisses ont toujours nié avoir pris part aux horreurs de l’esclavage. Quelques financiers et commerçants auraient bien participé à cette #exploitation_forcée, mais dans le dos de la Confédération.

    Hans Faessler, un historien engagé, conteste cette vision des choses, documents à l’appui. Aux Archives fédérales de Berne, il présente un écrit exceptionnel : un rapport que le Conseil fédéral a rédigé en 1864 pour le Parlement, et qui concerne les Suisses établis au Brésil qui possèdent des esclaves.

    Premier constat : le Conseil fédéral est bien informé de la situation. Il connaît même le prix d’un esclave, entre 4000 et 6000 francs suisses.

    « Ce rapport est vraiment un document de grande importance pour l’histoire coloniale de la Suisse », souligne Hans Faessler. « Pour la première fois, la question de l’esclavage apparaît au Parlement suisse. Dans le rapport, le Conseil fédéral admet (...) qu’il y a des Suisses, des propriétaires de #plantations, des négociants et aussi (...) des artisans qui possèdent des esclaves. »

    Ce #rapport du Conseil fédéral répond à une motion de #Wilhelm_Joos, un médecin et conseiller national schaffhousois, qui s’est rendu dans les colonies suisses de Bahia. « Apparemment, Wilhelm Joos était choqué par la réalité de l’esclavage en #Amérique_latine, au Brésil, et la première motion qu’il a déposée au Conseil national demandait des mesures pénales contre des Suisses qui possédaient des esclaves au Brésil », détaille l’historien.

    Des traces encore vives au Brésil

    Le petit village d’#Helvetia, au sud de Bahia, garde aussi des #traces de cette époque. Son nom rappelle la présence de colons vaudois, neuchâtelois ou bernois durant tout le 19e siècle. Ici, on produisait de manière intensive du #café et du #cacao, une production impossible sans esclaves, beaucoup d’esclaves.

    « Il y en avait environ 2000, ils étaient largement majoritaires. C’est pourquoi aujourd’hui à Helvetia, 95% de la population est noire », raconte Maria Aparecida Dos Santos, une habitante d’Helvetia. Ses arrière-arrière-grands-parents ont été déportés d’Angola, avant d’être vendus aux colons suisses, envoyés dans les plantations et traités comme du bétail.

    « Les esclaves vivaient tous ensemble, entassés dans une grande écurie commune », décrit-elle. « Ils n’avaient pas d’intimité, pas de liberté, pas de dignité. Les colons violaient les femmes noires. »

    Et de souligner encore une autre pratique des colons : « Ces femmes noires étaient aussi considérées comme des reproductrices, donc les colons réunissaient des hommes forts et des femmes fortes pour fabriquer des enfants forts destinés spécifiquement à travailler dans les plantations ».

    Pour elle, cette histoire est « tellement triste que les gens essayent de l’oublier ». Même si depuis des années, des livres d’histoire racontent ces faits, « pour les gens, ces histoires ont représenté tant de #souffrance qu’ils ont essayé de les effacer de leur #mémoire, et donc de l’effacer de l’histoire ».

    Selon les autorités suisses de l’époque, « aucun crime » à dénoncer

    Les propriétaires suisses d’esclaves n’ont jamais été inquiétés par les autorités helvétiques. Pire, le Conseil fédéral de l’époque prend la défense des colons.

    « Le Conseil fédéral dit que l’esclavage pour ces Suisses est avantageux, et qu’il est normal », montre l’historien Hans Faessler dans le rapport. « Et il est impossible de priver ces ’pauvres’ Suisses de leur propriété qu’ils ont acquise légalement. »

    Selon le Conseil fédéral de 1864, ce n’est pas l’esclavage qui est injuste et contre la moralité, puisqu’il n’implique aucun #crime. Au contraire, aux yeux du gouvernement de l’époque, c’est « pénaliser les Suisses qui possèdent des esclaves qui serait injuste, contre la #moralité et constituerait un acte de violence ».

    « Le Conseil fédéral devient le dernier gouvernement de l’Occident qui banalise, qui justifie et qui excuse le crime de l’esclavage », insiste Hans Faessler. A cette date, la France, le Royaume-Uni et les Pays-Bas ont déjà aboli l’esclavage. Les Etats-Unis mettront eux un terme à cette pratique en décembre 1865.

    « Les esclaves travaillaient du lever au coucher du soleil »

    A quelques kilomètres d’#Ilheus, se trouve la #Fazenda_Vitoria, « Ferme de la victoire », l’une des plus grandes exploitations de la région. Près de 200 esclaves y cultivaient la #canne_à_sucre. Aujourd’hui la ferme est à l’abandon et son accès est interdit.

    Depuis plus de 40 ans, Roberto Carlos Rodriguez documente l’histoire de cette exploitation, où ses aïeux ont travaillé comme esclaves, et celle de ses propriétaires suisses.

    « #Fernando_von_Steiger était le deuxième plus grand propriétaire d’Africains réduits en esclavage dans le sud de Bahia », raconte Roberto Carlos Rodriguez. « Ici, les esclaves travaillaient du lever au coucher du soleil. Ils se réveillaient à cinq heures du matin, devaient donner le salut au patron. Ensuite, ils commençaient le travail. C’était un travail difficile et, comme dans d’autres fermes, l’esclave vivait très peu de temps. Au Brésil, l’espérance de vie d’un esclave était de sept ans. »

    Quand on évoque avec Roberto Carlos Rodriguez l’implication des autorités suisses dans l’esclavage, la colère se fait froide.

    « Cette ferme a été exploitée au plus fort de l’esclavage par deux Suisses. #Gabriel_Mai et Fernando von Steiger ont été financés par des maisons de commerces suisses », souligne-t-il. « De ce point de vue, il est de notoriété publique que le gouvernement suisse a investi dans l’esclavage par l’intermédiaire de ces #maisons_de_commerce. Dire que la Suisse n’a pas contribué à l’esclavage, c’est comme dire que le soleil ne s’est pas levé ce matin. »

    Quelle réaction aujourd’hui ?

    La conseillère nationale socialiste bâloise Samira Marti a déposé en 2022 une interpellation qui demande au Conseil fédéral de se positionner sur le rapport de 1864. C’est la 8e interpellation en une vingtaine d’années. A chaque fois, la réponse du Conseil fédéral est la même : « Les autorités fédérales d’alors ont agi conformément aux normes des années 1860 ».

    « C’est un peu scandaleux que le Conseil fédéral dise toujours que c’était seulement l’esprit du temps. Et que ce n’était pas l’Etat qui s’engageait dans l’esclavage », réagit l’élue bâloise. « Ce n’était vraiment pas normal. (...) Et la Suisse a quand même continué à accepter l’esclavage », souligne Samira Marti.

    L’élue socialiste réclame de la clarté de la part du gouvernement sur cette vision de l’histoire. « C’est important qu’aujourd’hui, le Conseil fédéral soit assez clair (...). Aussi pour aujourd’hui, aussi pour le futur, sur les discussions sur le racisme, sur l’inégalité globalement. » Et d’appeler même le gouvernement à corriger cette vision de l’histoire.

    Peur d’éventuelles demandes de réparation, embarras face aux compromissions passées, les autorités fédérales s’accrochent pour l’instant à leur version de l’histoire. Elles ont refusé toutes les demandes d’interview de Mise au Point.

    Dans l’autre Helvetia, même si l’exercice de la mémoire est aussi douloureux, Maria Aparecida Dos Santos espère trouver dans le passé des réponses à son présent et à celui de sa communauté. « J’ai envie aujourd’hui de faire des recherches parce que je sais qu’il existe des historiens à Salvador de Bahia qui travaillent sur le sujet. Il y a des livres qui racontent ce qui s’est passé à cette époque. Je me suis rendu compte que je ne connaissais pas ma propre histoire, et ça, ça suscite en moi un vide, une sensation intérieure forte… très forte. »

    https://www.rts.ch/info/suisse/14644060-sur-les-traces-des-colons-suisses-au-bresil-et-de-leurs-esclaves.html

    #Brésil #Suisse #histoire #histoire_coloniale #colonialisme #colonisation #Suisse_coloniale #esclavage #torture #tabou

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #Suisse_coloniale :
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    ping @cede

  • Un long article de synthèse sur un débat en cours : jusqu’à quel point la société française actuelle est-elle marquée par des legs coloniaux ? A retenir, notamment, les noms et analyses des philosophes Souleymane Bachir Diagne et Nadia Yala Kisukidi.
    (la suite de l’article est à lire en vous connectant au site du Monde)

    Comment la question coloniale trouble les sociétés occidentales
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/comment-la-question-coloniale-trouble-les-societes-occidentales_6211842_3232

    Comment la question coloniale trouble les sociétés occidentales
    Par Nicolas Truong, le 19 janvier 2024

    Si l’histoire des colonisations se renouvelle en France, ses approches théoriques restent déconsidérées par une frange de l’opinion qui en refuse les conclusions et les réduit à leurs aspects les plus controversés.

    C’est une histoire qui travaille les mémoires. Un passé qui pèse sur le présent. La question coloniale ne cesse de hanter la politique nationale. A croire que chaque fracture française réveille ce passé qui a encore du mal à passer. Dans certaines de ses anciennes colonies, notamment africaines, où la France est conspuée et même chassée de pays longtemps considérés comme des prés carrés. Dans ses banlieues paupérisées au sein desquelles les émeutes contre les violences policières ravivent le sentiment du maintien d’une ségrégation sociale, spatiale et raciale héritée de la période coloniale. Dans des stades où La Marseillaise est parfois sifflée.

    Une histoire qui s’invite jusque dans les rangs de l’Assemblée nationale, où l’usage du terme « métropole » pour désigner la France continentale sans les territoires d’outre-mer est désormais rejeté, car considéré comme colonialiste. Et jusqu’à l’Elysée : après avoir affirmé, lors de la campagne présidentielle de 2017, que la colonisation était un « crime contre l’humanité » qui appartient à un « passé que nous devons regarder en face, en présentant nos excuses à l’égard de celles et ceux envers lesquels nous avons commis ces gestes », Emmanuel Macron a finalement estimé, en 2023, qu’il n’avait « pas à demander pardon ». Un ravisement contemporain d’un ressassement idéologique et médiatique permanent contre la « repentance », la « haine de soi » et l’« autoflagellation ».

    Cependant, il semble difficile pour une société d’éviter les sujets qui finissent inexorablement par s’imposer. Il en va de la colonisation comme de la collaboration. La génération Mitterrand et les années Chirac ont été ponctuées par des révélations, débats et discours marquants liés à la période du gouvernement de Vichy. La France d’Emmanuel Macron n’échappe pas à l’actualité de l’histoire de ses anciennes colonies. Car « le passé colonial est partout », résume l’historien Guillaume Blanc, l’un des quatre coordinateurs de Colonisations. Notre histoire, ouvrage collectif dirigé par Pierre Singaravélou (Seuil, 2023).

    (...).

    #colonisation #colonialité #racisme #antiracisme #émancipation #universalisme

    • Suite de l’article :

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/comment-la-question-coloniale-trouble-les-societes-occidentales_6211842_3232

      « Le colonialisme n’est pas achevé »

      Au Sahel, la présence de la France est devenue indésirable. Bien sûr, la stratégie africaine de la Chine comme l’emprise de la Russie, à travers les milices privées du Groupe Wagner, n’y sont pas étrangères. Mais « il faut souligner l’épaisseur historique de ce sentiment », insiste Guillaume Blanc. L’histoire de cette réprobation est « à la fois récente et ancienne », ajoute-t-il, en référence aux analyses d’Ousmane Aly Diallo, chercheur à Amnesty International, selon qui les interventions militaires de la France dans ses anciennes colonies en Afrique – près de cinquante depuis 1960 – ont pérennisé « l’hégémonie française dans ces espaces ». Ainsi, à partir de 2022, lorsque l’armée française quitte le Mali et le Burkina Faso et se replie au Niger, « elle a beau dire y lutter contre le djihadisme, les populations y voient une ingérence française de plus », constate Guillaume Blanc.

      Cette histoire est également plus ancienne et « nous ramène notamment aux années 1950 », explique-t-il, à la lumière des apports de l’historienne Gabrielle Hecht : c’est à cette époque, selon elle, que la France a construit sa prétendue « indépendance énergétique » en exploitant l’uranium du Gabon et du Niger. En échange de prix avantageux, la France soutenait les dirigeants gabonais et nigériens au pouvoir.
      Lire aussi la tribune | Article réservé à nos abonnés « La question du passé colonial est le dernier “tabou” de l’histoire de France des XIXᵉ et XXᵉ siècles »

      C’est pourquoi « les sociétés africaines sont des sociétés postcoloniales, tout simplement au sens où le passé colonial pèse encore sur le présent », observe Guillaume Blanc, qui estime que « la France est, elle aussi, une société postcoloniale ». En effet, rappelle le philosophe Souleymane Bachir Diagne, l’Organisation des Nations unies (ONU) considère toujours que la Polynésie et la Nouvelle-Calédonie sont des territoires « non autonomes », ce qui signifie que leurs populations « ne s’administrent pas encore complètement elles-mêmes ». Pour le professeur d’études francophones à l’université Columbia (New York), « cela veut dire que la majorité des nations qui composent l’ONU, et qui pour la plupart ont conquis leur souveraineté contre le colonialisme, estime que le mouvement des décolonisations, qui a défini l’histoire du XXe siècle, n’est pas achevé ».

      Souleymane Bachir Diagne rappelle une situation encore assez méconnue. Car si les recherches sur les colonisations et décolonisations sont nombreuses, novatrices et fécondes, la diffusion de ces savoirs reste parcellaire. Afin d’enseigner l’histoire de la colonisation et aussi « combattre les clichés », Guillaume Blanc, maître de conférences à l’université Rennes-II, trouve « assez utile » de partir des chansons, des bandes dessinées ou des films lors de ses cours sur les sociétés africaines et asiatiques du XIXe au XXIe siècle. Dans les amphithéâtres, l’auteur de Décolonisations (Seuil, 2022) n’hésite pas à diffuser le tube de Michel Sardou Le Temps des colonies (1976), où l’on entend : « Y a pas d’café, pas de coton, pas d’essence en France, mais des idées, ça on en a. Nous on pense », ou à évoquer certains albums d’Astérix « qui parlent de “nègres” aux lèvres protubérantes et ne sachant ni lire ni écrire ».

      La popularité du couscous

      D’autres contributeurs de Colonisations, comme la linguiste et sémiologue Marie Treps, s’attachent à l’actualité des « mots de l’insulte », comme « bougnoul », emprunté à la langue wolof où il signifie « noir », apparu au Sénégal à la fin du XIXe siècle, terme vernaculaire transformé en sobriquet « lourdement chargé de mépris » qui désigne désormais « un étranger de l’intérieur ». Les experts du fait colonial mobilisent l’analyse des objets ou de la cuisine – avec la popularité du couscous ou du banh mi – mais aussi du paysage urbain, comme le géographe Stéphane Valognes, qui montre la façon dont les rues de Cherbourg (Manche) portent encore les traces de la conquête coloniale, avec ses maisons de style néomauresque et ses rues estampillées du nom d’anciens généraux coloniaux. Sans oublier le palais de l’Elysée, à Paris, ancien hôtel particulier financé pour la monarchie par Antoine Crozat (1655-1738), qui bâtit sa fortune, dans les années 1720, grâce à la traite transatlantique, après avoir obtenu le monopole de la fourniture en esclaves de toutes les colonies espagnoles.

      « Si l’histoire de la colonisation est bien connue des spécialistes, en revanche, en France, il y a encore un refus de voir ce que fut la colonisation », estime Guillaume Blanc, qui trouve « aberrant » d’entendre encore des hommes politiques et certains médias évoquer les routes et les écoles que la France aurait « amenées » dans ses colonies : « Sans le travail forcé, la mort et la sueur des Congolais, des Malgaches ou des Vietnamiens, il n’y aurait jamais eu de routes. Quant à l’école, les petits garçons et les petites filles colonisés n’y allaient tout simplement pas : l’enseignement était réservé à une élite restreinte, et la France n’a jamais eu l’intention de scolariser les millions d’enfants qu’elle colonisait. »

      Nous vivons un moment postcolonial parce que notre époque est postérieure à l’ère des grandes colonisations – d’où le préfixe « post » – mais aussi, selon certains chercheurs, parce qu’il convient d’analyser ce passé qui pèse sur le présent en dépassant les anciennes dichotomies forgées aux temps des colonies. Notamment celles entre Orient et Occident, centre et périphérie ou civilisation et barbarie. « Postcolonial » est ainsi à la fois le marqueur d’une période historique et la désignation d’un mouvement théorique : après la critique du « néocolonialisme » des années 1960-1970, à savoir de l’emprise occidentale encore manifeste au cœur des nouvelles nations indépendantes, les études postcoloniales – postcolonial studies – émergent à la fin des années 1970. Elles prennent leur essor dans les années 1980 sur les campus américains et s’attachent à montrer comment les représentations et les discours coloniaux, en particulier ceux de la culture, ont établi une différence radicale entre les colonisés et le monde occidental, notamment forgé sur le préjugé racial.

      Publié en 1978, L’Orientalisme, ouvrage de l’écrivain palestino-américain Edward Said (1935-2003) consacré à la façon dont un Orient fantasmé a été « créé » par l’Occident (Seuil, 1980), est considéré comme l’un des premiers jalons du courant postcolonial, même s’il n’en revendique pas le terme. Au cours d’une déconstruction des représentations et clichés véhiculés sur l’Orient depuis le siècle des Lumières, ce défenseur lettré de la cause palestinienne assure que « le trait essentiel de la culture européenne est précisément ce qui l’a rendue hégémonique en Europe et hors de l’Europe : l’idée d’une identité européenne supérieure à tous les peuples et à toutes les cultures qui ne sont pas européens ». Se réclamant d’un « humanisme » qui ne se tient pas « à l’écart du monde », cet ancien professeur de littérature comparée à l’université Columbia estimait dans une nouvelle préface publiée en 2003, en pleine guerre en Irak à laquelle il était opposé, que « nos leaders et leurs valets intellectuels semblent incapables de comprendre que l’histoire ne peut être effacée comme un tableau noir, afin que “nous” puissions y écrire notre propre avenir et imposer notre mode de vie aux peuples “inférieurs” ».
      « La continuation du rapport de domination »

      La pensée postcoloniale fut largement inspirée par les subaltern studies, courant né en Inde dans les années 1970, autour de l’historien Ranajit Guha (1923-2023), études consacrées aux populations à la fois minorées par la recherche et infériorisées dans les sociétés récemment décolonisées. Une volonté de faire « l’histoire par le bas », selon les termes de l’universitaire britannique Edward Palmer Thompson (1924-1993), une façon de rompre avec l’idée d’un progrès historique linéaire qui culminerait dans l’Etat-nation, une manière de réhabiliter des pratiques et des savoirs populaires mais aussi d’exercer une critique des élites indiennes souvent constituées en mimétisme avec l’ancienne bourgeoisie coloniale.

      L’ambition des intellectuels postcoloniaux est assez bien résumée par l’Indien Dipesh Chakrabarty, professeur d’histoire, de civilisations et de langues sud-asiatiques à l’université de Chicago : il s’agit de désoccidentaliser le regard et de Provincialiser l’Europe (Amsterdam, 2009). L’Europe n’est ni le centre du monde ni le berceau de l’universel. Incarnée par des intellectuels comme la théoricienne de la littérature Gayatri Chakravorty Spivak ou l’historien camerounais Achille Mbembe, cette approche intellectuelle « vise non seulement à penser les effets de la colonisation dans les colonies, mais aussi à évaluer leur répercussion sur les sociétés colonisatrices », résume l’historien Nicolas Bancel (Le Postcolonialisme, PUF, 2019).
      Lire aussi l’enquête (2020) : Article réservé à nos abonnés « Racisé », « racisme d’Etat », « décolonial », « privilège blanc » : les mots neufs de l’antiracisme

      L’empreinte de l’époque coloniale n’est pas seulement encore présente à travers des monuments ou les noms des rues, elle l’est aussi dans les rapports sociaux, les échanges économiques, les arts ou les relations de pouvoir. Car une partie de ses structures mentales se serait maintenue. « La fin du colonialisme n’est pas la fin de ce que l’on appelle la “colonialité” », explique Souleymane Bachir Diagne. Forgé au début des années 1990 par le sociologue péruvien Anibal Quijano (1928-2018), ce terme désigne un régime de pouvoir économique, culturel et épistémologique apparu à l’époque moderne avec la colonisation et l’essor du capitalisme mercantile mais qui ne s’achève pas avec la décolonisation.

      La colonialité, c’est « la continuation du rapport de domination auquel les décolonisations sont censées mettre fin », poursuit Souleymane Bachir Diagne. « Et les jeunes ont une sensibilité à fleur de peau à ces aspects », relève-t-il, en pensant notamment aux altercations entre policiers et adolescents des « quartiers ». Pour le philosophe, une définition « assez éclairante de cette colonialité structurelle » a été donnée par le poète et homme d’Etat sénégalais Léopold Sédar Senghor (1906-2001), selon qui « l’ordre de l’injustice qui régit les rapports entre le Nord et le Sud » est un ordre fondé sur « le mépris culturel ». Ainsi, poursuit l’auteur du Fagot de ma mémoire (Philippe Rey, 2021), « on peut se demander si les populations “issues de l’immigration” dans les pays du “Nord” ne constituent pas une sorte de “Sud” dans ces pays ».

      « Le concept de colonialité ouvre des réflexions fécondes », renchérit la philosophe Nadia Yala Kisukidi, maîtresse de conférences à l’université Paris-VIII. Loin du terme « néocolonialisme » qui réduit la domination à une cause unique, la colonialité permet « d’articuler les formes de la domination politico-économique, ethnoraciale, de genre, culturelle et psychosociale, issues du monde colonial et de déceler leur continuation dans un monde qu’on prétend décolonisé. Ce qui permet de dire que, dans un grand nombre de cas, les décolonisations apparaissent comme des processus inachevés », poursuit l’autrice de La Dissociation (Seuil, 2022).

      Souleymane Bachir Diagne insiste sur le fait que Léopold Sédar Senghor, en « grand lecteur de Jean Jaurès », croyait comme le fondateur du journal L’Humanité en un monde où « chaque nation enfin réconciliée avec elle-même » se verrait comme « une parcelle » de cette humanité solidaire qu’il faut continûment travailler à réaliser. « Mais pour cela il faut combattre la colonialité, le mépris culturel, l’ordre de l’injustice. D’un mot : il faut décoloniser. L’impensé colonial existe : il consiste à ignorer la colonialité. »
      Universalisme eurocentré

      C’est ainsi que l’approche décoloniale, nouveau paradigme apparu dans les années 1990, est venue s’ajouter aux études postcoloniales autour de cette invitation à « décoloniser ». Née en Amérique du Sud au sein d’un groupe de recherche intitulé Modernité/Colonialité, la pensée décoloniale se donne notamment comme ambition de décoloniser les savoirs. Et de revisiter l’histoire. C’est pourquoi, selon ce courant théorique, la date capitale de la domination occidentale est 1492, le moment où Christophe Colomb ne « découvre » pas l’Amérique, mais l’« envahit ». C’est la période lors de laquelle naît la modernité par « l’occultation de l’autre », explique le philosophe et théologien argentino-mexicain Enrique Dussel (1934-2023). Un moment où la « reconquête » menée par la chrétienté expulsa les musulmans de la péninsule Ibérique et les juifs d’Espagne. Ainsi, une « désobéissance épistémique » s’impose, enjoint le sémiologue argentin Walter Mignolo, afin de faire éclore des savoirs alternatifs à une conception de l’universalisme jugée eurocentrée.

      Tous les domaines politiques, sociaux, économiques et artistiques peuvent être analysés, réinvestis et repolitisés à l’aide de cette approche décoloniale, à la fois savante et militante. L’écologie est notamment l’un des nombreux thèmes investis, car « la double fracture coloniale et environnementale de la modernité » permet de comprendre « l’absence criante de Noirs et de personnes racisées » dans les discours sur la crise écologique, assure l’ingénieur en environnement caribéen Malcom Ferdinand dans Une écologie décoloniale (Seuil, 2019). « Faire face à la tempête écologique, retrouver un rapport matriciel à la Terre requiert de restaurer les dignités des asservis du navire négrier tout autant que celles du continent africain », écrit Malcom Ferdinand.

      Partis d’Amérique latine, « ces travaux ont essaimé dans le monde entier », explique Philippe Colin, coauteur avec Lissell Quiroz de Pensées décoloniales. Une introduction aux théories critiques d’Amérique latine (Zones, 2023). Dans les années 1990, les lectures partisanes des théories postcoloniales ont suscité des controverses dans l’espace public, notamment autour de la notion de « discrimination positive » et du « politiquement correct ». Une discorde qui se rejoue aujourd’hui, notamment avec les attaques menées par les néoconservateurs américains contre ce qu’ils appellent, de manière péjorative, la « cancel culture », cette culture dite « de l’annulation » censée être portée par un « maccarthysme de gauche » et même un « fascisme d’extrême gauche », résume d’un trait Donald Trump.
      Pensées « victimaires »

      Aux Etats-Unis, les études postcoloniales et décoloniales, « forgées dans une matrice marxiste au sein d’une diaspora d’intellectuels indiens, africains ou sud-américains enseignant dans les campus américains, se sont déployées d’abord dans le champ académique », précise Philippe Colin. Alors qu’en France, la réception de ces travaux s’est faite immédiatement de façon polémique. « Le concept a été revendiqué par le Parti des indigènes de la République à partir de 2015 de manière explicite, et cela a changé beaucoup les choses en France », analyse l’historien Pascal Blanchard. « Il est alors devenu une cible idéale pour ceux qui cherchaient un terme global pour vouer aux gémonies les chercheurs travaillant sur la colonisation », poursuit-il dans le livre collectif Les Mots qui fâchent. Contre le maccarthysme intellectuel (L’Aube, 2022).

      Dans L’Imposture décoloniale (L’Observatoire, 2020), l’historien des idées Pierre-André Taguieff se livre à une critique radicale de « l’idéologie postcoloniale et décoloniale, centrée sur la dénonciation criminalisante de la civilisation occidentale ». Une position que l’on retrouve également au sein de L’Observatoire du décolonialisme et des idéologies identitaires, un site Web dont les contributeurs alimentent régulièrement les dossiers à charge des médias en guerre contre le « wokisme ».
      Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Le « wokisme », déconstruction d’une obsession française

      Les critiques ne viennent toutefois pas uniquement de la galaxie conservatrice, des sites de veille idéologique ou des sphères réactionnaires. Auteur d’un ouvrage critique sur Les Etudes postcoloniales. Un carnaval académique (Karthala, 2010), le politologue Jean-François Bayart leur reproche de « réifier le colonialisme » car, affirme-t-il, aujourd’hui, « le colonial n’est pas une essence mais un événement ». Par ailleurs, rappelle-t-il, « le colonialisme n’a pas été l’apanage des seuls Etats occidentaux ». Des chercheurs insistent également sur le fait que la colonisation est un fait historique pluriel et qu’il convient de tenir compte de la diversité des sociétés où elle s’est exercée. Or, la prise en compte des formes de pouvoir propres à chaque société anciennement colonisée serait parfois omise par les approches décoloniales.

      Auteur de L’Occident décroché (Fayard, 2008), l’anthropologue Jean-Loup Amselle estime que ce courant de pensée a « détrôné l’Occident de sa position de surplomb, ce qui est une bonne chose, mais a entraîné des effets pervers », puisque, selon lui, elle reprend parfois à son compte « les stigmates coloniaux en tentant d’en inverser le sens ». Sur le site Lundimatin, l’essayiste Pierre Madelin critique, lui, les travers du « campisme décolonial » notamment apparu après le déclenchement de la guerre en Ukraine, à l’occasion de laquelle, dit-il, « plusieurs figures de proue des études décoloniales » ont convergé vers la rhétorique anti-occidentale de Vladimir Poutine.

      Procès en relativisme

      Comme toute théorie, ces approches postcoloniales et décoloniales sont critiquables, estime Nicolas Bancel, « mais à partir de textes, de positions théoriques et épistémologiques, et non à partir de tribunes maniant l’invective, la désinformation, la dénonciation ad hominem, sans que leurs auteurs sachent rien de la réalité et de l’importance de ce champ intellectuel », juge-t-il. D’ailleurs, prolonge Nadia Yala Kisukidi, au-delà de l’université, les termes « décolonial » ou « postcolonial », dans le débat public français, « fonctionnent comme des stigmates sociaux, pour ne pas dire des marqueurs raciaux. Loin de renvoyer à des contenus de connaissance ou, parfois, à des formes de pratiques politiques spécifiques, ils sont mobilisés pour cibler un type d’intellectuel critique, souvent non blanc, dont les positionnements théoriques et/ou politiques contribueraient à briser la cohésion nationale et à achever le déclassement de l’université française. Comme si le mythe de la “cinquième colonne” avait intégré le champ du savoir ». D’autant que « décoloniser n’est pas un mot diabolique », relève le sociologue Stéphane Dufoix (Décolonial, Anamosa, 2023)

      Un reproche résume tous les autres : celui du procès en relativisme. Une critique qui est le point de discorde de tous les débats qui opposent de façon binaire l’universalisme au communautarisme. Or, cette querelle a presque déjà été dépassée par deux inspirateurs historiques de ces mouvements postcoloniaux et décoloniaux : Aimé Césaire (1913-2008) et Frantz Fanon (1925-1961). Dans sa Lettre à Maurice Thorez, publiée en 1956, dans laquelle il explique les raisons de sa démission du Parti communiste français, à qui il reproche le « chauvinisme inconscient » et l’« assimilationnisme invétéré », le poète martiniquais Aimé Césaire expliquait qu’« il y a deux manières de se perdre : par la ségrégation murée dans le particulier ou par la dilution dans l’“universel” ».

      Aimé Césaire a dénoncé « un universalisme impérial », commente Souleymane Bachir Diagne, auteur de De langue à langue (Albin Michel, 2022). Mais, dans le même temps, « il a refusé avec force de s’enfermer dans le particularisme ». Au contraire, poursuit le philosophe, Césaire « a indiqué que s’il a revendiqué la “négritude”, c’était pour “contribuer à l’édification d’un véritable humanisme”, l’“humanisme universel”, précise-t-il, “car enfin il n’y a pas d’humanisme s’il n’est pas universel” ». Des propos que le Frantz Fanon des dernières pages de Peau noire, masques blancs (Seuil, 1952) « pourrait s’approprier », estime Souleymane Bachir Diagne.

      Ces exemples remettent en cause l’idée selon laquelle les études, réflexions et théories actuelles sur le fait colonial, postcolonial ou décolonial seraient des importations venues des campus américains et issues du seul frottement des études subalternes avec la French Theory, du tiers-monde et de la déconstruction. « Il n’est donc tout simplement pas vrai que les penseurs du décolonial soient unanimement contre l’universel », déclare Souleymane Bachir Diagne, qui, loin de tous les impérialismes et réductionnismes, appelle à « universaliser l’universel ».

      Nicolas Truong

    • « La question du passé colonial est le dernier “tabou” de l’histoire de France des XIXᵉ et XXᵉ siècles », Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, historiens

      L’#histoire_coloniale est désormais à l’agenda des débats publics. Et si les débats sont très polarisés – entre les tenants d’une vision nostalgique du passé et les apôtres du déclin (de plus en plus entendus, comme le montre la onzième vague de l’enquête « Fractures françaises ») et les décoloniaux les plus radicaux qui assurent que notre contemporanéité est tout entière issue de la période coloniale –, plus personne en vérité ne met aujourd’hui en doute l’importance de cette histoire longue, en France, de cinq siècles.

      Loin des conflits mémoriaux des extrémistes, l’opinion semble partagée entre regarder en face ce passé ou maintenir une politique d’amnésie, dont les débats qui accompagnèrent les deux décrets de la loi de 2005 sur les « aspects positifs de la #colonisation » furent le dernier moment d’acmé. Vingt ans après, les politiques publiques sur le sujet sont marquées par… l’absence de traitement collectif de ce passé, dont l’impossible édification d’un musée colonial en France est le symptôme, au moment même où va s’ouvrir la Cité internationale de la langue française à Villers-Cotterêts.

      Si l’histoire coloniale n’est pas à l’origine de l’entièreté de notre présent, ses conséquences contemporaines sont pourtant évidentes. De fait, les récents événements au Niger, au Mali et au Burkina Faso signent, selon Achille Mbembe, la « seconde décolonisation », et sont marqués par les manifestations hostiles à la #France qui témoignent bien d’un désir de tourner la page des relations asymétriques avec l’ancienne métropole. En vérité, malgré les assurances répétées de la volonté des autorités françaises d’en finir avec la « Françafrique », les actes ont peu suivi les mots, et la page coloniale n’a pas véritablement été tournée.

      Relation toxique

      La France souffre aussi d’une relation toxique avec les #immigrations postcoloniales et les #quartiers_populaires, devenus des enjeux politiques centraux. Or, comment comprendre la configuration historique de ces flux migratoires sans revenir à l’histoire coloniale ? Comment comprendre la stigmatisation dont ces populations souffrent sans déconstruire les représentations construites à leur encontre durant la colonisation ?

      Nous pourrions multiplier les exemples – comme la volonté de déboulonner les statues symboles du passé colonial, le souhait de changer certains noms de nos rues, les débats autour des manuels scolaires… – et rappeler qu’à chaque élection présidentielle la question du passé colonial revient à la surface. C’est très clairement le dernier « tabou » de l’histoire de France des XIXe et XXe siècles.

      Ces questions, la France n’est pas seule nation à se les poser. La plupart des anciennes métropoles coloniales européennes sont engagées dans une réflexion et dans une réelle dynamique. En Belgique, le poussiéreux Musée de Tervuren, autrefois mémoire d’une histoire coloniale chloroformée, a fait peau neuve en devenant l’AfricaMuseum. Complètement rénové, il accueille aujourd’hui une programmation ambitieuse sur la période coloniale et ses conséquences. Une commission d’enquête nationale (transpartisane) a par ailleurs questionné le passé colonial.

      En France, le silence

      En Allemagne, outre le fait que les études coloniales connaissent un développement remarquable, plusieurs expositions ont mis en exergue l’histoire coloniale du pays. Ainsi le Münchner Stadtmuseum a-t-il proposé une exposition intitulée « Decolonize München » et le Musée national de l’histoire allemande de Berlin consacré une exposition temporaire au colonialisme allemand en 2017. Et, si le Humboldt Forum, au cœur de Berlin, fait débat pour son traitement du passé colonial et la présentation des collections provenant du Musée ethnologique de Berlin, la question coloniale est à l’agenda des débats publics de la société allemande, comme en témoigne la reconnaissance officielle du génocide colonial en Namibie.

      En Angleterre, le British Museum consacre une partie de son exposition permanente à cette histoire, alors que l’#esclavage colonial est présenté à l’International Slavery Museum à Liverpool. Aux Pays-Bas, le Tropenmuseum, après avoir envisagé de fermer ses portes en 2014, est devenu un lieu de réflexion sur le passé colonial et un musée en première ligne sur la restitution des biens culturels. Au Danemark, en Suisse (où l’exposition « Helvécia. Une histoire coloniale oubliée » a ouvert ses portes voici un an au Musée d’ethnologie de Genève, et où le Musée national suisse a programmé en 2024 une exposition consacrée au passé colonial suisse), au Portugal ou en Italie, le débat s’installe autour de l’hypothèse d’une telle institution et, s’il est vif, il existe. Et en France ? Rien. Le silence…

      Pourtant, le mandat d’Emmanuel Macron faisait espérer à beaucoup d’observateurs un changement de posture. Quoi que l’on pense de cette déclaration, le futur président de la République avait déclaré le 15 février 2017 à propos de la colonisation : « C’est un crime. C’est un crime contre l’humanité, c’est une vraie barbarie. Et ça fait partie de ce passé que nous devons regarder en face. »

      Notre pays est à la traîne

      Puis, durant son mandat, se sont succédé les commissions d’historiens sur des aspects de la colonisation – avec deux commissions pilotées par Benjamin Stora entre 2021 et 2023, l’une sur les relations France-Algérie durant la colonisation, l’autre sur la guerre d’#Algérie ; et une autre commission sur la guerre au #Cameroun, présidée par Karine Ramondy et lancée en 2023 – qui faisaient suite au travail engagé en 2016 autour des « événements » aux #Antilles et en #Guyane (1959, 1962 et 1967) ou la commission sur les zoos humains (« La mémoire des expositions ethnographiques et coloniales ») en 2011 ; alors qu’était interrogée parallèlement la relation de la France à l’#Afrique avec la programmation Africa 2020 et la création de la Fondation de l’innovation pour la démocratie confiée à Achille Mbembe en 2022. En outre, le retour des biens culturels pillés lors de la colonisation faisait également l’objet en 2018 d’un rapport détaillé, piloté par Felwine Sarr et Bénédicte Savoy.

      Mais aucun projet de musée d’envergure – à l’exception de ceux d’un institut sur les relations de la France et de l’Algérie à Montpellier redonnant vie à un vieux serpent de mer et d’une maison des mondes africains à Paris – n’est venu concrétiser l’ambition de regarder en face le passé colonial de France, aux côtés du Mémorial ACTe de Pointe-à-Pitre (#Guadeloupe) qui s’attache à l’histoire de l’esclavage, des traites et des abolitions… mais se trouve actuellement en crise en matière de dynamique et de programmation.

      Situation extraordinaire : en France, le débat sur l’opportunité d’un musée colonial n’existe tout simplement pas, alors que la production scientifique, littéraire et cinématographique s’attache de manière croissante à ce passé. Notre pays est ainsi désormais à la traîne des initiatives des autres ex-métropoles coloniales en ce domaine. Comme si, malgré les déclarations et bonnes intentions, le tabou persistait.

      Repenser le #roman_national

      Pourtant, des millions de nos concitoyens ont un rapport direct avec ce passé : rapatriés, harkis, ultramarins, soldats du contingent – et les descendants de ces groupes. De même, ne l’oublions pas, les Français issus des immigrations postcoloniales, flux migratoires qui deviennent majoritaires au cours des années 1970. On nous répondra : mais ces groupes n’ont pas la même expérience ni la même mémoire de la colonisation !

      C’est précisément pour cela qu’il faut prendre à bras-le-corps la création d’un musée des colonisations, qui sera un lieu de savoir mais aussi d’échanges, de débats, de socialisation de cette #histoire. Un lieu majeur qui permettra de relativiser les mémoires antagonistes des uns et des autres, d’éviter la polarisation mortifère actuelle entre les nostalgiques fanatiques et les décoloniaux radicaux, mais aussi d’intégrer à l’histoire les millions de personnes qui s’en sentent exclues. Une manière de mettre les choses à plat, pour tourner véritablement la page.

      De toute évidence, l’histoire coloniale est une page majeure de notre histoire, et l’on doit désormais repenser notre roman national à l’aune de la complexité du passé et d’un récit qui touche dans leur mémoire familiale des millions de familles françaises. Ce n’est pas là la lubie de « sachants » voulant valoriser les connaissances accumulées. Les enjeux sont, on le voit, bien plus amples.

      Mais comment concevoir ce musée ? Ce n’est pas à nous d’en décrire ici les contours… Mais on peut l’imaginer comme un carrefour de l’histoire de France et de l’histoire du monde, ouvert aux comparaisons transnationales, à tous les récits sur cinq siècles d’histoire, ouvert à toutes les mémoires et à inventer en collaboration avec la quarantaine de pays et de régions ultramarines qui en sont parties prenantes. Un musée qui mettrait la France à l’avant-garde de la réflexion mondiale sur le sujet, dans une optique résolument moderne, et permettrait de mettre en perspective et en récit les politiques actuelles de retour des biens coloniaux pillés et des restes humains encore présents dans nos musées.

      Allons-nous, à nouveau, manquer ce rendez-vous avec l’histoire, alors que dans le même temps s’ouvre la Cité internationale de la langue française à Villers-Cotterêts, installée dans le château de François Ier avec « 1 600 m² d’expositions permanentes et temporaires ouvertes au public, un auditorium de 250 places, douze ateliers de résidence pour des artistes… », dotée de plus de 200 millions d’investissements ? Si nous sommes capables d’édifier cette cité, nous devons imaginer ce musée. Sinon, la page coloniale ne pourra être tournée.
      Nicolas Bancel et Pascal Blanchard sont historiens (université de Lausanne), et ils ont codirigé Histoire globale de la France coloniale (Philippe Rey, 2022). Pascal Blanchard est également codirecteur de l’agence de communication et de conseil Les bâtisseurs de mémoire.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/30/la-question-du-passe-colonial-est-le-dernier-tabou-de-l-histoire-de-france-d

      (candidature d’intellectuel éclairé)

      #1492 #Indochine (omise) #colonialité

    • La « cancel culture » avec les historiens Henry Laurens et Pierre Vesperini
      Publié le : 17/06/2022

      https://www.rfi.fr/fr/podcasts/id%C3%A9es/20220617-la-cancel-culture-avec-les-historiens-henry-laurens-et-pierre-vesperini

      Pierre-Édouard Deldique reçoit dans le magazine Idées, pour le thème la « cancel culture » ou « culture de l’annulation » en français : Henry Laurens, historien, titulaire de la chaire d’Histoire contemporaine du monde arabe au Collège de France, qui vient d’écrire Le passé imposé (Fayard) et Pierre Vesperini, historien, spécialiste de l’Antiquité grecque et latine, auteur de Que faire du passé ? Réflexions sur la cancel culture (Fayard).

  • The Starving Empire. A History of Famine in France’s Colonies

    The Starving Empire traces the history of famine in the modern French Empire, showing that hunger is intensely local and sweepingly global, shaped by regional contexts and the transnational interplay of ideas and policies all at once. By integrating food crises in Algeria, West and Equatorial Africa, and Vietnam into a broader story of imperial and transnational care, Yan Slobodkin reveals how the French colonial state and an emerging international community took increasing responsibility for subsistence, but ultimately failed to fulfill this responsibility.

    Europeans once dismissed colonial famines as acts of god, misfortunes of nature, and the inevitable consequences of backward races living in harsh environments. But as Slobodkin recounts, drawing on archival research from four continents, the twentieth century saw transformations in nutrition, scientific racism, and international humanitarianism that profoundly altered ideas of what colonialism could accomplish. A new confidence in the ability to mitigate hunger, coupled with new norms of moral responsibility, marked a turning point in the French Empire’s relationship to colonial subjects—and to nature itself.

    Increasingly sophisticated understandings of famine as a technical problem subject to state control saddled France with untenable obligations. The Starving Empire not only illustrates how the painful history of colonial famine remains with us in our current understandings of public health, state sovereignty, and international aid, but also seeks to return food—this most basic of human needs—to its central place in the formation of modern political obligation and humanitarian ethics.

    https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501772351/the-starving-empire/#bookTabs=1
    #colonialisme #histoire #histoire_coloniale #colonisation #famine #France #livre

  • Traces et mémoires musicales de la guerre d’Algérie dans la chanson francophone.

    "Débutée en 1830, la conquête de l’Algérie par la France se caractérise par un déferlement de violences inouïes. Le poème « La gloire » écrit par Pierre Seghers en 1952 et chanté par Bernard Lavilliers en 2017, témoigne de la brutalité alors à l’œuvre. « Mon beau dragon, mon lance-flammes / Mon tueur, mon bel assassin / Joli brute pour ces dames / Mon amour, mon trancheur de seins / Mon pointeur, mon incendiaire / En auras-tu assez brûlé ? / Des hommes torches et violés / Des jeunes filles impubères »."

    Le 1er novembre 1954, les nationalistes algériens du Front de Libération nationale (FLN) commettent une série d’attentats. Cette « Toussaint rouge » marque le début d’une guerre de sept ans. Entretenu par les spolitations et les violences de la période coloniale, le feu de la révolte nationaliste couvait. Ce dont témoigne le morceau « Premier matin de novembre » du groupe la Rumeur. « Les semences du feu ont accouché l’antithèse / De 130 obscures années d’esclavage / Du haut des massifs jusqu’aux plaines pillées / Des cités suppliciées aux villages craquelés / Voilà l’histoire prise au cou par vos visages couleur d’ambre / Quand enfin retentit ce premier matin de novembre ».

    https://lhistgeobox.blogspot.com/2024/01/traces-et-memoires-musicales-de-la.html

    En version podcast :
    https://podcasters.spotify.com/pod/show/blottire/episodes/Traces-et-mmoires-musicales-de-la-guerre-dAlgrie-dans-la-chanson-francophone-e2dhgml/a-aa11iem