• La CEDU condanna l’Italia per detenzione illegale di minori stranieri nell’hotspot di Taranto
    https://www.meltingpot.org/2023/11/la-cedu-condanna-litalia-per-detenzione-illegale-di-minori-stranieri-nel

    Nuova condanna all’Italia dalla Corte europea per i Diritti umani. Oggi nell’hotspot permangono ancora 185 minori. L’ASGI chiede l’immediato collocamento in strutture adeguate e la supervisione dell’attuazione delle precedenti sentenze che, come dimostra la situazione nell’hotspot di Taranto, non hanno fatto modificare le prassi illegittime. La Corte Europea dei Diritti Umani, con la decisione del 23 novembre 2023 resa nel procedimento n. 47287/17 (caso A.T. ed altri c. Italia), ha condannato l’Italia per avere detenuto illegalmente nell’ hotspot di Taranto diversi minori stranieri non accompagnati (art. 5, parr. 1, 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), per avere utilizzato trattamenti (...)

    #Giurisprudenza_europea #Guida_legislativa #Speciale_Hotspot

  • La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti : costretti a denudarsi, privati della libertà e malnutriti

    La causa avviata da quattro esuli sudanesi: dovranno ricevere in tutto 36 mila euro dallo Stato

    VENTIMIGLIA. Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
    I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.

    In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
    Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
    Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
    Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.

    La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.

    Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/18/news/litalia_condannata_a_pagare_per_i_maltrattamenti_ai_migranti-13871399

    Le périple des 4 Soudanais en résumé :
    – 4 personnes concernées, ressortissants soudanais
    – 2 arrivés à Cagliari en juillet 2016, un le 14 juillet à Reggio Calabria, un le 16 août 2016
    – Transfert des 4 au centre d’accueil de la Croix-Rouge à Vintimille avec un fourgon de la police —> dénudés, humiliés
    – Transfert (avec 20 autres) vers l’hotspot de Taranto
    – 23 août —> transfert à Vintimille par bus, RV avec un représentant du gouvernement soudanais qui a reconnu leur nationalité soudanaise, début procédure de renvoi vers Soudan en avion
    – Transfert à l’aéroport de Torino Caselle, mais pas de place pour les 4 dans l’avion
    – Transfert au centre de rétention de Turin
    – Personne ne part, les 4 arrivent à demander l’asile et obtenir le statut de réfugié
    – Novembre 2023 : Italie condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme

    #justice #condamnation #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #mauvais_traitements #privation_de_liberté #nudité #violences_policières #Taranto #hotspot #CPR #rétention #détention_administrative #réfugiés_soudanais #Turin #migrerrance #humiliation

    voir aussi ce fil de discussion sur les transferts frontière_sud-alpine - hotspot de Taranto :
    Migranti come (costosi) pacchi postali


    https://seenthis.net/messages/613202

    • Denudati, maltrattati e privati della libertà: la CEDU condanna nuovamente l’Italia

      Le persone migranti denunciarono i rastrellamenti avvenuti a Ventimiglia nell’estate 2016

      La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire con un totale di 27mila euro (più 4.000 euro di costi e spese legali) quattro cittadini sudanesi per averli denudati, maltrattati e privati della libertà nell’estate 2016 durante le cosiddette operazioni per “alleggerire la pressione alla frontiera” di Ventimiglia, quando centinaia di persone migranti venivano coattivamente trasferite negli hotspot del sud Italia 1 e, in alcuni casi, trasferiti nei CIE e quindi rimpatriati nel paese di origine 2.

      C’è da dire che la Corte avrebbe potuto condannare l’Italia con maggiore severità, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni in un paese non sicuro come il Sudan. Tuttavia, si tratta dell’ennesima conferma che l’Italia nega i diritti fondamentali alle persone migranti e che i governi portano avanti operazioni nei quali gli abusi e i maltrattamenti delle forze dell’ordine non sono delle eccezioni o degli eccessi di un singolo agente, ma qualcosa di strutturale e quindi sistemico. E quando queste violazioni sono denunciate, nemmeno vengono condotte indagini per fare luce sulle responsabilità e indagare i colpevoli.

      La sentenza della CEDU pubblicata il 16 novembre 3 riguarda nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016 i quali hanno denunciato diversi abusi subiti dalle autorità italiane, un tentativo di rimpatrio forzato e uno portato a termine.

      Nel primo caso i ricorrenti hanno avanzato denunce in merito al loro arresto, trasporto e detenzione in Italia, uno di loro ha anche affermato di essere stato maltrattato.

      I quattro ricorrenti del primo caso hanno ottenuto la protezione internazionale, mentre i cinque ricorrenti del secondo caso hanno affermato di aver fatto parte di un gruppo di 40 persone migranti che erano state espulse subito dopo il loro arrivo in Italia.

      Le persone sono state difese dall’avv. Gianluca Vitale e dell’avv.te Nicoletta Masuelli e Donatella Bava, tutte del foro di Torino.
      I fatti riportati nella sintesi

      I quattro ricorrenti nel primo caso sono nati tra il 1980 e il 1994. Vivono tutti a Torino, tranne uno che vive in Germania. I ricorrenti nel secondo caso sono nati tra il 1989 e il 1996. Uno vive in Egitto, uno in Niger e tre in Sudan.

      Tutti e nove i richiedenti sono arrivati in Italia nell’estate del 2016. I primi quattro hanno raggiunto le coste italiane in barca, mentre gli altri cinque sono stati salvati in mare dalla Marina italiana. Alcuni sono transitati attraverso vari hotspot e tutti sono finiti a Ventimiglia presso il centro della Croce Rossa.

      Secondo i ricorrenti nel primo caso, il 17 e il 19 agosto 2016 sono stati arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e portati in quella che hanno capito essere una stazione di polizia. Sono stati perquisiti, è stato chiesto loro di spogliarsi e sono stati lasciati nudi per circa dieci minuti prima che venissero prese le loro impronte digitali.

      Sono stati poi costretti a salire su un autobus, scortati da numerosi agenti di polizia, senza conoscere la loro destinazione e senza ricevere alcun documento sulle ragioni del loro trasferimento o della loro privazione di libertà. In seguito hanno scoperto di essere stati trasferiti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto.

      Nell’hotspot di Taranto, dal quale non avrebbero potuto uscire, sostengono di aver ricevuto un provvedimento di respingimento il 22 agosto 2016. Il giorno successivo sono stati riportati a Ventimiglia in autobus.

      Secondo i ricorrenti, le condizioni all’hotspot erano difficili come lo erano durante ciascuno dei trasferimenti in autobus durati 15 ore. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e minacce, senza cibo o acqua sufficienti in piena estate.

      Sostengono di non aver incontrato un avvocato o un giudice durante quel periodo e di non aver capito cosa stesse succedendo. Il 24 agosto 2016 sono stati trasferiti da Ventimiglia all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per il Sudan. Poiché non c’erano abbastanza posti sull’aereo, il loro trasferimento è stato posticipato. Sono stati quindi trasferiti al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino e il Questore ha emesso per ciascuno di loro un provvedimento di trattenimento.

      Uno dei ricorrenti (T.B.) sostiene che le autorità hanno tentato di espellerlo nuovamente il 1° settembre 2016. Ha protestato e la polizia lo ha colpito al volto e allo stomaco. Lo hanno poi costretto a salire sull’aereo e lo hanno legato. Tuttavia, il pilota si è rifiutato di decollare a causa del suo stato di agitazione. È stato riportato al CIE di Torino.

      Tutti e quattro i richiedenti hanno ottenuto la protezione internazionale, essenzialmente sulla base della loro storia personale in Sudan e del conseguente rischio di vita in caso di rimpatrio.

      Secondo i ricorrenti del secondo caso, invece, non sono mai stati informati in nessun momento della possibilità di chiedere protezione internazionale. Sostengono inoltre di aver fatto parte di un gruppo di circa 40 migranti per i quali è stato trovato posto sul volo in partenza il 24 agosto 2016 e di essere stati rimpatriati a Khartoum lo stesso giorno.

      Il governo italiano ha contestato tale affermazione, sostenendo che i ricorrenti non sono mai stati sul territorio italiano. Hanno fornito alla Corte le fotografie identificative delle persone rimpatriate in Sudan il 24 agosto 2016, sostenendo che non presentavano una stretta somiglianza con i ricorrenti. Ha sostenuto inoltre che i nomi delle persone allontanate non corrispondevano a quelli dei ricorrenti. In considerazione del disaccordo delle parti, la Corte ha nominato un esperto di comparazione facciale della polizia belga (articolo A1, paragrafi 1 e 2, del Regolamento della Corte – atti istruttori) che, il 5 ottobre 2022, ha presentato una relazione per valutare se le persone rappresentate nelle fotografie e nei filmati forniti dai rappresentanti dei ricorrenti corrispondessero a quelle raffigurate nelle fotografie identificative presentate dal Governo.

      Il rapporto ha concluso, per quanto riguarda uno dei ricorrenti nel caso, W.A., che i due individui raffigurati in tali fonti corrispondevano al massimo livello di affidabilità. Per quanto riguarda gli altri quattro richiedenti, non vi era alcuna corrispondenza affidabile.
      La decisione della Corte

      Le sentenze sono state emesse da una Camera di sette giudici, composta da: Marko Bošnjak (Slovenia), Presidente, Alena Poláčková (Slovacchia), Krzysztof Wojtyczek (Polonia), Péter Paczolay (Ungheria), Ivana Jelić (Montenegro), Erik Wennerström (Svezia), Raffaele Sabato (Italia), e anche Liv Tigerstedt, Vice Cancelliere di Sezione.

      La Corte, ha ritenuto, all’unanimità, che vi è stata:

      1) una violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda l’assenza di una ragione sufficientemente convincente per giustificare il fatto che i ricorrenti siano stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza privacy e sorvegliati dalla polizia e le condizioni dei loro successivi trasferimenti in autobus da e verso un hotspot, sotto il costante controllo della polizia, senza sapere dove stessero andando;

      2) una violazione dell’articolo 3, in quanto non è stata svolta alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di rimpatrio;

      3) la violazione dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) per quanto riguarda tre dei quattro ricorrenti in relazione al loro fermo, trasporto e detenzione arbitrari.

      La Corte ha stabilito che l’Italia deve pagare ai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. contro Italia 27.000 euro per danni morali e 4.000 euro, congiuntamente, per costi e spese.

      In particolare:

      Per quanto riguarda i restanti reclami dei ricorrenti in A.E. e T.B. contro l’Italia, la Corte ha riscontrato che le condizioni del loro arresto e del trasferimento in autobus, considerate nel loro insieme, devono aver causato un notevole disagio e umiliazione, equivalenti a un trattamento degradante, in violazione dell’Articolo 3.

      Inoltre, i successivi lunghi trasferimenti in autobus dei ricorrenti sono avvenuti in un breve lasso di tempo e in un periodo dell’anno molto caldo, senza cibo o acqua sufficienti e senza che sapessero dove erano diretti o perché. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e di minacce. Queste condizioni, nel complesso, devono essere state fonte di angoscia.

      Infine, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 per quanto riguarda il richiedente (T.B.) che ha affermato di essere stato picchiato durante un altro tentativo di allontanamento. Due degli altri richiedenti hanno confermato il suo racconto durante i colloqui relativi alle loro richieste di protezione internazionale; uno ha dichiarato in particolare di aver visto un altro migrante che veniva riportato dalla polizia dall’aeroporto con il volto tumefatto. Anche se T.B. aveva detto, durante un colloquio con le autorità, di essere in grado di identificare i tre agenti di polizia responsabili dei suoi maltrattamenti, non è stata condotta alcuna indagine.

      La Corte ha notato che il Governo le aveva fornito una copia di un’ordinanza di refusal-of-entry nei confronti di uno dei richiedenti, A.E., datata 1 agosto 2016, e la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il suo reclamo sulla sua detenzione. D’altra parte, ha rilevato che gli altri tre ricorrenti nel caso, ai quali non erano stati notificati ordini di refusal-of-entry fino al 22 agosto 2016, erano stati arrestati e trasferiti senza alcuna documentazione e senza che potessero lasciare l’hotspot di Taranto. Ciò ha comportato una privazione arbitraria della loro libertà, in violazione dell’Articolo 5 § 1.

      Inoltre, era assente una legislazione chiara e accessibile relativa agli hotspot e la Corte non ha avuto alcuna prova di come le autorità avrebbero potuto informare i richiedenti delle ragioni legali della loro privazione di libertà o dare loro l’opportunità di contestare in tribunale i motivi della loro detenzione de facto.

      La Corte ha però respinto come inammissibili tutti i reclami dei nove ricorrenti, tranne uno, in merito al fatto che le autorità italiane non avevano preso in considerazione il rischio di trattamenti inumani se fossero stati rimpatriati in Sudan. In A.E. e T.B. contro Italia, i richiedenti, che avevano ottenuto la protezione internazionale, non erano più a rischio di deportazione e non potevano quindi affermare di essere vittime di una violazione dell’Articolo 3. In W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti, per i quali il rapporto della polizia belga del 2022 non aveva stabilito una corrispondenza affidabile tra le fotografie fornite dalle parti, non avessero sufficientemente motivato i loro reclami.

      La Corte ha dichiarato ammissibile il reclamo del ricorrente, W.A.. Ha osservato che i documenti disponibili erano sufficienti per concludere che si trattava di una delle persone indicate nelle fotografie identificative fornite dal Governo. Ha quindi ritenuto che fosse tra i cittadini sudanesi allontanati in Sudan il 24 agosto 2016. Tuttavia, la Corte ha continuato a ritenere che non vi fosse stata alcuna violazione dell’Articolo 3 nel caso di W.A. .

      In particolare, ha notato che c’erano state delle imprecisioni nel suo modulo di richiesta alla Corte e che, sebbene fosse stato assistito da un avvocato in diversi momenti della procedura di espulsione, aveva esplicitamente dichiarato di non voler chiedere la protezione internazionale e di essere semplicemente in transito in Italia. Inoltre, a differenza dei richiedenti nel caso A.E. e T.B. contro l’Italia, che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base delle loro esperienze personali, W.A. aveva sostenuto di appartenere a una tribù perseguitata dal Governo sudanese solo dopo aver presentato la domanda alla Corte europea. Questa informazione non era quindi disponibile per le autorità italiane al momento rilevante e la Corte ha concluso che il Governo italiano non ha violato il suo dovere di fornire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario nel suo Paese d’origine.

      – Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot, di Francesco Ferri (https://www.meltingpot.org/2016/08/guerra-al-desiderio-migrante-deportazioni-da-ventimiglia-e-como-verso-gl) – 17 agosto 2026
      – Rimpatrio forzato dei cittadini sudanesi: l’Italia ha violato i diritti. Rapporto giuridico sul memorandum d’intesa Italia-Sudan a cura della Clinica Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (https://www.meltingpot.org/2017/10/rimpatrio-forzato-dei-cittadini-sudanesi-litalia-ha-violato-i-diritti-um) – 31 ottobre 2017.
      - The cases of A.E. and T.B. v. Italy (application nos. 18911/17, 18941/17, and 18959/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228836) and W.A. and Others v. Italy (no. 18787/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228835)

      https://www.meltingpot.org/2023/11/denudati-maltrattati-e-privati-della-liberta-la-cedu-condanna-nuovamente

  • #Monsanto condamné aux Etats-Unis à payer plus de 1,5 milliard de dollars dans un procès lié au #Roundup, la firme fera appel - rtbf.be
    https://www.rtbf.be/article/monsanto-condamne-aux-etats-unis-a-payer-plus-de-15-milliard-de-dollars-dans-un

    Monsanto, propriété de Bayer, a été condamné vendredi par un tribunal de Jefferson City, dans le Missouri, à verser plus de 1,5 milliard de dollars à trois Américains qui auraient développé un #cancer à la suite de l’utilisation du désherbant Roundup. C’est ce que rapporte l’agence de presse Bloomberg, qui parle de l’une des plus importantes demandes de dommages et intérêts de l’année aux États-Unis.

    Le juge a accordé à James Draeger, Valerie Gunther et Dan Anderson des dommages-intérêts de, respectivement, 61,1 millions de dollars et de 500 millions de dollars. Ces trois personnes avaient développé un lymphome non hodgkinien et affirmaient que le cancer était le résultat d’années d’utilisation du Roundup pour le jardinage. Bayer a récemment gagné plusieurs procès liés au Roundup mais, dans le même temps, il y a également un certain nombre de cas où le jury a vu un lien entre le désherbant et le développement du cancer, selon Bloomberg.

    L’entreprise chimique allemande a racheté Monsanto en 2018 et a donc hérité des nombreux procès concernant le Roundup. Le principal ingrédient de ce produit est le #glyphosate. Le danger de cette substance pour la santé fait également l’objet d’un débat en Europe mais, comme les recherches sur d’éventuels effets nocifs sont en cours, la licence a été prolongée cette semaine de 10 ans.

    #Bayer, propriétaire de Monsanto, va faire appel de cette lourde condamnation, selon un porte-parole de l’entreprise.

    #pesticide

  • Albania: l’ex premier Berisha indagato per corruzione
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-l-ex-premier-Berisha-indagato-per-corruzione-227727

    Il leader del centro destra Sali Berisha e il suo genero Jamarber Malltezi sono indagati dalla Procura speciale anticorruzione nell’ambito della privatizzazione dell’ex campo sportivo “Partizani”, risalente al 2008. Tra i capi d’accusa corruzione e appropriazione indebita

  • Condamnez-vous le Hamas ? Un Palestinien répond

    « Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas ». Je souhaite diffuser cet admirable texte d’#Abdel_Fattah_Abu_Srour, en réponse à l’injonction à condamner le #Hamas, après le le 7 octobre.

    –—

    Condamnez-vous le Hamas ? Je me condamne

    Abdel Fattah Abu Srour, directeur du centre Al Rowwad dans le camp de réfugiés d’Aida (près de Bethléem)

    Chers amis,

    J’aimerais remercier tous ceux qui m’ont contacté pour m’assurer de leur solidarité et s’enquérir de moi, de ma famille, de ma communauté et de mon peuple. Je suis infiniment reconnaissant envers ceux qui nous soutiennent dans ces temps si difficiles.

    Les journalistes des medias, les interviewers des télés viennent à nous, pointant le doigt vers nous et nous posant sans cesse la même question : condamnez-vous le terrorisme palestinien ? Condamnez-vous le Hamas ?

    Répondons

    Je me condamne vraiment moi-même, je condamne toute mon existence

    Je condamne ma propre naissance dans un camp de réfugiés dans mon propre pays. Comment est-ce que j’ose être un réfugié et vous charger de remettre en question votre humanité ?

    Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas

    Je condamne mes parents, qui furent déracinés de leurs villages détruits et me donnèrent naissance dans un camp de réfugiés

    Je condamne toute ma vie, avoir grandi, obtenu une éducation, avoir eu des espoirs et des rêves de devenir un grand biologiste, un grand chercheur qui sauverait des vies…, d’être un peintre extraordinaire, un merveilleux photographe, un écrivain talentueux qui inspirerait le monde entier… Rien de ce que j’ai fait ne m’a fait devenir célèbre

    Je me condamne pour clamer et continuer à clamer que je suis un être humain, que je défend mon humanité et ma dignité ainsi que celles des autres… On dirait que je ne suis qu’un animal humain, ou encore moins… que je suis un extraterrestre imaginant qu’il a une place sur cette terre. Comment est-ce que j’ose même penser que je suis un être humain tout comme vous ?

    Je me condamne pour croire que les valeurs et les droits humains nous incluent, nous les extraterrestres… Comment est-ce que j’ose même penser que nous faisons partie de ces valeurs ?

    Je me condamne pour croire au droit international et aux résolutions de l’ONU et à toutes ces déclarations qui disent que : les peuples sous occupation ont le droit légitime de résister par TOUS LES MOYENS. Comment est-ce que j’ose considérer que nous sommes occupés, même par une entité illégale qui est représentée comme l’unique démocratie du Moyen Orient.

    Je vous demande pardon

    Je me condamne pour parler de cette occupation comme d’une entité. Je lis que ce qui définit un état est d’avoir : une constitution, des frontières définies, et une nationalité. Et puisque ce que vous appelez État d’Israël ne possède pas jusqu’à aujourd’hui de constitution, ni de frontières définies, et bien qu’ ils aient voté la loi de Nationalité c’est un pays uniquement pour les Juifs…

    Mais apparemment vous pouvez vous proclamer État sans aucun de ces critères. Pardonnez s’il vous plaît mon ignorance…

    Que puis-je dire… je suis si ignorant…

    Je croyais qu’une victime de viol avait le droit de se défendre. Mais il semble que je me sois trompé… je n’ai pas compris que l’on doive féliciter le violeur et condamner la victime si ou elle oses résister… que il ou elle prend plaisir au viol et en redemande…

    Je croyais qu’être solidaire avec les opprimés était une attitude juste. Erreur encore car je ne devrais jamais m’identifier aux autres peuples opprimés. Il n’y a qu’une entité opprimée au monde et aucune autre.

    Je devrais féliciter les Israéliens pour opprimer les soi-disant Palestiniens… et leur apprendre qui ils sont et quelle est leur valeur aux yeux de la communauté internationale. Que leurs vies sont égales à zéro.

    Alors

    Monde !

    Je suis vraiment désolé

    Je ne me suis pas rendu compte que j’étais induit en erreur et mal informé

    Devrais-je m’excuser ?

    Je m’excuse profondément

    Monde !

    Toutes mes excuses

    Mes parents m’ont toujours dit que je devais soutenir les opprimés et empêcher les oppresseurs de continuer leur oppression

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les méchants Sud-Africains noirs contre le gentil système d’apartheid blanc censé les humaniser

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les sauvages Amérindiens contre ces merveilleux colonisateurs blancs arrivés pour les civiliser et les débarrasser du fardeau de leurs terres et de leurs propriétés

    On m’a dit de soutenir les Aborigènes retardés d’Australie contre ces extraordinaires colonisateurs britanniques civilisateurs blancs qui vinrent les instruire

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les terroristes vietnamiens contre les très civilisés colonisateurs… Français ou Américains qui savaient comment exploiter les pays colonisés et domestiquer leurs habitants.

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les Indiens en Inde, les Irlandais, les Ecossais

    les Sud-Américains

    les Cubains,

    Les Espagnols et les Italiens contre les dictatures et les fascistes

    Les Allemands et les Européens contre les nazis

    Les Arabes contre les colonisations française et britanniques

    Les Palestiniens contre l’occupation britannique et sioniste

    On m’a même dit de soutenir les Ukrainiens contre les Russes

    Mes parents m’ont même parlé des pauvres juifs qui arrivèrent en Palestine dans les années 1900..

    Et dans ce temps-là on avait pitié d’eux et on les aidait avec de la nourriture et plus encore…

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir la résistance de l’opprimé contre l’oppresseur

    Je ne savais rien du droit international et des droits de l’homme

    Je ne savais pas que tout ceci était faux et que c’est juste un mensonge qui convient à certains et pas à d’autres

    Donc

    Monde,

    Laisse-moi me condamner et m’excuser encore et encore…

    Je me condamne pour être ce que je suis

    Je m’excuse d’être Palestinien… D’être né dans un pays que mes parents appellent Palestine…

    Je m’excuse d’être né dans un camp de réfugiés… Dans mon propre pays. Et de n’avoir pu oublier les villages de mes parents qui furent détruits en octobre 1948

    Je m’excuse de n’avoir ni cheveux blonds ni yeux bleus… Bien que certains de mes cousins aient des cheveux blonds et des yeux bleus ou verts

    Je m’excuse de toujours m’identifier comme Palestinien alors qu’on me dénie cette nationalité

    Je m’excuse d’encore appeler mon pays du nom de Palestine bien qu’il ait été émietté en morceaux disjoints… et je ne peux toujours pas l’oublier

    Je m’excuse de pas pouvoir oublier que je suis encore un réfugié dans mon propre pays

    De ne pas avoir jeté la vieille clé rouillée de la maison de mes parents dans leur village détruit

    Je condamne la revendication obstinée de mon droit à revenir aux villages détruits de mes parents

    Comment est-ce que j’ose faire ça ? Comment tous ces Palestiniens obstinés osent-ils revendiquer leur droit au retour ? Nous sommes si aveugles que nous ne pouvons même pas voir les faits sur le terrain après les 75 années d’existence de la seule démocratie du moyen orient

    Je condamne mes parents qui m’ont élevé selon « Celui qui est consumé par la haine perd son humanité »

    Comment n’ont-ils pas osé m’enseigner la haine ?

    Je condamne tout acte de résistance contre l’injustice et l’oppression, l’occupation. Comment osent les opprimés défier les oppresseurs ?

    Je condamne chaque victime de viol ayant résisté au violeur. Ne peux-tu pas simplement ouvrir les jambes et l’accepter ? Comment oses-tu refuser le plaisir du viol ?

    Je condamne les assassinats de tout système terroriste. Les oppresseurs devraient avoir carte blanche pour continuer leur oppression sans avoir à en rendre compte.

    Je condamne ces Palestiniens et leurs supporters… Pourquoi ne peuvent-ils pas juste se taire et accepter que cette occupation illégale est le seul super pouvoir de la région et que lui résister est un acte raciste.

    Je m’excuse réellement auprès de vous tous de ne pas avoir été capable de coexister avec l’oppression… et de n’avoir pas été capable d’accepter de prendre plaisir à la torture, à l’oppression et à l’humiliation. Certains y prennent plaisir… Pourquoi pas moi ?

    Je m’excuse de ne pas accepter l’exil de mon frère, l’emprisonnement de mes frères, de mes cousins, neveux, voisins, et tant d’autres… Je ne m’étais pas rendu compte que c’était pour leur bien, et qu’ils étaient mieux en prison ou en exil que dehors au soleil…

    Je m’excuse de ma stupidité. Je n’ai pas compris vos droits de l’homme et votre droit international. Je pensais que j’étais comme vous autres, et non pas un animal humain. Je m’excuse de mon ignorance… Je ne comprends même pas comment on peut être un animal humain. Je pensais qu’il y avait des êtres humains, et des animaux, bien que certains de ces animaux soient plus humains que les soi-disant humains…

    je m’excuse, je me suis trompé…

    J’ai vu comment vous souteniez des résistances comme l’Ukraine et acclamiez ces combattants pour la liberté. Et combien héroïques étaient ces enfants entraînés pour résister aux Russes et qui pensaient que c’était normal. Je suis vraiment stupide et je m’excuse de ma stupidité. Je devrais aussi condamner la résistance ukrainienne.

    Je le promets, je fêterais l’apartheid, je célébrerais la violations des valeurs et des droits humains.

    Je louerai tous les oppresseurs et les dictateurs

    Je devrais louer tous les violeurs pour qu’ils continuent leurs viols

    Je devrais louer tous les menteurs et les manipulateurs pour leur distorsions des faits et de la vérité

    Je suis vraiment désolé d’avoir tant échoué… Vraiment désolé de n’avoir pas su comment coexister avec ces doubles critères. Comment coexister avec l’occupation, l’oppression, la déshumanisation et en être heureux ?

    Avez-vous un entraînement spécial ? J’aimerais vous rejoindre. Ou plutôt vous pourriez me rejoindre, porter ma peau et me montrer comment je peux être le gentil animal que vous pourriez domestiquer ?

    Ou devrais-je simplement dire, non merci …

    Je ne peux jamais accepter vos ordres et votre chantage

    Je ne peux jamais accepter que les opprimés s’habituent à l’oppression et coexistent avec l’oppresseur tant que l’oppression durera

    Nous n’oublierons pas… Nous nous souviendrons

    Nous n’oublierons pas le silence, l’hypocrisie, les ordres et le chantage

    Nous n’oublierons pas ceux qui ont élevé la voix et se sont levés pour ce qui est juste

    Nous n’oublierons rien

    Vous pouvez continuer à nous pousser au désespoir et nous continuerons à faire épanouir l’espoir

    Vous pouvez continuer à promouvoir la mort… Nous continuerons à promouvoir la vie

    Vous continuerez à faire le pire… Nous continuerons à faire le meilleur

    https://blogs.mediapart.fr/dominique-natanson/blog/221023/condamnez-vous-le-hamas-un-palestinien-repond
    #condamnation #réponse #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #humanité #dignité #excuses #résistance #réfugiés_palestiniens #torture #oppression #humiliation #droit_international #animal_humain #animaux #viol #coexistence #oppression #silence #hypocrisie #chantage #désespoir #espoir #à_lire

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • Stop aux #massacres en cours à #Gaza

    L’horreur succède à l’horreur. Aux crimes antisémites commis par le #Hamas le week-end dernier et à la découverte des atrocités succède désormais la #vengeance aveugle du gouvernement israélien. Après avoir bestialisé les Palestinien·nes de Gaza par des déclarations racistes aux accents exterminateurs, le gouvernement Netanyahu déploie toute la disproportion de sa puissance militaire et diplomatique et prive les habitant·es de Gaza d’eau, d’électricité et de carburant tant que les otages ne sont pas libéré·es, et organise le déplacement forcé de plus de 1,1 million de personnes.

    Ces mesures criminelles et inhumaines, qui engagent le pronostic vital de 2,3 millions de personnes, s’accompagnent de #bombardements massifs occasionnant des victimes en grande majorité civiles, parmi lesquelles des enfants et des personnes vulnérables. Le bilan est actuellement de plus de 1500 mort·es et plus de 6600 blessé·es et s’alourdit d’heure en heure. Le massacre, les déplacements forcés de population et les restrictions infligées aux Gazaoui·es ne sont en aucune façon une réponse tolérable aux tueries du 7 octobre. Comme sont proscrits les prises d’otages et les massacres du Hamas, le #droit_international, notamment la convention de Genève interdit ce que pratique le gouvernement israélien : la prise pour cible de #civils ou d’objectifs civils, les #punitions_collectives, et le fait de priver des populations des biens nécessaires à leur survie. On ne peut répondre à des #crimes par d’autres crimes.

    Le massacre du 7 octobre oblige Israël à repenser la forme que peut prendre l’avenir pour les deux peuples sur cette terre. Deux options existent : la recherche difficile d’une solution politique acceptable pour les deux peuples, ou l’écrasement dans un #bain_de_sang de toute revendication palestinienne auquel continueront à répondre des meurtres et des attentats. La seule possibilité acceptable est celle d’une #paix fondée sur la #justice, pour toutes et tous. C’est ce que résume le slogan « Pas de justice, pas de paix », que beaucoup comprennent comme un appel à se battre mais qui n’est en réalité qu’un constat. Aujourd’hui, la pire solution semble privilégiée, mais nous n’avons pas d’autre choix que celui de croire en des jours meilleurs et de tout faire pour les voir arriver. Tikoun Olam.

    Nous pleurons toutes les victimes, assassinées par les tueurs du Hamas ou massacrées par le gouvernement d’Israël qui n’a comme seule ligne de conduite la #domination par la puissance des #armes. De part et d’autre de la frontière, plus de 2700 personnes ont déjà perdu la vie, plus de 10000 sont blessées et plus d’une centaine sont retenues en otage.

    Il est urgent que l’ensemble des pouvoirs étatiques, ONG, et observateurices exterieur·es, civil·es ou professionnel·les, mettent tout en œuvre pour obtenir la reprise des flux vitaux vers Gaza et la libération immédiate des #otages. Ils doivent imposer un #cessez-le-feu et forcer la reprise d’un réel processus vers une #paix_juste et durable dans le respect des résolutions de l’ONU, du droit international et des légitimes aspirations de paix et de justice pour les Palestinien·nes et les Israélien·nes.

    Notre cœur est déchiré mais nous ne pouvons pas participer en l’état à un certain nombre de rassemblements « en faveur des Palestinien·nes » organisés entre autres par des groupes ayant explicitement soutenu l’attaque du Hamas. Nous appelons ces organisations à une sérieuse #auto-critique. Nous rappelons encore une fois que le Hamas inscrit l’#antisémitisme jusque dans sa charte, que pour lui, tous·tes les Juif·ves sont des cibles, et qu’il n’a jamais hésité à mettre cette idée en pratique. Les déclarations de ces partis et groupes politiques ne nous permettent donc pas d’envisager ces rassemblements comme autre chose que des espaces d’indifférence ou même de réjouissance face aux massacres antisémites perpétrés. Elles nous indiquent, au contraire, que ce sont des lieux où notre sécurité physique et psychologique n’est pas assurée.

    Il en est ainsi lorsque le NPA dans un texte consacré au massacre dit apporter « son soutien aux moyens de lutte choisis par les Palestiniens pour résister » et parle, pour désigner les villages et kibboutzim où, au même moment, les tueurs du Hamas sont à l’œuvre, de « colonies acquises aux résistantEs »(communiqué du 7 octobre) ; lorsque #Palestine_Vaincra lit le massacre comme « une démonstration de force des capacités de la résistance qui met à nu la faillibilité du projet sioniste » (le 7 octobre) ; lorsque l’#UJFP compare les tueurs du Hamas aux héros de l’affiche rouge (le 9 octobre) ; lorsque Unité Communiste voit dans ces attaques « une preuve d’espoir pour les colonisés du monde entier » (le 10 octobre) ; ou lorsque le groupe Inverti·es mentionne le Hamas comme « un groupe de résistance derrière lequel se mobilise le peuple palestinien, […] fruit du #colonialisme » (11 octobre).

    Dans le même temps nous assistons à un durcissement de la droite, caractérisé notamment par la volonté du ministère de l’Intérieur de criminaliser et d’interdire toute manifestation de solidarité avec les Palestinien·nes. Parallèlement, certains utilisent le massacre du 7 octobre pour stigmatiser les minorités arabe et musulmane, considérées comme collectivement complices. Nous condamnons avec la plus grande force tout ces discours de #haine et de #stigmatisation envers les personnes arabes et/ou musulmanes et leur apportons tout notre soutien. Les Musulman·es de France ne sont pas plus responsables des crimes du Hamas que les Juif·ves de France ne le sont de ceux du gouvernement israélien.

    Nous ne souscrivons pas à la criminalisation du mouvement de #solidarité avec les Palestinien·es, qui n’est rien d’autre qu’une façon de laisser les mains libres au gouvernement israélien pour écraser Gaza sous les bombes et priver les Gazaoui·es des moyens élémentaires de survie. Au contraire, nous souhaitons participer à l’établissement d’un front réellement unitaire se donnant l’objectif et les moyens de réaliser une pression populaire internationale sur l’ensemble des acteurs du conflit.

    L’établissement d’un tel front ne peut se faire que sur la base d’une #condamnation sans équivoque des crimes du Hamas et du gouvernement israélien et avec une revendication de #paix_dans_la_justice. Nous appelons donc toutes les personnes partageant ces objectifs à réfléchir avec nous à l’organisation d’initiatives pour la paix et la justice qui ne sombreraient pas dans des logiques mortifères.

    https://juivesetjuifsrevolutionnaires.wordpress.com/2023/10/13/stop-aux-massacres-en-cours-a-gaza
    #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #à_lire

  • Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani
    https://irpimedia.irpi.eu/giudiziuniversali-processo-coblenza-detenuti-siria

    Storia del processo che ha portato alla sbarra uno dei responsabili dei sistematici omicidi dei detenuti politici siriani. Celebrato in Germania, è stato reso possibile dal lavoro di vittime e difensori dei diritti umani. E dalla giurisdizione universale Clicca per leggere l’articolo Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani pubblicato su IrpiMedia.

  • Il ministero dell’Interno condannato a risarcire un respinto a catena in Bosnia

    Il Tribunale di Roma ha accertato l’illegittimità delle “riammissioni” al confine orientale, ricostruendo il “nesso causale” tra respingimenti e trattamenti inumani. Il Viminale deve farsi carico del danno inflitto a un cittadino pakistano richiedente asilo. Decisivo il lavoro di rete tra attivisti, Ong e avvocati. Una decisione attualissima

    Il ministero dell’Interno è stato condannato dal Tribunale di Roma a pagare 18.200 euro a titolo di risarcimento nei confronti di A., cittadino originario del Pakistan in fuga dal Paese, per averlo prima fermato a Trieste e poi respinto in Slovenia e a catena verso la Croazia e la Bosnia ed Erzegovina. Nonostante avesse manifestato la volontà di domandare protezione internazionale. Cento euro per ogni giorno trascorso tra la “riammissione” in Slovenia avvenuta a metà ottobre 2020 e il rientro in Italia nell’aprile 2021, come prevede la giurisprudenza comunitaria e nazionale su casi assimilabili.

    La decisione della giudice Damiana Colla del 9 maggio è estremamente rilevante non soltanto perché “accerta e dichiara l’illegittimità” delle riammissioni informali attive da parte italiana ma soprattutto perché inchioda l’”evidente nesso di causalità” tra l’operato della polizia italiana e il “danno subito” da A.. “La lesione del diritto d’asilo e i trattamenti inumani -scrive infatti la giudice- sono stati la diretta conseguenza della riammissione informale del ricorrente in Slovenia da parte delle autorità di frontiera di Trieste”.

    La decisione ottenuta dalle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla dell’Asgi, commenta la stessa Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, “è stata il frutto di un lavoro di rete che ha visto coinvolti diversi soggetti attivi nel contrasto alle violenze verso le persone in movimento attivi lungo la rotta balcanica, tra i quali la rete RiVolti ai Balcani (in particolare Gianfranco Schiavone e Agostino Zanotti), la giornalista Elisa Oddone, la Ong ‘Lungo la rotta balcanica’, l’associazione Pravni center za varstvo človekovih pravic in okolja – Legal Centre for the Protection of Human Rights and the Environment (Pic, in particolare Ursa Regvar), il progetto Medea dell’Asgi, Ics Ufficio Rifugiati, Linea d’ombra, il Centro per la Pace di Zagabria, Anela Dedic e tutti gli attivisti e attiviste che agiscono per la tutela per i diritti umani in Bosnia ed Erzegovina e lungo le rotte percorse dalla persone in transito”.

    Nuove ombre si allungano su una prassi che i governi europei intendono invece elevare sempre più a norma “guida” della brutale gestione delle frontiere, come dimostra l’accordo al Consiglio europeo Giustizia e Affari interni dello scorso 8 giugno sui regolamenti in tema di gestione dell’asilo e della migrazione e delle procedure.

    Non si tratta di un’ordinanza che guarda a un passato ormai superato o a una pagina triste nel frattempo voltata: se è vero infatti che l’Italia ha condotto i respingimenti verso la Slovenia per tutto il 2020 e li ha sospesi nel 2021, è noto che da fine 2022 il nuovo governo abbia annunciato di volerli riprendere (con “risultati” incerti di cui abbiamo già scritto). Il tutto nonostante il precedente dell’ordinanza cautelare del Tribunale di Roma a firma della giudice Silvia Albano, emessa nel gennaio 2021 a fronte del ricorso promosso sempre dalle avvocate e socie Asgi Caterina Bove e Anna Brambilla (la vicenda è ben raccontata nel film “Trieste è bella di notte” dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore).

    La storia di A. ricostruita nella decisione di Roma è tanto forte quanto emblematica. La sua fuga dal Pakistan inizia nel 2018, quand’è ferito in un attacco del gruppo terroristico Tehrik-i-Taliban Pakistan. Sopravvissuto, e temendo ritorsioni da ambo le parti (estremisti ed esercito cui apparteneva), decide di scappare. Resta per un anno in Turchia e per tre volte prova a entrare in Grecia, nell’Unione europea. Al terzo tentativo riesce, attraversando poi la Macedonia del Nord, la Serbia e arrivando nell’estate 2019 in Bosnia ed Erzegovina.

    Per nove volte è respinto dalle polizie croate e per tre da quelle slovene. Il primo ottobre 2020, a “riammissioni informali attive” ormai a pieno regime da parte italiana, gli riesce il “game” che lo porterà a Trieste nella mattinata del 17 ottobre. Qui però alcuni militari lo fermano quasi subito insieme ad altre quattro persone. Finiscono tutti in una stazione di polizia dove sono visitati e gli vengono fatti firmare fogli non tradotti dal contenuto oscuro. A. riferisce però agli agenti di voler chiedere asilo ma questi lo “affidano” alla polizia slovena. Non ha niente in mano: “informale” vuol dire infatti respinto senza lo straccio di un provvedimento scritto, motivato, impugnabile, cioè senza convalida dell’autorità giudiziaria, senza diritto a un ricorso effettivo. A riprova di quanto sia basso e surreale il dibattito sul garantismo in Italia.

    È così che A., con l’etichetta fasulla di “cittadino extraeuropeo entrato irregolarmente” e non invece di richiedente asilo, si fa una notte in una stazione di polizia slovena e il giorno dopo si vede “consegnato alle autorità croate e da queste respinto in Bosnia con metodi violenti, comprese percosse”, sempre per citare il giudice di Roma.

    Alla fine della catena lo attende la Bosnia ed Erzegovina. Nel caso di A. è l’insediamento informale di Vedro Polje, poco distante da Bihać, nel Nord-Ovest del Paese. Per via delle “degradanti condizioni di vita al campo”, come si legge nell’ordinanza che ha condannato il Viminale, A. decide di riprovarci. Lì non può rimanere. Ce la fa, di nuovo, perché “frontiere chiuse” è uno slogan vuoto, e ad aprile del 2021 torna nell’Italia che lo aveva illegalmente respinto. Tre mesi prima, come detto, la giudice Albano del Tribunale di Roma aveva già sanzionato il ministero dell’Interno per le stesse riammissioni (caso specifico diverso, naturalmente). A., memore del precedente respingimento, abbandona in fretta Trieste e raggiunge Brescia. Il 10 maggio fa quella domanda d’asilo che gli era stata negata dalla polizia italiana qualche mese prima e a tre giorni da Natale si vede riconoscere lo status di rifugiato. Ma non gli suona come un lieto fine quanto lo sprone a chieder giustizia per quel respingimento illegale subìto.

    Il 31 dicembre 2021 fa perciò ricorso. Il ministero dell’Interno si costituisce in giudizio il 27 settembre 2022 sostenendo che no, non si sarebbe trattato di un’espulsione collettiva vietata dal diritto internazionale ed europeo, che l’intera procedura si sarebbe svolta nel rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone coinvolte, che la pratica sarebbe stata pienamente legittima e che il danno subito dal ricorrente (cioè A.) non sarebbe stato dimostrato.

    Il Tribunale di Roma dà però torto a Roma e ragione ad A. e alle avvocate Bove e Brambilla, facendo così squagliare la tesi difensiva del Viminale come il sole fa con la neve. “Il trattamento che il ricorrente ha descritto di aver subito da parte delle autorità di frontiera italiane al momento del suo primo ingresso a Trieste […] è stato pienamente provato in giudizio”, scrive la giudice Colla. Dalla manifestazione della volontà di chiedere protezione alla presa in consegna da parte delle autorità slovene. È documentata anche la catena: la detenzione in Slovenia al Centro per stranieri di Veliki Otok, nella Postumia (Carniola interna), e la successiva riammissione in Croazia. Fino alla Bosnia. Nessun alibi quindi per il Viminale, che della mancata prova dell’arrivo in Italia dei respinti ne ha fatto fino a oggi un leitmotiv. Questa volta non gli è riuscito nascondere la mano.

    Nella “jungle” di Vedro Polje, dove si trova a inizio 2021, A. ha per fortuna incontrato la giornalista Elisa Oddone e l’operatore sociale Diego Saccora dell’associazione “Lungo la rotta balcanica” (e tra le anime della rete RiVolti ai Balcani). Oddone, che stava curando un reportage per Al Jazeera ed NPR, raccoglie la testimonianza di A. e fa da primo contatto-ponte con le avvocate Bove e Brambilla. Anche Saccora confermerà in Tribunale più incontri con A.. A Vedro Polje infatti l’operatore sociale e ricercatore sul campo portava assistenza e beni di prima necessità. Non solo: lo accompagna di persona presso uno studio notarile di Bihać “per conferire mandato agli attuali difensori al fine di esperire ricorso avverso la riammissione in Slovenia”. A dimostrazione che il supporto incisivo alle persone in transito calpestate dai governi europei alle frontiere può assumere le forme più svariate, e che l’aiuto più distante dalla solidarietà istituzionalizzata può passare persino dalla ceralacca di un notaio. Quante pagine gravi e paradossali faranno scrivere ancora le politiche europee?

    Oddone e Saccora raccontano per filo e per segno al giudice le condizioni proibitive in cui si trovava all’epoca A. insieme ad altri. Riparati nei boschi, con la temperatura fino a venti gradi sotto zero di un inverno bosniaco, senz’acqua, senza accoglienza per via della chiusura dei due campi locali più grandi, praticamente senza cibo, stretti tra “ronde” di cittadini locali ostili e “possibili furti da parte di altri gruppi di richiedenti asilo, alla ricerca di quanto necessario alla sopravvivenza”.

    Secondo il Tribunale di Roma la riammissione “informale” di A. da parte dell’Italia avrebbe “contraddetto” le “norme di rango primario, costituzionale e sovranazionale, le quali, evidentemente, non possono essere derogate da un accordo bilaterale intergovernativo (del 1996, ndr) non ratificato con legge”.

    “La Direttiva 2008/115/CE non legittima affatto, anzi contrasta con la descritta pratica di riammissione informale posta in essere dal governo italiano -chiarisce la giudice Colla-. Infatti, sebbene tale direttiva (al suo art. 6, par. 3) consenta agli Stati membri di riammettere nello Stato confinante di provenienza senza una specifica decisione di rimpatrio, qualora sussistano accordi bilaterali tra gli Stati interessati già vigenti alla data di entrata in vigore della direttiva stessa (essendo tali accordi invece non più consentiti nella vigenza della stessa), tuttavia, nell’esecuzione dell’accordo, lo Stato italiano è comunque vincolato dalla normativa interna anche costituzionale (art 13 Cost.), nonché dal diritto sovranazionale, alla stregua del quale lo Stato ha il dovere di accertare la situazione concreta nella quale la persona riammessa verrà a trovarsi, con particolare riferimento all’eventualità di una violazione dei suoi diritti fondamentali (che si prospettava nel caso di specie secondo le informazioni largamente disponibili). Soprattutto poi, la riammissione informale non può mai essere applicata nei confronti di una persona che manifesti l’intenzione di chiedere asilo, come nella specie accaduto”.

    Oltre al regolamento 604/2013 (Dublino III), l’Italia, nella foga di respingere, avrebbe persino violato lo stesso accordo bilaterale con la Slovenia. L’articolo due prevede infatti che ciascuna parte, su richiesta dell’altra, “si impegna a riammettere sul proprio territorio il cittadino di uno Stato terzo che non soddisfa le condizioni di ingresso o di soggiorno nel territorio dello Stato richiedente, non potendosi evidentemente considerare in tale situazione chi abbia espresso la volontà di chiedere protezione”. Proprio come A..

    A titolo di aggravante per le autorità italiane, segnala poi il Tribunale elencando corposa bibliografia, c’è anche il fatto che queste erano “perfettamente” a conoscenza -“o almeno trovandosi nella condizione di avere perfetta conoscenza”- “delle violazioni cui i respinti sarebbero stati esposti in Slovenia”, così come in Croazia, per non parlare delle condizioni orribili in Bosnia ed Erzegovina, denunciate anche dalla commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović.

    A maggior ragione dopo le tredici pagine dell’ordinanza del Tribunale di Roma nessuno potrà dire “non sapevo”. Nel buio spicca il “lavoro di rete per contrastare le violazioni”, come lo chiamano le avvocate Bove e Brambilla. “La decisione è un importante risultato non solo perché ribadisce l’illegittimità della condotta posta in essere dalle autorità italiane -concludono- ma perché valorizza, anche attraverso l’assunzione della testimonianza diretta di Saccora e Oddone, l’impegno di tante persone che si impegnano a denunciare e contrastare le violazioni dei diritti delle persone in transito”.

    https://altreconomia.it/il-ministero-dellinterno-condannato-a-risarcire-un-respinto-a-catena-in

    #justice #Italie #frontière_sud-alpine #Slovénie #frontières #migrations #asile #réfugiés #condamnation #refoulements #refoulements_en_chaîne #push-backs #tribunal #réadmissions #Trieste #réadmissions_informelles_actives #Bihać #Bihac #Vedro_Polje #Veliki_Otok #Croatie #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #forêt #hostile_environment #environnement_hostile #accord_bilatéral

    –—

    ajouté à la #Métaliste sur les #refoulements_en_chaîne sur la #route_des_Balkans:
    https://seenthis.net/messages/1009117

  • « Il n’y a pas de justice pour nous » : à Pontoise, l’écrasement judiciaire de la révolte se poursuit
    https://www.revolutionpermanente.fr/Il-n-y-a-pas-de-justice-pour-nous-a-Pontoise-l-ecrasement-judic

    Quand vient le moment des délibérés, des policiers envahissent les petites salles d’audience du Tribunal de Pontoise et enserrent de façon anxiogène les rangs du public. Un homme noir, installé dans le public, regarde un instant son téléphone, un policer le menace immédiatement de le poursuivre pour outrage. Du côté des détenus aussi, derrière les vitres, le nombre de policiers est doublé, faisant pressentir à tout le monde la lourdeur des peines à venir et la colère que l’institution judiciaire est consciente qu’elle va déclencher.

    Le couperet tombe enfin et comme partout, les peines sont insoutenables. Pourtant la plupart sont sans casier, les dossiers vides, les preuves très faibles, comme le répètent les avocats, mais la plupart prennent des peines de prison ferme. Le groupe d’adolescents de 18 ans, poursuivis pour « groupement… », obtient une peine de 8 mois d’emprisonnement à domicile avec bracelet électronique. « On est soulagés qu’ils ne retournent pas en prison ce soir même si une peine de 8 mois d’emprisonnement à domicile, c’est énorme pour des gens sans casier et pour des faits comme ceux-là. Ils écopent aussi d’une interdiction de paraître à Argenteuil, alors qu’ils y vivent… » conclut Louisa.

    Partout les familles et les amis sont brisés par les condamnations. Un lycéen de 18 ans, sans casier prend 12 mois de prison ferme avec mandat de dépôt (départ en prison depuis l’audience). Il est accusé d’avoir fourni le briquet qui aurait servi à l’incendie d’une voiture. A la lecture du délibéré, sa mère s’effondre. Dans une autre salle, on annonce qu’un chauffeur de bus, père de famille, part en prison lui aussi pour 12 mois ferme. On lui reproche d’avoir transporté des feux d’artifice et d’avoir été interpellé avec du cannabis sur lui.

    Dans la foulée, un jeune homme est condamné lui aussi à 12 mois ferme avec mandat de dépôt pour conduite sans permis et refus d’obtempérer, sans participation aux émeutes. A la nouvelle, sa compagne, enceinte, s’effondre par terre et fait une crise d’épilepsie. Derrière la vitre, son mari la voit, paniqué, et est violemment immobilisé par les policiers autour de lui. Pendant ce temps la juge s’époumone en hurlant sur la famille de quitter la salle, alors même que la jeune femme est inanimée par terre face à elle. Une femme de la famille, est en pleurs : « On a moins quand on est un violeur aujourd’hui en France ».

  • Érythrée | La pratique Suisse vertement critiquée par l’ONU

    Le 30 janvier 2023, le CAT, Comité de l’ONU chargé de surveiller l’application de la Convention internationale contre la torture et les traitements inhumains et dégradants a estimé que le renvoi d’une femme vers l’Érythrée violerait l’article 3 interdisant le refoulement vers un pays dans lequel la personne serait exposée à la torture (A.Y. Switzerland (CAT/C/74/D/887/2018)). La femme avait fui le pays pour échapper au service militaire et sa demande d’asile avait été rejetée pour « invraisemblance » sur la base d’une audition très sommaire durant laquelle on lui avait intimé de ne pas s’étendre sur ses motifs de fuite. Outre une critique sévère contre la procédure en question, qu’il estime insuffisante, le CAT juge problématique l’attitude de la Suisse à l’égard de l’Érythrée, qui s’appuie sur des informations controversées tout en délégitimant des sources émanant d’instances internationales et des témoignages de personnes ayant subi et fui les violences. C’est la quatrième fois en moins d’un an que la Suisse est condamnée par le CAT pour des cas érythréens. Va-t-elle enfin revenir sur son changement de pratique de 2017 à l’égard de ce pays notoirement connu comme la Corée du Nord de l’Afrique ? Karine Povlakic, juriste au SAJE, nous livre son analyse. [réd.]

    Ce que dit le CAT de la procédure helvétique

    Dans sa communication du 30 janvier 2023, le CAT rappelle que l’examen du risque individuel, actuel et concret en cas de refoulement en Érythrée doit reposer tant sur les motifs invoqués par l’intéressée que sur les informations généralement accessibles en matière de respect des droits humains dans le pays d’origine. (§ 8.3) Concernant le premier point, le CAT reproche à la Suisse de s’être essentiellement fondée sur les déclarations de l’audition sommaire, sans véritablement examiner les motifs d’asile développés dans l’audition fédérale (§ 8.9). Il lui reproche aussi de s’appuyer sur des informations sur la situation en Érythrée « intentionnellement sélectives », notamment basées sur des rapports d’autorités britanniques et danoises pourtant « sévèrement critiqués » pour leur partialité. Ce faisant, le SEM s’est lui-même montré partial lors de l’examen des motifs d’asile de la requérante. (§ 8.12).

    En ce qui concerne la situation en Érythrée, le Comité note que, dans ses plus récentes observations, le Comité des Nations Unies pour l’élimination de la discrimination envers les femmes demeure profondément préoccupé des conséquences sérieuses de l’obligation de service national sur les droits des femmes. Le Rapporteur spécial relève en outre que les déserteur·es ne bénéficient pas d’un procès équitable, qu’ils et elles sont présumé·es connaître les raisons de leur arrestation et de leur détention, et qu’ils et elles n’ont aucun moyen de contester celles-ci. Les jeunes conscrit·es, même mineur·es, sont soumis·es à des conditions d’entraînement extrêmement sévères et sujet·es à des châtiments ou à des violences sexuelles, notamment à Sawa. Les déserteur·es encourent la torture et de longues périodes de détention. Les requérant·es d’asile qui sont retourné·es en Érythrée ont été soumis à des châtiments sévères à leur retour, notamment à des détentions de longue durée au secret, des tortures et des mauvais traitements, et les femmes exposées à de multiples abus, y compris de la violence sexuelle, des viols, ou des menaces de viols et du harcèlement sexuel, ceci dans l’impunité des auteurs de ces violences. En outre, le Rapporteur spécial a observé une dégradation de la situation depuis le début de son mandat en novembre 2020, en raison de l’engagement de l’Érythrée dans le conflit au Tigré éthiopien. Celles et ceux qui ont tenté de fuir pendant cette période ont été soumis à des conditions inhumaines et dégradantes de détention pour des durées indéterminées. Les autorités ont également puni les déserteur·es en emprisonnant un parent dans le but de les contraindre à se rendre. Les rafles ont également considérablement augmenté dans tout le pays. (§ 8.11)

    Le Comité considère dans cette affaire que l’État partie n’a pas pris en compte ces informations, particulièrement celles concernant les personnes en fuite et le traitement des femmes dans l’armée. Indépendamment de la vraisemblance de ces motifs, la requérante est une personne à risque en tant que femme, en tant que femme en âge de la circonscription, et en tant que requérante d’asile déboutée. Ceci, « sur la base de faits incontestés » et « dans le contexte d’informations actualisées »(§ 8.12) Le Comité conclut que, dans le cas d’espèce, la requérante serait exposée à un risque prévisible, concret, actuel et personnel d’être soumise à la torture en cas de renvoi en Érythrée, en violation de l’article 3 de la Convention.

    Plusieurs autres recours auprès du Comité de l’ONU contre la torture ont conclu au même risque de violation du principe de non-refoulement (art.3), dont trois en 2022. Ils seront à retrouver en lien avec cet article sur asile.ch.

    Vers un changement de jurisprudence ?

    Il ressort de l’ensemble de ces décisions qu’un retour au pays, même après avoir éventuellement signé une lettre de regrets et payé une taxe, les exposerait à un risque suffisamment étayé de détention arbitraire et de torture, compte tenu des enquêtes récentes conduites par les différents organes des Nations Unies en matière de respect des droits humains en Érythrée, sur la base de témoignages eux-mêmes concordants et crédibles de personnes en fuite et en l’absence de possibilité de mener des investigations à l’intérieur même du pays. Cette situation concerne tou·te·s les Érythréen·nes en âge d’effectuer un service militaire ou civil, jusqu’à l’âge de 40 ans, mais également celles et ceux qui ont fui le pays depuis de nombreuses années, et qui ne peuvent justifier à leur retour d’un séjour légal à l’étranger non lié à une demande d’asile.

    Ainsi, on doit considérer que, d’une manière générale, l’exécution du renvoi des demandeur·es d’asile érythréen·nes, n’est pas licite, sauf à démontrer que, dans un cas particulier, l’autorité serait à même de prouver une exemption du service national, un départ licite du pays, ou un séjour légal en Suisse non lié à une demande d’asile.

    En principe, les recommandations des décisions du CAT devraient être respectées par la Suisse et faire jurisprudence, en ce sens que la même solution devrait être applicable à tou·te·s les Érythréen·nes qui ont fui le pays plus ou moins dans les mêmes circonstances et plus ou moins au même âge, ce qui est le cas de la plupart des requérant·es d’asile débouté·es originaires d’Érythrée. Au lieu de cela, tant le SEM que le TAF considèrent jusqu’à présent que chaque décision du CAT ne s’applique qu’à la personne qui a conduit la plainte.

    Dans leur réponse, négative, à une demande de réexamen s’appuyant sur ces précédentes condamnations, l’autorité nous explique que « selon l’appréciation du SEM, les décisions du CAT présentent d’importantes lacunes méthodologiques. » Ce point de vue contourne les obligations des autorités suisses en matière d’application de bonne foi des traités internationaux et de respect des droits humains. En particulier, la position du SEM prive la jurisprudence du CAT de son « effet utile ». Or, selon une formule consacrée de la Cour européenne des droits de l’homme, « les droits humains doivent être garantis de manière concrète et effective et non pas théorique et illusoire ». En l’occurrence, si chacun·e des 414 Érythréen·nes vivant à l’aide d’urgence en Suisse doit déposer une plainte devant une instance internationale pour que le danger de torture en cas de refoulement soit reconnu par le SEM, la garantie tirée de la Convention contre la torture demeure théorique.

    Nous sommes donc actuellement confronté·es à un manque de respect flagrant, à l’encontre de tout un groupe de population, de droits humains parmi les plus essentiels : le droit à la protection de l’intégrité, de la sécurité et de la vie. Cette posture, qui est politique, exclut les Érythréen·nes débouté·es de la protection juridique, uniquement par la volonté des autorités de ne pas leur accorder cette protection, c’est-à-dire, de manière discriminatoire.

    https://asile.ch/2023/06/07/erythree-la-pratique-suisse-vertement-critiquee-par-lonu

    #réfugiés_érythréens #Suisse #asile #migrations #réfugiés #Erythrée #CAT #condamnation

  • Violences académiques ordinaires

    Violences et souffrances académiques : atteintes au #service_public et à la #santé_au_travail

    Ce troisième numéro de Mouvements consacré au champ académique, après ceux de 2008 (« Que faire pour l’Université ? ») et 2012 (« Qui veut la peau de la recherche publique ? »), trouve sa genèse dans un colloque consacré aux violences ordinaires dans les organisations académiques en juin 2022[1]. Lors des deux journées de discussion, les communications ont permis de mesurer à quel point, depuis ces quinze dernières années, le champ de l’enseignement supérieur et la recherche (ESR) a été profondément bouleversé par toute une série de réformes, depuis la #loi_LRU (Liberté et responsabilité des universités) en 2007 jusqu’à la #Loi_de_programmation_de_la_recherche (#LPR) votée en 2020. #Fusions, #précarisation, raréfaction des #postes – alors que les effectifs étudiants progressent –, #managérialisation, #sous-traitance, multiplication des #évaluations (des établissements, des formations, des professionnel·les comme des équipes) et de leurs instances, induisent #pression_psychique et dégradation des conditions de travail et rendent davantage visible et légitime la question de la #souffrance_au_travail.

    Qu’en est-il du #quotidien bouleversé de ces organisations en transformation et de celles et ceux qui y travaillent ? Comment cela se traduit-il sur le plan des décisions, des dispositifs, des activités, des interactions, des engagements et des subjectivités ? C’est cette attention aux « violences ordinaires » dans les #institutions_académiques qui constitue le cœur de ce numéro de Mouvements. Par #violence_ordinaire, nous entendons tout type de #contrainte verbale, morale, psychologique ou symbolique exercée sur les #corps au travail et ressentie comme telle par celles et ceux qui les vivent (et qui essaient – ou non – de s’en défendre). Comme y insiste l’article de Stéphane Le Lay et Olivia Chambard, quelle que soit la forme de ces violences, il importe d’essayer de comprendre leurs liens avec les #rapports_de_domination et d’interroger leur inscription – et la nature de cette inscription – dans des configurations organisationnelles ou des structures sociales ou culturelles propres à l’ESR.

    Ceci est d’autant plus important que se sont multipliées récemment les critiques à l’encontre d’enseignant·es-chercheur·euses supposé·es déconnecté·es du monde réel dans leurs enseignements (en inadéquation avec le marché du travail), et dans leurs recherches (insuffisamment en prise avec les « défis sociétaux » et la « demande sociale »). À celles-ci s’ajoutent désormais des #attaques, internes ou externes au champ académique, contre certaines disciplines et certains travaux suspectés d’être disculpants, politisés, voire contraires aux valeurs de la République[2]. L’université et la liberté consubstantielle à ses activités intellectuelles – l’#indépendance des chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses étant inscrite dans la loi – sont mises à mal de manière plurielle par manque de moyens, mise au pas organisationnelle et #condamnation_morale. Si des travaux analysent les effets de ces réformes néolibérales sur le travail des chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses, à l’image des articles de Frédérique Debout, d’Ambre Guichard-Ménard et de l’Observatoire des Conditions de Travail à l’Université de Caen Normandie, ils sont plus rares, voire inexistants, sur les conditions de travail des personnels administratifs ou techniques de l’ESR ou des salarié·es en sous-traitance exerçant dans les établissements académiques. Dans ce numéro, l’article d’Hugo Bret sur le #personnel_de_nettoyage d’une université et celui du collectif C. Noûs-Aussi consacré à l’#édition_scientifique permettent justement de jeter un regard incisif sur ces zones d’ombre.

    Les rapports de domination entre les statuts, les corps et les disciplines constituent de fait une clé d’entrée pour comprendre la spécificité des types de violence dans les organisations universitaires et académiques et leur analyse est ancienne. Plus récemment, des auteur·rices ont néanmoins renouvelé la perspective en s’emparant en particulier de la question des #violences_sexistes_et_sexuelles (#VSS) à l’université, sur lesquelles reviennent trois articles. L’un provient d’une chercheuse militante, sous la forme d’un témoignage anonyme. L’autrice prend appui sur son expérience en tant qu’étudiante, victime et témoin de violences, dans une grande école et évoque les actions collectives qui s’en sont suivies. De son côté, à partir du cas espagnol, Verónica Cala analyse finement les interrelations entre pensée féministe et action militante, expliquant en quoi l’université peut être aussi bien un terreau fertile qu’un système nuisant aux avancées pourtant nécessaires au développement de la pensée transformatrice féministe. Enfin, l’article d’Armelle Andro se penche sur les modalités de prise en charge des VSS spécifiques au monde académique, qui ont notamment fait suite à des médiatisations et des mobilisations importantes. Apportant un cadrage complémentaire, il expose les avancées et les freins au traitement institutionnel des VSS depuis vingt ans, pointant les spécificités et l’hétérogénéité des situations rencontrées dans le champ académique. Traitant aussi, mais de manière différente, la question des #rapports_sociaux (de sexe, hiérarchiques et de race), Morgane Le Guyader se penche sur le concept de #violence_épistémique. Celui-ci s’avère utile pour pointer ce qui, à l’intérieur même des critères de scientificité, vient discréditer certains points de vue indigènes ou subordonnés. Ce texte élabore une critique qui a l’intérêt de proposer d’autres manières de rendre compte de l’expérience sensible qui traverse les enquêté·es aussi bien que les enquêteurs et enquêtrices.

    Plusieurs articles de ce numéro, à l’image de celui de Marina Pietri consacré à une #animalerie_scientifique, cherchent ainsi à rendre compte de la manière dont la #division_du_travail au sein des organisations académiques est productrice de formes de violence, examinées comme étant propres à une activité et un rôle spécifiques, aussi bien que dans leur dimension transversale, lorsqu’elles affectent différentes catégories de personnels (chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses, doctorant·es, personnels administratifs, techniques, etc.). Ce faisant, peut être interrogée la place des stratégies défensives liées aux cultures de métier et érigées pour lutter contre la souffrance. Plusieurs articles abordent également les manières dont les #inégalités et #discriminations s’activent et se reproduisent, dans des configurations où la hiérarchie bureaucratique peut se superposer aux formes de #domination_académique. Se donne alors à voir en quoi ces inégalités permettent de révéler des formes de #mépris plus ou moins visibles, qui peuvent aller de la délégation systématique du « sale boulot » à l’invisibilisation ou l’appropriation du travail d’autrui, en passant par l’empêchement de travailler et le #harcèlement.

    Pour faire face à l’aggravation de la situation en matière de santé physique et mentale, les établissements du supérieur ont obligation, depuis 2012, de mettre en place un Comité d’hygiène, de sécurité et de conditions de travail (#CHSCT). Très variables selon les établissements, les modalités déployées en faveur de la prise en charge des « #risques_psychosociaux » (#RPS) se font régulièrement timides… ou inexistantes. Dans certains établissements, les fonctions de référent « Égalité, RPS, Handicap » ne sont pas pourvues, tardent à l’être ou encore ne sont dotées d’aucun moyens significatifs pour leur action, qui demeure parfois lettre morte. Nombre d’actrices et d’acteurs de terrain sont pourtant en première ligne et certain·es particulièrement actif·ves pour lutter contre les violences et réguler les dérives : préventeur·rices, médecins du travail, représentant·es du personnel siégeant ou non dans les CHSCT, associations féministes et de personnels précaires, sans oublier les juristes, certain·es cadres administratif·ves et personnes en responsabilité dans les composantes et les laboratoires. L’article de Gwenaël Delaval, Emmanuelle Puissant et Samira Saïdoune, consacré à un « #dispositif_RPS » dans une université, aborde les enjeux de cette prise en charge institutionnelle.

    On le voit, les chantiers ouverts sont nombreux et délicats à mener pour rendre visibles et pour lutter efficacement contre les différentes formes de violence, en desserrant l’étau des rapports de domination. Gageons que les contributions de ce numéro de Mouvements œuvreront dans ce sens, grâce à la réflexion individuelle et aux discussions collectives qu’elles susciteront dans le champ académique, et aux pistes d’action qu’elles ouvrent ainsi.

    https://mouvements.info/edito/violences-et-souffrances-academiques-atteintes-au-service-public-et-a-l
    #ESR #université #violence #violences_ordinaires #souffrance #conditions_de_travail #travail #recherche

    ping @karine4 @_kg_

  • ArcelorMittal : révélations sur un pollueur hors-la-loi
    https://disclose.ngo/fr/article/arcelormittal-revelations-sur-un-pollueur-hors-la-loi

    Depuis dix ans, le leader européen de l’acier dépasse les limites de pollution autorisées par la loi, en dépit de graves risques sanitaires. Des documents confidentiels obtenus par Disclose révèlent des manquements répétés au sein des deux principales usines d’ArcelorMittal en France, à Dunkerque et Fos-sur-Mer. Lire l’article

  • ArcelorMittal : un champion des émissions de CO2 biberonné aux aides publiques
    https://disclose.ngo/fr/article/arcelormittal-un-champion-des-emissions-de-co2-biberonne-aux-aides-publiqu

    Depuis 2013, le géant de l’acier ArcelorMittal a reçu pas moins de 392 millions d’euros de fonds publics, malgré des infractions répétées à la réglementation environnementale et de multiples condamnations pour pollution en France. Lire l’article

  • Procès des militants anti-bassines de Niort, la désobéissance civile condamnée | Clara Menais
    https://www.blast-info.fr/articles/2023/proces-des-militants-anti-bassines-de-niort-la-desobeissance-civile-conda

    Cinq militants anti-bassines étaient jugés ce vendredi 6 janvier à Niort pour des dégradations et des violences commises lors de l’envahissement d’un chantier à Mauzé-sur-le-Mignon en septembre 2021. Peines de prison avec sursis, interdictions de territoire, enquête zélée : ce procès signe une nouvelle escalade sécuritaire de l’État à l’encontre du mouvement écologiste. Source : Blast

  • Sous #Macron, plus de policiers mis en cause mais moins condamnés

    Politis a obtenu les chiffres inédits du traitement judiciaire des violences policières de 2016 à aujourd’hui. Ils montrent l’explosion du nombre de policiers mis en cause (+ 57 %) et l’effondrement des taux de condamnation (- 20 points). Analyse.

    Comment la justice traite les dossiers de violences policières ? Jusque-là, il était difficile d’avoir une analyse quantifiée : les chiffres étaient inaccessibles. Suite à nos demandes, le bureau des statistiques du ministère de la Justice nous a finalement communiqué les premiers chiffres concernant le « traitement des auteurs dans les affaires de violences volontaires par personnes dépositaires de l’Autorité Publique », c’est à dire policiers, gendarmes et policiers municipaux.
    Plus 57 % de mis en cause

    Premier élément qui saute aux yeux : l’explosion du nombre de personnes dépositaires de l’autorité publique mises en cause pour violences volontaires en cinq ans. Elles étaient 534 en 2016, elles sont 836 en 2021, soit une augmentation de 57 %. L’augmentation annuelle la plus nette intervient entre 2019 et 2020 : on passe de 596 mis en cause à 752. 

    En revanche, la part des auteurs poursuivis et, plus encore, condamnés, reste basse. En 2021, sur 836 auteurs mis en cause seuls 146 ont fait l’objet de poursuites soit 17,5 %. Le nombre de condamnations n’a pas été communiqué pour cette année. En 2020, le pourcentage d’auteurs poursuivis est de 19,6 % – 148 sur 752 mis en cause. Seuls 58 ont été condamnés, soit à peine 7 % des policiers mis en cause.

    L’évolution du taux de poursuites reste stable autour de 16 %. Une augmentation sensible a cependant eu lieu en 2016 – 22 % des auteurs signalés étaient poursuivis – probablement dû à la mobilisation contre la loi travail. Une augmentation qu’on ne retrouve pourtant pas lors des années « gilets jaunes », en 2018 et 2019.

    Autre évolution notable : le taux de condamnation des policiers poursuivis s’effondre sous l’ère Macron. En 2016, 59 % des policiers poursuivis ont été condamnés (13 % des mis en cause), en 2020 ce taux sombre à 39 % (soit seulement 7,7 % des mis en cause). Le détail des peines prononcées n’a pas été communiqué par le ministère. Politis a fait une demande de précisions sur ce point.

    Quels sont les leviers qui aboutissent à des taux de poursuites et de condamnation aussi bas ?

    Le premier est le classement sans suite, notamment pour « infraction mal caractérisée ». Ce que le ministère a classé dans une ligne nommée affaires « non poursuivables » (terme que nous avons réutilisé dans notre graphique). La part des auteurs « non poursuivables » par rapport au nombre des mis en cause est très élevée : 67 % en 2016, 69 % en 2020.

    Mais même parmi les policiers dont les affaires sont « poursuivables », d’autres tris s’appliquent via notamment le classement pour « inopportunité des poursuites » : 15 % des auteurs « poursuivables » en ont bénéficié en 2016, 23 % en 2018 et 2019, et 12 % en 2020.

    Enfin, les auteurs peuvent bénéficier de mesures alternatives aux poursuites : 18 % des auteurs « poursuivables » en bénéficie en 2016, 25 % en 2018 et 2019 ; et 22% en 2020. Tout cela favorise donc un nombre très réduit de poursuites effectives et, par conséquent, de policiers finalement condamnés.

    https://www.politis.fr/articles/2022/12/exclu-politis-sous-macron-plus-de-policiers-mis-en-cause-mais-moins-condamne

    publié aussi par @colporteur :
    https://seenthis.net/messages/983445

    #police #violences_policières #impunité #violence_d'État #justice #condamnation #mise_en_cause #violences_volontaires #poursuite #peines #classement_sans_suite #non_poursuivables #inopportunité_des_poursuites #France #police #forces_de_l'ordre #macronisme

  • Harcèlement moral : ce que change le verdict du procès France Télécom
    https://theconversation.com/harcelement-moral-ce-que-change-le-verdict-du-proces-france-telecom

    Par ailleurs, selon une source syndicale, les honoraires des avocats des prévenus se seraient élevés à près de 20 millions d’euros, entièrement pris en charge par les « assurances dirigeants ». Par contraste, l’arrêt ne prévoit pas, pour les parties civiles syndicales, le remboursement des honoraires de leurs avocats à la hauteur des dépenses engagées. Une telle décision fragilise la capacité des organisations syndicales à défendre les salariés par la mobilisation du droit devant les juridictions. L’égalité des armes entre les protagonistes des procès reste à réaliser.

    Et les criminels vont encore dépenser l’argent des autres pour se pourvoir en cassation.

  • Mines guinéennes : le milliardaire Beny Steinmetz joue son avenir face à la justice suisse
    RFi - Publié le : 28/08/2022 - 23:38
    https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220828-mines-guin%C3%A9ennes-le-milliardaire-beny-steinmetz-joue-son-avenir-fa

    Condamné en janvier 2021 à cinq ans de prison et 50 millions de francs suisses d’amende pour corruption d’agents publics dans le dossier des mines guinéennes des monts Simandou, le magnat israélien âgé de 66 ans entend obtenir son acquittement lors du procès en appel ce lundi 29 août.

    (...) Parallèlement à cette stratégie judiciaire, Beny Steinmetz a aussi remanié sa communication autour de ce procès. Alors que son ancien avocat Marc Bonnant limitait ses contacts avec la presse, désormais, plusieurs agences de communication diffusent un document de quinze pages aux médias du monde entier, visant à démonter l’argumentaire du tribunal de première instance. Un document « truffé de sophismes », selon Adrià Budry Carbó, journaliste d’investigation de l’ONG Public Eye, spécialisé dans les matières premières et la criminalité financière.

    « La défense va, on l’imagine, s’atteler à montrer que ce n’était pas M. Steinmetz qui pilotait la société, que les apporteurs d’affaires ont agi en toute indépendance, que leurs revenus étaient justement une preuve de cette indépendance et que tout s’est passé dans les règles de l’art, prévoit l’observateur. On nous ressert la thèse du grand complot international qui serait dirigé contre M. Steinmetz. Or on constate qu’il a des problèmes avec la justice dans un certain nombre de juridictions. Si complot il y a, il est étendu et donc on s’attend à ce que la défense amène des preuves de l’existence de ce complot. »

    La chambre pénale d’appel et de révision de Genève aura huit jours pour déterminer si cette condamnation doit ou non être révisée.

    • Le milliardaire Beny Steinmetz, des mines d’Afrique aux ­prétoires de Genève
      https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/08/29/le-milliardaire-beny-steinmetz-des-mines-d-afrique-aux-pretoires-de-geneve_6

      Le rendez-vous n’a pas lieu dans sa résidence de Tel-Aviv, que l’on dit être l’une des plus chères d’Israël. Pas non plus sur le yacht qui mouille en été dans les eaux turquoise des îles égéennes et dont il sera impossible de connaître le prix. Après beaucoup d’échanges entre ses nombreux conseillers, la rencontre est fixée au creux du mois d’août au domicile athénien de sa principale communicante, Alexia Bakoyannis, qui est aussi la nièce du premier ministre Kyriákos Mitsotákis et la sœur du maire d’Athènes. A ce niveau-là, les connexions ne sont jamais un hasard : « J’ai eu des affaires en Grèce, comme dans des dizaines d’autres pays. »

      Beny Steinmetz démarre son autoportrait en évacuant les clichés : pas d’alcool, pas de fêtes, pas de bling-bling, pas de people, pas de garde du corps. Il préfère « marcher incognito dans la rue. Ma voiture a 15 ans. Je n’ai jamais été attiré par la lumière, par la politique ou la publicité autour de ma personne, parce que la vie me semble plus facile ainsi. Ma seule addiction, c’est la famille, mes quatre enfants et mes quatre petits-enfants. L’argent en soi ne m’intéresse pas, même si j’ai conscience que cela peut paraître une platitude de l’affirmer quand on est dans ma situation. » (...)

    • « Je n’ai jamais corrompu personne » se défend le magnat Beny Steinmetz à Genève
      Agence France-Presse | 31 août 2022
      https://fr.timesofisrael.com/je-nai-jamais-corrompu-personne-se-defend-le-magnat-beny-steinmetz

      « Je n’ai jamais corrompu personne », s’est défendu mercredi le magnat franco-israélien Beny Steinmetz, prenant la barre pour la première fois lors du procès en appel de sa condamnation en Suisse pour corruption.

      M. Steinmetz, costume gris et chemise blanche au col ouvert, est venu à la barre à Genève pour donner aux juges sa version des faits qui lui ont valu une condamnation à cinq ans de prison ferme et à verser 50 millions de francs suisses (52 millions d’euros) pour « corruption d’agents publics » en Guinée, dans une affaire de concession minière.

      A 66 ans, l’homme qui a fait fortune dans le diamant, a dit sa fierté de ce projet minier en Guinée, un des pays les plus pauvres d’Afrique, de Beny Steinmetz Group Resources (BSGR).

      « Je suis très fier de cette affaire win-win (gangant-gagnant, ndlr)pour le pays et pour BSGR », a lancé M. Steinmetz.

      « C’était mon idée personnelle. Je suis très fier de ça », a ajouté le magnat, qui n’a eu de cesse de clamer son innocence tout au long du premier procès.

      Pour lui, « c’est une tragédie locale, faite par la corruption locale » et d’insister : « Je crois avec toutes mes forces que BSGR n’a jamais franchi la ligne rouge ».

      Pour la procédure en appel il a changé de défenseurs et étoffé sa communication pour raconter sa version des choses.

      Le premier procès était l’aboutissement d’une longue enquête internationale ouverte en 2013 portant sur des permis miniers octroyés en Guinée au BSGR, dans lequel M. Steinmetz avait le titre de conseiller.

      Le parquet genevois l’accuse d’avoir mis en place un montage financier via des sociétés-écran afin de verser environ 10 millions de dollars de pots-de-vin à la quatrième épouse de l’ancien président guinéen Lansana Conté (décédé en 2008), Mamadie Touré, afin que BSGR obtienne des droits miniers en Guinée.

      Mme Touré a affirmé avoir reçu des versements et est depuis protégée par la justice américaine. Elle ne s’est pas présentée au procès en 2021, auquel elle avait été convoquée comme témoin par la défense.

      Beny Steinmetz, qui résidait à Genève lorsque les faits qui lui sont reprochés se sont déroulés, a assuré n’avoir « jamais » demandé à quiconque de verser des fonds à Mme Touré, et l’a accusée de raconter des « mensonges ».

      Deux des partenaires d’affaires de M. Steinmetz, un Français et une Belge condamnés dans ce même dossier à des peines de prison plus courtes, ont également fait appel.

  • Perquisition à Mediapart : la justice condamne l’État dans l’affaire Benalla
    https://www.youtube.com/watch?v=ZJVBbwjQ7hE

    Événement : la justice condamne l’État pour sa tentative de perquisition de nos locaux en 2019 dans le cadre de l’affaire Benalla. Le jugement, sévère pour le parquet de Paris, consacre la liberté d’informer et la protection des sources.

    Encore une grande démonstration de la compétence de l’Absurdistan autoritaire.

    • ces trois juges ont donc condamné l’État à payer à Mediapart la somme d’un euro « en réparation intégrale de son préjudice » auquel s’ajoutent 10 000 euros en application de l’article 700 du Code de procédure civile, avec ordre d’exécution provisoire du jugement.

    • J’imagine la petite bande de flics, précédée du commissaire, toute joyeuse sur le chemin de Médiapart, en train de chantonner : « On va se faire Médiapart-euh, on va se faire Médiapart-euh », imaginant déjà les félicitations du préfet, voire la petite promotion décidée en hauts lieux, imaginant encore le Président confiant à sa douce : « ah, qu’il est bon de constater une fois de plus que l’on peut compter sur la fidélité de la police républicaine ! »

      Et arrivant dans les couloirs de Médiapart, le choc, la stupeur, l’effroi, l’horreur, la rumeur qui circule par l’effet d’un bouche à oreille paniqué : « Ah merde, y’a Fabrice Arfi, merde merde, on est refaits ». Les regards inquiets : « Qu’est-ce qu’on fait, y’a Fabrice Arfi, il dit qu’on n’a pas le droit ! ». Et de confirmer : « Oui, c’est Fabrice Arfi, c’est pas de bol tout de même ».

      Et de repartir tout tristes, la queue entre les jambes, juste parce qu’ils ont joué de malchance : Fabrice Arfi était là et il connaît mieux la procédure que le commissaire.

      #22_y‘a_fabrice_arfi

  • #Pinar_Selek : une #persécution sans fin

    Ce 21 juin la Cour suprême de Turquie a prononcé une condamnation à la #prison_à_perpétuité contre l’écrivaine et sociologue réfugiée en France, confirmant une nouvelle fois qu’il n’y a pas d’état de droit dans ce pays. Publication de la première réaction de Pinar Selek ainsi que du communiqué de presse du Collectif de solidarité.

    Il y a un mois, en rédigeant une recension du second roman de Pinar Selek, je me disais que l’écrivaine allait pouvoir un peu souffler, se consacrer à l’écriture, à la recherche et à ses luttes et que le régime turc l’avait probablement oubliée. Aujourd’hui je ne peux m’empêcher de me souvenir du choc de la condamnation de janvier 2013 que nous avions apprise à l’université de Strasbourg où Pinar faisait sa thèse en bénéficiant de la protection académique. Et je me dis que le choc de la condamnation de ce 21 juin 2022 est encore plus violent. Parce que la condamnation vient de la #Cour_suprême de Turquie et qu’on pouvait espérer que les juges de cette instance auraient un minimum d’indépendance par rapport au pouvoir politique. Il n’en est rien. Ce choc est encore plus violent parce que le procureur de la Cour suprême avait requis une condamnation à la prison à perpétuité le 25 janvier 2017 et que les juges ont mis cinq ans à prononcer leur verdict. Plus violent aussi parce que la torture à distance se poursuit, inexorablement. Plus violent enfin parce que les voies de recours s’amenuisent et que la possibilité d’un retour de Pinar dans son pays s’éloigne à nouveau.

    Rappelons pour celles et ceux qui ignoreraient le destin de Pinar Selek qu’elle est la victime de la plus longue et la plus terrible persécution judiciaire infligée par le pouvoir turc. Bientôt un quart de siècle d’acquittements et de nouvelles condamnations qui s’enchainent sans fin, dans le déni absurde des faits : la sociologue n’a jamais posé de bombe sur le Marché aux épices d’Istanbul en 1998 pour la simple et bonne raison qu’il s’agissait d’un accident provoqué par une bouteille de gaz. Les preuves en ont été apportées par plusieurs commissions d’enquête et le seul témoin qui accusait Pinar s’est rétracté après qu’il a été établi que son témoignage avait été arraché sous la torture. Je renvoie à cette biographie (https://pinarselek.fr/biographie) qui comporte un tableau historique de l’affaire judiciaire et à cet entretien avec Livia Garrigue (https://blogs.mediapart.fr/edition/lhebdo-du-club/article/101220/hebdo-95-savoir-lutter-poetiser-entretien-avec-pinar-selek).

    Pourquoi cette persécution sans fin ? Peut-être d’abord parce que le régime turc ne supporte pas que la contestation vienne de ses propres citoyen.nes. Le pouvoir d’Erdogan reproche simplement à Pinar Selek d’être turque. Ce qu’il tolère encore moins, c’est une parole libre. Celle des artistes, des journalistes et des universitaires. Par ses livres, ses enquêtes de terrain et ses recherches, par son enseignement aussi, Pinar accomplit un travail relatif à ces trois professions qui sont parmi les plus réprimées par le pouvoir turc. Quand en plus il s’agit de la voix d’une femme qui porte loin la défense des femmes et de toutes les minorités, d’une femme antimilitariste qui dénonce les violences d’une société patriarcale, qui est l’amie des kurdes et des arméniens sur lesquels elle conduit des recherches, on comprend pourquoi le régime politique turc fait de Pinar Selek un exemple. Avec Pinar Selek il ne s’agit pas simplement de la répression d’une opposante politique. Mais de la répression d’une femme libre.

    Il y a quelques semaines, sur son blog de Mediapart (https://blogs.mediapart.fr/pinar-selek/blog/270422/les-otages-de-la-resistance-de-gezi), Pinar, prenant la défense de huit intellectuel.les condamné.es par le pouvoir turc et devenu.es des « otages de la résistance de Gezi », écrivait ceci : « La spécificité du régime répressif turc découle de la définition constitutionnelle de la citoyenneté républicaine : le #monisme y prévaut dans tous les domaines. Quiconque s’écarte des normes établies par le pouvoir politique est immédiatement perçu comme dangereux, destructeur, voire ennemi. » Mais elle poursuivait ainsi : « Et c’est précisément la #résistance à ce monisme qui depuis longtemps fertilise les alliances entre les différents mouvements féministe, LGBT, antimilitariste, écologiste, libertaire, de gauche, kurde, arménien ». Pinar Selek incarne cette résistance. Le pouvoir turc s’en prend à un #symbole. Mais on ne fait pas disparaître un symbole. Plus la #violence d’un Etat s’exerce contre un symbole, plus le symbole devient vivant et fort. Pinar Selek est une « force qui va ». Mais elle est aussi une force fatiguée et fragile. Elle a besoin de notre soutien. Nous lui devons, après qu’elle a tant donné aux luttes locales et européennes, après qu’elle nous a tant appris. D’ores et déjà la Coordination nationale des Collectifs de solidarité (https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/160917/la-coordination-des-collectifs-de-solidarite-avec-pinar-selek-est-ne) se mobilise et prépare de multiples actions, dont je rendrai compte dès la semaine prochaine dans un nouveau billet. Je donne à lire ci-dessous la première réaction de Pinar à sa condamnation ainsi que le communiqué des Collectifs de solidarité.

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    DÉCLARATION DE PINAR SELEK FAITE À LA BBC SUITE À SA CONDAMNATION À PERPÉTUITÉ LE 21 JUIN

    Tout est possible sauf ma condamnation à nouveau.
    Ce jugement n’est pas seulement injuste et insensé mais de plus inhumain dans la mesure où dans le dossier, il y a de nombreux rapports d’expertise qui établissent qu’il s’agissait d’une explosion due à une fuite de gaz, où l’on n’a pas pris une seule fois ma déposition sur cette question, on ne m’a pas posé une seule question sur ce sujet.
    Le procès avait été lancé en s’appuyant uniquement sur la déposition d’Abdülmecit O. qui avait déclaré que nous avions agi ensemble, qui, par la suite, a renié sa déposition au tribunal car elle avait été extorquée sous la torture. Cette personne a été acquittée avec moi et son acquittement fut définitif et l’appel est demandé uniquement pour mon acquittement.
    Ce jugement n’a donc rien à voir avec le Droit.
    Comme les motifs du jugement ne sont pas encore publiés, je ne peux pas commenter davantage.
    Je lutterai, nous lutterons contre cette #injustice jusqu’à la fin.

    Pinar Selek

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    Communiqué de presse

    mercredi 22 juin 2022

    Nous, collectifs de solidarité avec Pınar Selek, sommes choqués et révoltés par la décision grotesque et scandaleuse de la Cour suprême de Turquie qui vient de condamner l’écrivaine et sociologue à la prison à perpétuité.

    Absolument rien dans le dossier judiciaire ne tient debout, comme l’avaient démontré les quatre acquittements successifs(*).

    Les conséquences pour Pınar en apparaissent d’autant plus inhumaines : la condamnation à perpétuité en elle-même d’une part, mais également les millions d’euros de dommages et intérêts qui vont désormais s’abattre et faire peser sur Pınar et sa famille une pression financière inouïe.

    Nous, collectifs de solidarité avec Pınar Selek, restons pleinement mobilisés à ses côtés et allons mettre en œuvre tout ce qui est possible pour défaire cette décision inacceptable.

    Dès maintenant, nous en appelons à l’État Français afin qu’il exprime son soutien ferme et entier à sa ressortissante Pınar Selek, qu’il proteste officiellement auprès des autorité turques et s’engage à protéger Pınar Selek contre toutes les conséquences potentielles de cette décision inique.

    La Coordination des collectifs de solidarité avec Pınar Selek

    contact : comitepinarseleklyon@free.fr

    (*) Sociologue, écrivaine et militante de Turquie aujourd’hui exilée en France, Pınar Selek s’est engagée en Turquie pour la justice, les droits de tou·te·s et contre la violence et le militarisme, et subit pour cela la répression de l’État turc depuis 24 ans.

    En 1998, Pınar Selek est arrêtée et emprisonnée à cause de ses recherches. Elle est ensuite accusée d’avoir commis un attentat sur le marché d’Istanbul. Tous les rapports officiels d’expertise concluent à l’explosion accidentelle d’une bonbonne de gaz. Pınar Selek est acquittée à 4 reprises, mais à chaque fois l’État fait appel.

    Le seul témoin qui l’avait accusée d’avoir commis un attentat avec lui, un jeune homme kurde, s’est rétracté par la suite car ses aveux avaient été extorqués sous la torture, et il a été acquitté définitivement. Dans ce contexte, la poursuite des accusations contre Pınar Selek révèle donc son unique visée, qui est répressive.

    https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/250622/pinar-selek-une-persecution-sans-fin

    #condamnation #justice (euhhh...) #Turquie

    • Pinar Selek : lettre ouverte au Président de la République

      Emmanuel Macron et son gouvernement apporteront-ils « un soutien ferme et inconditionnel » à Pinar Selek ? C’est la demande que formulent une cinquantaine de personnalités. Parmi les premiers signataires Arié Alimi, Ariane Ascaride, Julien Bayou, Judith Butler, Annie Ernaux, Olivier Faure, Mathilde Panot ou bien encore Edwy Plenel. Vous pouvez désormais vous associer à ce texte en le signant.

      Rédigée par les Collectifs de solidarité avec Pinar Selek et publiée initialement dans Libération, une Lettre ouverte à Emmanuel Macron demande que la France apporte son « soutien ferme et inconditionnel » à la sociologue persécutée par le pouvoir turc. Parmi les premiers signataires le journaliste Edwy Plenel, des personnalités du monde politique (Julien Bayou, Elsa Faucillon, Olivier Faure, Mathilde Panot, Sandra Regol), de la culture (Annie Ernaux, Ariane Ascaride, Robert Guédiguian, Valérie Manteau …), des chercheur·es et des intellectuel·les engagé·es (Etienne Balibar, Ludivine Bantigny, Judith Butler, Claude Calame, Laurence De Cock, Eric Fassin …), des avocats (Arié Alimi, Henri Braun, Patrick Baudouin, président de la LDH…), des présidents d’université et des responsables syndicaux (Solidaires, SNESUP et CGT). Un formulaire permet de recueillir de nouvelles signatures. Signez et faites signer cette lettre ouverte. Merci à vous ! Merci pour Pinar Selek.

      Pascal Maillard

      PS : Pour plus d’informations voir le site dédié à Pinar Selek et cet autre billet. Je signale également une tribune signée par des chercheur.es en sciences sociales parue dans Le Monde. Je rappelle enfin le lien vers une cagnotte qui doit permettre de financer les frais d’avocat et les déplacements en Turquie pour soutenir et défendre Pinar Selek.
      LETTRE OUVERTE

      À M. Emmanuel Macron, Président de la République Française,

      Copie : Mme Élisabeth Borne, Première ministre

      Copie : Mme Catherine Colonna, ministre de l’Europe et des affaires étrangères

      Copie : Mme Laurence Boone, secrétaire d’État chargée de l’Europe

      Copie : M. Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur et des outre-mer

      Copie : Mme Sylvie Retailleau, ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche

      Copie : Mmes et MM. les président·es de groupes à l’Assemblée nationale

      Lyon, le 12 juillet 2022

      Objet : Quatrième annulation de l’acquittement de Pinar Selek par la Cour suprême de Turquie le 21 juin 2022 et réaction de la France

      Monsieur le Président de la République,

      Au cours des dernières années, nous avons été amenés à échanger à plusieurs reprises avec vous et avec des membres de vos gouvernements successifs au sujet de la situation de Pinar Selek et de l’indispensable mobilisation de l’État français pour assurer la sécurité de notre concitoyenne eu égard à la persécution judiciaire dont elle est victime en Turquie, son pays d’origine.

      Ainsi, répondant à notre sollicitation, vous nous écriviez le 16 janvier 2018 que vous entreteniez « avec la Turquie un dialogue soutenu et exigeant sur la question des Droits de l’Homme », et que « la Turquie [devait] respecter ses engagements européens et internationaux en matière de libertés fondamentales ».

      Aujourd’hui, la situation de Madame Pinar Selek a brutalement évolué depuis l’annonce par la Cour suprême de Turquie mardi 21 juin 2022 de l’annulation de son acquittement, en dépit d’un dossier judiciaire vide et des quatre audiences qui après un examen des faits ont conduit, au fil de 24 ans de procédure, à ce que soit à chaque fois reconnue son innocence. Outre la gravité de la nouvelle injonction de la Cour Suprême de Turquie, qui au mépris de la réalité des faits exige que Pinar Selek soit condamnée, ce sont également des demandes de dommages et intérêts qui risquent à présent de s’abattre sur Pinar Selek et de faire peser sur elle et sa famille une pression financière inouïe.

      Nous nous permettons de rappeler que Pinar Selek a bénéficié de l’asile politique dans notre pays, qu’elle a ensuite acquis la nationalité française et qu’elle est aujourd’hui enseignante-chercheure à Université Côte d’Azur. Femme engagée, sociologue reconnue et écrivaine talentueuse, Pinar Selek est une grande figure de la défense de la liberté, de la recherche et des Droits humains. Nous croyons qu’elle mérite la reconnaissance et le soutien de la République.

      C’est pourquoi nous attirons votre attention sur l’urgence qu’il y aurait à ce que la France rappelle publiquement son soutien ferme et inconditionnel à notre compatriote et proteste auprès de la Turquie contre cette décision, qui traduit un harcèlement judiciaire hors du commun, une torture institutionnelle insupportable, et une atteinte au droit de Pinar Selek à être jugée de manière équitable, par un juge indépendant et impartial dans un délai raisonnable. Nous estimons enfin essentiel que votre gouvernement mette tout en œuvre pour assurer la protection nécessaire de notre ressortissante face aux conséquences de cette décision de justice, en particulier sur la sécurité et les biens de Pinar Selek.

      Nous sommes convaincus, Monsieur le Président de la République, que vous serez sensible à la situation de Pinar Selek et que vous agirez à la mesure de l’urgence.

      Veuillez agréer, Monsieur le Président de la République, l’expression de toute notre considération.

      La coordination nationale des collectifs de solidarité avec Pinar Selek

      Premiers signataires :

      Arié Alimi, avocat

      Ariane Ascaride, comédienne
      Rusen Aytaç, avocate, membre du Conseil national des barreaux

      Etienne Balibar, professeur émérite, Université de Paris-Nanterre
      Ludivine Bantigny, universitaire, historienne
      Jeanne Barseghian, Maire de Strasbourg
      Zerrin Bataray, avocate, conseillère régionale Auvergne Rhône-Alpes
      Patrick Baudouin, avocat, président de la Ligue des droits de l’Homme
      Julien Bayou, député, président du groupe Écologiste-NUPES à l’Assemblée Nationale
      Alain Beretz, ancien président de l’Université de Strasbourg
      Oristelle Bonis , éditrice en chef, Éditions iXe

      Henri Braun, avocat au Barreau de Paris
      Jeanick Brisswalter, président Université Côte d’Azur
      Christine Buisson, chercheuse, co-secrétaire nationale de Sud Recherche EPST Solidaires
      Judith Butler, Maxine Eliot Professor of Comparative Literature and Critical Theory, University of California, Berkeley
      Claude Calame, historien et anthropologue, directeur d’études à l’EHESS, Président de la Section EHESS de la LDH
      Gérard Chaliand, écrivain
      Fabien Charreton, libraire
      Laurence De Cock, historienne, LDH
      Michel Deneken, président de l’Université de Strasbourg
      Jean-Pierre Djukic, Directeur de recherche, Université de Strasbourg
      Simon Duteil et Murielle Guilbert, délégués généraux de l’Union syndicale Solidaires
      Annie Ernaux, écrivaine
      Eric Fassin, sociologue, Paris 8
      Elsa Faucillon, députée, Gauche démocrate et républicaine-NUPES
      Olivier Faure, député de Seine-et-Marne – Premier secrétaire du Parti socialiste
      Robert Guédiguian, réalisateur
      Jacqueline Heinen, professeure émérite de sociologie, UVSQ Paris-Saclay
      Béatrice Hibou, politiste, directrice de recherche, Sciences Po, CERI, CNRS
      Ahmet Insel, économiste, ancien professeur de l’Université Galatasaray
      Henri Leclerc, avocat honoraire, Président d’Honneur de la Ligue des droits de l’Homme
      Marie Lesclingand, directrice du département de sociologie-démographie de l’Université Côte d’Azur
      Valérie Manteau, écrivaine, prix Renaudot 2018
      Sylvie Monchatre, sociologue, professeure, Université Lumière Lyon 2
      Rina Nissim, écrivaine, éditrice et naturopathe
      Mathilde Panot, députée, présidente du groupe LFI-NUPES à l’Assemblée Nationale
      Marie-Aimée Peyron, avocate, Ancienne Bâtonnière de Paris, vice-Présidente du Conseil national des barreaux
      Jean-François Pinton, président de l’ENS de Lyon
      Edwy Plenel, journaliste
      Martin Pradel, avocat, membre du Conseil national des barreaux
      Reine Prat, autrice, ancienne haute fonctionnaire au ministère de la Culture
      Sandra Regol, députée écologiste-NUPES
      Anne Roger, secrétaire générale du SNESUP-FSU
      Marie Rodriguez, LDH de Marseille
      Laurence Roques, avocate, présidente de la commission Libertés droits de l’Homme du Conseil national des barreaux
      Gaëlle Ronsin, directrice de publication de la revue Silence
      Réjane Sénac, directrice de recherche au CNRS
      Josiane Tack et Patrick Boumier, co-secrétaires généraux du SNTRS-CGT

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/180722/pinar-selek-lettre-ouverte-au-president-de-la-republique

  • #Travailleurs_détachés : #condamnations à répétition pour #Bouygues

    En un an, le géant du #BTP a été condamné trois fois pour avoir eu recours illégalement à des ouvriers roumains et polonais sur le site de l’#EPR à #Flamanville, de 2009 à 2011. Des décisions de #justice passées inaperçues.

    https://www.mediapart.fr/journal/economie/091121/travailleurs-detaches-condamnations-repetition-pour-bouygues
    #France #condamnation #travail #exploitation #travailleurs_étrangers

    ping @karine4

  • European Court of Human Rights: Bulgaria’s pushback practice violates human rights

    Bulgaria’s systematic expulsion of refugees and migrants to Turkey without an individual examination of the risk of torture, inhuman or degrading treatment violates the European Convention on Human Rights, the European Court of Human Rights has ruled today.

    In the case D v. Bulgaria, the Court unanimously found that the applicant, a Turkish journalist, was forcibly returned to Turkey. The Bulgarian authorities had failed to carry out an assessment of the risk he faced there, and deprived him of the possibility to challenge his removal, breaching articles 3 and 13 of the European Convention on Human Rights, the Court found. He was supported in the proceedings by the European Center for Constitutional and Human Rights, The Center for Legal Aid - Voice in Bulgaria and Foundation PRO ASYL.

    “The ECtHR’s decision provides belated but important satisfaction for the applicant. It sets a strong counterpoint to Bulgaria’s longstanding practice of denying refugees protection from persecution and handing them straight back to their persecutors,” says attorney Carsten Gericke, D’s counsel. “This is a clear signal to Bulgaria that pushbacks, as carried out along the EU’s external borders, must come to an end and access to human rights and to asylum must be guaranteed.”

    After many years working as a journalist in Turkey, D was compelled to leave the country due to increasing state repression in the aftermath of the attempted coup d’état in July 2016. Together with eight other refugees from Turkey and Syria, he was apprehended in a truck at the Bulgarian-Romanian border on October 14, 2016. Despite expressing his fear of return to Turkey, at no point did the Bulgarian authorities assess the risk of torture, mistreatment and further political persecution faced by the applicant in Turkey. He was not allowed access to a lawyer or interpreter and was returned to Turkey within less than 24 hours.

    “This is a breakthrough decision for guaranteeing the right to asylum procedures and protecting asylum seekers from removal to the country where they face persecution,” adds Diana Radoslavova from the Center for Legal Aid - Voice in Bulgaria.

    Upon arrival in Turkey, D was immediately detained, and later, in December 2019, sentenced to seven and a half years of imprisonment for membership of a terrorist organization FETÖ. The verdict against him was largely based on the fact that he had the messenger application, ’Bylock’, on his cell phone. Following the Turkish government’s assertion that the app is used by the Gülen movement, which it declared a terrorist organization, Turkish courts have viewed the use of the app as sufficient proof of affiliation to the group.

    “The right to asylum is under attack. Today’s ruling has once again clarified that the protection from refoulement is absolute. The fight against pushbacks and violence at the EU’s borders continues - with new tailwind from Strasbourg,” says Karl Kopp from PRO ASYL.

    NGOs have consistently reported on pushbacks at the Bulgarian-Turkish border, documenting how Turkish nationals in particular are denied access to asylum. In 2018, the Council of Europe’s Special Representative on migration and refugees, Tomáš Boček, criticized the lack of respect for the principle of non-refoulement and urged for the individual examination of personal risk refugees/applicants might face when they are deported back to Turkey.

    https://www.ecchr.eu/pressemitteilung/european-court-of-human-rights-bulgarias-pushback-practice-violates-human-righ

    #CourEDH #CEDH #Bulgarie #push-backs #renvois #refoulements #Turquie #expulsions #justice #condamnation #risques #réfugiés_turques

    ping @isskein

  • « #Délit_de_solidarité » : nouveau procès en appel d’un militant solidaire à la frontière franco-italienne [Alerte presse Emmaüs France/Anafé]

    Le 15 septembre 2021, #Loïc comparaîtra de nouveau devant la cour d’appel d’Aix-en-Provence, poursuivi pour être venu en aide à un ressortissant éthiopien, en janvier 2018, à la frontière franco-italienne.

    Relaxé par le tribunal correctionnel de Nice en 2018, Loïc a été condamné le 1er avril 2019 par la cour d’appel d’Aix-en-Provence à 3 000 euros d’amende avec sursis pour « aide à l’entrée d’un étranger en situation irrégulière en France ». En septembre 2020, la Cour de cassation a cassé la décision de condamnation de la cour d’appel et a renvoyé devant ladite cour, dans une composition différente, pour un nouvel examen de l’affaire. Cette audience se tiendra le 15 septembre 2021, à Aix-en-Provence.

    Pour rappel, dans son arrêt, la Cour de cassation avait sanctionné la cour d’appel pour ne pas avoir examiné les moyens de nullité de procédure, soulevés par l’avocat de Loïc, avant de se prononcer sur le fond du « délit de solidarité ».

    Alors que la cour d’appel de Grenoble vient de relaxer, le 9 septembre dernier, les 7 personnes solidaires dites, les « 7 de Briançon », également poursuivies pour « délit de solidarité », l’Anafé et Emmaüs France appellent à la relaxe de Loïc et à la fin de toutes les poursuites engagées contre des militant.e.s solidaires pour aide à l’entrée sur le territoire.

    Les défenseur.e.s des droits humains qui se mobilisent en faveur du respect des droits des personnes en migration ne doivent plus être inquiété.e.s, poursuivi.e.s et condamné.e.s. La solidarité n’est pas un délit !

    Des porte-paroles sont disponibles pour des interviews.

    Complément d’information

    Le 18 janvier 2018 Loïc est arrêté lors d’un contrôle d’identité au péage de La Turbie dans le sens Italie-France. À bord de son véhicule, il y avait un ressortissant éthiopien. Ils ont été arrêtés tous les deux. Loïc a reconnu avoir aidé cette personne dans son parcours migratoire pour des motifs humanitaires. Quelques jours avant, un homme avait été retrouvé mort sur le toit du train en provenance de Vintimille – il avait été électrocuté. Le ressortissant éthiopien a été immédiatement renvoyé en Italie.

    À l’issue de sa garde à vue, Loïc a été présenté au tribunal correctionnel de Nice en comparution immédiate. L’audience a été reportée au 14 mars. Pendant cette période, il avait l’interdiction de sortir du département des Alpes-Maritimes et devait se présenter une fois par semaine au commissariat.

    Le 14 mars 2018, le tribunal correctionnel de Nice a relaxé Loïc en raison notamment de l’absence d’audition du ressortissant éthiopien dans la procédure pénale et de l’absence de procédure relative à la situation administrative de cette personne sur le territoire français. Le tribunal avait en effet estimé que « la culpabilité ne peut être retenue sur la seule base de l’auto-incrimination, le délit poursuivi n’apparaît pas suffisamment caractérisé en l’absence d’enquête sur la situation administrative de l’étranger visé à la procédure ».

    Le parquet avait alors fait appel de la décision. L’audience en appel s’est tenue le 20 mars 2019 à la cour d’appel d’Aix-en-Provence. Le 1er avril 2019, la cour d’appel d’Aix-en-Provence a condamné Loïc à 3 000 euros d’amende avec sursis pour « aide à l’entrée d’un étranger en France ». Loïc a alors formé un pourvoi en cassation. L’audience devant la Cour de cassation s’est tenue le 2 septembre 2020 et l’arrêt de la Cour a été rendu le 14 octobre 2020. La Cour a cassé la décision de la cour d’appel et a renvoyé devant ladite cour dans une nouvelle composition pour un nouvel examen de l’affaire. C’est ce nouvel examen qui se tiendra le 15 septembre 2021.

    Loïc est observateur aux frontières intérieures terrestres et membre de l’Anafé depuis janvier 2018. Il a rejoint le mouvement Emmaüs et est président d’Emmaüs Roya depuis août 2019.

    http://www.anafe.org/spip.php?article606=
    #asile #migrations #réfugiés #solidarité #justice (well...) #Italie #France #frontière_sud-alpine

    –—

    Un fil de discussion datant de 2019 autour de l’affaire "Loïc" :
    https://seenthis.net/messages/771987

    • Sans même parler de l’ignominie de ces « législations », l’énergie mise par l’Etat et son appareil judiciaire pour les appliquer me stupéfie.

    • « #Délit_de_solidarité » : nouvelle #condamnation d’un militant solidaire à la frontière franco-italienne

      Le 3 novembre 2021, #Loïc a de nouveau été condamné par la #cour_d’appel d’#Aix-en-Provence pour être venu en aide à un ressortissant éthiopien, en janvier 2018, à la frontière franco-italienne.

      Relaxé par le tribunal correctionnel de Nice en 2018, Loïc a été condamné le 1er avril 2019 par la cour d’appel d’Aix-en-Provence à 3 000 euros d’amende avec sursis pour « aide à l’entrée d’un étranger en situation irrégulière en France ». En septembre 2020, la Cour de cassation a cassé la décision de condamnation de la cour d’appel et a renvoyé devant ladite cour, dans une composition différente, pour un nouvel examen de l’affaire. Cette audience s’est tenue le 15 septembre 2021, à Aix-en-Provence.

      Ce 3 novembre 2021, la cour d’appel a donc de nouveau condamné Loïc à 3 000 euros d’amende avec sursis pour « délit de solidarité ». Or, rien dans le dossier ne fait état de l’identité précise de la personne qui avait été arrêtée avec Loïc et aucun élément de l’enquête n’a permis de révéler la situation administrative de cette personne (demandeuse d’asile, avec ou sans titre de séjour).

      C’est donc sans aucun élément matériel permettant de savoir si la personne était ou non « étrangère en situation irrégulière » que la cour d’appel s’est une nouvelle fois exprimée dans cette affaire. Loïc et son avocat ont donc décidé de former un nouveau pourvoi en cassation contre cette condamnation pénale.

      Emmaüs France et l’Anafé soutiennent leur militant dans cette démarche. Nos associations appellent le législateur à mettre enfin un terme à ce délit et les autorités judiciaires à cesser les pressions à l’encontre des personnes solidaires des exilé.e.s.

      Les défenseur.e.s des droits humains qui se mobilisent en faveur du respect des droits des personnes en migration ne doivent plus être inquiété.e.s, poursuivi.e.s et condamné.e.s.

      La solidarité n’est pas un délit !

      *
      Complément d’information

      Le 18 janvier 2018 Loïc est arrêté lors d’un contrôle d’identité au péage de La Turbie dans le sens Italie-France. À bord de son véhicule, il y avait un ressortissant éthiopien. Ils ont été arrêtés tous les deux. Loïc a reconnu avoir aidé cette personne dans son parcours migratoire pour des motifs humanitaires. Quelques jours avant, un homme avait été retrouvé mort sur le toit du train en provenance de Vintimille – il avait été électrocuté. Le ressortissant éthiopien a été immédiatement renvoyé en Italie.

      À l’issue de sa garde à vue, Loïc a été présenté au tribunal correctionnel de Nice en comparution immédiate. L’audience a été reportée au 14 mars. Pendant cette période, il avait l’interdiction de sortir du département des Alpes-Maritimes et devait se présenter une fois par semaine au commissariat.

      Le 14 mars 2018, le tribunal correctionnel de Nice a relaxé Loïc en raison notamment de l’absence d’audition du ressortissant éthiopien dans la procédure pénale et de l’absence de procédure relative à la situation administrative de cette personne sur le territoire français. Le tribunal avait en effet estimé que « la culpabilité ne peut être retenue sur la seule base de l’auto-incrimination, le délit poursuivi n’apparaît pas suffisamment caractérisé en l’absence d’enquête sur la situation administrative de l’étranger visé à la procédure ».

      Le parquet avait alors fait appel de la décision. L’audience en appel s’est tenue le 20 mars 2019 à la cour d’appel d’Aix-en-Provence. Le 1er avril 2019, la cour d’appel d’Aix-en-Provence a condamné Loïc à 3 000 euros d’amende avec sursis pour « aide à l’entrée d’un étranger en France ». Loïc a alors formé un pourvoi en cassation. L’audience devant la Cour de cassation s’est tenue le 2 septembre 2020 et l’arrêt de la Cour a été rendu le 14 octobre 2020. Pour rappel, dans son arrêt, la Cour de cassation avait sanctionné la cour d’appel pour ne pas avoir examiné les moyens de nullité de procédure, soulevés par l’avocat de Loïc, avant de se prononcer sur le fond du « délit de solidarité ». La Cour a renvoyé devant ladite cour dans une nouvelle composition pour un nouvel examen de l’affaire. C’est ce nouvel examen qui s’est tenu le 15 septembre 2021.

      Loïc est observateur aux frontières intérieures terrestres et membre de l’Anafé depuis janvier 2018. Il a rejoint le mouvement Emmaüs et est président d’Emmaüs Roya depuis août 2019.

      http://www.anafe.org/spip.php?article612
      #frontières #solidarité #migrations #réfugiés #asile