• I documenti segreti della #Cia sul caso #Ilaria_Alpi

    L’Espresso ha ottenuto i rapporti inediti americani sul periodo in cui in Somalia fu uccisa la giornalista. Si parla di un’azienda molto pericolosa e di trafficanti italiani.

    Trentadue pagine, dodici documenti classificati “Secret” e “Top Secret”. Report in grado, dopo ventisei anni, di riportarci nelle strade di Mogadiscio poco prima del 20 marzo 1994, la data dell’agguato mortale contro Ilaria Alpi e #Miran_Hrovatin. Carte oggi declassificate dalla principale agenzia dell’intelligence statunitense, la Cia, dopo una richiesta dell’Espresso in base al Freedom of Information Act (Foia). Un anno e mezzo di istruttoria, una risposta per ora parziale, ma in grado di aggiungere elementi importanti al contesto somalo oggetto dell’ultimo reportage di Ilaria Alpi. Doveva andare in onda la sera di quel 20 marzo, non arrivò mai in Italia, se non per frammenti, filmati incompleti. I report Usa aprono una porta sul mondo che Ilaria seguiva durante il suo ultimo viaggio. Traffici di armi, società della cooperazione italiana, alleanze segrete.

    Mogadiscio, 1994. La sconfitta della missione Onu per riappacificare la Somalia era compiuta. È la storia di un fallimento lo scenario che ha visto l’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Roma, 2020. Le indagini per capire chi ha armato il commando di sei uomini sono ancora aperte. Movente, mandanti, esecutori: un foglio bianco.

    Mogadiscio era il crocevia di tante storie. Traffico di armi, prima di tutto. Razzi Rpg, Kalashnikov, munizioni di ogni tipo, un flusso inarrestabile che alimentava la guerra tra le due principali fazioni. Ali Mahdi, alleato con le forze Onu. Mohammed Farah Hassan, detto Aidid, il “vittorioso”, a capo delle forze islamiste. Quel mondo Ilaria lo conosceva come pochi suoi colleghi; si era laureata in lingua e cultura araba, con una lunga gavetta, prima di approdare alla Rai, raccontando il nord Africa, spesso in maniera rocambolesca. Delicata e profonda, nelle sue cronache. In grado di capire le sfumature, le alleanze che si nascondevano dietro l’apparenza. La giornalista giusta, per raccontare l’inferno. Un target per chi alimentava il caos.

    LA ROTTA DELLE ARMI

    #Mohammed_Aidid era il nemico numero uno della coalizione Onu quando la missione #Unosom inizia, con lo spettacolare sbarco dei Marines a Mogadiscio. Almeno in apparenza. Il 3 ottobre del 1993 i Rangers erano sulle sue tracce. Preparano una missione nel cuore di Mogadiscio, un’incursione che doveva durare pochi minuti, giusto il tempo per permettere a reparti speciali di catturare il signore della guerra. Tutto andò storto, i miliziani colpirono uno dei quattro elicotteri Black Hawk, uccidendo 19 soldati americani. Un’azione divenuta famosa con il film di Ridley Scott (“Black Hawk Down”)del 2001, icona cinematografica della sconfitta in Somalia.

    Da mesi la Cia era sulle tracce di Aidid, monitorando ogni suo spostamento. L’obiettivo fondamentale, per l’Onu e gli Stati Uniti, era individuarlo, ma anche capire chi finanziasse il capo della fazione islamista e da dove provenissero le armi utilizzate dalle sue milizie. In una nota del 18 settembre 1993, declassificata su richiesta dell’Espresso, gli analisti della Cia scrivono: «L’abilità del signore della guerra nel reperire nuove armi ha senza dubbio contribuito alle recenti indicazioni che Aidid si sente sicuro di vincere contro gli Stati Uniti e le Nazioni Unite». Dal mese di agosto del 1993 gli agenti statunitensi segnalavano un aumento di flussi di armi dirette alla fazione islamista. In realtà la Somalia fin dall’inizio della guerra civile era una vera e propria Santabarbara. Per anni il governo di Siad Barre - stretto alleato dell’Italia - aveva acquistato armi, creando magazzini letali nell’intero paese. L’Italia era stato uno dei principali fornitori, fin dai primi anni ’80. L’ex generale del Sismi Giuseppe Santovito - iscritto alla P2 - in un interrogatorio davanti all’allora giudice istruttore di Trento Carlo Palermo aveva raccontato delle ingenti forniture di armamenti al paese da sempre ritenuto come una e propria estensione geopolitica dell’Italia.

    Pochi mesi prima della morte di Ilaria Alpi e Miran Horvatin c’è una accelerazione. Aidid ha l’obiettivo - che ritiene raggiungibile - di far fallire la missione Onu, rimandando a casa i paesi della coalizione. Acquisire armi aveva un doppio scopo, spiegano le note Cia: essere pronti al combattimento, ma soprattutto convincere gli altri signori della guerra ad allearsi con gli islamisti.

    L’AIUTO SEGRETO ITALIANO

    Il primo ottobre 1993, due giorni prima di Black Hawk Down, a Washington arriva una nota dalla capitale somala: «Le rotte per la fornitura di armamenti, nascondigli e legami operativi delle forze di Aidid». Dal mese di settembre gli Usa avevano iniziato a monitorare le carovane che partivano dal lungo confine con l’Etiopia dirette nell’area di Mogadiscio, dove la situazione era divenuta estremamente critica: «Gli armamenti - che includono mortai e Rpg - sono trasportati lungo le strade che collegano Mogadiscio con Belet Weyne, Tigielo e Afgoi». L’obiettivo era chiaro: «Stanno pianificando di usare i mortai e gli Rpg contro Unosom».

    Nella stessa nota la Cia fornisce, per la prima volta, un’indicazione sulla rete logistica di appoggio alla fazione degli islamisti: «I supporter di Aidid stanno utilizzando la società Sitt, che è situata dall’altra parte della strada rispetto al compound Unosom. La società Sitt appartiene a Ahmed Duale “Hef”. (omissis) Commento: questa presenza è una minaccia per il personale Unosom e per chiunque entri nel compound». Duale e Sitt, due nomi da appuntare.

    Quando mancano quattro mesi all’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin la situazione a Mogadiscio diventa ancora più critica: «I compratori pro-Aidid stanno acquistando una inusuale grande quantità di munizioni», segnala la Cia in una nota del 23 novembre 1993. Un secondo report, con la stessa data, aggiunge un altro dettaglio: «C’è una consegna di armi e munizioni in una casa nel distretto Halilua’a di Mogadiscio, trasportata da un unico camion di produzione italiana, con sei casse di Ak-47, fucili di assalto Fal, quattro lanciatori di granata russi. L’origine del carico è ignota».

    IL DOPPIO GIOCO

    Per l’intelligence Usa, dunque, era la società Sitt lo snodo logistico utilizzato dai supporter di Aidid. «Una minaccia per l’Onu», scrivevano. Il nome era ben noto negli ambienti del contingente italiano. Appena due mesi prima della nota della Cia, la Sitt aveva inviato una serie di fatture per migliaia di dollari al comando Italfor relative alla fornitura di materiale di ogni tipo. Prima del conflitto la stessa società aveva operato come supporto logistico per la cooperazione italiana. A capo di quell’impresa, oltre all’imprenditore somalo Ahmed Duale, citato nella nota Usa, c’era Giancarlo Marocchino, trasportatore originario del Piemonte che operava in Somalia da anni. Fu lui ad intervenire per primo sul luogo dell’attentato mortale contro Alpi e Hrovatin. «Marocchino è stato un collaboratore che ho ritenuto affidabile fino a quando ho trovato le armi nel suo compound diffidandolo ufficialmente», racconta all’Espresso il generale Bruno Loi, a capo del contingente italiano fino al settembre 1993. «Ma per quanto riguarda la nota della Cia - prosegue Loi - mi stupisce che abbiano trovato questa minaccia senza fare nulla per eliminarla; c’è qualcosa che non quadra».

    L’INCHIESTA
    Sull’agguato del 20 marzo 1994 la Cia sostiene di non avere nessun record in archivio. Eppure l’ultima inchiesta di Ilaria Alpi si intreccia strettamente con quel traffico di armi diretto alla fazione di Aidid. Il 14 marzo 1994 i due reporter di Rai 3 arrivano a Bosaso, nel nord della Somalia. C’era un nome appuntato sul quaderno di Ilaria, la compagnia di pesca italo-somala Shifco. Una nave della società era ferma al largo della costa migiurtina, sequestrata dalle milizie locali. In un appunto del Sismi declassificato nel 2014 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini l’intelligence italiana racconta come quella compagnia, diretta da Said Omar Mugne - imprenditore somalo che aveva vissuto a lungo in Italia - proprio in quei mesi stava preparando il trasporto di un carico di armi «acquistato in Ucraina da tale Osman Ato, cittadino somalo naturalizzato statunitense, per conto del generale Aidid». Sulla Shifco e su Osman Ato la Cia ha risposto con la consueta formula: «Non possiamo confermare o smentire l’esistenza o la non esistenza di record». La questione, in questo caso, sembra avere ombre di segreto ancora oggi.

    “CROGIOLO DI MENZOGNE”
    Per il generale Bruno Loi la Somalia è ancora una ferita aperta: «Eravamo pronti a catturare Aidid nel giugno 1993 - racconta - avevamo il consenso del governo italiano, ma Unosom ci bloccò». Il fallimento di quella missione, spiega, va cercata nelle stesse regole di ingaggio delle Nazioni Unite: «L’Onu non ha capito che la democrazia non si esporta, ma si costruisce con anni di supporto», commenta Loi. E forse il caso Alpi rimane una ferita aperta perché è bene non entrare in quel labirinto senza fine della missione nel corno d’Africa: «La Somalia è stata un crogiolo di bugie, menzogne, disinformazione», spiega Loi, ventisei anni dopo. E di segreti che durano ancora oggi.

    https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/08/18/news/ilaria-alpi-cia-documenti-1.352110
    #journalisme #assassinat #Somalie #armes #trafic_d'armes #commerce_d'armes

  • Commerçants Versus Réalité
    http://carfree.fr/index.php/2020/08/12/commercants-versus-realite

    En matière de mobilité, on sait depuis longtemps que les commerçants sont déconnectés de la réalité, une étude récente réalisée par des étudiants de l’Université Libre de #bruxelles (ULB) en Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Fin_de_l'automobile #Marche_à_pied #Vélo #aménagement #Belgique #commerce #piétonnisation #piétons

  • L’accord de tous les dangers entre le #Kenya et les États-Unis
    https://www.cetri.be/L-accord-de-tous-les-dangers-entre

    Depuis le 8 juillet dernier, le Kenya négocie officiellement un accord de #Libre-échange avec les #États-Unis, concrétisant un engagement pris en février par le président Uhuru Kenyatta et son homologue américain, Donald Trump. Problème : cet accord compromet les (déjà difficiles) efforts d’intégration régionale et risque à terme de pénaliser l’économie et la population kenyanes. En Afrique, un mélange d’incrédulité et d’irritation a accueilli la nouvelle du lancement des négociations entre les États-Unis et (...) #Le_regard_du_CETRI

    / Kenya, États-Unis, #Le_regard_du_CETRI, #Le_Sud_en_mouvement, Libre-échange, #Commerce, #Analyses, Homepage - Actualités à la (...)

    #Homepage_-_Actualités_à_la_une

  • L’Élysée, le plus grand symbole à Paris du passé esclavagiste de la France
    https://www.franceculture.fr/histoire/lelysee-le-plus-grand-symbole-a-paris-du-passe-esclavagiste-de-la-fran

    Trois siècles après sa construction financée par un négrier, l’Élysée est un des derniers grands témoignages à Paris de l’histoire du commerce colonial. Les autres bâtiments prestigieux occupés par des esclavagistes ont disparu ou sont tombés dans l’oubli. Un travail de mémoire reste à accomplir.

    Sans un négrier, Antoine Crozat, le palais de l’Élysée n’aurait pas été édifié en 1720, avant d’être occupé par la marquise de Pompadour, Napoléon et depuis plus d’un siècle maintenant par les présidents de la République. 

    L’homme le plus riche de France au début du XVIIIe siècle, selon Saint-Simon, en a financé la construction pour le compte de son gendre, Louis-Henri de la Tour d’Auvergne, dans le cadre d’une stratégie, en vue d’intégrer la haute société aristocratique. 

    Antoine Crozat à la direction de la Compagnie de Guinée, l’une des plus importantes sociétés de commerce triangulaire, a bâti sa fortune en obtenant en 1701 le monopole de la fourniture en esclaves de toutes les colonies espagnoles. 

    Mais il n’est pas le seul grand acteur à l’époque. 
    A Paris, le Club de l’hôtel de Massiac, société de colons de Saint-Domingue et des Petites Antilles défend ses intérêts dans un bâtiment qui a disparu comme beaucoup d’autres, depuis les travaux haussmanniens, depuis les transformations de la capitale en profondeur, à partir de 1853 sous le second Empire. Bâtiment sur la place des Victoires remplacé par l’hôtel de L’Hospital. Alors que les stigmates de l’esclavage sont encore nombreux aujourd’hui dans l’urbanisme des anciens ports négriers, Bordeaux et Nantes, notamment. 

    Reste le Palais de l’Élysée, mais aussi et dans une certaine mesure la Banque de France et la Caisse des dépôts.
    L’ancien président du Conseil représentatif des associations noires (Cran), Louis-Georges Tin, a demandé au chef de l’Etat Emmanuel Macron, le 13 juillet dernier dans Libération, le lancement d’une enquête pour mettre en lumière tous les liens entre l’esclavage colonial et les grandes institutions de la République. 

    La Fondation pour la mémoire de l’esclavage, mise en place le 12 novembre 2019, doit travailler avec la ville de Paris à la création d’un monument et d’un lieu muséal dédiés. 

    L’historien Marcel Dorigny, membre du comité scientifique de cette fondation, plaide pour un mémorial et milite pour des explications aux quatre coins de la capitale où le passé colonial et esclavagiste est omniprésent. 

    Le palais de l’Élysée s’est construit sur le dos d’esclaves
    Le Toulousain Antoine Crozat, l’homme le plus riche de France au début du XVIIIe siècle, selon le courtisan et mémorialiste Saint-Simon, est un parvenu aux yeux de ses contemporains, un financier et négociant cupide, engagé dans toutes les affaires pouvant rapporter gros, à commencer par la traite négrière.

    C’est sur décision du roi Louis XIV que cet homme né roturier prend la direction de l’une des plus importantes sociétés du commerce triangulaire créée en 1684, la Compagnie de Guinée, avec pour mission d’acheminer du port de Nantes, le plus grand nombre possible d’esclaves noirs vers Saint-Domingue et de remplacer sur l’île, le tabac par le sucre.


    Le monopole qu’il obtient à partir de 1701 sur la fourniture d’esclaves aux colonies espagnoles, permet à Antoine Crozat d’amasser une fortune colossale.

    L’auteur d’une biographie intitulée Le Français qui possédait l’Amérique. La vie extraordinaire d’Antoine Crozat, Pierre Ménard, évalue sa fortune en 1715, à la mort de Louis XIV, à 20 millions de livres, soit près de 300 milliards d’euros !

    De quoi acheter des châteaux par dizaines, de posséder un hôtel particulier dans sa ville de Toulouse et d’en acquérir un autre, prestigieux, sur l’actuelle place Vendôme, à l’endroit où se trouve maintenant le Ritz.

    Quoique richissime, Antoine Crozat est maintenu à l’écart du système d’honneurs, moqué pour son inculture et sa vulgarité par la noblesse qui ne le fréquente que pour lui emprunter de l’argent.

    Et c’est grâce à sa fortune bâtie sur la traite négrière qu’il s’ouvre les portes de l’aristocratie, en mariant sa fille alors qu’elle n’a que 12 ans - à Louis-Henri de la Tour d’Auvergne, le comte d’Evreux.

    Ce membre de la haute noblesse française, gouverneur de l’Île-de-France, profite de son beau-père en bénéficiant d’une dot de 2 000 000 de livres pour se faire construire un hôtel particulier, l’hôtel d’Évreux, qui prendra le nom d’hôtel de l’Élysée à la toute fin de l’Ancien Régime.
    . . . . . . .
    La traite négrière est une des activités principales de tous ceux qui font du commerce maritime international, sachant que la France à ce moment-là, en plein essor colonial, vient de mettre la main sur la Louisiane. Au début du XVIIIe siècle, le Portugal est la plus grande puissance négrière, mais la France n’est pas trop mal placée, en arrivant en quatrième position, après l’Espagne et l’Angleterre. On dirait de nos jours qu’il s’agit de fortunes mal acquises puisque le commerce colonial repose sur l’importation dans les colonies d’esclaves noirs achetés sur les côtes africaines et sur le commerce de produits coloniaux : le café, le sucre, l’indigo... qui sont très demandées en France d’abord, puis dans toute l’Europe et qui sont le fruit du travail des esclaves. Mais pour la France, comme pour l’Angleterre, cette exploitation n’est possible qu’à l’extérieur du sol européen. Il n’y a pas et de longue date d’esclaves en France. C’est la devise de la monarchie : la terre de France rend libre !

    Dans les colonies, en revanche, l’esclavage va très tôt être introduit, selon une double législation.

    Les lois qui sont valables en métropole ne le sont pas dans les colonies.

    Et comme l’esclavage est une des sources de richesse du royaume, Marcel Dorigny assure qu’il n’est pas du tout déshonorant de le pratiquer, à l’époque :

    Les négriers ont pignon sur rue, ils acquièrent des titres de noblesse, des châteaux, ils vont à la cour du roi, ils font des bals, ils font des fêtes, ils font des concerts, ils s’offrent des hôtels particuliers dans Paris... et pourquoi ne le pourraient-ils pas ? Non seulement leur activité est légale, mais elle est favorisée ! Il y a d’abord tout un appareil législatif et ensuite tout un appareil fiscal pour l’encourager, afin de satisfaire un besoin de main-d’œuvre, dans la crainte alors d’un effondrement des colonies. Entre 1740 et 1780, de 80 000 à 90 000 esclaves traversent chaque année l’Atlantique, c’est évidemment énorme ! C’est une ponction sur la population africaine !
    . . . . .
    La Banque de France et la Caisse des dépôts ont joué un rôle crucial dans l’histoire du commerce colonial.

    La Banque de France se trouvait dans une des ailes de l’ancienne Bibliothèque nationale, rue Vivienne, dans le deuxième arrondissement de Paris, dans les locaux de la Bourse où s’achetaient et se vendaient les actions des compagnies de commerce et des navires.

    Le commerce négrier nécessitait de très gros investissements et beaucoup de Français y ont participé, explique l’historien Marcel Dorigny :

    Les armateurs ne prenaient pas les risques seuls. Le capital était dilué. Le lancement d’une expédition négrière passait par la création d’une société en commandite, soit aujourd’hui une société par actions. Les parts étaient vendues dans le public. Des milliers de personnes, en obtenant des revenus de leurs investissements, participaient donc aussi à la traite négrière. Des milliers de personnes y compris Voltaire qui a pourtant écrit des textes très puissants pour dénoncer l’esclavage...

    La Caisse des dépôts, toujours installée près de l’Assemblée nationale, est liée également aux capitaux issus de l’esclavage, ajoute Marcel Dorigny :

    Quand la colonie de Saint-Domingue en 1801 devient la république d’Haïti, la première république noire fondée par d’anciens esclaves, la France cherche à obtenir des réparations financières et reconnait en 1825 l’indépendance du territoire sous condition qu’Haïti rembourse aux colons leurs propriétés à Saint-Domingue. Ce que l’on appelle la dette de l’indépendance. La Caisse des dépôts, chargée des dossiers d’indemnisation, a géré les fonds transmis par la république d’Haïti jusqu’en 1883 et a largement profité de ces capitaux énormes pour des investissements, avant de les restituer aux anciens colons !

    Et parmi les hôtels particuliers d’origine coloniale, l’un d’entre eux à la Chaussée d’Antin dont il ne reste plus de trace a servi de résidence à Thomas Jefferson, pour mener « un train de vie assez somptueux », tient à remarquer Marcel Dorigny :

    Thomas Jefferson, ce grand personnage, troisième Président américain au début du XIXe siècle, rédacteur de la déclaration d’indépendance des Etats-Unis, mais en même temps propriétaire de centaines d’esclaves en Virginie...

    #Élysée #France #esclaves #esclavage #esclavagisme #Paris #Antoine_Crozat #commerce_colonial #commerce_triangulaire
    #Banque_de_France #Caisse_des_dépôts #tabac #sucre #Traite #Saint-Domingue #Haïti

  • Travail des enfants en Côte d’Ivoire : des plantations Fairtrade concernées
    https://www.rtbf.be/info/monde/detail_travail-des-enfants-en-cote-d-ivoire-des-plantations-fairtrade-concernee

    Une enquête de la télévision danoise l’affirme. Le travail des enfants dans les plantations de cacao certifiées Fairtrade en Côte d’Ivoire est bien réel.

    Ce label sur les bananes, le café ou encore le chocolat oblige les producteurs à répondre à certaines règles et notamment à ne pas recourir au travail des enfants.
    La chaîne TV 2 et le média d’investigation Danwatch ont tourné en caméra cachée dans plusieurs exploitations.
    Dans 4 des 6 plantations qu’ils ont visitées, ils ont trouvé des enfants travaillant entre les palmiers.
    Leur interview fait froid dans le dos. Marcelin, 14 ans, explique qu’il bosse 11 heures par jour.

    Diffusées au Danemark, les images ont choqué plus d’une personne et notamment les commerçants dont les boutiques vendent du chocolat ivoirien étiqueté Fairtrade.
    Dorthe Pedersen en est encore bouleversée. « C’est horrible. Je suis tellement émue de savoir que les enfants travaillent dans ces conditions » a-t-elle témoigné au micro des journalistes de TV2.

    Interrogée sur cette pratique, Camilla Erika Lerberg, la PDG de Fairtrade Danemark a déclaré : « Cette affaire est très, très triste, donc nous l’examinons avec gravité. Il est important pour nous de réagir et de corriger cela immédiatement. L’affaire fait toujours l’objet d’une enquête et nous essayons de comprendre ce qui s’est passé. En général, je tiens à dire que si nous recevons une observation du travail des enfants, et qu’elle est confirmée, alors nous avons un dialogue avec la famille de cet enfant, ensuite nous observerons si cela continue et si cela continue, nous procédons à une décertification. »

    Rappel des règles
    Les Standards Fairtrade pour les organisations de petits producteurs, les travailleuses et les travailleurs ainsi que les négociants interdisent le travail abusif des enfants.

    Chez Max Havelaar par exemple, il est clairement stipulé :

    – Il est interdit d’employer des enfants de moins de 15 ans au sein des organisations certifiées Fairtrade/Max Havelaar.

    - Les enfants de 15 à 18 ans ne peuvent pas réaliser un travail mettant en péril leur scolarité ou leur développement social, moral ou physique.

    – L’aide éventuelle dans les fermes familiales, courante dans le secteur agricole, doit être ponctuelle et adaptée à l’âge des enfants. Elle doit impérativement se faire en dehors des heures de classe et pendant les vacances. Dans ces conditions seulement, elle respecte les exigences de l’Organisation Internationale du Travail.
    Rien de neuf sous le soleil

    Le travail des enfants en Côte d’Ivoire, où on produit la majeure partie du cacao mondial, n’est pas un problème inconnu.

    En 2010, l’industrie du chocolat a collectivement signé une déclaration disant qu’elle améliorerait les conditions dans les plantations de cacao en Afrique de l’Ouest et réduirait le travail des enfants de 70% jusqu’en 2020.

    Seulement voilà, un rapport des chercheurs de l’Université de Chicago publié en avril dernier et financé par le département américain du Travail souligne que le recours au travail des enfants dans les plantations de cacao au Ghana et en Côte d’Ivoire a augmenté de 10% au cours de la dernière décennie, et ce, malgré les promesses de l’industrie.

    Plus précisément, le nombre d’enfants-travailleurs dans les plantations de cacao s’élevait à près de 2,1 millions la saison dernière dans les deux pays. Ce chiffre comprend des enfants de moins de 12 ans et des enfants également plus âgés dont le travail est dangereux et dépasse un certain nombre d’heures.

    Un niveau en hausse par rapport à 2010 lorsque Mars, Hershey, Nestlé et Cargill s’étaient engagés à baisser de 70% les pires formes de travail des enfants dans leurs chaînes d’approvisionnement dans la région d’ici 2020.

    Des chiffres qui s’expliqueraient par l’augmentation des prix et de la production de fèves qui poussent les agriculteurs à produire toujours davantage de cacao. Une tendance confirmée par le patron de la World Cocoa Foundation (WCF), au site Commodafrica. Richard Scobey, représentant des entreprises telles que Nestlé et Hershey, reconnaît que l’industrie n’est pas sur le point d’atteindre son objectif de 2020.

    Le Ghana et la Côte d’Ivoire produisent les deux-tiers de l’ensemble du cacao mondial. La production de cacao dans ces pays est passée à 3 millions de tonnes l’an dernier, contre 2,65 millions de tonnes en 2013-2014. Un secteur en expansion qui fournit des moyens de subsistances à des milliers de communautés dans le besoin.

    #Afrique #Enfants #travail_des_enfants #exploitation #esclavage #chocolat #cacao #certification #commerce_équitable #Fairtrade #multinationales #label #déforestation #industrie_agro-alimentaire #agriculture #multinationales #pauvreté #bananes #café #Mars #Hershey #Nestlé #Cargill #World_Cocoa_Foundation #WCF

    • Le dernier des Ouïghours et les derniers des journalistes Maxime VIVAS
      https://www.legrandsoir.info/le-dernier-des-ouighours-et-les-derniers-des-journalistes.html

      Voulez-vous soulever une vague mondiale d’indignation contre un pays ? Vous affirmez que les hommes y sont massivement emprisonnés et torturés, voire exécutés en catimini, que les femmes y sont stérilisées de force et qu’on y supplicie les enfants. C’est ce que vient de faire, ce que fait, ce que va continuer de faire la presse mondiale, agissant en porte-voix de quelques journaux états-uniens inspirés en sous-main par des officines de la Maison Blanche.

      Qu’il n’y ait pas un mot de vrai dans la campagne antichinoise sur les Ouïghours importe peu. Il suffit de prétendre, d’affirmer. L’information circule, les journaux se lisent entre eux, les politiques s’en mêlent. C’est faux mais plausible : Chine insondable, Chinois impénétrables derrière la fente de leurs yeux. Vous me suivez bien, vous qui êtes pour la plupart normaux, pardon : #blancs ?

      #Bruno_Le_Maire et #Clémentine_Autain sont #indignés et le font vertueusement savoir.
      C’est tout mensonge, mais le mal est fait. Ce n’est qu’après la destruction de l’#Irak et après des centaines de milliers de morts innocents que toute la presse concède que les informations sur les couveuses débranchées au #Koweit par les soudards de Saddam Hussein étaient inventées, que la fiole brandie par #Colin_Powell à l’#ONU contenait du pipi de son chat ou du sable de sa litière ou de la poudre de perlimpinpin et non des Armes de Destruction Massives qui risquaient d’avoir raison des USA, de la Grande-Bretagne et (horreur !) de la France.

      J’ai écrit plus haut qu’il n’y a « pas un mot de vrai dans la campagne antichinoise sur les Ouïghours ». La prudence ne voudrait-elle pas que je nuance : « Bien des choses sont inexactes dans la campagne antichinoise sur les Ouïgours ». Ou : « Certes, les Chinois ne sont pas des enfants de chœur, mais doit-on prendre au pied de la lettre les articles de Libération ? », ou encore : « Le problème que le régime chinois appelle « les trois fléaux » (terrorisme, séparatisme, fondamentalisme) est une réalité qu’on ne saurait nier, mais cela justifie-t-il une répression d’une telle ampleur ? ».

      Mais, tenez-vous bien, je persiste : « Il n’y a pas un mot de vrai dans la campagne antichinoise sur les Ouïghours » . Non, trois fois non, un ou deux millions de Ouïghours mâles (trois d’après Radio Free Asia) ne sont pas internés(1), les femmes ne sont pas stérilisées de force pour éteindre l’ethnie, les enfants ne sont pas tués pour prélèvement d’organes vendus à l’Arabie saoudite, Beijing n’est pas en guerre contre cette région autonome qui fait au contraire l’objet de toutes ses attentions, de toutes ses faveurs.

      J’ai écrit que « cette région autonome fait au contraire l’objet de toutes les attentions, de toutes les faveurs de Beijing. » ? La prudence ne voudrait-elle pas que je nuance : « Beijing gère ses régions avec l’autorité naturelle des communistes et le Xinjiang ne fait pas exception », ou : « Même si Beijing a mis le Xinjiang sous surveillance, des efforts financiers indéniables ont été consentis pour développer cette région, point de départ de « La nouvelle route de la soie ».

      Mais, continuez à bien vous tenir, j’insiste : « Cette région autonome fait l’objet de toutes les attentions, de toutes les faveurs de Beijing. »

      Je le dis aujourd’hui, en juillet 2020, avec la même assurance (inconscience ?) qui me fit écrire un livre en 2007 sur une idole alors aussi intouchable que #Nelson_Mandela. Je parle d’un type qui est aujourd’hui maire de #Béziers, élu avec le renfort du Front National.

      Je le dis aujourd’hui, en juillet 2020, avec la même certitude que celle qui me fit écrire un livre en 2011 sur une idole alors aussi intouchable que #Ghandi. Je parle de l’ancien bourreau du Tibet : le #dalaï_lama.

      Ça, c’est pour le passé. Je peux aussi performer sur le futur. Par exemple, j’ai une petite idée sur le passage de #Yannick_Jadot et #julien_Bayou dans le rang des ennemis de l’écologie, lesquels ont toujours un plat de lentille à offrir aux ambitieux peints en vert. Mais là n’est pas le sujet (j’en parle juste pour prendre date, pour triompher dans quelque temps : « Qui sait-y qui l’avait dit ? »).

      Un peuple qui oublie son passé est condamné à le revivre (Marx), un journaliste qui ne relit pas les #infaux de ses confrères est condamné à toujours utiliser les mêmes versions, ignorant que le truc a déjà été fait, à l’identique.

      Les journalistes se lisent entre eux (« La circulation circulaire de l’information ». Bourdieu). Mais parfois le psittacisme ne marche pas, des journalistes qui ont d’eux-mêmes une opinion qui les oblige à échapper aux caquetage des perroquets, se démarquent.

      Tenez, en 2010, j’étais au Tibet avec deux grands reporters des deux plus grands (par le tirage) quotidiens français : le Monde et le Figaro. J’en ai souvent parlé dans ces colonnes parce qu’il s’est passé un phénomène surprenant. Nous savions tous les trois (car nous lisons la presse et nous avons un autoradio et la télé) que le gouvernement de Beijing se livrait à un génocide au Tibet, que la culture était éradiquée et la religion férocement combattue. 
Ne me dites pas que vous ne le saviez pas vous aussi. « Free Tibet », vous ne découvrez pas en me lisant, là.

      Robert Ménard (aujourd’hui maire de la ville où naquit Jean Moulin) nous avait expliqué le drame tibétain en perturbant à Paris le passage de la flamme olympique pour les JO 2008 de Pékin. Le type qu’on voit avec lui dans les vidéos de l’époque, en t-shirt noir portant en sérigraphie 5 menottes symbolisant les 5 anneaux olympiques, c’est Jean-François Julliard qui a succédé à Ménard à la tête de RSF avant de devenir directeur général de Greenpeace France, fonction qui fait de lui un invité régulier des amphis d’été de LFI. Comprenne qui pourra (2).

      Donc on est au Tibet, mes deux comparses s’envoient des vannes rigolardes, l’un demandant à l’autre quel effet ça fait d’appartenir à des banquiers, l’autre répondant que le ressenti est sans doute le même que celui des journalistes qui sont la propriété d’un marchand d’armes. Ils sont allés voir sur Internet qui je suis. Ils m’épargnent. Je suis là, auréolé du prestige guerrier du Grand Soir, média rigoureux, fiable et qui frappe fort. Et sur qui le mérite. Message reçu jusque dans les montagnes tibétaines.

      Bref, tous les trois, ensemble, chacun sous le regard des autres, nous voyons le Tibet avec sa religion omniprésente, les temples pleins, les monastères grouillant de moinillons, les prières de rues, les montagnes souillées par des grossières peintures bouddhistes, des chapelets de drapeaux de prière claquant au vent. Un envahissement bigot jusqu’à la nausée pour l’athée que je suis.

      Tous les trois, ensemble, chacun sous le regard des autres, nous voyons les écoles où l’enseignement est fait en tibétain (jusqu’à l’université), nous voyons les panneaux indicateurs, les enseignes, les noms des rues rédigés en tibétain, ainsi que les journaux. La télé et la radio parlent le tibétain. Le doyen de l’université de LLassa nous montre une salle contenant des dizaines de milliers de livres en tibétain. Nous assistons aussi à des spectacles (danses, chants) tibétains.

      Tous les trois, ensemble, chacun sous le regard des autres, nous voyons des couples de tibétains accompagnés d’enfants (pas d’UN enfant). La politique de l’enfant unique n’a jamais été imposée au Tibet. D’où une explosion démographique favorisée par le quasi doublement de l’espérance de vie après la fuite du dalaï lama.

      De retour en France, tous les trois, chacun sachant que les autres vont le lire, nous écrivons ce que nous avons vu. Le croirez-vous, aucun n’a écrit que « le régime de Pékin » se livrait à un génocide, éradiquait la culture tibétaine et réprimait les bouddhistes ? Et puisque j’en suis aux confidences, je vous dirai que le journaliste du Figaro m’a envoyé son article et m’a demandé ce que j’en pensais (du bien, d’ailleurs). Le croirez-vous, les gens avec qui j’ai aujourd’hui l’occasion de parler de la Chine doivent surement tous lire Libération parce qu’ils m’expliquent tranquillement que les bouddhistes sont pourchassés dans un malheureux Tibet génocidé où parler le tibétain et prier c’est s’exposer à la prison ?

      Et maintenant, continuez à bien vous tenir, je prétends que si je partais au Xinjiang avec les deux grands reporters du Monde et du Figaro, chacun marquant l’autre « à la culotte », aucun n’écrirait au retour que Beijing se livre à un génocide contre les Ouïghours, brime leur religion, éradique leur culture, charcute les enfants.
Parce que ce n’est pas vrai.
Un peu quand même ? 
Non, pas du tout.
Les charniers de #Timisoara n’étaient pas vrais « un peu » . Les Gilets jaunes n’ont pas envahi « un peu » l’hôpital de la Pitié-Salpétrière, Nicolas Maduro n’a pas été « un peu » élu contre Juan Guaido (qui n’était pas candidat, je le rappelle aux distraits), etc. (3).

      Si je partais au #Xinjiang (j’y suis allé deux fois) avec Renaud Girard et Rémy Ourdan, ils s’affranchiraient des informateurs yankees et autres menteurs professionnels, ils se distingueraient de leurs confères qui écrivent des articles d’une telle débilité qu’ils sont des insultes aux lecteurs, des crachats sur la charte des journalistes. Ils feraient leur job en se respectant.

      #Beijing hait les enfants #ouïghours jusqu’à les tuer pour prélèvement d’organes ? C’est #Goebbels qui vous le dit. Il peut même faire témoigner (de dos) un chirurgien masqué dont le nom a été changé et la voix modifiée. Goebbels peut pondre un article terrifiant à coups de conditionnels, de « selon des témoins… », de « certaines sources affirment… », de « il semblerait que…. », de « un diplomate aurait constaté », « des Ouïghours auraient disparu… » de « des organisation de défense des droits de l’homme… ». Un conditionnel dix fois répété devient un indicatif certifié.

      La caisse dans laquelle le félin #Goebbels se soulage volontiers s’appelle #Libération.

      Il y a quelques années, Le Grand Soir avait démontré qu’un article traficoté de Libération avait fait de Hugo Chavez un antisémite (« Le Credo antisémite de Hugo Chavez » https://www.legrandsoir.info/chavez-antisemitisme-et-campagne-de-desinformation-a-propos-d-un-artic ).

      Un échange vigoureux et public avait alors eu lieu entre Le Grand Soir et Libération. Nous avions les preuves, nous les avons fournies. Irréfutables. Nous avons mis en regard la phrase de Chavez et la même, après troncature par Libération. Libération ergota (4). Pour ses lecteurs, Chavez est donc resté un antisémite. Pour les lecteurs des autres médias aussi, qui choisirent de se taire pour ne pas désavouer Libération. Le clan, la #mafia

      Le journaliste coupable de cette crapulerie est #Jean-Hébert_Armengaud, promu depuis rédacteur en chef de #Courrier_International et son N+1 à Libé, qui l’a couvert jusqu’au bout, est #Pierre_Haski, aujourd’hui chroniqueur tous les matins sur #France_Inter . Promotions au mérite.

      Alors, je le redis ici en invitant mes lecteurs à vérifier : les Ouïghours et les #Tibétains sont de plus en plus (et spectaculairement) nombreux, leur culture est préservée et promue comme jamais dans leur Histoire, leur religion est (trop) libre, l’instruction fait des progrès considérables, les deux républiques autonomes du Xinjiang et du #Tibet votent des lois dont aucune ne permet d’encager les citoyens au simple motif de leur croyance, de stériliser de force les femmes ou d’amputer les enfants.

      Pour répondre plus avant à la déferlante de mensonges sur le Xinjiang, il me faudrait citer des pages entières de mon livre « Le dalaï lama pas si zen » . On pourrait croire que les instigateurs des campagnes mondiales de mensonges ont un logiciel unique avec des cases sur lesquelles cliquer pour que ça démarre.

      La #stérilisation ? « Des villages entiers » (Voir les Mémoires du dalaï lama, longuement citées dans « Le dalaï lama, pas si zen »). 
Le #génocide ? « Observateur critique de la politique chinoise, le Britannique Patrick French, directeur de la « Free Tibet Campaign » (Campagne pour l’indépendance du Tibet) a pu consulter les archives du gouvernement du Dalaï-Lama en exil. Il a découvert que les preuves du génocide étaient des faux et il a démissionné de son poste » (« Le dalaï lama, pas si zen »).

      Cependant, la publicité faite en Occident à cette affaire d’extermination (par la stérilisation et des massacres) de la population tibétaine, a largement contribué hier à un élan de compassion pour le Tibet et le bouddhisme. Aujourd’hui les mensonges « hénaurmes » sur le Xinjiang font pleurnicher les gogos, soudain épris de cette région dont ils seraient bien en peine de citer la Capitale (5).
Ce n’est pas Laurent Joffrin, Pierre Haski, Jean-Hébert Armengaud qui le déploreront.

      Je ne sais pas à qui pense l’excellente humoriste #Blanche_Gardin quand elle affirme (un peu trop crument pour être citée par un site de bonne tenue comme Le Grand Soir) que « Nous vivons dans un pays où les journalistes sucent plus de bites que les prostituées ».

      Maxime VIVAS

      Notes. 
(1) Si l’on rapporte le chiffre de #Radio_Free_Asia au nombre de Ouïghours mâles adultes, il n’en reste pas un dans les rues. Or, continuez à vous tenir bien : j’en ai vus !
      
(2) Il serait injuste de ne pas mentionner les positions exemplaires( et dignes d’un chef d’Etat) de Jean-Luc Mélenchon sur la Chine. Au demeurant, je lui sais gré de me citer et d’inviter ses contradicteurs à me lire ici et ici sur ce sujet où nous sommes synchrones, même si j’ai une liberté d’expression qu’il ne peut avoir. 

      (3) Anecdote personnelle. Me trouvant avec mon fils aîné au commissariat de police de Toulouse le samedi 4 mai 2020 pour nous enquérir du sort de mon fils cadet, Gilet jaune arrêté pour rien dans la manif (Il fut jugé en « comparution immédiate » et acquitté après 42 heures de #GAV) nous apprîmes qu’il s’était tailladé les mains pour écrire avec son sang sur les murs de sa cellule. Nous avons vécu avec cette information terrifiante (que nous cachâmes à sa mère) jusqu’au lundi 6 mai où, devant le tribunal, il apparut, les mains intactes. Il ne se les était même pas « un peu » tailladées. L’automutilation des mains était aussi vraie que l’amputation des enfants ouïghours. Nombre de #journaleux ont un flic dans leur tête.
      
(4) J’aime à raconter cette histoire du Figaro écrivant qu’un film de #Jean_Yanne était « un monument de bêtise ». Jean Yanne s’en servit ainsi dans ses pubs : « Le Figaro : « un monument ! ».
      
(5) #Urumqi, 2 millions d’habitants.
      #merdias #journullistes #médias #propagande #us #usa #Jamestown_Foundation #libération

  • L’Afrique francophone face au e-commerce à l’OMC
    https://www.cetri.be/L-Afrique-francophone-face-au-e-5324

    L’intervention de Cédric Leterme, chargé d’étude au CETRI, lors de la visio-conférence organisée par le South Centre de Genève, sur les règles du #Commerce électronique en discussion à l’OMC et leurs implications pour les pays en développement (22 mai 2020). Pourquoi l’Afrique francophone a plus à perdre qu’à gagner dans ces négociations : > L’article de Cédric Leterme sur les négociations : L’Afrique francophone face au e-commerce à l’OMC > Pour un panorama des #Enjeux_numériques au Sud, voir le dernier (...) #Le_regard_du_CETRI

    / #Le_regard_du_CETRI, #Le_Sud_en_mouvement, #Afrique_subsaharienne, Moyen-Orient & Afrique du Nord, Commerce, Enjeux numériques, #Video, Homepage - Actualités à la (...)

    #Moyen-Orient_&_Afrique_du_Nord #Homepage_-_Actualités_à_la_une
    https://www.cetri.be/IMG/mp4/ecommerce_en_afrique_final_.mp4

  • Google Takes Aim at Amazon. Again. - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2020/07/23/technology/google-ecommerce-amazon.html

    On Thursday, Google announced that it would take steps to bring more sellers and products onto its shopping site by waiving sales commissions and allowing retailers to use popular third-party payment and order management services like Shopify instead of the company’s own systems. Currently, commissions on Google Shopping range from a 5 percent to 15 percent cut depending on the products.

    Google is usually the starting point for finding information on the internet, but that is often not the case when consumers are searching for a product to buy. More consumers in the United States are turning first to Amazon to find products that they plan to purchase. This has allowed Amazon to build a rapidly growing advertising business, which is a threat to Google’s main financial engine.

    Google announced in April that it would allow anyone to list products for free on its shopping site, reversing its previous policy of requiring sellers to buy an ad for products to appear. The company also announced that those free listings would appear on its search results. By eliminating the cost of listing and selling products, Google aims to make it more appealing for retailers to put products in front of the search engine’s enormous user base.

    In an interview, Mr. Ready said most retailers were already lagging behind in e-commerce before the pandemic hit. And as more consumers moved to shop online in recent months, the gap has widened with much of the growth in online sales swallowed by a handful of players.

    #Google #Amazon #Commerce_électronique

  • Le regain des petits commerçants
    https://laviedesidees.fr/Fleury-Delage-Endelstein-Dubucs-Weber-Petit-commerce-ville-monde.html

    À propos de : Antoine Fleury, Matthieu Delage, Lucine Endelstein, Hadrien Dubucs, Serge Weber (dir.), Le Petit #commerce dans la ville-monde, éditions l’œil d’or. Lieu d’échanges et de ressources, le petit commerce occupe un rôle essentiel dans la fabrique urbaine. Un collectif de géographes examine son renouvellement et ses stratégies d’adaptation face au changement urbain des métropoles.

    #Société #mondialisation #banlieue
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20200722_chabaultpetitcommerce.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20200722_chabaultpetitcommerce.docx

  • Le passé nauséabond de l’industrie textile suisse

    Bien qu’elle n’ait pas eu de colonies, la Suisse a profité du colonialisme. C’est ce que montre l’histoire des #indiennes_de_coton imprimé. Le commerce de ces #tissus colorés avait des liens avec l’#exploitation_coloniale, le #prosélytisme_religieux et le #commerce_des_esclaves.

    Au 17e siècle, le #coton imprimé venait d’#Inde – la seule région possédant le savoir-faire nécessaire. Mais bientôt, cette technique de production d’étoffes imprimées de couleurs vives fut copiée par les Britanniques et les Néerlandais qui, grâce à la mécanisation, les produisaient à meilleur prix. Ils supplantèrent l’industrie textile indienne. Les « indiennes » claires et abordables produites en Europe connurent une telle vogue que, sous la pression des producteurs de laine, de soie et de lin, Louis XIV, le Roi-Soleil, dut interdire leur production et leur importation.

    Cette interdiction fut une aubaine pour la Suisse du 17e siècle. Des #huguenots français qui s’étaient réfugiés en Suisse pour fuir les persécutions religieuses dans leur pays fondèrent des #usines_textiles à #Genève et à #Neuchâtel, d’où ils pouvaient écouler les indiennes en France par #contrebande. La demande atteignait alors un sommet : en 1785, la #Fabrique-Neuve de #Cortaillod, près de Neuchâtel, devint la plus grande manufacture d’indiennes d’Europe, produisant cette année-là 160’000 pièces de #coton_imprimé.

    Le boom en Suisse et le commerce des esclaves

    Le commerce des indiennes a apporté une énorme prospérité en Suisse, mais il avait une face obscure : à l’époque, ces étoffes étaient utilisées en Afrique comme monnaie d’échange pour acheter les #esclaves qui étaient ensuite envoyés en Amérique. En 1789 par exemple, sur le #Necker, un navire en route pour l’Angola, les étoffes suisses représentaient les trois quarts de la valeur des marchandises destinées à être échangées contre des esclaves.

    Les entreprises textiles suisses investissaient aussi directement leurs fortunes dans la #traite des noirs. Des documents montrent qu’entre 1783 et 1792, la société textile bâloise #Christoph_Burckardt & Cie a participé au financement de 21 #expéditions_maritimes qui ont transporté au total 7350 Africains jusqu’en Amérique. Une grande partie de la prospérité des centres suisses du textile était liée au commerce des esclaves, que ce soit à Genève, Neuchâtel, #Aarau, #Zurich ou #Bâle.

    Un projet colonial

    Au milieu du 19e siècle, la Suisse était devenue un des plus importants centres du commerce des #matières_premières. Des marchands suisses achetaient et revendaient dans le monde entier des produits tels que le coton indien, la #soie japonaise ou le #cacao d’Afrique de l’Ouest. Bien que ces marchandises n’aient jamais touché le sol helvétique, les profits étaient réalisés en Suisse.

    L’abolition de l’esclavage aux États-Unis à la suite de la guerre de Sécession a conduit à une crise des matières premières, en particulier de la production du coton qui était largement basée sur une économie esclavagiste. Le marché indien prit encore plus d’importance. L’entreprise suisse #Volkart, active aux Indes depuis 1851, se spécialisa alors dans le commerce du #coton_brut. Afin d’étendre ses activités dans ce pays, elle collabora étroitement avec le régime colonial britannique.

    Les Britanniques dirigeaient la production et, sous leur joug, les paysans indiens étaient contraints de cultiver du coton plutôt que des plantes alimentaires et devaient payer un impôt foncier qui allait directement dans les caisses du gouvernement colonial. Combinée avec l’extension du réseau de chemins de fer à l’intérieur du sous-continent indien, cette politique oppressive permit bientôt à Volkart de prendre en charge un dixième de l’ensemble des exportations de coton vers les manufactures textiles d’Europe. Volkart avait son siège à #Winterthour et occupait ainsi une situation centrale sur le continent européen d’où elle pouvait approvisionner les #filatures installées en Italie, dans le nord de la France, en Belgique, dans la Ruhr allemande ou dans toute la Suisse.

    Les collaborateurs de Volkart devaient éviter les comportements racistes, mais cela ne les empêcha pas d’adopter en Inde certains usages de l’occupant colonial britannique : les Indiens n’avaient pas accès aux salles de détente des employés européens.

    Ardeur missionnaire

    Une autre entreprise prospère à l’époque coloniale fut la #Société_évangélique_des_missions_de_Bâle, ou #Mission_bâloise. Fondée en 1815 par des protestants suisses et des luthériens allemands, son but était de convertir les « païens » au #christianisme. Elle a connu un certain succès au sud de l’Inde dans les territoires des États actuels du #Kerala et du #Karnataka, en particulier auprès des Indiens des couches sociales inférieures qui accédaient ainsi pour la première fois à la formation et à la culture.

    Toutefois, en se convertissant à une autre religion, les autochtones prenaient le risque d’être exclus de leur communauté et de perdre ainsi leur gagne-pain. La Mission de Bâle a réagi en créant des filatures afin de donner des emplois aux réprouvés. Elle résolvait ainsi un problème qu’elle avait elle-même créé et en tirait encore des bénéfices : dans les années 1860, la Mission exploitait quatre filatures et exportait des textiles aux quatre coins de l’#Empire_britannique, de l’Afrique au Proche-Orient en passant par l’Australie.

    L’industrie textile a largement contribué à la prospérité de la Suisse mais de nombreux déshérités l’ont payé au prix fort dans les pays lointains. La Suisse n’était peut-être pas une puissance coloniale indépendante, mais elle a énormément profité du colonialisme.

    https://www.swissinfo.ch/fre/indiennes_le-pass%C3%A9-naus%C3%A9abond-de-l-industrie-textile-suisse/45862606

    #histoire #histoire_suisse #industrie_textile #textile #colonialisme #colonisation #Suisse

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  • Datenbank der im Sklavenhandel involvierten Schweizer

    Cooperaxion fördert die nachhaltige Entwicklung und den interkulturellen Austausch entlang der einstigen Sklavenhandelsrouten.

    Die Datenbank von Cooperaxion dokumentiert auf einzigartige Weise die Geschäfte der verschiedenen Schweizer Akteure während des transatlantischen Sklavenhandels des 17. bis 19. Jahrhunderts.
    Zur Zeit sind über 260 Datensätze veröffentlicht, bei weiteren stehen noch Recherchen an.

    Die Suchfunktion findet Stichwörter nach Name, Herkunftskanton, Tätigkeitsregion, Detailinformation oder dem Zeitraum.

    Sie können die Tabelle sortieren, indem Sie auf den entsprechenden Spaltentitel klicken.

    Mit dem Detail-Link gelangen Sie auf eine Seite mit ausführlichen Informationen zur Person oder (Personen-)Gruppe.

    Thematisch vertiefte Hintergrund-Informationen zur Rolle der Schweiz im transatlantischen Sklavenhandel und Kolonialismus finden Sie unter Dokumentation: https://cooperaxion.org/?lang=fr.

    https://www.cooperaxion.ch

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    Avec des fiches pour chaque entrée, ici par exemple Auguste de Stael :

    #esclavage #commerce_triangulaire #Suisse #base_de_données #database #commerce_d'esclaves #histoire #liste

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    ping @reka @cede

  • La #Suisse et ses colonies

    La Suisse n’avait pas de colonies – et pourtant, des Suisses fonctionnaient en harmonie avec les puissances coloniales et bénéficiaient, en tant que resquilleurs économiques, de l’appropriation militaire des #terres et des #ressources.

    Vers 1800, les naturalistes européens décrivaient les Confédérés comme des « semi-sauvages » qui rappelaient les visites aux « peuples non éduqués sur des côtes pacifiques ». L’Europe intellectuelle voyait dans les Suisses des gens qui vivaient encore dans leur état naturel — une image déformée que les Suisses se sont appropriée. Aucune publicité pour des yaourts et aucun concept touristique ne peut se passer d’images exotiques où les Suisses apparaissent comme de « nobles sauvages ». Cette image de soi se retrouve encore dans la rhétorique politique qui s’embrase de temps en temps, selon laquelle la Suisse menace de devenir une colonie de l’Union européenne.

    Pourtant, dans leur histoire moderne, les Suisses se sont rarement rangés du côté des colonisés, mais plus souvent du côté des colonisateurs. Il est vrai que la Suisse, en tant qu’État-nation, n’a pas poursuivi de politique impérialiste et n’a soumis aucune colonie. Même des tentatives de création d’organisations économiques comme la Compagnie des Indes orientales ont échoué.

    Cependant, le colonialisme inclut la conviction que les habitants des zones colonisées étaient inférieurs aux Européens blancs. Cette idée faisait également partie de la compréhension générale du monde dans la Suisse du 19e siècle.

    Des générations de Suisses ont grandi avec des histoires pour enfants présentant des « négrillons stupides », des reportages sur des sauvages naïfs et enfantins et des images publicitaires dans lesquelles les colonisés apparaissaient au mieux comme des figurants pour les produits coloniaux. Cet #héritage continue de marquer le pays jusqu’à aujourd’hui.

    Des #soldats_suisses dans les colonies

    Mais le problème de l’enchevêtrement historique de la Suisse avec le colonialisme va bien au-delà de polémiques sur des noms ou du déboulonnage de statues. Cela semble particulièrement évident dans les colonies où des Suisses ont combattu comme soldats.

    Quand, en 1800, les esclaves noirs de l’île de #Saint-Domingue — dans l’actuelle Haïti — se sont soulevés contre leurs maîtres français, Napoléon a fait combattre 600 Suisses, qui avaient été mis contractuellement à la disposition de la France par le gouvernement helvétique contre rémunération. Mais ce ne fut pas un cas isolé. Même après la fondation de l’État fédéral en 1848, des Suisses ont continué à se battre pour les puissances coloniales — bien qu’illégalement.

    L’une des motivations était la solde des #mercenaires. Ils touchaient en effet une bonne rente s’ils ne mouraient pas d’une maladie tropicale dans leurs premiers mois de services ou s’ils ne mettaient pas prématurément fin à leur engagement.

    Commerce des esclaves

    Cependant, les grandes sommes d’argent des colonies n’allaient pas aux mercenaires, qui venaient souvent de familles démunies et voyaient le fait de servir les Pays-Bas ou la France comme une grande aventure, mais dans le #commerce des marchandises coloniales — et dans le commerce des habitants des colonies.

    L’une des imbrications les plus problématiques de la Suisse avec le colonialisme mondial est celle de la #traite_des_esclaves.

    Des Suisses et des entreprises suisses ont profité de l’#esclavage en tant qu’#investisseurs et #commerçants. Ils ont organisé des #expéditions_d’esclaves, acheté et vendu des personnes et cultivé des #plantations dans des colonies en tant que #propriétaires_d’esclaves.

    Le système de l’esclavage a fonctionné dans l’Atlantique jusqu’au XIXe siècle sous forme de commerce triangulaire : des navires chargés de marchandises de troc naviguaient vers les côtes africaines, où ils échangeaient leur cargaison contre des esclaves. Ces derniers étaient ensuite transportés à travers l’océan. Enfin, les navires revenaient d’Amérique vers l’Europe chargés de produits fabriqués par les esclaves : le sucre, le café et surtout le coton.

    Selon Hans Fässler, qui fait des recherches sur l’histoire des relations suisses et de l’esclavage depuis des décennies, la Suisse a importé plus de #coton que l’Angleterre au XVIIIe siècle. Il souligne également que la traite des esclaves était une industrie clef qui a rendu possible la production de nombreux biens. Pour dire les choses crûment : sans le coton cueilli par les esclaves, l’#industrialisation de la production #textile suisse aurait été impossible.

    Une branche de cette industrie a manifestement bénéficié directement de la traite des esclaves : les producteurs de ce que l’on appelle les #tissus_indiens. Ceux-ci ont été produits pour le marché européen, mais aussi spécifiquement comme moyen d’échange pour le #commerce_triangulaire. Souvent, même les modèles ont été conçus pour répondre au goût des trafiquants d’êtres humains qui échangeaient des personnes contre des produits de luxe sur les côtes africaines.

    Une famille suisse qui produisait ce genre de tissus faisait la publicité suivante dans une annonce de 1815 : « La société #Favre, #Petitpierre & Cie attire l’attention des armateurs de navires négriers et coloniaux sur le fait que leurs ateliers tournent à plein régime pour fabriquer et fournir tous les articles nécessaires au troc des noirs, tels que des indiennes et des mouchoirs ».

    Passage à un colonialisme sans esclaves

    Après l’interdiction de la traite des esclaves aux États-Unis, l’industrie textile mondiale a sombré dans une crise des #matières_premières : les marchés du coton en #Inde redevenaient plus attractifs. La société suisse #Volkart, qui opérait en Inde depuis 1851, en a profité et s’est spécialisée dans le commerce du coton brut en Inde. Ici, les Britanniques contrôlaient la production : les agriculteurs indiens étaient obligés de produire du coton au lieu de denrées alimentaires. Grâce à une étroite collaboration avec les Britanniques, Volkart a pu rapidement prendre en charge un dixième de toutes les exportations indiennes de coton vers les usines textiles de toute l’Europe.

    Une autre entreprise qui a bien survécu à la crise provoquée par la fin de l’esclavage est la #Mission_de_Bâle, la communauté missionnaire évangélique. Soutenue par les mêmes familles bâloises qui avaient auparavant investi dans la traite des esclaves, la mission a ouvert un nouveau modèle commercial : elle a converti les « païens » au christianisme en Inde. Les convertis étaient abandonnés par leurs communautés et la Mission de Bâle les laissait alors travailler dans ses usines de tissage.

    Un missionnaire faisait ainsi l’éloge de ce modèle vers 1860 : « Si des païens veulent se convertir au Christ (...) nous les aiderons à trouver un abri autour des #fermes_missionnaires et à trouver un emploi pour gagner leur vie, que ce soit dans l’agriculture ou dans tout autre commerce. C’est ce qu’on appelle la colonisation. »

    Le colonialisme comprend également l’exploitation de relations de pouvoir asymétriques au profit économique des colons. Cependant, l’État suisse a laissé la recherche de ce profit dans les colonies entièrement à l’initiative privée. Des demandes parlementaires appelant à un plus grand soutien à « l’émigration et au colonialisme » par l’État fédéral ont été rejetées. Le Conseil fédéral objectait notamment qu’un pays sans accès à la mer ne pouvait pas coloniser et que la Confédération n’était pas à même d’assumer une telle responsabilité.

    Il est intéressant de noter que ces demandes ont été faites dans les années 1860 par les démocrates radicaux, ceux-là mêmes qui préconisaient des réformes sociales et se battaient pour une plus grande influence de la démocratie directe face à la bourgeoisie au pouvoir. Les démocrates radicaux qui soutenaient le colonialisme se considéraient comme les représentants de ceux qui fuyaient la pauvreté et la faim en Suisse.

    La politique d’émigration de la Suisse a en effet changé au XIXe siècle : si, au début du siècle, les colonies étaient encore considérées comme des lieux d’accueil de personnes que l’on ne pouvait plus nourrir, elles sont devenues de plus en plus la base de réseaux mondiaux. Les colonies offraient un terrain d’essai à de nombreux jeunes commerçants.

    Les Suisses jouissaient des mêmes privilèges que les membres des régimes coloniaux européens — ils étaient des colons, mais sans patrie impérialiste. En 1861, l’économiste allemand #Arwed_Emminghaus admirait cette stratégie des « liens commerciaux étendus » de la Suisse et la considérait comme une variation de la politique expansionniste impériale des puissances coloniales : « Nul besoin de flottes coûteuses, ni d’administration coûteuse, ni de guerre ou d’oppression ; les #conquêtes se font par la voie la plus pacifique et la plus facile du monde. »

    Sources (en allemand)

    – Andreas Zangger: Koloniale Schweiz. Ein Stück Globalgeschichte zwischen Europa und Südostasien (1860-1930). Berlin 2011.
    - Lea Haller: Transithandel: Geld- und Warenströme im globalen Kapitalismus. Frankfurt am Main 2019.
    - Patricia Purtschert, Barbara Lüthi, Francesca (Hg.): Postkoloniale Schweiz: Formen und Folgen eines Kolonialismus ohne Kolonien
    - Thomas David, Bouda Etemad, Janick Marina Schaufelbuehl: Schwarze Geschäfte. Die Beteiligung von Schweizern an Sklaverei und Sklavenhandel im 18. und 19. Jahrhundert. Zürich 2005.
    - Hans Fässler: Reise in schwarz-weiss: Schweizer Ortstermine in Sachen Sklaverei. Zürich 2005.

    https://www.swissinfo.ch/fre/la-suisse-et-ses-colonies/45906046

    #colonialisme_suisse #Suisse_coloniale #colonialisme #colonisation #impérialisme

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    Ajouté à la métaliste sur la Suisse coloniale:
    https://seenthis.net/messages/868109

  • Händlerbewertungen für Amazon.de heise online Preisvergleich / Deutschland
    https://www.heise.de/preisvergleich/?sb=183

    fhortner am 09.07.2020, 12:00 Mehrwertsteuer

    In Deutschland wurden per 1. Juli 2020 die Mehrwertsteuer auf 16% gesenkt. Damit hätten eigentlich die Preise für deutsche Kunden sinken und österreichische Kunden gleich bleiben müssen.
    Da Amazon aber die Mehrwertsteuersenkung von 19% auf 16% nicht an die deutschen Kunden weitergibt, sondern die Preise gleich liess, heisst das im gleichen Zuge eine Verteuerung um eben jenen Betrag für alle Nicht-DE Kunden.

    Ich habe dies bei der Kühltruhe Mobicool FR40 bemerkt, die in letzter Zeit immer 258,81€ gekostet hat. Das kann auch auf mydeald.de recherchiert werden.
    heute, den 9. Juli 2020 ist die Kühltruhe noch immer mit 258,81€ angeschrieben.
    Da in Österreich 20% Mehrwertsteuer fällig sind, erhöht sich der Preis damit um 4% auf 267,73€

    Ergo: Amazon behält sich die Senkung der Mehrwertsteuer und versucht sich durch die Krise am Steuerzahler Körberlgeld dazuzuverdienen. Als hätten sie nicht eh schon genug von der Krise profitiert.

    #commerce #Amazon

  • Au Brésil, Jair Bolsonaro reçoit une livraison d’antifascisme
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2020/07/10/au-bresil-jair-bolsonaro-recoit-une-livraison-d-antifascisme_6045846_4500055


    Une manifestation de « livreurs anitifascistes » le 1er juillet à Rio. Ces travailleurs précaires dénoncent le manque de protection face à l’épidémie de Covid-19. Ricardo Moraes/Reuters

    Né à Sao Paulo, le mouvement des « livreurs antifascistes » dénonce les conditions dans lesquelles ces coursiers travaillent et l’ubérisation forcée de la société brésilienne.
    Par Bruno Meyerfeld

    Sur le logo, on peut voir un jeune homme à casquette pédalant sur son vélo, sac à dos isotherme sur le dos et poing levé vers le ciel. Le nom du groupe Instagram s’affiche en portugais, lettres blanches et majuscules sur fond noir : « Entregadores Antifascistas » (livreurs antifascistes). Mercredi 1er juillet, répondant entre autres à l’appel du collectif « antifa », de nombreux coursiers, travaillant pour les ­principales applications mobiles de livraison, se sont mis grève un peu partout au Brésil. À Sao Paulo, plus d’un millier de livreurs ont défilé à moto, dans une impressionnante et bruyante démonstration de force, protestant contre la dégradation de leurs conditions de travail.
    Revenus de misère, journées épuisantes de douze à quatorze heures, absence d’assurance maladie, système de notation opaque… les griefs des entregadores sont nombreux. Selon une étude publiée par l’association Aliança Bike, un livreur à vélo travaillant 7 jours sur 7 peut espérer gagner un salaire mensuel de seulement 992 reais (165 euros environ), soit moins que le salaire minimum (171 euros). Une situation aggravée par la pandémie : dans un secteur saturé, dominé par trois entreprises (iFood, Uber Eats et Rappi), près de 60 % des coursiers disent avoir récemment observé une baisse de leurs revenus depuis l’arrivée du Covid-19.

    Travailleurs précaires et antifascistes, même combat

    Face à la situation, Jair Bolsonaro, soutenu par son ultralibéral ministre de l’économie, Paulo Guedes, reste passif, préférant soigner ses relations avec les chefs d’entreprise et applaudir à l’ubérisation en marche de la société brésilienne. « Les applications mobiles de livraison ont trouvé au Brésil un terrain politique et économique fertile », note Selma Venco, sociologue du travail à l’université de Campinas (Unicamp). « Avec la crise, beaucoup de gens désespérés sont prêts à travailler à n’importe quel prix, dans des conditions très dures, juste pour survivre. Plus largement, le Brésil est un pays où le secteur informel est très fort [représentant 41,4 % des travailleurs] et où l’État social est historiquement très faible », constate la chercheuse.
    Article réservé à nos abonnés Lire aussi L’« ubérisation » est attaquée en France, mais aussi aux Etats-Unis et au Royaume-Uni
    D’accord. Mais que vient donc faire l’« antifascisme » dans tout ça ? « Ce mouvement, c’est aussi une protestation générale contre Jair Bolsonaro, qui est un fasciste. Il est l’incarnation de l’idéologie des applications mobiles et de l’ubérisation. Il est à fond derrière elles et travaille pour la destruction des droits sociaux ! », tonne Paulo Lima, 31 ans, coursier à Sao Paulo, fan de rap et de Malcolm X et charismatique leader des « livreurs antifas ».

    « Ce mouvement n’est que le début d’un front plus large. Le fascisme confisque le pouvoir aux travailleurs et aux citoyens. On doit tous manifester pour faire valoir nos droits », argumente-t-il. Dans le Brésil de 2020, où le climat politique rappelle celui des années 1930, l’antifascisme est une bannière porteuse pour mobiliser en masse. Parti de Sao Paulo, le mouvement des livreurs antifas s’est diffusé dans tout le pays, de Rio au Nordeste, réunissant un peu partout des groupes de coursiers surconnectés, coordonnant leur mobilisation par WhatsApp. Les vidéos de Paulo Lima, où il discourt avec son sac de livraison sur le dos, ont été visionnées par des dizaines de milliers d’internautes, et sa pétition en ligne a reçu plus de 368 000 signatures.

    Kits sanitaires contre le coronavirus

    Mais les coursiers sont loin d’être les seuls à se réclamer de l’antifascisme. Jair Bolsonaro a menacé le pays à plusieurs reprises d’un coup de force et l’inquiétude gagne une bonne partie de la société brésilienne, craignant l’avènement d’une nouvelle dictature militaire d’extrême droite. Récemment, des dizaines de groupes « antifas » ont ainsi surgi en ligne : supporteurs de foot antifas, journalistes antifas, cinéastes antifas, favelas antifas, végans antifas, étudiants antifas, rockeurs, boxeur ou danseur antifas… et même fans de Star Wars antifas.

    Preuve que la situation est grave, les acteurs traditionnels se mobilisent aussi. Plusieurs initiatives en défense de la démocratie ont été lancées, dont un texte en ligne titré « Estamos Juntos » (« Nous sommes ensemble »), signé par l’ancien président Fernando Henrique Cardoso, l’ex-candidat de gauche Fernando Haddad (du Parti des travailleurs), le chanteur Caetano Veloso ou encore l’écrivain Paulo Coelho.

    De son côté, la Folha de S. Paulo, quotidien de référence du pays, a lancé fin juin une grande campagne en faveur de la démocratie, avec articles, sondages et cours en ligne sur la dictature à destination des plus jeunes. La Folha est allée jusqu’à changer sa devise, devenant désormais « un journal au service de la démocratie ».

    Du côté des livreurs, l’« antifascisme » a donc permis de mobiliser large et la lutte commence à payer : depuis le 11 juin, un arrêté des autorités de l’État de Sao Paulo force enfin les applications de livraison à fournir aux livreurs des kits sanitaires contre le coronavirus. « Ce n’est qu’un début ! », prédit le livreur Paulo Lima. « On va montrer que les entreprises ont besoin des travailleurs et que, sans nous, elles ne peuvent pas faire d’argent. »

    #livreurs #commerce #logisitique #précaires #antifasciste

  • Open Letter to the United Nations Security Council on the Syria cross-border resolution - CARE International

    The United Nations Security Council has until July 10 to renew the Syria cross-border resolution, which ensures lifesaving UN aid reaches over four million Syrians living in areas outside of the Government of Syria’s control. NGO leaders are calling on the Security Council to renew the resolution for a period of 12 months and to re-authorize UN access to Northeast Syria to ensure vulnerable populations are able to receive the aid they need as humanitarian agencies struggle to scale up and respond to COVID-19.
    For more than four million Syrians who live in areas outside of the Government of Syria’s control, the cross-border mechanism is a critical lifeline providing food, shelter, hygiene, and critical medical services. Without it, people will go hungry and will be denied access to critical healthcare services, including those needed to respond to COVID. Simply put, lives will be lost.

    #Covid-19#Moyen-Orient#Rojava#Syrie#Frontièreintérieure#ouverture#Commerce#Aide_humanitaire#ONU#migrant#migration

    https://reliefweb.int/report/syrian-arab-republic/open-letter-united-nations-security-council-syria-cross-border

  • The little-known role Sweden played in the colonial slave trade - The Local

    https://www.thelocal.se/20200615/how-can-sweden-better-face-up-to-its-colonial-past

    Faaid Ali-Nuur works at adult education association ABF as a national coordinator and previously helped to set up a Stockholm walking tour with the National Afro-Swedish Association, based around Sweden’s role in the transatlantic slave trade.

    The idea was to better educate Swedes on a grim chapter in their country’s history by showing them the places and objects linked to the slave trade, as part of a wider project called Afrophobia then and now.

    Skeppsbrokajen, a quay in Gamla Stan, is where Sweden’s first slave trade expedition landed on its return from the Caribbean, with four black children onboard who were brought to Sweden and likely ended up as slaves for wealthy Stockholmers. Not far away is the Slussen area, where iron from Swedish mines was sent to slave-trading countries including the UK.

    “This was to be used as chains, shackles and many more things during the slave trade. These are central locations and people go past them every day without thinking about the meaning they had for the Swedish economy, and that black people were the victims,” he says.

    #colonial #décolonial #esclavage #balade_décoloniale

  • 1 cas communautaire : Vélingara a peur | Lequotidien Journal d’informations Générales
    https://www.lequotidien.sn/1-cas-communautaire-velingara-a-peur

    Vélingara, c’est aussi les marchés hebdomadaires de Diaobé et de Carrefour Manda, qui reçoivent des milliers de commerçants venant de toutes les contrées du Sénégal, de la Guinée Conakry, de la Guinée-Bissau et de la Gambie. Officiellement, les clients de ces foires, venant des pays limitrophes, n’ont pas accès aux marchés mais ont le droit de convoyer leurs marchandises selon les accords de libre circulation des biens et marchandises dans l’espace Cedeao. Mais allez savoir comment ces commerçants peuvent-ils être tranquilles chez eux en envoyant leurs biens à un marché situé à plusieurs kilomètres de leur fief. « On a peur qu’avec cette reprise des cours, le relâchement généralisé et la réouverture des marchés de Diaobé que ce cas communautaire soit le point de départ d’une série d’autres cas », a dit Moussa Mballo, enseignant.

    #Covid-19#migrant#migration#senegal#guinée#gambie#guineeconakry#sante#cascommunautaire#circulationstransfrontalieres#commerce#marche#cedeao#librecirculation

  • Les #migrations amènent-elles un « #grand_remplacement » culturel ?
    Ce texte résume la présentation de #Hillel_Rapoport au Collège de France le 20 janvier 2020 de l’article « Migration and Cultural Change », co-écrit avec Sulin Sardoschau et Arthur Silve : https://sistemas.colmex.mx/Reportes/LACEALAMES/LACEA-LAMES2019_paper_274.pdf

    La #mondialisation n’est pas qu’économique, elle est également culturelle. Elle concerne le commerce, les mouvements de capitaux et les migrations tout autant que les #modes_de_consommation, les #croyances et les #valeurs. Ces différentes dimensions de la mondialisation sont étroitement liées : la #mondialisation_économique et la #mondialisation_culturelle sont complémentaires. S’il paraît évident que le #commerce est un vecteur de #diffusion_culturelle, qu’en est-il des migrations ? Les hommes étant porteurs et transmetteurs de culture, ils contribuent par leurs mouvements au changement culturel global. Mais pour aller vers quoi ? La création d’un « village mondial », une américanisation du monde, une polarisation culturelle conduisant à un « choc des civilisations », voire un « grand remplacement », non pas démographique mais, plus insidieusement, culturel ?

    Notre article apporte des éléments de réponse empiriques à ce débat. Nous reprenons la définition usuelle de la #culture (ensemble de valeurs et croyances apprises et transmises) et reformulons la question de recherche de la manière suivante : les migrations rendent-elles les pays d’origine et d’accueil culturellement plus proches les uns des autres et, si oui, qui converge vers qui ?

    Des bases de données très fournies

    Nous évaluons la #proximité_culturelle entre deux pays en construisant des #indicateurs standardisés à partir du « #World_Values_Survey » (WVS), une enquête internationale réalisée tous les cinq ans depuis le milieu des années 80 et qui pose un ensemble de questions identiques à un échantillon représentatif d’individus dans un grand nombre de pays. Les questions (plusieurs dizaines) portent sur les #valeurs que les gens souhaitent transmettre à leurs enfants, leurs priorités dans la vie, leur degré de confiance (envers les autres, leurs gouvernements, les médias) ou encore leur degré de religiosité.

    Nos indicateurs permettent de mesurer la proximité culturelle entre deux pays et d’examiner l’effet des migrations internationales sur l’évolution de cette dernière. Les données sur les migrations proviennent des bases de la Banque Mondiale ou de l’OCDE. La périodicité des observations est de cinq années, correspondant aux différentes vagues du WVS.

    Mais que tester exactement ? On peut chercher à répondre à la question factuelle de la #convergence ou de la #divergence culturelle amenées par les migrations internationales, mais il est encore plus intéressant de comprendre quels sont les facteurs explicatifs derrière tel ou tel résultat.

    Quel pays converge culturellement vers l’autre ? Une question délicate

    Nous construisons pour cela un modèle théorique en partant de l’hypothèse que les individus migrent à la fois pour des motifs économiques (gain économique individuel escompté de la migration) et pour des motifs culturels (désir d’évoluer dans un environnement plus proche de leurs valeurs). Les migrants représenteront un échantillon d’autant plus culturellement représentatif du pays d’origine que le motif économique primera sur le motif culturel, et d’autant plus sélectionné culturellement dans le cas inverse. On identifie par ailleurs trois canaux dynamiques de transmission culturelle une fois la migration réalisée : la « #dissémination » (lorsque les immigrés diffusent leur culture auprès des populations natives du pays d’accueil), l’« #assimilation » (lorsque les immigrés absorbent la culture du pays d’accueil), et les « #rémittences_culturelles » (lorsque les émigrés transfèrent la culture du pays hôte vers le pays d’origine).

    Nos résultats montrent que la migration tend à promouvoir la #convergence_culturelle, ce qui est compatible dynamiquement avec les motifs de dissémination et de rémittences culturelles. Mais qui converge vers qui ? Il est difficile techniquement et délicat conceptuellement de répondre à cette question : imaginez que vous regardez le ciel et voyez deux étoiles à deux moments du temps : vous pouvez dire si elles se sont rapprochées ou éloignées, mais pas laquelle s’est rapprochée ou éloignée de l’autre, parce que la carte du ciel (qui dépend de la position de la terre) a elle-même bougé. C’est ici qu’il est utile, et même indispensable, de disposer d’un modèle théorique pour aller plus loin.

    Notre modèle théorique permet de tester nos prédictions empiriques

    La convergence culturelle induite par les migrations, que nous observons, provient-elle de la transformation culturelle des pays d’accueil, transfigurés (ou défigurés) qu’ils seraient par l’absorption des normes et valeurs culturelles importées par les immigrants, comme le soutiennent les tenants de la théorie du grand remplacement culturel ? Ou sont-ce les pays de départ qui se transforment par adoption de valeurs et normes issues des traditions et cultures des pays de destination de leurs émigrants, ce que soutiennent les sociologues à travers le concept de « #social_remittances ».

    Notre modèle théorique permet de prédire l’intensité de la convergence (ou de la divergence) selon l’importance relative des motifs économiques et culturels de la migration. Si le motif économique est dominant dans la décision de migrer, on peut s’attendre à ce que les migrants représentent un échantillon culturellement assez représentatif de la population du pays de départ. Dans ce cas, la migration est un facteur de convergence culturelle puisqu’elle consiste à mixer dans le pays de destination deux populations culturellement différentes. Si le motif culturel est dominant, les individus culturellement proches de la population du pays de destination seront surreprésentés parmi les émigrants. La migration est alors un facteur de divergence culturelle au sein de la minorité car elle renforce le groupe ou le type culturellement dominant dans le pays de destination.

    Ce que montrent les prédictions dynamiques du modèle, c’est que plus le motif culturel est important, plus la convergence sera forte si le mécanisme sous-jacent de #transmission_culturelle est de type « rémittences culturelles » et faible si le mécanisme sous-jacent est de type « dissémination » ; inversement, plus le motif économique est prévalent, plus on s’attend à ce que la convergence soit forte en cas de dissémination et faible en cas de rémittences culturelles. Il s’agit là de prédictions que l’on peut tester indifféremment à partir de ces deux mécanismes, ceux-ci pouvant donc être différenciés empiriquement.

    La migration concourt bien à la convergence culturelle des pays de départ vers les pays d’accueil

    Notre travail empirique a donc consisté à tester ces différentes prédictions et le résultat principal est que la migration concourt bien à la convergence culturelle des pays de départ vers les pays d’accueil. Autrement dit, le mécanisme de transmission dominant provient des rémittences culturelles. Il s’agit là d’un résultat robuste, significatif statistiquement et important quantitativement. Tous les tests empiriques pointent dans la même direction : c’est le mécanisme de « rémittences culturelles » qui ressort chaque fois vainqueur ; à chaque fois, on trouve une convergence culturelle plus forte lorsque les gains économiques sont plus faibles et/ou lorsque les gains culturels sont plus forts. Ces résultats disqualifient donc le mécanisme de dissémination et les thèses « épidémiologiques » fondées sur l’idée que les immigrés disséminent leur culture vers les populations natives des pays d’accueil (thèses qui, dans leur version complotiste, culminent dans les théories du #grand_remplacement_culturel).

    http://icmigrations.fr/2020/06/08/defacto-020-03
    #culture #changement_culturel

  • COVID-19: in a single day, 24 deaths and 1,115 new infections of coronavirus in Iraq - Kurdistan 24

    On Monday, the Iraqi Ministry of Health and Environment announced 1,115 new infections and 24 deaths of coronavirus in the past 24 hours, throughout the country.
    The upsurge follows on the re-opening on May 18 of Iraq’s borders with Iran—the original epicenter of the virus in the Middle East, because of Iran’s close ties with China, where the virus originated.

    #Covid19#Irak#Iran#Commerce#ouverture_frontière#pandémie#migrant#migration#réfugié

    https://www.kurdistan24.net/en/news/824237a6-6dd0-481c-b99e-9b6b471e538d

  • #Webinars. #COVID-19 Capitalism #Webinar Series

    Since 1 April, #TNI with allies has brought together experts and activists weekly to discuss how this pandemic health crisis exposes the injustices of the global economic order and how it must be a turning point towards creating the systems, structures and policies that can always protect those who are marginalised and allow everyone to live with dignity. Every Wednesday at 4pm CET.

    TNI works closely with allied organisations and partners around the world in organising these webinars. AIDC and Focus on the Global South are co-sponsors for the full series.

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    Les conférences déjà en ligne sont ci-dessous en commentaire.

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    Les prochains webinars:

    On 10 June, TNI will hold a webinar on Taking on the Tech Titans: Reclaiming our Data Commons.

    Upcoming webinars - Wednesdays at 4pm CET

    17 June: Borders and migration
    #frontières #migrations

    24 June: Broken Trade System
    #commerce

    https://www.tni.org/en/webinars
    #capitalisme #vidéo #conférence #coronavirus

    ping @isskein @reka

    • Building an internationalist response to Coronavirus
      https://www.youtube.com/watch?v=t5qN35qeB1w&feature=emb_logo


      Panellists:

      Sonia Shah, award-winning investigative science journalist and author of Pandemic: Tracking contagions from Cholera to Ebola and Beyond (2017).
      Luis Ortiz Hernandez, public health professor in UAM-Xochimilco, Mexico. Expert on social and economic health inequities.
      Benny Kuruvilla, Head of India Office, Focus on the Global South, working closely with Forum For Trade Justice.
      Mazibuko Jara, Deputy Director, Tshisimani Centre for Activist Education, helping to coordinate a national platform of civic organisations in South Africa to confront COVID-19.
      Umyra Ahmad, Advancing Universal Rights and Justice Associate, Association for Women’s Rights in Development (AWID), Malaysia

      #internationalisme

    • The coming global recession: building an internationalist response

      Recording of a TNI-hosted webinar on Wednesday, 8 April with Professor Jayati Ghosh, Quinn Slobodian, Walden Bello and Lebohang Pheko on the likely global impacts of the economic fallout from the Coronavirus and how we might be better prepared than the 2008 economic crisis to put forward progressive solutions.

      The webinar explored what we can expect in terms of a global recession that many predict could have bigger social impacts than the virus itself. How should we prepare? What can social movements learn from our failures to advance alternative progressive policies in the wake of the 2008 economic crisis?

      https://www.youtube.com/watch?v=LiP5qJhHsjw&feature=emb_logo

      Panellists:

      Professor Jayati Ghosh, award-winning economist Jawaharlal Nehru University, India. Author of India and the International Economy (2015) and co-editor of Handbook of Alternative Theories of Economic Development, 2018.
      Quinn Slobodian, associate professor of history, Wellesley College. Author of Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism (2018)
      Walden Bello, author of Paper Dragons: China and the Next Crash (2019) and Capitalism’s Last Stand?: Deglobalization in the Age of Austerity (2013)

      Lebohang Liepollo Pheko, Senior Research Fellow of Trade Collective, a thinktank in South Africa that works on international trade, globalisation, regional integration and feminist economics

      #récession #crise_économique

    • A Recipe for Disaster: Globalised food systems, structural inequality and COVID-19

      A dialogue between Rob Wallace, author of Big Farms Make Big Flu and agrarian justice activists from Myanmar, Palestine, Indonesia and Europe.

      The webinar explored how globalised industrial food systems set the scene for the emergence of COVID-19, the structural connections between the capitalist industrial agriculture, pathogens and the precarious conditions of workers in food systems and society at large. It also touched on the kind of just and resilient food systems we need to transform food and agriculture today?

      https://www.youtube.com/watch?v=m9A6WkeqPss&feature=emb_logo

      Panellists:

      Rob Wallace author of Big Farms Make Big Flu and co-author of Neoliberal Ebola: Modeling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm.
      Moayyad Bsharat of Union of Agricultural Work Committees (UAWC), member organization of La Via Campesina in Palestine.
      Arie Kurniawaty of Indonesian feminist organization Solidaritas Perempuan (SP) which works with women in grassroots communities across the urban-rural spectrum.
      Sai Sam Kham of Metta Foundation in Myanmar.
      Paula Gioia, peasant farmer in Germany and member of the Coordination Committee of the European Coordination Via Campesina.

      #inégalités #agriculture #alimentation

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      #livre:
      Big Farms Make Big Flu

      In this collection of dispatches, by turns harrowing and thought-provoking, #Rob_Wallace tracks the ways #influenza and other pathogens emerge from an agriculture controlled by multinational corporations. With a precise and radical wit, Wallace juxtaposes ghastly phenomena such as attempts at producing featherless chickens with microbial time travel and neoliberal Ebola. While many books cover facets of food or outbreaks, Wallace’s collection is the first to explore infectious disease, agriculture, economics, and the nature of science together.


      https://monthlyreview.org/press/new-big-farms-make-big-flu-by-rob-wallace
      #multinationales

    • Taking Health back from Corporations: pandemics, big pharma and privatized health

      This webinar brought together experts in healthcare and activists at the forefront of struggles for equitable universal public healthcare from across the globe. It examined the obstacles to access to medicines, the role of Big Pharma, the struggles against health privatisation, and the required changes in global governance of health to prevent future pandemics and bring about public healthcare for all.

      https://www.youtube.com/watch?v=5KSIRFYF3W8&feature=emb_logo

      Panellists:

      Susan George, Author and President of the Transnational Institute
      Baba Aye, Health Officer, Public Services International
      Mark Heywood, Treatment Action Campaign, Section27 and editor at the Daily Maverick
      Kajal Bhardwaj, Independent lawyer and expert on health, trade and human rights
      David Legge, Peoples Health Movement Moderator: Monica Vargas, Corporate Power Project, Transnational Institute

      #santé #big-pharma #industrie_pharmaceutique #privatisation #système_de_santé

    • States of Control – the dark side of pandemic politics

      In response to an unprecedented global health emergency, many states are rolling out measures from deploying armies and drones to control public space, to expanding digital control through facial recognition technology and tracker apps.

      This webinar explored the political dimension of state responses, particularly the securitisation of COVID-19 through the expansion of powers for military, police, and security forces. It examined the impact of such repression on certain groups who are unable to socially distance, as well as how digital surveillance is being rolled out with little, if any democratic oversight.

      https://www.youtube.com/watch?v=4KI515hJud8&feature=emb_logo

      Panellists:

      Fionnuala Ni Aolain, UN Special Rapporteur on the Protection and Promotion of Human Rights while Countering Terrorism, University of Minnesota
      Arun Kundnani, New York University, author of The Muslims are Coming! Islamophobia, extremism, and the domestic War on Terror and The End of Tolerance: racism in 21st century Britain
      Anuradha Chenoy, School of International Studies in Jawaharlal Nehru University (retired), and author of Militarisation and Women in South Asia
      María Paz Canales, Derechos Digitales (Digital Rights campaign), Chile

      #contrôle #surveillance #drones #reconnaissance_faciale #démocratie

      ping @etraces

    • A Global Green New Deal

      This sixth webinar in our COVID Capitalism series asked what a truly global #Green_New_Deal would look like. It featured Richard Kozul-Wright (UNCTAD), and leading activists from across the globe leading the struggle for a just transition in the wake of the Coronavirus pandemic.

      https://www.youtube.com/watch?v=JbNhmPXpSAA&feature=emb_logo

      Panellists:

      Richard Kozul-Wright, Director of the Division on Globalization and Development Strategies at the United Nations Conference on Trade and Development, author of Transforming Economies: Making Industrial Policy Work for Growth, Jobs and Development
      Karin Nansen, chair of Friends of the Earth International, founding member of REDES – Friends of the Earth Uruguay
      Sandra van Niekerk, Researcher for the One Million Climate Jobs campaign, South Africa

      #transition

    • Proposals for a democratic just economy

      Outgoing UN rapporteur, #Philip_Alston in conversation with trade unionists and activists in Italy, Nigeria and India share analysis on the impacts of privatisation in a time of COVID-19 and the strategies for resistance and also constructing participatory public alternatives.

      https://www.youtube.com/watch?v=6-IvJq9QJnI&feature=emb_logo

      Panellists:

      Philip Alston, outgoing UN Special Rapporteur on extreme poverty and human rights
      Rosa Pavanelli, General Secretary of the global union federation Public Services International (PSI)
      Aderonke Ige, Our Water, Our Rights Campaign in Lagos / Environmental Rights Action /Friends of The Earth Nigeria
      Sulakshana Nandi, Co-chair, People’s Health Movement Global (PHM Global)

      #privatisation #participation #participation_publique #résistance

    • Feminist Realities – Transforming democracy in times of crisis

      An inspiring global panel of feminist thinkers and activists reflect and discuss how we can collectively reorganise, shift power and pivot towards building transformative feminist realities that can get us out of the worsening health, climate and capitalist crises.

      https://www.youtube.com/watch?v=XFEBlNxZUAQ&feature=emb_logo

      Panellists:

      Tithi Bhattacharya, Associate Professor of History and the Director of Global Studies at Purdue University and co-author of the manifesto Feminism for the 99%.
      Laura Roth, Lecturer of legal and political philosophy at Universitat Oberta de Catalunya, Barcelona, member of Minim Municipalist Observatory and co-author of the practice-oriented report Feminise Politics Now!
      Awino Okech, Lecturer at the Centre for Gender Studies at School of Oriental and African Studies (SOAS), University of London who brings over twelve years of social justice transformation work in Eastern Africa, the Great Lakes region, and South Africa to her teaching, research and movement support work.
      Khara Jabola-Carolus, Executive Director of the Hawaii State Commission on the Status of Women, co-founder of AF3IRM Hawaii (the Association of Feminists Fighting Fascism, Imperialism, Re-feudalization, and Marginalization) and author of Hawaii’s Feminist Economic Recovery Plan for COVID-19.
      Felogene Anumo, Building Feminist Economies, AWID presenting the #feministbailout campaign

      #féminisme

    • COVID-19 and the global fight against mass incarceration

      November 3rd, 2015, Bernard Harcourt (Columbia Law School) and Naomi Murakawa (Princeton) present rival narratives about mass incarceration in America. In The Illusion of Free Markets: Punishment and the Myth of Natural Order , Harcourt shows the interdependence of contract enforcements in global markets and punitive authority. InThe First Civil Right: How Liberals Built Prison America, by contrast, Murakawa traces prison growth to liberal campaigns and progressive legislation. Together, Murakawa and Harcourt offer fresh ideas about into the political, economic and ethical dimensions of mass incarceration.

      https://www.youtube.com/watch?v=BLeXbi4aIno&feature=emb_rel_pause

      Olivia Rope, Director of Policy and International Advocacy, Penal Reform International
      Isabel Pereira, Principal investigator at the Center for the Study of Law, Justice & Society (Dejusticia), Colombia
      Sabrina Mahtani, Advocaid Sierra Leone
      Maidina Rahmawati, Institute of Criminal Justice Reform (ICJR), Indonesia
      Andrea James, Founder and Exec Director, and Justine Moore, Director of Training, National Council For Incarcerated and Formerly Incarcerated Women and Girls, USA

      #prisons #emprisonnement_de_masse #USA #Etats-Unis

  • En Algérie, la fermeture des frontières empêche la revente des produits de marques ramenés de Paris ou Dubaï
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2020/06/04/coronavirus-en-algerie-le-commerce-du-cabas-mis-a-mal-par-la-fermeture-des-f

    Habituellement, Ahmed se rend en Europe chaque week-end. Pour ce salarié de banque, le « cabas » est un complément de revenu. Sur ses différents comptes Facebook, il propose des soins pour les cheveux, des parfums, des compléments alimentaires, de l’homéopathie pour les enfants… « Depuis le début de l’épidémie, j’ai perdu douze billets d’avion. On est vraiment bloqués », explique-t-il, déplorant un réel « manque à gagner ». Cette activité, dans laquelle il s’est lancé en 2018, lui permettait également de rapporter des médicaments pour sa grand-mère, atteinte de la maladie de Parkinson. A ses yeux, « la conséquence la plus terrible de l’arrêt des vols, c’est que les gens ne trouvent plus les médicaments dont ils ont besoin ». Ainsi, Farida a dû trouver tant bien que mal des équivalents aux huit pilules quotidiennes que prend sa mère.

    #Covid-19#migrant#migration#circulations#médicaments#commerce#santé#Algérie#France#Dubai#fermeture-frontières

  • First the trade war, then the pandemic. Now Chinese manufacturers are turning inward. | MIT Technology Review
    https://www.technologyreview.com/2020/06/03/1002573/pandemic-us-china-trade-war-impact-on-manufacturers

    Then, before his business had fully recovered, covid-19 ripped through the world. Exports tanked, saddling Zhu with a stream of order cancellations worth an estimated $4 to $5 million. Domestic sales also suffered as physical stores shuttered under pandemic control restrictions. “The impact could’ve been huge,” he says. “My factory is really big; I have so many workers to support.”

    But Zhu fortunately had another sales channel. In 2018, Pinduoduo, an e-commerce giant targeted at consumers in China’s smaller cities, launched an initiative to connect manufacturers with the domestic market. Under a so-called “consumer-to-manufacturer,” or C2M, model, the platform began using its massive pools of data and AI algorithms to help Chinese manufacturers predict consumer preferences and develop brands specifically for a domestic audience.

    Pinduoduo told manufacturers not only how to customize their products—down to the wash of a jean or the length of a sock. It also advised them on how to redesign their packaging, how to set their prices, and how to market their goods online. In this way, manufacturers could improve the efficiency of their production, which in turn made the products cheaper for consumers. And platforms could monetize new users with advertising. This helped both the platform and manufacturers alike tap into a rapidly growing middle-class consumer base. Whereas upper-class consumers care more about international brands, this newer wave of consumers care more about quality products at lower prices.

    When the pandemic hit, Pinduoduo quickly expanded its initiative. It added new incentives for affected manufacturers to join its platform, welcoming them to adopt its live-streaming service (link in Chinese) and holding promotional sales events.

    As China’s access to international markets has grown more unreliable—with a possible trade fight renewal looming on the horizon—the country has increasingly sought to ramp up domestic consumption in an effort to stave off a greater economic recession.

    “The problem is China is losing [overseas] demand,” says Derek Scissors, a resident scholar at the American Enterprise Institute, where he researches trade policy and US-China relations. “You want to replace it with Chinese demand.”

    As well as Pinduoduo, other Chinese e-commerce giants, including Alibaba-owned Taobao and JD, are now offering C2M services. Since the start of this year, all three have set new goals for expanding their C2M initiatives. Pinduoduo, which helped launch 106 manufacturer-owned brands in 2019, aims to establish 1,000 more. It also signed a strategic partnership in April with the government of Dongguan, where Zhu’s factory is based, one of China’s largest manufacturing hubs.

    As the partnerships have produced promising results, manufacturers have also doubled down on their domestic brand strategies. Chen Zhuoyue, the owner of a toy manufacturing company based in Chenghai, Guangdong, joined JD’s C2M program in 2018. After JD helped him customize his products and develop a new pricing strategy, the platform quickly grew to account for 50% of his domestic sales. When the pandemic hit and his exports sharply declined from 30% to less than 5% of his revenue, he took it as a sign to open up two new JD stores and launch more domestic brands.

    It’s not that Chen will stop working with foreign brands. “As a businessman, I’m always thinking about how to expand into more markets,” he says. If exports were to return back to normal and his long-term foreign collaborators came knocking on his door, he would gladly continue fulfilling their orders. At the same time, now that he’s launched his own brand, he sees it as an important source of growth and stability. “My plan is to expand our domestic presence,” he says. “This year I want to increase our investment in this area.”

    It’s not clear whether domestic markets alone will be able to compensate for China’s variable access to international markets over the long run. On one hand, the country’s middle class has rapidly increased their spending power and is expected to grow to a market size of 1,008 billion RMB ($141 million) by 2022, according to iResearch. On the other, even before the pandemic, the manufacturing industry was already struggling with too much supply, says Scissors, and it relied on the US and other overseas markets to “dump their manufacturing excess,” he says. As a result, he’s unconvinced that a new model like C2M would resolve such deeply-entrenched macroeconomic issues. If anything, he sees C2M instead as a savvy push from e-commerce giants to grow their own profits.

    #Chine #Commerce_électronique #C2M #Consumer-to-manufacturer #Marché_interieur #Mondialisation

  • Turkey to reopen border crossings with Iran, Iraq - Al Monitor

    Turkey will reopen two border crossings with Iraq and Iran this week as the country comes out of months of virus-related closures.

    Turkey’s Gurbulak crossing with Iran and the Habur crossing with Iraq are set to open, Reuters reported Wednesday. The goal is to boost trade in the country following the economic downturn related to the coronavirus pandemic, according to the outlet.

    #Covid19#Turquie#Irak#Iran#Commerce#ouverture_frontière#politique#migrant#migration#réfugié

    https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2020/06/turkey-reopen-border-iraq-iran.html#ixzz6OQyVWleY