• In questo mondo : qualche riflessione su #Io_Capitano

    Rappresentare il dolore, la pena e la povertà degli altri è sempre un compito delicato e complicato. La migrazione oggi, resa illegale dalla legislazione europea e spettacolarizzata dai media, è il caso più evidente. L’empatia è apparentemente generata solo quando l’anonimato dei corpi stranieri può essere individualizzato per essere raccontato. Poteri e relazioni strutturali più ampie sono solitamente allontanati dal racconto, ridotti a vaghi riconoscimenti. La storia richiede l’identificazione dell’individuo. O, almeno, questo è ciò che ci insegna la nostra cultura.

    Tutto ciò è stato istituzionalizzato sia nella filosofia politica che nei romanzi che raccontano le nostre vite. Tuttavia, è una prospettiva che ci lascia con una povertà di spiegazioni e di comprensione. Nel recente film di Matteo Garrone, Io Capitano, incontriamo tali domande e problemi. Il viaggio di Seydou e del suo amico Moussa dal Senegal attraverso il Sahel e la Libia, e poi il Mediterraneo, è intensamente raccontato in tutti i suoi strazianti dettagli. Seydou, indotto dai suoi rapitori libici a guidare un barcone verso l’Europa, sperimenta tutte le remore morali della sua responsabilità. Nonostante tutto, riesce nella sua impresa. È un eroe e c’è un (temporaneo) lieto fine. Ma sappiamo che non è così. Oltre alle torture in Libia, questi migranti affrontano anche le condizioni di quasi schiavitù in Italia. Senza documenti e protezione, sono soggetti alla condizione di non avere il diritto di avere diritti. Il sogno europeo è spesso un incubo. Intrappolata in questi meccanismi, ulteriormente codificati e rafforzati dal razzismo strutturale, questa non è certo una narrazione che può essere facilmente trasmessa. Soprattutto, se siamo onesti, essa rivela la nostra responsabilità primaria nel racconto. Nel caso del film di Garrone, la costruzione dell’Africa come luogo di estrazione umana e materiale a beneficio dell’Occidente – dalla schiavitù e l’inizio della modernità atlantica ai metalli preziosi dei nostri gioielli e cellulari – riguarda in ultima analisi la costituzione coloniale del presente. Il migrante moderno non è solo un rifugiato economico o uno sgradito portatore di crisi, ma rappresenta piuttosto il ritorno di quella storia repressa.

    Quindi, cosa sto dicendo? Il film di Garrone non avrebbe dovuto essere realizzato? È un fallimento politico ed etico (e quindi estetico)? Le cose non sono mai così semplici. La consolazione delle alternative binarie, persino del ragionamento dialettico, sfugge. Per il momento, siamo bloccati con la narrazione individualizzata, con scelte e orizzonti ridotti a una comprensione soggettiva del mondo che oscura forze più profonde e relazioni più ampie. Il trucco è lavorare su questa imposizione in modo tale da spingerci oltre questi parametri. La risposta umanista all’eroe migrante è insufficiente. Dopo tutto, ci conferma nella nostra formazione del sentimento, quella stessa formazione che ha prodotto il ‘migrante’ contemporaneo attraverso la nostra colonizzazione delle risorse umane e materiali del pianeta.

    Non c’è una formula ovvia o un’alternativa pronta. Si tratta, pensando con il cinema, di un’estetica cinematografica che ci prepara a un’altra etica in cui la nostra posizione e il nostro punto di vista sono messi in discussione, interrotti, persino emarginati o aggirati. Il metodo non può che risiedere nella pratica cinematografica stessa.

    Ho in mente due film che affrontano il percorso etico ed estetico proposto in Io Capitano. Uno è diretto nel suo stile ‘documentaristico’ come il film di Garrone: Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom. L’altro, di Abderrahmane Sissako, Aspettando la felicità (2002), suggerisce un modo poetico di riconfigurare le brutali imposizioni della modernità. Mi limito al film di Winterbottom, più vicino per stile e intenti a quello di Garrone, dove entrambi i registi europei affrontano l’alterità di altri mondi che la loro (mia) cultura ha inquadrato e ora punisce. Nel film In This World seguiamo due afghani, Jamal e Enayatullah, provenienti dal campo profughi di Shamshatoo, vicino a Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, mentre cercano di raggiungere Londra attraversando Iran, Kurdistan, Turchia, Italia e Francia. Enayatullah muore per soffocamento nel container che porta loro e altri migranti da Istanbul via mare a Trieste. Jamal alla fine riesce ad arrivare a Londra. La ruvida bellezza del paesaggio, la violenza dei confini e l’avidità dei trafficanti sono presenti in tutta la loro crudezza.

    Anche il giovanissimo Jamal è un eroe semplicemente per essere sopravvissuto a tutte le avversità. Tuttavia, le relazioni sociali che si creano lungo il percorso, dalla vita familiare allargata a Peshawar alla solidarietà in Kurdistan e all’amicizia nella ‘giungla’ di Calais, ci fanno costantemente entrare in un mondo più ampio. Il singolo viaggiatore non è semplicemente parte della migrazione moderna: il campo di Peshawar è presentato all’inizio del film come il prodotto dell’aggressione prima sovietica e poi americana e alleata, dove sono state spesi quasi 8 miliardi di dollari nel 2001 per sganciare delle bombe sull’Afghanistan. Le brutali semplicità della geopolitica trasformano un’odissea personale in una riorganizzazione radicale delle mappe del mondo moderno: dal basso, dai margini, dal silenzio di altre storie. Anche la mia narrazione non riesce a marcare la differenza. Ciò che si nasconde nel linguaggio cinematografico è un eccesso che allude a qualcosa in più della spiegazione verbale. L’immagine contiene sempre un supplemento in più del semplice svolgimento del racconto. Lasciarla per così dire respirare, sottraendoci alla linearità della narrazione, dissemina una complessità in cui la poetica sostiene una politica più opaca ma profonda (lo stesso si può dire del film di Sissako).

    Riflettendo sul film di Matteo Garrone, delle cui opere cinematografiche resto un ammiratore, sia l’idealizzazione della vita familiare in Senegal sia l’impeto incessante della narrazione che ci spinge verso il Mediterraneo e l’Europa ci negano quello spazio: le sue ambiguità e complessità. Le immagini sono drammatiche, i sentimenti ben intesi, ma la sua estetica resta bloccata da un’etica che ha il fiato corto, che non è disposta a scavare più a fondo e nemmeno a lasciare che il migrante abiti una storia e un mondo che non è semplicemente nostro da raccontare.

    Chiaramente, non esiste una soluzione. Solo un viaggio critico perpetuo. Nel continuum coloniale del presente i nostri fallimenti, una volta riconosciuti e registrati, segnano ulteriori percorsi da perseguire.

    http://www.technoculture.it/author/i-chambers
    #film #douleur #empathie #migrations #colonisation #présent_colonial #colonialité_du_présent #Afrique #esthétique #éthique #continuum_colonial

  • Le travail de recherche de #Emilio_Distretti sur l’#Italie_coloniale

    Je découvre grâce à @cede le travail de recherche de #Emilio_Distretti, post-doc à l’Université de Bâle, sur le #colonialisme_italien et les #traces dans l’#architecture et l’espace.

    Sa page web :
    https://criticalurbanisms.philhist.unibas.ch/people/emilio-distretti

    Je mets dans ci-dessous des références à des travaux auxquels il a participé, et j’ajoute ce fil de discussion à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    #colonisation #colonialisme #Italie #histoire #géographie_urbaine #urban_matter

  • États d’Urgence, Une histoire spatiale du continuum colonial français - Léopold Lambert | Premiers Matins de Novembre Éditions
    https://www.pmneditions.com/product/etats-d-urgence-une-histoire-spatiale-du-continuum-colonial-francais-le

    Une histoire spatiale du continuum colonial français - Léopold Lambert
    €18.00

    États d’Urgence, Une histoire spatiale du continuum colonial français - Léopold Lambert

    Préfaces de Nacira Guénif-Souilamas et de Anthony Tutugoro

    Loi contre-révolutionnaire par excellence, l’état d’urgence lie les trois espaces-temps de la Révolution algérienne de 1954-1962, l’insurrection kanak de 1984-1988 et le soulèvement des quartiers populaires en France de 2005.
    Cet ouvrage revient en détails sur chacune de ces trois applications ainsi que celle, plus récente de 2015 à nos jours, en tentant de construire des ponts entre chacune. Dans cette étude, l’auteur utilise le concept de continuum colonial tant dans sa dimension temporelle que géographique. En son sein circulent notamment un certain nombre d’officiers militaires et hauts fonctionnaires coloniaux, mais aussi des populations immigrées et des révolutionnaires.

    Architecte de formation, l’auteur ancre sa lecture dans la dimension spatiale de l’état d’urgence en liant aussi bien les camps de regroupement en Algérie, la ville blanche de Nouméa, les commissariats de banlieues françaises, que la Casbah d’Alger, les tribus kanak ou encore les bidonvilles de Nanterre.

    336 pages
    Sortie nationale 30 avril 2021
    Précommandes ouvertes !

    #colonialisme #Algérie #Kanaky #histoire_coloniale

  • Does sustainable development have an elephant in the room ?

    The inherently unequal relationship between the developed and developing world is hindering sustainable development.

    This week, the 74th session of the United Nations General Assembly (UNGA) has begun deliberating on its resolutions. Sustainable development is high on the agenda. This year UNGA has had a record number of high-level meetings - most of them either on or related to the topic.

    At the centre of the UN 2030 Agenda for Sustainable Development are the many disparities between the developed and developing world, including the unequal consumption and use of natural resources; the impacts of climate change and environmental degradation; economic sovereignty and opportunities; and the unequal power in international organisations and decision-making.

    Still, according to UN Secretary-General Antonio Guterres’ recent progress report on the Sustainable Development Goals, disparities between the developed and developing world continue to grow.

    CO2 emissions are on a trajectory towards disastrous tipping points and global material consumption is projected to more than double by 2060. In the last 20 years, climate-related disasters have led to a 150 percent increase in economic losses and claimed an estimated 1.3 million lives, the great majority of them in the developing world. Climate change-driven conflicts and migration are on the rise, too.

    The UN 2030 Agenda for Sustainable Development is clear that moving towards sustainability requires the broadest possible international cooperation, an ethic of global citizenship and shared responsibility. Crucially, this includes decreasing international disparities between developed and developing countries, such as in international decision-making, control and use of natural resources and unsustainable patterns of consumption and production.

    However, there is an elephant in the room of sustainable development. Namely, the very relationship between the developed and developing world of domination and subordination and its historical roots in colonialism.

    Today’s unsustainability is shaped by a history that includes the control and use of natural resources and cheap labour for the benefit and consumption of European and European colonial-settler states. It is a history where a bottom line of maximising profit and economic growth included colonisation of foreign lands and peoples, a transformation of landscapes and societies across the world, enslavement, genocides, wars and systemic racial discrimination.

    Over centuries, an international order was established dominated by European colonial and colonial-settler states populated by a majority of European descendants. That is to say, largely today’s developed world.

    Although the inherently unequal relationship between the developed and developing world and its colonial history is not addressed by the Sustainable Development Goals - it is no secret to the UN.

    For example, according to the most comprehensive universal human rights instrument against racial discrimination - the declaration and programme of action of the 2001 Third World Conference against Racism in Durban, South Africa - the effects and persistence of colonial structures and practices are among the factors contributing to lasting social and economic inequalities in many parts of the world today.

    During the early 1970s, developing nations - many of them recently independent - passed resolutions in the UNGA to establish a new international economic order. They demanded self determination over their economy and natural resources as well as equity in determining the laws, rules and regulations of the global economy.

    The explicit objective was to address international inequities in the wake of European colonialism. Developed countries with the power to actualise such a new international economic order were not interested and nothing much became of it.

    Nonetheless, the call for a new international economic order resonated in the 1986 UN Declaration on the Right to Development. Among other things, it calls on states to eliminate the massive violations of human rights resulting from colonialism, neo-colonialism, all forms of racism and racial discrimination.

    In recent years, there has again been a growing call by developing countries in the UNGA for a new equitable and democratic international economic order. But this time too, developing countries with the power to make that call a reality have opposed it.

    Last year a resolution was passed in the UNGA towards a new international economic order. It emphasises that development within countries needs to be supported by a favourable international economic order. Among other things, it calls for increased coordination of international economic policy in order to avoid it having a particularly negative impact on developing countries.

    An overwhelming majority of 133 of the 193 UN member states voted for the resolution. All developed countries voted against it.

    Another resolution that was passed in the UNGA last year promoted a democratic and equitable international order. It, too, calls for an international economic order based on equal participation in the decision-making process, interdependence and solidarity, in addition to transparent, democratic and accountable international institutions with full and equal participation.

    One-hundred-and-thirty-one of the 193 members of the UNGA voted for the resolution. All developed countries voted against it.

    It is well known by the UN that much of the racial discrimination in European countries and European settler colonies such as the US, Colombia and South Africa reflect colonial history. Across the Americas, the most racially discriminated against are people of colour and among them especially indigenous people and people of African descent. In the European Union too, people of colour are especially discriminated against, not least people of African descent.

    Since little more than a decade ago, there is a UN Permanent Forum, Declaration and Expert Mechanism on the rights of indigenous peoples. As a result of the ongoing UN International Decade for People of African Descent 2015-2024, last year the General Assembly passed a resolution to establish a UN Permanent Forum and Declaration for people of African descent.

    One-hundred-and-twenty member states voted in favour of the resolution. Only 11 states voted against it. Among them were the US, the UK and France. All developed countries either voted against or abstained from voting on the resolution.

    This year the UN Special Rapporteur on Racism, Tendayi Achiume, has submitted a report to the General Assembly on the human rights obligations of member states in relation to reparations for racial discrimination rooted in enslavement and colonialism. It is the first UN report on the topic. According to it, reparations for enslavement and colonialism include not only justice and accountability for historic wrongs, but also the eradication of persisting structures of racial inequality, subordination and discrimination that were built during enslavement and colonialism.

    It is a view of reparations that includes the pursuit of a just and equitable international order.

    This year the UNGA will also deliberate on a resolution for how to organise the new permanent Forum for People of African Descent.

    When will the developed world recognise and address the elephant in the room? Maybe when there is a real shift towards sustainable development.

    https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/sustainable-development-elephant-room-191009072428736.html
    #développement_durable #colonialisme #subordination #domination #inégalités #SDGs #développement #ressources_naturelles #extractivisme #Nord-Sud #2030_Agenda_for_Sustainable_Development
    #politics_of_development #responsabiité #éthique #coopération_internationale #production #consommation #mondialisation #globalisation #géographie_politique #colonisation #accaparement_des_terres #terres #discrimination_raciale #génocide #esclavage_moderne #continuum_colonial #colonialisme_européen #ordre_économique #droits_humains #racisme #néo-colonialisme #économie #participation #solidarité #interdépendance

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  • Flexibiliser le travail et produire des vies illégales

    En France, l’#ubérisation trouve des ressources dans les migrations. Ce phénomène est ici analysé et décrit par un ressortissant de Guinée qui vit à Grenoble depuis 2016, co-auteur d’une recherche-création entre géographie, art et droit.

    Si les migrations vers l’Europe et la France occupent les discours politiques et médiatiques, leurs modalités d’exploitation par le travail y sont bien moins évoquées. Les vies rendues illégales constituent une réserve de #main-d’œuvre exploitable et hyperflexible, dans un contexte précisément de flexibilisation et d’ubérisation du travail, notamment par le développement des applis de VTC ou de #livraison. Dans leurs travaux portant sur les liens entre migrations et travail, Sandro Mezzadra et Brett Neilson précisent que « la flexibilité, qui fabrique de la #précarité, est devenue la norme », tandis que les migrations forment « un terrain crucial d’expérimentation pour de nouvelles formes de "capture" du travail ».

    Cette exploitation du travail en #France, de vies rendues illégales, s’inscrit dans des formes d’exploitations plus larges de la force de travail, notamment d’entreprises européennes et françaises en Guinée pour l’extraction de ressources minières, qui entraînent des destructions sociales et environnementales et des migrations. Autrement dit, les liens entre migrations et exploitation de la force de travail se comprennent depuis un continuum qui dépasse très largement les frontières nationales, et s’inscrit dans des rapports en grande partie hérités de la #colonisation.

    #Pathé_Diallo, ressortissant de Guinée qui réside à Grenoble depuis 2016, décrit cette relation entre migration, exploitation et ubérisation dans le cadre d’une œuvre de création et de recherche intitulée Bureau des dépositions (1), à laquelle participent plusieurs géographes.

    « C’est un cercle vicieux »

    « Les Etats font exprès de ne pas délivrer des papiers à tout le monde pour que d’autres puissent exploiter les #sans-papiers dans des conditions difficiles, sur certains #chantiers ou dans les sites touristiques de ski en montagne, ou dans les travaux de #ménage. Depuis quelques mois à Grenoble, des personnes exploitées et sans papiers font de la #livraison de nourriture sur des #vélos. Ils sont mal payés et la cible de #Uber et des Etats, qui autorisent que le #droit_du_travail soit réduit à rien. C’est comme si les personnes donnaient toute leur énergie pour ne rien avoir.

    « C’est comme dans le domaine de la #sécurité. Dans la sécurité, c’est 12 voire 15 euros de l’heure pour la nuit. Celui qui te sous-traite va te payer 7 ou 8 euros par heure. Toi tu es sur le terrain. C’est parfois mieux que rester toute la journée à ne rien faire. Dans l’attente des papiers, beaucoup deviennent fous. Etre exploité devient préférable pour ne pas rester assis, passer toute la journée sans rien faire pendant des années, sans savoir quand le papier viendra. Ce sont les Etats et les entreprises qui se servent de la #main-d’œuvre qui sont responsables, en n’autorisant pas à travailler. C’est un #cercle_vicieux : pour se régulariser, il faut du travail ; pour avoir du travail, il faut des papiers.

    « Créer un syndicat sans-papiers permettrait de réduire le taux de chômage. En France, la #clandestinisation des travailleurs permet de réduire le #coût_du_travail, aux bénéfices des patrons et de leurs sous-traitants qui ainsi échappent à l’impôt.

    « Il faut respecter l’homme. C’est l’homme qui fait le papier, pas le papier qui fait l’homme.

    « L’exploitation des sans-papiers en Europe entre en écho avec l’exploitation de la main-d’œuvre dans les #mines en #Guinée. Ce sont les mêmes personnes qui exploitent et ce sont les mêmes personnes qui sont exploitées. Un mineur d’or ou de bauxite, en Guinée, peut parvenir à rejoindre la France pour travailler dans des conditions plus précaires encore que la mine. Dans les mines, les patrons sont souvent étrangers. Tout ce qui est exploitable en Guinée est exporté en tant que matière première à l’extérieur : Canada, Etats-Unis, pays d’Europe, comme la France, l’Allemagne… Dans la mine, il y a beaucoup de pollution, qui entraîne des maladies : sinusite, cancer du foie… La poussière mélangée aux produits chimiques crée des colonnes de plusieurs kilomètres, ce qui pollue les cours d’eau. L’eau est puisée par les populations. Les employés des mines ne sont pas bien payés. »


    https://www.liberation.fr/debats/2019/10/02/flexibiliser-le-travail-et-produire-des-vies-illegales_1754677
    #travail #exploitation #illégalisation #asile #migrations #réfugiés #flexibilisation #tourisme #extractivisme #continuum_colonial #post-colonialisme #économie

    ping @albertocampiphoto @reka @karine4

    • Sfruttamento e caporalato tra i migranti della #gig_economy

      #Deliveroo, #Uber_eats, #Glovo, #Just_Eat, da quando le #app di consegna a domicilio sono diventate una realtà di uso quotidiano per migliaia di potenziali fattorini si sono spalancate le porte della «gig economy», i cosiddetti lavoretti gestiti tramite applicazioni per #smartphone. A Milano due terzi di loro sono migranti e sebbene portino in spalla lo zaino delle più famose app di consegna a domicilio, raccontano di non lavorare direttamente con le piattaforme e di avere degli intermediari. Ora anche la Procura di Milano ha annunciato l’apertura di un’indagine conoscitiva sulle condizioni di lavoro dei rider e sulle imprese che ne gestiscono le consegne - con un’attenzione particolare alla sicurezza stradale e al possibile impiego di fattorini stranieri senza i documenti per lavorare e potenzialmente soggetti a caporalato. Lorenzo Pirovano ci fa conoscere la loro quotidianità.

      Michael non era mai riuscito a lavorare in Italia. Ospite di un centro di accoglienza straordinaria a cinquanta chilometri da Milano, aveva passato gli ultimi due anni sospeso tra l’attesa del verdetto sul suo status di rifugiato e la complicata ricerca di un impiego. “Il responsabile della casa non voleva che lavorassimo, soffrivo a starmene fermo e aspettare chissà cosa”.

      Poi nel 2017 a Milano è arrivato il boom delle app di consegna a domicilio in bicicletta (Deliveroo, Uber eats, Glovo e Just Eat) e per migliaia di potenziali fattorini si sono spalancate le porte della gig economy (i cosiddetti “lavoretti” gestiti tramite applicazioni per smartphone).

      Da allora, ogni mattina, cubo termico sulle spalle e mountain bike accessoriata, centinaia di migranti come Michael raggiungono Milano e pedalano per le sue strade nella speranza di effettuare più consegne possibili. “Ci sono giorni che lavoro undici ore” rivela Michael, 33 anni e una fuga dalla Liberia passando per l’inferno libico. “Ma alla fine del mese non ho mai portato a casa più di 600 euro”.

      Michael e i suoi colleghi sono i “migranti della gig economy” che rappresenterebbero quasi due terzi dei rider che effettuano consegne a domicilio per le strade della città. Molti di loro sono ospitati nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) disseminati nell’hinterland milanese o nelle province attigue. Alcuni, come Michael, ne sono appena usciti e condividono una stanza in periferia. Secondo i dati raccolti dall’Università degli Studi di Milano la maggior parte risiederebbe in Italia da più di due anni.

      Come tutti i ‘ciclofattorini’, anche i migranti devono fare i conti con un contratto di lavoro occasionale che riconosce poco più di tre euro a consegna, senza un minimo orario e senza chiare coperture contributive e assicurative. Nonostante questo il settore delle consegne a domicilio si sostiene principalmente sulla loro manodopera, grazie alle permeabili barriere all’entrata (in molti casi non è necessario sostenere un colloquio), alla necessità di guadagno immediato e alla dimostrata possibilità di lavorare anche se sprovvisti di documenti. Molti di loro ammettono di non conoscere i propri diritti di lavoratori, altri raccontano di non avere scelta, trattandosi dell’unica occupazione trovata. Raramente si rivolgono ai sindacati e anche Deliverance, il sindacato auto organizzato dei ciclofattorini milanesi, fa fatica a coinvolgerli. “Rivendichiamo tutti gli stessi diritti ma esiste una spessa barriera linguistica e culturale” ammette Angelo, membro e portavoce del collettivo.

      La settimana scorsa la Procura di Milano aveva annunciato l’apertura di un’indagine conoscitiva sulle condizioni di lavoro dei rider e sulle imprese che ne gestiscono le consegne, con un’attenzione particolare alla sicurezza stradale e al possibile impiego di fattorini stranieri senza i documenti per lavorare. “Che ci sia un’inchiesta in corso, seppur con colpevole ritardo, è una buona notizia” commenta Angelo. “Che non si trasformi però in una caccia alle streghe tra la categoria di lavoratori più vulnerabili, quella dei migranti”.
      “Riceviamo la metà della cifra visualizzata sull’app”

      Sotto Porta Ticinese, nei pressi della Darsena, trovano riparo una decina di rider con gli occhi fissi sullo smartphone in attesa di una consegna da effettuare. Attorno a una delle sue colonne si raccolgono alcuni nigeriani mentre al centro, seduti sugli scalini, un drappello di giovani ragazzi chiacchiera in bambara. Uno di loro approfitta della pausa per togliersi le scarpe, stendere un lenzuolo, inginocchiarsi e pregare.

      Molti di loro, sebbene portino in spalla lo zaino delle più famose app di consegna a domicilio, raccontano di non lavorare direttamente con le piattaforme e di ricevere la paga da alcune aziende italiane.

      L’occhio dei magistrati milanesi potrebbe così cadere anche sulla catena di intermediari che connette i rider in bicicletta all’app da cui ricevono i soldi.

      L’avvento della gig economy – che in origine doveva portare a una totale disintermediazione del lavoro – ha infatti ricreato dinamiche già conosciute: alcune legali, come l’attività delle imprese di intermediazione; altre illegali, come il “subaffitto dei profili” e, appunto, l’impiego di manodopera irregolare.

      Uber eats – costola del colosso Uber, valutato 75 miliardi di dollari e conosciuto in tutto il mondo per il servizio privato low cost di trasporto passeggeri – è attiva a Milano principalmente grazie a due imprese (Flash Road City e Livotti SRL) che si avvalgono della sua applicazione per gestire e spartirsi il lavoro di centinaia di fattorini migranti. “Queste imprese non fanno ufficialmente parte di Uber eats ma il rapporto di collaborazione c’è” raccontano alcuni loro lavoratori, “il risultato è che alla fine del mese puoi ricevere anche solo la metà dell’importo che visualizzi sull’applicazione”

      L’intermediazione infatti ha un costo elevato, un prezzo che però molti migranti sono pronti a pagare per afferrare, come ammettono loro stessi, “un’opportunità unica di lavorare, soprattutto per chi non ha i documenti”.

      Lo schema è semplice: Uber mette l’applicazione, il sistema di pagamento e il marchio al servizio di queste imprese, mentre loro si occupano delle relazioni coi ristoranti e del rapporto con i lavoratori. “Dalle cifre visualizzate sull’app bisogna togliere la nostra parte, ma questo lo diciamo chiaramente ai nostri dipendenti” spiega il rappresentante di un’impresa intermediaria. Così il margine di guadagno per il rider si abbassa notevolmente, come testimoniato da Michael e da altri suoi colleghi stranieri.
      Possibilità e trucchi

      Intermediazione o no, il lavoro tramite app si è convertito in una possibilità anche per chi non ha le carte in regola per lavorare, come dimostrano i primi controlli della Procura di Milano che su una trentina di rider ha individuato tre migranti senza i documenti.

      I rappresentanti delle imprese di intermediazione negano però di impiegare migranti senza permesso di soggiorno. Uno di loro sostiene che “a volte siamo noi stessi ad aiutarli nella pratica per rinnovare il permesso”, mentre Uber e Glovo hanno invece ammesso di non essere in grado di garantire che tutti i rider attivi sulle loro applicazioni abbiano i requisiti per lavorare. “Da parte nostra c’è tutto l’impegno affinché ad operare sulla piattaforma ci siano solo corrieri che hanno i requisiti per farlo” ha dichiarato un rappresentante di Uber in Italia. Glovo aveva dichiarato che “il rischio esiste, ma ogni giorno cerchiamo di monitorare meglio la situazione”.

      Nonostante le quasi inesistenti barriere all’entrata, l’offerta di lavoro supera la domanda e molti aspiranti rider non vengono accettati dalle app. Per un migrante la probabilità di veder approvata la propria candidatura si assottiglia, soprattutto quando non conosce la lingua o non ha i documenti in regola. Nascono così dei meccanismi di reclutamento nascosti che riducono al minimo il margine di guadagno del rider, ultimo anello di una catena fatta anche di trucchi e inganni.

      Pietro, giovane egiziano, si era candidato a lavorare in alcune delle app attive a Milano, senza successo. Poi un amico gli ha proposto una scorciatoia. «Mi ha dato un numero di telefono dicendomi che c’era un account disponibile. Così ho telefonato ad H. ed è iniziata la mia esperienza come rider».

      Pietro ha iniziato quindi a lavorare con il “profilo” di un’altra persona, ricevendo ogni mese i soldi direttamente da H. al netto della sua “trattenuta”. “H. fa così con tutti i profili che affitta. Per farti lavorare si prende il 10% di ogni consegna” racconta. “Non so da dove venga il profilo che uso e non conosco gli altri rider che lavorano in questa maniera”.
      “Molti migranti vogliono lavorare ma non possono”

      “I richiedenti asilo sono una piccola minoranza tra i migranti presenti sul territorio italiano” spiega Pietro Massarotto, avvocato volontario del Naga, associazione milanese che dal 1987 si occupa di cittadini stranieri, soprattutto di quelli privi di permesso di soggiorno e dei richiedenti asilo. “Nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con migranti “ordinari”, il cui permesso di soggiorno dipende strettamente dal lavoro svolto”.

      Consegnare a domicilio tramite le app, seppure senza garanzie e con margini di guadagno assai risicati, può diventare fondamentale per mantenersi “in regola” ed evitare la condizione praticamente irreversibile di irregolarità. Questa, nel caso venga raggiunta per il diniego della richiesta di asilo o per la mancanza di un impiego regolare, si converte nella necessità urgente di trovare alternative per poter sostenersi economicamente. “Qui va sfatato il mito del cittadino straniero che non vuole lavorare” precisa Massarotto. “È vero il contrario: spesso non viene messo nelle condizioni di lavorare”.

      Le risposte della politica sono proseguite però sulla via di un accesso più duro allo status di migrante regolare. “Purtroppo le politiche di gestione dell’immigrazione stanno determinando e determineranno sempre più un incremento esplosivo dei soggetti senza permesso di soggiorno, che per ovvie ragioni lavorano lo stesso”.
      “Fare il rider è meglio di niente”

      Omar è uno dei tanti che di mattina lascia il “campo” dove vive per tornarci solo dopo mezzanotte. Ci sono giorni in cui il bottino è talmente magro da coprire appena il prezzo del biglietto. Viene dal Gambia, ha 22 anni e uno sguardo perso nel vuoto. “Ogni giorno prendo il treno e torno a casa per questo cazzo di lavoro” si sfoga indicando lo zaino termico. È rimasto senza permesso di soggiorno e insieme a quello ha perso la speranza di costruirsi una nuova vita in Italia. “Vorrei impegnarmi in altro, ma qui se non hai i documenti non puoi fare nulla”. A chiedergli se è felice annuisce poco convinto: “fare il rider è meglio di niente, diciamo così. Meglio di niente.”

      https://openmigration.org/analisi/sfruttamento-e-caporalato-tra-i-migranti-della-gig-economy
      #Italie #rider

    • Un vaste #réseau_d’exploitation de chauffeurs #VTC sans papiers démantelé dans les #Hauts-de-Seine

      Cinq personnes soupçonnées d’avoir exploité illégalement une centaine de travailleurs non déclarés ont été mises en examen et écrouées.

      Les chauffeurs ne percevaient qu’« une infime partie des prestations effectuées » et commandées par le biais d’applications comme #Uber, #Kapten, #Bolt ou #Heetch. Cinq hommes soupçonnés d’avoir exploité illégalement une centaine de #travailleurs_non_déclarés, pour la plupart sans papiers et employés comme chauffeurs de voiture de transport avec chauffeur (VTC) ont été mises en examen et écrouées, vendredi 21 février, a annoncé le parquet de Nanterre dans un communiqué.

      Elles ont été mises en examen pour « aide au séjour irrégulier, blanchiment, exécution d’un travail dissimulé, recel, traite des êtres humains commise à l’égard de plusieurs personnes, faux en écriture, faux et usage de faux documents administratifs et abus de biens sociaux », le tout « en bande organisée », a précisé le parquet.

      « Horaires très larges sous la pression »

      Ces cinq hommes sont soupçonnés d’avoir monté deux sociétés au travers desquelles ils employaient une centaine de chauffeurs « travaillant avec des horaires très larges sous la pression de leurs employeurs qui arguaient de leur situation précaire » pour les contraindre à obéir.

      La majorité des profits générés étaient perçus par les cinq hommes. « Les premières investigations ont démontré le caractère particulièrement lucratif de ce trafic, générant des mouvements financiers à hauteur de centaines de milliers d’euros », a précisé le parquet.

      Quelque 195 000 euros ont été saisis sous forme d’argent liquide et de voitures de luxe. Les deux sociétés détenaient une cinquantaine de véhicules. D’après les enquêteurs de la sous-direction de la lutte contre l’immigration irrégulière (SDLII) et de la direction de la sécurité de proximité de l’agglomération parisienne (DSPAP) chargée de l’enquête, « ce trafic se déroulait depuis au moins deux années ».

      https://www.lemonde.fr/police-justice/article/2020/02/22/un-vaste-reseau-d-exploitation-de-chauffeurs-vtc-sans-papiers-demantele-dans