• La commemorazione ipocrita di #Bologna per la strage di Cutro
    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-commemorazione-ipocrita-di-bologna-per-la-strage-di-cutro

    Ieri a Bologna il sindaco, Matteo Lepore, insieme al sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, hanno sfilato sulle tombe di 15 delle persone afghane morte nella strage di Cutro che sono state seppellite a Borgo Panigale. Hanno parlato di memoriali, umanità e tante belle cose. Nessun riferimento alle famiglie o ai sopravvissuti che ovviamente non sono stati invitati né contattati. Dimenticati e invisibilizzati, ancora una volta. Un gesto – come hanno spiegato i familiari delle vittime e diverse organizzazioni solidali in un comunicato – considerato ipocrita, con la presenza di una persona come il sindaco di Cutro che ha insultato (...)

    #Comunicati_stampa_e_appelli #Emilia-Romagna #Italia #Naufragi_e_sparizioni #Solidarietà_e_attivismo #Strage_di_Cutro_KR_

  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • #CommemorAction 2024 : on n’oublie pas, on ne pardonne pas !

    Le #6_février, c’était la journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles. Pour la troisième année consécutive, #Douarnenez a répondu à l’appel qui été suivi par 55 villes (dont sept en #Bretagne) de 17 pays d’Afrique, d’Asie et d’Europe.

    https://blogs.mediapart.fr/938539/blog/130224/commemoraction-2024-noublie-pas-ne-pardonne-pas
    #commémor'action #commémoration #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #mémoire #oubli #pardon #6_février_2024 #France #portfolio #photographies

    • « Parce que Oublier c’est Tuer une Deuxième Fois »

      « Parce qu’on ne veut pas s’habituer »

      « Parce qu’on savait »

  • Turning Grief into Action: Families of Dead and Disappeared Migrants in Morocco

    “Elach Jina Wehtajjina?” Rhetorically asking why they are here to protest. “Wladna li Bghina,” they answer, with a breast-beating shriek for their lost sons. Xeroxed pictures of their missing sons dangle on red ribbons from their necks. They march behind the vinyl-printed banners, making light-footed steps towards the Saidia beach—a seaside bordering Algeria. After rehearsing a suite of slogans, they lower themselves into a crouch and repot the shoreline with flowers in commemoration of dead and disappeared migrants. And yet, in their minds, their sons are never dead.

    These are families of dead and disappeared migrants in Morocco. On this Global Day of Commemorating Migrant Death and Disappearance—which marks the Tenth Anniversary of the Tarajal Massacre, they demand truth and justice about the fate of their loved ones. Those attending are mostly from the Oriental region; some had an all-night trip from Beni-Mellal to Oujda to participate in the commemoration in Saidia, organized by the indefatigable borderland militant, Hassan Ammari, and other members of AMSV (Association d’Aide aux Migrants en Situation Vulnérable). Amid efforts to bring solidarity groups down to size, AMSV, created in 2017, started its work with families of missing and dead migrants in 2018. The shift in migratory dynamics, mapped out below, drove its members to shift their focus on the (im)mobilities of West and Central African migrants to Moroccan migrants. Other families are unable to afford transport fares to attend the sit-in, or simply emotionally weary after attending dozens of sit-ins to no avail.

    I had countless conversations and stays with these families. Singular as they are, their stories of loss are proof of the EU’s deadly anti-migration policies. They also speak of extended collusion with a national system that has abdicated its responsibility towards the dead, disappeared and their families. Europe’s border regimes offshore not only border control to their southern neighbours; they outsource border violence, migrant death and disappearance, and the management thereof. Fortress Europe seeks not only to keep undesirable populations at bay, but its hands spick and clean from preventable, or rather willful, migrant death and disappearances. Such gory consequences are meant to be a memento mori for prospective migrants.

    Trajal Massacre, leaving at least 15 migrants dead and dozens missing and maimed as they waded their way to the shore, staged an obscene spectacle of border violence that, after ten years, let the Spanish Guardia Civil off scot-free. A new lawsuit, however, has recently been filed against Spain by a Cameroonian survivor.

    Now let me draw a broad sketch of migrant death and disappearance at the EU-Moroccan borders. In 2018, the Western Mediterranean Route had many twists and turns. After a series of incessant expulsions and deportations in the north of Morocco, West and Central African smugglers relinquished their grip over the “illegality industry”. The growth of such industry has a history of at least two decades, from the late 1990s up to the so-called ‘migration crisis’ in 2015. During this period, North Africa had been (and still is) carrefour migratoire for West and Central African migrants fleeing poverty and warfare in their home countries. After 2018, Moroccans have held the mantle, quickly placing Moroccan migrants atop of the nationalities intercepted. No sooner had the year come to close than this route shut down owing to the run-up in migrant arrivals. And there is the rub. Old routes have reactivated, new ones are activated. New tactics are embraced to outwit the militarization seaming easier routes.

    Such geopolitical buildups gave way to a new and complex edge to migrant death, disappearance, and incarceration. In mid-2020, countless fishing boats started to leave Morocco’s southern shorelines, bound to disembark at any of the Canary Islands in sight. Unsurprisingly, death and disappearance tolls have seen an uptick. When common departure points have been militarized, new departure points have been activated in cities such as Sidi Ifni, Agadir and further north on the Rabat and Casablanca coastlines. Such routes have never been sailed by migrant boats to reach the Canary Islands, in the case of Sidi Ifni and Agadir, or mainland Spain, in the case of Rabat and Casablanca. While boats may escape the mandibles of border surveillance, they get lost into the doldrums of the Atlantic Sea before they find their ways to the Spanish archipelago. The ‘count regime’ of the IOM may chronicle some of these fatalities, but their exactitude is always blatantly compromised—counting on media reports to count migrant death and disappearance.

    Most families taking part in this commemoration are from the Oriental region. Their sons took riskier routes which have been activated following the striation of the Western Mediterranean Route. They crossed the Moroccan-Algerian border trenches before they could set sail from Algeria, Tunisia, or Libya. Some get lost at sea, while others are incarcerated in Algeria or Libya. These geopolitics are crucial to understand how death and disappearance, the twin technologies of the EU’s border deterrence, are marshalled along these routes. The EU’s security-driven approach, laying financial focus on border management, spares no efforts to engage with migrant death and disappearance.

    Families remain clueless about the whereabouts of their loved ones. Loss and unresolved grief trap them in a ghostly vertigo. Amid total disengagement with migrant death and disappearance, their individual, at times collective, efforts to look for their loved ones pale into insomniac waiting and statis. Consequently, families are left embattled with their loss, falling into a spiral of scam, hope and disappointment.

    Yet their efforts to mobilize shame against the death juggernaut of the EU’s external borders are tireless. Their efforts to search for their lost ones never cease to haunt the perpetrators. They turn their individual pain into collective grief, and collective grief into collective action to search for their missing sons. They never stop looking for their sons, even in dreams.

    https://africanarguments.org/2024/02/turning-grief-into-action-families-of-dead-and-disappeared-migrant

    #Maroc #disparus #réfugiés #migrations #frontières #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #décès #commémoraction #commémoration #2024 #deuil #action

  • Personnes migrantes disparues : agir contre l’#oubli !

    En cette journée de CommemorAction, EuroMed Rights rejoint les organisations de défense des droits humains qui plaident pour l’adoption de mesures (https://commemoraction.net) pour empêcher les décès sur les routes migratoires vers l’Europe.

    EuroMed Rights s’inscrit aussi aux côtés des familles des trop nombreuses victimes disparues en mer Méditerranée ou dans le désert nord-africain. A cet effet, nous publions aujourd’hui notre cartographie (https://euromedrights.org/fr/soutien-de-la-societe-civile-aux-familles-de-personnes-migrantes-dece) des principaux acteurs régionaux de l’#identification des corps des victimes et de recherche des personnes disparues.

    Cette cartographie, fondée sur un travail mené en 2023 par #EuroMed_Rights (https://euromedrights.org/fr/publication/personnes-migrantes-et-refugiees-loubli-jusque-dans-la-mort) avec l’aide du chercheur indépendant Filippo Furri, est un outil destiné principalement aux familles de victimes qui peinent trop souvent à obtenir des informations sur leurs proches disparus.

    Ce sont ainsi plus de 3.000 personnes qui ont disparu en 2023 sur les routes migratoires vers l’Europe (https://missingmigrants.iom.int/region/mediterranean?region_incident=All&route=All&year%5B%5D=11681&mo). Silence des autorités, absence de soutien psychologique, les familles de victimes font trop souvent face à un mur dans leurs recherches sur le devenir de ces proches.

    EuroMed Rights espère que cette cartographie permettra à ces familles d’obtenir un début de réponse en attendant que les efforts de plaidoyer envers les autorités de la région mettent en place un cadre juridique plus consistant pour venir en aide aux familles de victimes.

    https://euromedrights.org/fr/publication/personnes-migrantes-disparues-agir-contre-loubli

    #commémoration #commémoraction #6_février #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #6_février_2024 #disparus

    • Soutien de la société civile aux familles de personnes migrantes décédées ou portées disparues

      La carte ci-dessous est une représentation visuelle des organisations et institutions travaillant sur les questions liées à la disparition des migrants dans l’espace euro-méditerranéen. La carte ci-dessous est une représentation visuelle géographique des organisations et institutions travaillant sur les thématiques liées à la disparition des personnes migrantes dans la zone euro-méditerranéenne.

      La carte présente des informations sur les services disponibles offerts par les différent.e.s acteurs et actrices afin de faciliter la recherche et l’identification des personnes disparues pour les familles, les proches et les acteurs de la société civile. Cette carte a pour vocation de faciliter la coordination et le partage d’expériences entre les différents intervenants et de renforcer les actions de plaidoyer.

      La carte est divisée en trois catégories

      - Organismes de soutien aux personnes migrantes et/ou aux familles de personnes migrantes décédées ou disparues (en bleu)
      – Hôpitaux et/ou cimetières (en jaune)
      - Organisations menant un travail de plaidoyer sur cette problématique (en vert).

      NB : certaines organisations d’accompagnement réalisent également un travail de plaidoyer. La classification proposée est une lecture simplifiée pour accompagner les familles et/ou toute personne utilisant la carte.

      https://euromedrights.org/fr/soutien-de-la-societe-civile-aux-familles-de-personnes-migrantes-dece

      #cartographie #visualisation

  • Briançon : un cairn en #hommage aux migrants décédés érigé au petit matin

    Ce mardi 6 février, au petit matin, un collectif de « solidaires des personnes exilées » a érigé un cairn en hommage “aux morts aux frontières”, à proximité de la porte du pont d’Asfeld, dans la vieille ville de Briançon.

    Il est un peu plus de 7 heures, ce mardi 6 février à Briançon, et le soleil n’a pas encore percé depuis l’Italie, à quelques dizaines de kilomètres. Sur la petite butte, juste après avoir passé la porte de la cité Vauban en direction du pont d’Asfeld, un petit groupe s’affaire à la frontale et à la truelle : un collectif de « solidaires des personnes exilées » érige un cairn.

    (#paywall)

    https://www.ledauphine.com/societe/2024/02/06/briancon-un-cairn-en-hommage-aux-migrants-decedes-erige-au-petit-matin
    #mémoire #commémoration #Briançon #migrations #réfugiés #6_février #commémor'action #commémoraction #Hautes-Alepes #France #cairn #monument #mémoriel #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #frontières #frontière_sud-alpine #mémorial #6_février_2024

  • Commémoraction des victimes des politiques migratoires aux frontières Paris, 6 février 2024

    Dans le cadre de la Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes des politiques migratoires, retrouvons-nous à la #CommemorAction.
    📅 le 6 février 2024
    📍 place Edmont Michelet à #Paris

    https://piaille.fr/@LDH_Fr/111878731145971123

    #commémoration #commémor'action #2024 #mémoire #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #frontières #réfugiés #6_février #6_février_2024

  • Commémor’Action le 6 février #2024 - Dixième anniversaire

    Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles

    Leur vie, notre lumière. Leur destin, notre colère. Ouvrez les frontières !

    Le 6 février 2014, plus de 200 personnes, parties des côtes marocaines, ont tenté d’accéder à la nage à la plage du Tarajal, dans l’enclave espagnole de Ceuta. Pour les empêcher d’arriver en « terre espagnole », la Guardia civil a utilisé du matériel anti-émeute et aussi les militaires marocains présents n’ont porté secours aux personnes qui se noyaient devant eux. Quinze corps ont été retrouvés côté espagnol, des dizaines d’autres ont disparu, les survivants ont été refoulés, certains ont péri côté marocain.

    Dix ans ont passé depuis le massacre de Tarajal.

    Dix ans pendant lesquels le nombre de morts et de disparus n’a cessé d’augmenter, en Méditerranée et sur la route des Canaries, au sein des frontières internes de l’UE, dans la Manche, aux frontières orientales, le long de la route des Balkans, ou encore dans le désert du Sahara et le long de toute autre trajectoire de mobilité. Le régime de frontière a montré encore en 2023 son visage cynique de manière totalement décomplexé, lors du naufrage de Cutro, quand la nuit du 25 février 94 personnes sont décédées et au moins 11 autres ont disparu à quelques mètres des cotes italiennes, sous les regards immobiles de Frontex et des autorités italiennes, encore le 14 juin quand plus de 600 personnes ont disparu à jamais au large de Pylos, en Grèce et tout comme le 23 avril 2022, quand un bateau avec 90 personnes à son bord a coulé au large des côtes libanaises.

    Dix ans pendant lesquels les associations, les familles, et tous celles et ceux qui luttent pour le droit à la mobilité pour toutes et tous n’ont cessé de réclamer vérité et justice pour ces victimes, de surligner les responsabilités directes et indirectes du régime des frontières, de travailler pour prouver ces responsabilités et pour soutenir les familles et les proches dans les douloureux parcours de recherche des disparus et d’identification des victimes.

    À l’occasion du dixième anniversaire du massacre de Tarajal, nous réitérons ici l’appel lancé l’année dernière, avec l’espoir que toujours plus d’organisations, d’associations, de familles, d’activistes s’associent à ce processus de Commémor’Actions décentralisées, réalisées chaque année le 6 février, pour que cette mobilisation transnationale prenne de plus d’ampleur, soit de plus en plus visible dans l’espace public, et arrive à fédérer de plus en plus de personnes.

    Nous demandons à toutes les organisations sociales et politiques, laïques et religieuses, aux groupes et collectifs des familles des victimes de la migration, aux citoyens et citoyennes de tous les pays du monde d’organiser des actions de protestation et de sensibilisation à cette situation le 6 février 2024.

    Nous vous invitons à utiliser le logo ci-dessus, ainsi que vos propres logos, comme élément pour souligner le lien entre toutes les différentes initiatives. Tous les évènements qui auront lieu peuvent être publiés sur le groupe (https://www.facebook.com/groups/330380128977418) et sur la page Facebook « Commemor-Action » (https://www.facebook.com/people/Commemor-Action/100076223537693).

    Migrer pour vivre, pas pour mourir !
    Ce sont des personnes, pas des chiffres !
    Liberté de circulation pour tous et toutes !

    En savoir plus :

    - événements et rassemblements qui ont lieu le 6 février (https://missingattheborders.org/en/index.php?p=news/2023/commemorazione-eventi)

    https://www.gisti.org/spip.php?article7173

    #commémoration #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoraction #migrations #frontières #réfugiés #mémoire #6_février

    • #18_aprile

      Erano partiti di notte da un porto vicino a Zwara, a ovest di Tripoli, in Libia. Quando alcune ore più tardi la balena aveva cominciato a inabissarsi in un mugghiare di metallo dopo aver urtato per una manovra sbagliata il mercantile portoghese che la Capitaneria di porto di Roma aveva inviato a soccorrerla, quelli rinchiusi nella stiva si erano ammassati gli uni sugli altri, arrampicandosi su quelli che avevano davanti e di fianco per cercare di raggiungere la botola, lassù in alto. In due si erano abbracciati in quell’inferno che era la sala macchine. “Lì dentro si sviluppa un calore tale che neanche il macchinista ci mette spesso piede”, raccontano i Vigili del fuoco che li avevano tirati fuori, un anno dopo. Persino in mezzo ai motori avevano ammassato 65 persone. I mercanti li avevano stipati in ogni interstizio, mille persone pigiate come bestie in 23 metri di barca, e li avevano spediti nel Mediterraneo con due litri d’acqua a testa e senza uno straccio di ancora perché anche il gavone di prua doveva servire per farcene entrare ancora, per aumentare il guadagno. Erano riusciti a metterne 5 per ogni metro quadro.

      –-

      Settecento chilometri senza mangiare
      Bevendo sputi, a farsi bruciare
      Da questo sole feroce riflesso dal mare
      Da questo vento che di giorno scortica e di notte gela
      E rimescola il freddo con la paura

      Che quest’acqua buia, infinita e cattiva
      È più salata dei conti che ci han fatto saldare
      Non cura la sete, marcisce le ossa
      E questa Italia non vuole arrivare
      Questa terra che non ci vuole non si fa trovare

      E questo sarcofago sul mare è un cimitero per ottocento
      Sulla tavola fredda e muta che non finisce di violentare
      A perdita d’occhio e di cuore

      Amore mio, che ti ho lasciata a patire
      Tra la fame, la sete e l’orrore
      Tra gli arti amputati spezzati calpestati
      Le bombe esportate
      I bambini soldati
      Amore mio ascoltami bene: tu non morire che ti vengo a salvare
      Appena finisce questo mare io ti vengo a salvare

      E a noi ricchi senza pudore
      Ce lo spiega la televisione
      Un mantenuto ignorante e cafone
      Con la felpa e il ghigno arrogante
      Ce lo spiega lui cosa dobbiamo pensare
      Di questa gente che prende il mare
      Per provare a non morire

      https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=67661&lang=it
      https://www.youtube.com/watch?v=BpCkiqp6zNs&t=64s


      #chanson #musique #musique_et_politique #naufrage #asile #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #18_avril_2015 #mourir_en_mer

      #commémoration #Libye #Méditerranée #mer_Méditerranée #Zouara

  • Commémor’ action des Mort·es des frontières

    « Migrer pour vivre. Pas pour mourir »

    Depuis 2014, le 6 février est, à l’appel des familles de victimes des frontières la journée mondiale de commémor’action des mort·es des frontières. Une journée pour lutter contre les régimes faisant de la migration un périple trop souvent mortel et exiger la vérité, la justice et la réparation. Dans le Briançonnais, la frontière franco-italienne et le non-accueil ont encore fait au moins 3 mort·es en 2023.

    Les #affiches refusées dans les rues de Briançon :

    https://briancon-solidaire.org

    #commémoraction #commémoration #Briançon #morts_aux_frontières #mémoire #mourir_aux_frontières #migrations #asile #réfugiés #6_février #Hautes-Alpes #Briançonnais #lexique #mots #vocabulaire

  • XI #Marcha_po_la_Dignidad - #Tarajal | 3.02.2024 | 10 AÑOS EXIGIENDO VERDAD, JUSTICIA Y REPARACIÓN.

    *English version below.
    **Traduction en Français ci-dessous.

    La XI MARCHA POR LA DIGNIDAD es un acto en memoria de las personas a las que arrebataron la vida la mañana del 6 de febrero de 2014 en la playa del Tarajal en Ceuta, pero también es un acto de denuncia por todas las personas a las que les arrebatan la vida por falta de vías legales y seguras para migrar.

    Los colectivos y organizaciones que quieran adherirse a la XI MARCHA POR LA DIGNIDAD deberán completar el siguiente formulario. Ello supondrá el siguiente compromiso:
    – Su inclusión como firmante en el manifiesto al que se dará lectura al finalizar el recorrido de la marcha en la Playa de El Tarajal.
    – Su inclusión en carteles y publicaciones para difusión del acto.
    – Su compromiso en la promoción y difusión de la iniciativa en redes locales, nacionales e internacionales.
    – El acceder a la información y materiales relacionados con la Marcha.
    – La facilitación de la toma de contacto con cualesquiera otros de los miembros incorporados a la red.
    – Asumir las directrices de las personas que conforman la organización de los actos.

    Os esperamos el próximo 3 de febrero en Ceuta.

    Redes de la Organización de la marcha:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 YEARS DEMANDING TRUTH, JUSTICE AND REPARATION.»

    The XI MARCH FOR DIGNITY is an act in memory of the people whose lives were taken on the morning of February 6, 2014 on the beach of Tarajal, but it is also an act of denunciation for all the people whose lives are taken away from them due to the lack of legal and safe ways to migrate.

    Collectives and organizations wishing to join the XI MARCH FOR DIGNITY must complete the following form. This will involve the following commitment:

    / Their inclusion as a signatory organization in the manifesto that will be read at the end of the march.
    / Their inclusion in posters and publications for the dissemination of the event.
    / Your commitment in the promotion and dissemination of the initiative in local, national and international networks.
    / Access to information related to the march.
    / Facilitating contact with any other members of the network.
    / Assuming the guidelines of the Associations organizing the events.

    We look forward to seeing you on February 3th.

    Social networks of the March Organisation:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 ANS D’EXIGENCE DE VÉRITÉ, DE JUSTICE ET DE RÉPARATION».

    La 11e MARCHE POUR LA DIGNITÉ est un acte en mémoire des personnes dont la vie a été arrachée le matin du 6 février 2014 sur la plage de Tarajal, mais c’est aussi un acte de dénonciation pour toutes les personnes dont la vie leur est enlevée en raison de l’absence de moyens légaux et sûrs de migrer.

    Les collectifs et organisations qui souhaitent se joindre à la 11ème MARCHE POUR LA DIGNITÉ doivent remplir le formulaire suivant. Cela implique l’engagement suivant :

    / Leur inclusion en tant que signataire dans le manifeste qui sera lu à la fin de la marche.
    / Leur inclusion sur les affiches et les publications pour faire connaître l’événement.
    / Votre engagement à promouvoir et à diffuser l’initiative dans les réseaux locaux, nationaux et internationaux.
    / Accès aux informations relatives à la marche.
    / Faciliter le contact avec l’un des autres membres du réseau.
    / Assumer les directives des associations qui organisent les événements.

    Nous vous attendons le 3 février.

    Réseaux sociaux de l’organisation de la mache :
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal

    #commémoration #commémoraction #asile #migrations #réfugiés #Ceuta #Maroc #Espagne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #2024 #dignité #justice #vérité #mémoire

    • A 10 anni dalla strage del Tarajal la XI Marcha por la dignidad

      Sono passati 10 anni dalla strage del Tarajal a Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Quella tragica mattina del 6 febbraio del 2014 un gruppo molto numeroso di migranti (circa 300) prova ad entrare a Ceuta a nuoto, attraverso la spiaggia di Tarajal. La Guardia Civil cerca di fermarli, sparando pallottole di gomma e fumogeni molto vicino alle persone che si trovano in acqua. Alcuni testimoni affermano che vengono lanciati proprio sulle persone, molte delle quali galleggiano a fatica. Gli agenti sparano anche quasi duecento colpi a salve. Si diffonde il panico in acqua. Muoiono 15 persone e altri rimangono feriti.

      Per ricordare questa strage e la brutalità del regime delle frontiere ogni anno a Ceuta si svolge una manifestazione, la Marcha por la Dignidad, un atto in memoria delle persone che sono state uccise, ma anche di denuncia per tutte le persone che vengono uccise a causa della mancanza di vie legali e sicure per migrare. Quest’anno sarà sabato 3 febbraio.

      «Quanto accaduto il 6 febbraio 2014 è un chiaro esempio di razzismo di Stato. È nostro dovere antirazzista sapere cosa sta accadendo al confine meridionale spagnolo, dare eco e denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani che vi si verificano» – scrivono dalle pagine della Marcha – «anno dopo anno, manteniamo viva la fiamma della memoria e continuiamo a denunciare le politiche migratorie europee che causano morte».

      La giornata di mobilitazione, che ha raccolto oltre 220 adesioni, è organizzata in due momenti. Nel pomeriggio dalle 15.15 inizierà la manifestazione che attraverserà le strade di Ceuta da Plaza de Los Reyes per raggiungere la spiaggia della strage. Nella tarda mattinata, alle 11.30 nella Sala delle Assemblee dell’IES ABYLA di Ceuta, la tavola rotonda in cui interverranno Patuca Fernández, Viviane Ogou e Mouctar Bah (l’incontro sarà trasmesso in diretta qui).

      «La logica razziale e coloniale ha determinato le politiche migratorie dell’Europa. I confini di Ceuta e Melilla stabiliscono una divisione tra coloro che sono considerati persone e coloro che non lo sono», spiegava nella tavola rotonda del 2023, Youssef M. Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale.
      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi. Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha sottolineato.

      Sono tante, troppe, le date che rappresentano purtroppo i punti più alti del razzismo e della violenza delle frontiere. Fra meno di un mese sarà passato un anno dal 26 febbraio 2023, giorno in cui 94 persone (34 di loro erano bambine/i) sono morte a soli 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria: non una fatalità come le istituzioni vogliono far credere, ma un eccidio per omissione di soccorso diventato legge. Anche a Cutro, dopo un anno, si tornerà a manifestare ancora al fianco dei familiari e dei superstiti per non dimenticare e continuare a chiedere verità e giustizia.

      https://www.youtube.com/watch?v=g5fGZLGBVSg


      https://www.meltingpot.org/2024/02/a-10-anni-dalla-strage-del-tarajal-la-xi-marcha-por-la-dignidad

    • En 2023...

      Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

      A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

      Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

      Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

      Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

      «Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

      La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

      È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

      Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

      Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

      Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

      https://www.youtube.com/watch?v=4HayyEDFaSc

      Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

      Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

      In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

      E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

      In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

      https://www.meltingpot.org/2023/02/tarajal-il-dovere-della-memoria-per-tutte-le-vittime-di-frontiera

    • La tomba 147 e l’instancabile lotta di giustizia per la strage del Tarajal

      Ceuta, 10 anni dal 6 febbraio 2014

      Nei tranquilli e placidi passaggi del cimitero di Santa Catalina a Ceuta, situato nel cortile di Santa Beatriz de Silva, c’è un corridoio infinito fiancheggiato da due file di lapidi, in cui si può scoprire un enigmatico labirinto di marmo. È adornato da nomi, cognomi e ornamenti che evocano la memoria di coloro che non ci sono più. Oltre questa fila, nel punto più alto, si trovano tombe meticolosamente numerate, sigillate nel freddo abbraccio del cemento. Questi loculi sono privi di nomi o vasi di fiori che ricordano le anime che riposano al loro interno. Guardando dall’altra parte dello stretto, si vedono le tombe dei migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere la spiaggia di Tarajal a Ceuta e di altri che hanno subito lo stesso destino. Si tratta di tombe anonime. Qui giacciono cinque delle quindici persone che, il 6 febbraio 2014, hanno cercato di raggiungere a nuoto la spiaggia di Tarajal a Ceuta, situata al confine tra Marocco e Spagna.
      Ostacoli all’identificazione dei corpi delle vittime di Tarajal

      Solo il corpo di Nana Roger Chimie, un giovane camerunense, è stato identificato; gli altri resti sepolti nel sito rimangono non identificati, nonostante gli sforzi delle famiglie e degli avvocati di Samba, Larios e Ussman Hassan per chiarire l’identità dei corpi trovati dopo il ritrovamento di Nana, che giacciono sepolti lì.

      Patricia Fernández Vicent, avvocata della Coordinadora de Barrios, conferma che «Nana è stato identificato perché il suo corpo è stato ritrovato solo due giorni dopo i fatti e grazie agli oggetti personali che portava con sé quando ha cercato di attraversare il mare per raggiungere la Spagna. Inoltre, le sue condizioni hanno permesso di verificare le sue impronte digitali con i database camerunesi. Roger riposa nella tomba numero 147», che si distingue solo per la data e l’iscrizione: “Tarajal 6-2-14“.

      L’identità degli altri rimane un mistero. L’avvocata aggiunge: «Abbiamo chiesto al tribunale il test del DNA, ma è stato rifiutato in quanto non necessario per chiarire i fatti, quindi non è mai stato effettuato». C’è anche un quinto corpo la cui identità rimane sconosciuta, poiché non è stato fatto alcun tentativo formale di identificarlo.

      A distanza di dieci anni, le famiglie delle vittime sono ancora in cerca di giustizia e lottano senza sosta per ottenere il permesso di recarsi a Ceuta per identificare i loro cari. Tuttavia, il governo spagnolo ha ripetutamente negato i visti necessari per verificare se i resti appartengono a qualcuno dei parenti ancora dispersi.

      A tre anni dagli eventi, le famiglie delle vittime del Tarajal erano state ascoltate dal Congresso dei Deputati, in coincidenza con l’anniversario. Una dozzina di padri, madri, fratelli e sorelle di coloro che morirono sulla spiaggia di Ceuta avevano partecipato a un atto commemorativo in videoconferenza. «Vogliamo che sia fatta giustizia, vogliamo che la loro morte non rimanga impunita», aveva esclamato la madre di uno dei giovani morti di Douala, in Camerun, durante il tributo.

      Le famiglie dei giovani deceduti continuano a chiedere di conoscere la verità su quanto accaduto, chiedendo giustizia affinché queste morti non rimangano dimenticate e senza responsabilità. «Stavano solo cercando una vita migliore per le loro famiglie», ha detto un membro della famiglia.
      Dieci anni senza responsabilità

      A dieci anni dalle morti e dopo otto anni di procedimenti giudiziari, il caso non è ancora arrivato al processo, essendo stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. La vicenda giudiziaria del caso Tarajal è stata complessa e prolungata. È iniziata nel febbraio 2015 quando il Tribunale di Ceuta ha convocato 16 agenti di polizia, con le Ong CEAR, Coordinadora de Barrios e Observatori DESC che hanno agito come parti civili.

      Nelle prime due istanze di archiviazione, nel 2015 e nel 2018, il giudice ha concluso che erano stati compiuti tutti i passi investigativi possibili, senza trovare prove di attività sanzionabile nei confronti dei 16 agenti della Guardia Civil coinvolti negli eventi di quella mattina del febbraio 2014. Tuttavia, il Tribunale Provinciale di Ceuta ha ribaltato entrambe le decisioni nel 2017 e nel 2018, incaricando il giudice di identificare i cinque deceduti e di raccogliere le dichiarazioni dei sopravvissuti. Nell’ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Spagna per pratiche simili a Melilla.

      Il caso è stato nuovamente chiuso nel gennaio 2018, ma dopo i ricorsi, nell’agosto 2018, il Tribunale Provinciale di Cadice ha deciso di riaprire il caso, sottolineando le inadeguatezze dell’indagine. Nel settembre 2019, 16 agenti della Guardia Civil sono stati processati, ma il fascicolo è stato chiuso per la terza volta nell’ottobre 2019, provocando ulteriori ricorsi. Il Tribunale Provinciale di Cadice ha respinto i ricorsi nel luglio 2020.

      Le Ong hanno presentato un ricorso in Cassazione alla Corte Suprema, che è stato respinto nel maggio 2022. Nel luglio 2022 è stato presentato un ricorso per amparo alla Corte Costituzionale 1. Infine, nel giugno 2023, la Corte Costituzionale ha ammesso il ricorso per amparo, aprendo la possibilità di stabilire una dottrina costituzionale che protegga i diritti dei migranti alle frontiere.

      Nonostante si tratti di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni, né i giudici né i pubblici ministeri si sono pronunciati pubblicamente durante il processo, limitandosi a fare riferimento alle ordinanze e ai documenti inviati alle parti. Una fonte giudiziaria ha spiegato a questo corrispondente che “si trattava di un caso insolito, in quanto era la prima volta che si trovavano di fronte a un gruppo di assalto marittimo“. Inoltre, ha sottolineato che le questioni legali sono complicate, in quanto bisogna stabilire “se c’è una responsabilità condivisa per i crimini sconsiderati e qual è stata la partecipazione specifica di ciascuna guardia civile“. Questo perché le sanzioni non possono essere applicate a gruppi, il che solleva questioni di natura strettamente legale.

      Cosa è successo nelle prime ore del 6 febbraio 2014 sulla spiaggia di Tarajal a Ceuta

      Nelle prime ore del 6 febbraio 2014, circa 400 persone hanno tentato di attraversare la barriera di confine che separa il Marocco dall’Europa. La Guardia Civil, dispiegata lungo l’intero perimetro del confine, ha cercato di impedire al gruppo di entrare a Ceuta utilizzando attrezzature antisommossa, proiettili di gomma, gas lacrimogeni e detonazioni acustiche.

      Almeno 15 persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite. Coloro che sono sopravvissuti e sono riusciti a raggiungere il lato spagnolo della spiaggia di Tarajal sono stati immediatamente rispediti in Marocco. La mattina successiva furono ritrovati 14 corpi, 5 in Spagna e 9 in Marocco. Ufficialmente, 23 persone sono state riportate in Marocco e solo una persona è stata dichiarata dispersa.

      Secondo le ONG coinvolte nell’accusa popolare contro le guardie civili, “molte testimonianze di sopravvissuti e testimoni, insieme ai video ufficiali rilasciati dalla Guardia Civil, dimostrano che la delegazione governativa a Ceuta era a conoscenza in ogni momento dell’attivazione del livello massimo di allerta, che prevedeva la mobilitazione di varie unità della Guardia Civil dotate di attrezzature anti-sommossa“. L’allerta è stata attivata per impedire al gruppo di circa 400 persone di entrare in territorio spagnolo. Si trattava di coloro che erano riusciti a eludere i controlli delle forze marocchine nei boschi vicino al confine con Ceuta e a raggiungere la spiaggia, nella zona marocchina, dove si sono gettati in mare. Secondo i testimoni, circa 1.500 persone, per lo più africani subsahariani, hanno cercato di entrare in Europa quella mattina, ma solo 400 sono riusciti ad avvicinarsi.

      La Guardia Civil ha affrontato il gruppo in assetto antisommossa mentre nuotava verso la riva, lanciando candelotti fumogeni e palle di gomma dal frangiflutti. Questa azione non è stata inizialmente riconosciuta dal delegato del governo, Francisco Antonio González, e successivamente dal direttore generale della Guardia Civil, Arsenio Fernández de Mesa, che ha negato l’uso di materiale antisommossa in acqua, attribuendo la responsabilità dei morti alle forze marocchine.
      Le bugie del Ministero degli Interni

      Jorge Fernández Díaz, all’epoca Ministro degli Interni, si presentò una settimana dopo al Congresso ammettendo l’uso di materiale antisommossa come deterrente, ma indicando l’acqua. Queste spiegazioni seguirono la diffusione di immagini che mostravano gli agenti della Guardia Civil utilizzare “145 proiettili di gomma e cinque candelotti fumogeni” per impedire ai migranti di raggiungere la Spagna, sparando verso la posizione in cui stavano nuotando, mentre erano inseguiti da una motovedetta marocchina. Nella stessa occasione, il ministro si è rammaricato per la morte delle 15 persone sulla spiaggia di Tarajal ma, come gli ha chiesto un deputato dell’opposizione, non si è scusato con le famiglie delle vittime in quanto capo della Guardia Civil.

      Il Segretario di Stato per la Sicurezza, Francisco Martínez, al Congresso, ha dichiarato che nessuno dei giovani che hanno raggiunto la riva spagnola è rimasto ferito e che la Guardia Civil ha sparato solo mentre erano ancora in acque marocchine, attenuando l’azione dal frangiflutti. Tuttavia, sono sorte delle domande: “Perché nessuno ha cercato di salvare le persone che stavano annegando? Perché non sono stati allertati i soccorsi marittimi e la Croce Rossa?“.

      Il governo del PP, attraverso il ministro, ha ufficializzato la sua versione dei fatti e ha respinto la richiesta di aprire una commissione d’inchiesta richiesta dall’opposizione, approfittando della maggioranza assoluta di cui godeva nel 2014. Ma le registrazioni e gli audio forniti delle comunicazioni tra gli agenti e il COS mettono in dubbio la versione di Martínez. In una delle comunicazioni, gli agenti hanno avvertito della presenza di migranti che nuotavano e hanno chiesto istruzioni: “Dobbiamo fermarli?“. Dalla centrale operativa hanno risposto con incertezza: “Non sono sicuro, almeno cerchiamo di fermarli dall’avanzare, si stanno dirigendo verso Ceuta“. La risposta è stata: “Non è possibile, hanno attraversato da dietro e l’unica opzione era catturarli o lasciarli proseguire“. Le contraddizioni del delegato del governo a Ceuta e del direttore della Guardia Civil sono venute alla luce, mettendo a nudo la leadership del Ministero degli Interni. Nessuno si è dimesso.

      Persino il presidente del governo della città autonoma, Juan Jesús Vivas, si è spinto a definire “miserabili” sul suo account Facebook le organizzazioni che hanno accusato direttamente le guardie civili di essere responsabili delle morti. L’Ong Caminando Fronteras ha pubblicato un rapporto che includeva i referti delle ferite e le testimonianze dei sopravvissuti, tutti sono concordi nell’affermare che i proiettili di gomma erano diretti contro i migranti. Dopo essere venuto a conoscenza del rapporto, Francisco Antonio González ha consigliato alle guardie civili di sporgere denuncia contro l’organizzazione.
      Il vescovo di Tangeri critica l’azione della Guardia Civil

      L’arcivescovo emerito di Tangeri, Santiago Agrelo, ha criticato le azioni della Guardia Civil durante gli eventi del 6 febbraio 2014 a il Tarajal. “Quel giorno, quei giovani non si sono gettati in acqua contro nessuno: cercavano solo un futuro migliore, al quale sicuramente avevano diritto almeno quanto me“. Ha sottolineato la responsabilità delle forze dell’ordine, affermando che “le forze dell’ordine del Regno di Spagna hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per impedire a quei giovani di raggiungere la spiaggia, un fatto che non solo è stato riconosciuto ma anche rivendicato: hanno fatto ciò che dovevano fare“.

      Nessuno si è assunto la responsabilità e nessuno sa chi abbia dato l’ordine di autorizzare gli agenti spagnoli ad agire sulla spiaggia di Tarajal. A distanza di dieci anni, nessuno a nome dello Stato spagnolo si è scusato con le famiglie delle vittime di quella fatidica mattina del febbraio 2014. La tomba 147 nel cimitero di Ceuta rimarrà in silenzio.

      La mattina di domenica 4 febbraio, la tomba di Roger Nana è stata resa dignitosa. L’associazione ELIN, la Coordinadora de Barrios e alcuni attivisti hanno dedicato un poster che è stato collocato sulla tomba di Nana. Dopo un breve funerale, Javier Baeza, presidente dell’organizzazione di Madrid, ha dedicato alcune parole di omaggio alle vittime. Le altre tombe sono già segnate come “persona non identificata 6 febbraio 2014“.

      https://www.meltingpot.org/2024/02/la-tomba-147-e-linstancabile-lotta-di-giustizia-per-la-strage-del-taraja

      #responsabilité

    • #Ceuta: di tutte le stragi, una Memoria Mediterranea

      A dieci anni dalla strage del Tarajal, in cui furono uccise almeno 14 persone nel tentativo di raggiungere la Spagna a nuoto, Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, continua a essere tra le frontiere più violente del regime necropolitico europeo: il mare da un lato, la valla di concertina tagliente dall’altro, sistematicamente iper vigilati e militarizzati per impedire il transito delle persone verso l’Europa. Luogo di incessante approccio securitario, Ceuta, come Melilla, in territorio nordafricano, è da anni scenario di morte e negazione della vita umana, non solo delle persone che tentano di sfidarlo ma di tutte coloro che restano dall’altro lato in attesa di verità sui propri familiari.

      Sono trascorsi 10 anni di silenzio sul massacro del Tarajal, quando, all’alba del 6 febbraio 2014, la Guardia Civil spagnola sparava brutalmente centinaia di proiettili di gomma contro un gruppo di oltre 300 persone migranti di origine sub – sahariana provocandone la morte per annegamento e omettendo il loro soccorso e il recupero dei corpi. Decine di persone sono annegate davanti allo sguardo inerme delle guardie che ad oggi continuano impunemente a perpetrare violenza e repressione contro le persone migranti direttamente coinvolte e contro le famiglie a cui viene negato l’accesso per poter raggiungere l’Europa e cercarli.

      Le persone che tentano di varcare il confine al costo della propria vita, vengono sottoposte a ripetute umiliazioni e procedure di controllo, trattenimento e maltrattamento propedeutiche allo smistamento e alla loro espulsione, sorte di cui spesso le famiglie rimangono ignare e lontane dalle possibilità di richiesta per verità e giustizia dai territori di origine.

      Dal massacro, il governo spagnolo ha ripetutamente respinto la richiesta dei visti ai familiari delle persone disperse e il prelievo del DNA dai resti recuperati affinché procedessero con l’eventuale identificazione dei corpi, ignorando di fatto la loro richiesta di giustizia e verità.

      Infatti, il caso del 6 febbraio fu ripetutamente archiviato dalle responsabilità di una ennesima strage di Stato, riaperto successivamente e in corso di risoluzione, solo lo scorso giugno 2023, grazie alla pressione delle stesse persone sopravvissute e delle famiglie, alle avvocate e attiviste solidali che con loro sostengono la rivendicazione contro la negazione politica della vita e della morte.

      In accordo con il Marocco – da Rajoy e i successori fino all’attuale Sanchez – lo Stato spagnolo ribadisce da decenni il proprio compromesso sul controllo bilaterale della frontiera elogiando l’impegno sempre più mirato all’esternalizzazione della frontiera sul territorio marrocchino in un’ottica di governance migratoria, disattendendo i principi democratici e i diritti di libertà e dignità per la vita delle persone migranti, in fuga da altrettante situazioni di violenze ed abuso, spesso dipese dalla onerosa precarizzazione economica.

      In questo senso, la violenza di cui Ceuta si fa testimone, la medesima che interessa Melilla e la rotta canaria in Spagna o i luoghi in cui vige la procedura di frontiera sull’intero suolo europeo – da Lampedusa a Ventimiglia e lungo i Balcani – non è rappresentata da “ assalti” ed “invasioni” illegali come mediaticamente cerca di strumentalizzare la difesa politica, ma insita nella rimozione sistematica del diritto a partire, a circolare ed arrivare liberamente, alla possibilità per tutte e tutti di avere riconosciuta un’identità ante e post mortem, il diritto a sapere e al lutto.

      Accordi con paesi terzi come il Marocco, esattamente come accade tra Italia e Libia e Tunisia, ledono ogni diritto umano, in primis quello alla vita, abusata e fatta prigioniera dietro e dentro le mura di cinta, potenziate nel meccanismo di controllo e respingimento in mare, nei dispositivi detentivi e di sorveglianza dei centri per il rimpatrio (In Spagna C.I.E.), luoghi di trattenimento forzato e punitivo senza alcuna condanna, dove però non si spengono manifestazioni per la libertà e la liberazione dalle persone trattenute e recluse, in protesta anche in questi giorni dai vari centri in Italia a seguito del suicidio di Stato di Ousmane Sylla .

      La strage di Tarajal è l’espressione di quanto accade ogni giorno da anni in cui impunità, ingiustizia e violenza assumono le sembianze della lotta alla criminalità e alla sicurezza nazionale. Massacri senza giustizia, tombe senza nome, corpi senza volto, morti senza corpo, non sono che l’espressione ultima.

      Ma non l’unica.

      Alla Frontera Sur, una ‘Marcha por la Dignidad’, organizzata da centinaia di persone migranti, familiari, attivisti e diverse organizzazioni solidali, tra cui @Caravana Abriendo Fronteras e @CarovaneMigranti, continua da 10 anni a reclamare ed esigere verità e giustizia per tutte le persone morte nel massacro di Ceuta e per tutte coloro che muoiono e scompaiono per mano della indifferente violenza sistemica di un regime politico mortifero che vigila e reprime le persone migranti alle frontiere interne ed esternalizzate.

      Anche quest’anno la Marcha, partita dalla sede della Delegazione del Governo di Ceuta, ha raggiunto la spiaggia del Tarajal, dove la commemorazione diviene strumento di lotta non solo per ricordare il Tarajal ma per parlare di tutte le ennesime stragi che si ripetono. Quanto accaduto nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma rigorosamente sistematico, lo abbiamo visto a Melilla, a Nador, ad Ouija, in Tunisia, in Sicilia, a Cutro. Tante, troppe e ininterrotte stragi, in altrettante date del calendario, si verificano nel silenzio politico di turno.

      Ma la lotta per la Memoria viva è un riscatto mediterraneo che unisce la rabbia per trasformare il dolore in un grido collettivo per ogni Memoria negata e inabissata che vive attraverso chi può raccontare, dalle lotte familiari e collettive.

      A dieci anni dalla strage di Ceuta, per tutte le stragi invisibili di cui non si racconta, per ogni persona coinvolta in un massacro rimosso, continuiamo a tessere un’unica Memoria Mediterranea, quella praticata tutti i giorni come strumento di denuncia e di ricerca di giustizia, custode di dignità e resistenza.

      Non lasceremo il Mediterraneo agli abissi, ce ne impossessiamo senza timore per combattere dove si combatte, per elevare la voce dove si protesta, per piantare dove si cerca di seppellire.

      Tarajal, no olvidamos!

      https://memoriamediterranea.org/ceuta-di-tutte-le-stragi-una-memoria-mediterranea
      #mémoire_méditerranéenne

  • #Derman_Tamimou , décédé le 06.02.2019

    Cadavere di un migrante trovato sulla strada del Monginevro : voleva andare in Francia

    Un uomo di 29 anni proveniente dal Togo sepolto dalla neve.

    ll cadavere di un migrante di 29 anni, proveniente dal Togo, è stato ritrovato questa mattina in mezzo alla strada nazionale 94 del colle del Monginevro. Da quanto si apprende da fonti italiane, sul posto è presente la polizia francese. Le abbondanti nevicate degli scorsi giorni e il freddo intenso hanno complicato ulteriormente l’attraversamento della frontiera per i migranti. Si tratta del primo cadavere trovato quest’anno sul confine italo-francese dell’alta Val Susa dopo che l’anno scorso erano stati rinvenuti tre corpi (https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/05/25/news/bardonecchia_il_corpo_di_un_migrante_affiora_tra_neve_e_detriti_su).

    https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/02/07/news/cadavere_di_un_migrante_trovato_sulla_strada_del_monginevro_voleva
    #décès #mort #mourir_aux_frontières #Tamimou
    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #Hautes-Alpes #mourir_aux_frontières #frontières #Italie #France #Briançonnais #Montgenèvre #La_Vachette

    –—

    ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière des Hautes-Alpes :
    https://seenthis.net/messages/800822

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Retrouvé inanimé le long de la RN 94, le jeune migrant décède

      Un homme d’une vingtaine d’années a été découvert en arrêt cardio-respiratoire, cette nuit peu avant 3 heures du matin, sur la #RN_94, à #Val-des-Près. La police aux frontières, qui patrouillait à proximité, a vu un chauffeur routier arrêté en pleine voie, près de l’aire de chaînage. Celui-ci tentait de porter secours au jeune migrant, inanimé et en hypothermie. La victime a été prise en charge par les sapeurs-pompiers et un médecin du Samu. L’homme a ensuite été transporté à l’hôpital de Briançon, où il a été déclaré mort.

      Une enquête a été ouverte pour « homicide involontaire et mise en danger de la vie d’autrui ».


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/07/val-des-pres-un-jeune-migrant-decede-apres-avoir-ete-retrouve-inanime-le

    • Hautes-Alpes : un jeune migrant retrouvé mort au bord d’une route

      Il a été découvert près d’une aire de chaînage en #hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire.

      Un migrant âgé d’une vingtaine d’années a été retrouvé mort dans la nuit de mercredi à ce jeudi dans les Hautes-Alpes au bord d’une route nationale reliant la frontière italienne à Briançon, a-t-on appris ce jeudi de source proche du dossier.

      Le jeune homme a été découvert inconscient jeudi vers 3h du matin par un chauffeur routier à Val-des-Près, une petite commune située à la sortie de Briançon. Il gisait près d’une aire de chaînage nichée en bordure de la RN94 qui mène à Montgenèvre, près de la frontière italienne.

      « Il n’a pas été renversé par un véhicule », a précisé une source proche du dossier, confirmant une information du Dauphiné Libéré.
      Hypothermie

      C’est une patrouille de la Police aux frontières (PAF) qui a prévenu les pompiers en découvrant le chauffeur routier tentant de porter secours à la victime.

      Souffrant d’hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire, le jeune homme a été pris en charge par les pompiers et un médecin du Samu, mais leurs tentatives pour le réanimer ont été vaines. Il a été déclaré mort à son arrivée à l’hôpital de Briançon.

      Une enquête pour « homicide involontaire et mise en danger de la vie d’autrui » a été ouverte par le parquet de Gap. Elle a été confiée à la brigade de recherches de Briançon et à la gendarmerie de Saint Chaffrey. L’identité et la nationalité du jeune migrant n’ont pas été communiquées.
      « Nous craignons d’autres disparitions »

      En mai 2018, le parquet de Gap avait également ouvert une enquête pour identifier et connaître les circonstances du décès d’un jeune homme noir dont le corps avait été découvert par des promeneurs près de Montgenèvre.

      En décembre, plusieurs associations caritatives, qui dénoncent « l’insuffisance de prise en charge » des migrants qui tentent de franchir la frontière franco-italienne vers Briançon, avaient dit leur crainte de nouveaux morts cet hiver.

      « Plus de trente personnes ont dû être secourues depuis l’arrivée du froid, il y a un mois, et nous craignons des disparitions », avait affirmé l’association briançonnaise Tous Migrants dans un communiqué commun avec Amnesty, la Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, le Secours catholique et l’Anafé.

      http://www.leparisien.fr/faits-divers/hautes-alpes-un-jeune-migrant-retrouve-mort-au-bord-d-une-route-07-02-201

      Commentaire sur twitter :

      Le corps d’un jeune migrant mort de froid sur un bord de route retrouvé par la police aux frontières – celle-là même à laquelle il essayait d’échapper. Celle-là même dont la traque aux grands voyageurs accule ces derniers à risquer leur vie.

      https://twitter.com/OlivierCyran/status/1093565530324303872

      Deux des compagnons d’infortune de #Derman_Tamimou, décédé jeudi, se sont vu délivrer des OQTF après avoir témoigné à la BRI sur la difficulté à obtenir du secours cette nuit là.
      Ils nous ont raconté les secours qui n’arrivent pas, les tentatives pour arrêter les voitures , les appels à l’aide le temps qui passe une heure deux heures à attendre.

      https://twitter.com/nos_pas/status/1093978770837553154

    • Hautes-Alpes : l’autopsie du migrant découvert jeudi conclut à une probable mort par hypothermie

      L’autopsie du jeune migrant togolais, découvert inanimé dans la nuit de mercredi à jeudi sur le bord de la RN 94 à Val-des-Prés (Hautes-Alpes), a conclut "à l’absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie", selon le parquet de Gap. Le jeune homme âgé de 28 ans n’a pu atteindre Briançon, après avoir traversé la frontière entre la France et l’Italie à pied.

      Le procureur de la République de Gap a communiqué les conclusions de l’autopsie du jeune migrant de 28 ans, découvert ce jeudi 7 février le long de la route nationale 94 à Val-des-Prés, entre Montgenèvre et Briançon.
      Absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie

      "Dans le cadre de l’enquête recherchant les causes et les circonstances du décès du migrant décédé le 7 février 2019, une autopsie a été pratiquée ce jour par l’institut médico légal de Grenoble qui conclut à l’absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie", détaille Raphaël Balland, dans son communiqué.

      "Le parquet de Gap a levé l’obstacle médico légal et le corps a été rapatrié à Briançon, le temps de confirmer l’identité du défunt et de tenter de contacter des membres de sa famille", poursuit le magistrat de Gap.
      Découvert par un chauffeur routier vers 2 h 30 du matin

      Le corps du ressortissant togolais de 28 ans avait été repéré, jeudi, vers 2 h 30 du matin par un chauffeur routier italien qui circulait sur la RN94. Le jeune homme gisait inanimé sur un chemin forestier qui longe le torrent des Vallons, juste à côté de l’aire de chaînage de La Vachette, sur la commune de Val-des-Prés.

      “A compter de 2 h 10, les secours et les forces de l’ordre étaient informés de la présence d’un groupe de présumés migrants qui était en difficulté entre Clavière (Italie) et Briançon. Des policiers de la police aux frontières (PAF) partaient alors en patrouille pour tenter de les localiser et retrouvaient vers 3 heures à Val-des-Prés, au bord de la RN94, un homme de type africain inconscient auprès duquel s’était arrêté un chauffeur routier italien”, relatait hier Raphaël Balland.

      En arrêt cardio-respiratoire, inanimée, en hypothermie, la victime a été massée sur place. Mais les soins prodigués par le médecin du Samu et les sapeurs-pompiers n’ont pas permis de la ranimer. Le décès du jeune migrant a été officiellement constaté à 4 heures du matin ce jeudi au centre hospitalier des Escartons de Briançon, où il avait été transporté en ambulance.
      Parti avec un groupe de Clavière, en Italie

      "Les premiers éléments d’identification du jeune homme décédé permettent de s’orienter vers un Togolais âgé de 28 ans ayant précédemment résidé en Italie, détaillait encore Raphaël Balland hier soir. Selon des témoignages recueillis auprès d’autres migrants, il serait parti à pied de Clavière avec un groupe d’une dizaine d’hommes pour traverser la frontière pendant la nuit. Présentant des signes de grande fatigue, il était déposé auprès de la N94 par certains de ses compagnons de route qui semblent avoir été à l’origine de l’appel des secours."

      Une enquête a été ouverte pour "homicide involontaire et non-assistance à personne en péril" et confiée à la brigade de recherche de gendarmerie de Briançon, qui "poursuit ses investigations" selon le procureur.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/08/hautes-alpes-briancon-val-des-pres-autopsie-migrant-decouvert-vendredi-p

      Commentaire de Nos montagnes ne deviendront pas un cimetière :

      Derman Tamimou n’est pas mort de froid il est mort de cette barbarie qui dresse des frontières , des murs infranchissables #ouvronslesfrontières l’autopsie du migrant découvert jeudi conclut à une probable mort par hypothermie

      https://twitter.com/nos_pas/status/1093976365404176385

    • Briançon : ils ont rendu hommage au jeune migrant décédé

      Il a été retrouvé mort au bord d’une route nationale, entre Montgenèvre et Briançon, dans la nuit de mercredi à jeudi. Pour que personne n’oublie le jeune migrant togolais, et afin de dénoncer la politique d’immigration, plusieurs associations et collectifs ont appelé à se réunir, ce samedi après-midi, au Champ de Mars, à Briançon.

      Plusieurs ONG nationales, Amnesty International, la Cimade, Médecins sans frontières, Médecins du monde, le Secours catholique, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, ont voulu attirer l’attention sur ce nouveau drame.

      Avec des associations et collectifs locaux, Tous Migrants, Refuges solidaires, la paroisse de Briançon, la Mappemonde et la MJC, l’Association nationale des villes et territoires accueillants... tous se sont réunis au Champ de Mars ce samedi après-midi pour rappeler « qu’il est inacceptable qu’un jeune homme meure au bord de la route dans ces conditions », explique l’un des soutiens de Tous migrants.

      « Ce ne sont pas des pro ou anti-migrants, juste des personnes qui ont envie de protéger d’autres êtres humains »

      Dans la nuit de mercredi à jeudi, vers 2h30, un ressortissant togolais de 28 ans a été repéré par un chauffeur routier italien qui circulait sur la RN 94. La victime gisait inanimée, à côté de l’aire de chaînage de La Vachette, sur la commune de Val-des-Prés. Le décès a été officiellement constaté à 4 heures du matin au centre hospitalier des Escartons où il avait été transporté.


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/09/ils-ont-rendu-hommage-au-jeune-migrant-decede

      #hommage #commémoration

    • Cerca di varcare confine: giovane migrante muore assiderato tra l’Italia e la Francia

      L’immigrato, originario del Togo, aveva 29 anni: è morto assiderato sul colle Monginevro
      Il cadavere di un migrante di 29 anni è stato ritrovato questa mattina in mezzo alla strada nazionale N94 del colle del Monginevro (che collega Piemonte e Alta Savoia), mentre cercava di varcare il confine tra l’Italia e la Francia.

      L’extracomunitario, originario del Togo, è morto assiderato per la neve e le bassissime temperature.

      A notarlo, sepolto dalla neve ai margini della strada, intorno alle tre di note, sarebbe stato un camionista. La Procura ha aperto un fascicolo per «omicidio involontario».

      Le abbondanti nevicate dei giorni scorsi e il freddo rendono ancora più inaccessibili sentieri e stradine della zona e hanno complicato ulteriormente l’attraversamento della frontiera per i migranti.

      Da quanto si apprende da fonti italiane, sul posto è presente la polizia francese: si tratta del primo cadavere trovato quest’anno sul confine italo-francese dell’alta Val Susa dopo che l’anno scorso erano stati rinvenuti tre corpi nelle medesima località di frontiera, un passaggio molto battuto dai migranti.

      http://www.ilgiornale.it/news/cronache/cerca-varcare-confine-giovane-migrante-muore-assiderato-1641573.html

    • Man trying to enter France from Italy dies of hypothermia

      Death of Derman Tamimou from Togo comes as Matteo Salvini ramps up border row.

      French magistrates have opened an inquiry into “involuntary manslaughter” after a man trying to cross into France from Italy died of hypothermia.

      A lorry driver found Derman Tamimou on Thursday morning unconscious on the side of a highway that links Hautes-Alpes with the northern Italian region of Piedmont. Tamimou, 29, from Togo, was taken to hospital in Briançon, but it is unclear whether he died there or was already dead at the scene.

      “The second hypothesis is the most likely,” said Paolo Narcisi, president of the charity Rainbow for Africa. “He was probably among a group of 21 who left the evening before, despite all the warnings given to them by us and Red Cross volunteers about how dangerous the crossing is.”

      Tamimou was found between Briançon and Montgenèvre, an Alpine village about 6 miles from the border.

      Narcisi said his charity was working with colleagues in France to try and establish whether the rest of the group arrived safely. He said they most likely took a train to Oulx, one stop before the town of Bardonecchia, before travelling by bus to Claviere, the last Italian town before the border. From there, they began the mountain crossing into France.

      “Every night is the same … we warn people not to go as it’s very dangerous, especially in winter, the snow is high and it’s extremely cold,” Narcisi said.

      Tamimou is the first person known to have died while attempting the journey this winter. Three people died last year as they tried to reach France via the Col de l’Échelle mountain pass.

      The movement of people across the border has been causing conflict between Italy and France since early 2011.

      Matteo Salvini, the Italian interior minister, on Thursday accused France of sending more than 60,000 people, including women and children, back to Italy. He also accused French border police of holding up Italian trains with lengthy onboard immigration checks.

      Last year, seven Italian charities accused French border police of falsifying the birth dates of children travelling alone in an attempt to pass them off as adults and return them to Italy.

      While it is illegal to send back minors, France is not breaking the law by returning people whose first EU landing point was Italy.

      “Some of the returns are illegal, such as children or people who hold Italian permits,” said Narcisi. “But there are also those who are legally sent back due to the Dublin agreement. So there is little to protest about – we need to work to change the Dublin agreement instead of arguing.”

      https://www.theguardian.com/world/2019/feb/08/man-dies-hypothermia-france-italy-derman-tamimou-togo

    • Message posté sur la page Facebook de Chez Jésus, 10.02.2019 :

      Un altro morto.
      Un’altra persona uccisa dalla frontiera e dai suoi sorvegliatori.
      Un altro cadavere, che va ad aggiungersi a quelli delle migliaia di persone che hanno perso la vita al largo delle coste italiane, sui treni tra Ventimiglia e Menton, sui sentieri fra le Alpi che conducono in Francia.

      Tamimou Derman, 28 anni, originario del Togo. Questo è tutto quello che sappiamo per ora del giovanissimo corpo trovato steso al lato della strada tra Claviere e Briancon. Tra Italia e Francia. È il quarto cadavere ritrovato tra queste montagne da quando la Francia ha chiuso le frontiere con l’Italia, nel 2015. Da quando la polizia passa al setaccio ogni pullman, ogni treno e ogni macchina alla ricerca sfrenata di stranieri. E quelli con una carnagione un po’ più scura, quelli con un accento un po’ diverso o uno zaino che sembra da viaggiatore, vengono fatti scendere, e controllati. Se non hai quel pezzo di carta considerato «valido», vieni rimandato in Italia. Spesso dopo minacce, maltrattamenti o furti da parte della polizia di frontiera.

      Giovedì è stato trovato un altro morto. Un’altra persona uccisa dal controllo frontaliero, un’altra vita spezzata da quelle divise che pattugliano questa linea tracciata su una mappa chiamata frontiera, e dai politicanti schifosi che la vogliono protetta.
      Un omicidio di stato, l’ennesimo.
      Perché non è la neve, il freddo o la fatica a uccidere le persone tra queste montagne. I colpevoli sono ben altri. Sono gli sbirri, che ogni giorno cercano di impedire a decine di persone di perseguire il viaggio per autodeterminarsi la loro vita. Sono gli stati, e i loro governi, che di fatto sono i veri mandanti e i reali motivi dell’esistenza stessa dei confini.

      Un altro cadavere. Il quarto, dopo blessing, mamadu e un altro ragazzo mai identificato.
      Rabbia e dolore si mischiano all’odio. Dolore per un altro morto, per un’altra fine ingiusta. Rabbia e odio per coloro che sono le vere cause di questa morte: le frontiere, le varie polizie nazionali che le proteggono, e gli stati e i politici che le creano.
      Contro tutti gli stati, contro tutti i confini, per la libertà di tutti e tutte di scegliere su che pezzo di terra vivere!

      Abbattiamo le frontiere, organizziamoci insieme!

      Un autre mort. Une autre personne tuée par la frontière et ses gardes. Un autre cadavre, qui s’ajoute aux milliers de personnes mortes au large des côtes italiennes, sous des trains entre Vintimille et Menton, sur les chemins alpins qui mènent en France.
      Derman Tamimou, 28 ans, originaire du Togo. C’est tout ce qu’on sait pour le moment du très jeune corps retrouvé allongé sur le bord de la route vers Briançon entre l’Italie et la France. C’est le 4e corps trouvé dans cette vallée depuis que la France a fermé ses frontières avec l’Italie en 2015. Depuis que la police contrôle chaque bus, chaque train, chaque voiture, à la recherche acharnée d’étrangers. Et celleux qui ont la peau plus foncée, celleux qui ont un accent un peu différent, ou se trimballent un sac à dos de voyage, on les fait descendre et on les contrôle. Si tu n’as pas les papiers qu’ils considèrent valides, tu es ramené directement en Italie. Souvent, tu es victime de menaces et de vols de la part de la PAF (police aux frontières).
      Le 7 février 2019, un corps a été retrouvé. Une autre personne tuée par le contrôle frontalier. Une autre vie brisée par ces uniformes qui patrouillent autour d’une ligne tracée sur une carte, appelée frontière. Tuée par des politiciens dégueulasses qui veulent protéger cette frontière. Encore un homicide d’État. Parce que ce n’est pas la neige, ni le froid, ni la fatigue qui a tué des personnes dans ces montagnes. Les coupables sont tout autres. Ce sont les flics, qui essaient tous les jours d’empêcher des dizaines de personnes de poursuivre leur voyage pour l’autodétermination de leur vie.
      Ce sont les États et leurs gouvernements qui sont les vrais responsables et les vraies raisons de l’existence même des frontières. Un autre corps, le quatrième après Blessing, Mamadou, et Ibrahim. Rage et douleur se mêlent à la haine. Douleur pour une autre mort, pour une autre fin injuste. Rage et haine envers les véritables coupables de cette mort : les frontières, les différentes polices nationales qui les protègent, les États et les politiques qui les créent.
      Contre tous les États, contre toutes les frontières, pour la liberté de toutes et tous de choisir sur quel bout de terre vivre.
      Abattons les frontières, organisons-nous ensemble !


      https://www.facebook.com/362786637540072/photos/a.362811254204277/541605972991470

    • Immigration. Dans les Hautes-Alpes, la chasse aux étrangers fait un mort

      Une enquête a été ouverte après le décès, jeudi, à proximité de Briançon, d’un jeune exilé qui venait de franchir la frontière franco-italienne. Les associations accusent les politiques ultrarépressives de l’État.

      « C ’est la parfaite illustration d’une politique qu’on dénonce depuis deux ans ! » Michel Rousseau, membre du collectif Tous migrants dans les Hautes-Alpes, ne décolère pas depuis l’annonce, jeudi matin, de la mort de Taminou, un exilé africain, à moins de 10 kilomètres de la frontière franco-italienne. Le quatrième en moins de neuf mois... Découvert vers 3 heures du matin, sur une zone de chaînage de la route nationale reliant Briançon à Montgenèvre, le jeune homme aurait succombé au froid, après avoir tenté de passer la frontière. Évitant les patrouilles de police, il aurait pendant plusieurs heures arpenté les montagnes enneigées, avant d’y perdre ses bottes et de continuer en chaussettes.

      « Les premiers éléments d’identification (...) permettent de s’orienter vers un Togolais âgé de 28 ans ayant précédemment résidé en Italie, indique la préfecture dans un communiqué. Il serait parti à pied de Clavières avec un groupe de plus d’une dizaine d’hommes pour traverser la frontière nuitamment. Présentant des signes de grande fatigue, il aurait été déposé auprès de la RN94 par certains de ses compagnons de route qui semblent avoir été à l’origine de l’appel des secours. »

      Une politique ultrarépressive à l’égard des citoyens solidaires

      Postés au milieu de la route, les amis de Taminou auraient tenté de stopper plusieurs voitures, sans qu’aucune s’arrête. Une patrouille de la police aux frontières serait arrivée sur le lieu du drame, deux heures après le premier appel au secours, y trouvant un camionneur en train de venir en aide au malheureux frappé d’hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire. Pris en charge par le Samu, le jeune homme a finalement été déclaré mort à son arrivée à l’hôpital de Briançon.

      Une enquête pour non-assistance à personne en danger et pour homicide involontaire a été ouverte par le parquet de Gap. « Les conducteurs des véhicules qui ne se sont pas arrêtés ne doivent pas dormir tranquille », acquiesce Michel, s’inquiétant cependant de savoir qui sera réellement visé par les investigations de la police. « La préfecture pointe régulièrement les maraudeurs solidaires qui tentent de venir en aide aux exilés égarés dans nos montagnes, explique-t-il. À l’image des accusations portées contre les bateaux de sauveteurs en mer, en Méditerranée, on les rend responsables d’un soi-disant appel d’air. »

      En réalité, c’est suite au bouclage de la frontière à Menton et dans la vallée de la Roya que, depuis deux ans, cette route migratoire est de plus en plus empruntée. L’État y mène aujourd’hui une politique ultrarépressive à l’égard des citoyens solidaires et des exilés. En moins d’un an, dans le Briançonnais, 11 personnes ont été condamnées pour délit de solidarité, dont 9 à des peines de prison, et des violations régulières des droits des étrangers y sont régulièrement dénoncées par les associations. Plusieurs d’entre elles, dont Amnesty International, Médecins du monde et la Cimade, ont réuni, samedi, près de 200 personnes sur le champ de Mars de Briançon pour rendre hommage à Taminou, malgré l’interdiction de manifester émise par la préfecture au prétexte de l’ouverture de la saison hivernale.

      Pour elles, c’est au contraire la chasse aux exilés et à leurs soutiens qu’il faut pointer, « les renvois systématiques en Italie au mépris du droit, les courses-poursuites, les refus de prise en charge, y compris des plus vulnérables : ces pratiques qui poussent les personnes migrantes à prendre toujours plus de risques, comme celui de traverser des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat », accusent les associations.

      Ce mercredi soir, justement, la présence policière était particulièrement importante dans la zone. « Ce drame aurait pu être évité, s’indigne un habitant, qui préfère conserver l’anonymat. Les maraudeurs solidaires étaient sur le terrain. Ils ont vu passer toutes ces personnes et, s’ils ne les ont pas récupérées, c’est soit parce qu’ils se savaient surveillés par la PAF, qui les aurait interpellés, soit parce que les exilés eux-mêmes en ont eu peur, les prenant pour des policiers en civil. » Espérons que l’enquête pointera les véritables responsables de la mort de Taminou.

      https://www.humanite.fr/immigration-dans-les-hautes-alpes-la-chasse-aux-etrangers-fait-un-mort-6677

    • Derman Tamimou e il tema di una bambina di nove anni

      “Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      Derman Tamimou aveva 29 anni, era arrivato in Italia dal Togo e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, ha intrapreso il suo ultimo viaggio nel tentativo di varcare il confine. Un camionista ne ha scorto il corpo semiassiderato e rannicchiato tra la neve ai bordi della statale del colle di Monginevro. Nonostante l’immediato trasporto all’ospedale di Briancon, Derman è morto poco dopo.

      E’ difficile immaginare cosa abbia pensato e provato Derman negli ultimi istanti della sua vita, prima di perdere conoscenza per il gelo invernale. Quali sogni, speranze, ricordi, … quanta fatica, rabbia, paura …

      Potrebbe essere tranquillizzante pensare a questa morte come tragica fatalità e derubricarla a freddo numero da aggiungere alla lista di migranti morti nella ricerca di un futuro migliore in Europa. Eppure quell’interminabile lista parla a ognuno di noi. Racconta di vite interrotte che, anche quando non se ne conosce il nome, ci richiamano a una comune umanità da cui non possiamo prescindere per non smarrire noi stessi. A volte lo ricordiamo quando scopriamo, cucita nel giubbotto di un quattordicenne partito dal Mali e affogato in un tragico naufragio nel 2015, una pagella, un bene prezioso con cui presentarsi ai nuovi compagni di classe e di vita. Altre volte lo ricordano i versi di una poesia “Non ti allarmare fratello mio”, ritrovata nelle tasche di Tesfalidet Tesfon, un giovane migrante eritreo, morto subito dopo il suo sbarco a Pozzallo, nel 2018, a seguito delle sofferenze patite nelle carceri libiche e delle fatiche del viaggio: “È davvero così bello vivere da soli, se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?”. È davvero così bello?

      L’estate scorsa, lungo la strada in cui ha perso la vita Derman Tamimou, si poteva ancora trovare un ultimo luogo di soccorso e sostegno per chi cercava di attraversare il confine. Un rifugio autogestito che è stato sgomberato in autunno, con l’approssimarsi dell’inverno, senza alcuna alternativa di soccorso locale per i migranti. Per chiunque fosse passato da quei luoghi non era difficile prevedere i rischi che questa chiusura avrebbe comportato. Bastava fermarsi, incontrare e ascoltare i migranti, i volontari e tutte le persone che cercavano di portare aiuto e solidarietà, nella convinzione che non voltare lo sguardo di fronte a sofferenze, rischi e fatiche altrui sia l’unica strada per restare umani.

      Incontri che una bambina di nove anni, in quelle che avrebbe voluto fossero le sue “Montagne solidali”, ha voluto raccontare così: “Oggi da Bardonecchia, dove in stazione c’è un posto in cui aiutano i migranti che cercano di andare in Francia, siamo andati in altri due posti dove ci sono i migranti che si fermano e ricevono aiuto nel loro viaggio, uno a Claviere e uno a Briancon. In questi posti ci sono persone che li accolgono, gli danno da mangiare, un posto dove dormire, dei vestiti per ripararsi dal freddo, danno loro dei consigli su come evitare pericoli e non rischiare la loro vita nel difficile percorso di attraversamento del confine tra Italia e Francia tra i boschi e le montagne. I migranti, infatti, di notte cercano di attraversare i boschi e questo è difficile e pericoloso, perchè possono farsi male o rischiare la loro vita cadendo da un dirupo. I migranti scelgono di affrontare il loro viaggio di notte perchè è più difficile che la polizia li veda e li faccia tornare indietro. A volte, per sfuggire alla polizia si feriscono per nascondersi o scappare. Nel centro dove sono stata a Claviere, alcuni migranti avevano delle ferite, al volto e sulle gambe, causate durante i tentativi di traversata. Infatti i migranti provano tante volte ad attraversare le montagne, di solito solo dopo la quarta o quinta volta riescono a passare. La traversata è sempre molto pericolosa, perchè non conoscono le montagne e le strade da percorrere, ma soprattutto in inverno le cose sono più difficili perchè con la neve, il freddo, senza i giusti vestiti e scarpe, del cibo caldo e non conoscendo la strada tutto è più rischioso. Lo scorso inverno, sul Colle della Scala, sono morte diverse persone provando a fare questo viaggio. Anche le persone che li aiutano sono a rischio, perchè solo per aver dato loro da mangiare, da dormire e dei vestiti possono essere denunciate e arrestate. Oggi sette ragazzi sono in carcere per questo. Io penso che non è giusto essere arrestati quando si aiutano le persone. A Briancon, dove aiutano i migranti che hanno appena attraversato il confine, ho visto alcuni bambini e questa cosa mi ha colpito molto perchè vuol dire che sono riusciti a fare un viaggio così lungo e faticoso attraverso i boschi e le montagne. Qui ho conosciuto la signora Annie, una volontaria che aiuta i migranti appena arrivati in Francia, una signora gentile e molto forte, che è stata chiamata 8 volte ad andare dalla polizia per l’aiuto che sta dando ai migranti, ma lei sorride e continua a farlo, perchè pensa che non aiutarli sia un’ingiustizia. Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      http://www.vita.it/it/article/2019/02/10/derman-tamimou-e-il-tema-di-una-bambina-di-nove-anni/150635

    • Reportage. In Togo a casa di #Tamimou, il migrante morto di freddo sulle Alpi

      Da Agadez alla Libia, poi l’attesa in Italia. Il papà: «Non aveva i soldi per far curare la madre». Le ultime parole su Whatsapp: «Ho comprato il biglietto del treno e partirò domani per la Francia»

      Il villaggio di #Madjaton si trova tra le verdi colline di Kpalimé, una tranquilla città nel sud-ovest del Togo. Un luogo dalla natura lussureggiante e il terreno fertile. È qui che è cresciuto Tamimou Derman, il migrante deceduto per il freddo il 7 febbraio mentre cercava di superare a piedi il confine tra l’Italia e la Francia. La sua famiglia è composta da padre, madre, tre fratelli, e una sorella. Sono tutti seduti all’ombra di un grande albero in attesa di visite e notizie.

      «Salam aleikum, la pace sia con voi» dicono con un sorriso all’arrivo di ogni persona che passa a trovarli per le condoglianze. L’accoglienza è calorosa nonostante la triste atmosfera. «È stato un nostro parente che vive in Libia a darci per primo la notizia», dice Samoudini, il fratello maggiore di 35 anni. «All’inizio non potevamo crederci, ci aveva spedito un messaggio vocale due giorni prima della partenza per la Francia. Poi le voci si sono fatte sempre più insistenti – continua Samoudini – e le speranze sono piano piano svanite. Ora il nostro problema principale è trovare i soldi per far ritornare la salma».

      Tamimou è la prima vittima dell’anno tra chi, come molti altri migranti africani, ha tentato di raggiungere la Francia dall’Italia attraverso le Alpi. Il giovane togolese era partito con un gruppo di altri venti ragazzi. Speravano di eludere gli agenti di polizia che pattugliano una zona sempre più militarizzata. «Diciamo a tutti i migranti di non incamminarsi per quei valichi in questa stagione – ha spiegato alla stampa Paolo Narcisi, medico e presidente della Onlus torinese, Rainbow for Africa – . È un passaggio troppo rischioso».

      Prima di avventurarsi tra la neve e il gelo, Tamimou aveva appunto lasciato un messaggio alla famiglia. «Ho comprato il biglietto del treno e partirò domani per la Francia – si sente in un audio whatsapp di circa un minuto –. Pregate per me e se Dio vorrà ci parleremo dal territorio francese». Il padre e un amico, uno accanto all’altro, scoppiano a piangere. La mamma, seduta tra il gruppo delle donne, resta immobile con gli occhi rossi. La sorella pone invece il capo tra le ginocchia ed emette un leggero singhiozzo. Per alcuni secondi restiamo in un silenzio profondo, interrotto solamente dalle voci dei bambini del villaggio che rincorrono cani e galline. Ascoltare la voce di Tamimou riporta la famiglia al momento in cui è giunta la notizia del suo decesso, l’8 febbraio.


      «Non volevamo che partisse per l’Europa», riprende Inoussa Derman, il papà, cercando di trattenere le lacrime. «Lui però era determinato. Si sentiva responsabile per le condizioni di salute di mia moglie che, tuttora – racconta il genitore – soffre di ipertensione e per diverso tempo è stata ricoverata in ospedale. Non avevamo i soldi per pagare le cure». La madre, Issaka, fissa il terreno senza parlare. Sembra avvertire il peso di una responsabilità legata alla partenza del figlio. Tamimou si era dato da fare subito dopo la scuola. Aveva lavorato a Kpalimé come muratore prima di trasferirsi in Ghana per due anni e continuare il mestiere. Non riuscendo a guadagnare abbastanza, aveva deciso di partire per l’Europa nel 2015. Con i suoi risparmi e un po’ di soldi chiesti a diversi conoscenti, ha raggiunto la città nigerina di Agadez, da decenni importante crocevia della rotta migratoria proveniente da tutta l’Africa occidentale e centrale. Dopo qualche mese il ragazzo ha contattato la famiglia dalla Libia. «Ci diceva quanto era pericoloso a causa dei continui spari e degli arresti indiscriminati – aggiunge Moussara, la sorella di 33 anni –. Gli abbiamo detto più volte di tornare, ma non ci ha voluto ascoltare».

      Tamimou ha trascorso almeno 18 mesi in Libia in attesa di trovare i soldi per continuare il viaggio.

      «Ci sentivamo spesso anche quando ha oltrepassato il ’grande fiume’ per arrivare in Italia – racconta Satade, un amico d’infanzia, in riferimento al Mar Mediterraneo –. Con i nostri ex compagni di scuola avevamo infatti creato un gruppo su whatsapp per rimanere in contatto con lui».

      Dopo più di 16 mesi in Italia, il migrante togolese raccontava alla famiglia di essere ancora disoccupato. «Non ho trovato niente – spiegava in un altro messaggio vocale –. In Italia ci vogliono i documenti per lavorare e io non riesco a ottenerli». La decisione di partire per la Francia era stata presa con grande sofferenza. Diversi amici avevano assicurato al migrante togolese che al di là del confine sarebbe stato molto più facile trovare un impiego. Ma di Tamimou, in Francia, è arrivato solo il cadavere. Da giorni è ospitato all’obitorio dell’ospedale di Briançon. La famiglia è in contatto con un cugino che vive da diversi anni in Italia e sta seguendo le pratiche. Parenti e amici vogliono riportare il corpo di Tamimou nel caldo di Madjaton, a casa, per seppellirlo secondo le usanze tradizionali. «Gli avevamo detto di non partire – insiste il padre –. Ma non si può fermare la determinazione di un giovane sognatore».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/in-togo-a-casa-di-tamimou-migrante-morto-freddo-alpi
      #ceux_qui_restent

    • Notre frontière tue : Tamimou Derman n’est plus — Récit d’une #maraude solidaire

      Chaque nuit, des exilé·e·s tentent d’arriver en France par le col de Montgenèvre malgré le froid, la neige et l’omniprésence de la Police. En dépit des maraudes spontanées des habitant·e·s, certain·e·s y perdent la vie. Comme Tamimou Derman, retrouvé mort d’hypothermie la nuit du 6 au 7 février 2019. Cette semaine-là, une vingtaine de membres de la FSGT ont maraudé avec les locaux. Récit.

      D’un mélèze à l’autre, quatre ombres noires glissent sur la neige blanche. Au cœur de la nuit, les ombres sont discrètes, elles marchent sans bruit. Elles traversent les pistes de ski et s’enfoncent vers les profondeurs de la forêt, malgré les pieds glacés, les mains froides et les nuages de leurs souffles courts.

      Les ombres sont craintives comme des proies qui se savent épiées : elles nous fuient.

      Nous les poursuivons sans courir, pour ne pas les effrayer davantage. Nous lançons plusieurs cris sur leur trace, et nous réussissons finalement à les rattraper. Leurs mains sont de glace : nous les serrons et nous disons aux ombres qu’elles ne craignent rien, que nous voulons les sortir du froid et de la neige, que nous sommes là pour les aider.

      Les quatre ombres deviennent des hommes encore pétris de crainte. Leurs yeux hagards demandent : "Êtes-vous la Police ?". Malgré la peur, les ombres devenues hommes montent dans notre voiture. Nous dévalons la route qui serpente entre les montagnes. Les quatre hommes sont saufs.

      Je me réveille en sursaut : ce n’était qu’un rêve.

      Parce qu’hier soir, les quatre ombres se sont enfoncées dans la forêt. Parce qu’hier soir, nous n’avons pas pu les rattraper. Parce qu’hier soir, nous n’avons pas su les rattraper. Parce qu’hier soir, les quatre ombres ont cru voir en nous des officiers de Police venus pour les arrêter.

      Quelques heures après ce réveil agité, la nouvelle tombe.

      Cette nuit, une ombre est morte.

      De la neige jusqu’aux hanches, l’ombre a senti ses frêles bottes se faire aspirer par l’eau glacée. Ses chaussures noyées au fond de la poudreuse, disparues. En chaussettes, l’ombre a continué à marcher entre les mélèzes. L’ombre n’avait pas le luxe de choisir. Épuisée, gelée jusqu’aux os, l’ombre a perdu connaissance. Ses frères de l’ombre l’ont portée jusqu’à la route pour tenter de la sauver, quitte à se faire attraper par la Police. Ils ont appelé les secours.

      L’ambulance est arrivée près de deux heures plus tard.

      L’ombre a été retrouvée sur un chemin forestier, au bord de la route nationale 94, reliant la frontière italienne et la ville de Briançon. L’autopsie confirmera ce que ses frères savaient déjà : décès par hypothermie.

      L’ombre avait dit au revoir à sa famille, puis elle avait peut-être traversé le désert. Elle avait peut-être échappé aux geôles libyennes, aux tortures et aux trafics en tout genre. L’ombre s’était peut-être fait voler ses maigres économies par des passeurs. L’ombre avait peut-être bravé les tempêtes de la Méditerranée entassée avec cent autres ombres sur un canot pneumatique. Et tant d’autres mésaventures.

      L’ombre avait jusque-là échappé aux polices européennes qui la traquaient uniquement parce que ce que l’ombre voulait, c’était arrêter d’être une ombre.

      L’ombre avait traversé la moitié du globe mais son chemin s’est arrêté en France, à quelques kilomètres de la frontière, parce que l’ombre a eu peur de la Police française.

      L’ombre, c’était Tamimou Derman. Tamimou Derman avait notre âge. Tamimou Derman n’était qu’un homme qui rêvait d’une vie meilleure.

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      -- Contexte —

      Dans la nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, j’ai participé à une maraude solidaire dans la station de ski de Montgenèvre avec des amis de la FSGT (Fédération Sportive et Gymnique du Travail), dans le cadre d’un séjour organisé et patronné par cette fédération.

      Ce séjour annuel se concentre habituellement sur les seules activités de loisir de montagne. Cette année, il a été décidé d’organiser cette sortie dans la région de Briançon, à quelques kilomètres de la frontière franco-italienne, afin de montrer notre solidarité envers les locaux qui portent assistance aux personnes qui arrivent en France, au niveau du col de Montgenèvre, situé à 1800m d’altitude.

      Chaque soir, quelques uns et quelques unes de la vingtaine de participants à ce séjour partaient en maraude pour accompagner les gens de la vallée qui eux, toute l’année, sauvent des vies là-haut. La loi ne peut nous considérer comme des passeurs : nous n’avons fait passer la frontière à personne. Nous étions uniquement là pour porter assistance aux personnes en danger de mort sur le territoire français. S’il fallait encore une preuve, Tamimou Derman est mort d’hypothermie, la nuit où j’ai maraudé.

      Bien que légales, ces maraudes semblent être considérées de facto comme illégale par les forces de l’ordre : elles tentent de les entraver par tous les moyens, surtout par l’intimidation. C’est aussi pour cela que j’ai voulu partager ce récit.

      -- #Chasse_à_l'homme

      Dès que les pistes de ski de Montgenèvre ferment, que le soleil se couche et que les vacanciers se reposent, un obscur jeu du chat et de la souris se noue sous les fenêtres de leurs résidences. Une véritable chasse à l’homme.

      Tous les soirs ou presque, des hommes et des femmes tentent de gagner notre pays depuis le village italien de Clavière. À 500 mètres à peine de ce village, de l’autre côté de la frontière, la rutilante station de ski de Montgenèvre. Pour parcourir cette distance ridicule, ils mettent plus de trois heures. Parce qu’ils passent par la forêt, traversent des torrents glacés, parce qu’ils marchent dans le froid et la neige. Enfin, ils tentent enfin de se fondre dans les ombres de Montgenèvre avant d’entamer les 10 kilomètres de chemins enneigés qui les séparent de Briançon.

      « Des témoignages parlent de poursuites en motoneige, en pleine nuit »

      Côté français, par tous les moyens ou presque, la police et la gendarmerie les guettent pour les arrêter : des témoignages parlent de poursuites en motoneige, en pleine nuit, forçant ces hommes et ces femmes à fuir pour tenter se cacher par tous les moyens au risque de tomber dans des réserves d’eau glacées ou des précipices. Des récits parlent de séquestration dans des containers sans eau, ni nourriture, ni chauffage, ni toilettes, ni rien ; tout ça pour les renvoyer quelques heures plus tard en Italie, encore congelés. D’autres attestent que la police et la gendarmerie bafouent les droits élémentaires de la demande d’asile. Toujours d’après des témoignages, la police et la gendarmerie se déguiseraient en civils pour mieux amadouer et alpaguer celles et ceux qui tentent la traversée. À plusieurs reprises, la police et la gendarmerie auraient été aidées par les nazillons du groupuscule fachiste "Génération Identitaire" qui patrouillent eux aussi dans les montagnes. Certains de ceux qui tenteraient le passage se seraient vus déchirer leurs papiers d’identité attestant leur minorité par la police et la gendarmerie, et donc se voir déchirer le devoir qu’a la France de les protéger. Et bien d’autres infamies.

      Tous les soirs ou presque, enfin, des habitants de la région de Briançon sont là pour essayer de secourir ces personnes qui tentent de passer la frontière, même quand il fait -20°c, même quand il neige, même quand la police est en ébullition, partout dans la ville.

      Sur place, impossible de ne pas entendre l’écho de l’histoire des Justes dans le vent glacial.

      -- Ce que j’ai vu —

      Dans la nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février, il faisait environ -10°c à Montgenèvre. Plus d’un mètre de neige fraiche recouvrait la forêt. Une vingtaine de personne étaient a priori descendues d’un bus, côté Italien de la frontière. Supposément pour tenter la traversée. Mes compagnons maraudeurs et moi-même attendions dans Montgenèvre, pour essayer d’aller à la rencontre d’un maximum d’entre eux.

      À l’aide de jumelles, des maraudeurs ont alors vu une quinzaine d’ombres se faufiler entre les arbres qui bordent les pistes de ski. Quatre d’entre eux ont été accueillis de justesse par deux maraudeurs.

      Cela faisait vraisemblablement trois heures qu’ils marchaient dans la neige. Ils n’étaient clairement pas équipés pour ces conditions. L’un des quatre avait un centimètre de glace sur chaque main et les pieds congelés. Il était tombé dans un torrent qui avait emporté le reste de ses affaires.
      Les deux maraudeurs lui ont donné des chaussettes de rechange, des gants, du thé chaud et à manger.

      Les maraudeurs racontent qu’à ce moment-là, alors qu’ils les avaient hydraté, réchauffé, nourri et donné des vêtements chauds, les quatre hommes pensaient encore s’être fait attrapés par la police. La peur irradiait le fond de leurs yeux.

      « Nous leur avons crié que nous n’étions pas la Police, que nous étions là pour les aider »

      Précisément à cet instant-là, j’étais ailleurs dans Montgenèvre, avec d’autres maraudeurs. Avec nos jumelles, nous avons vu quatre autres ombres se faufiler entre les mélèzes et traverser les pistes de ski discrètement. Nous savions qu’ils craignaient de se faire attraper par la Police. La nuit, ici, n’importe quel groupe de personnes ressemble à une patrouille de policiers.

      Nous avons décidé de les attendre, un peu dans la lumière, en espérant qu’ils nous voient et qu’ils ne prennent pas peur. Derrière nous, à travers les fenêtres éclairées des résidences, nous voyions les vacanciers regarder la télévision, manger leur repas. C’était surréaliste. Nous avions peur, sans doute moins qu’eux qui marchaient depuis des heures, mais nous aussi nous avions peur de la Police.

      Nous avons choisi de ne pas les aborder de loin, pour éviter qu’ils ne nous prenne pour des flics et qu’ils s’enfuient. Est-ce la bonne solution ? Qu’est-ce qui est le mieux à faire ? Vont-ils courir ? Une dizaine de questions d’angoisse nous frappaient.

      Nous avons attendu qu’ils arrivent non loin de nous. Ils ne nous avaient pas vu. Nous avons attendu trop longtemps.

      Nous avons finalement avancé en leur criant (mais pas trop fort, pour ne pas alerter tout le voisinage — et les forces de l’ordre) que nous n’étions pas la Police, que nous étions là pour les aider, que nous avions du thé chaud et de quoi manger. Les trois premiers n’ont même pas tourné la tête, ils ont accéléré. Nous leur avons crié les mêmes choses. Le dernier de la file s’est retourné, tout en continuant de marcher très vite, et il nous a semblé l’entendre demander : "Quoi ? Qu’est-ce que vous dites ?" Nous avons répété ce qu’on leur avait déjà dit. Mais il était tiraillé entre ses amis qui ne se retournaient pas et notre proposition. Si tant est qu’il l’ait entendue, notre proposition, avec le bruit de la neige qui couvrait très probablement nos voix. Il a préféré suivre ses amis, ils se sont enfoncés dans la forêt en direction de Briançon et nous n’avons pas pu ni su les rattraper.

      Un sentiment d’horreur nous prend. Nous imaginons déjà la suite. Je me sens pire qu’inutile, méprisable.

      Malgré mes deux paires de chaussettes, mes collants, pantalon de ski, t-shirt technique, polaire, doudoune, énorme manteau, gants, bonnet, grosses chaussures, un frisson glacial m’a parcouru le corps. Eux marchaient depuis plus de trois heures.

      « J’étais là pour éviter qu’ils crèvent de froid »

      Nous ne pouvions plus les rejoindre : nous devions rapidement descendre les quatre que les autres maraudeurs avaient commencé réconforter. Nous sommes retournés à notre voiture, le cœur prêt à exploser, des "putain", des "c’est horrible" et d’autres jurons incompréhensibles qui sortait en torrents continus de notre bouche. Mais il fallait agir vite.

      B. et C. sont montés dans la voiture que nous conduisions et nous les avons amenés à Briançon via la seule et unique route qui serpente entre les montagnes. Je n’ai jamais autant souhaité ne pas croiser la Police.

      B. et C. n’ont pas beaucoup parlé, je ne leur ai pas non plus posé beaucoup de question. Que dire, que demander ?

      Quand j’ai raconté cette histoire à d’autres, on m’a demandé : "Ils venaient d’où ?" "Pourquoi ils voulaient venir en France ?" Dans cette situation, ces questions me semblaient plus qu’absurdes : elles étaient obscènes. J’étais là pour éviter qu’ils crèvent de froid et je n’avais pas à leur demander quoi que ce soit, à part s’ils voulaient que je monte le chauffage et les rassurer en leur disant qu’on arrivait en lieu sûr d’ici peu.

      Sur cette même route, un autre soir de la semaine, d’autres maraudeurs ont eux aussi transporté des personnes qui avaient traversé la frontière. Persuadés de s’être fait attraper par la Police, résignés, ces hommes d’une vingtaine d’années ont pleuré durant les 25 minutes du trajet.

      « Les ombres avaient toutes été avalées par la noirceur de la montagne blanche »

      Nous avons déposé les quatre au Refuge Solidaire, dans Briançon. Un lieu géré par des locaux et des gens de passage qui permet aux personnes qui ont traversé de se reposer quelques jours avant de continuer leur route. En arrivant, C. a cru faire un infarctus : c’était finalement une violente crise d’angoisse, une décompensation.

      À peine quelques minutes plus tard, nous sommes repartis vers Montgenèvre pour essayer de retrouver la dizaine d’autres ombres qui étaient encore dans la montagne et que nous n’avions pas vu passer. Alors qu’avant, nous n’avions pas vu un seul signe de la Police, une ou deux voitures tournait constamment dans la station. Vers minuit ou une heure du matin, nous nous sommes rendus à l’évidence : nous n’en verrons plus, cette nuit-là. Les ombres avaient toutes été avalées par la noirceur de la montagne blanche. Frustration indicible. Sentiment de ne pas avoir fait tout ce qu’on pouvait.

      Nous sommes repartis vers Briançon. Nous sommes passés juste à côté de l’endroit où Tamimou Derman était en train d’agoniser, mais nous ne le savions alors pas. À quelques minutes près, nous aurions pu le voir, l’amener aux urgences et peut-être le sauver.

      « La nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, une vingtaine de personnes auraient tenté de traverser la frontière franco-italienne »

      En partant de Montgenèvre, une voiture était arrêtée avec les pleins phares allumés, en plein milieu de la petite route de montagne. Nous avons presque dû nous arrêter pour passer à côté. C’était la Police qui surveillait les voitures qui descendaient vers Briançon. Nous sommes passés, notre voiture s’est faite ausculter à la recherche de "migrants".

      Les "migrants", ils étaient dans la montagne, de la neige jusqu’aux hanches et en chaussettes, en train de mourir pour éviter précisément ce contrôle.

      La nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, une vingtaine de personnes auraient tenté de traverser la frontière franco-italienne. Nous en avons accompagné quatre à Briançon. Quatre autres ont eu peur de nous, pensant que nous étions la Police. Ils seraient a priori bel bien arrivé au Refuge Solidaire, à pied. D’autres ont été interceptés par la police et renvoyés en Italie, à l’exception de deux jeunes mineurs confiés au Département. Tamimou Derman, lui, a été retrouvé sur le bord de la route, mort d’hypothermie.

      Le 15 mars prochain, une maraude géante est organisé à Montgenèvre. Pour médiatiser ce qui se passe là-bas. Pour que les chasses à l’homme cessent. Pour que les droits des personnes exilées soient enfin respectés. Et pour que plus personne ne meurt dans nos montagnes.

      Avec d’autres membres de la FSGT, nous y serons.

      https://blogs.mediapart.fr/maraudeurs-solidaires-fsgt/blog/200219/notre-frontiere-tue-tamimou-derman-nest-plus-recit-dune-maraude-soli

    • Hautes-Alpes : un nouveau décès, conséquence tragique des politiques migratoires [Alerte inter-associative]

      Dans la nuit du 6 au 7 février, un jeune homme est mort entre Montgenèvre et Briançon. Il avait rejoint la France depuis l’Italie après avoir passé plusieurs heures dans la montagne.

      Un drame qui alerte nos associations (Anafé, Amnesty International France, La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans Monde, Secours Catholique-Caritas France, Tous Migrants) qui, depuis plus de deux ans, ne cessent de constater et de dénoncer les violations des droits de la part des autorités françaises à la frontière : renvois systématiques en Italie au mépris du droit, courses-poursuites, refus de prise en charge y compris des plus vulnérables. Ces pratiques poussent les personnes migrantes à prendre toujours plus de risques, comme celui de traverser par des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat.

      En dépit d’alertes répétées, ces violations perdurent. Dans le même temps, les personnes leur portant assistance sont de plus en plus inquiétées et poursuivies en justice.

      Alors que les ministres de l’intérieur de l’Union européenne se sont réunis à Bucarest pour définir une réforme du régime de l’asile et des politiques migratoires, nos associations demandent le respect des droits fondamentaux des personnes réfugiés et migrantes pour que cessent, entre autres, les drames aux frontières.

      Un rassemblement citoyen à Briançon est prévu
      Ce samedi 9 février 2019 à 15h
      Au Champ de Mars
      Des représentants des associations locales seront disponibles pour témoigner

      http://www.anafe.org/spip.php?article518

    • REPORTAGE - Hautes-Alpes : une frontière au-dessus des lois

      Humiliés et pourchassés, des migrants voient leurs droits bafoués dans les Hautes-Alpes.

      Un mort de froid, une bavure et des maraudeurs : le reportage d’Anna Ravix à la frontière avec l’Italie.

      https://www.facebook.com/konbinifr/videos/639237329867456/?v=639237329867456
      #vidéo #mourir_aux_frontières

      Témoignage d’un migrant qui a fait la route avec #Tamimou, trouvé mort en février 2019 :

      « Au milieu des montagnes, on était perdus, totalement. On s’est dit : On ne va pas s’en sortir, on va mourir là. Tamimou, il ne pouvait plus avancer, il avait perdu ses deux bottes. En chaussettes, il marchait dans la neige. Ses pieds étaient congelés, ils sont devenus durs, même le sang ne passait plus. Et puis je l’ai porté, il me remerciait, il me remerciait... Il disait : ’Dieu va te bénir, Dieu va te bénir, aide-moi. En descendant, on a vu une voiture, un monsieur qui quittait la ville. On lui a expliqué le problème. Il a pris son téléphone et il a appelé le 112. Il a dit : ’Si vous ne venez pas vite, il va perdre la vie.’ C’est là qu’ils ont dit qu’ils seraient là dans 30 minutes. Il était 1 heure du matin, ils ne sont pas arrivés avant 3 heures du matin. »

      Tamimou est mort à l’hôpital à 4 heures du matin.

      « La mort du jeune », continue le témoin, « sincèrement, je peux dire que c’est le problème de la police. Le fait qu’on a appelé la police. Si ils étaient arrivés à temps, le jeune serait encore en vie ».

      –-> Le témoin a été interrogé par la police. Et ils ont reçu un OQTF.

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      Témoignage d’un maraudeur :

      Il n’y a pas de RV, on est là. Peut-être il n’y a personne aujourd’hui, je ne sais pas...
      Ce qui n’est pas évident, parce que quand ils nous voient, ils ont tendance à nous prendre pour les forces de l’ordre. ça, c’est quelque chose qu’ils ont mis en place l’été dernier. On a commencé à voir descendre des fourgons de la gendarmerie des personnes en shorts et en baskets. Les migrants, quand ils croisent ces personnes, ils les prenaient pour des randonneurs, ils demandaient des renseignements, et ils tombaient dans le panneau, quoi.

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      Témoignage d’un migrant (mineur au moment des faits), il revient sur des événements ayant eu lieu une année auparavant :

      « On est parti dans la forêt et c’est là que la police nous a attrapés. Ils nous ont obligés à retourner à la frontière de Clavière.
      Après, j’ai fouillé tous mes bagages et je trouvais plus mon argent, plus de 700 EUR. »

      Du coup, il va à la police et il enregistre la conversation. C’était le 04.08.2018
      –> cette conversation avec la police a été recensée ailleurs (sur seenthis aussi). Un policier avait dit :

      « Tu accuses la police de vol, ce soir tu es en garde à vue ici, demain t’es dans un avion »

    • Voir aussi le témoignage de #Marie_Dorléans de Tous Migrants :

      Au-delà de ces personnes qui ont survécu et échappé au pire, on voulait absolument rappeler aussi aujourd’hui celles qui n’ont pas eu cette chance et notamment parce qu’il faut pas s’habituer, parce qu’il ne faut pas que ces gens tombent dans l’anonymat. Le 7 février 2019, Tamimou, un jeune togolais de 28 ans, est mort d’épuisement et de froid au bord de la route nationale que la plupart d’entre vous viennent de monter. »

      Et de #Pâquerette_Forest de SOS Alpes solidaires :

      « Ils marchent quelques fois avec google maps sur le portable, si le portable fonctionne, parce que si il fait trop froid ils n’ont plus de batterie, et au bout d’un moment ça marche plus. Après il y a un peu des traces de gens qui se promènent et du passage quand il y a des gens qui passent tous les jours, donc ça peut aussi les aider. Après ils se repèrent aux lumières des villages. #Tamimou qui est décédé, il a perdu ses bottes au-dessus de La Vachette. Ils ont coupé, et on a bien compris qu’au début ils étaient sur une espèce de piste et puis à un moment ils ont coupé la piste et ils avaient de la neige jusque là [elle montre la hauteur de la neige avec ses mains sur les jambes, on ne voit pas sur la vidéo]. Lui il a perdu ses bottes, après ils ont essayé de le porter, et puis il était épuisé et puis il est mort »

      https://seenthis.net/messages/756096#message777436

    • Extrait du livre de Maurzio Pagliassotti,

      Ancora dodici chilometri

      :

      « Trovato da una camionista lungo la statale, come un cane abbandonato. Si muore così, lungo la rotta apina : si muore sempre così, solo che, a volte,capita che il cadavere finisca come una pietra d’inciampo nel cammino di qualcuno che non può evitarlo, che non può non vederlo. Noi, non vediamo cosa succede in questi boschi la notte, e la natura provvede a nascondere le nostre vergogne, a far sparire le prove della nostra miseria.
      Morto. Nella buia e gelida notte di questo febbraio, mentre l’Italia gioca a far la guerra alla Francia e questa richiama l’ambasciatore a Parigi. Si muore così, lungo la rotta alpina, nel tentativo di una fuga sempre più assurda, e disperata.
      Ventinove anni, dal Togo, si chiamava #Derman_Teminou. Aveva superato il campo da golf, la frontiera presidiata dalla gendarmeria, il paese del Monginevro silenzioso, le piste da sci e gli ultimi nottambuli che uscivano dalle discoteche. Ma non è riuscito a superare il freddo polare che piano piano lo ha stroncato, portandolo ad accucciarsi come un animale ferito in un cantuccio. Chissà cosa ha pensato in quelle ore di marcia da solo, forse da solo, se ha visto lontano il fondovalle da raggiungere, le luci delle città sempre più fioche negli occhi che si spengono, stroncati dal sonno.
      Molta neve è caduta questi giorni, e le montagne si sono trasformate in un mare bianco in cui nuotare. Una distesa farinosa in cui i migranti affondano passo dopo passo, con la coltre bianca che carpisce fino alle ascelle. Si vedono così, in questi giorni : come se fossero caduti nel Mediterraneo, annaspare con le braccia larghe e il collo teso, le bocche spalancate, naufraghi a 2000 metri di quota. I volontari tentano di recuperarli, di avvertirli, le raccomandazioni minacciose di questi bianchi sconosciuti devono suonare vagamente ridicole per chi arriva dai campi di sterminio della Libia.
      La procura di Gap apre un fascicolo per omicidio involontario : chissà cosa vuole dire. Chi sarebbe l’omicida involontario da trovare ? Qualcuno che lo ha abbandonato ? Un militare ? Un governo ? Sui quotidiani esce qualche sparuto articoletto che parla di ‘migrante morto’. Ma l’uomo trovato, ridotto ad essere un pezzo di ghiaccio, non è un ‘migrante’. L’uomo morto questa note, e tutti gli altri che non vengono nemmeno trovati perché dispersi in qualche dirupo o divorati dagli animali di queste foreste, sono fuggiaschi. Uomini, donne e bambini che scappano dall’Italia, che percepiscono, e vivono , come un paese pericoloso e ostile, da attraversare il più velocemente possibile o da abbandonare dopo anni di vita.
      Lo hanno portato all’ospedale di Briançon ancora in vita : ma il freddo gli aveva ormai ghiacciato il sangue e il cuore. Si muore così, lungo la rotta alpina. Lontani da ogni pietà, con i gendarmi che danno la caccia ai fuggiaschi e volontari : gli mancavano nove chilometri di strata lungo la statale. Non poteva farcela, in quelle condizioni, da solo, senza un amico, qualcuno a cui dire l’ultima parola della sua vita.
      Passa qualche giorno, finisco in una cena dove mi raccontano cosa è accaduto realmente la note in cui quell’uomo di ventinove anni è caduto. Uno dei tanti, delle decine di cui non sappiamo nulla dato che valgono solo qualche trafiletto nelle ultime pagine dei settimanali locali.
      Derman Tamimou arriva a Claviere insieme ad altri ‘migranti’ come sempre accade: con l’autobus serale che parte da Oulx e li scarica di fronte alla chiesetta. Sono ventuno : un gruppo imponente. Ma l’ordine di grandezza di questi plotoni che quotidianamente si arrendono e scappano è stabile. Partono e seguono la pista da sci di fondo : dopo circa mezz’ora vengono intercettati dai gendarmi, che ne prendono tredici. Otto riescono a fuggire nei boschi. Superano il piccolo villaggio del Monginevro e si dividono ulteriormente : cinque si gettano lungo la statale, tre rimangono lungo i sentieri che attraversano il ripido pendio che conduce a Monginevro.
      Tra questi tre c’è Darman che, a circa quattro chilometri dalla sua meta, si arrende e si sveste. E’ completamente bagnato, perché la neve da subito si è fatta strada nelle scarpe e nei vestiti. La neve nei piedi che dà un delirio e provoca l’illusione di un senso di calore che uccide passo dopo passo la percezione stessa della morte, che sale dai piedi fino al cuore.
      Si fermano e accendono un fuoco con i pochi legni secchi che trovano nei boschi. Impresa non semplice. Derman si spoglia ed espone al calore delle fiamme i suoi vestiti e il suo corpo. I suoi compagni intanto si gettano lungo la statale alla ricerca di aiuto : e qui accade qualcosa di incredibile. Qualcuno si ferma, ma dato che si tratta di due africani che chiedono aiuto per un loro amico che sta per morire, tutti decidono di proseguire.
      Una letale miscellanea di paura, buio, uominii neri e morte spinge in avanti il tempo senza che nulla accada. Le ore della notte diventano ore dell’alba, e i primi raggi di sole altro non sono che mezze illusioni. Derman si attorciglia su se stesso, ormai lasciato solo a morire nel suo buco. Le fiamme spente, i vestiti ghiacciati e rigidi che pendono da una croce di rami come un Cristo senza dignità. Lo trova un camionista, la corsa all’ospedale, la morte.
      Passano i giorni, si scopre che i suoi compagni vengono intercettati dai gendarmi che mostrano loro le foto di alcuni italiani : ‘Diteci chi vi ha aiutato a passare il confine’, questa la richiesta, che spiega la singlare accusa di ‘omicidio involntario’. Scorrono le foto dei volontari che sul fronte italiano di questa guerra ‘aiutano’ : colpa suprema, peccato totale da cui redenzione non può esistere ».
      (Pagliassotti, 2019 : 172-175)

    • Migranti. L’ultimo viaggio di Tamimou

      Il corpo del giovane morto di freddo sulle Alpi è tornato in Togo. L’articolo che «Avvenire» gli aveva dedicato, facendo visita alla sua famiglia, è stato ripubblicato da un giornale togolese

      Sono le 2:07 di giovedì mattina all’aeroporto internazionale Gnassingbé Eyadema di Lomé. L’aereo della Royal Air Maroc è appena atterrato. All’interno c’è la bara di Tamimou Derman, il migrante togolese morto assiderato tra le Alpi mentre cercava di attraversare a piedi il confine dall’Italia verso la Francia: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migrante-morte-assiderato-tra-italia-e-francia.

      Da oltre tre ore, un gruppo formato da una decina di familiari e amici attende paziente ai bordi della strada. Le guardie dell’aeroporto gli hanno detto di aspettare fuori dalla struttura. Sono solo uomini: padre, fratelli, cugini, zii e qualche amico d’infanzia. Hanno percorso tre ore di strada da Madjaton, il villaggio dove è cresciuto Tamimou. Il furgone bianco noleggiato per il viaggio avrà il compito di riportare indietro il corpo del ragazzo morto a 29 anni. Dopo essersi seduti al tavolo dell’unico bar ancora aperto, il gruppo spiega cosa è successo in queste settimane. «Un nostro cugino che vive in Italia ci ha dato la notizia settimana scorsa», racconta ad Avvenire Samoudine Derman, il fratello maggiore. «Ha raccolto i soldi per rimpatriare Tamimou. Siamo molto contenti – continua Samoudine –, finalmente potremo seppellirlo».

      Il migrante togolese era ancora vivo quando è stato trovato da un camionista lo scorso 7 febbraio sul ciglio della strada statale 94 del Colle del Monginevro. Come altri suoi compagni, Tamimou ha rischiato la vita per raggiungere clandestinamente la Francia dall’Italia. L’ambulanza l’ha trasportato nell’ospedale di Briançon dove il giovane ha però esalato il suo ultimo respiro. «Ringraziamo molto la stampa italiana per aver parlato di Tamimou – afferma Sadate Boutcho, un amico d’infanzia –. Dopo aver recuperato la bara torneremo subito al villaggio per il funerale». La cerimonia è stata annunciata su una radio locale. «Siamo musulmani, abituati a interrare il corpo il prima possibile e a ricevere per giorni le persone che vogliono dare l’ultimo saluto – afferma con un tiepido sorriso Isak, un altro amico e coetaneo della vittima –. Nel caso di Tamimou abbiamo però aspettato quasi due mesi».

      Il 19 febbraio Avvenire aveva pubblicato la storia del migrante intitolata ’Il sogno spezzato di mio figlio’: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/in-togo-a-casa-di-tamimou-migrante-morto-freddo-alpi. Lo stesso articolo è stato ripubblicato sul giornale togolese L’Alternative il 22 febbraio. «È preoccupante che a parlare della morte di un nostro fratello sia stata prima la stampa italiana rispetto a quella togolese», ha ammesso Ferdinand Mensah Ayite, direttore della rivista. Nei giorni seguenti, per volere della famiglia Derman, due buste con dentro entrambi gli articoli e una lettera di richiesta di aiuto per il rimpatrio del cadavere sono state consegnate alla presidenza e al ministero degli Affari esteri togolesi. Nel mentre, Ganiou, il cugino di Tamimou residente in Italia, si è occupato delle formalità in Francia. «Abbiamo raccolto almeno 3.500 euro per le spese del trasporto – spiega Ganiou, arrivato a Lomé in anticipo per assicurarsi che tutto andasse a buon fine –. Ho ricevuto sostegno da un’organizzazione francese di cui preferisco non rivelare il nome». Il bar chiude e ci ritroviamo in strada. Ganiou è andato a seguire le ultime formalità. Il tempo continua a passare.

      Nessuno sa cosa stia succedendo con esattezza. Alle 4 e mezza di mattina, il padre di Tamimou, Inoussa Derman, si siede sul marciapiede vicino a un parente. Samoudine e gli altri si addormentano. Solo verso le 10 di mattina viene spedito ad Avvenire un messaggio con la foto della bara nel furgone. «Finalmente abbiamo recuperato il corpo – scrive Sadate –, il funerale è stato spostato quindi alle 3 del pomeriggio». La folla osserva la bara mentre viene calata in una buca scavata nella terra rossa di Madjaton. Il villaggio sprofonda nel silenzio. Potrà la morte di Tamimou arrestare la migrazione dei togolesi verso l’Europa? «Qui non c’è lavoro – aveva spiegato Isak durante l’attesa fuori dall’aeroporto –. Ho studiato da meccanico e, nonostante la drammatica fine di Tamimou, sono pronto a partire verso l’Italia o la Francia».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lultimo-viaggio-di-taminou

    • Derman Tamimou e il tema di una bambina di nove anni

      “Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”

      Derman Tamimou aveva 29 anni, era arrivato in Italia dal Togo e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, ha intrapreso il suo ultimo viaggio nel tentativo di varcare il confine. Un camionista ne ha scorto il corpo semiassiderato e rannicchiato tra la neve ai bordi della statale del colle di Monginevro. Nonostante l’immediato trasporto all’ospedale di Briancon, Derman è morto poco dopo.

      E’ difficile immaginare cosa abbia pensato e provato Derman negli ultimi istanti della sua vita, prima di perdere conoscenza per il gelo invernale. Quali sogni, speranze, ricordi, … quanta fatica, rabbia, paura …

      Potrebbe essere tranquillizzante pensare a questa morte come tragica fatalità e derubricarla a freddo numero da aggiungere alla lista di migranti morti nella ricerca di un futuro migliore in Europa. Eppure quell’interminabile lista parla a ognuno di noi. Racconta di vite interrotte che, anche quando non se ne conosce il nome, ci richiamano a una comune umanità da cui non possiamo prescindere per non smarrire noi stessi. A volte lo ricordiamo quando scopriamo, cucita nel giubbotto di un quattordicenne partito dal Mali e affogato in un tragico naufragio nel 2015, una pagella, un bene prezioso con cui presentarsi ai nuovi compagni di classe e di vita. Altre volte lo ricordano i versi di una poesia “Non ti allarmare fratello mio”, ritrovata nelle tasche di Tesfalidet Tesfon, un giovane migrante eritreo, morto subito dopo il suo sbarco a Pozzallo, nel 2018, a seguito delle sofferenze patite nelle carceri libiche e delle fatiche del viaggio: “È davvero così bello vivere da soli, se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?”. È davvero così bello?

      L’estate scorsa, lungo la strada in cui ha perso la vita Derman Tamimou, si poteva ancora trovare un ultimo luogo di soccorso e sostegno per chi cercava di attraversare il confine. Un rifugio autogestito che è stato sgomberato in autunno, con l’approssimarsi dell’inverno, senza alcuna alternativa di soccorso locale per i migranti. Per chiunque fosse passato da quei luoghi non era difficile prevedere i rischi che questa chiusura avrebbe comportato. Bastava fermarsi, incontrare e ascoltare i migranti, i volontari e tutte le persone che cercavano di portare aiuto e solidarietà, nella convinzione che non voltare lo sguardo di fronte a sofferenze, rischi e fatiche altrui sia l’unica strada per restare umani.

      Incontri che una bambina di nove anni, in quelle che avrebbe voluto fossero le sue “Montagne solidali”, ha voluto raccontare così: “Oggi da Bardonecchia, dove in stazione c’è un posto in cui aiutano i migranti che cercano di andare in Francia, siamo andati in altri due posti dove ci sono i migranti che si fermano e ricevono aiuto nel loro viaggio, uno a Claviere e uno a Briancon. In questi posti ci sono persone che li accolgono, gli danno da mangiare, un posto dove dormire, dei vestiti per ripararsi dal freddo, danno loro dei consigli su come evitare pericoli e non rischiare la loro vita nel difficile percorso di attraversamento del confine tra Italia e Francia tra i boschi e le montagne. I migranti, infatti, di notte cercano di attraversare i boschi e questo è difficile e pericoloso, perchè possono farsi male o rischiare la loro vita cadendo da un dirupo. I migranti scelgono di affrontare il loro viaggio di notte perchè è più difficile che la polizia li veda e li faccia tornare indietro. A volte, per sfuggire alla polizia si feriscono per nascondersi o scappare. Nel centro dove sono stata a Claviere, alcuni migranti avevano delle ferite, al volto e sulle gambe, causate durante i tentativi di traversata. Infatti i migranti provano tante volte ad attraversare le montagne, di solito solo dopo la quarta o quinta volta riescono a passare. La traversata è sempre molto pericolosa, perchè non conoscono le montagne e le strade da percorrere, ma soprattutto in inverno le cose sono più difficili perchè con la neve, il freddo, senza i giusti vestiti e scarpe, del cibo caldo e non conoscendo la strada tutto è più rischioso. Lo scorso inverno, sul Colle della Scala, sono morte diverse persone provando a fare questo viaggio. Anche le persone che li aiutano sono a rischio, perchè solo per aver dato loro da mangiare, da dormire e dei vestiti possono essere denunciate e arrestate. Oggi sette ragazzi sono in carcere per questo. Io penso che non è giusto essere arrestati quando si aiutano le persone. A Briancon, dove aiutano i migranti che hanno appena attraversato il confine, ho visto alcuni bambini e questa cosa mi ha colpito molto perchè vuol dire che sono riusciti a fare un viaggio così lungo e faticoso attraverso i boschi e le montagne. Qui ho conosciuto la signora Annie, una volontaria che aiuta i migranti appena arrivati in Francia, una signora gentile e molto forte, che è stata chiamata 8 volte ad andare dalla polizia per l’aiuto che sta dando ai migranti, ma lei sorride e continua a farlo, perchè pensa che non aiutarli sia un’ingiustizia. Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      https://www.vita.it/derman-tamimou-e-il-tema-di-una-bambina-di-nove-anni

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • Prijelaz / #The_Passage — dedicated to our fallen comrades

    Od 14. do 21. svibnja 2021. godine u galeriji Živi Atelje DK u Zagrebu predstavljeno je spomen-platno Prijelaz / The Passage. Prijelaz / The Passage je zbirka memorijalnih portreta izrađenih od crvenog i crnog konca na botanički obojanoj tkanini koji su nastali u okviru umjetničkih istraživačkih radionica koje je osmislila i kurirala selma banich u suradnji s Marijanom Hameršak, a na kojima su sudjelovale umjetnice, znanstvenice, prevoditeljice i druge članice kolektiva Žene ženama i znanstveno-istraživačkog projekta ERIM.

    https://erim.ief.hr/en/publikacije/prijelaz-the-passage

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    THE PASSAGE — dedicated to our fallen comrades

    #Selma_Banich and #Marijana_Hameršak in collaboration with Women to Women collective

    Živi Atelje DK, Zagreb, 2021

    https://selmabanich.org/index#/the-passage
    #portraits #art_et_politique #migrations #réfugiés #asile #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoration #mémoire #textile #Balkans #route_des_Balkans

  • Crimes sexuels de guerre : une histoire de la #violence

    Israël a récemment annoncé l’ouverture d’une enquête sur de possibles #crimes_sexuels commis par le #Hamas. Le viol comme arme de guerre est aussi mis en avant dans le cadre de la guerre en Ukraine. L’invasion russe peut-elle servir de modèle pour comprendre les mécanismes de ces #violences ?

    Avec

    - #Sofi_Oksanen Écrivaine
    - #Céline_Bardet Juriste et enquêtrice criminelle internationale, fondatrice et directrice de l’ONG « We are Not Weapons of War »

    Israël a récemment ouvert une enquête sur d’éventuels crimes sexuels perpétrés par le Hamas. Parallèlement, l’utilisation du viol comme arme de guerre a été évoquée dans le contexte du conflit en Ukraine. Peut-on utiliser l’invasion russe comme un modèle pour comprendre les mécanismes de ces violences ?
    Le viol, arme de guerre traditionnelle des Russes ?

    Par son histoire familiale et ses origines estoniennes, l’écrivaine finlandaise Sofi Oksanen a vécu entre l’URSS et la Finlande et a grandi avec des récits de guerre lors de l’occupation soviétique des États baltes. Ces thèmes sont aujourd’hui centraux dans ses écrits. Selon elle, « dans la stratégie de guerre russe, il y a toujours eu des violences sexuelles. L’invasion en Ukraine est une sinistre répétition de la guerre telle que l’ont toujours menée des Russes. Et pourquoi n’ont-ils jamais cessé ? Car on ne leur a jamais demandé de le faire. »

    Les crimes sexuels font partie intégrante de la manière dont les Russes font la guerre. Elle déclare même dans son dernier ouvrage La guerre de Poutine contre les femmes que des soldats russes demandent la permission à leur famille pour commettre des viols : « ils sont adoubés et encouragés à commettre des crimes sexuels et des pillages. » Céline Bardet, juriste et enquêtrice internationale, insiste-t-elle sur la nécessité de documenter et de punir ces féminicides pour ce qu’ils sont. Elle dresse un parallèle avec la guerre en Syrie : « les femmes se déplaçaient par peur d’être violées. Quand on viole des hommes, on veut aussi les féminiser et les réduire à néant. »

    Comment mener une enquête sur les violences sexuelles en temps de guerre ?

    « J’ai créé depuis longtemps un site qui publie des rapports sur la situation. J’ai voulu écrire ces livres, car je voulais rendre accessible, faire comme une sorte de guide pour permettre de comprendre les crimes de guerre et comment les documenter. Sur les sites, il est difficile de relier les point entre eux pour comprendre la manière dont la Russie mène ses guerres. Elle conquiert et s’étend de la même manière. Il faut reconnaître ce schéma pour mieux le combattre. », explique Sofi Oksanen.

    Une opération hybride se déroule actuellement à la frontière entre la Finlande et la Russie : « la Russie nous envoie des réfugiés à la frontière. Cela s’était déjà produit en 2015, en Biélorussie également. Loukachenko a beaucoup recouru à ce moyen de pression. La Finlande a alors fermé sa frontière ». La Russie est également accusée de déportation d’enfants en Ukraine : « ces violences sont documentées. Concernant l’acte d’accusation émis par la CPI, beaucoup de gens en Ukraine y travaillent, mais avec des zones occupées, le travail de la justice prend plus de temps », déclare Céline Bardet.

    Concernant les violences effectuées contre des femmes par le Hamas le 7 octobre, Céline Bardet émet néanmoins des réserves sur la potentielle qualification de « féminicide de masse » : « les éléments ne sont pas suffisants pour parler de féminicide de masse. Pour le considérer ainsi, il faut prouver une intention particulière de commettre des violences contre des femmes, car elles sont des femmes. Pour le moment, le féminicide n’est d’ailleurs pas une définition pour le droit international ».

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/crimes-sexuels-de-guerre-une-histoire-de-la-violence-3840815
    #crimes_sexuels #viols_comme_arme_de_guerre #viols #guerre #viol_de_guerre #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Rwanda #génocide #outil_génocidaire #Libye #hommes #Ukraine #humiliation #pouvoir #armée_russe #torture #impunité #patriarcat #déshumanisation #nettoyage_ethnique #violence_de_masse #violences_sexuelles_dans_la_guerre #systématisation #féminicide #féminicides_de_masse #intentionnalité

    #podcast #audio

    Citations :
    Sofi Oksanen (min 30’54) : « Ce qui m’a poussée à écrire ce livre c’est que, vous savez, les #procès, ça coûte très cher, et ce qui m’inquiète c’est que certains crimes sexuels vont être marginalisés et ne sont pas jugés comme ils le devraient. Ils ne vont pas être jugés comme étant des crimes assez importants pour faire l’objet de poursuites particulières. Or, si on ne les juge pas, ces crimes, l’avenir des femmes et des enfants ne sera qu’assombri ».
    Céline Bardet (min 32’08) : « La justice c’est quoi ? C’est la poursuite au pénal, mais c’est aussi de parler de ces crimes, c’est aussi de donner la parole à ces survivantes et ces survivants si ils et elles veulent la prendre. C’est documenter ça et c’est mémoriser tout cela. Il faut qu’on sache ce qui se passe, il faut qu’on parle pour qu’en tant que société on comprenne l’origine de ces violences et qu’on essaie de mieux les prévenir. Tout ça se sont des éléments qui font partie de la justice. La justice ce n’est pas que un tribunal pénal qui poursuit quelqu’un. C’est énormément d’autres choses. »
    Sofi Oksanen (min 33’00) : « Je suis complètement d’accord avec Céline, il faut élargir la vision qu’on a de la justice. C’est bien d’en parler à la radio, d’en parler partout. Il faudrait peut-être organiser des journées de commémoration ou ériger un #monument même si certaines personnes trouveraient bizarre d’avoir un monument de #commémoration pour les victimes des violences sexuelles. »

    ping @_kg_

    • Deux fois dans le même fleuve. La guerre de Poutine contre les femmes
      de #Sofi_Oksanen

      Le 22 mars 2023, l’Académie suédoise a organisé une conférence sur les facteurs menaçant la liberté d’expression et la démocratie. Les intervenants étaient entre autres Arundhati Roy, Timothy Snyder et Sofi Oksanen, dont le discours s’intitulait La guerre de Poutine contre les femmes.
      Ce discours a suscité un si grand intérêt dans le public que Sofi Oksanen a décidé de publier un essai sur ce sujet, pour approfondir son analyse tout en abordant d’autres thèmes.
      L’idée dévelopée par Sofi Oksanen est la suivante : la Russie ressort sa vieille feuille de route en Ukraine – comme l’impératrice Catherine la Grande en Crimée en 1783, et comme l’URSS et Staline par la suite, à plus grand échelle et en versant encore plus de sang. La Russie n’a jamais tourné le dos à son passé impérialiste. Au contraire, le Kremlin s’est efforcé de diaboliser ses adversaires, s’appuyant ensuite sur cette propagande pour utiliser la violence sexuelle dans le cadre de la guerre et pour déshumaniser les victimes de crimes contre les droits de l’homme. Dans la Russie de Poutine, l’égalité est en déclin. La Russie réduit les femmes au silence, utilise le viol comme une arme et humilie ses victimes dans les médias en les menaçant publiquement de représailles.
      Un essai coup de poing par l’une des grandes autrices européennes contemporaines.

      https://www.editions-stock.fr/livre/deux-fois-dans-le-meme-fleuve-9782234096455
      #livre #Russie #femmes

    • #We_are_NOT_Weapons_of_War

      We are NOT Weapons of War (#WWoW) est une organisation non-gouvernementale française, enregistrée sous le statut Loi 1901. Basée à Paris, elle se consacre à la lutte contre les violences sexuelles liées aux conflits au niveau mondial. Fondée en 2014 par la juriste internationale Céline Bardet, WWoW propose une réponse globale, holistique et efficace à l’usage endémique du viol dans les environnements fragiles via des approches juridiques innovantes et créatives. WWoW travaille depuis plus de 5 ans à un plaidoyer mondial autour des violences sexuelles liées aux conflits et des crimes internationaux.

      L’ONG française We are NOT Weapons of War développe depuis plusieurs années la web-application BackUp, à vocation mondiale. BackUp est un outil de signalement et d’identification des victimes et de collecte, sauvegarde et analyse d’informations concernant les violences sexuelles perpétrées dans le cadre des conflits armés. Il donne une voix aux victimes, et contribue au recueil d’informations pouvant constituer des éléments de preuves légales.

      https://www.notaweaponofwar.org

      #justice #justice_pénale

  • Joint declaration: Commemoration of the 24 November 2021 shipwreck


    EN et FR

    Two years after the shipwreck of 24 November 2021, as injustice and deaths at the border continue, we stand together to call for a world free from border violence.

    On 24 November 2021, at least 33 people in a dinghy tried to reach the United Kingdom from the coast of Dunkirk. The 33 people came mainly from Iraqi Kurdistan, but also from Afghanistan, Ethiopia, Iran, Egypt, Somalia, and Vietnam.

    Three hours into the Channel crossing, the boat found itself in distress. At 1:48 am, passengers managed to make contact with the Gris-Nez Regional Monitoring and Rescue Centre (“CROSS”), which coordinates rescue operations on the French side of the border. Although the boat was located in French territorial waters, the CROSS refused to send help.

    Despite repeated calls from various people on board, between 1:48am and 4:34am, neither British rescue services, nor French rescue services launched any operation to rescue them. Worse still, at 4.16am, the CROSS even went so far as to dissuade a tanker from intervening to rescue the people who were drowning. It was only 12 hours later that the inflatable boat was found by a fishing boat. At least 27 people died that night in the icy waters of the English Channel.

    A few days after the shipwreck, two survivors testified about how the rescue services had abandoned them at sea with impunity. In November 2022, Le Monde revealed the content of the unbearable exchanges between the shipwreck victims and the CROSS. The shipwrecked passengers were treated with cynicism and international laws governing rescue at sea were disregarded. A few weeks after the shipwreck, the organisation Utopia 56, with relatives of people who died, filed a complaint against French authorities for “involuntary manslaughter” and “failure to render assistance”. The nine military personnel from CROSS Gris-Nez and a French patrol boat interviewed as part of the judicial enquiry took responsibility for all the decisions taken on that terrible night, but do not believe they were at fault. Although the French government had promised an internal enquiry following the revelations in Le Monde, it never took place. On the contrary, the defendants have the support of their superiors, who tried to interfere in the judicial investigation, as revealed by telephone taps. An investigation for breach of confidentiality has been opened.

    A report published this month by the UK Department for Transport identified failings that led to the dinghy not being rescued by HM Coastguard that night: poor visibility, lack of aerial surveillance, and a lack of staff in the control room in Dover to process SOS calls… The legal team representing one of the victim’s families described the events as an “overall display of chaos”. The British government also announced an independent inquiry into the shipwreck, after the report was published. However, the report fails to explain why over 30 people were left in distress for 12 hours, while the Coastguard rescued other boats that night, nor why migrants have no other choice but to risk their lives at sea, when every other safe route to the UK is blocked to them.

    Again and again, political and military authorities refuse to take responsibility for their role in this shipwreck and are attempting to cover it up.

    Since 1999, at least 385 people have died trying to reach the UK. Hit by vehicles on the motorway, electrocuted by a live wire on the Eurotunnel site, asphyxiated in the trailers of lorries in Essex in England, died by suicide, drowned in the canal whilst trying to bathe, died due to poor living conditions in the camps, and drowned in the Channel.

    In recent years, the frequency of deaths at the border has only accelerated. Since 24 November 2021, at least 45 migrants have died at this border. The deaths continue to pile up and nothing changes. On the contrary, the French, Belgian and British authorities are stubbornly pursuing their racist and security-focused immigration approaches to make this border area ever more hostile for migrants.

    In France, the new asylum-immigration bill heralds an even more anti-migrant turn by the Macron government. On the northern coast this month, migrants’ rights organisations denounced a “catastrophic situation” for people exiled, who are not receiving shelter during storm Ciaran and the cold, nor access to water or food distributions – while police eviction operations continue. In Belgium, the government continues to deny decent accommodation to people seeking safety, leaving families and children on the streets, despite multiple convictions in court. Furthermore, since 2021, Belgium has been supporting Frontex’s Opal Coast aerial surveillance operation, whose mission is to assist the French and Belgian authorities in detecting and intercepting exiles attempting to cross the Channel to the United Kingdom. On the British side, the government has successively passed increasingly repressive measures against migrants, including a plan to deport people to Rwanda ruled unlawful by the Supreme Court, and a ban on asylum for people arriving in the UK “irregularly”. Lastly, at the last Franco-British summit on 10 March 2023, the UK announced the release of £476 million (543 million euros) over 3 years for the deployment of 500 additional officers, the purchase of new surveillance equipment and drones, helicopters and aircraft, and the opening of a new detention centre in northern France.

    The French, Belgian and British authorities have turned the shared border into a place of death. By refusing to welcome people and by militarising this border with an excessive number of repressive measures (kilometres of barriers, barbed wire, drones, multiple police patrols, Frontex aircraft), they are politically responsible for every single one of these deaths. We know that the increasing militarisation of the border does not stop people taking journeys, but simply makes these journeys more dangerous and life-threatening.

    We, Belgian, British, and French organisations, collectives, and activists, support the actions taken by victims’ relatives and families before the courts, to ensure that the truth on exactly what happened on that murderous night is exposed, and justice is achieved.

    From Dunkirk to Folkestone and from London to Zeebrugge, we stand together to call for an urgent and radical change in the policies pursued at this and other European borders. The rights of migrants must be fully respected and the values and principles of welcome and free movement must replace the racist logic of deadly border violence. We stand in solidarity with all those displaced. They should not face the further trauma of militarised and violent borders when they seek safety in Belgium, France or the UK.

    As long as the Belgian, British, and French governments continue to coordinate simultaneous violence at the shared border and as long as people need and desire to move across borders, our solidarity and work must continue to reach beyond borders. We will continue to work together in solidarity with people on the move, to ensure that their rights are respected – starting with their right to life – and that justice is done when these rights are violated.

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    Deux ans après le naufrage du 24 novembre 2021, alors que l’injustice et les décès aux frontières se poursuivent, nous sommes uni·e·s pour appeler à un monde sans violence aux frontières.

    Le 24 novembre 2021, au moins 33 personnes embarquées à bord d’un zodiac ont tenté de rejoindre le Royaume-Uni, en partant des côtes Dunkerquoises. Ces 33 personnes venaient majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam.

    Trois heures après le début de la traversée dans la Manche, l’embarcation s’est trouvée en situation de détresse. A 1h48 du matin, les passager·ère·s ont réussi à prendre contact avec le Centre régional opérationnel de surveillance et de sauvetage (CROSS) Gris-Nez, qui coordonne les opérations de secours côté français. Alors que l’embarcation est localisée dans les eaux territoriales françaises, le CROSS refuse d’envoyer des secours.

    Malgré des appels répétés de la part de différent·e·s naufragé·e·s, entre 1h48 et 4h34 du matin, ni les secours britanniques, ni les secours français ne lanceront d’opération de secours. Pire, à 4h16 du matin, le CROSS ira même jusqu’à dissuader un tanker d’intervenir pour secourir les personnes en train de se noyer. Ce n’est que 12 heures après, que l’embarcation pneumatique est retrouvée par un bateau de pêche. Au moins 27 personnes sont mortes cette nuit-là dans les eaux glacées de la Manche.

    Quelques jours après le naufrage, deux rescapés témoignent de la manière dont les secours les avaient impunément abandonnés en pleine mer. En novembre 2022, Le Monde a révélé la teneur des échanges – insoutenables – entre les naufragé·es et le CROSS. Les naufragé·es ont été traité·es avec cynisme et les lois internationales qui régissent le sauvetage en mer ont été bafouées. Quelques semaines après le naufrage, l’association Utopia 56 a déposé plainte aux côtés de membres des familles de personnes décédées, contre les autorités françaises pour « homicide involontaire » et « omission de porter secours ». Les neuf militaires du CROSS Gris-Nez et d’un patrouilleur français auditionnés dans le cadre de cette enquête judiciaire, ont assumé toutes les décisions prises lors de cette terrible nuit, mais n’estiment pas avoir commis de faute. Alors que le gouvernement français avait promis une enquête interne, suite aux révélations du journal Le Monde, celle-ci n’a jamais eu lieu. Les prévenus bénéficient au contraire du soutien de leur hiérarchie, laquelle a tenté d’interférer dans l’enquête judiciaire comme le révèlent des écoutes téléphoniques. Une enquête pour violation du secret de l’instruction est ouverte.

    Un rapport publié ce mois-ci par le Ministère des Transports britannique a identifié les défaillances qui ont empêché les garde-côtes britanniques de secourir l’embarcation cette nuit-là : mauvaise visibilité, absence de surveillance aérienne et manque de personnel dans la salle de contrôle de Douvres pour traiter les appels d’urgences… L’équipe juridique représentant l’une des familles de la victime a qualifié les événements de “chaos général”. Le gouvernement britannique a également annoncé l’ouverture d’une enquête indépendante sur le naufrage, après la publication du rapport. Toutefois, le rapport n’explique pas pourquoi plus de 30 personnes ont été laissées en détresse pendant 12 heures, alors que les garde-côtes ont secouru d’autres bateaux cette nuit-là, ni pourquoi les personnes exilées n’ont d’autre choix que de risquer leur vie en mer, alors que toutes les autres routes sûres vers le Royaume-Uni leur sont interdites.

    Encore et encore, les autorités politiques et militaires réfutent la responsabilité qui leur incombe dans ce naufrage et s’efforcent d’étouffer l’affaire.

    Depuis 1999, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, mortes par suicide, noyées dans le canal en tentant de se laver, décédées suite aux mauvaises conditions de vie sur les campements, et noyées dans la Manche.

    La fréquence des morts à cette frontière ne fait que s’accélérer ces dernières années. Depuis le 24 novembre 2021, ce ne sont pas moins de 45 nouvelles victimes qui ont été recensées. Les mort·e·s continuent de s’accumuler et rien ne change. Au contraire, les autorités françaises, belges, et britanniques s’entêtent dans leur logique raciste et sécuritaire en créant un environnement toujours plus hostile aux personnes exilées.

    En France, le nouveau projet de loi asile-immmigration annonce un tournant encore plus anti-migrant du gouvernement Macron. Sur le littoral nord, ce mois-ci, des associations ont dénoncé une “situation catastrophique” pour les personnes exilées qui ne bénéficient ni d’une mise à l’abri malgré le froid et la tempête Ciaran, ni d’accès à l’eau ou aux distributions alimentaires – alors que les opérations policières d’expulsion continuent. En Belgique, le gouvernement continue de nier le droit d’accueil aux personnes exilées, laissant familles et enfants à la rue, malgré plusieurs condamnations par la justice. De plus, depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. Du côté britannique, le gouvernement déploie successivement des mesures de plus en plus répressives contre les personnes exilées, y compris un plan d’expulsion vers le Rwanda jugé illégal par la Cour suprême et l’interdiction de demander l’asile aux personnes arrivant de manière “irrégulière” au Royaume-Uni. Enfin, à l’occasion du dernier sommet franco-britannique du 10 mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage de 543 millions d’euros (£476 millions) sur 3 ans destinés au déploiement de 500 officiers supplémentaires, à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France.

    Les autorités françaises, belges, et britanniques ont fait de cette frontière un espace de mort. En refusant d’accueillir les personnes exilées et en militarisant cette frontière, via une surenchère de dispositifs de répression (kilomètres de barrières, barbelés, drones, multiples patrouilles de police, avion Frontex), elles sont responsables politiquement depuis des décennies de chaque mort. Nous savons que la militarisation accrue des frontières n’empêche pas les personnes de voyager, mais rend simplement ces voyages plus dangereux et mortels.

    Nous, associations, collectifs, et militant·e·s belges, britanniques, et français·es, nous soutenons les actions menées par les proches et familles des victimes devant les tribunaux afin que la vérité éclate sur le déroulement exact de cette nuit meurtrière et que justice soit faite.

    De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. Nous sommes solidaires de toutes les personnes exilées. Elles ne devraient pas être confrontées au traumatisme supplémentaire de frontières militarisées et violentes lorsqu’elles cherchent la sécurité en Belgique, en France ou au Royaume-Uni.

    Tant que les gouvernements belge, britannique, et français continueront à coordonner des violences simultanées à la frontière commune et tant que les gens auront le besoin et le désir de traverser les frontières, notre solidarité et notre travail devront continuer à aller au-delà des frontières. Nous continuerons notre travail commun en solidarité avec les personnes exilées, pour le respect de leurs droits – à commencer par leur droit à la vie – et pour que justice soit rendue lorsque ces droits sont bafoués.

    Signatories / signataires:

    African Rainbow Family, United Kingdom

    After Exploitation, United Kingdom

    Alice Thiery, New Calledonia

    All African Women’s Group, London, England

    Amira Elwakil, United Kingdom

    ARACEM, Mali

    BARAC UK, United Kingdom

    Big Leaf Foundation, United Kingdom

    Birmingham City of Sanctuary, United Kingdom

    Birmingham Community Hosting Network (BIRCH), United Kingdom

    Birmingham Schools of Sanctuary, United Kingdom

    Calais Food Collective, France

    Cambridge Convoy Refugee Action Group, United Kingdom

    Camille Louis, France et Grèce

    Captain Support UK, United Kingdom

    Care4Calais, United Kingdom

    Charles Stone, Oxford, England

    Chenu Elisabeth, France

    Choose Love, United Kingdom

    CIRÉ, Belgium

    CNCD-11.11.11, Belgium

    Damien CAREME, France

    Drag Down the Borders, United Kingdom

    Eleanor Glynn, United Kingdom

    Fabienne Augié, France

    Focus on Labour Exploitation (FLEX), United Kingdom

    Freedom from Torture, United Kingdom

    GISTI (Groupe d’information et de soutien des immigré⋅es), France

    Giulia Teufel, Scotland

    Global Women Against Deportations, London, England

    Greater Manchester Immigration Aid Unit (GMIAU), United Kingdom

    Groupe montois de soutien aux sans-papiers, Mons, Belgium

    Haringey Welcome, United Kingdom

    Here for Good, United Kingdom

    Human Rights Observers (HRO), Calais and Grande-Synthe, France

    Humans for Rights Network, United Kingdom

    Inclusive Mosque Initiative, United Kingdom

    Institute of Race Relations, United Kingdon

    Joint Council for the Welfare of Immigrants (JCWI), United Kingdom

    Julie HUOU, Nîmes, France

    Kent Refugee Action Network (KRAN), Kent, United Kingdom

    Kevin Guilbert, Ham en Artois, France

    L’Auberge des Migrants, France

    La Cimade, France

    La Resistencia, United States

    Latin American Women’s Rights Service (LAWRS), United Kingdom

    Legal Action for Women, London, England

    Loraine Masiya Mponela, England

    Louis Fernier, Poitiers, France

    Lu ndu, United Kingdom

    Lucian Dee, London, United Kingdom

    Manchester Migrant Solidarity Manchester, United Kingdom

    Maria Hagan, France

    Medact, United Kingdom

    Médecins du Monde France / Programme nord littoral, France

    Merseyside Solidarity Knows No Borders, United Kingdom

    Migrant Voice, United Kingdom

    Migrants in Culture, United Kingdom

    Migrants Organise, United Kingdom

    Migrants’ Rights Network, United Kingdom

    Migrations Libres, Belgium

    Migreurop, réseau euro-africain

    Morgan Guthrie, United Kingdom

    MRAP-littoral dunkerquois, Dunkerque, France

    NANSEN, the Belgian Refugee Council, Belgium

    Ouvre Porte, France

    Oxford Against Immigration Detention, Oxford, United Kingdom

    Patricia Thiery, France

    Payday men’s network, United Kingdom and United States

    Plateforme Citoyenne de Soutien aux Réfugiés – Belrefugees, Belgium

    Play for Progress, London, United Kingdom

    Project Play, France

    Rainbow Migration, United Kingdom

    Reclaim The Sea, United Kingdom

    RefuAid, London, United Kingdom

    Refugee Action, United Kingdom

    Refugee Legal Support, London and Calais

    Refugee Support Group, Berkshire, United Kingdom

    Refugee Women’s Centre, France

    Remember & Resist, United Kingdom

    Right to Remain, UK

    Safe Passage International, United Kingdom

    Safe Passage International, France

    Social Workers Without Borders, United Kingdom

    Stand For All, United Kingdom

    Stories of Hope and Home, United Kingdom

    Student Action for Refugees (STAR), United Kingdom

    Terre d’errance Norrent-Fontes, France

    The October Club, Oxford, United Kingdom

    The Pickwell Foundation, Devon, United Kingdom

    The Refugee Buddy Project Hastings Rother & Wealden, East Sussex, UK

    The Runnymede Trust, United Kingdom

    Tina Pho, United Kingdom

    Toby Murray, London, United Kingdom

    Tugba Basaran, Cambridge, United Kingdom

    Utopia 56, France

    Valérie Osouf, France

    Vents Contraires, France

    VVIDY (Voice of Voiceless Immigration Detainees-Yorkshire), United Kingdom

    Welsh Refugee Council, Wales

    Young Roots London, United Kingdom

    https://irr.org.uk/article/joint-declaration-commemoration-of-the-24-november-2021-shipwreck

    #commémoration #asile #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #mémoire #naufrage #24_novembre_2021

    • Le #Cross_Border_Forum : espace transfrontalier d’échange et de lutte pour la #justice_migratoire

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche. Ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Face à cette situation devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum.
      Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre et de sa déclaration engagée en mémoire des victimes des violences aux frontières.

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche, qui s’est déroulé en 2021. Ce drame a causé la mort de 27 personnes exilées, femmes, hommes et enfants, originaires majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam. Outre l’absence de secours malgré les appels répétés des naufragés

      , les raisons de ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Celles-ci contraignent, non seulement les personnes exilées désireuses de se rendre aux Royaume-Uni à emprunter des voies périlleuses irrégulières faute de possibilités légales de migrations mais aussi à séjourner dans l’irrégularité faute d’accueil. Face à cette situation révoltante devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum. Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre.
      Mobilité entravée et encampement à la frontière belgo-franco-britannique

      Les migrations internationales du sol européen vers le Royaume-Uni sont anciennes et multiples. Cependant, ces dernières décennies, à la suite du renforcement de l’approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques, les seules voies possibles de mobilité entre le continent et l’île sont, pour la plupart des personnes exilées, devenues irrégulières, au fur et à mesure que se fermaient les vois légales de migration. Effectuées par route (via le tunnel) et par mer, nécessitant souvent l’intermédiaire de passeurs, ces déplacements sont de plus en plus chers, dangereux et meurtriers. Depuis 1999, selon le Mémorial de Calais, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, noyées dans la Manche, mortes par suicide et décédées à la suite des mauvaises conditions de vie dans les camps.

      En 2022, la presse belge (RTBF) estime que près de 80.000 personnes ont tenté de passer au Royaume-Uni depuis l’Europe continentale
      . Ces déplacements se font principalement au départ de la France mais également depuis la Belgique. Néanmoins comme le signale Myria dans son rapport de 2020 intitulé La Belgique, une étape vers le Royaume-Uni : « Au vu du manque de chiffres fiables et représentatifs, il est impossible d’évaluer le nombre de migrants en transit présents (en moyenne) en Belgique. Très peu d’informations représentatives sur les caractéristiques démographiques des migrants en transit sont également disponibles

       ».

      En Belgique et en France, en amont de la traversée, de nombreux camps informels se créent et sont aussitôt démantelés par les autorités. Ils sont situés à proximité des plages de la mer du Nord et du tunnel sous la Manche. Le plus médiatisé est sans doute celui de la « jungle de Calais » . Ces zones d’attente et de transit sont localisées également dans les bois, le long des autoroutes et non loin des parkings de camions poids lourds dont la destination est l’Angleterre. Les conditions de vie dans ces camps sont inhumaines car insalubres et insécurisantes, spécialement pour les femmes et les enfants. La survie de leurs occupants est entre autres rendue possible par l’action solidaire de citoyens et associations leur permettant d’avoir un accès modeste à de la nourriture, de l’eau, des vêtements, de l’électricité et des conseils juridiques. Ces camps d’infortune sont régulièrement démantelés

      par les Etats sans aucune réelle proposition de mise à l’abri et d’hébergement durable. Les personnes migrantes y sont régulièrement contrôlées, persécutées et chassées de façon violente par les autorités sous prétexte d’insécurité, de lutte contre le trafic d’êtres humains et d’appel d’air. La criminalisation de ces personnes et de leur soutient solidaire fait partie intégrante de la stratégie répressive et dissuasive voulues par les Etats européens.
      Brexit, pacte européen et externalisation des questions migratoires

      A la différence de plusieurs traités, protocoles et accords franco-britanniques
      relatifs à la gestion de l’accueil

      et du contrôle des frontières, la Belgique n’a pas signé d’accords bilatéraux formels avec le Royaume-Uni. Cependant, elle entretient des relations diplomatiques cordiales et signe des déclarations communes avec lui, les Pays-Bas, l’Allemagne et la France au sujet du contrôle de leurs frontières communes. Depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. A l’occasion du dernier sommet franco-britannique en mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage 543 millions d’euros sur 3 ans destinés à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France. Rappelons qu’en collaborant avec le Royaume-Uni pour empêcher des personnes présentes sur leur territoire de rejoindre ce dernier, la France et la Belgique contreviennent à l’article 13 de la Déclaration universelle des droits de l’homme qui stipule : « Toute personne a le droit de quitter tout pays, y compris le sien. »

      Depuis le Brexit en 2018, les mesures liées aux politiques migratoires prises par un Etat membre européen avec le Royaume-Uni peuvent être considérées comme faisant partie de la stratégie d’externalisation des questions migratoires ; cela à l’image des accords entre les États européens avec des pays tiers. Le contesté pacte européen sur la migration et l’asile, qui pourrait être adopté durant la présidence belge de l’UE en 2024, a également pour axe stratégique prioritaire l’externalisation. Le Royaume-Uni n’est pas en reste. Le gouvernement actuel tente de faire passer une loi qui permettrait d’expulser au Rwanda toute personne arrivée sur le sol britannique par voie irrégulière. Ce 15 novembre, le projet a été recalé par la Cour suprême britannique, car il a été jugé illégal. Le Rwanda ne peut en effet être considéré comme un pays tiers sûr. D’autres projets ont vu également le jour sur l’île, tels l’accueil des demandeurs d’asile sur des barges flottantes et une machine à vagues ayant pour effet recherché de dissuader, refouler et donc de ne pas accueillir les personnes exilées.
      Le Cross Border Forum, ensemble, pour et avec les personnes exilées

      Le contexte des migrations et de l’accès à l’asile lié à la frontière du Royaume-Uni avec la France et la Belgique crée une situation intenable pour les personnes migrantes qui transitent par la région frontalière et, par extension, pour les organisations de soutient qui travaillent avec elles. Apporter des réponses aux défis et aux enjeux des migrations transfrontalières implique une bonne connaissance et une bonne compréhension des dynamiques et changements de politique dans les pays respectifs. L’importance d’une collaboration entre les acteurs de la société civile est souvent soulignée aux niveaux national et local, mais une collaboration entre acteurs travaillant des différents côtés de la frontière l’est tout autant. L’expérience vécue de la frontière commune et l’expertise des politiques de migrations des personnes premières concernées par les questions transfrontalières est aussi essentielle. Alors que les gouvernements des deux côtés de la Manche s’engagent dans des négociations multilatérales, la coopération entre la société civile internationale est plus que nécessaire. Cela aura pour conséquence de renforcer l’impact potentiel des efforts respectifs.

      Il existe peu d’espaces permettant d’échanger rapidement et facilement des informations et analyses, afin de répondre à court et à long termes à la situation dans l’un des trois pays. Le Cross Border Forum (CBF) est né de ce besoin. Fin 2020, il a débuté en tant qu’initiative visant à rassembler les acteurs de la société civile des deux côtés de la frontière franco-britannique. Au printemps 2021, des associations belges, dont le CNCD-11.11.11, ont rejoint le Forum

      . En 2022, une coordination basée au Royaume-Uni et hébergée par l’association JCWI a été mise en place pour faire fonctionner durablement le forum. La formalisation du forum (charte d’adhésion des membres, site, financement etc.) sera finalisée d’ici fin 2023.
      Le 24 novembre, date de commémoraction pour mettre fin aux morts aux frontières

      Ce 24 novembre 2023, le CBF publie une déclaration commune [à télécharger ci-dessous] qui rappelle : « De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. »

      https://twitter.com/CborderForum/status/1721947530798248075

      Au-delà de cette déclaration et de la commémoration annuelle autour de cette date symbolique, le CBF participe depuis deux ans à des rencontres publiques organisées dans les trois pays et organise en plus de ses réunions régulières d’échanges internes, des séances de formations pour ses membres sur la situation transfrontalière. Aujourd’hui, les membres du forum échangent, s’informent et se mobilisent mais certains n’excluent pas, demain, de porter des actions de plaidoyer sur leur frontière commune dans leurs pays respectifs.

      https://www.cncd.be/Le-Cross-Border-Forum-espace

  • Never forget, never forgive : Commemorative march, #Dunkirk, 24.11.2023, 6 pm

    Commemorative march

    On 24 November 2021, at least 27 people seeking safety died at sea trying to reach the United-Kingdom.

    Two years later, we will march to remember those who died, and all people who have died in exile and at borders, to demand justice and for these murderous policies to end!

    Meet on Friday 24 November, 6 pm, Place de l’Hôtel de Ville in Dunkirk

    Please come with a candle.

    #commémoration #asile #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #France #Calais #UK #Angleterre #Manche #La_Manche #marche #marche_commémorative #Dunkerque

  • 01.11.2023 :

    En honorant ce 1er novembre la mémoire de Blessing et en luttant pour que la vérité et la justice soit faite sur les circonstances de sa mort, c’est la mémoire de toutes les victimes des frontières que nous honorons, et c’est contre cette politique et pour le respect des droits que nous luttons.

    https://www.facebook.com/tousmigrants/posts/pfbid0VR7pkb1i1WxeskfmAP81cTim6oEp6aiKkUsWSvrN7NsJcY8iXTd4LAMhaE6mL19hl
    #Blessing #commémoration #mémoire #Blessing_Matthew #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #Hautes-Alpes #Italie #France #frontières #vérité #justice

    –—

    voir aussi ce fil de discussion sur l’"affaire Blessing" :
    https://seenthis.net/messages/962473

  • Zbliża się Święto Zmarłych – czas wspominania bliskich, którzy od nas odeszli. W tych dniach chcemy wspominać także tych, którzy odeszli próbując znaleźć bezpieczne miejsca dla siebie i swoich bliskich.
    Aby pamięć o zmarłych na granicy polsko–białoruskiej nie zaginęła – przygotowaliśmy klepsydry z ich nazwiskami. Poniżej zamieszczamy link do pobrania gotowych do wydrukowania klepsydr. Pomysłodawcą akcji jest Fundacja Bezkres.
    Chcemy abyście razem z nami poprosiły i poprosili parafie oraz cmentarze w całej Polsce o zgodę na ich rozwieszanie.
    Upominamy się o pamięć, ale i sprawiedliwość dla ofiar polskiej oraz europejskiej polityki granicznej.
    Chcemy także zadumać się chwilę nad ich losem.
    Ibrahim Dżaber Ahmad Deja był lekarzem i pochodził z Jemenu. Umarł z wychłodzenia, podczas gdy jego towarzysze, wzywający pomoc, zostali zatrzymani i wywiezieni do Białorusi.
    Avin Irfan Zahir była matką 5 dzieci. Lekarze walczyli o jej życie przez 3 tygodnie. Zmarła, będąc w ciąży.
    Ahmad al-Hasan miał 19 lat i utonął w Bugu, do którego wepchnęli go białoruscy pogranicznicy. Miał zaledwie 19 lat.
    Radżaa’ Hasan była Palestynką, ale urodziła się w obozie dla uchodźców w Syrii. Ahmad Hamid Az-Zabhawi miał dwuletnią córkę, a Mustafa Muhammad Murszed ar-Raimi był księgowym.
    Issa Dżordżos najbardziej bał się samotności – a umierał w polskim lesie całkiem sam.
    Zamiast schronienia oraz godnego i bezpiecznego miejsca dla życia dla każdego i każdej z nich – Polska dała im tylko tylko skrawek ziemi na cmentarzu.
    Wieszając klepsydry i paląc dla nich znicze, chcemy głośno i wyraźnie powiedzieć, że nie zgadzamy się, aby na granicy Polski umierali ludzie.
    Dość polityki śmierci i dość przemocy.
    A zmarli niech spoczywają w pokoju.
    ––
    W komentarzu załączamy link do pobrania przygotowanych klepsydr. Prosimy o rozklejanie w miejscach do tego wyznaczonych, za porozumieniem z osobami upoważnionymi do wydawania wymaganej zgody.

    Traduction FB :

    La fête des morts approche - un temps pour se souvenir de ceux qui nous ont quittés. En ces jours-ci, nous voulons aussi nous souvenir de ceux qui sont partis en essayant de trouver des endroits sûrs pour eux et leurs proches.
    Pour que la mémoire des morts à la frontière polono-biélorusse ne disparaisse pas - nous avons préparé des sablier avec leurs noms. Ci-dessous, nous publions un lien pour télécharger les listes d’horaires prêtes à imprimer. L’idée de la campagne est @TAG.
    Nous voulons que vous vous joigniez à nous pour demander et demander aux paroisses et aux cimetières de toute la Pologne la permission de les suspendre.
    Nous abandonnons la mémoire, mais aussi la justice pour les victimes de la politique frontalière polonaise et européenne.
    Nous voulons aussi réfléchir un instant à leur sort.
    Ibrahim Jaber Ahmad Deja était médecin et originaire du Yémen. Il est mort d’un rhume, tandis que ses camarades, qui appelaient à l’aide, ont été arrêtés et déportés en Biélorussie.
    Avin Irfan Zahir était mère de 5 enfants. Les médecins se sont battus pour sa vie pendant 3 semaines. Elle est morte pendant qu’elle était enceinte.
    Ahmad al-Hasan avait 19 ans et s’est noyé dans Bug, dans lequel il a été poussé par les gardes-frontières biélorusses. Il avait juste 19 ans.
    Raja’ Hasan était un Palestinien mais né dans un camp de réfugiés en Syrie. Ahmad Hamid Az-Zabhawi avait une fille de deux ans et Mustafa Muhammad Murszed ar-Raimi était comptable.
    Issa George avait le plus peur de la solitude - et il était mourant tout seul dans une forêt polonaise.
    Au lieu d’un abri et d’un endroit digne et sûr où vivre pour chacun d’entre eux - la Pologne ne leur a donné qu’un bout de terrain dans le cimetière.
    En accrochant des sabliers et en brûlant des bâtons d’encens pour eux, nous voulons dire haut et fort que nous ne sommes pas d’accord pour dire que des gens meurent à la frontière polonaise.
    Assez avec la politique de la mort et assez avec la violence.
    Que les morts reposent en paix.
    ––
    Dans le commentaire, nous avons joint un lien pour télécharger les horaires préparés. Veuillez rester dans les endroits désignés, avec l’accord avec les personnes autorisées à délivrer le consentement requis.

    https://www.facebook.com/grupagranica/posts/pfbid02ghW8k3ZorJzXwcqgycMN46zYwFcQvYf4Es7A5doF6ysH7gofR8DYRUVoh3otJuJ8l
    #Pologne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #commémoration

  • #Kythira, October 5, 2023: A trip back to the EU border where many lost their loved ones a year ago.

    They wanted to thank the local people of Kythira who, without thinking of the danger to their own lives, rescued a total of 80 people on October 5, 2022.
    People who otherwise would certainly not be alive. Together, some survivors and family members came together to hold a memorial ceremony on the beach of Diakofti, the place where the night of 5.10.2022 will remain forever present for all.

    “October 05 remains an indelible date for all of us. That night two boats capsized in Greece waters, one of them just off the island of Kythira. The people on the boats were fleeing war and terror – filled with longing for a safe future. Here in this place, very close to the harbor, the boat crashed into a rockface. The wind was strong, the waves high, and it was night. Many inhabitants of the island came and tried to save the people by any means possible. They saved 80 people with their efforts. However, at least 15 people lost their lives that night.

    When the tragedy became known to the relatives of those onboard, those who could made their way to Kythira. In this time of shock and loss, survivors and relatives met there, as well as initiatives in solidarity and people willing to help.
    Some of the dead could be found in the water. They were identified, transported to Kalamatas hospital, and then buried in Komotini. Others are still missing a year later. The survivors have been housed in inhumane camps and are fighting for their residence permits to live safe life.

    Since October 2022, we – some of the survivors and relatives remained in contact. In March 2023, we remembered what happened in #Erfurt with an evening called “#A_Sea_Full_of_Tears.” More than 200 people created space for mourning, pain and remembrance, but also for courage and hope. It was
    possible to feel the presence of those who are no longer with us. In this touching atmosphere, the idea of returning to Kythira became more concrete.

    We gathered here in Kythira with everyone to mourn and commemorate the lost. We keep alive the memory of the people who died in the sea. We also come angry at the European borders that killed them, and continue to kill. We come with the desire to build another future in solidarity and without
    borders. It is our resistance.”

    At the beginning of the Memorial, Shuja and Sultana told the story of how we all came together and introduced the speeches of the survivors and family members.
    Khadijah, who lost her dearest husband Abdul Wase Ahmadi that night, began by expressing her discomfort. She said,
    “I stand here wanting to tell you so many words. But the waves behind me make me sad and I can’t find
    the words. The last words from my husband were: who will save us here? You came and saved us, endangering your own lives. We are here to thank you. To embrace you. We are a family now. We will never forget you. Thank you!”

    Zameer, who lost his mother, sister, and brother, stood with his back to the
    sea, which became their graves:
    “I lost my whole family here, in this sea, but you saved me. I wanted to say thank you. When I leave Kythira, I will be leaving my family here with you. Please take care of them.”

    With the heartbreaking statements from the survivors, more than 100 people came to commemorate that night and the dead together with them. The ceremony on 5.10.23 was touching.
    In the days before the Memorial, the 25 travellers to Kythira, including 12 survivors and family members of missing people and their supporters from Hamburg, Erfurt, Munich, and Athens, among others, had daily conversations and meetings with the people who saved them that night:

    There was Dimitris, who took his uncle’s crane and stood on the edge of the abyss with it, saving Khadijah, Hussein, Masih and many others from certain
    death.
    Kostas, who also played the clarinet at the Memorial, who with others were able to pull up many people with ropes, their strength coming from their hands and will power.
    The vice mayor and volunteer firefighter who unobtrusively made everything
    possible everywhere.

    The firefighter Spyros, who with two of his colleagues, rappelled down the dangerous slope with his private equipment to give instructions to people how to be pulled up with the rope.
    Everyone who spent the next few days cooking, bringing clothes, healing wounds, comforting worries, answering questions for the survivors and for the many relatives who immediately came from abroad. They were comforted in their difficult time and helped through the bureaucracy.
    Many of the survivors who could not travel with us listened to a live stream on October 5 and were thus also present. Some had written their own speeches and sent voice messages.

    An elderly lady in black sat on a chair on the beach for the whole two hours and listened attentively as all the speeches in Dari were translated into German and Greek. Four coast guard officers, a priest, a teacher with his little students, many of the people who supported the days with whatever
    they had – all could not believe that the people had come back, had the strength to return to Kythira and embraced them even more in their hearts.

    The day before the Memorial, the survivors had invited all those who had saved them to an Afghan meal in Karavas. It is a beautiful village in the island’s north with a valley, a river and a spring named Amir Ali. Here, in this sheltered place, many were able to embrace and share stories and pain for
    the first time. Many of the locals said that they do not talk to anyone about this night, they do not want to burden anyone in their families, but constantly the images flash in their minds. Now through this trip they had finally found others again with whom they can share the painful experiences.

    “I don’t take off my sunglasses and you understand why,” said Giannis.
    And the other Giannis, the cook who after rescuing people still opened the kitchen of his restaurant and cooked whatever he had so that the survivors would have something to eat says: “Solidarity is a big cooking pot. Allilegii ine ena tsoukali.”

    We promise to never forget those who lost their lives on these borders. We think always of those in Lampedusa and so many other places who are thinking of their loved ones whose lives ended at these deadly borders. We have paused for a moment and now we will move forward together. To tear down the borders and build another world of welcome.

    http://kithira.w2eu.net/2023/10/14/kythira-october-5-2023

    #mémoire #commémoration #Grèce #naufrage #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #5_octobre_2022 #ceux_qui_restent #survivants #deuil #courage #espoir #colère #résistance #frontières #mémorial #solidarité

  • 09.10.2023 « Ce ne sont pas seulement 381 noms, ce sont 381 familles brisées. »

    Ce soir, encore, commémoration à Calais, en hommage au jeune décédé hier ainsi qu’à toutes les victimes des frontières. Nous continuerons à dénoncer les politiques meurtrières menées aux portes de l’Europe.


    https://twitter.com/AubergeMigrants/status/1711430958501580897
    #commémoration #Calais #migrations #asile #réfugiés #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #Manche #frontières #hommage

  • En occasion de la journée mondiale de la paix, une #commémoration a eu lieu à #Zagreb, le 23.09.2023. J’y étais et ai pris quelques photos...

    La commémoration a eu lieu dans le parc mémoriel de #Dotrščina

    L’installation artistique qui a été conçue par l’occasion :


    #crayon #papier #gomme

    –-

    –—
    Des images du parc mémoriel, qui n’a jamais été terminé, car avant la fin c’était aussi la fin de la Yougoslavie...


    –-> cette pierre mémorielle est une réplique de l’originale, inaugurée il y a peu après qu’elle ait été détruite dans les années 1990

    Mais des images du projets dans le spomenik database :


    https://www.spomenikdatabase.org/dotrscina

    #Dotrscina #spomenik #mémoriel #mémoire #Croatie
    ping @reka

  • #Arbe, la voragine nera nella memoria Italiana. Pagliarulo: «Ogni silenzio deve essere superato»

    Si è svolta ieri all’isola di Arbe (#Rab) in Croazia, una grande celebrazione dell’80° anniversario della Liberazione del campo di concentramento fascista. Qui durante l’occupazione italiana, iniziata nell’aprile 1941, furono deportati migliaia di civili slavi – fra cui circa duemila donne e mille bambini - prevalentemente sloveni, ma anche croati ed ebrei, che furono decimati dalla fame, dalle malattie, dalle privazioni, dai maltrattamenti. I deceduti “ufficiali” furono 1.435, ma la cifra fu con tutta probabilità molto superiore. Nessuno ha mai pagato per questi crimini e l’Italia non smette di ignorare questa tragedia.
    Sono intervenuti il Presidente della repubblica croata Zoran Milanovič e la Presidente della repubblica slovena Nataša Pirc Musar. L’iniziativa è stata promossa dai presidenti delle associazioni partigiane dei tre Paesi: Franjo Habulin (per Saba Hr Croazia), Marijan Križman (per ZZB-NOB Slovenia), Gianfranco Pagliarulo (per l’ANPI Italia), che hanno preso la parola, assieme al Sindaco di Arbe e ad un superstite del campo di concentramento.
    Per l’Anpi nazionale, oltre a Pagliarulo, erano presenti Carlo Ghezzi, Dino Spanghero, Fabio Vallon. Tra i partecipanti anche molte delegazioni di Comitati provinciali ANPI in particolare dal Friuli Venezia Giulia.
    “Oggi noi diciamo “Mai più!” - ha detto il Presidente dell’Anpi in un passaggio del suo intervento - ma sappiamo che non basta dire “Mai più!”. Occorre una piena assunzione di responsabilità da parte del mio Paese, che ho l’onore di rappresentare. Occorre affermare senza alcuna ambiguità che l’invasione italiana fu un atto criminale e che le tragedie successive furono causate soprattutto da quella invasione e aggravate da un razzismo strisciante verso le popolazioni slave. La incancellabile responsabilità politica di tutto ciò ricade sul fascismo italiano e sul nazismo tedesco in un tempo in cui dominavano in tutta Europa i nazionalismi. Ogni silenzio dev’essere superato. A maggior ragione questo è urgente, perché viviamo un tempo in cui rinascono forme vecchie e nuove di nazionalismo, razzismo, irredentismo, e persino di fascismo e di nazismo. Chi non ama tutta l’umanità non ama la sua patria. Questo era lo spirito patriottico dei partigiani italiani e dei partigiani di tutta Europa. Ecco perché dobbiamo pensare a un nuovo umanesimo mondiale in cui ci si ritrova fratelli per migliorare le condizioni di vita e di sopravvivenza sulla terra davanti alle sfide gigantesche a cui l’umanità è oggi sottoposta: lo sfruttamento sul lavoro, la povertà, la fame, le pandemie, il riscaldamento globale. Senza mai dimenticare cosa avvenne in quest’isola, nel nome di tutte le vittime, nella denuncia e nell’esecrazione dei responsabili, andiamo avanti tenendoci per mano”.

    Leggi il racconto della celebrazione, a cura di Eric Gobetti, pubblicato sul quotidiano il manifesto : https://ilmanifesto.it/campo-fascista-di-arbe-un-oblio-annunciato

    Guarda uno stralcio dell’intervista della Rete televisiva nazionale Slovena al Presidente Pagliarulo: https://www.rtvslo.si/rtv365/arhiv/174985065?s=mmc

    https://www.anpi.it/arbe-la-voragine-nera-nella-memoria-italiana-pagliarulo-ogni-silenzio-deve-esse

    #Rab #mémoire #Croatie #histoire #fascisme #Italie #Italie_fasciste #camp_de_concentration #commémoration

    • Journées d’Action à Dakar : #72h_Push_Back_Frontex

      L’organisation de la société civile sénégalaise Boza Fii a organisé une action de 72 heures dans la banlieue de Dakar au début du mois. Par cette action, ses membres dénoncent la présence de Frontex dans le pays et, plus largement, le régime mondial de mobilité asymétrique. Ici, nous publions le discours prononcé lors de la conférence de presse qui a ouvert les journées d’action. Vous pouvez le regarder en ligne ici.

      "Vous surveillez les frontières, nous vous surveillons

      Nous BOZA FII, nous nous engageons dans le domaine de la fuite et de la migration. Nous soutenons les migrants de retour volontaire, les migrants qui ont été expulsés vers leur pays d’origine et confrontés à un manque total d’assistance. Ainsi que les amis et familles de ceux qui sont disparus en mer méditerranée et aux frontières, dans leur douloureuse quête de réponses. Mais aussi promouvoir le droit à l’identité et à la dignité pour toutes les victimes de nos frontières, et le droit de leurs familles à savoir. Nous voulons œuvrer au meilleur respect des droits de ces personnes, non seulement fragilisées par les drames de la migration mais aussi souvent stigmatisées dans leur propre communauté. Nous souhaitons également encourager la production de connaissances et promouvoir l’objectivité du débat sur les migrations et les échanges internationaux afin d’affronter ensemble les réalités mondiales.

      Nous nous engageons pour lutter contre les politiques frontalières et pour la liberté de circulation de tout un chacun.

      Depuis la création de l’association en septembre 2020 nous avons beaucoup fait des recherches sur le déploiement de frontex au Sénégal. C’est en juin 2022 que nous avons senti l’intérêt de créer des synergies de lutte contre frontex au Sénégal et notre 1ère action 72h PUSH BACK FRONTEX était en fin septembre 2022. L’idée était d’abord de sensibiliser la population sénégalaise du danger de l’agence meurtrière des contrôles des frontières de l’UE (FRONTEX). C’est vrai qu’au Sénégal personne ne parle de Frontex et ne connaissent peut-être pas cette agence que nous considérons criminelle. Nous avons senti cette ignorance de la population dans les politiques migratoires du Sénégal et nous voyons important de faire savoir à notre gouvernement que nous ne sommes pas d’accord pour le déploiement de frontex au Sénégal et de leur faire savoir que nous connaissons ce que frontex fait dans la Méditerranée, dans la mer Egée et dans les frontières.

      Depuis quelques années, des plans de restrictions du droit à la libre circulation sont en phase de briser le tissu socio-économique des communautés à travers une intelligence dénommée " Frontex " savamment déployée en Afrique à travers une certaine cellule dite " des gestions de risques liés à la migration irrégulière " et une présence d’officiers de liaison. La mission de l’équipe conjointe d’investigation composée des éléments de la police espagnole " Guardia Civil ", française et de la gendarmerie nationale sénégalais. Un tels dispositif déployé en Afrique de l’Oouest et particulièrement au Sénégal depuis 2017 avec tout ce qu’il compte comme moyens de dissuasion, de contrôle voire de répression entretenu par un budget faramineux et d’une armée propre composée de milliers d’hommes étrangers à celle du Sénégal dans un tout proche avenir, ne constituent ‘il pas en lui-même la source de tous les risques imaginables ?

      Le programme des journées d’action

      Le renforcement du contrôle aux frontières (mer, terrestre, aérienne) au Sénégal et entre les états de la CEDEAO à travers le système MIDAS (Migration Information and Data Système) spécialisé dans le partage des informations sur la surveillance territoriale à travers des données biométriques initié par l’organisation internationale pour les migrants (OIM) ne saurait etre sans conséquences sur la liberté de circulation, que beaucoup de pays ne font pas partis et le déploiement des garde-côtes nourrissent les débats dans le cercle de la société civile active dans la question du droit à la mobilité des personnes. Cette logique n’a pas laissé indifférent le gouvernement du Sénégal en le poussant à restructurer des ministères et mettre en place des institutions de défense et de promotion des humains tels que le ministère de la justice, la commission nationale des droits des hommes qui bafouent chaque jours les droits des citoyens sénégalais.

      Projection de films à Keur Massa

      Si nous avons inscrit dans notre agenda la question de la libre circulation dans l’espace CEDEAO, ce n’est nullement un fait de hasard. BOZA FII interpelle les consciences de tous les mouvements et les forces vives qui militent pour un monde juste et respectueux des valeurs humains telles que contenues dans les instruments de protection et de la valorisation de l’êtres humains (Loi n°1981/47 du 2 juillet 1981 au Sénégal, la charte africaine des droits de l’homme, les textes de la CEDEAO, le droit à la libre circulation article 12.1, le principe respect de l’égalité dans la procédure d’expulsion article 12.4, l’interdiction de l’expulsion collective non-nationaux article 12.5, de l’Union africaine, de la déclaration universelle des droits de l’homme, et bien d’autres). En dépit de l’existence de tout cet arsenal juridique et institutionnel, au mois de juillet le Sénégal refoule illégalement des ressortissants guinéens. Ce pendant les activités de Frontex au Sénégal impactent depuis des années par un certain nombre de constats qui mettent à rude épreuve la liberté de circulation des personnes à l’intérieure du Sénégal, de ses frontières de manières générale. Les départs au Sénégal vers le nord via le Sahara et par la mer sont une parfaite illustration et les événements du 24 juin 2022 dans les enclaves de Melilla constituent une alerte sans précédent, celle du 14 juin 2023 dans les eaux du Grèce et récemment les naufrages répétitifs du mois de juillet au Sénégal.

      A partir de 2022 pèse la menace d’un accord entre l’Union européenne et la République du Sénégal qui permettrait à l’agence européenne de surveillance des frontières, Frontex, de s’implanter définitivement dans le pays. Il s’agit d’une avancée importante dans le processus d’externalisation des frontières par la Forteresse Europe, qui concernerait pour la première fois un pays non frontalier. Le premier pas dans cette direction a été fait en février 2022 quand, lors d’une visite à Dakar, YIVA JOHANSON Commissaire européenne chargée des Affaires intérieures, a proposé le déploiement au Sénégal de Frontex pour contrôler le « trafic d’êtres humains » par les embarcations qui partent vers les Canaries. Dans sa déclaration elle affirme qu’avec l’accord du gouvernement sénégalais, l’agence pourrait envoyer des équipements de surveillance des frontières telles que des drones, des navires, et même du personnel frontex pour lutter contre les départs du Sahel.

      Liste des morts aux frontières

      Mais d’après une investigation que nous avons faite frontex a déjà commencé à opérer et exercer sur les côtés Sénégalaises.

      Nous avons questionné quelques personnes qui travaillent dans la marine ainsi que la police Sénégalaise et ils nous ont confirmé qu’il y a des opérations conjointes de Frontex ici.

      Malheureusement rien n’est écrit dans les médias locaux et même dans les plates-formes de communication du gouvernement.

      Frontex est présent au Sénégal (comme en Mauritanie) depuis presque vingt ans. Le 20 juin 2006 Frontex a communique à Madrid le début de l’opération Héra, qui a démarré en juillet de la même année. Sous la coordination de la Guardia Civil et de la Policia Nacional espagnoles, Héra a permis à Frontex de commencer à patrouiller et opérer dans les zones maritimes sénégalaises (comme du Cap-Vert et de la Mauritanie). Initialement, l’opération Héra I, qui avait un budget de 370.000 euros, visait simplement à identifier les départs au Sénégal en 2006 Barça ou Barzahk* et la nationalité des personnes arrivant en Espagne pour en faciliter les expulsions par des vols collectifs. C’est avec Héra II que la police frontalière a tôt amplifié son pouvoir : L’opération s’est dotée pour la première fois de 3 bateaux, un hélicoptère et deux avions, pour un budget bien plus significatif de 3.2 millions d’euros. C’est par cette manière qu’après sa création en 2004, Frontex s’est configuré et consolidé comme acteur qui, même en dehors de l’Europe, identifie, bloque, emprisonne et déporte les personnes qui cherchent à rejoindre l’Europe par la route atlantique. A l’époque, la France et l’Espagne avaient permis l’insertion de Frontex sur le sol sénégalais en s’offrant de l’héberger au niveau logistique dans les structures militaires françaises à Dakar.

      En 2017, Frontex a lancé le projet AFIC (Communauté du renseignement Afrique-Frontex) en 8 pays africains : Cote d’Ivoire, Gambie, Ghana, Mauritanie, Niger, Nigeria, Sénégal et Togo. Maintenant ce réseau compte la participation de 29 pays africains. Sous prétexte de « collecter et d’analyser des données sur la criminalité transfrontalière et soutenir les autorités impliquées dans la gestion des frontières. En 2019 au port de Dakar, dans le siège du Commissariat spécial de police du port de Dakar, frontex et le gouvernement du Sénégal ont inaugurés la cellule d’analyse des risques qui est censée collecter des données stratégiques pour la gestion de la sécurité des frontières. On sait très bien que les risques dont on parle ne sont pas les morts en mer, mais plutôt le fait que des citoyens africains puissent rejoindre le territoire européen.

      En plus, dès 2020, réside stablement auprès de l’Office de l’Union Européenne à Dakar une liaison officiée de Frontex. Et l’état du Sénégal continue de médiatiser le blocage de départs collectifs en pirogue grâce au dispositif Frontex.

      C’est d’ailleurs sur ces présupposées qu’ils ont mis en place un programme spécifique, qui s’est conclu à Décembre 2022

      Pour revenir à l’actualité, donc, le 7 juin 2022 la Commission européenne a rédigé une « Fiche action sur le Sénégal : renforcement de la coopération avec l’agence Frontex », qui préparait les directives pour négocier l’accord que le Consul d’Europe a soumis à l’Etat du Sénégal pour validation. Ces directives prévoient que les officiers de Frontex seront autorisés à porter des armes et à les utiliser. En outre, on voudrait garantir aux membres du corps de Frontex une immunité totale vis-à-vis de la juridiction pénale et civile de la République du Sénégal. C’est la police coloniale qui revient claire et nette en Afrique. Permettez-nous de vous rappeler certains points essentiels de l’accord avec frontex. Le déploiement de frontex au Sénégal est donc un risque et non une solution pour le pays. En fait, cette installation pourrait également empiéter sur la souveraineté d’un pays et entraînera encore plus de violations des droits des senegalais.

      Le déploiement de Frontex sur la façade maritime pourrait entraver ces libertés professionnelles aux pécheurs sénégalais et du CEDEAO acquises depuis 1979 sous prétexte de lutter contre le trafic de migrants. On peut également dire l’installation de Frontex sur la route du Sahara à partir du Sénégal et de la Mauritanie afin de compléter le contrôle sur les zones territoriales d’Afrique du Nord. Cela semble être une suite logique du cadre opérationnel de la stratégie d’externalisation des frontières de l’Union européenne. Ces mécanismes d’intervention de la part de l’Union européenne ne sont pas nouveaux. La lutte contre la pêche illégale a déjà été utilisée comme prétexte. Les accords entre le Sénégal et l’union Européenne ont substantiellement modifié le modèle de pêche artisanale et ont diminué les captures et les revenus des pêcheurs artisanaux qui représentent 17% de la population active sénégalaise. Ce sont les bateaux de l’Union européenne et de la Chine qui semblent profiter aujourd’hui des ressources de cette côte. Cela pousse de nombreux pêcheurs sénégalais à se rendre en Mauritanie et en Guinée Bissau dans des situations qui entrainent souvent des conflits entre communautés. Il faut se demander comment Frontex, dans ce contexte, pourrait- il intervenir face à ces différents acteurs. Il y a un fort risque de push back contre les pêcheurs artisanaux au motif qu’ils transportent des migrants. On court également le risque que Frontex devienne une sorte de « bras armé » pour les bateaux de pêche de l’Union européenne.

      Commémor’action (prières)

      Depuis 2021, la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      Ainsi nous comptons faire cet événement chaque année au Sénégal jusqu’à l’abolition définitive de Frontex.

      Nous ferons jaillir la lumière, au grand jour que la politique migratoire de Frontex en Afrique et particulièrement au senegal n’est que la face cachée de l’iceberg.

      Cette campagne a pour but de faire comprendre aux populations que l’agence européenne des soi-disant garde-côtes (Frontex) se déploie au Sénégal et de dénoncer comment l’UE collabore avec nos régimes complices tuant les personnes dans la méditerranée et dans les pays de transits."

      *Barça ou Barzahk (Barçelone ou la Mort) était le slogan des migrant*es lors de la « crise des pirogues » de 2006
      https://migration-control.info/fr/blog/journee-daction-a-72h-push-back-frontex

      #commémoraction #commémoration #mémoire #morts_aux_frontières #Dakar

    • OPEN PRESS DEPLOIEMENT DE FONTEX AU SENEGAL

      Boza fii était à sa deuxième édition du Push Back Frontex. Un évènement qui s’est déroulé du 10 au 12 aout à la commune de Dalifort Foirail (Dakar) sous le thème de : Laisser les personnes mourir ou les tuer ne doit pas être un moyen de #dissuasion.
      Au cours de ces 72h, un programme bien défini a été mis en place par l’association Boza fii, dans le cadre de sa lutte contre le déploiement Frontex au Sénégal et les formes d’externalisation des frontières de l’UE. Ce programme a débuté le jeudi 10 aout par une conférence de presse à laquelle la presse nationale et internationale ainsi que beaucoup d’organisation œuvrant pour le respect des droits de l’homme ont été conviés. Lors de cette conférence de presse plusieurs sujets sur la migration ont été abordés, notamment l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes côtes FRONTEX. L’ordre du jour était de discuter des questions concernant Frontex et son déploiement au Sénégal et d’apporter des éclaircissements depuis son implantation dans le pays jusqu’à nos jours.

      https://www.youtube.com/watch?v=gwL9FgjDxiM


      #Boza_fii

    • #Commission_LIBE, janvier 2024 :

      Victoire ! Adoption en Commission LIBE du rapport qui récuse le déploiement de Frontex au Sénégal.
      Le Sénégal ne veut pas de cet accord, mais l’UE veut le contraindre pour mener à bien son abject projet d’Europe forteresse. Une nouvelle atteinte grave aux droits des exilé•es.

      https://nitter.cz/DamienCAREME/status/1752763595144757520