• Nessuno vuole mettere limiti all’attività dell’Agenzia Frontex

    Le istituzioni dell’Ue, ossessionate dal controllo delle frontiere, sembrano ignorare i problemi strutturali denunciati anche dall’Ufficio europeo antifrode. E lavorano per dispiegare le “divise blu” pure nei Paesi “chiave” oltre confine

    “Questa causa fa parte di un mosaico di una più ampia campagna contro Frontex: ogni attacco verso di noi è un attacco all’Unione europea”. Con questi toni gli avvocati dell’Agenzia che sorveglia le frontiere europee si sono difesi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 9 marzo, per la prima volta in oltre 19 anni di attività (ci sono altri due casi pendenti, presentati dalla Ong Front-Lex), le “divise blu” si sono trovate di fronte a un giudice grazie alla tenacia dell’avvocata olandese Lisa-Marie Komp.

    Non è successo, invece, per le scioccanti rivelazioni del rapporto dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf) che ha ricostruito nel dettaglio come l’Agenzia abbia insabbiato centinaia di respingimenti violenti: quell’indagine è “semplicemente” costata la leadership all’allora direttore Fabrice Leggeri, nell’aprile 2022, ma niente di più. “Tutto è rimasto nel campo delle opinioni e nessuno è andato a fondo sui problemi strutturali -spiega Laura Salzano, dottoranda in Diritto europeo dell’immigrazione presso l’Università di Barcellona-. C’erano tutti gli estremi per portare l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia e invece nulla è stato fatto nonostante sia un’istituzione pubblica con un budget esplosivo che lavora con i più vulnerabili”. Non solo l’impunità ma anche la cieca fiducia ribadita più volte da diverse istituzioni europee. Il 28 giugno 2022 il Consiglio europeo, a soli due mesi dalle dimissioni di Leggeri, dà il via libera all’apertura dei negoziati per portare gli agenti di Frontex in Senegal con la proposta di garantire un’immunità totale nel Paese per le loro azioni.

    A ottobre, invece, a pochi giorni dalla divulgazione del rapporto Olaf -tenuto segreto per oltre quattro mesi- la Commissione europea chiarisce che l’Agenzia “si è già assunta piena responsabilità di quanto successo”. Ancora, a febbraio 2023 il Consiglio europeo le assicura nuovamente “pieno supporto”. Un dato preoccupante soprattutto con riferimento all’espansione di Frontex che mira a diventare un attore sempre più presente nei Paesi chiave per la gestione del fenomeno migratorio, a migliaia di chilometri di distanza dal suo quartier generale di Varsavia.

    “I suoi problemi sono strutturali ma le istituzioni europee fanno finta di niente: se già è difficile controllare gli agenti sui ‘nostri’ confini, figuriamoci in Paesi al di fuori dell’Ue”, spiega Yasha Maccanico, membro del centro di ricerca indipendente Statewatch.

    A fine febbraio 2023 l’Agenzia ha festeggiato la conclusione di un progetto che prevede la consegna di attrezzature ai membri dell’Africa-Frontex intelligence community (Afic), finanziata dalla Commissione, che ha permesso dal 2010 in avanti l’apertura di “Cellule di analisi del rischio” (Rac) gestite da analisti locali formati dall’Agenzia con l’obiettivo di “raccogliere e analizzare informazioni strategiche su crimini transfrontalieri” oltre che a “sostenere le autorità nella gestione dei confini”. A partire dal 2021 una potenziata infrastruttura garantisce “comunicazioni sicure e istantanee” tra le Rac e gli agenti nella sede di Varsavia. Questo è il “primo livello” di collaborazione tra Frontex e le autorità di Paesi terzi che oggi vede, come detto, “cellule” attive in Nigeria, Gambia, Niger, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Togo e Mauritania oltre a una ventina di Stati coinvolti nelle attività di formazione degli analisti, pronti ad attivare le Rac in futuro. “Lo scambio di dati sui flussi è pericoloso perché l’obiettivo delle politiche europee non è proteggere i diritti delle persone, ma fermarle nei Paesi più poveri”, continua Maccanico.

    Un gradino al di sopra delle collaborazioni più informali, come nell’Afic, ci sono i cosiddetti working arrangement (accordi di cooperazione) che permettono di collaborare con le autorità di un Paese in modo ufficiale. “Non serve il via libera del Parlamento europeo e di fatto non c’è nessun controllo né prima della sottoscrizione né ex post -riprende Salzano-. Se ci fosse uno scambio di dati e informazioni dovrebbe esserci il via libera del Garante per la protezione dei dati personali, ma a oggi, questo parere, è stato richiesto solo nel caso del Niger”. A marzo 2023 sono invece 18 i Paesi che hanno siglato accordi simili: da Stati Uniti e Canada, passando per Capo Verde fino alla Federazione Russa. “Sappiamo che i contatti con Mosca dovrebbero essere quotidiani. Dall’inizio del conflitto ho chiesto più volte all’Agenzia se queste comunicazioni sono state interrotte: nessuno mi ha mai risposto”, sottolinea Salzano.

    Obiettivo ultimo dell’Agenzia è riuscire a dispiegare agenti e mezzi anche nei Paesi terzi: una delle novità del regolamento del 2019 rispetto al precedente (2016) è proprio la possibilità di lanciare operazioni non solo nei “Paesi vicini” ma in tutto il mondo. Per farlo sono necessari gli status agreement, accordi internazionali che impegnano formalmente anche le istituzioni europee. Sono cinque quelli attivi (Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, Moldova) ma sono in via di sottoscrizione quelli con Senegal e Mauritania per limitare le partenze (poco più di 15mila nel 2022) verso le isole Canarie, mille chilometri più a Nord: accordi per ora “fermi”, secondo quanto ricostruito dalla parlamentare europea olandese Tineke Strik che a fine febbraio ha visitato i due Stati, ma che danno conto della linea che si vuole seguire. Un quadro noto, i cui dettagli però spesso restano nascosti.

    È quanto emerge dal report “Accesso negato”, pubblicato da Statewatch a metà marzo 2023, che ricostruisce altri due casi di scarsa trasparenza negli accordi, Niger e Marocco, due Paesi chiave nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. “Con la ‘scusa’ della tutela della riservatezza nelle relazioni internazionali e mettendo la questione migratoria sotto il cappello dell’antiterrorismo l’accesso ai dettagli degli accordi non è consentito”, spiega Maccanico, uno dei curatori dello studio. Non si conoscono, per esempio, i compiti specifici degli agenti, per cui si propone addirittura l’immunità totale. “In alcuni accordi, come in Macedonia del Nord, si è poi ‘ripiegato’ su un’immunità connessa solo ai compiti che rientrano nel mandato dell’Agenzia -osserva Salzano-. Ma il problema non cambia: dove finisce la sua responsabilità e dove inizia quella del Paese membro?”. Una zona grigia funzionale a Frontex, anche quando opera sul territorio europeo.

    Lo sa bene l’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp che, come detto, ha portato l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue. Il caso, su cui il giudice si pronuncerà nei prossimi mesi, riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia, è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia: quel volo è stato gestito da Frontex, in collaborazione con le autorità greche. “L’Agenzia cerca di scaricare le responsabilità su di loro ma il suo mandato stabilisce chiaramente che è tenuta a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali durante queste operazioni -spiega-. Serve chiarire che tutti devono rispettare la legge, compresa l’Agenzia le cui azioni hanno un grande impatto sulla vita di molte persone”.

    Le illegittimità nell’attività dei rimpatri sono note da tempo e il caso della famiglia siriana non è isolato. “Quando c’è una forte discrepanza nelle decisioni sulle domande d’asilo tra i diversi Paesi europei, l’attività di semplice ‘coordinamento’ e preparazione delle attività di rimpatrio può tradursi nella violazione del principio di non respingimento”, spiega Mariana Gkliati, docente di Migrazione e Asilo all’università olandese di Tilburg. Nonostante questi problemi e un sistema d’asilo sempre più fragile, negli ultimi anni i poteri e le risorse a disposizione per l’Agenzia sui rimpatri sono esplosi: nel 2022 questa specifica voce di bilancio prevedeva quasi 79 milioni di euro (+690% rispetto ai dieci milioni del 2012).

    E la crescita sembra destinata a non fermarsi. Frontex nel 2023 stima di poter rimpatriare 800 persone in Iraq, 316 in Pakistan, 200 in Gambia, 75 in Afghanistan, 57 in Siria, 60 in Russia e 36 in Ucraina come si legge in un bando pubblicato a inizio febbraio 2023 che ha come obiettivo la ricerca di partner in questi Paesi (e in altri, in totale 43) per garantire assistenza di breve e medio periodo (12 mesi) alle persone rimpatriate. Un’altra gara pubblica dà conto della centralità dell’Agenzia nella “strategia dei rimpatri” europea: 120 milioni di euro nel novembre 2022 per l’acquisto di “servizi di viaggio relativi ai rimpatri mediante voli di linea”. Migliaia di biglietti e un nuovo sistema informatico per gestire al meglio le prenotazioni, con un’enorme mole di dati personali delle persone “irregolari” che arriveranno nelle “mani” di Frontex. Mani affidabili, secondo la Commissione europea.

    Ma il 7 ottobre 2022 il Parlamento, nel “bocciare” nuovamente Frontex rispetto al via libera sul bilancio 2020, dava conto del “rammarico per l’assenza di procedimenti disciplinari” nei confronti di Leggeri e della “preoccupazione” per la mancata attivazione dell’articolo 46 (che prevede il ritiro degli agenti quando siano sistematiche le violazioni dei diritti umani) con riferimento alla Grecia, in cui l’Agenzia opera con 518 agenti, 11 navi e 30 mezzi. “I respingimenti e la violenza sui confini continuano sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime così come non si è interrotto il sostegno alle autorità greche”, spiega la ricercatrice indipendente Lena Karamanidou. La “scusa” ufficiale è che la presenza di agenti migliori la situazione ma non è così. “Al confine terrestre di Evros, la violenza è stata documentata per tutto il tempo in cui Frontex è stata presente, fin dal 2010. È difficile immaginare come possa farlo in futuro vista la sistematicità delle violenze su questo confine”. Su quella frontiera si giocherà anche la presunta nuova reputazione dell’Agenzia guidata dal primo marzo dall’olandese Hans Leijtens: un tentativo di “ripulire” l’immagine che è già in corso.

    Frontex nei confronti delle persone in fuga dal conflitto in Ucraina ha tenuto fin dall’inizio un altro registro: i “migranti irregolari” sono diventati “persone che scappano da zone di conflitto”; l’obiettivo di “combattere l’immigrazione irregolare” si è trasformato nella gestione “efficace dell’attraversamento dei confini”. “Gli ultimi mesi hanno mostrato il potenziale di Frontex di evolversi in un attore affidabile della gestione delle frontiere che opera con efficienza, trasparenza e pieno rispetto dei diritti umani”, sottolinea Gkliati nello studio “Frontex assisting in the ukrainian displacement. A welcoming committee at racialised passage?”, pubblicato nel marzo 2023. Una conferma ulteriore, per Salzano, dei limiti strutturali dell’Agenzia: “La legge va rispettata indipendentemente dalla cornice in cui operi: la tutela dei diritti umani prescinde dagli umori della politica”.

    https://altreconomia.it/nessuno-vuole-mettere-limiti-allattivita-dellagenzia-frontex

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    • I rischi della presenza di Frontex in Africa: tanto potere, poca responsabilità

      L’eurodeputata #Tineke_Strik è stata in Senegal e Mauritania a fine febbraio 2023: in un’intervista ad Altreconomia ricostruisce lo stato dell’arte degli accordi che l’Ue vorrebbe concludere con i due Paesi ritenuti “chiave” nel contrasto ai flussi migratori. Denunciando la necessità di una riforma strutturale dell’Agenzia.

      A un anno di distanza dalle dimissioni del suo ex direttore Fabrice Leggeri, le istituzioni europee non vogliono mettere limiti all’attività di Frontex. Come abbiamo ricostruito sul numero di aprile di Altreconomia, infatti, l’Agenzia -che dal primo marzo 2023 è guidata da Hans Leijtens- continua a svolgere un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione europea nonostante le pesanti rivelazioni dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), che ha ricostruito nel dettaglio il malfunzionamento nelle operazioni delle divise blu lungo i confini europei.

      Ma non solo. Un aspetto particolarmente preoccupante sono le operazioni al di fuori dei Paesi dell’Unione, che rientrano sempre di più tra le priorità di Frontex in un’ottica di esternalizzazione delle frontiere per “fermare” preventivamente i flussi di persone dirette verso l’Europa. Non a caso, a luglio 2022, nonostante i contenuti del rapporto Olaf chiuso solo pochi mesi prima, la Commissione europea ha dato il via libera ai negoziati con Senegal e Mauritania per stringere un cosiddetto working arrangement e permettere così agli “agenti europei” di operare nei due Paesi africani (segnaliamo anche la recente ricerca pubblicata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul tema).

      Per monitorare lo stato dell’arte di questi accordi l’eurodeputata Tineke Strik, tra le poche a opporsi e a denunciare senza sconti gli effetti delle politiche migratorie europee e il ruolo di Frontex, a fine febbraio 2023 ha svolto una missione di monitoraggio nei due Paesi. Già professoressa di Diritto della cittadinanza e delle migrazioni dell’Università di Radboud di Nimega, in Olanda, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2019 nelle fila di GroenLinks (Sinistra verde). L’abbiamo intervistata.

      Onorevole Strik, secondo quanto ricostruito dalla vostra visita (ha partecipato alla missione anche Cornelia Erns, di LeftEu, ndr), a che punto sono i negoziati con il Senegal?
      TS La nostra impressione è che le autorità senegalesi non siano così desiderose di concludere un accordo di status con l’Unione europea sulla presenza di Frontex nel Paese. L’approccio di Bruxelles nei confronti della migrazione come sappiamo è molto incentrato su sicurezza e gestione delle frontiere; i senegalesi, invece, sono più interessati a un intervento sostenibile e incentrato sullo sviluppo, che offra soluzioni e affronti le cause profonde che spingono le persone a partire. Sono molti i cittadini del Senegal emigrano verso l’Europa: idealmente, il governo vuole che rimangano nel Paese, ma capisce meglio di quanto non lo facciano le istituzioni Ue che si può intervenire sulla migrazione solo affrontando le cause alla radice e migliorando la situazione nel contesto di partenza. Allo stesso tempo, le navi europee continuano a pescare lungo le coste del Paese (minacciando la pesca artigianale, ndr), le aziende europee evadono le tasse e il latte sovvenzionato dall’Ue viene scaricato sul mercato senegalese, causando disoccupazione e impedendo lo sviluppo dell’economia locale. Sono soprattutto gli accordi di pesca ad aver alimentato le partenze dal Senegal, dal momento che le comunità di pescatori sono state private della loro principale fonte di reddito. Serve domandarsi se l’Unione sia veramente interessata allo sviluppo e ad affrontare le cause profonde della migrazione. E lo stesso discorso può essere fatto su molti dei Paesi d’origine delle persone che cercano poi protezione in Europa.

      Dakar vede di buon occhio l’intervento dell’Unione europea? Quale tipo di operazioni andrebbero a svolgere gli agenti di Frontex nel Paese?
      TS Abbiamo avuto la sensazione che l’Ue non ascoltasse le richieste delle autorità senegalesi -ad esempio in materia di rilascio di visti d’ingresso- e ci hanno espresso preoccupazioni relative ai diritti fondamentali in merito a qualsiasi potenziale cooperazione con Frontex, data la reputazione dell’Agenzia. È difficile dire che tipo di supporto sia previsto, ma nei negoziati l’Unione sta puntando sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime.

      Che cosa sta avvenendo in Mauritania?
      TS Sebbene questo Paese sembri disposto a concludere un accordo sullo status di Frontex -soprattutto nell’ottica di ottenere un maggiore riconoscimento da parte dell’Europa-, preferisce comunque mantenere l’autonomia nella gestione delle proprie frontiere e quindi non prevede una presenza permanente dei funzionari dell’Agenzia nel Paese. Considerano l’accordo sullo status più come un quadro giuridico, per consentire la presenza di Frontex in caso di aumento della pressione migratoria. Inoltre, come il Senegal, ritengono che l’Europa debba ascoltare e accogliere le loro richieste, che riguardano principalmente i visti e altre aree di cooperazione. Anche in questo caso, Bruxelles chiede il mandato più ampio possibile per gli agenti in divisa blu durante i negoziati per “mantenere aperte le opzioni [più ampie]”, come dicono loro stessi. Ma credo sia chiaro che il loro obiettivo è quello di operare sia alle frontiere marittime sia a quelle terrestri.
      Questo a livello “istituzionale”. Qual è invece la posizione della società civile?
      TS In entrambi i Paesi è molto critica. In parte a causa della cattiva reputazione di Frontex in relazione ai diritti umani, ma anche a causa dell’esperienza che i cittadini senegalesi e mauritani hanno già sperimentato con la Guardia civil spagnola, presente nei due Stati, che ritengono stia intaccando la sovranità per quanto riguarda la gestione delle frontiere. È previsto che il mandato di Frontex sia addirittura esecutivo, a differenza di quello della Guardia civil, che può impegnarsi solo in pattugliamenti congiunti in cui le autorità nazionali sono al comando. Quindi la sovranità di entrambi i Paesi sarebbe ulteriormente minata.

      Perché a suo avviso sarebbe problematica la presenza di agenti di Frontex nei due Paesi?
      TS L’immunità che l’Unione europea vorrebbe per i propri operativi dispiegati in Africa non è solo connessa allo svolgimento delle loro funzioni ma si estende al di fuori di esse, a questo si aggiunge la possibilità di essere armati. Penso sia problematico il rispetto dei diritti fondamentali dei naufraghi intercettati in mare, poiché è difficile ottenere l’accesso all’asilo sia in Senegal sia in Mauritania. In questo Paese, ad esempio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) impiega molto tempo per determinare il loro bisogno di protezione: fanno eccezione i maliani, che riescono a ottenerla in “appena” due anni. E durante l’attesa queste persone non hanno quasi diritti.

      Ma se ottengono la protezione è comunque molto difficile registrarsi presso l’amministrazione, cosa necessaria per avere accesso al mercato del lavoro, alle scuole o all’assistenza sanitaria. E le conseguenze che ne derivano sono le continue retate, i fermi e le deportazioni alla frontiera, per impedire alle persone di partire. A causa delle attuali intercettazioni in mare, le rotte migratorie si stanno spostando sulla terra ferma e puntano verso l’Algeria: l’attraversamento del deserto può essere mortale. Il problema principale è che Frontex deve rispettare il diritto dell’Unione europea anche se opera in un Paese terzo in cui si applicano norme giuridiche diverse, ma l’Agenzia andrà a operare sotto il comando delle guardie di frontiera di un Paese che non è vincolato dalle “regole” europee. Come può Frontex garantire di non essere coinvolta in operazioni che violano le norme fondamentali del diritto comunitario, se determinate azioni non sono illegali in quel Paese? Sulla carta è possibile presentare un reclamo a Frontex, ma poi nella pratica questo strumento in quali termini sarebbe accessibile ed efficace?

      Un anno dopo le dimissioni dell’ex direttore Leggeri ritiene che Frontex si sia pienamente assunta la responsabilità di quanto accaduto? Può davvero, secondo lei, diventare un attore affidabile per l’Ue?
      TS Prima devono accadere molte cose. Non abbiamo ancora visto una riforma fondamentale: c’è ancora un forte bisogno di maggiore trasparenza, di un atteggiamento più fermo nei confronti degli Stati membri ospitanti e di un uso conseguente dell’articolo 46 che prevede la sospensione delle operazioni in caso di violazioni dei diritti umani (abbiamo già raccontato il ruolo dell’Agenzia nei respingimenti tra Grecia e Turchia, ndr). Questi problemi saranno ovviamente esacerbati nella cooperazione con i Paesi terzi, perché la responsabilità sarà ancora più difficile da raggiungere.

      https://altreconomia.it/i-rischi-della-presenza-di-frontex-in-africa-tanto-potere-poca-responsa

    • «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare». La missione di ASGI in Senegal e Mauritania

      Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato il rapporto «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare» (https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania), frutto del sopralluogo giuridico effettuato tra il 7 e il 13 maggio 2022 da una delegazione di ASGI composta da Alice Fill, Lorenzo Figoni, Matteo Astuti, Diletta Agresta, Adelaide Massimi (avvocate e avvocati, operatori e operatrici legali, ricercatori e ricercatrici).

      Il sopralluogo aveva l’obiettivo di analizzare lo sviluppo delle politiche di esternalizzazione del controllo della mobilità e di blocco delle frontiere implementate dall’Unione Europea in Mauritania e in Senegal – due paesi a cui, come la Turchia o gli stati balcanici più orientali, gli stati membri hanno delegato la gestione dei flussi migratori concordando politiche sempre più ostacolanti per lo spostamento delle persone.

      Nel corso del sopralluogo sono stati intervistati, tra Mauritania e Senegal, più di 40 interlocutori afferenti a istituzioni, società civile, popolazione migrante e organizzazioni, tra cui OIM, UNHCR, delegazioni dell’UE. Intercettare questi soggetti ha consentito ad ASGI di andare oltre le informazioni vincolate all’ufficialità delle dichiarazioni pubbliche e di approfondire le pratiche illegittime portate avanti su questi territori.

      Il report parte dalle già assodate intenzioni di collaborazione tra l’Unione Europea e le autorità senegalesi e mauritane – una collaborazione che in entrambi i paesi sembra connotata nel senso del controllo e della sorveglianza; per quanto riguarda il Senegal, si fa menzione del ben noto status agreement, proposto nel febbraio 2022 a Dakar dalla Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson, con il quale si intende estendere il controllo di Frontex in Senegal.

      L’obiettivo di tale accordo era il controllo della cosiddetta rotta delle Canarie, che tra il 2018 e il 2022 è stata sempre più battuta. Sebbene la proposta abbia generato accese discussioni nella società civile senegalese, preoccupata all’idea di cedere parte della sovranità del paese sul controllo delle frontiere esterne, con tale accordo, elaborato con un disegno molto simile a quello che regola le modalità di intervento di Frontex nei Balcani, si legittimerebbe ufficialmente l’attività di controllo dell’agenzia UE in paesi terzi, e in particolare fuori dal continente europeo.

      Per quanto riguarda la Mauritania, si menziona l’Action Plan pubblicato da Frontex il 7 giugno 2022, con il quale si prospetta una possibilità di collaborare operativamente sul territorio mauritano, in particolare per lo sviluppo di governance in materia migratoria.

      Senegal

      Sin dai primi anni Duemila, il dialogo tra istituzioni europee e senegalesi è stato focalizzato sulle politiche di riammissione dei cittadini senegalesi presenti in UE in maniera irregolare e dei cosiddetti ritorni volontari, le politiche di gestione delle frontiere senegalesi e il controllo della costa, la promozione di una legislazione anti-trafficking e anti-smuggling. Tutto questo si è intensificato quando, a partire dal 2018, la rotta delle Canarie è tornata a essere una rotta molto percorsa. L’operatività delle agenzie europee in Senegal per la gestione delle migrazioni si declina principalmente nei seguenti obiettivi:

      1. Monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime. Il memorandum firmato nel 2006 da Senegal e Spagna ha sancito la collaborazione ufficiale tra le forze di polizia europee e quelle senegalesi in operazioni congiunte di pattugliamento; a questo si aggiunge, sempre nello stesso anno, una presenza sempre più intensiva di Frontex al largo delle coste senegalesi.

      2. Lotta alla tratta e al traffico. Su questo fronte dell’operatività congiunta tra forze senegalesi ed europee, la normativa di riferimento è la legge n. 06 del 10 maggio 2005, che offre delle direttive per il contrasto della tratta di persone e del traffico. Tale documento, non distinguendo mai fra “tratta” e “traffico”, di fatto criminalizza la migrazione irregolare tout court, dal momento che viene utilizzato in maniera estensiva (e arbitraria) come strumento di controllo e di repressione della mobilità – fu utilizzato, ad esempio, per accusare di traffico di esseri umani un padre che aveva imbarcato suo figlio su un mezzo che poi naufragato.

      Il sistema di asilo in Senegal

      Il Senegal aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status de rifugiati e del relativo Protocollo del 1967; la valutazione delle domande di asilo fa capo alla Commissione Nazionale di Eleggibilità (CNE), che al deposito della richiesta di asilo emette un permesso di soggiorno della durata di 3 mesi, rinnovabile fino all’esito dell’audizione di fronte alla CNE; l’esito della CNE è ricorribile in primo grado presso la Commissione stessa e, nel caso di ulteriore rifiuto, presso il Presidente della Repubblica. Quando il richiedente asilo depone la propria domanda, subentra l’UNHCR, che nel paese è molto presente e finanzia ONG locali per fornire assistenza.

      Il 5 aprile 2022 l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato una nuova legge sullo status dei rifugiati e degli apolidi, una legge che, stando a diverse associazioni locali, sulla carta estenderebbe i diritti cui i rifugiati hanno accesso; tuttavia, le stesse associazioni temono che a tale miglioramento possa non seguire un’applicazione effettiva della normativa.
      Mauritania

      Data la collocazione geografica del paese, a ridosso dell’Atlantico e delle isole Canarie, in prossimità di paesi ad alto indice di emigrazione (Senegal, Mali, Marocco), la Mauritania rappresenta un territorio strategico per il monitoraggio dei flussi migratori diretti in Europa. Pertanto, analogamente a quanto avvenuto in Senegal, anche in Mauritania la Spagna ha proceduto a rafforzare la cooperazione in tema di politiche migratorie e di gestione del controllo delle frontiere e a incrementare la presenta e l’impegno di attori esterni – in primis di agenzie quali Frontex – per interventi di contenimento dei flussi e di riammissione di cittadini stranieri in Mauritania.

      Relativamente alla Mauritania, l’obiettivo principale delle istituzioni europee sembra essere la prevenzione dell’immigrazione lungo la rotta delle Canarie. La normativa di riferimento è l’Accordo di riammissione bilaterale firmato con la Spagna nel luglio 2003. Con tale accordo, la Spagna può chiedere alla Mauritania di riammettere sul proprio territorio cittadini mauritani e non solo, anche altri cittadini provenienti da paesi terzi che “si presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare irregolarmente in Spagna. Oltre a tali interventi, il report di ASGI menziona l’Operazione Hera di Frontex e vari interventi di cooperazione allo sviluppo promossi dalla Spagna “con finalità tutt’altro che umanitarie”, bensì di gestione della mobilità.

      In tale regione, nella fase degli sbarchi risulta molto dubbio il ruolo giocato da organizzazioni come OIM e UNHCR, poiché non è codificato; interlocutori diversi hanno fornito informazioni contrastanti sulla disponibilità di UNHCR a intervenire in supporto e su segnalazione delle ONG presenti al momento dello sbarco. In ogni caso, se effettivamente UNHCR fosse assente agli sbarchi, ciò determinerebbe una sostanziale impossibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale da parte di qualsiasi potenziale richiedente asilo che venga intercettato in mare.

      Anche in questo territorio la costruzione della figura del “trafficante” diventa un dispositivo di criminalizzazione e repressione della mobilità sulla rotta atlantica, strumentale alla soddisfazione di richieste europee.
      La detenzione dei cittadini stranieri

      Tra Nouakchott e Nouadhibou vi sono tre centri di detenzione per persone migranti; uno di questi (il Centro di Detenzione di Nouadhibou 2 (anche detto “El Guantanamito”), venne realizzato grazie a dei fondi di un’agenzia di cooperazione spagnola. Sovraffollamento, precarietà igienico-sanitaria e impossibilità di accesso a cure e assistenza legale hanno caratterizzato tali centri. Quando El Guantanamito fu chiuso, i commissariati di polizia sono diventati i principali luoghi deputati alla detenzione dei cittadini stranieri; in tali centri, vengono detenute non solo le persone intercettate in prossimità delle coste mauritane, ma anche i cittadini stranieri riammessi dalla Spagna, e anche le persone presenti irregolarmente su territorio mauritano. Risulta delicato il tema dell’accesso a tali commissariati, dal momento che il sopralluogo ha rilevato che le ONG non hanno il permesso di entrarvi, mentre le organizzazioni internazionali sì – ciò nonostante, nessuna delle persone precedentemente sottoposte a detenzione con cui la delegazione ASGI ha avuto modo di interloquire ha dichiarato di aver riscontrato la presenza di organizzazioni all’interno di questi centri.

      La detenzione amministrativa risulta essere “un tassello essenziale della politica di contenimento dei flussi di cittadini stranieri in Mauritania”. Il passaggio successivo alla detenzione delle persone migranti è l’allontanamento, che si svolge in forma di veri e propri respingimenti sommari e informali, senza che i migranti siano messi nelle condizioni né di dichiarare la propria nazionalità né di conoscere la procedura di ritorno volontario.
      Il ruolo delle organizzazioni internazionali in Mauritania

      OIM riveste un ruolo centrale nel panorama delle politiche di esternalizzazione e di blocco dei cittadini stranieri in Mauritania, tramite il supporto delle autorità di pubblica sicurezza mauritane nello sviluppo di politiche di contenimento della libertà di movimento – strategie e interventi che suggeriscono una connotazione securitaria della presenza dell’associazione nel paese, a scapito di una umanitaria.

      Nonostante anche la Mauritania sia firmataria della Convenzione di Ginevra, non esiste a oggi una legge nazionale sul diritto di asilo nel paese. UNHCR testimonia come dal 2015 esiste un progetto di legge sull’asilo, ma che questo sia tuttora “in attesa di adozione”.

      Pertanto, le procedure di asilo in Mauritania sono gestite interamente da UNHCR. Tali procedure si differenziano a seconda della pericolosità delle regioni di provenienza delle persone migranti; in particolare, i migranti maliani provenienti dalle regioni considerate più pericolose vengono registrati come rifugiati prima facie, quanto non accade invece per i richiedenti asilo provenienti dalle aree urbane, per loro, l’iter dell’asilo è ben più lungo, e prevede una sorta di “pre-pre-registrazione” presso un ente partner di UNHCR, cui segue una pre-registrazione accordata da UNHCR previo appuntamento, e solo in seguito alla registrazione viene riconosciuto un certificato di richiesta di asilo, valido per sei mesi, in attesa di audizione per la determinazione dello status di rifugiato.

      Le tempistiche per il riconoscimento di protezione, poi, sono differenti a seconda del grado di vulnerabilità del richiedente e in taluni casi potevano condurre ad anni e anni di attesa. Alla complessità della procedura si aggiunge che non tutti i potenziali richiedenti asilo possono accedervi – ad esempio, chi proviene da alcuni stati, come la Sierra Leone, considerati “paesi sicuri” secondo una categorizzazione fornita dall’Unione Africana.
      Conclusioni

      In fase conclusiva, il report si sofferma sul ruolo fondamentale giocato dall’Unione Europea nel forzare le politiche senegalesi e mauritane nel senso della sicurezza e del contenimento, a scapito della tutela delle persone migranti nei loro diritti fondamentali. Le principali preoccupazioni evidenziate sono rappresentate dalla prospettiva della conclusione dello status agreement tra Frontex e i due paesi, perché tale ratifica ufficializzerebbe non solo la presenza, ma un ruolo legittimo e attivo di un’agenzia europea nel controllo di frontiere che si dispiegano ben oltre i confini territoriali comunitari, ben oltre le acque territoriali, spingendo le maglie del controllo dei flussi fin dentro le terre di quegli stati da cui le persone fuggono puntando all’Unione Europea. La delegazione, tuttavia, sottolinea che vi sono aree in cui la società civile senegalese e mauritana risulta particolarmente politicizzata, dunque in grado di esprimere insofferenza o aperta contrarietà nei confronti delle ingerenze europee nei loro paesi. Infine, da interviste, colloqui e incontri con diretti interessati e testimoni, il ruolo di organizzazioni internazionali come le citate OIM e UNHCR appare nella maggior parte dei casi “fluido o sfuggevole”; una prospettiva, questa, che sembra confermare l’ambivalenza delle grandi organizzazioni internazionali, soggetti messi innanzitutto al servizio degli interessi delle istituzioni europee.

      Il report si conclude auspicando una prosecuzione di studio e analisi al fine di continuare a monitorare gli sviluppi politici e legislativi che legano l’Unione Europea e questi territori nella gestione operativa delle migrazioni.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/un-laboratorio-di-esternalizzazione-tra-frontiere-di-terra-e-di-mare

    • Pubblicato il rapporto #ASGI della missione in Senegal e Mauritania

      Il Senegal e la Mauritania sono paesi fondamentali lungo la rotta che conduce dall’Africa occidentale alle isole Canarie. Nel 2020, dopo alcuni anni in cui la rotta era stata meno utilizzata, vi è stato un incremento del 900% degli arrivi rispetto all’anno precedente. Il dato ha portato la Spagna e le istituzioni europee a concentrarsi nuovamente sui due paesi. La cosiddetta Rotta Atlantica, che a partire dal 2006 era stata teatro di sperimentazioni di pratiche di contenimento e selezione della mobilità e di delega dei controlli alle frontiere e del diritto di asilo, è tornata all’attenzione internazionale: da febbraio 2022 sono in corso negoziazioni per la firma di un accordo di status con Frontex per permettere il dispiegamento dei suoi agenti in Senegal e Mauritania.

      Al fine di indagare l’attuazione delle politiche di esternalizzazione e i loro effetti, dal 7 al 13 maggio 2022 un gruppo di socз ASGI – avvocatз, operatorз legali e ricercatorз – ha effettuato un sopralluogo giuridico a Nouakchott, Mauritania e a Dakar, Senegal.

      Il report restituisce il quadro ricostruito nel corso del sopralluogo, durante il quale è stato possibile intervistare oltre 45 interlocutori tra istituzioni, organizzazioni internazionali, ONG e persone migranti.

      https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania
      #rapport

    • Au Sénégal, les desseins de Frontex se heurtent aux résistances locales

      Tout semblait devoir aller très vite : début 2022, l’Union européenne propose de déployer sa force anti-migration Frontex sur les côtes sénégalaises, et le président Macky Sall y semble favorable. Mais c’était compter sans l’opposition de la société civile, qui refuse de voir le Sénégal ériger des murs à la place de l’Europe.

      Agents armés, navires, drones et systèmes de sécurité sophistiqués : Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes créée en 2004, a sorti le grand jeu pour dissuader les Africains de prendre la direction des îles Canaries – et donc de l’Europe –, l’une des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Cet arsenal, auquel s’ajoutent des programmes de formation de la police aux frontières, est la pierre angulaire de la proposition faite début 2022 par le Conseil de l’Europe au Sénégal. Finalement, Dakar a refusé de la signer sous la pression de la société civile, même si les négociations ne sont pas closes. Dans un climat politique incandescent à l’approche de l’élection présidentielle de 2024, le président sénégalais, Macky Sall, soupçonné de vouloir briguer un troisième mandat, a préféré prendre son temps et a fini par revenir sur sa position initiale, qui semblait ouverte à cette collaboration. Dans le même temps, la Mauritanie voisine, elle, a entamé des négociations avec Bruxelles.

      L’histoire débute le 11 février 2022 : lors d’une conférence de presse à Dakar, la commissaire aux Affaires intérieures du Conseil de l’Europe, Ylva Johansson, officialise la proposition européenne de déployer Frontex sur les côtes sénégalaises. « C’est mon offre et j’espère que le gouvernement sénégalais sera intéressé par cette opportunité unique », indique-t-elle. En cas d’accord, elle annonce que l’agence européenne sera déployée dans le pays au plus tard au cours de l’été 2022. Dans les jours qui ont suivi l’annonce de Mme Johansson, plusieurs associations de la société civile sénégalaise ont organisé des manifestations et des sit-in à Dakar contre la signature de cet accord, jugé contraire aux intérêts nationaux et régionaux.

      Une frontière déplacée vers la côte sénégalaise

      « Il s’agit d’un #dispositif_policier très coûteux qui ne permet pas de résoudre les problèmes d’immigration tant en Afrique qu’en Europe. C’est pourquoi il est impopulaire en Afrique. Frontex participe, avec des moyens militaires, à l’édification de murs chez nous, en déplaçant la frontière européenne vers la côte sénégalaise. C’est inacceptable, dénonce Seydi Gassama, le directeur exécutif d’Amnesty International au Sénégal. L’UE exerce une forte pression sur les États africains. Une grande partie de l’aide européenne au développement est désormais conditionnée à la lutte contre la migration irrégulière. Les États africains doivent pouvoir jouer un rôle actif dans ce jeu, ils ne doivent pas accepter ce qu’on leur impose, c’est-à-dire des politiques contraires aux intérêts de leurs propres communautés. » Le défenseur des droits humains rappelle que les transferts de fonds des migrants pèsent très lourd dans l’économie du pays : selon les chiffres de la Banque mondiale, ils ont atteint 2,66 milliards de dollars (2,47 milliards d’euros) au Sénégal en 2021, soit 9,6 % du PIB (presque le double du total de l’aide internationale au développement allouée au pays, de l’ordre de 1,38 milliard de dollars en 2021). « Aujourd’hui, en visitant la plupart des villages sénégalais, que ce soit dans la région de Fouta, au Sénégal oriental ou en Haute-Casamance, il est clair que tout ce qui fonctionne – hôpitaux, dispensaires, routes, écoles – a été construit grâce aux envois de fonds des émigrés », souligne M. Gassama.

      « Quitter son lieu de naissance pour aller vivre dans un autre pays est un droit humain fondamental, consacré par l’article 13 de la Convention de Genève de 1951, poursuit-il. Les sociétés capitalistes comme celles de l’Union européenne ne peuvent pas dire aux pays africains : “Vous devez accepter la libre circulation des capitaux et des services, alors que nous n’acceptons pas la libre circulation des travailleurs”. » Selon lui, « l’Europe devrait garantir des routes migratoires régulières, quasi inexistantes aujourd’hui, et s’attaquer simultanément aux racines profondes de l’exclusion, de la pauvreté, de la crise démocratique et de l’instabilité dans les pays d’Afrique de l’Ouest afin d’offrir aux jeunes des perspectives alternatives à l’émigration et au recrutement dans les rangs des groupes djihadistes ».

      Depuis le siège du Forum social sénégalais (FSS), à Dakar, Mamadou Mignane Diouf abonde : « L’UE a un comportement inhumain, intellectuellement et diplomatiquement malhonnête. » Le coordinateur du FSS cite le cas récent de l’accueil réservé aux réfugiés ukrainiens ayant fui la guerre, qui contraste avec les naufrages incessants en Méditerranée et dans l’océan Atlantique, et avec la fermeture des ports italiens aux bateaux des ONG internationales engagées dans des opérations de recherche et de sauvetage des migrants. « Quel est ce monde dans lequel les droits de l’homme ne sont accordés qu’à certaines personnes en fonction de leur origine ?, se désole-t-il. À chaque réunion internationale sur la migration, nous répétons aux dirigeants européens que s’ils investissaient un tiers de ce qu’ils allouent à Frontex dans des politiques de développement local transparentes, les jeunes Africains ne seraient plus contraints de partir. » Le budget total alloué à Frontex, en constante augmentation depuis 2016, a dépassé les 754 millions d’euros en 2022, contre 535 millions l’année précédente.
      Une des routes migratoires les plus meurtrières

      Boubacar Seye, directeur de l’ONG Horizon sans Frontières, parle de son côté d’une « gestion catastrophique et inhumaine des frontières et des phénomènes migratoires ». Selon les estimations de l’ONG espagnole Caminando Fronteras, engagée dans la surveillance quotidienne de ce qu’elle appelle la « nécro-frontière ouest-euro-africaine », entre 2018 et 2022, 7 865 personnes originaires de 31 pays différents, dont 1 273 femmes et 383 enfants, auraient trouvé la mort en tentant de rejoindre les côtes espagnoles des Canaries à bord de pirogues en bois et de canots pneumatiques cabossés – soit une moyenne de 6 victimes chaque jour. Il s’agit de l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus meurtrières au monde, avec le triste record, ces cinq dernières années, d’au moins 250 bateaux qui auraient coulé avec leurs passagers à bord. Le dernier naufrage connu a eu lieu le 2 octobre 2022. Selon le récit d’un jeune Ivoirien de 27 ans, seul survivant, le bateau a coulé après neuf jours de mer, emportant avec lui 33 vies.

      Selon les chiffres fournis par le ministère espagnol de l’Intérieur, environ 15 000 personnes sont arrivées aux îles Canaries en 2022 – un chiffre en baisse par rapport à 2021 (21 000) et 2020 (23 000). Et pour cause : la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      « Les frontières de l’Europe sont devenues des lieux de souffrance, des cimetières, au lieu d’être des entrelacs de communication et de partage, dénonce Boubacar Seye, qui a obtenu la nationalité espagnole. L’Europe se barricade derrière des frontières juridiques, politiques et physiques. Aujourd’hui, les frontières sont équipées de moyens de surveillance très avancés. Mais, malgré tout, les naufrages et les massacres d’innocents continuent. Il y a manifestement un problème. » Une question surtout le hante : « Combien d’argent a-t-on injecté dans la lutte contre la migration irrégulière en Afrique au fil des ans ? Il n’y a jamais eu d’évaluation. Demander publiquement un audit transparent, en tant que citoyen européen et chercheur, m’a coûté la prison. » L’activiste a été détenu pendant une vingtaine de jours en janvier 2021 au Sénégal pour avoir osé demander des comptes sur l’utilisation des fonds européens. De la fenêtre de son bureau, à Dakar, il regarde l’océan et s’alarme : « L’ère post-Covid et post-guerre en Ukraine va générer encore plus de tensions géopolitiques liées aux migrations. »
      Un outil policier contesté à gauche

      Bruxelles, novembre 2022. Nous rencontrons des professeurs, des experts des questions migratoires et des militants belges qui dénoncent l’approche néocoloniale des politiques migratoires de l’Union européenne (UE). Il est en revanche plus difficile d’échanger quelques mots avec les députés européens, occupés à courir d’une aile à l’autre du Parlement européen, où l’on n’entre que sur invitation. Quelques heures avant la fin de notre mission, nous parvenons toutefois à rencontrer Amandine Bach, conseillère politique sur les questions migratoires pour le groupe parlementaire de gauche The Left. « Nous sommes le seul parti qui s’oppose systématiquement à Frontex en tant qu’outil policier pour gérer et contenir les flux migratoires vers l’UE », affirme-t-elle.

      Mme Bach souligne la différence entre « statut agreement » (accord sur le statut) et « working arrangement » (arrangement de travail) : « Il ne s’agit pas d’une simple question juridique. Le premier, c’est-à-dire celui initialement proposé au Sénégal, est un accord formel qui permet à Frontex un déploiement pleinement opérationnel. Il est négocié par le Conseil de l’Europe, puis soumis au vote du Parlement européen, qui ne peut que le ratifier ou non, sans possibilité de proposer des amendements. Le second, en revanche, est plus symbolique qu’opérationnel et offre un cadre juridique plus simple. Il n’est pas discuté par le Parlement et n’implique pas le déploiement d’agents et de moyens, mais il réglemente la coopération et l’échange d’informations entre l’agence européenne et les États tiers. » Autre différence substantielle : seul l’accord sur le statut peut donner – en fonction de ce qui a été négocié entre les parties – une immunité partielle ou totale aux agents de Frontex sur le sol non européen. L’agence dispose actuellement de tels accords dans les Balkans, avec des déploiements en Serbie et en Albanie (d’autres accords seront bientôt opérationnels en Macédoine du Nord et peut-être en Bosnie, pays avec lequel des négociations sont en cours).

      Cornelia Ernst (du groupe parlementaire The Left), la rapporteuse de l’accord entre Frontex et le Sénégal nommée en décembre 2022, va droit au but : « Je suis sceptique, j’ai beaucoup de doutes sur ce type d’accord. La Commission européenne ne discute pas seulement avec le Sénégal, mais aussi avec la Mauritanie et d’autres pays africains. Le Sénégal est un pays de transit pour les réfugiés de toute l’Afrique de l’Ouest, et l’UE lui offre donc de l’argent dans l’espoir qu’il accepte d’arrêter les réfugiés. Nous pensons que cela met en danger la liberté de circulation et d’autres droits sociaux fondamentaux des personnes, ainsi que le développement des pays concernés, comme cela s’est déjà produit au Soudan. » Et d’ajouter : « J’ai entendu dire que le Sénégal n’est pas intéressé pour le moment par un “statut agreement”, mais n’est pas fermé à un “working arrangement” avec Frontex, contrairement à la Mauritanie, qui négocie un accord substantiel qui devrait prévoir un déploiement de Frontex. »

      Selon Mme Ernst, la stratégie de Frontex consiste à envoyer des agents, des armes, des véhicules, des drones, des bateaux et des équipements de surveillance sophistiqués, tels que des caméras thermiques, et à fournir une formation aux gardes-frontières locaux. C’est ainsi qu’ils entendent « protéger » l’Europe en empêchant les réfugiés de poursuivre leur voyage. La question est de savoir ce qu’il adviendra de ces réfugiés bloqués au Sénégal ou en Mauritanie en cas d’accord.
      Des rapports accablants

      Principal outil de dissuasion développé par l’UE en réponse à la « crise migratoire » de 2015-2016, Frontex a bénéficié en 2019 d’un renforcement substantiel de son mandat, avec le déploiement de 10 000 gardes-frontières prévu d’ici à 2027 (ils sont environ 1 500 aujourd’hui) et des pouvoirs accrus en matière de coopération avec les pays non européens, y compris ceux qui ne sont pas limitrophes de l’UE. Mais les résultats son maigres. Un rapport de la Cour des comptes européenne d’août 2021 souligne « l’inefficacité de Frontex dans la lutte contre l’immigration irrégulière et la criminalité transfrontalière ». Un autre rapport de l’Office européen de lutte antifraude (Olaf), publié en mars 2022, a quant à lui révélé des responsabilités directes et indirectes dans des « actes de mauvaise conduite » à l’encontre des exilés, allant du harcèlement aux violations des droits fondamentaux en Grèce, en passant par le refoulement illégal de migrants dans le cadre d’opérations de rapatriement en Hongrie.

      Ces rapports pointent du doigt les plus hautes sphères de Frontex, tout comme le Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), une commission d’enquête créée en février 2021 par le Parlement européen dans le but de « contrôler en permanence tous les aspects du fonctionnement de Frontex, y compris le renforcement de son rôle et de ses ressources pour la gestion intégrée des frontières et l’application correcte du droit communautaire ». Ces révélations ont conduit, en mars 2021, à la décision du Parlement européen de suspendre temporairement l’extension du budget de Frontex et, en mai 2022, à la démission de Fabrice Leggeri, qui était à la tête de l’agence depuis 2015.
      Un tabou à Dakar

      « Actuellement aucun cadre juridique n’a été défini avec un État africain », affirme Frontex. Si dans un premier temps l’agence nous a indiqué que les discussions avec le Sénégal étaient en cours – « tant que les négociations sur l’accord de statut sont en cours, nous ne pouvons pas les commenter » (19 janvier 2023) –, elle a rétropédalé quelques jours plus tard en précisant que « si les négociations de la Commission européenne avec le Sénégal sur un accord de statut n’ont pas encore commencé, Frontex est au courant des négociations en cours entre la Commission européenne et la Mauritanie » (1er février 2023).

      Interrogé sur les négociations avec le Sénégal, la chargée de communication de Frontex, Paulina Bakula, nous a envoyé par courriel la réponse suivant : « Nous entretenons une relation de coopération étroite avec les autorités sénégalaises chargées de la gestion des frontières et de la lutte contre la criminalité transfrontalière, en particulier avec la Direction générale de la police nationale, mais aussi avec la gendarmerie, l’armée de l’air et la marine. » En effet, la coopération avec le Sénégal a été renforcée avec la mise en place d’un officier de liaison Frontex à Dakar en janvier 2020. « Compte tenu de la pression continue sur la route Canaries-océan Atlantique, poursuit Paulina Bakula, le Sénégal reste l’un des pays prioritaires pour la coopération opérationnelle de Frontex en Afrique de l’Ouest. Cependant, en l’absence d’un cadre juridique pour la coopération avec le Sénégal, l’agence a actuellement des possibilités très limitées de fournir un soutien opérationnel. »

      Interpellée sur la question des droits de l’homme en cas de déploiement opérationnel en Afrique de l’Ouest, Paulina Bakula écrit : « Si l’UE conclut de tels accords avec des partenaires africains à l’avenir, il incombera à Frontex de veiller à ce qu’ils soient mis en œuvre dans le plein respect des droits fondamentaux et que des garanties efficaces soient mises en place pendant les activités opérationnelles. »

      Malgré des demandes d’entretien répétées durant huit mois, formalisées à la fois par courriel et par courrier, aucune autorité sénégalaise n’a accepté de répondre à nos questions. « Le gouvernement est conscient de la sensibilité du sujet pour l’opinion publique nationale et régionale, c’est pourquoi il ne veut pas en parler. Et il ne le fera probablement pas avant les élections présidentielles de 2024 », confie, sous le couvert de l’anonymat, un homme politique sénégalais. Il constate que la question migratoire est devenue, ces dernières années, autant un ciment pour la société civile qu’un tabou pour la classe politique ouest-africaine.

      https://afriquexxi.info/Au-Senegal-les-desseins-de-Frontex-se-heurtent-aux-resistances-locales
      #conditionnalité #conditionnalité_de_l'aide_au_développement #remittances #résistance

    • What is Frontex doing in Senegal? Secret services also participate in their network of “#Risk_Analysis_Cells

      Frontex has been allowed to conclude stationing agreements with third countries since 2016. However, the government in Dakar does not currently want to allow EU border police into the country. Nevertheless, Frontex has been active there since 2006.

      When Frontex was founded in 2004, the EU states wrote into its border agency’s charter that it could only be deployed within the Union. With developments often described as the “refugee crisis,” that changed in the new 2016 regulation, which since then has allowed the EU Commission to negotiate agreements with third countries to send Frontex there. So far, four Balkan states have decided to let the EU migration defense agency into the country – Bosnia and Herzegovina could become the fifth candidate.

      Frontex also wanted to conclude a status agreement with Senegal based on this model (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t). In February 2022, the EU Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, announced that such a treaty would be ready for signing by the summer (https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal). However, this did not happen: Despite high-level visits from the EU (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t), the government in Dakar is apparently not even prepared to sign a so-called working agreement. It would allow authorities in the country to exchange personal data with Frontex.

      Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometers of external border; like neighboring Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Senegal is considered a safe country of origin by Germany and other EU member states like Luxembourg.

      Even without new agreements, Frontex has been active on migration from Senegal practically since its founding: the border agency’s first (and, with its end in 2019, longest) mission started in 2006 under the name “#Hera” between West Africa and the Canary Islands in the Atlantic (https://www.statewatch.org/media/documents/analyses/no-307-frontex-operation-hera.pdf). Border authorities from Mauritania were also involved. The background to this was the sharp increase in crossings from the countries at the time, which were said to have declined successfully under “Hera.” For this purpose, Frontex received permission from Dakar to enter territorial waters of Senegal with vessels dispatched from member states.

      Senegal has already been a member of the “#Africa-Frontex_Intelligence_Community” (#AFIC) since 2015. This “community”, which has been in existence since 2010, aims to improve Frontex’s risk analysis and involves various security agencies to this end. The aim is to combat cross-border crimes, which include smuggling as well as terrorism. Today, 30 African countries are members of AFIC. Frontex has opened an AFIC office in five of these countries, including Senegal since 2019 (https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-opens-risk-analysis-cell-in-senegal-6nkN3B). The tasks of the Frontex liaison officer stationed there include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states.

      The personnel of the national “Risk Analysis Cells” are trained by Frontex. Their staff are to collect strategic data on crime and analyze their modus operandi, EU satellite surveillance is also used for this purpose (https://twitter.com/matthimon/status/855425552148295680). Personal data is not processed in the process. From the information gathered, Frontex produces, in addition to various dossiers, an annual situation report, which the agency calls an “#Pre-frontier_information_picture.”

      Officially, only national law enforcement agencies participate in the AFIC network, provided they have received a “mandate for border management” from their governments. In Senegal, these are the National Police and the Air and Border Police, in addition to the “Department for Combating Trafficking in Human Beings and Similar Practices.” According to the German government, the EU civil-military missions in Niger and Libya are also involved in AFIC’s work.

      Information is not exchanged with intelligence services “within the framework of AFIC activities by definition,” explains the EU Commission in its answer to a parliamentary question. However, the word “by definition” does not exclude the possibility that they are nevertheless involved and also contribute strategic information. In addition, in many countries, police authorities also take on intelligence activities – quite differently from how this is regulated in Germany, for example, in the separation requirement for these authorities. However, according to Frontex’s response to a FOIA request, intelligence agencies are also directly involved in AFIC: Morocco and Côte d’Ivoire send their domestic secret services to AFIC meetings, and a “#Center_for_Monitoring_and_Profiling” from Senegal also participates.

      Cooperation with Senegal is paying off for the EU: Since 2021, the total number of arrivals of refugees and migrants from Senegal via the so-called Atlantic route as well as the Western Mediterranean route has decreased significantly. The recognition rate for asylum seekers from the country is currently around ten percent in the EU.

      https://digit.site36.net/2023/08/27/what-is-frontex-doing-in-senegal-secret-services-also-participate-in-t
      #services_de_renseignement #données #services_secrets

  • #Québec veut fixer à 14 ans l’âge minimal pour travailler Le Devoir - Florence Morin-Martel à Quebec
    Le ministre du Travail, Jean Boulet, a déposé mardi un projet de loi pour fixer à 14 ans l’âge minimal pour travailler, sauf exception.

    Avec ce texte législatif, le ministre Boulet souhaite favoriser la persévérance scolaire des jeunes dans un contexte de pénurie de main-d’oeuvre. « C’est la relève de demain », a dit M. Boulet.

    Pour les Québécois de moins de 16 ans, le projet de loi 19 veut aussi restreindre à 17 le nombre d’heures de travail par semaine — incluant la fin de semaine — durant l’année scolaire. Les heures travaillées entre le lundi et le vendredi seraient limitées à 10 à compter du 1er septembre prochain.


    Des exceptions sont prévues à l’interdiction de travailler avant l’âge de 14 ans, notamment pour le gardiennage, la livraison de journaux et le tutorat. Il sera aussi possible pour l’enfant d’un propriétaire — ou du conjoint ou de la conjointe de celui-ci — de travailler au sein de l’entreprise familiale si elle compte moins de 10 employés.

    « Ces exceptions-là sont véritablement le prolongement de la vie familiale et scolaire des enfants », a affirmé M. Boulet.

    À l’heure actuelle, il est permis de travailler au Québec avant l’âge de 14 ans à condition d’avoir une autorisation parentale. Pour une personne de 16 ans et moins sans diplôme, il est interdit de se rendre au boulot durant les heures de classe.

    Très attendu, le texte législatif du ministre Boulet reprend les grandes lignes du rapport du Comité consultatif du travail et de la main-d’oeuvre (CCTM), rendu public en décembre dernier.

    M. Boulet a souligné qu’il déposait ce projet de loi dans un contexte où les accidents du travail touchant les Québécois de moins de 16 ans ont bondi de 36 % en 2021.

    Le projet de loi 19 veut aussi augmenter le montant des amendes en cas d’infraction aux dispositions concernant le travail des enfants. La somme passera de 600 $ à 1 200 $ pour une première infraction et de 6 000 $ à 12 000 $ en cas de récidive.

    D’autres détails suivront.

    #enfants #filles #garçons #travail #capitalisme #néo-libéralisme #libéralisme #néo_libéralisme #accidents #conditions_de_travail

    Source : https://www.ledevoir.com/politique/quebec/787026/le-projet-de-loi-pour-encadrer-le-travail-des-enfants-depose-mardi-a-l-ass

  • Le calvaire des #femmes palestiniennes dans les #prisons israéliennes

    Au cours des 74 dernières années, Israël a arrêté plus de 10 000 femmes palestiniennes, les soumettant à des traitements cruels et brutaux… Elles sont anciennes détenues ou membres d’association de défense des droits des prisonniers. Elles dénoncent les #conditions_de_détention, les #agressions, le #harcèlement, les #attouchements, le retrait du voile, mais aussi la #torture, les #raids ou la #négligence_médicale. Car au-delà de l’enfermement, la peine est aussi politique et religieuse.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20230324-le-calvaire-des-femmes-palestiniennes-dans-les-prisons-isra%C3%A9lienne
    #emprisonnement #femmes_palestiniennes #Israël #audio #podcast #patriarcat

  • Against precariousness in higher education : 2023 is happening : Updates and Outlook

    Dear Supporters,

    In summer 2022 we celebrated a major success: the Swiss National Council voted in support of our demands to take steps towards a more sustainable academic system. We are eagerly awaiting the fruits of this decision, but national politics takes time. Meanwhile, a lot is happening within the different institutions of higher education. As the cantons and the universities themselves have a high autonomy in the Swiss federal political landscape, this work at the local level is extremely important. Here is a short overview on some of the local developments:

    – After years of hard work, the mid-level staff association in Zurich reached a breakthrough: The UZH is creating new permanent research and teaching positions. Sustainable working conditions and stable perspectives are feasible in Swiss academia and will benefit everyone, in particular the institutions themselves. Additionally, the University will grant an increase of protected research time for PhDs. You can find more details about these developments at UZH here.
    - In Fribourg, similar developments are happening. More permanent research, teaching and leading administrative positions will be created targeting members of the local mid-level staff association. Discussions on systemically strengthening its members’ voices through increased representation and votes in the university’s by-laws and meetings are currently underway and have received support from several actors involved at university level.
    - In Lausanne, the mid-level staff association launched a petition (please sign if you are at UNIL!) for equal working conditions between PhDs on external funding (such as an SNSF funding) and graduate assistants (assistant-e-s diplômé-e-s). The petition aims to reduce the wage gap by doubling the current allowance that SNSF PhD students receive; to guarantee full-time contracts with 70% of protected research time for graduate assistants; and to abolish the practice of multiple successive contracts during the PhD.
    - In Basel, an active group of PhD-Students and Post-Docs is pushing for change. The unionized group is working on power abuse, sexual assault and strategies for a fairer working environment. Get in contact here.
    - In Geneva, we have recently connected with the Association des Assistant-e-s (ADA) of the Geneva Graduate Institute (IHEID), which, together with the Syndicat Interprofessionnel of Travailleuses et Travailleurs, is participating in the local- and national-level mobilisation against mid-level staff precarity. Great to see that the mobilizations are expanding!
    - Actionuni, which is the umbrella association of all our mid-level staff associations, has already provided multiple position papers on the BFI Botschaft / Message FRI 2025-2028 to different institutional stakeholders. They are now preparing for the public consultation period, which will most likely start in June. Actionuni aims to ensure that despite looming cuts to the funding of higher education on a national level, sustainable researcher careers are possible across institutions of Swiss higher education.

    We are happy to see that the work of many mid-level staff associations leads to observable change. For the year to come, we need everyone’s effort. If you can, join your local mid-level staff association, join a union or share this newsletter and the petition academia website with any new colleagues at your institute. On our website you can find arguments and resources (for example the 18 reasons for permanent positions), media coverage and our demands for better working conditions in a sustainable academic system.

    And most importantly, this year for the very first time the BFI Botschaft / Message FRI – the key document that outlines the focus and funding for higher education on the national level for a four-year period (2025-2028)– will go through a public consultation process. This means that the public has three months to provide feedback on the document. We call on all mid-level staff associations to make use of this opportunity and make their voice heard by responding to it. The consultation period is planned to start in June. We will keep you posted.

    In the meantime, we wish you our very best,

    Your Petition Committee

    Reçu via la mailing-list de « la pétition », le 20 mars 2023.

    #corps_intermédiaire #université #Suisse #recherche #travail #conditions_de_travail

    –—

    Ajouté à la #métaliste des fils de discussion autour de la #précarisation de la #carrière des enseignant·es-chercheur·es dans les universités suisses :
    https://seenthis.net/messages/945135

  • "#Analyse_Retraite" (n°4) consacré à la #pénibilité du #Comité_de_Mobilisation_INSEE DG :

    Nous sommes des agents de l’Insee, l’Institut national de la statistique et des études économiques, mobilisés contre la réforme des retraites du gouvernement. Pour aider à la compréhension des enjeux sociaux et économiques autour de cette réforme, nous mettons en lumière des statistiques publiques dans une collection appelée Analyse Retraites. Ce nouveau numéro est centré sur les questions de pénibilité.


    A télécharger ici :
    https://drive.proton.me/urls/PZQC9YRVT4#c3LuuB7m3wt9

    #analyse #retraites #statistiques #chiffres #rapport #INSEE

    • À l’Insee, la mobilisation contre la réforme des retraites s’organise aussi

      Les agents de l’Insee ont perturbé une conférence de presse cette semaine et ont publié une analyse contre la réforme des retraites. Leur but : mettre au service du mouvement social leur expertise et leur outil de travail, la statistique nationale.

      Mercredi 15 février. Alors que les syndicats ont appelé à une nouvelle journée de manifestation contre la réforme des retraites, l’Insee (l’Institut national de la statistique et des études économiques) fait comme si de rien n’était. Les journalistes économiques ont été convoqués à distance à 10 heures pour la traditionnelle présentation de la « Note de conjoncture » de l’institut de statistiques national. Mais l’écran reste désespérément noir pendant une dizaine de minutes.

      Soudain, une voix s’impose sur l’écran toujours noir. C’est celle d’un responsable du « comité de mobilisation » des agents de l’Insee contre la réforme des retraites. Il rappelle qu’une partie du personnel de l’Insee est vent debout contre la réforme depuis le 19 janvier, que le comité a publié une analyse de quatre pages pour mettre en évidence le caractère inutile de la réforme et, enfin, il invite les journalistes à une conférence de presse le lendemain pour la publication d’une nouvelle analyse du comité sur la question de la pénibilité.

      L’interruption aura été très brève, une poignée de minutes, mais met mal à l’aise le représentant de l’Insee, qui se confond en excuses auprès de la presse. Mis devant la pression du comité, il a dû lui céder la parole, mais insiste sur le fait que ses paroles doivent être différenciées de celles de l’institution.

      Le lendemain, la conférence du comité de mobilisation se tient à la même heure, mais dans des conditions très différentes. Initialement prévue dans les locaux de l’Insee à Montrouge, elle doit se déporter dans un café proche et, pour les journalistes, se passer à distance. À 17 h 20, la veille, dans un mail signé par l’ancienne députée socialiste Karine Berger, devenue en janvier 2020 secrétaire générale de l’Insee, la direction interdit la réunion. « Les réunions syndicales ne sont autorisées dans l’enceinte de l’administration que pour des informations syndicales à destination des seuls agents », rappelle le texte du mail.

      La conférence de presse du comité de mobilisation s’est donc tenue dans des conditions plus difficiles. Les journalistes sont un peu moins nombreux (et assez différents) de ceux de la veille. Mais le texte de l’analyse sur la pénibilité est néanmoins présenté.

      Une analyse au vitriol contre la réforme

      Parfaitement mis en page, ce texte titré « Analyse retraites » n’est pas sans rappeler la charte graphique de l’Insee, ni même le style des notes de l’institut. Un membre du comité assume même le caractère d’« imitation » du document. Tout y est issu des données de l’Insee, et le texte est émaillé de douze références à des articles scientifiques.

      Il s’agit d’un « numéro 4 », qui suit deux premiers numéros publiés lors de la mobilisation contre la précédente réforme des retraites en 2019-2020 et celui du mois de janvier dernier, qui rappelait que les gains de productivité permettaient de compenser le vieillissement de la population, rendant la réforme injustifiée.

      Cette fois, le texte se concentre sur la question de la pénibilité pour mettre en échec un des axes du discours macroniste sur la retraite. En février, le chef de la majorité présidentielle François Patriat, ancien membre du Parti socialiste, avait déclaré que les déménageurs et les couvreurs disposaient désormais d’« exosquelettes ». La note des agents de l’Insee souligne, au contraire, la persistance de la pénibilité et des effets du travail sur la #santé et l’#espérance_de_vie.

      « Ces dernières années ont été marquées par une dégradation des #conditions_de_travail, y compris chez les seniors : accélération des cadences, sous-effectif chronique […], parcellisation et surveillance accrue », souligne la note. En 2019, rappellent les agents, 37 % des salariés se sentaient incapables de tenir dans leur travail jusqu’à l’âge de la retraite. Et ce phénomène touche d’abord les métiers les moins qualifiés.

      L’analyse rappelle aussi que l’espérance de vie sans incapacité n’est que de 63,9 ans pour les hommes et de 65,3 ans pour les femmes, avec là encore un biais fort selon la nature du travail. Cet âge n’est ainsi que de 62,4 ans chez les ouvriers et 64,7 ans chez les ouvrières. En tout, une personne sur quatre présente déjà une incapacité aujourd’hui au moment de son départ en retraite.

      Mais ces différences sont plus globales encore : l’espérance de vie des 5 % les plus pauvres est inférieure de 13 % à celle des 5 % les plus riches. Celle des cadres dépasse de 6,4 ans celle des ouvriers. À 62 ans, 14 % des ouvriers sont déjà morts, contre 6 % des cadres… De quoi relativiser le leitmotiv gouvernemental : « On vit plus longtemps, il faut travailler plus longtemps. »

      Du côté des #contraintes_physiques, le bilan n’est guère plus réjouissant. Certes, certaines d’entre elles ont été réduites, mais elles restent à un niveau élevé. 35 % des salariés et salariées sont ainsi encore exposés à la manutention de charges lourdes à la main. Surtout, l’#intensité_du_travail et la #surveillance_électronique se sont accrues.

      Enfin, l’analyse des agents de l’Insee insiste sur les effets des réformes des retraites sur le #marché_du_travail. Reprenant une étude récente de l’Unédic, le texte rappelle que la réforme de 2010, qui avait porté l’âge légal de départ à la retraite à 62 ans, a créé 100 000 chômeurs supplémentaires et un accroissement des dépenses d’assurance-maladie. « Il y a donc un transfert des coûts de l’#assurance-retraite vers l’#assurance-maladie et l’#assurance-chômage », souligne un agent.

      Mettre son expertise au service du mouvement social

      La démarche de cette analyse mérite d’être soulignée. Les agents mobilisés utilisent leurs compétences pour mettre en lumières des « chiffres publics » qui ne passent pas la « cacophonie médiatique » et, cela n’est pas dit, les cadres existants des publications de l’institut. Il y a donc là, à l’occasion de cette réforme des retraites, une forme de prise de contrôle de l’outil de travail au service du mouvement social, mais aussi une démarche critique vis-à-vis de la communication globale de l’Insee.

      « Ce que l’on essaye de montrer, c’est que notre travail peut servir à autre chose », reconnaît un agent lors de la conférence de presse du comité. Et d’ajouter : « On est en train de dire, en agissant ainsi, qu’on veut un autre type d’expression et de relations avec la société civile. »

      On comprend que les relations avec la direction de l’Insee puissent être tendues, même si un autre agent mobilisé indique que, globalement, jusqu’à mercredi, les rapports étaient plutôt paisibles. Lors de la naissance de cette initiative, au moment de la précédente réforme de 2019-2020, quelques tensions avaient déjà pu se faire sentir, notamment lorsque les agents mobilisés étaient intervenus au cours d’une autre présentation d’une « Note de conjoncture » de l’Insee à la gare de Lyon. La direction avait alors rappelé les agents au « #devoir_de_réserve » qui les oblige à ne pas intervenir dans le débat en tant qu’agents de l’Insee.

      C’est pourquoi ces derniers interviennent au nom global du comité de mobilisation. Depuis, les agents estiment que la direction ne peut pas réellement contester les chiffres mis en avant dans leurs analyses. Un membre du comité estime d’ailleurs que ce travail « participe au rayonnement de l’Insee ». Au reste, il n’y a pas de critique, au sein du comité de mobilisation, de l’Insee en tant que tel. Il y a surtout une volonté d’utiliser les savoirs au service de la lutte contre la réforme.

      En tout, ce comité regroupe « une cinquantaine d’agents », dont une trentaine se réunissent régulièrement. Il est soutenu par quatre syndicats de l’institut : CFDT, CGT, FO et Sud. Mais la mobilisation des agents tend à la dépasser. Selon des membres de ce comité, près de 150 agents ont pu se mettre en grève au cours des semaines de mobilisation. Cela représente près de 10 % des effectifs des services centraux. Un chiffre faible ? Peut-être, mais l’Insee n’est pas un centre traditionnel de la contestation sociale et, affirme un agent membre du comité, « la plupart des agents, comme le reste des Français, sont hostiles à la réforme des retraites ». Jusqu’ici, en tout cas, les publications du comité de mobilisation n’ont pas causé d’hostilité majeure en interne.

      Concrètement, ce mouvement s’est construit autour de celui de 2019-2020. Les cadres de la précédente mobilisation, durant laquelle avaient été publiés déjà deux numéros d’« Analyses retraites », ont été rapidement réactivés. Le comité se structure autour de sous-comités avec des tâches bien précises, notamment la rédaction du quatre-pages. L’assemblée générale se réunit tous les trois ou quatre jours et reçoit des invités, parmi lesquels les économistes Michaël Zemmour ou Nicolas Da Silva, mais aussi les comités interprofessionnels de mobilisation de la région.

      D’ailleurs, les agents mobilisés cherchent de plus en plus à nouer des liens avec les salariés en grève autour du siège de Montrouge. Des agents sont déjà allés sur d’autres lieux de mobilisation pour inciter à l’action. « Cela apporte de la légitimité et du sérieux à la lutte », explique un des agents, qui considère que c’est sur ce point que le personnel de l’Insee peut être utile : « L’Insee a une image de sérieux et de rigueur, et il faut utiliser l’impact que cela peut avoir. »

      L’enjeu, à présent, est de poursuivre et d’amplifier la mobilisation. En poursuivant la rédaction d’analyses, mais aussi en répondant aux coups de frein de la direction, notamment sur la possibilité de réaliser une conférence de presse à distance depuis les locaux de l’Insee. Mais le principal défi sera de voir s’il est faisable d’organiser un blocage et une grève massive à l’institut. « C’est plus difficile, mais je suis optimiste », affirme un agent du comité qui considère que l’usage de l’article 49-3 de la Constitution est de nature à faire franchir le pas à de nombreux agents.

      Déjà, à la direction régionale de Saint-Quentin-en-Yvelines, des agents ont bloqué la production de documents avec l’appui d’une caisse de grève interne. « C’est ce genre d’action que l’on voudrait répéter à la direction générale », indique un agent. Une chose est certaine : à l’institut de statistiques, la colère est la même que dans la plupart des autres entreprises du pays. Et ses agents ont su faire preuve de créativité pour apporter leur expertise au mouvement social.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/170323/l-insee-la-mobilisation-contre-la-reforme-des-retraites-s-organise-aussi

  • Macron est pressé d’en finir ? On continue !
    https://www.lutte-ouvriere.org/editoriaux/macron-est-presse-den-finir-continue-548607.html

    Éditorial des bulletins d’entreprise LO (13 mars 2023)

    Ce week-end, 195 sénateurs grassement payés, aux longues siestes digestives et au régime de retraite exceptionnellement généreux, ont voté pour reculer l’âge de la retraite de 36 millions de travailleurs. Mercredi 15 mars, une Commission mixte paritaire finalisera le texte qui sera présenté, dès le lendemain, à l’#Assemblée_nationale.

    Le principal suspense consiste à savoir si Borne trouvera une majorité pour voter le texte ou choisira de dégainer le #49.3. La belle affaire ! 49.3 ou pas, l’adoption de cette loi contre l’opposition quasi unanime du monde du travail est un passage en force, un bras d’honneur à l’encontre de tous les travailleurs.

    C’est la preuve, s’il en était besoin, que le gouvernement est férocement antiouvrier. Si Macron, ses ministres et ses députés sont, pour la plupart, étrangers au milieu ouvrier, ils ont des yeux et des oreilles. Ils voient et entendent les difficultés et les attentes du monde du travail. Ils ont les chiffres des tendinites, des lombalgies, des accidents du travail et des burn out. Ils ont les chiffres de ceux qui meurent quelques mois après avoir pris leur retraite.

    Ils savent que le #patronat pousse hors des entreprises les travailleurs anciens qui, en général, coûtent plus cher et sont moins corvéables que les plus jeunes. Ils savent combien de travailleurs et de retraités recourent à l’aide alimentaire pour se nourrir, combien sont mal logés, combien ne peuvent pas se chauffer.

    Ils savent aussi, et bien mieux que nous, les milliards qui coulent à flots dans les caisses du grand patronat. Ils savent que les salaires n’ont pas augmenté au rythme des profits et qu’ils n’ont même pas suivi l’inflation. Ils savent que le déficit des caisses de retraite est une paille dans l’océan de profits et de dividendes versés à quelques-uns.

    Ils connaissent les groupes capitalistes qui ont profité de l’#inflation pour augmenter leurs marges et réaliser des #surprofits dans l’alimentaire, par exemple. S’ils voulaient agir contre les profiteurs de guerre, ils pourraient le faire, ils ont leurs noms. Eh bien non, c’est aux travailleurs qu’ils en font baver !

    Réduire au maximum la part de richesses qui revient aux classes populaires pour augmenter celle de la #bourgeoisie est la feuille de route de tous les gouvernements, quels que soient le pays et l’étiquette politique. Pour le monde bourgeois, c’est une nécessité pour tenir son rang dans la jungle mondiale qu’est aujourd’hui le capitalisme en crise.

    Alors oui, les gens que nous avons en face de nous sont certes une minorité de privilégiés, mais ils n’en sont pas moins déterminés. Alors, à nous, à notre camp de trouver la même #détermination pour imposer nos intérêts de travailleurs !

    Après deux mois de mobilisation et face au risque d’usure, tout le monde comprend qu’il faudrait passer au stade supérieur, c’est-à-dire à la grève. Seuls certains secteurs s’y sont lancés : la #SNCF, la #RATP, #EDF, certaines #raffineries, les éboueurs de certaines villes ou encore des enseignants. Ils contribuent à maintenir la pression sur le gouvernement et le grand patronat et à créer une agitation qui encourage la mobilisation, mais ils ne l’emporteront pas tout seuls.

    Pour forcer Macron à reculer, il est nécessaire que ces grèves fassent tache d’huile. Bien sûr, faire grève a un coût. Mais la passivité nous coûte bien plus cher, car se résigner, c’est se condamner aux bas salaires et à une société de plus en plus injuste, barbare et guerrière. Il ne faut pas l’accepter et la mobilisation actuelle montre que des millions de femmes et d’hommes ne l’acceptent plus.

    Grâce à notre action collective, nous avons commencé à construire un rapport de force face au gouvernement et au #grand_patronat. Beaucoup de travailleurs réapprennent à s’exprimer et agir collectivement. Des liens de solidarité et de confiance se construisent et nombre de travailleurs se sentent plus légitimes que jamais pour revendiquer. Rien que prendre l’habitude de discuter entre nous de tous les problèmes qui se posent, #salaires, #horaires, #conditions_de_travail, #transport… est une avancée précieuse pour notre camp et un danger pour le #patronat. Alors, faisons en sorte que cette agitation continue et se généralise à toutes les entreprises pour réussir à peser sur le patronat et le gouvernement de toutes nos forces, c’est-à-dire par la grève.

    Macron espère que l’adoption de la loi sonnera la fin de la mobilisation et le retour au calme dans les entreprises. Il dépend de chacun d’entre nous qu’il en soit autrement.

    Le monde du travail est vaste. Il a de la ressource et un carburant inépuisable : celui de la colère. Continuons de l’exprimer ! Entraînons les hésitants et retrouvons-nous encore plus nombreux en #grève et en #manifestation mercredi 15 et après !

    #lutte_de_classe #gouvernement_borne #emmanuel_macron #grève_générale #saccage_social #régression_sociale #parasitisme #grande_bourgeosie #capitalisme #mobilisation_social #conscience_de_classe

  • Fed up and burnt out: ‘quiet quitting’ hits academia

    Many researchers dislike the term, but the practice of dialling back unrewarded duties is gaining traction.

    When Isabel Müller became an assistant professor in 2021, she started working 16 hours a day, 7 days a week. Although nobody expected her to work this much, she says, she couldn’t find a way to fit all her research, teaching and mentoring efforts into fewer hours. But as the first term progressed, Müller realized her pace was unsustainable. She needed to set boundaries if she wanted to continue working in academia: “It took another term, but now I try to stick to some rules.”

    Müller, a mathematician at the American University in Cairo, is not alone in her efforts to redefine her relationship with work by setting limits to protect her mental health and stave off burnout. The desire for work–life balance is nothing new — but the COVID-19 pandemic and its aftermath have brought academic workers a greater appreciation of its importance. Last August, the discussion on how best to achieve work–life balance went viral with a TikTok video about ‘quiet quitting’ — the idea that workers should no longer go above and beyond their job requirements and subscribe to ‘hustle culture’. In academia, that translates into no longer performing unpaid, unrecognized or underappreciated tasks.

    To Müller, quiet quitting describes working hours that allow her to have a life outside her job and to take care of herself. “I really dislike the name. Everybody that’s trying to restrict their hours already feels horrible about it,” says Müller. “Quiet quitting has such a negative connotation; it makes you feel even worse.” Many researchers disdain the term, noting that they’re neither quitting nor being quiet about their desire to create healthier work–life boundaries, prioritize their mental health and reject toxic workplace cultures.

    Nature spoke to Müller and other researchers about how and why they’re resetting their boundaries, and what they want from their employers. Some were respondents to an online Nature poll, which ran from 7 to 15 November last year, to evaluate the prevalence of quiet quitting in scientists, their motivations for doing so and which activities they cut back on most (see ‘Dialling back’).

    Sick of the status quo

    Since the pandemic began, many scientists have reduced their working hours and cut back on extraneous projects and activities. According to Nature’s poll, 75% of the 1,748 self-selected respondents had dialled back their work efforts since March 2020. The vast majority worked in academia (73%); others were in industry (9%), government (8%), clinical roles (4%), non-profit organizations (4%) and other workplaces (3%). Respondents were also at a range of career stages: 19% were master’s or PhD students; 17% were postdoctoral fellows or research associates; 17% were research or staff scientists; 10% were assistant professors; 22% were senior professors or lecturers; 7% were middle or senior management; and 8% were in other positions.

    Nearly half of the respondents had cut back on hours or activities because they did not want to work unpaid overtime (48%), felt their supervisor did not sufficiently recognize their activities (45%), did not have enough time for their personal lives (44%) or were not receiving a financial incentive (44%). Respondents could select more than one reason, which is why percentages don’t add up to 100. However, the main reason researchers said they introduced boundaries was burnout (67%).

    “Individuals have been pushed so hard for so long, that apathy sets in, motivations wane and people are exhausted. No more bringing work home and perpetuating the imbalance between work and home life,” says one anonymous respondent (see ‘What ‘quiet quitting’ means to Nature readers’).

    A student pursuing an experimental-physics PhD in Switzerland who, like one other researcher interviewed, asked to remain anonymous to avoid harm to their career, began dialling back their efforts when they felt burnt out and uninspired. When they started their programme in 2018, they had been highly motivated and brimming with research ideas. As the years progressed, their work received less attention from their supervisor and collaborators. “You don’t feel like you’re contributing to something important,” the student says. “You start to detach yourself from the vision of seeing yourself in that field [in the future].”

    Burnout and lack of appreciation have also led established scientists to step back from their careers. One scientist in a senior management position in government responded in the poll, “People [are] looking to stop taking on the ‘other duties as assigned’ component of their job because they believe they are not adequately compensated or appreciated.”

    A professor who taught medical students in the US midwest also dialled back her efforts once her workload felt like too much. “There came a point where I was exhausted by the demands of my job — not just the hours or workload — but by the culture of the institution and all of the emotional labour that I was performing,” she says. For instance, she spent time counselling students about problems such as domestic violence and mental-health issues, despite not having training in these areas. In response to the exhaustion, she shortened her working days from 12 hours to 8 on average, avoided going to campus when it was not required and pulled back from optional activities.

    But doing so did not make her feel better. “I never wanted to be anything other than a professor,” she says. “I felt like I was failing on every front because the demands were so excessive.”
    Culling duties

    In our poll, researchers revealed several ways that they have cut back their work efforts, to help them find a more sustainable work–life balance. Nearly two-thirds of investigators and administrative staff who responded said they had reduced their participation at conferences, and more than half have dialled back their peer-review efforts. Nearly half of senior researchers also reported limiting their committee memberships. By contrast, nearly one-quarter of early-career researchers said they had reduced their efforts in mentoring, diversity, equity and inclusion and in outreach, and one-fifth had reduced their efforts in teaching. More than one-quarter of early-career researchers commented that they had reduced their efforts in other ways, largely by focusing on fewer side projects and collaborations and limiting working hours.

    Early-career scientist Ryan Swimley set balanced work habits starting with his first industry job. After earning a bachelor’s degree from Montana State University in Bozeman, he took a position as an analytical-chemistry technician at Nature’s Fynd, a small company in Bozeman that makes fungus-based, vegan protein substitutes. He went from working up to 16 hours a day, spread among classes, research and studying, to a more regular 9-to-5 schedule at the company. “My mental health is better now. I get to figure out what hobbies I want to do outside of work and pursue them,” he says.

    Scientists are also cutting back on activities that don’t contribute to their own career growth or receive appreciation. “I’m more selective now,” says Jeroen Groeneveld, a palaeoceanographer at National Taiwan University in Taipei. “This month, I have two grant-proposal deadlines, so I’m not going to accept any requests to peer review other journal articles,” he says. (He is far from alone — earlier this month, Nature reported that peer-reviewer fatigue is at an all-time high.)

    Groeneveld studies foraminifera, single-celled organisms whose calcite shells can be preserved in marine sediments and used to reconstruct past environmental conditions. Before August 2022, he had spent a lot of time preparing and analysing samples for other researchers in his field. Now, instead, he invites them to his laboratory to learn the techniques themselves. “That is also a form of quiet quitting in the sense that it’s not saying yes to everything any more,” he says. Doing so not only saves Groeneveld time, but also establishes his lab as a place for learning new methods and for collaboration.

    Müller, the medical educator and other scientists have improved their work–life balance by not responding to e-mails or messages from students at night or weekends. Müller advocates for not scheduling exams during weekends, because it’s more inclusive for those with care responsibilities. “I try to tell my students and the other instructors, if it doesn’t fit into five days, it’s just too much.”
    More-humane workplaces

    Although scientists can restructure their own relationships with work, many argue that institutions should do more to address the conditions driving burnout in the first place. “This idea that you have to be working 24 hours a day, 365 days a year, has got to change,” says the medical educator. “There’s so little acknowledgement that people have difficult, complicated lives outside of work.” She suggests that US academic institutions provide employees with more sick days, paid parental and care leave, subsidized care for children and ageing relatives, flexible tenure clocks and more automatic sabbatical breaks. Institutions could also hire more teaching, lab and administrative-support staff members to help spread out heavy workloads.

    Institutions and companies can provide better support for overwhelmed scientists by checking in with employees about their workloads and stress levels. Swimley notes that his direct supervisor asks about his bandwidth to take on new projects, and understands if he needs more time to complete his work. The experimental-physics student suggests that supervisors who don’t have the capacity to offer guidance or career support should reconsider bringing new students into their group. “Don’t treat people like they’re expendable,” the student says.

    Nearly half of the respondents said they have dialled back efforts because of a lack of appreciation from supervisors, or a lack of financial compensation. “I think the main thing universities can do is change their priorities to take care of employees and create a workplace where people feel appreciated and seen,” Müller says. Even simple but personalized e-mail recognition of recent publications, grant successes or positive student evaluations from supervisors would go a long way, she adds.

    When scientists set their own boundaries, it not only improves personal well-being, but also signals to peers that such limits are acceptable and healthy, says Müller. “It does not mean I’m lazy if I don’t want to answer e-mails on the weekend,” she says. “I hope it becomes the new normal to say, ‘My life matters. My work is an important part, but I decide what my life looks like, not my employer.’”

    For a few scientists, quiet quitting can progress into quitting academia altogether. In July 2021, the tenured medical educator left her institution for a position with a non-profit organization, where she still uses her education and publishing skills. Part of her new job involves facilitating meetings with subject-matter specialists, working with authors and copy-editing educational materials. “I’m constantly learning new things,” she says.

    In addition, she feels appreciated by her colleagues and grateful for her improved work–life balance. “I work 100% remote from 8 a.m. to 4 p.m. At the end of the day, I shut the laptop and I walk away. No more working nights. No more working weekends,” she describes.

    Her new schedule has freed up time for her to engage more with members of her professional community. She now serves in a women’s mentoring network and facilitates a monthly mentorship group for people interested in careers outside academia.

    Although she says the transition out of academia wasn’t easy — she was concerned about how her peers would view her decision — she found that almost everyone was supportive. “I’ve gotten lots of back-door inquiries and quiet messages from people who are like, ‘How did you do that?’”

    https://www.nature.com/articles/d41586-023-00633-w

    #burn-out #conditions_de_travail #travail #université #ESR #enseignement_supérieur #santé_mentale #charge_de_travail

    ping @_kg_

  • En #Tunisie, la mort d’une #fillette retrouvée échouée sur une #plage suscite l’#indifférence générale

    Le corps d’une enfant a été retrouvé sur une île de l’archipel des #Kerkennah, au large de #Sfax, en décembre dernier, dans la même position que le petit #Aylan_Kurdi en 2015. Mais contrairement à lui, sa #photo n’a pas fait le tour du monde ni engendré la moindre #réaction politique. Un #silence qui en dit long sur la #banalisation des #naufrages en mer.

    Son corps sans vie a été retrouvé échoué sur une plage, le 24 décembre dernier, vêtu d’un blouson rose bonbon et d’un collant. Âgée d’environ 3 ans, la fillette reposait sur le ventre, face contre terre. Les #îles_de_Kerkennah, au large de Sfax, en Tunisie, ont été les tristes témoins de l’ignominie qui se déroule en #Méditerranée chaque jour : les naufrages qui s’enchaînent à la pelle ; ceux que l’on connaît, parce qu’ils laissent des traces derrière eux, et ceux dont on n’a pas connaissance, qualifiés d’« invisibles », pour lesquels aucune embarcation ni dépouille n’est jamais retrouvée.

    Mais cette fois, il y a une photo. L’enfant a été découvert sur la plage de #Sidi_Founkhal au petit matin, par un habitant de Sfax, originaire des Kerkennah, qui a décidé d’immortaliser l’horreur produite par nos politiques migratoires.

    Retrouvé par Mediapart, Boulbeba Bougacha, âgé de 20 ans, raconte avoir voulu « changer d’air » en allant déjeuner avec ses proches sur la plage, aux alentours de 13 heures, le 24 décembre. « On l’a trouvée là, allongée sur le ventre. On a appelé les autorités, qui sont venues la récupérer. Ça a été un choc. On sait que beaucoup de gens meurent en mer, mais on n’est jamais préparé à voir une chose pareille. »

    Sur la même plage ce jour-là, la mer a expulsé de ses entrailles au moins trois autres corps adultes, tous subsahariens. Boulbeba s’est exprimé sur les ondes de la radio locale Diwan FM, le 26 décembre 2022. Mais, fait surprenant, ni l’information ni la photo n’ont été relayées en Tunisie ou ailleurs, hormis dans quelques rares publications sur les réseaux sociaux. On se souvient de la photo du petit Aylan Kurdi, un enfant kurde retrouvé lui aussi échoué sur une plage de Turquie en 2015, quasiment dans la même position, qui avait suscité l’émoi et l’indignation partout à travers le monde.

    Dans l’archipel de Kerkennah, où règnent les familles de pêcheurs, tout le monde ou presque a entendu parler de la fillette. Mais le choc des premières découvertes de naufragé·es en mer a laissé place, depuis plusieurs années, à une forme de #résilience. « On voit des #cadavres presque tous les jours », lâche Nasser*, qui vit de la pêche.

    Lorsque nous le rencontrons à Remla, capitale des îles Kerkennah, l’homme semble soulagé d’être enfin entendu. Au printemps dernier, il dit avoir trouvé un bébé, âgé d’à peine 2 ans. « La dernière fois, j’ai vu quatre ou cinq morts d’un coup. Quand on appelle la garde nationale, ils nous demandent si ce sont des Blancs ou des Noirs. Si ce sont des Noirs, ils ne se déplacent pas. »

    Des pêcheurs traumatisés

    Depuis les années 2000, l’archipel aux 15 000 âmes s’est transformé en lieu de départ pour les personnes souhaitant émigrer vers l’Europe, du fait de sa proximité avec l’île italienne de Lampedusa. Il attire ainsi les Tunisiens, mais aussi, depuis une dizaine d’années les Subsahariens, de plus en plus nombreux à passer par la Tunisie (et le Maghreb de manière générale) pour tenter de travailler et/ou de prendre la mer.

    « De par sa localisation, Sfax a attiré beaucoup de Subsahariens, d’abord parce que c’est la deuxième plus grande ville de Tunisie et qu’il y a un fort besoin de main-d’œuvre, ensuite parce qu’elle est proche de Kerkennah, où des réseaux de passage existaient déjà », analyse Hassan Boubakri, chercheur à l’université de Sousse et de Sfax.

    Jeudi 9 février, des militaires armés contrôlent la montée à bord du Loud, nom du ferry reliant Sfax à Kerkennah en une heure. Plusieurs hommes voyageant seuls sont mis à l’écart, contrôlés puis interrogés.

    « Les autorités surveillent beaucoup l’île désormais, poursuit le spécialiste des migrations. Les Noirs ne peuvent plus rallier Kerkennah et les Tunisiens doivent présenter un justificatif démontrant qu’ils vont travailler ou rendre visite à des proches pour s’y rendre. » Les pêcheurs qui acceptent de s’exprimer confirment tous l’information. Mais ils précisent que des départs par la mer continuent de s’organiser depuis l’archipel, sans doute par l’intermédiaire des Tunisiens y ayant leur « réseau ».

    Les départs se font aussi depuis Sfax, rendant la traversée plus longue et dangereuse pour les exilé·es. « Une journée comme ça, avec un vent du Nord plutôt fort, va nous ramener plusieurs cadavres sur l’île », assure Nasser, qui se dit traumatisé par la vue de visages défigurés ou de corps à moitié dévorés par les poissons et les oiseaux migrateurs, très présents sur l’île. « La dernière fois, j’étais tellement marqué par ce que j’avais vu que sur le trajet retour vers ma maison, j’ai dû m’arrêter sur le bas-côté pour reprendre mes esprits », poursuit-il, le regard vide et abîmé.

    Il y a aussi les squelettes, que les pêcheurs disent observer surtout sur l’île de #Roumedia, située au nord-est de l’archipel. « Il y a un corps qui est là-bas depuis l’Aïd-el-Séghir [la fête marquant la fin du ramadan – ndlr], donc depuis avril dernier. On l’a signalé mais personne n’est venu le récupérer », regrette l’un des amis de Nasser, également pêcheur.

    Un autre explique avoir culpabilisé après avoir laissé un corps dans l’eau lorsqu’il était au large : « Si je l’avais signalé à la garde nationale, elle m’aurait demandé ensuite de l’accompagner jusqu’au #cadavre. C’était trop loin et il y avait de grandes chances que je n’arrive pas à le retrouver », se justifie-t-il.

    Ce dernier se souvient également avoir trouvé, il y a quelques mois, une femme enceinte sur le bord d’une plage. « C’est très dur pour nous. On sort en mer et on ne sait pas sur quoi on va tomber », ajoute-t-il, expliquant avoir constaté une hausse des naufrages en 2022. Tous affirment que « l’#odeur » est insupportable.

    Une question, qu’ils prononcent du bout des lèvres, les taraude : les poissons qu’ils pêchent et qu’ils donnent à manger à leur famille se sont-ils nourris de ces cadavres dont personne ne se préoccupe, parce que « migrants » ?

    À #Mellita, dans le sud des Kerkennah, d’autres remontent régulièrement des corps dans les mailles de leur filet. Certains, comme Ali*, en trouvent coincés dans leur charfia traditionnel, un barrage visant à bloquer le poisson et à le rediriger vers un piège.

    Dans sa maisonnette, l’homme raconte comment il a ainsi trouvé le corps d’un homme d’une quarantaine d’années coincé sous l’eau. « J’ai appelé la garde nationale à 11 heures. J’ai attendu jusqu’à 15 heures mais personne n’est venu le récupérer. Le lendemain, j’ai retrouvé le corps au même endroit. » La garde nationale aurait invoqué un « manque de moyens ».

    Si dix-huit mille personnes ont réussi à traverser la Méditerranée depuis les côtes tunisiennes en 2022 pour rejoindre l’Italie, « au moins neuf mille migrants ont dû mourir en mer », présume un habitant des Kerkennah, qui préfère garder l’anonymat.

    Pour Hassan Boubakri, également président du Centre de Tunis pour la migration et l’asile (Cetuma), plusieurs signes viennent démontrer que l’on assiste à une #banalisation de la mort en Méditerranée, dans un contexte de multiplication des naufrages. « Il y a les #médias qui font régulièrement le décompte des morts, les pêcheurs qui ne sont plus surpris de sortir des corps de leur filet, les riverains de la mer qui souffrent d’assister à tout cela… »

    Et d’ajouter que cette banalisation se traduit aussi à travers les procédures de plus en plus standardisées pour la prise en charge des naufrages et des corps retrouvés. « Tous les acteurs impliqués, comme la garde nationale, l’appareil judiciaire, la médecine légale ou le Croissant-Rouge, sont devenus, même inconsciemment, parties prenantes de cette banalisation. Tout le monde s’accorde à dire que la Méditerranée est devenue un cimetière, alors que cela devrait susciter de la compassion. Mais on est passés de la #compassion à l’#indifférence, avec très peu de perspectives sur les solutions pouvant protéger les personnes menacées », décrypte-t-il.

    La difficile #identification des non-Tunisiens

    Face à ces drames, plusieurs acteurs s’activent, dans l’ombre, pour tenter de documenter les naufrages et permettre l’identification des victimes, comme la plateforme AlarmPhone. Pour le Comité international de la Croix-Rouge (CICR), qui aide au rétablissement des liens familiaux et travaille en coopération avec le Croissant-Rouge tunisien, la recherche et l’identification des personnes disparues en mer sont indispensables.

    Si les autorités tunisiennes restent responsables pour le processus d’identification des personnes ayant perdu leur vie en mer, le CICR intervient en appui, sur la base d’une « demande de recherche », ouverte le plus souvent par un proche de disparu. Il vérifie alors les informations permettant de faire le lien avec la personne présumée disparue. Quelle est son identité ? Quels vêtements ou quels effets personnels avait-elle ? Quel signe distinctif peut permettre de l’identifier ?

    La démarche est plus simple s’agissant des ressortissants tunisiens, pour lesquels les autorités peuvent consulter le fichier des empreintes digitales et dont les familles, basées en Tunisie, se mobilisent pour les retrouver. Elle est moins évidente s’agissant des exilés non tunisiens, dont les proches restent dans le pays d’origine et n’ont pas toujours d’informations sur le projet ou le parcours migratoire de la personne disparue.

    Dans ce cas, le CICR s’autorise à prendre en compte les informations venues d’ami·es ou de connaissances ayant croisé la route d’une personne portée disparue. Mais parfois, le signalement ne vient jamais. « Certains ont peur de signaler une disparition aux ONG parce qu’ils ne font pas la différence avec les autorités. Ils ne veulent pas avoir des ennuis », commente Yaha, une Ivoirienne et entrepreneure installée à Sfax depuis six ans, qui consacre tout son temps libre à accompagner les proches de disparu·es en mer dans leurs recherches, notamment avec le Croissant-Rouge.

    À Sfax, où nous la retrouvons, Yaha rejoint deux jeunes Ivoiriens, inquiets pour un groupe de sept personnes qui ne donnent plus signe de vie. « Il y a cinq adultes et deux enfants, âgés de 2 ans et de 8 mois. Ils ont disparu depuis deux semaines. On sait qu’ils sont morts en mer. Maintenant, on veut savoir si leurs corps ont été retrouvés », souffle le premier, occupé à chercher leurs photos sur son téléphone. La fillette des Kerkennah ? Ils n’en savent rien. Le second commente : « Les gens ne préviennent pas quand ils partent. Il faut attendre qu’ils disparaissent pour qu’on le sache. »

    Tous deux iront, deux jours plus tard, dans les locaux de la garde nationale de Sfax, où ils pourront accéder au registre et aux photos des naufragé·es. Ils seront accompagnés d’un membre du Croissant-Rouge, dont la présence est censée rassurer vis-à-vis des autorités et aider sur le plan émotionnel, dans un moment particulièrement difficile.

    Identifier les personnes disparues n’est pas chose facile : durant le week-end des 28 et 29 janvier, soit la période correspondant à leur disparition, les acteurs associatifs comptent onze à douze tentatives de traversée, dont au moins trois naufrages.

    Une #morgue dépassée

    Pour l’heure, aucune demande de recherche n’a été enregistrée par le #CICR concernant la fillette des Kerkennah, que ce soit en Tunisie ou en Italie. Plusieurs acteurs locaux redoutent que ses parents soient décédés lors du naufrage. « On pense qu’il n’y a pas eu de survivants pour cette embarcation. Elle a été retrouvée à un moment où il y a eu beaucoup de naufrages. On sait juste qu’elle a la peau noire, comme les adultes retrouvés sur place le même jour », indique un membre du tissu associatif. Selon nos informations, son corps est resté un temps à la morgue de l’hôpital de Sfax, avant d’être inhumé.

    « Quand il y a un naufrage, c’est la #garde_nationale qui doit porter secours. S’il y a des personnes décédées, elle les ramène sur terre, où l’unité technique et scientifique prend des photos et des traces d’ADN. [Les corps] sont ensuite emmenés à la morgue, jusqu’à ce qu’ils soient réclamés ou qu’il y ait un ordre d’#enterrement provenant de la municipalité, pour ceux qui n’ont pas été identifiés », détaille la militante des droits humains. Problème, l’unité médico-légale de l’hôpital de Sfax, qui a une capacité de quarante places, est débordée.

    Sollicitées, leurs équipes n’ont pas souhaité s’exprimer. Mais dans un document que nous avons pu nous procurer, l’unité médico-légale fait état d’une « nette augmentation » des naufrages en mer ces dernières années, les exilé·es représentant désormais 50 % de l’activité des effectifs.

    On y apprend également que les personnes de peau noire représentent la majorité des #victimes et que les enfants, de même que les nourrissons, représentent 5 % des naufragés au large de Sfax sur le premier semestre en 2022. La plupart d’entre eux n’avaient aucun document d’identité.

    L’unité souffre de conditions de travail « difficiles », dues à un manque criant de moyens. À plusieurs reprises, des cadavres ont dû, par manque de place, être entreposés sur un brancard dans les couloirs de l’établissement. « Les migrations dépassent tout le monde, admet Wajdi Mohamed Aydi, adjoint au maire de Sfax chargé des migrations, qui évoque un manque de gouvernance à l’échelle nationale. Il y a des tentatives de traversée et des #accidents chaque semaine, voire chaque jour. On s’occupe de l’#enterrement des personnes non identifiées, en essayant de respecter au mieux leur dignité. » Lorsqu’il n’y a pas de nom, un numéro est inscrit sur la #pierre_tombale.

    Les Subsahariens confrontés à la #précarité et au #racisme

    L’élu pointe aussi un phénomène récent, celui de l’apparition d’embarcations en métal utilisées par les migrants pour la traversée (selon plusieurs sources, certains les fabriqueraient eux-mêmes, sous la houlette des réseaux de passage tunisiens).

    Une information que confirme la militante des droits humains déjà citée : « Ces nouvelles #embarcations en métal sont une catastrophe. Ils cherchent à en fabriquer un maximum de l’heure et ne les soudent pas bien. Les gens ont peu de chances de s’en sortir s’il y a un naufrage car les bateaux coulent plus vite et ils restent coincés à l’intérieur. »

    À six kilomètres au sud de Sfax, dans le quartier défavorisé de #Ben_Saïda, où vit une communauté importante de Subsahariens, Junior s’engouffre dans la maison inachevée qu’il occupe, dont les murs en briques sont restés nus. C’est ici que le jeune Guinéen (Guinée-Conakry), âgé de 16 ans, vit avec au moins soixante-dix autres jeunes, originaires de ce même pays, du Cameroun, de Côte d’Ivoire, du Sénégal ou du Mali. Tous ont déjà tenté au moins une fois la traversée et attendent de pouvoir de nouveau tenter leur « chance ».

    Dans l’intérieur sombre de l’habitation, où des matelas et couvertures sont disposés à même le sol, des dizaines de gamins se bousculent, curieux de nous voir pénétrer leur univers. Une majorité de jeunes hommes, encore dans l’adolescence, dont le visage et les corps sont déjà usés par l’exil. « On a été interceptés par la garde nationale il y a deux semaines. Ils nous ont mis en difficulté exprès. Mon frère Mohamed est tombé à l’eau et s’est noyé », résume Junior, encore en état de choc. Il montre une vidéo de la garde nationale fonçant sur une embarcation refusant de s’arrêter en mer. Il montre aussi ses pieds blessés lors de l’interception et restés sans soins depuis.

    Les quelques femmes vivant là, seules ou avec leur enfant, disent être inquiètes pour un couple et son bébé, disparus depuis trois semaines. « On sait qu’ils voulaient traverser. On n’a plus de nouvelles, on pense qu’ils sont morts en mer. » Sur son smartphone, la bouille de l’enfant, dans les bras de sa mère souriante, apparaît.

    Malgré leur disparition en mer, elles veulent partir, elles aussi. « Mais j’ai très peur de l’eau, je ne sais pas nager », hésite l’une d’elles. Elle a quitté son pays pour fuir les violences conjugales. Elle expérimente désormais la violence des frontières.

    Junior n’a pas trouvé la force de contacter le Croissant-Rouge. « J’imagine que mon frère a été enterré. Je n’ai pas cherché à savoir car c’est trop lourd pour moi, ça me fait mal au cœur rien que d’y penser. » Les ados semblent avoir intégré le #risque de mourir en mer. Ils n’ont « pas d’autre choix », assurent-ils. « On ne peut pas rester dans notre pays et on ne peut pas rester ici. »

    Ils dénoncent le « racisme » auquel ils sont confrontés en Tunisie. « Des policiers ont volé mon portable l’autre jour. Au commissariat, ils n’ont pas voulu prendre ma plainte. Dans les épiceries, ils ne veulent pas nous vendre de riz parce qu’il y a une pénurie et qu’on n’est pas prioritaires. »

    Le membre du tissu associatif déjà cité explique : « Leurs #conditions_de_vie se sont durcies. Depuis quelque temps, un blocage a été mis en place à la Poste pour qu’ils ne puissent ni envoyer ni retirer de l’argent. » Il ajoute avoir observé, au cours des derniers mois, de nombreuses « #arrestations_arbitraires » de personnes en situation irrégulière.

    « C’est aussi ça qui pousse les gens à prendre la mer, affirme Yaha. S’ils restent ici sans papiers, c’est comme une prison à ciel ouvert. S’ils veulent rentrer chez eux, ils doivent payer une pénalité [d’un montant maximal de 3 000 dinars tunisiens, soit environ mille euros – ndlr]. Avec cet argent, certains préfèrent partir en Europe, où ils pourront offrir un avenir meilleur à leurs enfants. »

    https://www.mediapart.fr/journal/international/190223/en-tunisie-la-mort-d-une-fillette-retrouvee-echouee-sur-une-plage-suscite-

    #migrations #asile #réfugiés #décès #mourir_en_mer #fille #enfant #enfance #enfants #photographie #racisme #pêcheurs #Alan_Kurdi

    ping @karine4 @_kg_

    • En Tunisie, « il faut dépasser la question des #traversées pour penser l’immigration africaine »

      Dans un contexte où le Parti nationaliste tunisien s’en prend violemment à la communauté subsaharienne et où les naufrages ne cessent de s’intensifier en mer, le géographe #Camille_Cassarini revient sur les évolutions de la présence africaine dans ce pays du Maghreb, dont les politiques migratoires n’échappent pas aux mécanismes que l’on peut observer en Europe.

      DixDix-huit mille personnes ont réussi à rejoindre l’Italie depuis les côtes tunisiennes en 2022. Un chiffre en constante augmentation ces dernières années, démontrant que la crise socio-économique, mais aussi démocratique, dans laquelle s’enfonce la Tunisie ne cesse de pousser des personnes sur les chemins de l’exil.

      À l’heure où les naufrages s’amplifient et où la découverte du corps d’une fillette, échoué sur une plage des îles Kerkennah le 24 décembre dernier, vient brutalement nous rappeler la violence des politiques de fermeture des frontières, Camille Cassarini, chercheur à l’Université de Gênes et chercheur associé au LPED/IRD, alerte sur la nécessité de reconnaître l’immigration africaine en Tunisie.

      Après avoir passé plusieurs années à Sfax pour réaliser sa thèse, ville où la communauté subsaharienne est particulièrement importante, le géographe constate qu’un certain nombre de personnes viennent d’abord pour étudier et travailler.

      « Les personnes subsahariennes sont structurellement irrégularisées par l’État tunisien et leur départ prend avant tout naissance dans ce contexte de vulnérabilité juridique », souligne ce spécialiste des mobilités africaines en Tunisie, estimant que la délivrance d’un titre de séjour et l’ouverture de leurs droits pourraient permettre à certains de se projeter en Tunisie. Il faut, dit-il, cesser de penser ces mobilités sous l’angle du transit vers l’Europe.

      Mediapart : Depuis quand observe-t-on la présence d’exilés subsahariens en Tunisie ?

      Camille Cassarini : Depuis les années 1980, avec principalement des étudiants au départ, issus de classes moyennes supérieures, venus se former dans des instituts publics tunisiens. Il y a un premier changement dans les années 1990, qui correspond au grand pari de Ben Ali sur l’enseignement privé, visant à attirer lesdites « classes moyennes émergentes » d’Afrique.

      C’est ainsi qu’on a vu arriver des Camerounais, Congolais, Sénégalais ou Ivoiriens. Au même moment, il y avait déjà des mobilités de travailleurs qui arrivaient en Tunisie puis tombaient en situation irrégulière, mais on n’en parlait pas du tout.

      Un second changement a eu lieu en 2003, avec l’arrivée de la Banque africaine de développement et de son personnel, qui, à la suite des événements en Côte d’Ivoire, a été déplacée à Tunis. En 2011 enfin, l’arrivée au pouvoir d’Alassane Ouattara en Côte d’Ivoire a mis beaucoup d’Ivoiriens sur la route. On estime qu’il y avait alors quelques milliers d’Ivoiriens à Tunis, quelques centaines à Sfax. Ces chiffres ont connu une croissance très forte dans les années qui ont suivi. Je dirais qu’aujourd’hui, entre 30 000 et 50 000 personnes originaires d’Afrique subsaharienne vivent en Tunisie.

      Quel est leur profil ?

      On retrouve toujours une très large majorité de personnes ivoiriennes, ce qui est en soi une particularité, voire un paradoxe, car la Côte d’Ivoire n’était pas un pays d’émigration, contrairement à d’autres pays d’Afrique de l’Ouest. On observe surtout la présence de travailleurs, issus de deux principaux groupes socio-ethniques en Côte d’Ivoire (les Akan et Baoulé, ainsi que les Bété, proches de Laurent Gbagbo), qui, avant, ne migraient absolument pas hors de la Côte d’Ivoire et sont issus de couches sociales assez favorisées.

      Dans quelles conditions de vie évoluent-ils ?

      Jusqu’au Covid-19, tous ces groupes vivaient d’emplois relativement précaires ; pas seulement d’emplois journaliers, payés 25 dinars par jour, mais aussi de petites activités commerciales à la valise (le fait de ramener des produits du pays d’origine pour les revendre en Tunisie).

      Cette population arrivait par avion sans visa et vivait en situation irrégulière (puisque une fois passés les trois mois de séjour autorisés, ils n’ont plus de droit au séjour), dans des logements collectifs, parfois individuels et dans des conditions relativement précaires ; mais des conditions qui, au regard de leur précédente situation en Côte d’Ivoire, n’étaient pas forcément si mauvaises.

      Leur salaire leur permettait d’opérer des renvois de fonds et de soutenir leur famille. Notamment au regard du taux de change qui existait entre le dinar tunisien et l’euro, et donc le franc CFA. À partir de 2018, l’État tunisien a développé une autre politique monétaire, faisant doper les exportations et baisser la valeur du dinar. Les cordons de la bourse ont alors été de plus en plus serrés.

      Quel impact le Covid-19 a-t-il pu avoir sur les migrations de Subsahariens vers et via la Tunisie ?

      Étant donné que ces personnes vivaient majoritairement d’emplois journaliers, sur un marché du travail informel, elles ont été les premières à perdre leur emploi. Elles ont vécu une très forte précarité, notamment parce qu’elles n’avaient ni sécurité sociale, ni parachute, ni aucune structure familiale pouvant leur venir en aide. Et on a vu des choses apparaître pour la toute première fois durant cette période, comme la mendicité et le sans-abrisme. Sur le plan des arrivées, il y a eu une forte baisse des arrivées, mais cela a repris dès que le trafic aérien s’est rouvert.

      Selon les ONG, la présence des Subsahariens a fortement augmenté en 2022. Comment l’expliquez-vous ?

      Les arrivées ont augmenté, oui, mais difficile de dire dans quelle mesure. Ce qui est sûr, c’est qu’il n’y a plus seulement que des Ivoiriens. Il y a d’autres nationalités qui ont investi cette route migratoire comme les lieux d’installation ouverts par ces mobilités. Des personnes originaires du Cameroun et de Guinée-Conakry, qui pratiquent les routes migratoires entre Afrique de l’Ouest et Afrique du Nord depuis longtemps.

      Alors qu’on les trouvait beaucoup en Libye, en Algérie ou au Maroc, les mobilités ivoiriennes ont ouvert cette route à travers la Tunisie, notamment jusqu’à Sfax. Aussi, sans doute, parce que des routes s’ouvrent et se ferment en permanence, et que les populations cherchent de nouveaux itinéraires. Chaque groupe en migration a sa propre histoire migratoire.

      Ces populations, différentes les unes des autres, cherchent-elles toutes à tenter la traversée pour l’Europe ?

      Mes travaux montrent que les Ivoiriens sont venus en Tunisie pour travailler et s’installer. Ces mobilités s’apparentent donc de plus en plus à une immigration, avec des gens qui restent plusieurs années, fondent une famille et occupent des emplois et une position sociale en Tunisie. On est face à un début d’immigration qui est appelée à rester.

      Concernant les Guinéens et Camerounais (et je le dis avec beaucoup de prudence car je n’ai pas mené d’enquête sur le sujet), on sait que ce sont des groupes connus pour rechercher une traversée vers l’Europe. On sait aussi que ce sont des groupes surreprésentés dans les demandes d’asile en Europe. C’est une donnée sur laquelle on peut s’appuyer pour faire l’hypothèse qu’ils ne sont pas forcément en Tunisie pour y rester, contrairement aux Ivoiriens. Mais il faudrait y consacrer des travaux.

      L’arrivée de nouvelles nationalités a-t-elle changé la donne pour les réseaux de passage ?

      Oui. Ces nouvelles nationalités ramènent avec elles leur expérience de la route et de la traversée. Certaines personnes sont restées très longtemps en Libye et ont acquis de bonnes connaissances dans la fabrication de bateaux. En arrivant à Sfax, qui est une ville littorale avec toute une économie de la mer, elles se sont mises à fabriquer des bateaux ou à acheter des moteurs. C’est le cas des Guinéens et des Gambiens. Aujourd’hui, on voit de nouveaux types d’embarcation en métal.

      Cela étant dit, aucune économie du passage ne se fait sans l’aval, le soutien et la protection de réseaux de passage tunisiens vers l’Europe. Les personnes en situation de domination quotidienne, sans capital social ni économique, n’ont pas les moyens de mettre en place de tels réseaux. Les Tunisiens cherchent un public, certains Subsahariens leur donnent accès à ce public-là, et ensuite, c’est de la négociation et du business. S’il y a une économie du passage des Subsahariens vers l’Europe, c’est avant tout parce qu’il y a une économie du passage des Tunisiens vers l’Europe.

      Avec l’arrivée de ces nouvelles nationalités, l’économie du passage s’est diversifiée. On a une plus grande offre du passage, pour une demande qui n’est pas nécessairement plus importante qu’avant. La conséquence de cela, c’est que les prix ont baissé. Lorsqu’il fallait payer auparavant 5 000 dinars, 1 000 ou 1 500 dinars suffisent désormais pour partir.

      Avez-vous le sentiment que le nombre de naufrages a augmenté ?

      Les organisations de la société civile disent que cela augmente. Mais depuis le début de mon travail en Tunisie, donc en 2017, j’ai toujours entendu parler des naufrages et des morts qui en découlent. L’ennui, c’est qu’on a beaucoup de mal à décompter ces naufrages, on ne sait pas exactement qui meurt, puisqu’on compte beaucoup de disparus en mer.

      En Tunisie, on sent que cette question des disparitions prend de plus en plus d’importance, d’abord chez les familles de Tunisiens disparus qui se mobilisent, mais aussi chez les familles et proches de Subsahariens, parce qu’elles sont installées en Tunisie. C’est plus compliqué en revanche pour les autres, lorsqu’ils sont en transit et n’ont pas forcément de proches en Tunisie. C’est le travail des organisations telles que la Croix-Rouge internationale que de les aider à retrouver un proche disparu.

      Ceux qui survivent à ces naufrages restent confrontés à de forts traumas et ne sont pas du tout pris en charge ensuite. Cela fait partie de toute cette architecture frontalière, qui consiste à marquer les gens dans leur mémoire, leur corps, leur histoire.

      Qu’est-ce qui pousse les gens à tenter la traversée au risque de perdre la vie en mer ?

      Je crois qu’il faut déconstruire les logiques qui amènent les gens à partir, notamment parce que j’ai connu des personnes qui avaient construit une vie en Tunisie (comme les Camerounais) et qui sont parties malgré tout pour l’Europe. Les traversées sont aussi le produit de la fermeture des frontières qui s’opère en Afrique et, sans nier l’influence des États européens dans ce domaine, il ne faut pas non plus sous-estimer la capacité des États maghrébins et africains à développer leurs propres agendas stratégiques vis-à-vis de la migration.

      En Tunisie, les personnes subsahariennes sont structurellement irrégularisées par l’État tunisien et leur départ prend avant tout naissance dans ce contexte de vulnérabilité juridique : c’est parce qu’on empêche les circulations entre pays africains que ces personnes sont amenées à partir. Soit elles dépensent l’argent économisé dans le paiement de pénalités pour rentrer dans leur pays, soit elles paient une traversée vers l’Europe, le tout sous l’effet conjugué de la baisse du dinar, du renforcement de l’appareil policier tunisien et d’un climat de peur.

      Il faut donc poser la question fondamentale du droit au séjour pour les personnes subsahariennes en Tunisie. On ne parle pas de la nationalité, mais de l’obtention d’un titre de séjour qui leur ouvre des droits. Il faut dépasser la question des traversées pour penser l’immigration africaine en Tunisie.

      La Tunisie nie-t-elle l’existence de cette immigration ?

      Jusqu’ici, il n’y avait jamais eu de débat politique ou de véritable positionnement des acteurs politiques vis-à-vis de l’immigration africaine en Tunisie. Depuis quelque temps, le Parti politique nationaliste tunisien a lancé des campagnes xénophobes et racistes de lutte contre la présence africaine en Tunisie, reprenant les mêmes discours que les partis xénophobes en Europe, autour de la théorie du « grand remplacement ». Pour la première fois, un parti fonde sa rhétorique sur la présence africaine en Tunisie. Ce n’est pas anodin, parce que le pays avait toujours nié cette présence.

      Paradoxalement, cela montre que l’immigration africaine devient un sujet politique. On ne la regarde plus seulement comme une sorte d’extériorité, on la pense au regard de la société tunisienne, de manière très violente certes, mais cela fait naître de nouveaux débats. On voit d’ailleurs des acteurs de la société civile qui, en réaction à cette campagne, appellent à la régularisation. Finalement, on a une politisation latente et progressive de la question des mobilités africaines. On est bien face à une immigration.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/190223/en-tunisie-il-faut-depasser-la-question-des-traversees-pour-penser-l-immig

  • Les combats pour l’émancipation des femmes et le mouvement ouvrier | #conferenceLO #archiveLO (13 février 2016)

    https://www.lutte-ouvriere.org/publications/brochures/les-combats-pour-lemancipation-des-femmes-et-le-mouvement-ouvrier-65

    Sommaire :

    – L’oppression des femmes  une conséquence de l’apparition de la #propriété_privée
    – La participation des femmes du peuple à la #Révolution_française
    – Le #Code_civil_de_Napoléon  : un arsenal contre les femmes
    – La réaction n’étouffe pas la voix de celles et ceux qui veulent l’égalité
    – Pendant la #révolution_de_1830, des prolétaires hommes et femmes se battent pour le droit au travail
    – Pour les héritières du #saint-simonisme, la lutte des femmes est jumelle de celle des prolétaires
    – Le #Manifeste_du_Parti_communiste de #Marx et #Engels contre la propriété des femmes
    – Pendant la #révolution_de_1848, les femmes luttent pour le droit au travail et élisent leurs délégués à la Commission du Luxembourg
    – Le mouvement ouvrier face à la revendication du droit au travail pour les femmes
    – La #Commune_de_Paris, premier État dirigé par des ouvriers et des ouvrières
    – L’Union des femmes crée un embryon d’organisation ouvrière de la production
    – Le mouvement socialiste marxiste : un contre-pouvoir qui se construit en intégrant des militantes dans ses rangs
    – La jeunesse d’une ouvrière devenue dirigeante socialiste  : #Adelheid_Popp
    – Les #préjugés sexistes ou corporatistes divisent les forces de la classe ouvrière
    – L’exemple d’une grève à Nancy...
    – ... Un contre-exemple, à Méru, quand la classe ouvrière surmonte les divisions
    – Les organisations féministes bourgeoises... pour les droits des femmes, mais dans le cadre limité de la société capitaliste
    – En #Grande-Bretagne, les #suffragettes utilisent la violence pour briser l’étau qui réprime leurs revendications
    – La #Révolution_russe débute lors de la #Journée_internationale_des_femmes le 8 mars 1917
    – Le pouvoir bolchevique réalise ce pour quoi se battent les #féministes en Europe et aux États-Unis
    – L’échec de la #révolution_mondiale et la stalinisation de l’Internationale  : les idées de la bourgeoisie pénètrent les partis ouvriers | #stalinisme
    – Le #PCF et sa volonté d’intégrer la société bourgeoise
    – La renaissance du #mouvement_féministe dans les années 1960-1970  : en dehors des organisations réformistes du mouvement ouvrier
    – La situation des #femmes à l’heure où les forces réactionnaires sont à l’offensive
    – Dans les pays riches aussi, la #condition_des_femmes paie son tribut à la réaction
    – Pour la fin de l’#oppression_des_femmes, comme pour la libération de l’ensemble de la société, il est vital que renaisse le #mouvement_ouvrier

    #capitalisme #marxisme #sexisme

  • « Les Français ont au moins trois bonnes raisons d’afficher leur hostilité à la perspective de travailler jusqu’à 64 ans »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/02/10/les-francais-ont-au-moins-trois-bonnes-raisons-d-afficher-leur-hostilite-a-l

    Une décision de la Cour de cassation pourrait contraindre les entreprises à promouvoir un travail supportable tout au long de la carrière professionnelle de leurs salariés, révèle l’expert de la santé au travail François Desriaux, dans une tribune au « Monde ».

    Malgré les efforts de l’exécutif pour tenter de montrer que la réforme des retraites est juste et indispensable, les Français refusent de travailler deux ans de plus. Et, du point de vue du travail, ils ont au moins trois bonnes raisons d’afficher leur hostilité à cette perspective.

    Tout d’abord, la pénibilité des conditions de travail est loin d’être compatible avec l’avancée en âge. Les travaux de recherche en ergonomie (Le Travail pressé, de Corine Gaudart et Serge Volkoff, Les Petits Matins, 2022) ont montré que les contraintes de temps, le travail dans l’urgence et l’absence de marge de manœuvre posent des problèmes particuliers aux travailleurs vieillissant. Or, c’est précisément l’intensification du travail qui caractérise le mieux l’évolution des conditions de travail ces trente dernières années.

    Selon les enquêtes de la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques (Dares) du ministère du travail, entre 1984 et 2019, la proportion de salariés dont le rythme de travail est imposé par « des normes ou des délais en une heure au plus » est passée de 5 % à 23 % ; celle des travailleurs dont le rythme dépend d’une « demande extérieure exigeant une réponse immédiate » est passée de 28 % à 55 %.

    Une des premières inquiétudes des salariés face au recul de l’âge légal de la retraite semble de se demander s’ils vont pouvoir tenir le rythme imposé par l’organisation du travail. D’ailleurs, plus ils avancent en âge, et plus la réponse à cette question est négative, notamment pour les ouvriers et employés. Selon les tout premiers résultats d’une étude menée par l’observatoire Evrest, après 60 ans, la moitié des ouvriers et des employés doutent que leur état de santé leur permette, à horizon de deux ans, de poursuivre leur travail actuel. Et l’on sait par d’autres travaux scientifiques que ces doutes sont souvent fondés et laissent présager la survenue d’#incapacités. Avec des risques sérieux de perte d’emploi et d’une longue période de chômage.

    « Situation qui stagne »

    La deuxième raison de refuser de travailler jusqu’à 64 ans est à rechercher dans les comparaisons européennes. L’âge de départ plus élevé dans nombre de pays de l’Union justifierait, pour l’exécutif, que la France recule le sien. Sauf que la première ministre, Elisabeth Borne, et son ministre du travail, Olivier Dussopt, se gardent bien de reconnaître que, parmi les pays européens, la France se situe en queue de peloton dans le domaine de la qualité des conditions de travail.

    C’est en tout cas ce que montre l’enquête menée sur le sujet par la Fondation européenne pour l’amélioration des conditions de vie et de travail auprès de 72 000 travailleurs des 27 Etats membres et de 9 pays voisins (Royaume-Uni, Norvège, Suisse…). La France se classe 28e, selon l’index de qualité du travail ; 5 % des salariés de l’Hexagone considèrent leurs conditions de travail comme extrêmement contraintes, 11 % les caractérisent comme fortement tendues et 22 % comme plutôt tendues.

    Enfin, le gouvernement a beau mettre l’accent sur les mesures d’accompagnement de sa réforme, notamment sur la prévention de l’usure professionnelle, nos concitoyens ont raison de se montrer sceptiques. Surtout s’ils ont lu le rapport de la Cour des comptes sur les politiques de prévention en santé au travail dans les entreprises (décembre 2022), qui critique le manque d’ambition de la politique publique en matière de santé au travail et de prévention des risques professionnels, et l’absence de contraintes qui pèsent sur les entreprises.

    Malgré les quatre plans santé au travail, « les données de sinistralité en matière d’accidents du travail et de maladies professionnelles montrent une situation qui stagne depuis le début des années 2010 », écrivent les magistrats de la rue Cambon. « Il apparaît en effet que les actions de prévention ne font pas partie du quotidien de tous les salariés – de nombreuses entreprises reconnaissant ne pas être impliquées en matière de prévention. »

    Lueur d’espoir

    Or, rien n’indique dans le projet de loi du gouvernement qu’il a pris conscience de cette situation et qu’il va mettre les entreprises au pied du mur pour que cela change.
    La seule lueur d’espoir pour les salariés pourrait venir de l’arrêt rendu le 20 janvier par l’assemblée plénière de la Cour de cassation à propos de l’indemnisation des accidents du travail et des maladies professionnelles. Dans un revirement de jurisprudence dont elle a le secret, en cas de faute inexcusable de l’employeur, « la Cour de cassation permet désormais aux victimes ou à leurs ayants droit d’obtenir une réparation complémentaire pour les souffrances morales et physiques », peut-on lire dans son communiqué.

    Cette évolution passée relativement inaperçue pourrait inciter les victimes d’accidents du travail et de maladies professionnelles à engager de façon beaucoup plus fréquente qu’aujourd’hui des procédures en faute inexcusable de l’employeur devant les tribunaux, car les montants d’indemnisation perçus seraient beaucoup plus intéressants qu’ils ne l’étaient jusque-là. Cela devrait, à terme, obliger les entreprises à être beaucoup plus scrupuleuses à l’égard de l’obligation de sécurité et du respect des neuf principes généraux de prévention imposés par les articles L.4121-1 à L.4122-2 du code du travail. Dès lors, de gré ou de force, les entreprises pourraient bien à l’avenir être conduites à promouvoir un travail supportable tout au long de la carrière professionnelle de leurs salariés, ce qui fait tant défaut aujourd’hui et qui nuit tant à l’emploi des seniors.

    #travail #faute_inexcusable #droit_du_travail #intensification_du_travail #conditions_de_travail #santé #accidents_du_travail #maladies_professionnelles #retraites

  • Loi sur l’immigration : diviser dans l’intérêt du patronat

    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/02/08/loi-sur-limmigration-diviser-dans-linteret-du-patronat_49414

    Le projet de #loi_Immigration a été présenté en Conseil des ministres le 1er février. Depuis les années 1980, c’est le 29e texte législatif consacré au droit d’asile et à l’#immigration, le second de l’ère Macron.

    L’ objectif est toujours le même : faire diversion en cette période de crise et diviser les travailleurs, le tout sans léser le patronat à la recherche d’une main-d’œuvre sous-payée.

    Chaque loi a introduit un tour de vis supplémentaire contre les candidats à l’asile. Le dernier projet « rogne un petit peu plus le droit de l’asile, le droit à une vie familiale normale, les droits de l’enfant et le droit à un procès équitable », selon le président d’#Amnesty_International_France. La loi supprime la ­possibilité de déposer un recours lors du rejet de la demande d’asile ; et l’ordre de quitter le territoire, qui fera l’objet d’une inscription sur un fichier, sera délivré plus rapidement.

    Le caractère expéditif des décisions risque d’être renforcé par le recours à un juge unique, alors que jusqu’à présent la Cour nationale du #droit_d’asile statuait de façon collégiale. « Là, ça va confiner à l’abattage. On veut juger plus vite, pour débouter plus vite, pour expulser plus vite », a commenté la présidente de l’association des avocats du droit d’asile Elena.

    Cette fermeté revendiquée se double d’une volonté de garantir aux secteurs prétendus sous tension, comme l’hôtellerie ou le bâtiment, une main-d’œuvre d’origine étrangère, en délivrant des cartes de séjour au compte-gouttes et renouvelables tous les ans. Aucun démagogue anti-immigrés ne songe à priver le patronat de sa chair à exploiter à bas coût. Ainsi, en plus de s’inscrire dans l’objectif de diviser les travailleurs français et immigrés, cette nouvelle loi introduit une division entre immigrés, dont les patrons seront les seuls gagnants, car le chantage aux papiers, qui existe déjà de fait mais qui entrera dans la loi, permettra de faire pression sur les #salaires et les #conditions_de_travail.

    Contre toutes les divisions, entre travailleurs français et #immigrés, entre #travailleurs_immigrés, la ­liberté de circulation et d’installation doit être rappelée comme un #droit_humain élémentaire, mais aussi comme un moyen de défense de la classe ouvrière qui, par-­delà les différences de nationalités, doit être unie face au patronat et au gouvernement à son service.

    #exploitation #capitalisme #main_d’oeuvre

  • Ce mardi 31 janvier, tous en grève et en manifestation ! | #éditorial des bulletins d’entreprise #LO (23 janvier 2023)

    Après les grèves et les #manifestations massives du 19 janvier, celles du 31 doivent encore faire monter la pression sur le gouvernement et le grand patronat. Cela dépend de chacun d’entre nous .

    Quels que soient les métiers, les statuts et les secteurs professionnels, le ras-le-bol est général. Le 19 janvier, il s’est exprimé à l’échelle du pays, dans le privé comme dans le public, dans les petites entreprises comme dans les grandes.

    Le #recul_de_l’âge_de_la_retraite n’est qu’un aspect de ce ras-le-bol. Les salaires restent au centre de toutes les préoccupations. Malgré la flambée des prix, plus de 12 % pour les produits alimentaires, les augmentations salariales dépassent rarement les 4 %. Comment ne pas être écœuré quand on voit, dans le même temps, les profits crever les plafonds ? #inflation #salaires

    Et puis, il y a, bien sûr, les #conditions_de_travail. Partout, dans les usines, les bureaux, les hôpitaux… elles deviennent plus dures, avec du sous-effectif permanent, une #flexibilité et une #précarité de plus en plus grandes. Et aujourd’hui, #Macron s’attaque à nos retraites. Eh bien, la coupe est pleine !

    Mais puisque cette attaque des retraites nous concerne tous, elle nous permet d’exprimer notre ras-le-bol d’une même voix. Alors, exprimons-le en dehors de l’atelier, du service et de l’entreprise ! Transformons-le en une contestation commune ! #réforme_des_retraites

    Le bras de fer sur les retraites pose les problèmes fondamentaux du monde du travail. À qui doivent profiter les richesses que nous contribuons tous à créer ? À ceux qui nous exploitent au prétexte qu’ils ont apporté les capitaux ? À une poignée de milliardaires prêts, avec le gouvernement, à pourrir la vie de millions de travailleurs en leur volant une partie de leur retraite pour accumuler quelques milliards de plus ? Il ne faut pas l’accepter ! #grande_bourgeoisie #capitalisme #parasitisme

    Où allons-nous si nous continuons de nous plier aux diktats des politiciens et de la #bourgeoisie qui dirigent aujourd’hui ? Que ce soit sur le plan économique ou politique, toute la société évolue dans un sens catastrophique.

    La #recherche_du_profit, la #concurrence et la #spéculation agissent comme des rouleaux compresseurs, provoquant le saccage des services publics et toujours plus de crises .

    Plus grave encore, il y a les bruits de bottes qui se rapprochent avec l’escalade guerrière en cours en #Ukraine.

    Il suffit de voir comment Macron veut passer en force sur les retraites pour comprendre qu’il ne nous demandera pas notre avis pour entrer en guerre. Et pour acheter des missiles, des chars d’assaut et des avions de combat, il ne manquera pas d’argent. Le gouvernement a déjà porté le budget militaire à 413 milliards, soit 100 milliards de plus sur sept ans ! S’il y a la guerre, le gouvernement ne nous volera pas seulement deux ans de retraite, il volera les 20 ans de la jeunesse qu’il enverra au combat.

    Plus d’#injustice, plus d’#inégalités, plus de guerres, voilà ce que les capitalistes et leurs serviteurs politiques nous réservent, à nous et à nos enfants !

    La voie à suivre est là, devant nous. C’est de reprendre le chemin de la #lutte_collective et de la #solidarité_ouvrière. C’est de nous battre pour que la société ne soit plus gouvernée par les intérêts des capitalistes, l’#exploitation, la guerre économique et la suprématie de quelques-uns sur le monde entier.

    Il n’est jamais facile de se lancer dans le combat, surtout dans un combat dont on sait qu’il sera long. Car il ne suffira pas d’un ou deux jours de manifestations : le seul moyen de faire reculer le gouvernement est de le confronter à des grèves qui se multiplient et deviennent contagieuses.

    Le 19 janvier, des centaines de milliers de travailleurs ont découvert ou redécouvert la force du nombre et l’unité du monde du travail. Plus nous serons nombreux mardi, plus nous reprendrons confiance en nos forces collectives, et plus notre camp gagnera en combativité et en détermination.

    Au soir du 31, les #confédérations_syndicales annonceront un calendrier de mobilisations, suivant leur propre logique. Et des syndicats, dans plusieurs secteurs, appellent déjà à des grèves reconductibles. C’est dans ce sens-là qu’il faudra aller pour espérer renverser le #rapport_de_forces.

    Mais quels que soient les appels syndicaux, c’est à chacun d’entre nous de faire vivre la mobilisation, d’apprendre à l’organiser et à la contrôler. Une chose est sûre, pour l’emporter, il faut réussir à mettre toutes nos forces dans ce combat. Ensemble, montrons-leur que nous pouvons, nous aussi, mener la #lutte_de_classe, mettre cette réforme en échec et nous faire respecter !

  • Ouvriers sans-papiers, sécurité déplorable, l’organisation des Jeux Olympiques de Paris pointée du doigt Par Jérôme Jordens - RTBF
    https://www.rtbf.be/article/ouvriers-sans-papiers-securite-deplorable-lorganisation-des-jeux-olympiques-de-

    Les voix s’étaient élevées, à juste titre, pour dénoncer les conditions de travail sur les chantiers qataris pour construire les stades de la Coupe du monde 2022. Problèmes de sécurité, ouvriers sans papiers, les problèmes dénoncés ne sont cependant pas seulement visibles au Qatar.


    Le quotidien français Libération révélait ce mardi que les chantiers des Jeux Olympiques de Paris, qui se dérouleront en 2024, ne sont pas exempts de ces reproches. Le quotidien français a rencontré dix sans-papiers maliens qui ont travaillé sur différents chantiers pour différentes sociétés sous-traitantes, dont des grands noms de la construction comme de Vinci GCC Construction ou Spie Batignoles.

    « Les Français ne veulent pas faire ce travail. Sur le chantier, il n’y a presque que des étrangers. Des Pakistanais pour l’électricité, des Arabes pour la plomberie, des Afghans pour la maçonnerie… Les blancs, ce sont ceux qui sont dans les bureaux », explique à Libération Moussa (prénom d’emprunt), porte-parole d’un groupe d’une dizaine de sans papiers maliens qui travaillent sur les chantiers des JO 2024. Pour être embauchés, la plupart utilise les papiers d’amis ou d’un membre de la famille en règle.

    Une problématique dont sont conscients les organisateurs qui précisent cependant avoir pris des mesures pour tenter de mettre fin à ce travail illégal. « On retrouve sur les chantiers des JO des pratiques qu’on retrouve par ailleurs dans le secteur du bâtiment, mais on a un dispositif de surveillance un peu plus développé, avec un comité présent sur les chantiers, doté d’une permanence. Ça nous permet de repérer des cas », indique Bernard Thibault, membre du comité d’organisation au quo. Il admet cependant que certaines pratiques permettent à « des entreprises de passer entre les mailles du filet ».

    Le problème, c’est que le nombre d’entreprises présentent sur les chantiers est énorme et que les sous-traitants sont nombreux. Il peut dès lors être compliqué de refaire tout le trajet des paiements. « Celle qui paye n’est pas forcément celle qui est sur le chantier. A tel point qu’il est impossible de s’assurer de quelle est la boîte qui les embauche » , explique Jean-Albert Guidou, secrétaire général de l’union locale de CGT de Bobigny

    Le bâtiment, c’est une façon pour ces sans-papiers de gagner un peu d’argent pour pouvoir vivre. « Pour vivre ici quand tu n’as pas de papiers, ce n’est pas du tout facile alors on préfère travailler dans le bâtiment plutôt que de faire des choses pas bien », explique Moussa.

    Le village olympique, à l’Ile-Saint-Denis, la piscine Marville, ils étaient présents sur ces chantiers et ont travaillé pour un peu plus de 80 euros non déclarés par jour, dans des conditions déplorables : « On n’a aucun droit. On n’a pas de tenue de chantier, pas de chaussures de sécurité fournies, on ne nous paye pas le pass Navigo, o n’a pas de visite médicale et même pas de contrat » , regrette Moussa.

    Abdou, un autre travailleur sans papier, met, lui, le problème sur les éventuelles indisponibilités ou accidents : « Si tu tombes malade ou que tu te blesses, le patron te remplace le lendemain » . Une situation intenable qui pose question sur l’entièreté du système. Un débat s’est d’ailleurs ouvert ce mardi à l’Assemblée nationale et porte sur un nouveau projet de loi immigration qui pourrait, peut-être, permettre à Moussa et ses collègues de régulariser leur situation.

    L’article de libération, payant : https://www.liberation.fr/societe/sans-papiers-sur-les-chantiers-les-jeux-olympiques-ne-pourraient-pas-se-f

    #jo #jeux_olympiques #Paris #vinci #infrastructures #btp #conditions_de_travail #spie-batignolles #sous-traitance #sans-papiers Merci à madame #anne_hidalgo du #ps #ville_de_paris

  • Révélations Humanité. À la Poste, du travail au noir à grande échelle | L’Humanité
    https://www.humanite.fr/social-eco/plateformes-numeriques/revelations-humanite-la-poste-du-travail-au-noir-grande-echelle-778154

    Nordene avait bien compris que ce n’était pas normal. Mais il se sentait « pris dans un système ». Ce quadragénaire a commencé à travailler avec l’application Stuart en 2016 pour livrer courses et colis avec sa voiture personnelle. Et là, consternation : « Je n’avais ni contrat, ni fiche de paie, ni factures. Rien ! », assure-t-il. Alors que le délibéré du procès de cette start-up pour travail dissimulé et prêt de main-d’œuvre illicite doit être rendu ce jeudi, plusieurs témoignages affirment que, au-delà des livreurs à vélo ou à pied, des milliers de coursiers motorisés auraient travaillé au noir durant plusieurs années.

    Comme des centaines d’autres chauffeurs, Nordene s’est fait « déconnecter » fin 2022, lorsque s’est tenu le procès de cette filiale de La Poste, en septembre, pour avoir utilisé des livreurs autoentrepreneurs et chauffeurs sous-traitants qui pouvaient relever du régime du salariat. Des peines de prison avec sursis et interdiction de gérer une entreprise ont été requises contre les cofondateurs de Stuart, Benjamin Chemla et Clément Benoît. Mais les faits, potentiellement très graves, que nous évoquons pourraient s’ajouter à la liste des griefs contre cette start-up, rachetée 23 millions d’euros en 2017 par Geopost, filiale à 100 % de La Poste.

    C’est ça le #désordre, non ? #loi_de_la_jungle

  • Noma, Rated the World’s Best Restaurant, Is Closing Its Doors - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/01/09/dining/noma-closing-rene-redzepi.html

    The decision comes as Noma and many other elite restaurants are facing scrutiny of their treatment of the workers, many of them paid poorly or not at all, who produce and serve these exquisite dishes. The style of fine dining that Noma helped create and promote around the globe — wildly innovative, labor-intensive and vastly expensive — may be undergoing a sustainability crisis.
    ImageTwo chefs cooking in an open-air kitchen, decorated with leaves.
    A signature of Noma and its cuisine is its luxurious, modern-rustic aesthetic.Credit...Ditte Isager for The New York Times
    Two chefs cooking in an open-air kitchen, decorated with leaves.

    Mr. Redzepi, who has long acknowledged that grueling hours are required to produce the restaurant’s cuisine, said that the math of compensating nearly 100 employees fairly, while maintaining high standards, at prices that the market will bear, is not workable.

    “We have to completely rethink the industry,” he said. “This is simply too hard, and we have to work in a different way.”
    Critic’s Notebook
    Noma Spawned a World of Imitators, but the Restaurant Remains an Original
    As the renowned Copenhagen destination prepares to end its regular service, Pete Wells examines its complicated legacy.
    Jan. 9, 2023

    The chef David Kinch, who last week closed his three-Michelin-starred restaurant Manresa, in Los Gatos, Calif., said, “the last 30 years were a gilded age,” when ambitious restaurants multiplied and became less formal and more exciting. His casual restaurants will remain open, but he said fine dining was no longer something he wanted to do himself, or to inflict on his staff, calling the work “backbreaking.”

    “Fine dining is at a crossroads, and there have to be huge changes,” he said. “The whole industry realizes that, but they do not know how it’s going to come out.”

    The Finnish chef Kim Mikkola, who worked at Noma for four years, said that fine dining, like diamonds, ballet and other elite pursuits, often has abuse built into it.

    “Everything luxetarian is built on somebody’s back; somebody has to pay,” he said.

    A newly empowered generation of workers has begun pushing back against that model, often using social media to call out employers. The Willows Inn, in Washington State, run by the Noma-trained chef Blaine Wetzel, closed in November, after a 2021 Times report on systemic abuse and harassment; top destinations like Blue Hill at Stone Barns and Eleven Madison Park have faced media investigations into working conditions. Recent films and TV series like “The Menu,” “Boiling Point” and “The Bear” have brought the image of armies of harried young chefs, silently wielding tweezers in service to a chef-auteur, into popular culture.

    In a 2015 essay, Mr. Redzepi admitted to bullying his staff verbally and physically, and has often acknowledged that his efforts to be a calmer, kinder leader have not been fully successful.

    “In an ideal restaurant, employees could work four days a week, feel empowered and safe and creative,” Mr. Redzepi said. “The problem is how to pay them enough to afford children, a car and a house in the suburbs.”

    Noma’s internship program has also served as a way for Noma to shore up its labor force, supplying 20 to 30 full-time workers (“stagiaires” is the traditional French term) who do much of the painstaking labor — hand-peeling walnuts and separating lavender leaves from stems — that defines Noma’s food and aesthetic.

    Until last October, the program provided only a work visa. However, being able to say, “I staged at Noma” is a priceless culinary credential. For that reason alone, most of the alumni interviewed said that an internship at Noma is worth the expense, the exhaustion and the stress.

    #Restauration #Conditions_travail #Travail #Luxe #Exploitation

  • An FTC Proposal Could Kill Noncompete Clauses
    https://gizmodo.com/noncompete-tech-jobs-linkedin-ftc-salary-promotion-1849954126

    Viva Lina Khan !!!

    “Noncompetes block workers from freely switching jobs, depriving them of higher wages and better working conditions, and depriving businesses of a talent pool that they need to build and expand,” said FTC Chair Lina M. Khan in a press release. “By ending this practice, the FTC’s proposed rule would promote greater dynamism, innovation, and healthy competition.”

    Elizabeth Wilkins, the Director of the Office of Policy Planning says that research shows that noncompetes restrict workers’ mobility and suppress workers’ wages, even those not subject to noncompetes or noncompetes that are unenforceable under state law. She added, “the proposed rule would ensure that employers can’t exploit their outsized bargaining power to limit workers’ opportunities and stifle competition.”

    Noncompete clauses are used to prevent workers from working for a competitor or starting a competing business either within a geographical area or for a certain period of time after the employee exits the company. The FTC estimates that 1 in 5 Americans, or 30 million workers, are bound by noncompete clauses. The commission argues that this restriction lowers wages, as workers are forced to remain at their current position and unable to negotiate a higher salary with a competitor, while preventing new businesses from forming.

    #FTC #Line_Khan #Conditions_travail #USA

  • INFOGRAPHIES. Métro à Paris : visualisez comment l’offre s’est dégradée depuis la crise sanitaire
    https://www.francetvinfo.fr/economie/transports/infographies-metro-a-paris-visualisez-comment-l-offre-s-est-degradee-de
    https://www.francetvinfo.fr/pictures/1va61AmLV3rZCoE-ZLr1ONVItyA/1500x843/2022/12/27/63aaa6c6a979a_bazar-transports-07.png

    Métro à Paris : visualisez comment l’offre s’est dégradée depuis la crise sanitaire

    La qualité des services dans le métro parisien s’est fortement détériorée depuis deux ans, et plus particulièrement depuis la rentrée de septembre.

    Sur les quais bondés du métro parisien, l’exaspération des usagers est quotidienne. Les rames saturées de passagers défilent, notamment sur les lignes 8, 12 ou 13. Et la réduction de la fréquence des métros est largement dénoncée ces dernières semaines par des voyageurs d’autant plus agacés qu’ils subissent, depuis dimanche 1er janvier, l’augmentation de 12% du prix de l’abonnement mensuel du passe Navigo, qui permet de circuler dans tous les transports en commun d’Ile-de-France.

    De fait, le service dans le métro parisien est fortement dégradé depuis la rentrée de septembre : 17,2% de l’offre n’a, par exemple, pas été réalisée en octobre, selon les calculs de franceinfo effectués à partir des données de ponctualité publiées par Ile-de-France Mobilités (IDFM), l’autorité publique chargée de gérer l’organisation des transports dans la région et dirigée par Valérie Pécresse. Ce chiffre prend en compte l’effet cumulé de l’offre allégée par IDFM par rapport à l’offre pleine d’avant-Covid (fin 2019) et non réalisée par la RATP.

    Le mécontentement des usagers est-il légitime au regard des chiffres relatifs à la fréquence des métros parisiens ? Dans quelle mesure traduisent-ils une dégradation de l’offre ? Et quelles sont les raisons de ces difficultés ? Franceinfo détaille, à l’aide de deux graphiques, pourquoi le métro parisien n’est plus sur de bons rails.
    Des perturbations en pagaille

    Premier constat : depuis la rentrée de septembre 2022, les messages d’incidents de la RATP se sont multipliés. Le compte Twitter @METROQualite, créé par un ingénieur habitué de la ligne 8, les a recensés. Il a mis en place un programme qui dénombre les incidents et les perturbations quotidiennes sur les lignes de métro à partir des données disponibles sur le site Info Trafic de la RATP.

    Entre le 30 novembre et le 27 décembre, il y en a eu plusieurs centaines : des difficultés d’exploitation (210 incidents), qui concernent les problèmes d’aiguillage ou encore le déclenchement d’un signal d’alarme à bord d’une rame, les bagages oubliés (73), les personnes sur les voies (62) et les malaises de voyageurs (62).
    [Temps de perturbation moyen relevé par ligne de métro à Paris]

    Parmi les lignes de métro les plus touchées figurent la 12, la 8, la 7 ou encore la 9. La ligne 12 a compté en moyenne 5 heures et 56 minutes de perturbations sur ses 19 heures de fonctionnement quotidien. Quant à la ligne 8, dont les images de quais bondés ont inondé les réseaux sociaux ces dernières semaines, on compte en moyenne 5h40 de perturbations quotidiennes.

    De son côté, la RATP se dit « pleinement consciente des difficultés rencontrées par les voyageurs franciliens. Face à cette situation inédite, nous sommes pleinement mobilisés et nous déployons des moyens importants afin d’assurer une offre de service conforme à nos objectifs et à notre qualité de service ».
    De moins en moins de rames sur plusieurs lignes

    Par ailleurs, entre 2019 et 2022, le nombre de passages des métros a largement diminué. La fréquence est, en moyenne, 1,4 fois plus faible qu’en 2019, avant la crise sanitaire liée au Covid-19, sur l’ensemble du réseau. Mais ce chiffre varie fortement selon les lignes. À titre d’exemple, en trois ans, la fréquence des rames de la ligne 12 a été divisée de moitié. Elle est passée de 2’09’’ à 4’20’’, selon les calculs de franceinfo effectués à partir des bulletins de ponctualité publiés par IDFM chaque mois (le dernier date du mois d’octobre).

    Pour la ligne 11, le manque de métros se fait moins ressentir mais l’écart est tout de même important (de 1’41’’ en 2019 à 3’07’’ actuellement). Même constat sur la ligne 3 où un métro passe, en moyenne, toutes les 2’41’’, contre 1’38’’ en 2019. Sur l’ensemble des autres lignes, la qualité du service s’est également dégradée entre la période qui a précédé la crise sanitaire et aujourd’hui.
    [Temps de perturbation moyen relevé par ligne de métro à Paris]

    Alors comment expliquer des temps d’attente aussi élevés ? « Il y a un effet domino », explique Marc Pélissier, président de l’association des usagers des transports (AUT-Fnaut) en Ile-de-France. Dans un premier temps, IDFM avait abaissé sa demande de trafic auprès de la RATP pour l’adapter à la faible fréquentation des métros durant l’épidémie de Covid-19. Concrètement, elle a demandé à la régie d’Ile-de-France de mettre sur les rails moins de métros qu’en 2019, excepté pour les lignes 4, 7, 8, 9, 13 et 14 (cette dernière étant automatisée).
    La fréquentation à un niveau quasi similaire à l’avant-Covid

    Sauf qu’entre-temps, la fréquentation est revenue à un niveau quasiment similaire à celui de l’avant-crise sanitaire. Depuis octobre 2022, la fréquentation des transports en commun franciliens est même remontée à 90% de celle de 2019 en moyenne, chiffre la RATP auprès franceinfo.

    Si la réduction du nombre de rames a permis à la région de réaliser des économies nécessaires, elle a aussi provoqué la surcharge du trafic et donc des rames. « La remise de l’offre à 100% n’a été décidée que le 7 décembre sur demande de Valérie Pécresse lors du dernier conseil d’administration d’IDFM », dénonce le président de l’AUT. « La remise en place de l’offre pleine a été décidée trop tardivement », juge également David Belliard, adjoint EELV à la maire de Paris et vice-président d’IDFM.

    À cela s’ajoute un facteur essentiel : la pénurie de conducteurs, officiellement constatée par IDFM début novembre. « Cette situation, exceptionnelle, due aux difficultés de recrutement et à un fort taux d’absentéisme, n’est pas propre à l’entreprise et concerne à différentes échelles l’ensemble des opérateurs de transport en Ile-de-France et en province », se défend la RATP.

    #RATP #urbanisme_région_parisienne #transports #services_publics #salaires #conditions_de_travail #pénurie_main_d’œuvre

  • Les attaques pleuvent, préparons la riposte de l’ensemble des travailleurs ! (#éditorial des bulletins d’entreprise #LO du 26 décembre 2022)
    https://www.lutte-ouvriere.org/editoriaux/les-attaques-pleuvent-preparons-la-riposte-de-lensemble-des-travaill

    La #grève des contrôleurs de la SNCF a sans doute gêné de nombreux voyageurs pendant le week-end de Noël et a donné lieu à un déchaînement anti grévistes du gouvernement et des journalistes. On ne les entend pas autant le reste de l’année, quand les retards et les suppressions de train dus aux économies réalisées par la direction de la #SNCF entraînent la galère quotidienne pour des millions d’usagers. C’est que la gêne des usagers, durant ce week-end de fêtes comme le reste de l’année, est le cadet des soucis du gouvernement.

    Face à des #travailleurs en grève, salariés des #raffineries de #Total, #éboueurs, travailleurs des transports ou de #GRDF, le refrain de la « prise d’otage » est un réflexe chez ces dirigeants. Par contre, face à l’envolée du prix du caddie, aux factures d’électricité ou de gaz qui doublent ou triplent, il n’est pas question de prise d’otage, pas plus que quand le patronat fait pression sur les #salaires et les #conditions_de_travail ! Ils choisissent leur vocabulaire selon les intérêts de la #classe_capitaliste qu’ils servent.

    Macron a saisi l’occasion pour dire qu’il faudrait interdire le #droit_de_grève à certaines périodes, au nom du droit à la libre circulation. Comme si ce n’étaient pas les mesures prises par ce gouvernement en faveur du capital qui entravent la liberté de millions de travailleurs de circuler, de se chauffer, de se loger et de vivre dignement !

    Les #contrôleurs ont mille fois raison de se battre. Ils dénoncent non seulement l’aggravation de leurs conditions de travail, mais aussi des salaires insuffisants, malgré des primes qui ne compensent pas des salaires qui démarrent sous le Smic, sautent en cas d’absence et ne comptent pas pour la retraite. Même s’ils l’ont exprimé de manière catégorielle, le problème posé par les contrôleurs est celui de tous les travailleurs aujourd’hui : des salaires qui ne suffisent pas pour vivre.

    L’autre aspect qui reste en travers de la gorge du #gouvernement_Borne comme de la direction de la SNCF, c’est que les travailleurs sont passés par-dessus les directions syndicales. Les contrôleurs ont propagé la grève eux-mêmes, non seulement sur les réseaux, au travers d’un collectif national, mais aussi dans les discussions individuelles et collectives. C’est ce qui a conduit à la démonstration de force du premier week-end de décembre, où 80 % des contrôleurs étaient en grève, puis à la mobilisation du week-end de Noël.

    Le ministre des transports, #Clément_Beaune, s’est insurgé contre ce collectif fait « pour contourner les syndicats ». Les commentateurs ont parlé d’irresponsabilité des grévistes, qu’ils imaginent forcément manipulés, car il est impensable pour eux que des travailleurs du rang, syndiqués ou non, puissent discuter de leurs intérêts et agir sans l’aval des #directions_syndicales. C’est pourtant bien toutes les grèves qui devraient être organisées et contrôlées par les travailleurs eux-mêmes.

    Les syndicats se sont empressés de signer un accord avec la direction, qui promet une prime annuelle de 720 euros et la création de 200 emplois supplémentaires. Dans la foulée, ils ont levé le préavis de grève pour le week-end prochain. Quelle que soit la décision des contrôleurs sur la suite du mouvement, c’est bien leur grève qui a permis d’obtenir ce premier résultat.

    Contre les grévistes, Véran a déclaré : « À Noël, on ne fait pas la grève, on fait la trêve ». Mais les attaques de son gouvernement et du grand patronat ne connaissent pas de trêve et leurs cadeaux pour l’année prochaine sont loin de nous faire rêver.

    Ainsi, le gouvernement a choisi le 23 décembre pour annoncer une nouvelle #mesure_anti_chômeurs : à partir du 1er février, la durée d’indemnisation pourra baisser de 40 % si le taux de chômage officiel ne dépasse pas les 6 %. C’est un moyen de plus de faire pression sur tous les travailleurs pour accepter n’importe quel emploi, à n’importe quelles conditions et pour n’importe quel salaire. S’y ajoutent la #réforme_des_retraites et la volonté du gouvernement d’allonger la durée du travail, ce qui condamnerait nombre de travailleurs, jetés dehors bien avant 65 ans, aux petits boulots et à des pensions de misère. Sans oublier, encore et toujours, la valse des étiquettes et le pouvoir d’achat qui dégringole.

    Des grèves éclatent ici et là sur les salaires. Pour faire reculer le patronat et le gouvernement, qui prennent nos #conditions_de_vie en otage, il faudra une riposte de l’ensemble de la classe ouvrière. C’est en discutant entre travailleurs, en décidant nous-mêmes de nos actions et de notre façon de nous organiser et en contrôlant nos représentants que nous pourrons la bâtir.

    #lutte_de_classe #grève_générale #collaboration_de_classe #Lutte_Ouvrière

  • Non à la grande régression ! #éditoLO du 12 décembre 2022
    https://www.lutte-ouvriere.org/editoriaux/non-la-grande-regression-451487.html

    La #guerre_en_Ukraine menace, à tout moment, de dégénérer en conflit plus large. L’envolée des prix, ahurissante pour l’énergie, force certaines entreprises à s’arrêter (#inflation). Le pays risque d’être plongé dans le noir et, pour l’éviter, le gouvernement prépare des coupures d’électricité. Et quelle est la préoccupation de Macron ? Reculer l’âge de départ à la retraite ! (#réforme_des_retraites)

    Dans la pire des situations, même dépassés par les évènements, ceux qui nous gouvernent utiliseront leur dernier souffle pour s’attaquer aux travailleurs . C’est dans leurs gènes politiques. Pour eux, gouverner, c’est servir les intérêts de la #bourgeoisie et donc imposer des sacrifices aux travailleurs. C’est d’autant plus vrai dans les périodes de crise où la guerre entre les capitalistes pour assurer leurs profits s’intensifie. (#lutte_de_classe)

    Alors oui, malgré les menaces qui pèsent sur la société et sur les classes populaires en particulier, #Macron en rajoute. Après avoir réduit les indemnités #chômage, il veut sabrer dans les droits à la retraite.

    Macron s’est encore donné quelques semaines pour préciser son projet de loi. Mais celui-ci sera présenté courant janvier. Il y aura ensuite quelques semaines de cinéma où l’opposition s’agitera à l’#Assemblée_nationale. Et si nécessaire, le coup de sifflet final sera donné par le #49.3. Tout cela pour une entrée en vigueur de la réforme à l’été 2023.

    Seule l’intervention des travailleurs peut empêcher cette attaque au pas de charge. Pour l’instant, l’opposition massive à ce recul n’est mesurée qu’au travers des sondages. Eh bien, il va falloir l’exprimer dans les entreprises et dans la rue au travers de #grèves et de #manifestations !

    Pour bien des travailleurs, la priorité est de réussir à se chauffer et se nourrir correctement malgré l’envolée des prix. Cela alimente, dans toutes les entreprises, un mécontentement sur les salaires. Il faut le faire entendre et le transformer en un coup de colère général contre la #politique_antiouvrière du #gouvernement_Borne et du #grand_patronat.

    La défense de notre #pouvoir_d’achat et de nos #retraites constitue un seul et même front de combat . C’est parce que les capitalistes n’augmentent pas les #salaires de base, et font, ici et là, diversion avec des primes, que les caisses de retraite ne se remplissent pas.

    Si les femmes étaient payées autant que les hommes, cela ferait rentrer des milliards dans les caisses de retraite. Et si les plus de 50 ans étaient salariés, plutôt qu’écartés par les entreprises, il n’y aurait pas de déficit.

    Rien n’oblige le gouvernement à reculer l’âge de la retraite à 65 ans. Le déficit annoncé des #caisses_de_retraite, 12 milliards en moyenne par an dans les prochaines années, serait facile à combler.

    12 milliards, ce sont les profits que #TotalEnergies a réalisés en six mois . Cela correspond à un petit dixième des profits réalisés par les entreprises du CAC 40 en 2022. Et c’est 6,5 % de la fortune de Bernard Arnault, estimée, cette semaine, à 185 milliards de dollars. Alors, la bourgeoisie a largement de quoi payer les retraites !

    Et ce serait la moindre des choses ! La classe capitaliste s’enrichit par l’#exploitation des travailleurs pendant toute leur vie : cela devrait être à elle de payer intégralement leurs retraites , et non à d’autres salariés, par leurs cotisations, comme c’est le cas aujourd’hui au travers du système par répartition.

    Nous pouvons sauver nos retraites, à condition de nous battre contre le gouvernement, dévoué corps et âme à la bourgeoisie, et contre l’ordre social capitaliste.

    Un pays comme la France n’a jamais eu autant de possibilités pour soigner, nourrir, éduquer, transporter la population, et nous voyons nos #conditions_de_vie reculer dans tous ces domaines.

    Oh, pour les plus riches, la vie est douce et prospère. Ils n’ont jamais de problème d’emploi, de salaire ou de retraite : sans rien faire de leurs dix doigts, ils touchent le pactole en jonglant avec leurs capitaux. Cela leur donne le pouvoir d’occuper tous les postes de commandement dans les entreprises comme dans les institutions.

    Où nous mène la domination de cette #grande_bourgeoisie ? À la régression générale pour l’écrasante majorité des travailleurs. Le plus grave est qu’en imposant son système de #concurrence et sa guerre économique permanente, elle nous conduit aussi à la guerre tout court.

    Alors, les travailleurs doivent affirmer leurs revendications et se battre avec la conviction d’avoir tout à gagner à contester cet ordre social.

    Nous ne sommes pas condamnés à la domination de la bourgeoisie et de ses politiciens. Toute la production de richesses dépend de nous, il dépend aussi de nous de changer la société pour mettre un coup d’arrêt à son évolution catastrophique et guerrière .

  • Quelle est cette nouvelle réforme de l’assurance-chômage ?
    https://www.frustrationmagazine.fr/quelle-est-cette-nouvelle-reforme-de-lassurance-chomage

    “C’est une réforme de bon sens” nous dit François Lenglet, l’économiste à lunettes, face à Yves Calvi sur RTL. Les deux bonshommes se marrent en parlant de la réduction d’un quart de la durée d’indemnisation des chômeurs lors d’une “période verte”, où le chômage serait faible et la vie plus facile. Cette réforme est tellement […]

  • En Biélorussie, les sous-traitants d’Ikea profitent du système répressif de la dictature
    https://disclose.ngo/fr/article/bielorussie-sous-traitants-ikea-profitent-du-systeme-repressif-de-la-dicta

    Plusieurs entreprises biélorusses ayant travaillé pour Ikea ces dix dernières années ont recours au travail forcé dans des colonies pénales où sont détenus des prisonniers politiques, et dans lesquelles se pratiquent la torture et les privations. Lire l’article

  • OPINION de #Fabien_Fivaz - #Précarité_académique : Pour plus de postes fixes

    Faute de perspectives dans les hautes écoles suisses, les postdoctorants devraient se tourner vers le privé. C’est le constat dressé récemment par le Conseil suisse de la science (CSS). Si le conseiller national (Vert/Neuchâtel), président de la Commission de la science, de l’éducation et de la culture s’inquiète comme le CSS de l’avenir de ces universitaires, il tire d’autres conclusions sur les mesures à prendre.

    Les postdoctorant·e·s sont essentiel·le·s pour le système de recherche suisse : c’est une main d’œuvre flexible, bon marché et hautement qualifiée. Elle est corvéable à merci. Et n’a pas d’avenir académique : 1% seulement obtiennent un poste de professeur·e dans une haute école en Suisse. C’est le constat dressé récemment par le Conseil suisse de la science (CSS) (https://wissenschaftsrat.ch/images/stories/pdf/fr/SWR_2022_Can_we_do_better_Appropriate_size_and_org_of_ERI_system.pd).

    Rien de bien nouveau. Le personnel du #corps_intermédiaire académique des hautes écoles subit depuis de nombreuses années des conditions de travail précaires. Plusieurs autres enquêtes le démontrent, récemment encore à l’Université de Genève, où plus de 35% des personnes exprimaient un sentiment de précarité et plus de la moitié craignaient d’y glisser. Les raisons sont multiples : les postdoctorant·e·s accumulent les postes à durée déterminée, de courte durée et les pourcentages ne sont pas en phase avec la charge de travail.
    La Suisse mauvaise élève

    Ces conditions ont créé un mouvement de contestation qui a culminé avec le dépôt d’une pétition destinée aux autorités fédérales. Le Conseil national a entendu ces revendications et transmis un postulat au Conseil fédéral, lui demandant de définir une stratégie pour améliorer la situation dans le cadre du prochain message sur la formation, la recherche et l’innovation pour les années 2025-28. Mais quelles sont les solutions ?

    Le CSS écarte un peu rapidement la possibilité de créer plus de postes fixes au sein des hautes écoles. Plusieurs autres pays ont choisi cette voie, avec succès. En vrai, comparée aux autres, la Suisse est très mal placée : plus de 80% du corps intermédiaire académique ne bénéficie pas d’un contrat de travail à durée indéterminée. Cette piste doit donc rester ouverte : le FNS peut soutenir cette démarche en fixant des conditions pour l’octroi de son soutien et la Confédération peut encourager les postes fixes dans le cadre de son soutien de base aux universités cantonales, dans lesquelles le problème est le plus aigu. Les tenure track (professeur·e·s assistant·e·s avec possibilité de prétitularisation conditionnelle) font partie de la solution, mais cela demande également d’augmenter les budgets. Et ces postes doivent être de vrais tenure track, avec un poste fixe pour celles et ceux qui remplissent les exigences fixées à la fin de la période de prétitularisation.
    Une meilleure reconnaissance

    Contrairement à la vision du CSS, les postdoctorant·e·s ne sont pas des étudiant·e·s. Entre recherche, enseignement et administration, ils sont essentiels et indispensables à la compétitivité du système académique suisse. C’est à ce titre qu’ils doivent être reconnus, en améliorant leurs conditions de travail et en leur permettant de concilier vie privée et familiale avec leurs activités professionnelles dans les hautes écoles. Les conditions de travail actuelles ne sont plus en phase avec les aspirations d’une majorité : plus d’un tiers des personnes bénéficiant d’un soutien du Fonds national suisse sont insatisfaites en matière de sécurité de leur emploi.

    Les conditions sont remplies pour que ces améliorations aient lieu : le Parlement soutient ces revendications, le FNS s’engage à réformer ses instruments de soutien. Les propositions sont également soutenues par le corps professoral. Restent donc aux universités et structures qui coordonnent leur travail de proposer des solutions.

    https://www.heidi.news/articles/precarite-academique-pour-plus-de-postes-fixes

    #corps_intermédiaire #université #Suisse #recherche #travail #conditions_de_travail #facs #ESR

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  • Le côté sombre de la frite

    Chaque année, la #Belgique exporte trois millions de tonnes de frites surgelées, selon la RTBF. Derrière ces chiffres énormes, il y a Aïcha, grièvement brûlée à l’huile de friteuse, Betty, agricultrice endettée face aux industriels patatiers, ou Philippe, riverain d’une usine de frites en souffrance.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-pieds-sur-terre/le-cote-sombre-de-la-frite-4870850
    #patates #pommes_de_terre #frites #agriculture #industrie_agro-alimentaire #endettement #travail #conditions_de_travail

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    sur les patates et les frites, voir aussi cet article paru dans La Revue Dessinée :
    https://seenthis.net/messages/972766

    • Les gros sur la patate

      Enquête sur l’industrie de la frite (et ceux qui les fabriquent) entre France et Belgique.
      Chips, frites, croquettes, purée… Des deux côtés de la frontière, la pomme de terre est au cœur de notre alimentation et de notre culture. Mais à quel prix ? Les journalistes d’Apache, Médor et Mediacités s’unissent pour vous faire découvrir une filière en surchauffe et ses conséquences économiques et environnementales.

      https://www.grossurlapatate.eu

    • Frites : l’industrie de la patate dévore les terres du Nord

      Haies coupées, prairies retournées... Dans le Nord, l’appétit des cultivateurs de pommes de terre gagne du terrain, et ravage le département. Les acteurs locaux tentent de résister à ce phénomène.

      « Là c’est à lui, ici aussi, il y a aussi là-bas. » À Trélon et à Ohain, deux villages situés dans le parc naturel régional (PNR) de l’Avesnois, aux confins du département du Nord et à la lisière de la Belgique, on ne sait plus où donner de la tête face à l’expansion d’un agriculteur néerlandais. Comme si ce dernier se bâtissait un véritable empire. Le long de la départementale à la sortie de Trélon, un champ de pommes de terre est arrivé à maturation. « Vous voyez ce terrain ? Avant, c’était une belle prairie, avec des vaches, ça a bien changé », se désole Thierry Reghem, maire de Trélon.

      Le terrain appartient désormais à cet agriculteur néerlandais, qui n’a pas souhaité répondre à Reporterre et préfère l’anonymat. Il s’est installé en 2015, et s’est étendu progressivement sur les communes voisines. Le cas de cet exploitant illustre le bouleversement démarré voilà plus d’une décennie sur le territoire.

      Ces terres d’élevage, à l’origine dédiées au lait et à la viande bovine, cèdent progressivement la place aux grandes cultures, en particulier celle de la pomme de terre. Selon les chiffres de la Direction régionale de l’alimentation, de l’agriculture, et de la forêt (Draaf) Hauts-de-France, communiqués spécialement à Reporterre, les surfaces agricoles dédiées au tubercule dans le parc naturel régional de l’Avesnois ont augmenté de 131 % entre 2010 et 2022.

      Un territoire à la merci des patatiers

      Un territoire jusque-là relativement préservé par la culture de pommes de terre, contrairement au reste de la région Hauts-de-France où elle est plus présente. Cette dernière concentre 64 % de la production nationale, et 8 % de la production en Europe en 2023, selon la Chambre d’agriculture. Avec son climat océanique ainsi que ses terres argileuses et limoneuses, le nord de la France est particulièrement propice à la culture du tubercule. L’essor des industries de la pomme de terre dans les années 80 marquées par un produit emblématique, la frite, offre également des débouchés prometteurs.

      La région Hauts-de-France se hisse aussi à la première place de la transformation de pomme de terre et représente 70 % des frites produites en France. Avec des entreprises surtout étrangères : le groupe canadien McCain, n°1 mondial sur ce secteur, y a installé deux usines. Au total, 1 frite industrielle sur 3 consommée dans l’Hexagone vient de chez McCain. Fin août, la société belge Agristo, spécialisée dans la fabrication de produits à base de pomme de terre surgelée, a aussi racheté le site de la sucrerie Tereos située à Escaudoeuvres, à une quarantaine de kilomètres des portes de l’Avesnois.

      Mais plus que la hausse des surfaces consacrées à la pomme de terre dans l’Avesnois, ce sont les pratiques agricoles inhérentes à cette culture, parfois intensives, et ses conséquences pour l’environnement qui inquiètent le territoire. La pomme de terre est une culture épuisante pour le sol, à cause de l’utilisation d’engins agricoles massifs qui tassent le sol. De plus, elle nécessite souvent l’usage de pesticides pour prévenir le mildiou. Enfin, certains exploitants n’hésitent pas aussi à modifier le paysage.

      Haies arrachées, prairies retournées... Des « exploitants sans scrupules »

      Dans un chemin cahoteux bordé d’arbres, un éleveur qui s’est installé dans le coin en 1996 montre le bouleversement du paysage que subit le territoire. « D’un côté vous avez une pâture intouchée, verdoyante, et de l’autre un champ de colza à perte de vue où les haies ont été arrachées, témoigne-t-il anonymement. Cette destruction est l’œuvre d’un Belge arrivé il y a quelques années. Les haies devaient certainement le limiter dans ses activités. »

      Selon Sylvain Oxoby, le maire d’Ohain, ce terrain appartient bien à un agriculteur belge, qui cultive entre autres de la pomme de terre. Selon nos informations, l’exploitant revend une partie de sa production à une industrie de pommes de terre belge. Contacté par Reporterre, il n’a pas souhaité nous répondre. « On est face à des exploitants sans scrupules pour obtenir un maximum de rendement, s’indigne l’édile. Ils n’hésitent pas à se livrer à des retournements de prairies et des arrachages de haies pour se faciliter le travail, sans se soucier de la préservation du paysage. »

      Composé à 42 % de prairies et de 11 000 km de haies bocagères, le PNR de l’Avesnois présente plusieurs facettes, selon Yvon Brunelle, directeur du parc. « Il y a toujours eu de la pomme de terre dans certaines poches du territoire, comme à l’est en direction de Valenciennes et Cambrai, explique-t-il. Mais c’est vrai que le Sud Avesnois, vers Trélon et Ohain, où la densité bocagère est plus forte, n’était pas concerné il y a quelques années encore par cette culture. C’est un phénomène nouveau pour la population locale qui, d’après ce qui m’a été rapporté, s’émeut de l’arrivée de pratiques agricoles intensives de personnes extérieures, en particulier les Belges et le fameux Néerlandais. »

      Parallèlement à l’extension de la culture de pommes de terre, l’Avesnois comme tout le département du Nord compose depuis des années avec l’installation d’agriculteurs belges et néerlandais. En Belgique et aux Pays-Bas, le foncier agricole est saturé. De plus, le prix à l’hectare peut être jusqu’à dix fois supérieur à la France.

      Pour ces agriculteurs du Benelux, l’Avesnois présente un sérieux intérêt puisqu’il se situe à quelques kilomètres de la frontière. Pratique pour acheminer leur production jusqu’aux usines belges et néerlandaises de transformation de la pomme de terre, parmi les plus productives du monde. Ce serait le cas de l’agriculteur néerlandais de Trélon, selon Thierry Reghem. « Il m’a dit qu’il travaillait pour un industriel néerlandais et qu’il envoyait sa production là‐bas. Il ne s’en cache pas », assure le maire.
      « On ne peut pas mettre un gendarme derrière chaque haie »

      Sylvain Oxoby est actuellement traversé par une autre inquiétude : l’agriculteur néerlandais, qui a déjà investi au moins 2 millions d’euros dans sa production depuis son arrivée, selon nos informations, pourrait s’étendre davantage. « Il cherche actuellement à reprendre près de 200 hectares de terrain sur ma commune, fait savoir le maire d’Ohain. Des terres appartenant à l’agriculteur belge évoqué précédemment. »

      La mine soucieuse derrière son bureau, l’édile poursuit : « La mairie ne peut en aucun cas jouer son droit de préemption. Si une offre de rachat était transmise par le Néerlandais, on espère que la Safer [1] bloquera la vente, au motif qu’il dispose de suffisamment de terres, en privilégiant un projet agricole en accord avec nos ambitions territoriales ». D’ici à 2025, le PNR Avesnois s’est donné pour objectif d’atteindre 30 % de surfaces destinées au bio.

      Face au bouleversement de leur terroir, les acteurs locaux paraissent dépassés. « Le pouvoir du maire est limité en la matière : nous nous limitons à une surveillance et à un dépôt de plainte en cas d’infractions environnementales », exprime, résigné Sylvain Oxoby. Deux agriculteurs sont convoqués par la gendarmerie prochainement pour des arrachages de haies. Ils risquent au maximum une amende et une injonction de les replanter. En accord avec le parquet, l’Office français de la biodiversité (OFB) se saisit uniquement des dossiers avec « un lourd impact sur la biodiversité », selon Alexis Pecqueur, chef d’enquête de l’OFB dans ce secteur. « Plusieurs procédures judiciaires sont en cours », assure l’agent de l’environnement. Impossible en revanche pour son équipe en sous-effectif d’intervenir à chaque signalement.

      « Le parc n’a pas de pouvoir de répression, ajoute Yvon Brunelle. Nous pouvons seulement mettre en place des garde-fous, en donnant des moyens d’alerte aux communes. » Dans un nouveau plan local d’urbanisme intercommunal (Plui), en cours d’approbation, 80 % des haies du PNR Avesnois doivent être classées comme espèces protégées. Les arracher constituerait dès lors un délit. « Est-ce que ce sera suffisant pour stopper les infractions, je n’en sais rien, remarque Yvon Brunelle. Malheureusement, on ne peut pas mettre un gendarme derrière chaque haie. »

      https://reporterre.net/L-industrie-de-la-frite-devore-les-terres-du-Nord

  • Dans l’enfer des centres d’appel
    https://www.frustrationmagazine.fr/centre-dappel

    Nous avons tous déjà été en relation avec un travailleur ou une travailleuse de centre d’appel. Dans le ton de la voix, le sourire forcé, les formules de politesses exagérées nous pouvons deviner l’absence d’autonomie, les conditions de travail dégradées et l’absence de sens d’un tel emploi pour celui qui l’occupe. Bruno nous a écrit […]