#corne_de_l'afrique

  • Yemen, Afghanistan, Somalie… Comment lutter contre la famine qui s’étend ?
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/l-invite-e-des-matins/yemen-afghanistan-somalie-comment-lutter-contre-la-famine-qui-s-etend-90

    Alors que la Somalie fait face à un risque de famine au cours de l’année 2023, la situation alimentaire dans le monde soulève des inquiétudes. Des personnes, victimes de la guerre ou du changement climatique, continuent de mourir de faim.
    Avec

    Roland Marchal Chercheur à Sciences Po Paris
    Jean-François Riffaud
    Olivier De Schutter Rapporteur spécial de l’ONU sur les droits de l’homme et l’extrême pauvreté

    https://media.radiofrance-podcast.net/podcast09/22076-20.12.2022-ITEMA_23232980-2022C16450S0354-21.mp3

  • ALDO BARATTI : “FOTO-RIFLESSIONI” ED ESTETISMI DALL’AFRICA ORIENTALE

    Nel recuperare i germi della crisi del pensiero e della critica “attualista” degli anni Trenta del Novecento, volta con coerenza sia contro Croce che contro Gentile, potremmo rintracciare, in funzione estetico-visiva, una chiave di lettura coerente per analizzare la fotografia di quel periodo e in particolare quella tranche di storia della fotografia italiana – tipicamente italiana – legata alle italiche colonie africane. Un settore specifico della fotografia italiana del primo Novecento sempre meno studiato, anche per motivi ideologici e che va lentamente scomparendo proprio negli ambiti di studio ufficiali nazionali. Il recupero contemporaneo non deve ovviamente apparire come di “tipo ideologico”, ma appunto di studio e conoscenza di parte del nostro passato artistico, anche quello meno, per così dire, “politicamente corretto”. La storia e quindi la storia dell’arte è fatta d’altronde anche di queste parentesi nere che però non devono gettare ombra sugli studi successivi, come ad esempio è avvenuto col Futurismo, per la rivalutazione del quale abbiamo dovuto aspettare gli storici americani degli anni Sessanta.

    In tale percorso critico risulta quindi interessante recuperare tale “frangia” di storia della fotografia, partendo dal pensiero di Adelchi Baratono,[1] in particolare per quello che riguarda la persistenza concettuale del soggetto guardante abbinata al valore tecnico-sensibile dell’esperienza estetica e per la derivante “redenzione” del concetto di praticità dell’arte e dei suoi differenti orientamenti tecnici.

    Si tratta di un concetto che, a nostro avviso, è possibile anche sostenere tramite il razionalismo critico di Antonio Banfi, del quale ci limiteremo a porre in nuce la medianità direttiva della sua riflessione estetica, nel momento in cui, proprio negli anni Trenta, la forte ripresa della riflessione sull’arte costituisce uno dei momenti più salienti e, in maggior misura, qualificanti dell’arte e del pensiero italico.

    La sfera estetica così trattata esaudisce in contemporanea due esigenze contrastanti dell’intellettuale e, per traslato, dell’artista che, per quanto riguarda la nostra analisi del fotografo Aldo Baratti, finisce per «cogliere e privilegiare la dimensione dinamica, la provocazione irrazionale, la irriducibilità istituzionale e organizzativa della realtà presente, il “caos del vivente”; e insieme quella di riorganizzarla, formalizzarne la necessità, realizzarne la “composizione razionale”».[2] Così come fa, da altro punto di vista, anche Antonio Banfi, il pensiero del quale, fra l’altro, sembra oscillare fra due dimensioni vicine seppur distinte: quella che potremmo definire del «dover essere» dell’arte e perciò della bellezza, e quella maggiormente pragmatica dal filosofo definita come «corrente di vita», di volta in volta nutrita dall’inestinguibile molteplicità e autonomia dell’esperienza estetica stessa.[3]

    Inevitabile diviene perciò l’opposizione con l’estetica crociana e la collisione con i movimenti di pensiero più aperti e internazionali che porteranno, per traslato, lo ripetiamo, a ripercorrere il concetto dell’arte – leggi ancora fotografia – di questo periodo con un’ottica completamente nuova rispetto al precedente.

    La ricomposizione avviene ancora mediante i due indicati concetti dedotti dal Banfi e che definiscono, in sintesi, la dicotomia fra dogmatismo e pragmatismo. Per intenderci: decorativismo > funzionalità; gusto contro teoria. Del resto questo è un po’ il problema di tutta la fotografia e dell’arte in generale nel decennio affrontato.[4] Ed è tutto qui – e non è da poco – tutto riassumibile per mezzo delle due già indicate categorie estetiche di Banfi, che finiscono per definire, dal nostro punto di vista, la sperimentazione di un’arte fotografica da intendere soprattutto come tecnica, media funzionale valido per sé stesso, e dall’altra la determinazione di una tecnica artistica definita dal risultato, cioè dall’immagine in sé e per sé. La fotografia quindi come dogmatismo estetico abbinato, ed è il caso esplicito dell’Italia, con l’ideologia dominante.

    Si tratta di una dicotomia già a suo tempo verificata da Guido Pellegrini, allora Presidente del Circolo Fotografico Milanese, personaggio e teorico di spicco della fotografia italiana del periodo, per mezzo soprattutto delle sue cronache e recensioni pubblicate sulle pagine della rivista «Cinema». In particolare, nel descrivere i caratteri della fotografia a lui contemporanea, ne schematizza i tratti peculiari nell’ambivalenza fra «foto statica», che riproduce passivamente la visione propria dell’occhio umano, e «foto dinamica» che riproduce ciò che «vede» la camera oscura, la quale «per mezzo del suo occhio acutissimo e luminosissimo “ferma” sulla superficie oggi enormemente sensibile, nudamente e solamente “quello che è”».[5]

    In questo periodo ci troviamo comunque nel contesto di una vera e propria rivoluzione internazionale, legata soprattutto alla diffusione della pratica fotografica che vede come mezzo principale il lancio sul mercato di nuove macchine fotografiche economiche, di medio e piccolo formato. Tipo la Rolleiflex, immessa nel mercato dal 1929, cui fece seguito nel ’33 un modello più economico, la Rolleicord, ben presto gradita e utilizzata, oltre che dai foto-cronisti, anche da molti fotoamatori.[6]

    A queste va anche ricordata la distribuzione delle più note Leica, Reflex-Korelle e Contax, la prima utilizzata, fra gli altri, anche da Robert Capa e Gerda Taro durante il loro periodo di inviati free lance per documentare la Guerra di Spagna. Ma questa è tutta un’altra storia[7] rispetto a quella che andiamo ad analizzare, con ideali, concetti e inquadrature che insegnano altro rispetto al potere dominante.

    Possiamo realmente dire che negli anni Trenta ci troviamo in piena evoluzione della fotografia istantanea, ma non ancora totalmente di tipo amatoriale come avverrà più tardi e comunque nei decenni Quaranta-Cinquanta. Istantanea quindi, ma sempre legata alla visione artistica del soggetto da riprodurre, estrapolato “dal di dentro” della cronaca per divenire storia, seppur interpretata da angolazioni e prospettive diverse come nel caso di quello che abbiamo definito come «foto-riflessioni» di Aldo Baratti.

    Presente ad Asmara, in Eritrea, probabilmente già dagli anni Venti,[8] Baratti ha fatto sicuramente parte di quella serie di italiani emigrati nella parte orientale del Corno d’Africa dalla fine dell’Ottocento,[9] con un’accentuazione numerica realmente importante proprio fra gli anni Venti e Trenta, per mezzo anche – se non soprattutto – della propaganda del Regime Fascista.[10]

    Baratti comunque rientra senza ombra di dubbio fra i diffusori del “nuovo” mezzo di riproduzione meccanica in Eritrea dove, infatti, proprio dagli anni Trenta si rileva una notevole concentrazione locale di fotografi, anche non italiani.

    Molti, infatti, i professionisti eritrei della fotografia che fuoriescono dalla consultazione dei documenti e relazioni economiche dell’epoca, che spesso però non disponevano di un locale fisso dove svolgere la loro attività, un negozio e/o uno studio, anche per la mancanza di reperire i capitali giusti per dare forma ad un importante investimento produttivo com’era appunto quello dell’apertura di una sede commerciale, e che preferivano svolgere la loro attività in maniera, diciamo così, più flessibile.

    Ci troviamo di fronte alla presenza e all’attività in loco di quelli che venivano all’epoca inseriti nella categoria dei «Fotoambulanti» che, in un certo senso, riportano alla mente l’ormai famoso personaggio di Don Pasquale il fotografo, amico e coinquilino di Felice Sciosciammocca, felicemente descritto da Eduardo Scarpetta nel 1887 in Miseria e Nobiltà e che appunto professava l’attività di fotografo – in questo caso “semi-ambulante” – sotto il Teatro San Carlo di Napoli.[11]

    Aldo Baratti al contrario è iscritto già nel 1931 nel Registro delle ditte presenti in Eritrea, al n. 43, come «ditta / ragione sociale: individuale; oggetto del commercio o dell’industria: Studio fotografico e commercio in articoli fotografici; sede e succursali: Asmara».[12]

    Un professionista quindi, con sede professionale stabile registrata a suo nome, nella città dove vive da tempo, Asmara.

    Un fotografo non di guerra quindi, ma di realtà, quella realtà “esotica” tanto amata in Italia e che Baratti esportava come parte integrante del sogno italiano in Africa. In tale contesto colpisce la sua serie fotografica delle Venere nera, realizzata negli anni 1930-35, ancora oggi indubbiamente il concept fotografico più conosciuto di Baratti (fig. 1).

    Immagini originali di ragazze in posa, riprodotte poi in cartoline distribuite anche in Italia, con appunto «(…) giovani ragazze arabe e bilene, baria e cunama. Le foto erano in bianco e nero e per l’epoca erano terribilmente audaci perché offrivano la più stupefacente collezione di seni turgidi, di pose ardite e di sguardi provocanti. Destinate originariamente alle truppe del corpo di spedizione, le cartoline avevano conosciuto una larga diffusione anche in Italia».[13]

    Ritratti di giovani ragazze di colore realizzati da Baratti con un occhio particolarmente estetizzante, come a voler quasi rafforzare l’immagine iconica delle stesse rappresentate. Con in più un tocco “esotico”, o ritenuto tale, dato ad esempio dalle pelli animali dove le ragazze venivano sdraiate e/o sedute o da autoctone decorazioni parietali di scenografia.

    Evidente anche il taglio cinematografico della rappresentazione, dove, per l’immagine di questa serie di ritratti femminili, il fotografo fa uso di una specifica delineazione dell’utilizzo di un certo tipo di pose languide, divistiche, di tipo prettamente occidentale. Pose che però caricano la forza visuale della rappresentazione mediante il confronto/scontro con la semplicità dell’atteggiamento fisionomico di queste stesse ragazze, dei loro sorrisi che rimandano ancora alle loro coetanee italiane utilizzate nel cosiddetto cinema dei “telefoni bianchi” che proprio all’epoca andava invadendo il mercato cinematografico italiano e delle colonie italiche. E che tanto piaceva al pubblico italiano d’Italia e dell’Africa italiana.[14]

    Non è ovviamente da porre in secondo piano la sensualità della posa scelta per queste ragazze, altro elemento sul quale il fotografo andava vivamente insistendo, in modo quasi da implementare un nuovo mercato dell’immagine fotografica, fra Africa ed Europa, fra nord e sud, con ragazze nere in, quelle che si potremmo definire, “pose da bianche”. Continuando con i riferimenti cinematografici, potremmo dire che Baratti fotografava ragazze nere come ragazze “della porta accanto”, ovviamente più “spudorate” e ammiccanti rispetto al coevo contraltare filmico.

    Oltre a questa serie, Baratti si specializza anche in rappresentazioni più, diciamo così, sociali, sempre da collegare alla curiosità occidentale e del pubblico della madrepatria, mediante la realizzazione di fotografie scattate nei dintorni di Asmara e raffiguranti scene di vita e di lavoro quotidiano. Come nella serie Lavoro contadino, del periodo 1932-34 (figg. 2-3).

    In questo caso possiamo quasi parlare di istantanea e di un lavoro sull’immagine in qualche modo “meno accurato” per quanto riguarda la composizione della scena, rispetto alla serie Venere nera realizzata da Baratti totalmente nel suo studio di Asmara.

    Scatti comunque non casuali e non preparati, ma che proprio per questa loro ricercata immediatezza riescono a definire la freschezza e la semplicità della scena fermata dal fotografo.

    In tal senso ci troviamo proprio nell’attivazione pragmatica delle teorie già riportate di Guido Pellegrini, nella più totale ambivalenza proprio fra quella realizzazione di «foto statica» e «foto dinamica» che il teorico della fotografia aveva ampiamente teorizzato negli anni Trenta in Italia.

    Il tentativo di Baratti sembra essere quello di voler superare l’impasse del foto-documento nei confronti di una (pre)meditata idea di foto d’arte composta da immagini scarne, essenziali, emblematiche, che ormai, negli anni Trenta, era diventata serva integerrima del Fascismo e che, dopo la caduta del Regime, tornerà ad essere relegata a pura fonte di documentazione più che di arte, quasi di tipo sociale, in qualche modo antropologico, etnografico. Mentre a nostro avviso Baratti cerca di realizzare una fotografia che va decisamente al di là dello stereotipo dell’idea epica del mondo divulgata, ad esempio, da molto coeva fotografia americana, per una fotografia invece che seppur puntata verso la “diversità” della rappresentazione di razze e società, riesce però a farlo con un occhio che non è solo da colonizzatore ma appunto quello curioso e indagatore del fotografo e quindi dell’arte.

    Si veda in tal senso Scena rituale (fig. 4). In questo caso la scena fotografata da Baratti è identificabile con i rituali del clero copto che proprio nella comunità cristiana italiana delle colonie d’Africa aveva trovato un ambiente decisamene benevolo e disponibile, anche per quella sua particolarità di creare fulcri monacali dediti alla preghiera e all’aiuto sociale e familiare dei credenti, soprattutto nelle zone desertiche.

    La fotografia è giocata per giustapposizioni strutturali date dal trattamento dei corpi e dei panneggi delle vesti, come ad esempio in una fotografia di architettura di Luciano Morpurgo. Ma le fotografie di Baratti hanno comunque il pregio di non restare “mute” ma di trasmettere all’osservatore il senso, anche naturale, della realtà “così com’è”, con la pretesa quindi di “parlare”, di affermare anche un pensiero, una riflessione dell’artista fotografo relativa a ciò che vede e per chi guarda.

    Imprescindibile l’adesione alla retorica nazionalista del Fascismo, in un’epoca in cui la fotografia, con la sua connaturata attitudine indagatoria e rivelatrice, si era ormai già ampiamente avviata a divenire un potente e persuasivo mezzo mass-mediologico.

    Ma con Baratti ci sembra però che la fotografia torna ad essere, seppur nella logica di una contestualizzazione storica ben definita e di una impostazione culturale altamente identificata, elemento dinamico e pensiero, con in più quel senso più spiccatamente – sfacciatamente – esotico che tanto piaceva al Regime e ai suoi sudditi.

    La fotografia quindi si va sempre più ad integrare all’operazione intellettuale del fotografo, «foto-riflessioni» come l’abbiamo definita, in funzione ideologica e di Regime, il quale, preme ricordare, per lungo tempo ha affidato la divulgazione della propria immagine al mussoliniano Istituto Luce, laboratorio e medium di persuasione e di celebrazione dei miti del Regime stesso.

    In questo modo il fotografo Baratti supera in un colpo solo la divisione, ancora molto attuale nella pratica della fotografia italiana così come nelle teorizzazioni divulgate dalle riviste specializzate italiane del periodo, tra fotografia artistica e fotografia documentaria e sociale, cercando d’imporre, per quanto sia possibile da Asmara, un nuovo modo di fare e vedere la fotografia, focalizzata in primis su una sua propria e più totale forza di persuasione e perciò di pensiero, dove ovviamente l’intento politico non è minimamente da porre in secondo piano.

    [1] Cfr. A. Baratono, Il mondo sensibile. Introduzione all’estetica, Messina-Milano 1934.

    [2] A.L. De Castris, Egemonia e fascismo, Bologna 1981, p. 103.

    [3] Per quanto riguarda il pensiero di Antonio Banfi rimandiamo al suo Per un razionalismo critico, Como 1943 e alle Lezioni di estetica raccolte a cura di Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano 1945. Ricordiamo comunque che il pensiero di Antonio Banfi aveva ovviamente come unico riferimento critico la scrittura da noi nella presente sede applicato, come già anticipato, alla fotografia.

    [4] Per un maggior approfondimento della questione, sia a livello estetico che sul piano fotografico e quindi artistico del periodo, cfr. C. Crescentini, Dicotomie nella fotografia italiana all’epoca del déco, in F. Benzi a c. di, Il Deco in Italia, cat. mostra, Roma 2004, Milano 2004, pp. 302-317.

    [5] G. Pellegrini, La nuova fotografia, in «Il Progresso Fotografico», n. 3, 30 marzo 1933.

    [6] «Nell’evoluzione della macchina fotografica, vanno [anche] ricordate l’Exacta, che è stata la prima reflex monoculare di piccolo formato, cm 4x6,5 (1933), la Primarflex di Curt Bentzin, cm 5x6 (1934)». I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Roma-Bari 2003, p. 160.

    [7] Una storia così bene raccontata di recente sotto forma di romanzo da H. Janeczek, La ragazza con la Leica, Milano 2017, libro vincitore del LXXII Premio Strega.

    [8] A quanto risulta dalla residua e frammentata documentazione relativa all’attività fotografica di Aldo Baratti fra l’Italia e Asmara, ricordiamo che alcune sue foto risultano pubblicate nel testo: Prime letture tigrigna. Qadamaje masehafe nebabe, Asmara, Missione Evangelica, 1928. Mentre nel 1931 risulta «Premiata foto Baratti, Asmara – Massaua. Rappresentante esclusiva depositaria della casa M. Cappelli di Milano. Lastre – pellicole – carte. Fotografie artistiche e commerciali nere e colorate. Riproduzioni e ingrandimenti. Laboratorio per stampe e sviluppi per dilettanti con perfetto macchinario moderno. Ricco assortimento di materiale fotografico di 1° ordine. Vedute – usi – costumi e tipi della Colonia in qualsiasi formato. Montature inglesi e pittura ad acquarello e olio». Cfr. L. Goglia, Africa, colonialismo, fotografia: il caso italiano (1885-1940), in Fonti e problemi della politica coloniale italiana, Atti del Convegno di Studio, Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma 1996, pp. 827-829.

    [9] Ricordiamo, con solo un minimo cenno storico, che l’inizio dell’occupazione italiana dell’Eritrea avvenne nel novembre 1869 con l’avviò delle trattative per la cessione della Baia di Assab al Governo italiano, portate avanti da padre Giuseppe Sapeto per conto della Società di Navigazione Rubattino di Genova. Nel 1890 l’Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana. Cfr. per la storia del periodo, di “quel periodo”, nella sua versione commerciale: E.Q.M. Alamanni, La Colonia Eritrea e i suoi commerci, Torino 1891.

    [10] L’Eritrea, rispetto all’Etiopia e alla Somalia Italiana, fu indubbiamente la colonia con la più forte concentrazione di italiani civili. Si pensi che nel censimento del 1939 solo ad Asmara furono censiti 53.000 Italiani su una popolazione totale di 98.000 abitanti. Cfr. T. Negash, Italian colonisation in Eritrea: policies, praxis and Impact, Uppsala 1987.

    [11] Così come da trasposizione cinematografica del 1954 di Mario Mattoli, con Totò, Sophia Loren e Carlo Croccolo.

    [12] Cfr. quanto riportato presso l’Ufficio Eritreo dell’Economia, nel Registro delle ditte, 1° elenco delle ditte residenti nel territorio dello Hamasien (europei e assimilati), in Bollettino Economico dell’Eritrea, a. III, n. 33-34, marzo-aprile 1931, pp. 1177-1186. Nello stesso registro è presente anche un altro Baratti, Guido, iscritto al n. 104, sempre con ditta e ragione e/o ragione sociale individuale, proprietario del locale cinema “Dante” (Idem). Ad oggi non siamo riusciti a rivelare una possibile parentela fra i due Baratti attivi contemporaneamente ad Asmara. Il nome di Baratti è ancora presente nell’elenco ufficiale del 1939. Cfr. Rilevazione degli esercizi a carattere artigiano. Elenco delle attività artigiane, in Bollettino Economico dell’Eritrea, a. XII, n. 96, 31 ottobre 1939, p. 387.

    [13] A. Del Boca, L’Impero, in M. Isnaghi a c. di, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari 1996, pp. 423-424. In realtà Del Boca descrive Baratti come «un furbo tipografo di Asmara», mentre in realtà, come abbiamo già in parte affermato, il fotografo è iscritto come proprietario di uno studio fotografico e, quindi, come succedeva il più delle volte in Europa, attivo in prima persona nella professione di fotografo, alla quale si andava abbinando, quella appunto di rivenditore di prodotti fotografici. Più difficile pensarlo come tipografo anche se le fotografie le stampa sicuramente da solo nel proprio edificio commerciale. Anche questo in realtà rientra nella norma della professione, almeno fino agli anni Sessanta, periodo in cui il fotografo acquisisce una maggiore autonomia gestionale e concettuale della sua professione per divenire a tutti gli effetti artista, con lo studio che si trasforma da luogo anche di vendita ad appunto studio di posa fotografica tout court.

    [14] Per una visione di tale argomento di più ampio raggio cfr. N. La Banca, L. Tomassini a c. di, Album africano, Mandria 1997.

    https://lalbatros.it/index.php/arte/201-aldo-baratti-foto-riflessioni-e
    #Aldo_Baratti #photographie #photographie_coloniale #Afrique_orientale #Corne_de_l'Afrique #colonialisme #colonisation #exotisme

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  • L’émigration italienne en #Afrique_orientale

    La question migratoire eut des effets sur la #politique_coloniale italienne à partir de la fin du xixe siècle. L’Italie projeta de créer un empire où une part considérable des populations métropolitaines pourraient être envoyées. Mais la défaite d’Adoua face aux Éthiopiens en 1896 mit fin à ce rêve. En outre l’Érythrée comme la Somalie n’étaient pas en mesure d’accueillir autant d’immigrants européens. De plus, très peu de choses furent faites pour développer les infrastructures et l’économie des colonies. Seuls quelques milliers d’Italiens vécurent en Afrique orientale jusqu’en 1935.
    La situation se transforma radicalement lorsque Mussolini conquit l’Éthiopie. Le Duce rêvait de créer une nouvelle Italie en Afrique, où pourrait être expérimentée une société totalitaire inédite, conforme aux préceptes fascistes. L’Éthiopie aurait été peuplée par des centaines de milliers d’Italiens, qui par leur labeur auraient fait croître l’agriculture et le reste de l’économie. La #colonisation_fasciste s’inspirait de l’ancienne colonisation romaine. Un des problèmes les plus sérieux fut le développement des villes, notamment en raison de ses imbrications avec la politique démographique et raciale du régime fasciste.

    https://www.cairn.info/revue-annales-de-demographie-historique-2007-1-page-59.htm

    #émigration #migrations #migrants_italiens #colonialisme #Corne_de_l'Afrique #colonisation #fascisme #Erythrée #Somalie #Ethiopie #impérialisme #agriculture #économie #politique_démographique #politique_raciale

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  • Historic drought looms for 20 million living in Horn of Africa
    https://www.nationalgeographic.com/environment/article/historic-drought-looms-for-20-million-living-in-horn-of-africa?c

    As many as 20 million people in four African countries are facing extreme hardship and food shortages as an exceptionally long and severe drought grips the eastern Horn of Africa. Three rainy seasons in a row have failed to materialize. Now scientists and relief agencies fear that the next forecast one—scheduled to bring rain to Djibouti, Ethiopia, Kenya, and Somalia this month—will follow suit.


    #famine #climat

  • Decolonizzare la città. Dialoghi Visuali a Padova -
    Decolonizing the city. Visual Dialogues in Padova

    Il video partecipativo, realizzato con studenti e studentesse del laboratorio Visual Research Methods (prof.ssa Annalisa Frisina) del corso LM Culture, Formazione e Società Globale, esplora l’eredità coloniale inscritta nelle vie e piazza di Padova. I sei protagonisti/e del video, artist* e attivit* afrodiscendenti, dialogano con questi luoghi, mettendo in atto contronarrazioni intime e familiari che sfidano la storia ufficiale, lasciando tracce del loro passaggio.

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    The participatory video made by the students of Visual Research Methods laboratory (prof. Annalisa Frisina), Master’s degree in Cultures, Education and Global Society, explores the colonial legacy of Padova’s roads and squares. Six afro-descendent artists and activists interact with these places, giving life to intimate counter-narratives that challenge the official history, leaving their personal traces.

    https://www.youtube.com/watch?v=B6CtMsORajE

    Quelques images tirées du film :


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    Où on apprend que les enfants « métissés » étaient appelés « #figli_di_due_bandiere » (fils de deux drapeaux)

    #villes #décolonial #décoloniser_la_ville #Italie #Padoue #Padova #héritage_colonial #colonialisme #toponymie #toponymie_politique #géographie_urbaine #historicisation #histoire #traces #mariage_mixte #Corne_de_l'Afrique #colonialisme_italien #Antenore #fascisme #histoire_coloniale #impérialisme #piazza_Antenore #citoyenneté #néo-colonialisme #pouvoir #Amba_Aradam #blessure
    #TRUST #Master_TRUST
    #film #film_documentaire

    ping @cede @karine4 @isskein

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  • L’oublieuse mémoire coloniale italienne

    Commencée avant le fascisme, galvanisée par Mussolini, la colonisation par l’Italie de la Libye, de la Somalie et de l’Ethiopie fut marquée par de nombreuses atrocités,loin du mythe d’une occupation douce. Longtemps refoulés, ces souvenirs commencent à ressurgir

    Tout commence dans le centre de Rome, sur l’Esquilin, la plus haute des sept collines antiques. Plus précisément dans la cage d’escalier d’un immeuble sans ascenseur, situé à deux pas de la piazza Vittorio. Dans ce quartier à deux pas de la gare Termini, les prix de l’immobilier sont beaucoup plus modestes que dans le reste du centre, si bien que l’Esquilin est devenu, depuis une vingtaine d’années, un lieu de concentration de l’immigration africaine et asiatique, ce qui n’est pas sans provoquer des tensions le squat, occupé depuis 2003 par les militants néofascistes de CasaPound, est juste à côté.

    C’est donc là, en rentrant chez elle, épuisée, dans la touffeur d’une après-midi de fin d’été 2010, qu’Ilaria Profeti se retrouve nez à nez avec un jeune homme arrivé d’Ethiopie par la route des migrants. Dans un italien presque sans accent, celui-ci lui assure, documents à l’appui, qu’il est le petit-fils de son père, Attilio, un homme de 95 ans qui est resté, sa longue vie durant, plus que discret sur ses jeunes années de « chemise noire » fasciste, en Abyssinie.

    Levons toute ambiguïté : la scène qui vient d’être décrite est tout à fait vraisemblable, mais elle est issue d’une oeuvre de fiction. Il s’agit en réalité des premières pages d’un roman, le superbe Tous, sauf moi (Sangue giusto), de Francesca Melandri (Gallimard, 2019), qui dépeint avec une infinie subtilité les angles morts de la mémoire coloniale italienne. Le fil conducteur de la narration est le parcours sinueux d’un vieil homme dont le destin finalement assez ordinaire a valeur d’archétype.

    Issu d’un milieu plutôt modeste, Attilio Profeti a su construire à sa famille une position plutôt enviable, en traversant le mieux possible les différents mouvements du XXe siècle. Fasciste durant sa jeunesse, comme l’immense majorité des Italiens de son âge, il est parti pour l’Ethiopie, au nom de la grandeur impériale. Après la chute de Mussolini et la fin de la guerre, il parviendra aisément à se faire une place au soleil dans l’Italie du miracle économique, jouant de son physique avantageux et de ses amitiés haut placées, et enfouissant au plus profond de sa mémoire le moindre souvenir de ses années africaines, les viols, les massacres, les attaques chimiques. C’est ce passé, refoulé avec une certaine désinvolture, qui revient hanter ses enfants, trois quarts de siècle plus tard, sous les traits d’un jeune homme d’une vingtaine d’années, arrivé à Rome après une interminable traversée.

    Comme l’héroïne de Tous, sauf moi, Francesca Melandri vit sur l’Esquilin, au dernier étage d’un immeuble à la population mélangée. Et à l’image d’Ilaria, c’est sur le tard qu’elle a découvert ce pan escamoté de l’histoire italienne. « Quand j’étais à l’école, on ne parlait pas du tout de ce sujet-là, confie-t-elle depuis sa terrasse dominant les toits de la ville. Aujourd’hui ça a changé, il y a eu une prise de conscience, et de nombreux travaux universitaires. Pourtant cette histoire n’est jamais rappelée par les médias. Lorsqu’on parle du dernier attentat à la bombe à Mogadiscio, qui se souvient des liens entre Italie et Somalie ? Quand des bateaux remplis de migrants érythréens sont secourus ou coulent avant d’être sauvés, qui rappelle que l’Erythrée, nous l’appelions "l’aînée des colonies" ? »

    Le plus étrange est qu’à Rome, les traces du passé colonial sont légion, sans que personne n’ait jamais pensé à les effacer. Des stèles près desquelles personne ne s’arrête, des bâtiments anonymes, des noms de rue... rien de tout cela n’est explicité, mais tout est à portée de main.

    Comprendre les raisons de cette occultation impose de revenir sur les conditions dans lesquelles l’ « Empire » italien s’est formé. Création récente et n’ayant achevé son unité qu’en 1870, alors que la plus grande partie du monde était déjà partagée en zones d’influence, le royaume d’Italie s’est lancé avec du retard dans la « course » coloniale. De plus, il ne disposait pas, comme l’Allemagne qui s’engage dans le mouvement à la même époque, d’une puissance industrielle et militaire susceptible d’appuyer ses prétentions.

    Visées impérialistes

    Malgré ces obstacles, l’entreprise coloniale est considérée par de nombreux responsables politiques comme une nécessité absolue, à même d’assurer une fois pour toutes à l’Italie un statut de grande puissance, tout en achevant le processus d’unification du pays nombre des principaux avocats de la colonisation viennent de la partie méridionale du pays. Les visées impérialistes se dirigent vers deux espaces différents, où la carte n’est pas encore tout à fait figée : la Méditerranée, qui faisait figure de champ naturel d’épanouissement de l’italianité, et la Corne de l’Afrique, plus lointaine et plus exotique.

    En Afrique du Nord, elle se heurta vite à l’influence française, déjà solidement établie en Algérie. Ses prétentions sur la Tunisie, fondées sur la proximité de la Sicile et la présence sur place d’une importante communauté italienne, n’empêcheront pas l’établissement d’un protectorat français, en 1881. Placé devant le fait accompli, le jeune royaume d’Italie considérera l’initiative française comme un véritable acte de guerre, et la décennie suivante sera marquée par une profonde hostilité entre Paris et Rome, qui poussera le royaume d’Italie à s’allier avec les grands empires centraux d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie plutôt qu’avec sa « soeur latine .

    Sur les bords de la mer Rouge, en revanche, la concurrence est plus faible. La première tête de pont remonte à 1869, avec l’acquisition de la baie d’Assab (dans l’actuelle Erythrée) par un armateur privé, pour le compte de la couronne d’Italie. Cette présence s’accentue au cours des années 1880, à mesure du recul de l’influence égyptienne dans la zone. En 1889, est fondée la colonie d’Erythrée, tandis que se structure au même moment la Somalie italienne. Mais l’objectif ultime des Italiens est la conquête du my thique royaume d’Abyssinie, qui s’avère plus difficile que prévu.

    En 1887, à Dogali, plusieurs centaines de soldats italiens meurent dans une embuscade menée par un chef abyssin, le ras Alula Engida. Cette défaite marque les esprits, mais ce n’est rien à côté de la déconfiture des forces italiennes lors de la bataille d’Adoua, le 1er mars 1896, qui porte un coup d’arrêt durable aux tentatives italiennes de conquête.

    Seul pays africain indépendant (avec le Liberia), l’Ethiopie peut désormais se targuer de devoir sa liberté à une victoire militaire. Le négus Menelik II y gagne un prestige considérable. Côté italien, en revanche, cette défaite est un électrochoc. Ressentie comme une honte nationale, la déroute des troupes italiennes entraîne la chute du gouvernement Crispi et freine durablement l’im périalisme italien.

    Adoua est un tournant. L’historien et ancien sénateur de gauche Miguel Gotor est l’auteur d’une remarquable synthèse sur le XXe siècle italien, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (« L’Italie du XIXe siècle. De la défaite d’Adoua à la victoire d’Amazon » Einaudi, 2019, non traduit). Pour lui, c’est là-bas, sur les hauteurs de la région du Tigré, par cette humiliation retentissante, que le XXe siècle italien a commencé.

    L’aventure coloniale italienne s’est ouverte de façon peu concluante, mais l’aspiration à l’empire n’a pas disparu. La décomposition de l’Empire ottoman offrira à Rome une occasion en or, en lui permettant, en 1911-1912, de s’implanter solidement en Cyrénaïque et en Tripolitaine. « Souvent la conquête de ce qui allait devenir la Libye est évacuée un peu vite, mais c’est un moment très important. Pour l’armée italienne, c’est une répétition, un peu comme a pu l’être la guerre d’Espagne, juste avant la seconde guerre mondiale », souligne Miguel Gotor. Ainsi, le 1er novembre 1911, un aviateur italien lâche quatre grenades sur des soldats ottomans, réalisant ainsi le premier bombardement aérien de l’histoire mondiale.

    « La conquête des côtes d’Afrique du Nord est importante, certes, mais la Libye est juste en face de la Sicile, au fond c’est du "colonialisme frontalier". La colonie au sens le plus "pur", celle qui symboliserait le mieux l’idée d’empire, ça reste l’Abyssinie », souligne Miguel Gotor. Aussi les milieux nationalistes italiens, frustrés de ne pas avoir obtenu l’ensemble de leurs revendications territoriales au sortir de la première guerre mondiale, continueront à nourrir le rêve de venger l’humiliation d’Adoua.

    Le fascisme naissant ne se privera pas d’y faire référence, et d’entretenir le souvenir : les responsables locaux du parti se feront appeler « ras », comme les chefs éthiopiens. A partir de la fin des années 1920, une fois le pouvoir de Mussolini solidement établi, les prétentions coloniales deviendront un leitmotiv des discours officiels.

    Aussi la guerre de conquête déclenchée contre l’Ethiopie en 1935 est-elle massi vement soutenue. L’effort est considérable : plus de 500 000 hommes sont mobilisés. Face à un tel adversaire, le négus Haïlé Sélassié ne peut résister frontalement. Le 5 mai 1936, les soldats italiens entrent dans la capitale, Addis-Abeba, et hissent le drapeau tricolore. Quatre jours plus tard, à la nuit tombée, depuis le balcon du Palazzo Venezia, en plein coeur de Rome, Mussolini proclame « la réapparition de l’Empire sur les collines fatales de Rome » devant une foule de plusieurs centaines de milliers de personnes.

    « C’est bien simple, à ce moment-là, en Italie, il est à peu près impossible d’être anti fasciste », résume Miguel Gotor. Dans la foulée de ce succès, le roi Victor-Emmanuel III est proclamé empereur d’Ethiopie ; Benito Mussolini peut désormais se targuer d’avoir bâti un empire. La faillite d’Adoua avait été causée par un régime parle mentaire inefficace et désorganisé ? La victoire de 1936 est due, elle, aux vertus d’une Italie rajeunie et revigorée par le fascisme. La machine de propagande tourne à plein régime, l’assentiment populaire est à son sommet. « Ce moment-là est une sorte d’apogée, et à partir de là, la situation du pays se dégrade, analyse Miguel Gotor. Ar rivent les lois raciales, l’entrée en guerre... tout est réuni pour nourrir une certaine nostalgie de l’épopée éthiopienne. »

    Mécanisme de refoulement

    Le rêve impérial sera bref : il ne survivra pas à la défaite militaire et à la chute du fascisme. L’Ethiopie est perdue en 1941, la Libye quelques mois plus tard... Le traité de Paris, conclu en 1947, met officiellement un terme à une colonisation qui, dans les faits, avait déjà cessé d’exister depuis plusieurs années. Tandis que l’Ethiopie indépendante récupère l’Erythrée, la Libye est placée sous la tutelle de la France et du Royaume-Uni. Rome gardera seulement une vague tutelle sur la Somalie, de 1949 à 1960.

    Le projet d’empire colonial en Méditerranée et en Afrique, qui fut un des ciments de l’assentiment des Italiens à Mussolini, devient associé pour la plupart des Italiens au régime fasciste. L’un et l’autre feront l’objet du même mécanisme de refoulement dans l’Italie de l’après-guerre. Les dirigeants de l’Italie républicaine font rapidement le choix de tourner la page, et ce choix est l’objet d’un profond consensus qui couvre tout le spectre politique (le premier décret d’amnistie des condamnations de l’après-guerre remonte à 1946, et il porte le nom du dirigeant historique du Parti communiste italien Palmiro Togliatti). Les scènes de liesse de la Piazza Venezia ne seront plus évoquées, et avec elles les faces les plus sombres de l’aventure coloniale. Même la gauche transalpine, qui prendra fait et cause pour les mouvements anticoloniaux africains (notamment le FLN algérien) n’insistera jamais sur le versant italien de cette histoire.

    « Cela n’est pas étonnant, la mémoire est un phénomène sélectif, et on choisit toujours, consciemment ou non, ce qu’on va dire à ses enfants ou ses petits-enfants », remarque le jeune historien Olindo De Napoli (université de Naples-Frédéric-II), spécialiste de la période coloniale. « Durant l’immédiat après-guerre, ce sont les témoins qui parlent, ce sont eux qui publient », remarque l’his torien. Ainsi de la collection d’ouvrages L’Italia in Africa éditée sous l’égide du ministère des affaires étrangères, emblématique de la période. « Ces volumes sont passionnants, mais il y a certains oublis, qui vont vite poser des problèmes. »

    Parmi ces « oublis », la question la plus centrale, qui fera le plus couler d’encre, est celle des massacres de civils et de l’usage de gaz de combat, malgré leur interdiction par les conventions de Genève, lors de la guerre d’Ethiopie. Dans les années 1960, les études pionnières d’Angelo Del Boca et Giorgio Rochat mettront en lumière, documents officiels à la clé, ce pan occulté de la guerre de 1935-1936. Ils se heurteront à l’hostilité générale des milieux conservateurs.

    Un homme prendra la tête du mouvement de contestation des travaux de Del Bocaet Rochat : c’est Indro Montanelli (1909-2001), considéré dans les années 1960 comme le journaliste le plus important de sa géné ration. Plume du Corriere della Sera (qu’il quittera pour fonder Il Giornale en 1974), écrivain d’essais historiques à l’immense succès, Montanelli était une figure tutélaire pour toute la droite libérale.

    Comme tant d’autres, il avait été un fasciste convaincu, qui s’était porté volontaire pour l’Ethiopie, et il n’a pris ses distances avec Mussolini qu’en 1943, alors que la défaite était apparue comme certaine. Ra contant « sa » guerre à la tête d’une troupe de soldats indigènes, Montanelli la décrit comme « de longues et belles vacances », et qualifie à plusieurs reprises d’ « anti-Italiens » ceux qui font état de massacres de civils et d’usage de gaz de combat. La polémique durera des années, et le journaliste sera bien obligé d’admettre, à la fin de sa vie, que les atrocités décrites par Rochat et Del Bocaavaient bien eu lieu, et avaient même été expressément ordonnées par le Duce.

    A sa manière, Montanelli incarne parfaitement la rhétorique du « bon Italien » (« Italia brava gente »), qui sera, pour toute une génération, une façon de disculper l’homme de la rue de toute forme de culpabilité collective face au fascisme. Selon ce schéma, contrairement à son allié allemand, le soldat italien ne perd pas son humanité en endossant l’uniforme, et il est incapable d’actes de barbarie. Ce discours atténuant la dureté du régime s’étend jusqu’à la personne de Mussolini, dépeint sous les traits d’un chef un peu rude mais bienveillant, dont le principal tort aura été de s’allier avec les nazis.

    Ce discours trouve dans l’aventure coloniale un terrain particulièrement favorable. « Au fond, on a laissé s’installer l’idée d’une sorte de colonisation débonnaire, analyse Olindo De Napoli, et ce genre de représentation laisse des traces. Pourtant la colonisation italienne a été extrêmement brutale, avant même le fascisme. En Ethiopie, l’armée italienne a utilisé des soldats libyens chargés des basses oeuvres, on a dressé des Africains contre d’autres Africains. Et il ne faut pas oublier non plus que les premières lois raciales, préfigurant celles qui seront appliquées en 1938 en Italie, ont été écrites pour l’Ethiopie... Il ne s’agit pas de faire en sorte que des enfants de 16 ans se sentent coupables de ce qu’ont fait leurs arrière-grands-pères, il est seulement question de vérité historique. »

    Désinvolture déconcertante

    Malgré les acquis de la recherche, pour le grand public, la colonisation italienne reste souvent vue comme une occupation « douce », par un peuple de jeunes travailleurs prolétaires, moins racistes que les Anglais, qui se mélangeaient volontiers avec les populations locales, jusqu’à fonder des familles. L’archétype du colon italien tombant amoureux de la belle Abyssine, entretenu par les mémoires familiales, a lui aussi mal vieilli. Là encore, le parcours d’Indro Montanelli est plus qu’éclairant. Car aujourd’hui, si sa défense de l’armée italienne apparaît comme parfaitement discréditée, ce n’est plus, le concernant, cet aspect de sa vie qui fait scandale.

    En effet, on peut facilement trouver, sur Internet, plusieurs extraits d’entretiens télévisés remontant aux années 1970 et 1980, dans lesquelles le journaliste raconte avec une désinvolture déconcertante comment, en Ethiopie, il a « acheté régulièrement » à son père, pour 350 lires, une jeune fille de 12 ans pour en faire sa femme à plusieurs reprises, il la qualifie même de « petit animal docile », devant un auditoire silencieux et appliqué.

    Célébré comme une gloire nationale de son vivant, Indro Montanelli a eu l’honneur, à sa mort et malgré ces déclarations sulfureuses, de se voir dédié à Milan un jardin public, au milieu duquel trône une statue de lui. Au printemps 2019, cette statue a été recouverte d’un vernis de couleur rose par un collectif féministe, pour rappeler cet épisode, et en juin 2020, la statue a de nouveau été recouverte de peinture rouge, en lointain écho au mouvement Black Lives Matter (« les vies noires comptent ») venu des Etats-Unis.

    Indro Montanelli mérite-t-il une statue dans l’Italie de 2021 ? La question a agité les journaux italiens plusieurs jours, au début de l’été, avant que la polémique ne s’éteigne d’elle-même. Pour fondée qu’elle soit, la question semble presque dérisoire eu égard au nombre de témoignages du passé colonial, rarement explicités, qui subsistent un peu partout dans le pays.

    Cette situation n’est nulle part plus visible qu’à Rome, que Mussolini rêvait en capitale d’un empire africain. L’écrivaine italienne Igiaba Scego, née en 1974 de parents réfugiés somaliens, y a dédié un passionnant ouvrage, illustré par les photographies de Rino Bianchi (Roma negata, Ediesse, réédition 2020, non traduit).

    Passant par la stèle laissée à l’abandon de la piazza dei Cinquecento, face à la gare Termini, dont la plupart des Romains ignorent qu’elle a été baptisée ainsi en mémoire des 500 victimes italiennes de l’embuscade de Dogali, ou l’ancien cinéma Impero, aujourd’hui désaffecté, afin d’y évoquer l’architecture Art déco qui valut à la capitale érythréenne, Asmara, d’être classée au patrimoine de l’Unesco, la romancière fait une station prolongée devant le siège romain de la FAO (l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture), construit pour abriter le siège du puissant ministère de l’Afrique italienne.

    Devant ce bâtiment tout entier dédié à l’entreprise coloniale, Benito Mussolini avait fait ériger en 1937 un obélisque haut de 24 mètres et vieux d’environ seize siècles, ramassé sur site d’Axoum, en Ethiopie. Il s’agissait, rappelle Igiaba Scego, de faire de ce lieu « le centre de la liturgie impériale .

    La république née sur les ruines du fascisme s’était engagée à restituer cette prise de guerre à la suite des traités de 1947, mais après d’innombrables vicissitudes, le monument est resté en place jusqu’en 2003, où le gouvernement Berlusconi choisit de le démonter en trois morceaux avant de le renvoyer à Axoum, à ses frais.

    En 2009, la mairie de Rome a fait installer sur la même place, à deux pas de cet espace vide, une stèle commémorative afin « de ne pas oublier le passé . Mais curieusement, celle-ci a été dédiée... à la mémoire des attentats du 11-Septembre. Comme s’il fallait enfouir le plus profondément possible ce souvenir du rêve impérial et de la défaite, la ville a choisi de faire de ce lieu le symbole d’une autre tragédie. « Pourquoi remuer ces his toires horribles ? Pensons plutôt aux tragédies des autres. Le 11-Septembre était parfait », note, sarcastique, Igiaba Scego.

    A une quinzaine de kilomètres de là, dans le décor grandiose et écrasant du Musée de la civilisation romaine, en plein centre de ce quartier de l’EUR où la mémoire du fascisme est omniprésente, l’ethno-anthropologue Gaia Delpino est confrontée à un autre chantier sensible, où s’entrechoquent les mémoires. Depuis 2017, elle travaille à fusionner en un même lieu les collections du vieux musée ethnologique de Rome (Musée Pigorini) et du sulfureux Musée colonial inauguré en 1923, dont les collections dormaient dans des caisses depuis un demi-siècle.

    D’une fascinante complexité

    Lorsqu’on lui parle de l’odyssée de l’obélisque d’Axoum, elle nous arrête tout de suite : « C’est bien simple : ce qui a été réalisé là-bas, c’est exactement l’inverse de ce qu’on veut faire. » Restituer ces collections dans leur contexte historique tout en articulant un message pour l’Italie d’aujourd’hui, permettre à toutes les narrations et à toutes les représentations de s’exprimer dans leur diversité... L’entreprise est d’une fascinante complexité.

    « Les collections du MuséePigorini ont vieilli bien sûr, comme tous ces musées ethnographiques du XIXe siècle qui véhiculaient l’idée d’une supériorité de la civilisation occidentale. Le Musée colonial, lui, pose d’autres problèmes, plus singuliers. Il n’a jamais été pensé comme autre chose qu’un moyen de propagande, montrant à la fois les ressources coloniales et tout ce qu’on pourrait en tirer. Les objets qui constituent les collections n’ont pas vu leur origine enregistrée, et on a mis l’accent sur la quantité plus que sur la qualité des pièces », expliqueGaia Delpino.

    Sur des centaines de mètres de rayonnages, on croise pêle-mêle des maquettes de navires, des chaussures, des outils et des objets liturgiques... L’accumulation donne le vertige. « Et ce n’est pas fini, nous recevons tous les jours des appels de personnes qui veulent offrir des objets ayant appartenu à leur père ou à leur grand-père, qu’ils veulent nous confier comme une réparation ou pour faire un peu de place », admet l’anthropologue dans un sourire.

    Alors que le travail des historiens peine à se diffuser dans le grand public, où les représentations caricaturales du système colonial, parfois instrumentalisées par la politique, n’ont pas disparu, le futur musée, dont la date d’ouverture reste incertaine pour cause de pandémie, risque d’être investi d’un rôle crucial, d’autant qu’il s’adressera en premier lieu à un public scolaire. « Ce qu’il ne faut pas oublier, c’est que parallèlement à ce difficile travail de mémoire, la population change. Aujourd’hui, dans nos écoles, il y a aussi des descendants de victimes de la colonisation, italienne ou autre. Nous devons aussi penser à eux », précise Gaia Delpino.

    Retournons maintenant au centre de Rome. En 2022, à mi-chemin du Colisée et de la basilique Saint-Jean-de-Latran, une nouvelle station de métro doit ouvrir, dans le cadre du prolongement de la ligne C. Depuis le début du projet, il était prévu que celle-ci soit baptisée « Amba Aradam », du nom de la large artère qui en accueillera l’entrée, appelée ainsi en souvenir de la plus éclatante des victoires italiennes en Ethiopie.

    Ce nom était-il opportun, alors que les historiens ont établi que cette victoire écrasante de l’armée fasciste avait été obtenue au prix de 10 000 à 20 000 morts, dont de nombreux civils, et que les troupes italiennes avaient obtenu la victoire en faisant usage d’ypérite (gaz moutarde), interdit par les conventions de Genève ? Le 1er août 2020, la mairie a finalement fait savoir que la station serait dédiée à la mémoire de Giorgio Marincola.

    Pour le journaliste Massimiliano Coccia, qui a lancé cette proposition avec le soutien de collectifs se réclamant du mouvement Black Lives Matter, « revenir sur notre passé, ce n’est pas détruire ou incendier, mais enrichir historiquement notre cité . Et on peut choisir de célébrer la mémoire d’un résistant italo-somalien tué par les nazis plutôt que celle d’une des pages les plus sombres de l’histoire coloniale italienne.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/02/05/libye-somalie-ethiopie-l-oublieuse-memoire-coloniale-italienne_6068846_3232.

    #Italie #colonialisme #colonisation #Mussolini #fascisme #Libye #Somalie #Ethiopie #atrocités #occupation_douce #mémoire #mémoire_coloniale #occultation #impérialisme #Corne_de_l'Afrique #baie_d'Assab #royaume_d'Abyssinie #Alula_Engida #bataille_d'Adoua #Menelik_II #Crispi #Adoua #Tigré #Cyrénaïque #Tripolitaine #colonialisme_frontalier #Abyssinie #Haïlé_Sélassié #propagande #traité_de_Paris #refoulement #mémoire #massacres #gaz #Indro_Montanelli #gaz_de_combat #bon_Italien #Italia_brava_gente #barbarie #humanité #lois_raciales #vérité_historique #culpabilité #viol #culture_du_viol #passé_colonial #Igiaba_Scego #monuments #toponymie #toponymie_politique #Axoum #stèle #Musée_Pigorini #musée #Musée_colonial #Amba_Aradam #ypérite #gaz_moutarde #armes_chimiques #Giorgio_Marincola #Black_Lives_Matter

    L’article parle notamment du #livre de #Francesca_Melandri, « #sangue_giusto » (traduit en français par « Tous, sauf moi »
    https://seenthis.net/messages/883118

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede

  • Au #Tigré_éthiopien, la #guerre « sans pitié » du prix Nobel de la paix

    Le premier ministre éthiopien #Abyi_Ahmed oppose une fin de non-recevoir aux offres de médiation de ses pairs africains, alors que les combats entre l’armée fédérale et les forces de la province du Tigré ne cessent de prendre de l’ampleur.

    Le gouvernement d’Addis Abéba continue de parler d’une simple opération de police contre une province récalcitrante ; mais c’est une véritable guerre, avec blindés, aviation, et des dizaines de milliers de combattants, qui oppose l’armée fédérale éthiopienne aux forces de la province du Tigré, dans le nord du pays.

    Trois semaines de combats ont déjà provoqué l’afflux de 30 000 #réfugiés au #Soudan voisin, et ce nombre pourrait rapidement grimper après l’ultimatum lancé hier soir par le gouvernement aux rebelles : 72 heures pour se rendre. L’#armée demande aussi à la population de la capitale tigréenne, #Makelle, de se « libérer » des dirigeants du #Front_de_libération_du_peuple_du_Tigré, au pouvoir dans la province ; en cas contraire, a-t-elle prévenu, « il n’y aura aucune pitié ».

    Cette escalade rapide et, en effet, sans pitié, s’accompagne d’une position inflexible du premier ministre éthiopien, Abyi Ahmed, vis-à-vis de toute médiation, y compris celle de ses pairs africains. Addis Abéba a opposé une fin de non-recevoir aux tentatives de médiation, celle des voisins de l’Éthiopie, ou celle du Président en exercice de l’Union africaine, le sud-africain Cyril Ramaphosa. Ils seront poliment reçus à Addis Abéba, mais pas question de les laisser aller au Tigré ou de rencontrer les leaders du #TPLF, le front tigréen considéré comme des « bandits ».

    Pourquoi cette position inflexible ? La réponse se trouve à la fois dans l’histoire particulièrement violente de l’Éthiopie depuis des décennies, et dans la personnalité ambivalente d’Abyi Ahmed, le chef du gouvernement et, ne l’oublions pas, prix Nobel de la paix l’an dernier.

    L’histoire nous donne des clés. Le Tigré ne représente que 6% des 100 millions d’habitants de l’Éthiopie, mais il a joué un rôle historique déterminant. C’est du Tigré qu’est partie la résistance à la sanglante dictature de Mengistu Haile Mariam, qui avait renversé l’empire d’Haile Selassie en 1974. Victorieux en 1991, le TPLF a été au pouvoir pendant 17 ans, avec à sa tête un homme fort, Meles Zenawi, réformateur d’une main de fer, qui introduira notamment le fédéralisme en Éthiopie. Sa mort subite en 2012 a marqué le début des problèmes pour les Tigréens, marginalisés après l’élection d’Abyi Ahmed en 2018, et qui l’ont très mal vécu.

    La personnalité d’Abyi Ahmed est aussi au cœur de la crise actuelle. Encensé pour ses mesures libérales, le premier ministre éthiopien est également un ancien militaire inflexible, déterminé à s’opposer aux forces centrifuges qui menacent l’unité de l’ex-empire.

    Ce contexte laisse envisager un #conflit prolongé, car le pouvoir fédéral ne renoncera pas à son offensive jusqu’à ce qu’il ait, au minimum, repris Mekelle, la capitale du Tigré. Or cette ville est à 2500 mètres d’altitude, dans une région montagneuse où les avancées d’une armée régulière sont difficiles.

    Quant au front tigréen, il a vraisemblablement envisagé une position de repli dans la guerrilla, avec des forces aguerries, dans une région qui lui est acquise.

    Reste l’attitude des pays de la région, qui risquent d’être entrainés dans cette #guerre_civile, à commencer par l’Érythrée voisine, déjà touchée par les hostilités.

    C’est une tragédie pour l’Éthiopie, mais aussi pour l’Afrique, car c’est le deuxième pays le plus peuplé du continent, siège de l’Union africaine, l’une des locomotives d’une introuvable renaissance africaine. L’Afrique doit tout faire pour mettre fin à cette guerre fratricide, aux conséquences dévastatrices.

    https://www.franceinter.fr/emissions/geopolitique/geopolitique-23-novembre-2020

    #Ethiopie #Tigré #Corne_de_l'Afrique #Tigray

    • Conflict between Tigray and Eritrea – the long standing faultline in Ethiopian politics

      The missile attack by the Tigray People’s Liberation Front on Eritrea in mid-November transformed an internal Ethiopian crisis into a transnational one. In the midst of escalating internal conflict between Ethiopia’s northernmost province, Tigray, and the federal government, it was a stark reminder of a historical rivalry that continues to shape and reshape Ethiopia.

      The rivalry between the Tigray People’s Liberation Front and the movement which has governed Eritrea in all but name for the past 30 years – the Eritrean People’s Liberation Front – goes back several decades.

      The histories of Eritrea and Ethiopia have long been closely intertwined. This is especially true of Tigray and central Eritrea. These territories occupy the central massif of the Horn of Africa. Tigrinya-speakers are the predominant ethnic group in both Tigray and in the adjacent Eritrean highlands.

      The enmity between the Tigray People’s Liberation Front and the Eritrean People’s Liberation Front dates to the mid-1970s, when the Tigrayan front was founded in the midst of political turmoil in Ethiopia. The authoritarian Marxist regime – known as the Derg (Amharic for ‘committee’) – inflicted violence upon millions of its own citizens. It was soon confronted with a range of armed insurgencies and socio-political movements. These included Tigray and Eritrea, where the resistance was most ferocious.

      The Tigrayan front was at first close to the Eritrean front, which had been founded in 1970 to fight for independence from Ethiopia. Indeed, the Eritreans helped train some of the first Tigrayan recruits in 1975-6, in their shared struggle against Ethiopian government forces for social revolution and the right to self-determination.

      But in the midst of the war against the Derg regime, the relationship quickly soured over ethnic and national identity. There were also differences over the demarcation of borders, military tactics and ideology. The Tigrayan front eventually recognised the Eritreans’ right to self-determination, if grudgingly, and resolved to fight for the liberation of all Ethiopian peoples from the tyranny of the Derg regime.

      Each achieved seminal victories in the late 1980s. Together the Tigrayan-led Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front and the Eritrean front overthrew the Derg in May 1991. The Tigrayan-led front formed government in Addis Ababa while the Eritrean front liberated Eritrea which became an independent state.

      But this was just the start of a new phase of a deep-rooted rivalry. This continued between the governments until the recent entry of prime minister Abiy Ahmed.

      If there’s any lesson to be learnt from years of military and political manoeuvrings, it is that conflict in Tigray is unavoidably a matter of intense interest to the Eritrean leadership. And Abiy would do well to remember that conflict between Eritrea and Tigray has long represented a destabilising fault line for Ethiopia as well as for the wider region.
      Reconciliation and new beginnings

      In the early 1990s, there was much talk of reconciliation and new beginnings between Meles Zenawi of Ethiopia and Isaias Afeworki of Eritrea. The two governments signed a range of agreements on economic cooperation, defence and citizenship. It seemed as though the enmity of the liberation war was behind them.

      Meles declared as much at the 1993 Eritrean independence celebrations, at which he was a notable guest.

      But deep-rooted tensions soon resurfaced. In the course of 1997, unresolved border disputes were exacerbated by Eritrea’s introduction of a new currency. This had been anticipated in a 1993 economic agreement. But in the event Tigrayan traders often refused to recognise it, and it caused a collapse in commerce.

      Full-scale war erupted over the contested border hamlet of Badme in May 1998. The fighting swiftly spread to other stretches of the shared, 1,000 km long frontier. Air strikes were launched on both sides.

      It was quickly clear, too, that this was only superficially about borders. It was more substantively about regional power and long standing antagonisms that ran along ethnic lines.

      The Eritrean government’s indignant anti-Tigray front rhetoric had its echo in the popular contempt for so-called Agame, the term Eritreans used for Tigrayan migrant labourers.

      For the Tigray front, the Eritrean front was the clearest expression of perceived Eritrean arrogance.

      As for Isaias himself, regarded as a crazed warlord who had led Eritrea down a path which defied economic and political logic, it was hubris personified.

      Ethiopia deported tens of thousands of Eritreans and Ethiopians of Eritrean descent.

      Ethiopia’s decisive final offensive in May 2000 forced the Eritrean army to fall back deep into their own territory. Although the Ethiopians were halted, and a ceasefire put in place after bitter fighting on a number of fronts, Eritrea had been devastated by the conflict.

      The Algiers Agreement of December 2000 was followed by years of standoff, occasional skirmishes, and the periodic exchange of insults.

      During this period Ethiopia consolidated its position as a dominant power in the region. And Meles as one of the continent’s representatives on the global stage.

      For its part Eritrea retreated into a militaristic, authoritarian solipsism. Its domestic policy centred on open-ended national service for the young. Its foreign policy was largely concerned with undermining the Ethiopian government across the region. This was most obvious in Somalia, where its alleged support for al-Shabaab led to the imposition of sanctions on Asmara.

      The ‘no war-no peace’ scenario continued even after Meles’s sudden death in 2012. The situation only began to shift with the resignation of Hailemariam Desalegn against a backdrop of mounting protest across Ethiopia, especially among the Oromo and the Amhara, and the rise to power of Abiy.

      What followed was the effective overthrow of the Tigray People’s Liberation Front which had been the dominant force in the Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front coalition since 1991.

      This provided Isaias with a clear incentive to respond to Abiy’s overtures.
      Tigray’s loss, Eritrea’s gain

      A peace agreement between Ethiopia and Eritrea, was signed in July 2018 by Abiy and Eritrean President Isaias Afeworki. It formally ended their 1998-2000 war. It also sealed the marginalisation of the Tigray People’s Liberation Front. Many in the Tigray People’s Liberation Front were unenthusiastic about allowing Isaias in from the cold.

      Since the 1998-2000 war, in large part thanks to the astute manoeuvres of the late Prime Minister Meles Zenawi, Eritrea had been exactly where the Tigray People’s Liberation Front wanted it: an isolated pariah state with little diplomatic clout. Indeed, it is unlikely that Isaias would have been as receptive to the deal had it not involved the further sidelining of the Tigray People’s Liberation Front, something which Abiy presumably understood.

      Isaias had eschewed the possibility of talks with Abiy’s predecessor, Hailemariam Desalegn. But Abiy was a different matter. A political reformer, and a member of the largest but long-subjugated ethnic group in Ethiopia, the Oromo, he was determined to end the Tigray People’s Liberation Front’s domination of Ethiopian politics.

      This was effectively achieved in December 2019 when he abolished the Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front and replaced it with the Prosperity Party.

      The Tigray People’s Liberation Front declined to join with the visible results of the current conflict.

      À lire aussi : Residual anger driven by the politics of power has boiled over into conflict in Ethiopia

      Every effort to engage with the Tigrayan leadership – including the Tigray People’s Liberation Front – in pursuit of a peaceful resolution must also mean keeping Eritrea out of the conflict.

      Unless Isaias is willing to play a constructive role – he does not have a good track record anywhere in the region in this regard – he must be kept at arm’s length, not least to protect the 2018 peace agreement itself.

      https://theconversation.com/conflict-between-tigray-and-eritrea-the-long-standing-faultline-in-

      #Derg #histoire #frontières #démarcation_des_frontières #monnaie #Badme #Agame #travailleurs_étrangers #Oromo #Ethiopian_People’s_Revolutionary_Democratic_Front #Prosperity_Party

      –—

      #Agame , the term Eritreans used for Tigrayan migrant labourers.

      –-> #terminologie #vocabulaire #mots
      ping @sinehebdo

    • Satellite Images Show Ethiopia Carnage as Conflict Continues
      – United Nations facility, school, clinic and homes burned down
      – UN refugee agency has had no access to the two camps

      Satellite images show the destruction of United Nations’ facilities, a health-care unit, a high school and houses at two camps sheltering Eritrean refugees in Tigray, northern Ethiopia, belying government claims that the conflict in the dissident region is largely over.

      The eight Planet Labs Inc images are of Hitsats and the Shimelba camps. The camps hosted about 25,000 and 8,000 refugees respectively before a conflict broke out in the region two months ago, according to data from the United Nations High Commissioner for Refugees.

      “Recent satellite imagery indicates that structures in both camps are being intentionally targeted,” said Isaac Baker, an analyst at DX Open Network, a U.K. based human security research and analysis non-profit. “The systematic and widespread fires are consistent with an intentional campaign to deny the use of the camp.”

      DX Open Network has been following the conflict and analyzing satellite image data since Nov. 7, three days after Ethiopian Prime Minister Abiy Ahmed declared war against a dissident group in the Tigray region, which dominated Ethiopian politics before Abiy came to power.

      Ethiopia’s government announced victory against the dissidents on Nov. 28 after federal forces captured the regional capital of Mekelle. Abiy spoke of the need to rebuild and return normalcy to Tigray at the time.

      Calls and messages to Redwan Hussein, spokesman for the government’s emergency task force on Tigray and the Prime Minister Abiy Ahmed’s Spokeswoman Billene Seyoum were not answered.

      In #Shimelba, images show scorched earth from apparent attacks in January. A World Food Programme storage facility and a secondary school run by the Development and Inter-Aid Church Commission have also been burned down, according to DX Open Network’s analysis. In addition, a health facility run by the Ethiopian Agency for Refugees and Returnees Affairs situated next to the WFP compound was also attacked between Jan. 5 and Jan. 8.

      In #Hitsats camp, about 30 kilometers (19 miles) away, there were at least 14 actively burning structures and 55 others were damaged or destroyed by Jan. 5. There were new fires by Jan. 8, according to DX Open Network’s analysis.

      The UN refugee agency has not had access to the camps since fighting started in early November, according to Chris Melzer, a communications officer for the agency. UNHCR has been able to reach its two other camps, Mai-Aini and Adi Harush, which are to the south, he said.

      “We also have no reliable, first-hand information about the situation in the camps or the wellbeing of the refugees,” Melzer said in reference to Hitsats and Shimelba.

      Eritrean troops have also been involved in the fighting and are accused of looting businesses and abducting refugees, according to aid workers and diplomats briefed on the situation. The governments of both Ethiopia and Eritrea have denied that Eritrean troops are involved in the conflict.

      The UN says fighting is still going on in several Tigray areas and 2.2 million people have been displaced in the past two months. Access to the region for journalists and independent analysts remains constrained, making it difficult to verify events.

      https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-01-09/satellite-images-show-destruction-of-refugee-camps-in-ethiopia?srnd=premi

      #images_satellitaires #camps_de_réfugiés #réfugiés

    • Ethiopia’s government appears to be wielding hunger as a weapon

      A rebel region is being starved into submission

      ETHIOPIA HAS suffered famines in the past. Many foreigners know this; in 1985 about one-third of the world’s population watched a pop concert to raise money for starving Ethiopians. What is less well understood is that poor harvests lead to famine only when malign rulers allow it. It was not the weather that killed perhaps 1m people in 1983-85. It was the policies of a Marxist dictator, Mengistu Haile Mariam, who forced peasants at gunpoint onto collective farms. Mengistu also tried to crush an insurgency in the northern region of Tigray by burning crops, destroying grain stores and slaughtering livestock. When the head of his own government’s humanitarian agency begged him for cash to feed the starving, he dismissed him with a memorably callous phrase: “Don’t let these petty human problems...consume you.”

      https://www.economist.com/leaders/2021/01/23/ethiopias-government-appears-to-be-wielding-hunger-as-a-weapon

      #famine #faim
      #paywall

    • Amnesty International accuses Eritrean troops of killing hundreds of civilians in the holy city of #Axum

      Amnesty International has released a comprehensive, compelling report detailing the killing of hundreds of civilians in the Tigrayan city of Axum.

      This story has been carried several times by Eritrea Hub, most recently on 20th February. On 12 January this year the Axum massacre was raised in the British Parliament, by Lord David Alton.

      Gradually the picture emerging has been clarified and is now unambiguous.

      The Amnesty report makes grim reading: the details are horrifying.

      Human Rights Watch are finalising their own report, which will be published next week. The Ethiopian Human Rights Commission is also publishing a report on the Axum massacre.

      The Ethiopian government appointed interim administration of Tigray is attempting to distance itself from the actions of Eritrean troops. Alula Habteab, who heads the interim administration’s construction, road and transport department, appeared to openly criticise soldiers from Eritrea, as well as the neighbouring Amhara region, for their actions during the conflict.

      “There were armies from a neighbouring country and a neighbouring region who wanted to take advantage of the war’s objective of law enforcement,” he told state media. “These forces have inflicted more damage than the war itself.”

      The full report can be found here: The Massacre in Axum – AFR 25.3730.2021. Below is the summary (https://eritreahub.org/wp-content/uploads/2021/02/The-Massacre-in-Axum-AFR-25.3730.2021.pdf)

      https://eritreahub.org/amnesty-international-accuses-eritrean-troops-of-killing-hundreds-of-civ

      #rapport #massacre

    • Ethiopia’s Tigray crisis: How a massacre in the sacred city of #Aksum unfolded

      Eritrean troops fighting in Ethiopia’s northern region of Tigray killed hundreds of people in Aksum mainly over two days in November, witnesses say.

      The mass killings on 28 and 29 November may amount to a crime against humanity, Amnesty International says in a report.

      An eyewitness told the BBC how bodies remained unburied on the streets for days, with many being eaten by hyenas.

      Ethiopia and Eritrea, which both officially deny Eritrean soldiers are in Tigray, have not commented.

      The Ethiopian Human Rights commission says it is investigating the allegations.

      The conflict erupted on 4 November 2020 when Ethiopia’s government launched an offensive to oust the region’s ruling TPLF party after its fighters captured federal military bases in Tigray.

      Ethiopia’s Prime Minister Abiy Ahmed, a Nobel Peace Prize winner, told parliament on 30 November that “not a single civilian was killed” during the operation.

      But witnesses have recounted how on that day they began burying some of the bodies of unarmed civilians killed by Eritrean soldiers - many of them boys and men shot on the streets or during house-to-house raids.

      Amnesty’s report has high-resolution satellite imagery from 13 December showing disturbed earth consistent with recent graves at two churches in Aksum, an ancient city considered sacred by Ethiopia’s Orthodox Christians.

      A communications blackout and restricted access to Tigray has meant reports of what has gone on in the conflict have been slow to emerge.

      In Aksum, electricity and phone networks reportedly stopped working on the first day of the conflict.
      How was Aksum captured?

      Shelling by Ethiopian and Eritrea forces to the west of Aksum began on Thursday 19 November, according to people in the city.

      “This attack continued for five hours, and was non-stop. People who were at churches, cafes, hotels and their residence died. There was no retaliation from any armed force in the city - it literally targeted civilians,” a civil servant in Aksum told the BBC.
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      Amnesty has gathered similar and multiple testimonies describing the continuous shelling that evening of civilians.

      Once in control of the city, soldiers, generally identified as Eritrean, searched for TPLF soldiers and militias or “anyone with a gun”, Amnesty said.

      “There were a lot of... house-to-house killings,” one woman told the rights group.

      There is compelling evidence that Ethiopian and Eritrean troops carried out “multiple war crimes in their offensive to take control of Aksum”, Amnesty’s Deprose Muchena says.
      What sparked the killings?

      For the next week, the testimonies say Ethiopia troops were mainly in Aksum - the Eritreans had pushed on east to the town of Adwa.

      A witness told the BBC how the Ethiopian military looted banks in the city in that time.

      he Eritrean forces reportedly returned a week later. The fighting on Sunday 28 November was triggered by an assault of poorly armed pro-TPLF fighters, according to Amnesty’s report.

      Between 50 and 80 men from Aksum targeted an Eritrean position on a hill overlooking the city in the morning.

      A 26-year-old man who participated in the attack told Amnesty: “We wanted to protect our city so we attempted to defend it especially from Eritrean soldiers... They knew how to shoot and they had radios, communications... I didn’t have a gun, just a stick.”
      How did Eritrean troops react?

      It is unclear how long the fighting lasted, but that afternoon Eritrean trucks and tanks drove into Aksum, Amnesty reports.

      Witnesses say Eritrean soldiers went on a rampage, shooting at unarmed civilian men and boys who were out on the streets - continuing until the evening.

      A man in his 20s told Amnesty about the killings on the city’s main street: “I was on the second floor of a building and I watched, through the window, the Eritreans killing the youth on the street.”

      The soldiers, identified as Eritrean not just because of their uniform and vehicle number plates but because of the languages they spoke (Arabic and an Eritrean dialect of Tigrinya), started house-to-house searches.

      “I would say it was in retaliation,” a young man told the BBC. “They killed every man they found. If you opened your door and they found a man they killed him, if you didn’t open, they shoot your gate by force.”

      He was hiding in a nightclub and witnessed a man who was found and killed by Eritrean soldiers begging for his life: “He was telling them: ’I am a civilian, I am a banker.’”

      Another man told Amnesty that he saw six men killed, execution-style, outside his house near the Abnet Hotel the following day on 29 November.

      “They lined them up and shot them in the back from behind. Two of them I knew. They’re from my neighbourhood… They asked: ’Where is your gun’ and they answered: ’We have no guns, we are civilians.’”
      How many people were killed?

      Witnesses say at first the Eritrean soldiers would not let anyone approach the bodies on the streets - and would shoot anyone who did so.

      One woman, whose nephews aged 29 and 14 had been killed, said the roads “were full of dead bodies”.

      Amnesty says after the intervention of elders and Ethiopian soldiers, burials began over several days, with most funerals taking place on 30 November after people brought the bodies to the churches - often 10 at a time loaded on horse- or donkey-drawn carts.

      At Abnet Hotel, the civil servant who spoke to the BBC said some bodies were not removed for four days.

      "The bodies that were lying around Abnet Hotel and Seattle Cinema were eaten by hyenas. We found only bones. We buried bones.

      “I can say around 800 civilians were killed in Aksum.”

      This account is echoed by a church deacon who told the Associated Press that many bodies had been fed on by hyenas.

      He gathered victims’ identity cards and assisted with burials in mass graves and also believes about 800 people were killed that weekend.

      The 41 survivors and witnesses Amnesty interviewed provided the names of more than 200 people they knew who were killed.
      What happened after the burials?

      Witnesses say the Eritrean soldiers participated in looting, which after the massacre and as many people fled the city, became widespread and systematic.

      The university, private houses, hotels, hospitals, grain stores, garages, banks, DIY stores, supermarkets, bakeries and other shops were reportedly targeted.

      One man told Amnesty how Ethiopian soldiers failed to stop Eritreans looting his brother’s house.

      “They took the TV, a jeep, the fridge, six mattresses, all the groceries and cooking oil, butter, teff flour [Ethiopia’s staple food], the kitchen cabinets, clothes, the beers in the fridge, the water pump, and the laptop.”

      The young man who spoke to the BBC said he knew of 15 vehicles that had been stolen belonging to businessmen in the city.

      This has had a devastating impact on those left in Aksum, leaving them with little food and medicine to survive, Amnesty says.

      Witnesses say the theft of water pumps left residents having to drink from the river.
      Why is Aksum sacred?

      It is said to be the birthplace of the biblical Queen of Sheba, who travelled to Jerusalem to visit King Solomon.

      They had a son - Menelik I - who is said to have brought to Aksum the Ark of the Covenant, believed to contain the 10 commandments handed down to Moses by God.

      It is constantly under guard at the city’s Our Lady Mary of Zion Church and no-one is allowed to see it.

      A major religious celebration is usually held at the church on 30 November, drawing pilgrims from across Ethiopia and around the world, but it was cancelled last year amid the conflict.

      The civil servant interviewed by the BBC said that Eritrean troops came to the church on 3 December “terrorising the priests and forcing them to give them the gold and silver cross”.

      But he said the deacons and other young people went to protect the ark.

      “It was a huge riot. Every man and woman fought them. They fired guns and killed some, but we are happy as we did not fail to protect our treasures.”

      https://www.bbc.com/news/world-africa-56198469

  • Weak links: Challenging the climate & migration paradigm in the Horn of Africa & Yemen

    When mobility drivers are scrutinised and climate change is found to play a role in movement, it remains difficult to determine the extent of its influence. This paper will show that although conditions in the Horn of Africa and Yemen are variously characterised by conflict, authoritarian regimes, poor governance, poverty, and mass displacement, along with harsh environments that produce negative climate change impacts, there is scant evidence that these impacts cause intercontinental and interregional mixed migration. The linkages are hard to locate. Climate change and environmental stressors cannot easily be disaggregated from the wide range of factors affecting populations, and even where some disaggregation is evident the results are not seen in the volume, direction, or destination choices of those affected.


    http://www.mixedmigration.org/resource/challenging-the-climate-and-migration-paradigm
    #rapport #immobilité #immobilité_involontaire #mobilité #migrations #réfugiés_climatiques #réfugiés_environnementaux #asile #migrations #réfugiés #Corne_de_l'Afrique #Yémen #changement_climatique #climat #mixed_migration_centre

    –-> citation:
    “There is a strong likelihood that involuntary immobility will become the biggest and most relevant issue in the Horn of Africa when it comes to the link between environmental stress and mobility”

    –-> Cette idée de “involuntary immobility” me semble très intéressante à amener car le discours ambiant se focalise sur “migration subie/choisie” "migration volontaire/forcée"...
    #catégorie #catégorisation (ping @karine4)
    #migration_subie #migration_choisie #migration_volontaire #migration_forcée

    ping @reka

  • Farine de teff : main-basse sur une tradition africaine

    Pendant plus de quinze ans, une société néerlandaise a fait prospérer un brevet qu’elle avait déposé en Europe sur la farine de teff, une céréale servant d’aliment de base en Éthiopie et en Érythrée depuis des siècles, en dépit des protestations de nombre d’ONG qui considèrent cette pratique comme un vol des cultures traditionnelles, notamment africaines. Enquête.

    C’est une crêpe épaisse couleur sable, sur laquelle les cuisinières dispersent les purées, les viandes mijotées, les ragoûts. Des lambeaux déchirés avec la pince des doigts servent à porter le repas à la bouche. Depuis des siècles, c’est ainsi que l’on mange en Éthiopie et en Érythrée : sur une injera, une grande galette spongieuse et acidulée fabriquée à base de teff, une graine minuscule aux propriétés nutritives exceptionnelles, riche en protéines et sans gluten. Depuis trois mille ans, on la récolte en épi dans des brassées de fines et hautes herbes vertes sur les hauts-plateaux abyssins.

    Mais une cargaison de teff expédiée en 2003 aux Pays-Bas a aussi fait la fortune d’une petite société privée néerlandaise. Dirigée par l’homme d’affaires Johannes « Hans » Turkensteen et le chercheur Jans Roosjen, cette structure baptisée à l’époque Soil & Crop Improvements (S&C) a en effet prospéré sur un brevet européen s’appropriant l’utilisation de cette « super céréale », alors que le marché du bio et des aliments sans gluten connaissait une expansion progressive.

    Un voyage d’affaires

    Tout avait commencé quelques mois plus tôt par un voyage de Hans Turkensteen à Addis-Abeba. Se prévalant du soutien de l’Université de sciences appliquées de Larenstein, l’homme d’affaires avait signé, en mars 2003, un mémorandum avec l’Organisation éthiopienne de la recherche agricole, l’EARO, accordant à sa société la livraison de 1 440 kg de graines de teff, prétendument destinées à l’expérimentation scientifique.

    « Turkensteen a fait croire à un accord mutuellement bénéfique pour toutes les parties : un meilleur rendement du teff pour les agriculteurs éthiopiens et un programme de lutte contre la pauvreté pour l’université, raconte le journaliste éthiopien Zecharias Zelalem, qui a mené sur le sujet une grande enquête pour le quotidien éthiopien Addis Standard. Il a même utilisé le prétexte de la grande famine de 1984 pour convaincre les signataires, affirmant que si les paysans éthiopiens avaient eu un meilleur teff à l’époque, le désastre n’aurait pas eu lieu. »

    Or, parallèlement, S&C a déposé auprès de l’agence néerlandaise des brevets une demande de protection des « méthodes de transformation » du teff ; un brevet finalement accordé le 25 janvier 2005, contraignant tous ceux qui souhaiteraient produire de la farine de teff ou des produits issus de la graine éthiopienne à obtenir une licence auprès d’eux, contre le paiement de royalties. Au bas du document figurait cette mention pour le moins étonnante pour une farine utilisée depuis des millénaires : « Inventeur : Jans Roosjen ».

    « Étonnement, les autorités éthiopiennes n’ont pas admis - ou n’ont pas voulu admettre - la supercherie, se désole Zecharias Zelalem. Même après que l’Université de Larenstein a exprimé des doutes et commandé un rapport d’enquête sur l’accord et même après que les Néerlandais ont reçu un "Captain Hook Award" [une récompense infamante baptisée d’après le pirate de dessin animé Capitaine Crochet et décernée chaque année par une coalition d’ONG, la Coalition contre la biopiratie, ndlr] en 2004, pour leur exploit en matière de biopiraterie. »

    Sans autres entraves que les protestations et la mauvaise publicité, les deux associés ont donc continué leur moisson de brevets. Les années suivantes, ils ont d’abord obtenu une licence auprès de l’Office européen des brevets, lui ouvrant le droit de faire des demandes auprès des agences de protection de la propriété intellectuelle d’Allemagne, d’Australie, d’Italie et du Royaume-Uni.

    « Les plus étonnant, explique l’avocat allemand Anton Horn, spécialiste de la propriété intellectuelle, est que le bureau européen des brevets leur aient accordé un brevet exactement tel qu’ils l’avaient demandé. C’est très rare. D’habitude, on fait une demande plutôt large au départ, afin que le périmètre puisse être réduit pendant son examen par le bureau des brevets. Là, non. Il a été accepté tel quel, alors que, pour ma part, il m’a suffi de trente minutes pour comprendre que quelque chose clochait dans ce brevet. » Du reste, ajoute-t-il, celui-ci a été refusé par les agences des États-Unis et du Japon.

    Treize années de bénéfices

    Pourtant, pendant les treize années suivantes, personne n’est venu s’opposer à ce que Zecharias Zelalem considère comme « un pillage des traditions éthiopiennes et un pur et simple vol des paysans éthiopiens ». C’est la curiosité de la presse éthiopienne qui a commencé à perturber des affaires alors florissantes.

    Toutefois, de faillites opportunes en changements de noms, la compagnie néerlandaise, rebaptisée entre-temps ProGrain International, a tout fait pour conserver les droits acquis par son tour de passe-passe juridique. Elle a continué à développer son activité, au point que Turkensteen a pu, par exemple, célébrer en grande pompe, en 2010, la production de sa millième tonne de farine de teff dans ses usines d’Espagne, de Roumanie et des Pays-Bas. À raison de 100 euros le kilo, selon le compte effectué en 2012 par l’hebdomadaire éthiopien Addis Fortune, son bénéfice a été considérable, alors que l’Éthiopie n’a touché, en tout en pour tout, qu’environ 4 000 euros de dividendes, selon l’enquête du journaliste Zecharias Zelalem.

    Mais l’aventure a fini par atteindre ses limites. Un jour de 2017, saisi par un ami éthiopien devenu directeur du Bureau éthiopien de la propriété intellectuelle, l’avocat Anton Horn a d’abord suggéré aux associés néerlandais de ProGrain International, par courrier, d’abandonner, au moins en Allemagne, leurs droits sur la farine de teff. Mais le duo néerlandais n’a pas répondu. Puis une société ayant acheté une licence à la société de Turkensteen et Roosjen a attaqué le brevet néerlandais devant un tribunal de La Haye, refusant dorénavant de lui payer des royalties. Pari gagné : le 7 décembre 2018, la justice lui a donné raison et « annulé » le brevet, estimant qu’il n’était ni « innovant » ni « inventif », tandis que, simultanément, sur ses propres deniers, Anton Horn a contesté le brevet en Allemagne devant les tribunaux et obtenu, là aussi, son annulation. Deux coups portés au cœur de la machine industrielle des Néerlandais, après quinze ans sans anicroche.

    Abandon progressif

    Sollicités par RFI, ni la société détentrice des brevets restants ni Hans Turkensteen n’ont souhaité donné leur version de l’histoire. Mais le duo néerlandais semble avoir abandonné la partie et renoncé à ses droits. Annulé aux Pays-Bas et en Allemagne, le brevet reste cependant valide aujourd’hui dans plusieurs pays européens. « Mais depuis août 2019, le non-paiement des frais de renouvellement du brevet devrait conduire logiquement, durant l’été 2020, à l’annulation de celui-ci dans tous les pays de l’espace européen », espère Anton Horn.

    Cette appropriation commerciale d’une tradition africaine par une société occidentale n’est pas un cas unique. En 1997, la société américaine RiceTec avait obtenu un brevet sur le riz basmati, interdisant de fait la vente aux États-Unis de riz basmati cultivé dans ses pays d’origine, l’Inde et le Pakistan. « En 2007, la société pharmaceutique allemande Schwabe Pharmaceuticals obtenait un brevet sur les vertus thérapeutiques de la fleur dite pélargonium du Cap, originaire d’Afrique du Sud et connue pour ses propriétés antimicrobiennes et expectorantes, ajoute François Meienberg, de l’ONG suisse ProSpecieRara, qui milite pour la protection de la diversité génétique et culturelle. Brevet finalement annulé en 2010 après une bataille judiciaire. Et c’est aujourd’hui le rooibos (un thé rouge, ndlr), lui aussi sud-africain, qui fait l’objet d’une bataille similaire. »

    Des négociations internationales ont bien été engagées pour tenter de définir un cadre normatif qui enrayerait la multiplication des scandales de vol de traditions ancestrales par des prédateurs industriels. Mais elles n’ont pour l’instant débouché sur rien de significatif. Le problème est que, d’une part, « tous les pays ne protègent pas les traditions autochtones de la même manière, explique François Meierberg. Les pays scandinaves ou la Bolivie, par exemple, prennent cette question au sérieux, mais ce sont des exemples rares. » L’autre problème est que nombre d’États industrialisés refusent d’attenter à la sainte loi de la « liberté du commerce ». Au prix, du coup, de la spoliation des plus démunis.

    http://www.rfi.fr/fr/afrique/20200212-farine-teff-main-basse-une-tradition-africaine
    #teff #farine #alimentation #céréale #céréales #agriculture #Afrique #tef #injera #Pays-Bas #brevet #industrie_agro-alimentaire #mondialisation #dynamiques_des_suds #ressources_pédagogiques #prédation #géographie_culturelle #culture #Hans_Turkensteen #Turkensteen #Jans_Roosjen #Soil_&_Crop_Improvements (#S&C) #brevet #propriété_intellectuelle #gluten #bio #EARO #licence #loyalties #Université_de_Larenstein #Captain_Hook_Award #biopiraterie #pillage #vol #ProGrain_International #justice #innovation #appropriation_commerciale #RiceTec #riz #riz_basmati #basmati #Inde #Pakistan #Schwabe_Pharmaceuticals #industrie_pharamceutique #big_pharma #multinationales #mondialisation #globalisation

    L’injera, plat cuisiné dans la #Corne_de_l'Afrique, notamment #Erythrée #Ethiopie :


    https://fr.wikipedia.org/wiki/Injera

    ping @reka @odilon @karine4 @fil @albertocampiphoto

  • L’#or_vert ou la stupéfiante odyssée du #khat

    Le khat est consommé dans de nombreux pays d’#Afrique_de_l'Est. Vendue sous la forme de feuilles et de tiges, cette plante psychotrope provoque une sensation stimulante d’#euphorie impulsée par une accélération du rythme cardiaque. Mais le khat crée aussi des effets d’accoutumance et de manque, doublés de déprime, de léthargie, et chez certains, notamment les enfants, de troubles mentaux. Ancien dépendant au khat, #Abukar_Awalé, membre de la diaspora somalienne en Grande-Bretagne, a alerté les autorités britanniques et milité pour la fin de la tolérance. Ce film suit son combat courageux, remonte la filière du khat à travers le monde et en expose les ravages et les enjeux économiques.


    https://www.programme.tv/l-or-vert-ou-la-stupefiante-odyssee-du-khat-156617631
    #film #documentaire #film_documentaire
    #drogue #UK #interdiction #Corne_de_l'Afrique #Ethiopie #Awaday #Londres #café #traumatisme #guerre #conflit #santé_mentale #Somalie #Somaliland #argent #revenu #prix_du_café #accord_international_sur_le_café #Dadaab #Kenya #réfugiés #camps_de_réfugiés #toxicomanie #dépendance #femmes #hommes #oubli #alternative #Angleterre #genre #qat

  • Halfway round the world by plane: Africa’s new migration route

    Migrants using traditional routes from Africa to Europe often fail to reach their destinations. Smugglers now offer new options, such as taking migrants to faraway countries by plane.
    In early July, Mexico’s authorities reported that the number of African migrants in the country had tripled. According to government figures, around 1,900 migrants, most of them from crisis-ridden countries like Cameroon and the Democratic Republic of Congo, are now in Mexico. Their destination? The United States of America.
    The journey by plane of some of these migrants began halfway across the world in Uganda. In a garden bar in the Ugandan capital #Kampala sits a 23-year-old Eritrean man who could soon be one of them. For security reasons, he does not want to give his name. He fled the brutal military service in Eritrea last September. According to human rights organizations, military service in Eritrea can mean years of forced labor. “I do not believe that anything will change in Eritrea soon; on the contrary,” he said. Many young Eritreans see their futures overseas.


    https://www.dw.com/en/halfway-round-the-world-by-plane-africas-new-migration-route/a-49868809
    #Afrique #détour #détours #asile #migrations #réfugiés #routes_migratoires #itinéraires_migratoires #USA #Mexique #Etats-Unis #fermeture_des_frontières #Erythrée #Corne_de_l'Afrique #Ouganda #route_pacifique
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    • Africa: At U.S.-Mexico Border, Africans Join Diversifying Migrant Community

      It took Julia and her two daughters five years to get from Kassai, in the Democratic Republic of Congo, to a cot on the floor of a migrant shelter in Laredo, Texas, on a Sunday night in August 2019.

      First, it was four years in Angola. She saved money, she says, by working as a hairdresser.

      They flew to Ecuador. Took a bus and boat to Colombia. They spent 14 days crossing through Panama’s Darien Gap, lost part of the time in the dense jungle. Three weeks in Panama, then three more in Costa Rica while Julia recuperated from an illness. Then Nicaragua. Honduras. Guatemala.

      Finally, after a month of waiting in Acuña, on the U.S.-Mexico border, they stuck their feet in the sandy dirt along the southern bank of the Rio Grande. They were alone, and didn’t know how to swim.

      “We prayed first, then we got into the water,” Julia recalled. “My daughter was crying.”

      “‘Mom, I can’t…’” Julia remembers her pleading in chest-high water.

      Halfway across, she says, U.S. soldiers — possibly border agents — shouted to them: “‘Come, give us your hands.’“

      “I did,” Julia recalls, “and they took us out.”

      More families from afar

      Historically, the majority of people caught crossing into the southwest U.S. without authorization were single Mexican adults. In fiscal 2009, Mexicans accounted for 91.63% of border apprehensions, according to U.S. Customs and Border Protection data.

      But demographics of migrants and asylum-seekers crossing into the U.S. from Mexico are shifting in two significant ways: In the last decade, nationals of El Salvador, Guatemala and Honduras began migrating in greater numbers. In the same period, the number of Mexicans dropped.

      Then, in the last year, families became the top source of Southwest border migration. The Border Patrol apprehended 432,838 adults and children traveling in family units from October 2018 through July 2019, a 456% increase over the same period the previous fiscal year.

      To the surprise of longtime border agents, while the overwhelming majority of these families continue to be from Mexico and the Northern Triangle countries of Central America, a small but growing proportion are from countries outside the Americas, nearly twice as much as two years ago.

      By the end of July this year, CBP data shows the agency had apprehended 63,470 people from countries other than those four, making up 8.35% of total apprehensions. In fiscal 2017, they were 4.3% of the total apprehended population.

      CBP does not release the breakdown of where detained migrants come from until after the end of the fiscal year in September. But anecdotes and preliminary data show an increasingly diverse group of migrants and asylum-seekers, including more than 1,600 African nationals from 36 countries, apprehended in one border sector alone.

      They are unprecedented numbers.

      Allen Vowell, an acting deputy patrol agent in charge with the U.S. Border Patrol in Eagle Pass, Texas, said the recent demographic changes are unlike any he has seen in two decades of working on the border.

      “I would say until this year, Africans — personally I’ve probably only seen a handful in over 20 years,” Vowell said.

      From Oct. 1, 2018, to Aug. 22, 2019, Del Rio sector agents apprehended 51,394 people, including 1,681 nationals of African countries. They are largely, like Julia, originally from the Democratic Republic of Congo, Angola or Cameroon, according to sector officials.

      The arrival of sub-Saharan nationals — often Congolese, according to Del Rio Sector officials — posed new challenges. A lot of border agents are bilingual in English and Spanish. But when apprehending a group that primarily spoke French and Portuguese, the agents had to scramble for interpreters.

      While many migrants from the Northern Triangle have relatives in the U.S. as a point of contact or a destination, those from Africa are less likely to have those relationships.

      That means they are more likely to stay in migrant shelters in the U.S. or in Mexico for longer, waiting to figure out their next steps until their immigration court hearing.

      There is the political tumult in Venezuela, leading to the exodus of millions of people scattered throughout the region.

      The end of the “wet foot dry foot” policy with Cuba that allowed migrants who reached the shores of Florida to remain, Cubans who want to leave the island for the U.S. to take a more circuitous route.

      And then, to the surprise of Border Patrol agents, there arrived the large groups of sub-Saharan Africans, crossing through the Del Rio sector in Texas.

      The migrant trail goes beyond Africa.

      Ten years ago, CBP detained 99 Indians on the Southwest border. In 2018, it was 8,997.

      Similarly, Bangladeshi migrants didn’t figure into the top 20 countries among those apprehended at the border a decade ago. In 2019, there were 1,198.

      This week, a Bangladeshi man living in Mexico pleaded guilty to human smuggling charges.

      There are also the regional conflicts and tensions in Latin America and the Caribbean that are leading to a bigger number of migrants within the hemisphere arriving at the U.S-Mexico border, like Venezuela and Nicaragua. Haitians and Cubans continue to take the more circuitous route through Central America and up to the U.S., rather than travel by boat to Florida, where they risk being stopped by the U.S. Coast Guard before setting foot on land.

      Son’s death sends family on a dangerous journey

      Julia says she got tunnel vision after her teenage son was killed in DRC, en route to school one day in 2014 for reasons she still does not know or understand.

      She only knows that she received a call from the morgue. A truck dropped his body off there.

      He was 17. His name was George.

      She can’t go back to DRC, she says. It’s just not safe.

      “There, while you sleep, the thieves will come through the roof. They demand money, and if you don’t have money, they’ll rape your daughter,” she said.

      “When he died in 2014, I made up my mind that I would not stay.”

      They want to get to Buffalo, New York. They don’t have family in the U.S., Julia says, but some people they met on the road were headed there. Word was, there was work, at least.

      She had an immigration court hearing scheduled for the first week of August. She was still at the San Antonio shelter, two days before.

      They didn’t now how far from Texas it was, or how cold New York gets in winter. They weren’t worried about those things now. They just needed the bus fare to get there, and they had nothing left. No money. No phone.

      Ketsia, now 15, speaks Spanish, English and Italian with ease. Jemima, 9, is the best French speaker in the family. They didn’t fight while they’ve been on the road for the last five months, from Ecuador to San Antonio. Not much, at least, they giggle.

      “She’s strong. Very strong,” Ketsia says of her mother, in Spanish. “I saw a lot of women who left their kids behind in the jungle. She’s courageous. This path we’re on, isn’t for everyone. If you’re not strong, it’s very difficult.”

      “My dream is to arrive there, to New York. To get a job. To put the girls in school,” Julia responds.

      “I suffered a lot already,” she says, something she repeats without going into more detail. She has a tendency to stare off, lose herself in thought when the conversation nears the darker parts of their family history.

      “I don’t want my children to go through the same,” she says. “We suffered a lot. I don’t want that anymore for my children.”

      The shelter where they stayed does not track migrants after they’ve left, and for privacy and safety reasons, shelters do not share whether individuals are staying with them.

      Attempts by VOA to locate Julia, Ketsia and Jemima in the weeks following the interview were unsuccessful.

      https://allafrica.com/stories/201909020140.html

    • El naufragio de un grupo de africanos en Chiapas revela una nueva ruta migratoria por el Pacífico

      El accidente de una lancha en Tonalá deja un muerto y varios desaparecidos. Ante la presión policial en el sur de México, grupos de cameruneses optan por usar vías marítimas para llegar a EE UU.

      Tirado en la playa, entre el pasto y la orilla. La foto del cuerpo de Emmanuel Cheo Ngu, camerunés de 39 años, fallecido este viernes tras el naufragio de su embarcación en Ignacio Allende, municipio de Tonalá, ha vuelto a revivir las peores imágenes de la crisis migratoria que se vive en el sur de México. La nueva política migratoria puesta en marcha por Andrés Manuel López Obrador tras el chantaje de Estados Unidos, ha obligado a los nuevos grupos de migrantes atrapados en Tapachula, Chiapas, a buscar nuevas y peligrosas rutas en su intento de llegar a la frontera norte.

      A las 7.00 de la mañana, según pescadores de la zona, una embarcación con personas procedentes de Camerún comenzó a tambalearse hasta que todos cayeron al agua, de acuerdo a la investigación judicial. El portal AlertaChiapas y activistas en la zona consultados por este medio, afirmaron que el bote salió desde la costa de Guatemala o desde el sur del Estado de Chiapas, ya en México, con destino Oaxaca. Cuando llegaron los Grupos de Rescate consiguieron socorrer a 8 personas, 7 hombres y una mujer, que fueron trasladados al Hospital General de Tonalá. El cuerpo de Cheo Ngu fue encontrado tirado cerca de la orilla. Hasta el momento hay varias personas desaparecidas.

      La ruta por vía marítima que une la frontera de Guatemala con el istmo de Tehuantepec, en Oaxaca, es una opción cada vez más frecuente ante el aumento de detenciones y deportaciones por parte de la recién creada Guardia Nacional. Tradicionalmente los migrantes han utilizado las rutas terrestres, pero los traficantes de personas cada vez recurren más a esta ruta poco vigilada, más barata y con menos riesgos a ser detenido. Por una cantidad que oscila entre los 400 y 800 dólares —para los cubanos puede ser el doble— esta ruta permite a los centroamericanos avanzar desde Guatemala a Salina Cruz o Huatulco, en Oaxaca.

      Aunque la mayoría de los migrantes en México son de origen centroamericano, el flujo de personas procedentes de Camerún, República Democrática del Congo o Eritrea, ha ido en aumento. Los africanos se encuentran en un ‘limbo legal’ ya que no pueden ser repatriados y actualmente tienen la negativa del gobierno federal para recibir los trámites de salida para continuar su trayecto hacia Estados Unidos. En los últimos dos meses cientos de ellos permanecen varados en Tapachula (Chiapas). Algunos en la Estación Migratoria Siglo XXI, y otros en la calle, donde han mantenido protestas y enfrentamientos contra la policía y la Guardia Nacional por la situación que viven y la falta de respuestas.

      Luis García Villagran es activista por los derechos humanos en Tapachula. En llamada telefónica y aparentemente afectado, confirma que su versión dista mucho de la de las autoridades. “Hay una embarcación que sí ha llegado a su destino (Oaxaca) y que ni se ha nombrado, pero en la accidentada iban más personas de las que dice el informe oficial. Sé con seguridad que hay más personas desaparecidas. No solo hemos perdido a nuestro hermano Emmanuel”, zanja Villagran.

      https://elpais.com/internacional/2019/10/12/actualidad/1570833110_016901.html

  • #CIVIPOL au #Soudan

    L’Union européenne a suspendu ses programmes liés au #contrôle_migratoire au Soudan, en raison de la situation politique. CIVIPOL était en charge des programmes coordonnés par la #France. Présentation.

    CIVIPOL est défini comme "l’opérateur de #coopération_technique_internationale du ministère de l’Intérieur". C’est une #société_anonyme dont 40% du capital son détenus par l’État et 60% par des acteurs privés comme #Airbus, #Safran, #Thalès et d’autres, ainsi que #Défense_Conseil_International, qui est la société privée équivalente de CIVIPOL pour le ministère de la défense.

    CIVIPOL a une action d’#expertise, de #conseil, de #formation. Elle est "financée quasi exclusivement par les bailleurs internationaux". Elle a aussi comme savoir-faire le "soutien à la filière des #industries_de_sécurité" : "Civipol soutient les acteurs de la filière des industries de sécurité. À travers le réseau international des salons #Milipol, Civipol permet aux États partenaires d’identifier, avec les industriels, les #solutions_technologiques les plus adaptées à leurs impératifs de protection. En proposant des offres intégrées issues de la filière européenne des industries de sécurité, Civipol contribue à la mise en place de #systèmes_opérationnels_interopérables au sein des États partenaires et, le cas échéant, avec les systèmes homologues européens."

    #CIVIPOL_Conseil, la société anonyme, est en effet associée dans #CIVIPOL_Groupe au Groupement d’Intérêt Économique Milipol, qui organise des #salons "de la sûreté et de la sécurité intérieure des États" à Paris, au Qatar et dans la zone Asie - Pacifique (on peut découvrir ici le message adressé par le ministre français de l’intérieur à l’ouverture du dernier salon).

    CIVIPOL a aussi racheté en 2016 la société #Transtec, qui a des activités de soutien, accompagnement, conseil, expertise, dans le domaine de la #gouvernance. Elle a par exemple mené deux programmes au Soudan, l’un « #Soutien_à_l'Analyse_Economique_et_à_la Planification_Sectorielle_à_l’Appui_de_la_République_du_Soudan » « afin de permettre à la délégation de l’UE au Soudan de mieux comprendre la situation économique du pays et de contribuer à une approche plus cohérente de la programmation de l’UE dans chaque secteur d’intervention » ; l’autre « #Programme_de_renforcement_des_capacités_des_organisations_de_la_société_civile_soudanaise », dont « l’objectif consistait à renforcer les capacités des bénéficiaires des #OSC locales dans le cadre du programme de l’#Instrument_Européen_pour_la_Démocratie_et_les_Droits_de_l'Homme (#IEDDH) afin d’améliorer leur gestion administrative et financière des projets financés par l’UE » (il ne s’agit donc pas de développer la démocratie, mais de permettre aux OSC – Organisations de la Société Civile – soudanaises de s’inscrire dans les programmes de financement de l’Union européenne.

    CIVIPOL intervient dans quatre programmes au Soudan, financés par l’Union européenne. L’un concernant le #terrorisme, « Lutte contre le blanchiment d’argent et le financement du terrorisme dans la grande Corne de l’Afrique (https://static.mediapart.fr/files/2019/07/26/lutte-contre-le-blanchiment-dargent-et-le-financement-du-terrorisme) », l’autre concernant l’application de la loi, « #Regional_law_enforcement_in_the_Greater_Horn_of_Africa_and_Yemen (https://static.mediapart.fr/files/2019/07/26/regional-law-enforcement-in-the-greater-horn-of-africa-and-yemen-rl) ». Notons que ces deux programmes concernent aussi le #Yémen, pays en proie à une guerre civile, et une intervention militaire extérieure par une coalition menée par l’Arabie saoudite, pays allié de la France et en partie armée par elle, coalition à laquelle participe plusieurs milliers de membres des #Forces_d’Action_Rapide soudanaises, ancienne milice de Janjawid, aussi reconvertie en garde-frontière dans le cadre de la politique de contrôle migratoire mise en place par le Soudan à la demande de l’Union européenne, Forces d’Action Rapide dont le chef est l’homme fort actuel de la junte militaire qui a succédé au dictateur Omar El-Béchir. CIVIPOL agit dans cette complexité.

    Les deux autres programmes concerne la politique de #contrôle_migratoire. L’un, sous l’intitulé de « #Meilleure_Gestion_des_Migrations (https://static.mediapart.fr/files/2019/07/26/better-migration-management-bmm.pdf) », implique différents intervenants pour le compte de plusieurs États membres de l’Union européenne et des agences de l’ONU, sous coordination allemande, l’#Allemagne cofinançant ce programme. « Dans cette contribution, CIVIPOL fournit des formations pour les unités spécialisés en charge de la lutte contre le trafic d’êtres humains, forme les agents de police dans les #zones_frontalières et aide les autorités chargées de la formation de la #police ». Compte-tenu du rôle des Forces d’Action Rapide, il semble difficile que CIVIPOL ne les ait pas croisées. Ce programme a été suspendu en mars 2019, l’Union européenne ayant donné une explication quelque peu sybilline : « because they require the involvement of government counterparts to be carried out » (« parce que leur mise en œuvre exige l’implication d’interlocuteurs gouvernementaux d’un niveau équivalent »).

    L’autre, mis en œuvre par CIVIPOL, est le #ROCK (#Centre_opérationnel_régional_d'appui_au_processus_de_Khartoum et à l’Initiative de la Corne de l’Afrique de l’Union africaine (https://static.mediapart.fr/files/2019/07/26/regional-operational-center-in-khartoum-in-support-of-the-khartoum-) – en anglais #Regional_Operational_Centre_in_Khartoum etc.) La stratégie du projet ROCK est de faciliter l’#échange_d'informations entre les services de police compétents. Ainsi, le projet consiste à mettre en place une plate-forme à Khartoum, le centre régional "ROCK", afin de rassembler les #officiers_de_liaison des pays bénéficiaires en un seul endroit pour échanger efficacement des #informations_policières. » Il a été suspendu en juin « until the political/security situation is cleared » (« jusqu’à ce que la situation politique/sécurtiaire soit clarifiée ») selon l’Union européenne.

    D’après la présentation qu’on peut télécharger sur le site de CIVIPOL, le premier « programme intervient en réponse aux besoins identifiés par les pays africains du #processus_Khartoum », tandis que le second a été « lancé dans le cadre du processus de Khartoum à la demande des pays de la #Corne_de_l'Afrique ». Il ne faut donc surtout pas penser qu’il puisse s’agir d’une forme d’externalisation des politiques migratoires européennes.

    Ces deux programmes concernent neuf pays africains. L’un d’eux est l’#Érythrée. Il n’est pas interdit de penser que les liens tissés ont pu faciliter la coopération entre autorités françaises et érythréennes qui a permis l’expulsion d’un demandeur d’asile érythréen de France en Érythrée le 6 juin dernier.

    https://blogs.mediapart.fr/philippe-wannesson/blog/260719/civipol-au-soudan
    #complexe_militaro-industriel #externalisation #contrôles_frontaliers #migrations #asile #réfugiés #suspension #Erythrée

  • Report to the EU Parliament on #Frontex cooperation with third countries in 2017

    A recent report by Frontex, the EU’s border agency, highlights the ongoing expansion of its activities with non-EU states.

    The report covers the agency’s cooperation with non-EU states ("third countries") in 2017, although it was only published this month.

    See: Report to the European Parliament on Frontex cooperation with third countries in 2017: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-report-ep-third-countries-coop-2017.pdf (pdf)

    It notes the adoption by Frontex of an #International_Cooperation_Strategy 2018-2020, “an integral part of our multi-annual programme” which:

    “guides the Agency’s interactions with third countries and international organisations… The Strategy identified the following priority regions with which Frontex strives for closer cooperation: the Western Balkans, Turkey, North and West Africa, Sub-Saharan countries and the Horn of Africa.”

    The Strategy can be found in Annex XIII to the 2018-20 Programming Document: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-programming-document-2018-20.pdf (pdf).

    The 2017 report on cooperation with third countries further notes that Frontex is in dialogue with Senegal, #Niger and Guinea with the aim of signing Working Agreements at some point in the future.

    The agency deployed three Frontex #Liaison_Officers in 2017 - to Niger, Serbia and Turkey - while there was also a #European_Return_Liaison_Officer deployed to #Ghana in 2018.

    The report boasts of assisting the Commission in implementing informal agreements on return (as opposed to democratically-approved readmission agreements):

    "For instance, we contributed to the development of the Standard Operating Procedures with #Bangladesh and the “Good Practices for the Implementation of Return-Related Activities with the Republic of Guinea”, all forming important elements of the EU return policy that was being developed and consolidated throughout 2017."

    At the same time:

    “The implementation of 341 Frontex coordinated and co-financed return operations by charter flights and returning 14 189 third-country nationals meant an increase in the number of return operations by 47% and increase of third-country nationals returned by 33% compared to 2016.”

    Those return operations included Frontex’s:

    “first joint return operation to #Afghanistan. The operation was organised by Hungary, with Belgium and Slovenia as participating Member States, and returned a total of 22 third country nationals to Afghanistan. In order to make this operation a success, the participating Member States and Frontex needed a coordinated support of the European Commission as well as the EU Delegation and the European Return Liaison Officers Network in Afghanistan.”

    http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-report-third-countries.htm
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers
    #Balkans #Turquie #Afrique_de_l'Ouest #Afrique_du_Nord #Afrique_sub-saharienne #Corne_de_l'Afrique #Guinée #Sénégal #Serbie #officiers_de_liaison #renvois #expulsions #accords_de_réadmission #machine_à_expulsion #Hongrie #Belgique #Slovénie #réfugiés_afghans

    • EP civil liberties committee against proposal to give Frontex powers to assist non-EU states with deportations

      The European Parliament’s civil liberties committee (LIBE) has agreed its position for negotiations with the Council on the new Frontex Regulation, and amongst other things it hopes to deny the border agency the possibility of assisting non-EU states with deportations.

      The position agreed by the LIBE committee removes Article 54(2) of the Commission’s proposal, which says:

      “The Agency may also launch return interventions in third countries, based on the directions set out in the multiannual strategic policy cycle, where such third country requires additional technical and operational assistance with regard to its return activities. Such intervention may consist of the deployment of return teams for the purpose of providing technical and operational assistance to return activities of the third country.”

      The report was adopted by the committee with 35 votes in favour, nine against and eight abstentions.

      When the Council reaches its position on the proposal, the two institutions will enter into secret ’trilogue’ negotiations, along with the Commission.

      Although the proposal to reinforce Frontex was only published last September, the intention is to agree a text before the European Parliament elections in May.

      The explanatory statement in the LIBE committee’s report (see below) says:

      “The Rapporteur proposes a number of amendments that should enable the Agency to better achieve its enhanced objectives. It is crucial that the Agency has the necessary border guards and equipment at its disposal whenever this is needed and especially that it is able to deploy them within a short timeframe when necessary.”

      European Parliament: Stronger European Border and Coast Guard to secure EU’s borders: http://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20190211IPR25771/stronger-european-border-and-coast-guard-to-secure-eu-s-borders (Press release, link):

      “- A new standing corps of 10 000 operational staff to be gradually rolled out
      - More efficient return procedures of irregular migrants
      - Strengthened cooperation with non-EU countries

      New measures to strengthen the European Border and Coast Guard to better address migratory and security challenges were backed by the Civil Liberties Committee.”

      See: REPORT on the proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council on the European Border and Coast Guard and repealing Council Joint Action n°98/700/JHA, Regulation (EU) n° 1052/2013 of the European Parliament and of the Council and Regulation (EU) n° 2016/1624 of the European Parliament and of the Council: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/ep-libe-report-frontex.pdf (pdf)

      The Commission’s proposal and its annexes can be found here: http://www.statewatch.org/news/2018/sep/eu-soteu-jha-proposals.htm

      http://www.statewatch.org/news/2019/feb/ep-new-frontex-libe.htm

  • L’unité somalienne ébranlée par la lassitude de ses Etats fédérés - RFI
    http://www.rfi.fr/afrique/20181103-unite-somalie-secouee-lassitude-etats-federes-mohamed-farmajo

    La Somalie continue de s’enfoncer dans la crise politique. Les Etats fédérés reprochent à l’Etat central de mal redistribuer les ressources, de manquer de vision, de s’ingérer dans les affaires locales. Quatre d’entre eux ont même annoncé la création d’un parti politique et d’une force armée commune chargée de combattre les shebabs. Les observateurs s’inquiètent de plus en plus.

    #somalie #omaliland #puntland #afrique_de_l_est #corne_de_l_afique

  • Conte in Etiopia, Unione Africana ci aiuti coi rimpatri

    «L’Unione Africana ci aiuti negli accordi bilaterali per i rimpatri». Il premier Giuseppe Conte lancia il suo appello da Addis Abeba, a fianco del leader etiopico Aby Amhed, che è riuscito «nell’impresa storica» di avviare, dopo vent’anni di guerra, un processo di pace con la vicina Eritrea, dalla quale partono la maggior parte dei migranti che raggiungono l’Italia. Non è un caso che Conte abbia deciso di essere il capofila in Europa visitando, primo leader occidentale, l’Etiopia e oggi l’Eritrea all’indomani dello storico accordo. L’Italia ha molti interessi economici nel Corno d’Africa e punta «al massimo sostegno per lo sviluppo della regione», ma indubbiamente il dossier migranti resta centrale. «L’Unione Africana - ha spiegato - può aiutarci molto nella stipulazione di accordi bilaterali per i rimpatri perché se l’Ua è pienamente coinvolta nella nostra strategia sull’immigrazione possiamo avere la possibilità di potenziare notevolmente tutte le nostre iniziative a livello europeo». Per questo uno degli incontri centrali della giornata del presidente del Consiglio è stato quello con i vertici dell’Unione africana, che hanno anche assicurato la loro presenza alla conferenza di Palermo sulla Libia del 12 e 13 novembre. Si tratta di un altro appuntamento fondamentale per l’Italia, che non punta certo a risolvere la crisi libica in due giorni, ha spiegato Conte. Sarebbe un’ambizione fuori luogo. Quello che serve a questo punto è riunire tutti gli stakeholder e che tutti i rappresentanti libici siedano attorno ad un tavolo e recuperino una road-map che in questo momento si è persa vero la definizione di un processo di pace. Conte sta lavorando molto alla conferenza sulla Libia: «Ho sentito anche la Merkel, che mi ha assicurato che farà di tutto per esserci», ha detto, spiegando di essere certo che i lavori «procederanno molto bene».


    http://www.ansamed.info/ansamed/it/notizie/rubriche/politica/2018/10/12/conte-in-etiopia-unione-africana-ci-aiuti-coi-rimpatri_584c2c98-5558-437b-

    L’#Italie emboîte le pas à la #Suisse sur le dossier #renvois des personnes provenant de la #Corne_de_l'Afrique, notamment l’#Erythrée
    #migrations #asile #réfugiés #expulsions #accords_bilatéraux #it_has_begun

  • IDPs : Mid-year figures

    There were 5.2 million new internal displacements associated with conflict and violence in the first half of 2018, based on the analysis of data from the 10 worst-affected countries. There were also 3.3 million associated with disasters in 110 countries and territories. Countries in the Horn of Africa bore the brunt of displacement. On top of more than 1.7 million new displacements associated with conflict and violence in Ethiopia and Somalia, significant numbers of people fled devastating floods and drought in Ethiopia, Somalia and Kenya.

    http://www.internal-displacement.org/mid-year-figures
    #IDPs #déplacés_internes #rapport #2018 #statistiques #asile #migrations #réfugiés #sécheresse #conflits #inondations #Corne_de_l'Afrique

    cc @isskein

  • Nouvelle page internet sur le thème des #mixed_migrations
    About the Mixed Migration Centre

    The MMC is a leading source for independent and high quality data, information, research and analysis on mixed migration. Through the provision of credible evidence and expertise, the MMC aims to support agencies, policy makers and practitioners to make well-informed decisions, to positively impact global and regional migration policies, to contribute to protection and assistance responses for people on the move and to stimulate forward thinking in the sector responding to mixed migration.

    http://www.mixedmigration.org

    Régions couvertes :
    #Afrique_de_l'Ouest #Afrique_du_Nord #Yémen #Corne_de_l'Afrique #Moyen-Orient #Asie

    cc @isskein @reka

    #mixed_migration #asile #migrations #réfugiés

  • #Expanding_the_fortress

    La politique d’#externalisation_des_frontières de l’UE, ses bénéficiaires et ses conséquences pour les #droits_humains.

    Résumé du rapport

    La situation désespérée des 66 millions de personnes déplacées dans le monde ne semble troubler la conscience européenne que lorsqu’un drame a lieu à ses frontières et se retrouve sous le feu des projecteurs médiatiques. Un seul État européen – l’Allemagne – se place dans les dix premiers pays au monde en termes d’accueil des réfugiés : la grande majorité des personnes contraintes de migrer est accueillie par des États se classant parmi les plus pauvres au monde. Les migrations ne deviennent visibles aux yeux de l’Union européenne (UE) que lorsque les médias s’intéressent aux communautés frontalières de Calais, Lampedusa ou Lesbos et exposent le sort de personnes désespérées, fuyant la violence et qui finissent par mourir, être mises en détention ou se retrouver bloquées.

    Ces tragédies ne sont pas seulement une conséquence malheureuse des conflits et des guerres en cours dans différents endroits du monde. Elles sont aussi le résultat des politiques migratoires européennes mises en œuvre depuis les accords de Schengen de 1985. Ces politiques se sont concentrées sur le renforcement des frontières, le développement de méthodes sophistiquées de surveillance et de traque des personnes, ainsi que l’augmentation des déportations, tout en réduisant les possibilités de résidence légale malgré des besoins accrus. Cette approche a conduit un grand nombre de personnes fuyant la violence et les conflits et incapables d’entrer en Europe de manière légale à emprunter des routes toujours plus dangereuses.

    Ce qui est moins connu, c’est que les tragédies causées par cette politique européenne se jouent également bien au-delà de nos frontières, dans des pays aussi éloignés que le Sénégal ou l’Azerbaïdjan. Il s’agit d’un autre pilier de la gestion européenne des flux migratoires : l’externalisation des frontières. Depuis 1992, et plus encore depuis 2005, l’UE a mis en œuvre des politiques visant à externaliser les frontières du continent et empêcher les populations déplacées de parvenir à ses portes. Cela implique la conclusion d’accords avec les pays voisins de l’UE afin qu’ils reprennent les réfugiés déportés et adoptent, comme l’Europe, des mesures de contrôle des frontières, de surveillance accrue des personnes et de renforcement de leurs frontières. En d’autres termes, ces accords ont fait des pays voisins de l’UE ses nouveaux garde-frontières. Et parce qu’ils sont loin des frontières européennes et de l’attention médiatique, les impacts de ces politiques restent relativement invisibles aux yeux des citoyens européens.

    Ce rapport cherche à mettre en lumière les politiques qui fondent l’externalisation des frontières européennes et les accords conclus, mais aussi les multinationales et sociétés privées qui en bénéficient, et les conséquences pour les personnes déplacées ainsi que pour les pays et les populations qui les accueillent. Il est le troisième de la série Border Wars, qui vise à examiner les politiques frontalières européennes et à montrer comment les industries des secteurs de l’armement et de la sécurité ont contribué à façonner les politiques de sécurisation des frontières de l’Europe, puis en ont tiré les bénéfices en obtenant un nombre croissant de contrats dans le secteur.

    Ce rapport étudie l’augmentation significative du nombre de mesures et d’accords d’externalisation des frontières depuis 2005, le phénomène s’accélérant massivement depuis le sommet Europe-Afrique de La Valette en novembre 2015. Via une série de nouveaux instruments, tels que le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (EUTF), le Cadre pour les partenariats avec les pays tiers en matière de gestion des migrations et la Facilité en faveur des réfugiés en Turquie, l’UE et les États membres injectent des millions d’euros dans un ensemble de projets visant à prévenir la migration de certaines populations vers le territoire européen.

    Cela implique la collaboration avec des pays tiers en matière d’accueil des personnes déportées, de formation des forces de police et des garde-frontières ou le développement de systèmes biométriques complets, ainsi que des donations d’équipements incluant hélicoptères, bateaux et véhicules, mais aussi des équipements de surveillance et de contrôle. Si de nombreux projets sont coordonnés par la Commission européenne, un certain nombre d’États membres, tels que l’Espagne, l’Italie et l’Allemagne, prennent également des initiatives individuelles plus poussées en finançant et en soutenant les efforts d’externalisation des frontières par le biais d’accords bilatéraux.

    Ce qui rend cette collaboration particulièrement problématique est le fait que de nombreux gouvernements qui en bénéficient sont profondément autoritaires, et que les financements sont souvent destinés aux organes de l’État les plus responsables des actes de répression et de violations des droits humains. L’UE fait valoir, à travers l’ensemble de ses politiques, une rhétorique consensuelle autour de l’importance des droits humains, de la démocratie et de l’état de droit ; il semble cependant qu’aucune limite ne soit posée lorsque l’Europe soutient des régimes dictatoriaux pour que ces derniers s’engagent à empêcher « l’immigration irrégulière » vers le sol européen. Le résultat concret se traduit par des accords et des financements conclus entre l’UE et des régimes aussi tristement célèbres que ceux du Tchad, du Niger, de Biélorussie, de Libye ou du Soudan.

    Les politiques européennes dans ce domaine ont des conséquences considérables pour les personnes déplacées, que le statut « illégal » rend déjà vulnérables et plus susceptibles de subir des violations de droits humains. Nombre d’entre elles finissent exploitées, avec des conditions de travail inacceptables, ou encore sont mises en détention ou directement déportées dans le pays qu’elles ont fui. Les femmes réfugiées sont particulièrement menacées par les violences basées sur le genre, les agressions et l’exploitation sexuelles.

    La violence et la répression que subissent les déplacés favorisent également l’immigration clandestine, reconfigurant les activités des passeurs et renforçant le pouvoir des réseaux criminels. De fait, les personnes déplacées sont souvent forcées de se lancer sur des routes alternatives, plus dangereuses, et de s’en remettre à des trafiquants de moins en moins scrupuleux. En conséquence, le nombre de morts sur les routes migratoires s’élève de jour en jour.

    En outre, le renforcement des organes de sécurité de l’Etat dans l’ensemble des pays du MENA (Moyen Orient Afrique du Nord), du Maghreb, du Sahel et de la Corne de l’Afrique constitue une menace directe contre les droits humains et la responsabilité démocratique dans ces zones, notamment en détournant des ressources essentielles qui pourraient suppress être destinées à des mesures économiques ou sociales. En effet, ce rapport montre que l’obsession européenne à prévenir les flux migratoires réduit non seulement les ressources disponibles, mais dénature également les échanges, l’aide et les relations internationales entre l’Europe et ces régions. Comme l’ont signalé de nombreux experts, ce phénomène crée un terreau favorable à toujours plus d’instabilité et d’insécurité, et a pour conséquence de pousser toujours plus de personnes à prendre la route de l’exil.

    Un secteur économique a cependant grandement tiré parti des programmes d’externalisation des frontières de l’UE. En effet, comme l’ont montré les premiers rapports Border Wars, les secteurs de l’industrie militaire et de sécurité ont été les principaux bénéficiaires des contrats de fourniture d’équipements et de services pour la sécurité frontalière. Les entreprises de ces secteurs travaillent en partenariat avec un certain nombre d’institutions intergouvernementales et (semi) publiques qui ont connu une croissance significative ces dernières années, à mesure qu’étaient mise en oeuvre des dizaines de projets portant sur la sécurité et le contrôle des frontières dans des pays tiers.
    Le rapport révèle que :

    La grande majorité des 35 pays considérés comme prioritaires par l’UE pour l’externalisation de ses frontières sont gouvernés par des régimes autoritaires, connus pour leurs violation des droits humains et avec des indicateurs de développement humain faibles.
    48% d’entre eux (17) ont un gouvernement autoritaire, et seulement quatre d’entre eux sont considérés comme démocratiques (mais toujours imparfaits)
    448% d’entre eux (17) sont listés comme « non-libres », et seulement trois sont listés comme « libres » ; 34% d’entre eux (12) présentent des risques extrêmes en matière de droits humains et les 23 autres présentent des risques élevés.
    51% d’entre eux (18) sont caractérisés par un « faible développement humain », seulement huit ont un haut niveau de développement humain.
    Plus de 70% d’entre eux (25) se situent dans le dernier tiers des pays du monde en termes de bien-être des femmes (inclusion, justice et sécurité)

    Les États européens continuent à vendre des armes à ces pays, et cela en dépit du fait que ces ventes alimentent les conflits, les actes de violence et de répression, et de ce fait contribuent à l’augmentation du nombre de réfugiés. La valeur totale des licences d’exportations d’armes délivrées par les États membres de l’UE à ces 35 pays sur la décennie 2007-2016 dépasse les 122 milliards d’euros. Parmi eux, 20% (7) sont sous le joug d’un embargo sur les ventes d’armes demandé par l’UE et/ou les Nations Unies, mais la plupart reçoivent toujours des armes de certains États membres, ainsi qu’un soutien à leurs forces armées et de sécurité dans le cadre des efforts liés aux politiques migratoires.

    Les dépenses de l’UE en matière de sécurité des frontières dans les pays tiers ont considérablement augmenté. Bien qu’il soit difficile de trouver des chiffres globaux, il existe de plus en plus d’instruments de financement pour les projets liés aux migrations, la sécurité et les migrations provient de plus en plus d’instruments, la sécurité et les migrations irrégulières étant les principales priorités. Ces fonds proviennent aussi de l’aide au développement. Plus de 80% du budget de l’EUTF vient du Fonds européen de développement et d’autres fonds d’aide au développement et d’aide humanitaire.

    L’augmentation des dépenses en matière de sécurité des frontières a bénéficié à un large éventail d’entreprises, en particulier des fabricants d’armes et des sociétés de sécurité biométrique. Le géant de l’armement français Thales, qui est également un exportateur incontournable d’armes dans la région, est par exemple un fournisseur reconnu de matériel militaire et de sécurité pour la sécurisation des frontières et de systèmes et équipements biométriques. D’autres fournisseurs importants de systèmes biométriques incluent Véridos, OT Morpho et Gemalto (qui sera bientôt racheté par Thales). L’Allemagne et l’Italie financent également leurs propres groupes d’armement – Hensoldt, Airbus et Rheinmetall pour l’Allemagne et Leonardo et Intermarine pour l’Italie – afin de soutenir des programmes de sécurisation des frontières dans un certain nombre de pays du MENA, en particulier l’Égypte, la Tunisie et la Libye. En Turquie, d’importants contrats de sécurisation des frontières ont été remportés par les groupes de défense turcs, notamment Aselsan et Otokar, qui utilisent les ressources pour subventionner leurs propres efforts de défense, également à l’origine des attaques controversées de la Turquie contre les communautés kurdes.

    Un certain nombre d’entreprises semi-publiques et d’organisations internationales ont également conclu des contrats de conseil, de formation et de gestion de projets en matière de sécurité des frontières. On y trouve la société para-gouvernementale française Civipol, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Centre international pour le développement des politiques migratoires (ICMPD). Les groupes Thales, Airbus et Safran sont présents au capital de Civipol, qui a rédigé en 2003, à titre de consultant pour la Commission Européenne, un document très influent établissant les fondations pour les mesures actuelles d’externalisation des frontières, dont elle bénéficie aujourd’hui.

    Les financements et les dons en matière d’équipements militaires et de sécurité ainsi que la pression accrue sur les pays tiers pour qu’ils renforcent leurs capacités de sécurité aux frontières ont fait croître le marché de la sécurité en Afrique. Le groupe de lobbying Association européenne des industries aérospatiales et défense (ASD) a récemment concentré ses efforts sur l’externalisation des frontières de l’UE. De grands groupes d’armement tels qu’Airbus et Thales lorgnent également sur les marchés africains et du Moyen-Orient, en croissance.

    Les décisions et la mise en œuvre de l’externalisation des frontières au niveau de l’Union européenne ont été caractérisées par une rapidité d’exécution inhabituelle, hors du contrôle démocratique exercé par le Parlement européen. De nombreux accords importants avec des pays tiers, parmi lesquels les pactes « Migration Compact » signés dans le Cadre pour les partenariats et l’Accord UE- Turquie, ont été conclus sans ou à l’écart de tout contrôle parlementaire.

    Le renforcement et la militarisation de la sécurité des frontières ont conduit à une augmentation du nombre de morts parmi les personnes déplacées. En général, les mesures visant à bloquer une route particulière de migration poussent les personnes vers des routes plus dangereuses. En 2017, on a dénombré 1 mort pour 57 migrants traversant la Méditerranée ; en 2015, ce chiffre était de 1 pour 267. Cette statistique reflète le fait qu’en 2017, les personnes déplacées (pourtant moins nombreuses qu’en 2015), principalement originaires d’Afrique de l’Ouest et de pays subsahariens, ont préféré la route plus longue et plus dangereuse de la Méditerranée Centrale plutôt que la route entre la Turquie et la Grèce empruntée en 2015 par des migrants (principalement Syriens). On estime que le nombre de migrants morts dans le désert est au moins le double de ceux qui ont péri en Méditerranée, bien qu’aucun chiffre officiel ne soit conservé ou disponible.

    On assiste à une augmentation des forces militaires et de sécurité européennes dans les pays tiers pour la sécurité aux frontières. L’arrêt des flux migratoires est devenu une priorité des missions de Politique de sécurité et de défense commune (PSDC) au Mali et au Niger, tandis que des États membres tels que la France ou l’Italie ont également décidé de déployer des troupes au Niger ou en Libye.

    Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, collabore de plus en plus avec les pays tiers. Elle a entamé des négociations avec des pays voisins de l’UE pour mener des opérations conjointes sur leurs territoires. La coopération en matière de déportation est déjà largement implantée. De 2010 à 2016, Frontex a coordonné 400 vols de retours conjoints avec des pays tiers, dont 153 en 2016. Depuis 2014, certains de ces vols ont été appelés « opérations de retour conjoint », l’avion et les escortes navigantes provenant des pays de destination. Les États membres invitent de plus en plus fréquemment des délégations de pays tiers à identifier les personnes « déportables » sur la base de l’évaluation de nationalité. Dans plusieurs cas, ces identifications ont conduit à l’arrestation et à la torture des personnes déportées.

    Ce rapport examine ces impacts en cherchant à établir comment ces politiques ont été mises en œuvre en Turquie, en Libye, en Égypte, au Soudan, au Niger, en Mauritanie et au Mali. Dans tous ces pays, pour parvenir à la conclusion de ces accords, l’UE a dû fermer les yeux ou limiter ses critiques sur les violations des droits humains.

    En Turquie, l’UE a adopté un modèle proche de celui de l’Australie, externalisant l’ensemble du traitement des personnes déplacées en dehors de ses frontières, et manquant ainsi à des obligations fondamentales établies par le droit international, telles que le principe de non-refoulement, le principe de non-discrimination (l’accord concerne exclusivement les populations syriennes) et le principe d’accès à l’asile.

    En Libye, la guerre civile et l’instabilité du pays n’ont pas empêché l’UE ni certains de ses États membres, comme l’Italie, de verser des fonds destinés aux équipements et aux systèmes de gestion des frontières, à la formation des garde-côtes et au financement des centres de détention – et ce bien qu’il ait été rapporté que des garde-côtes avaient ouvert le feu sur des bateaux de migrants ou que des centres de détentions étaient gérés par des milices comme des camps de prisonniers.

    En Égypte, la coopération frontalière avec le gouvernement allemand s’est intensifiée malgré la croissante consolidation du pouvoir militaire dans le pays. L’Allemagne finance les équipements et la formation régulière de la police aux frontières égyptienne. Les personnes déplacées se trouvent régulièrement piégées dans le pays, dans l’impossibilité de se rendre en Libye du fait de l’insécurité qui y règne, et subissent les tirs des gardes-côtes égyptiens s’ils décident de prendre la route maritime.

    Au Soudan, le soutien à la gestion des frontières fourni par l’UE n’a pas seulement conduit à suppress sortir un régime dictatorial de son isolement sur la scène internationale, mais a également renforcé les Forces de soutien rapide, constituées de combattants de la milice Janjawid, considérée comme responsables de violations de droits humains au Darfour.

    La situation au Niger, un des pays les plus pauvres au monde, montre bien le coût de la politique de contrôle des migrations subi par les économies locales. La répression en cours à Agadez a considérablement affaibli l’économie locale et poussé la migration dans la clandestinité, rendant la route plus dangereuse pour les migrants et renforçant le pouvoir des gangs de passeurs armés. De même au Mali, l’imposition des mesures d’externalisation des frontières par l’UE dans un pays tout juste sorti d’une guerre civile menace de raviver les tensions et de réveiller le conflit.

    L’ensemble des cas étudiés met en lumière une politique de l’UE via-à-vis de ses voisins obsessionnellement focalisée sur les contrôles migratoires, quel que soit le coût pour les pays concernés ou les populations déplacées. C’est une vision étroite et finalement vouée à l’échec de la sécurité, car elle ne s’attaque pas aux causes profondes qui poussent les gens à migrer : les conflits, la violence, le sous-développement économique et l’incapacité des États à gérer correctement ces situations. Au lieu de cela, en renforçant les forces militaires et de sécurité dans la région, ces politiques prennent le risque d’exacerber la répression, de limiter la responsabilité démocratique et d’attiser des conflits qui pousseront plus de personnes à quitter leurs pays. Il est temps de changer de cap. Plutôt que d’externaliser les frontières et les murs, nous devrions externaliser la vraie solidarité et le respect des droits de l’homme.


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    pour télécharger le #rapport :
    https://www.tni.org/files/publication-downloads/expanding_the_fortress_-_1.6_may_11.pdf

    cc @reka @albertocampiphoto @daphne @marty

    • Esternalizzare le frontiere europee significa militarizzare

      Come dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, «Espandendo la Fortezza», la crescita della spesa per il controllo delle frontiere esterne avvantaggia produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda europea sotto forma di decisioni politiche. Sara Prestianni analizza le conseguenze militari dell’esternalizzazione delle frontiere europee.

      http://openmigration.org/analisi/esternalizzare-le-frontiere-europee-significa-militarizzare

    • 3 liens vers des articles/reportages de #Gabriele_Del_Grande, un des premiers journalistes à avoir visité les centres en Libye.

      C’était 2008-2009
      Libia: siamo entrati a #Misratah. Ecco la verità sui 600 detenuti eritrei

      Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

      Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

      La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

      Il direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

      Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. “Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno”.

      La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. “Siamo in troppi qui, è sovraffollato – dice S. – non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala”. Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

      A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... “Sono anche io un prigioniero” gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: “Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perchè? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perchè..”

      Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore. “Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito”.

      Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate – come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

      Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. E’ partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

      Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. E’ il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però – secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

      Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. E’ uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Y. però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

      Scendiamo in una traversa sterrata di Shar‘a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perchè l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar‘a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

      Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

      Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. “Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi”. Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

      Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Y.. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libia-siamo-entrati-misratah-ecco-la.html

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      Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
      SEBHA - “Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion come quelli per la frutta, dove non c’è aria e dove stavamo stretti stretti, senza spazio per muoversi, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato dalle 16:00 alle 13:00 del giorno dopo. Durante il giorno ogni volta che l’autista faceva una sosta per mangiare noi rimanevamo chiusi dentro il rimorchio sotto il sole. Mancava l’aria e tutti si alzavano in preda al panico perché non si respirava e volevamo scendere. Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam. Il camion si è fermato almeno tre volte nel deserto per far mangiare gli autisti e per la preghiera... Verso l’una siamo arrivati a Kufrah… Quando sono sceso ho rubato il burro con il pane che tenevano appeso fuori dal container. Non avevamo mangiato per tutto il viaggio, eravamo 110 persone, compreso Adam di quattro anni e sua madre”. [1]

      Menghistu non è l’unico a essere stato chiuso dentro un container e deportato. In Libia è la prassi. I container servono a smistare nei vari campi di detenzione i migranti arrestati sulle rotte per Lampedusa. Ne esistono di tre tipi. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. Quando un rifugiato eritreo, nella primavera del 2006, me ne parlò per la prima volta, stentai a crederlo. L’immagine di centinaia di uomini, donne e bambini rinchiusi dentro una scatola di ferro per essere concentrati in dei campi di detenzione e da lì deportati, mi rievocava i fantasmi della seconda guerra mondiale. Mi sembrava troppo. Ma la figura del container ritornava, come un marchio di autenticità, in tutte le storie di rifugiati transitati dalla Libia che avevo intervistato dopo di lui. Finché quei camion ho avuto modo di vederli con i miei occhi.

      A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Siamo alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato, è parcheggiato un camion con uno dei container utilizzati per lo smistamento degli immigrati detenuti. Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Su una c’è scritto Gambia.

      L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto. Ognuno prima di partire si porta dietro una o due taniche. Le riveste di juta per proteggerle dal sole e ci scrive su il proprio nome per riconoscerle una volta appese ai lati dei camion. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il motore va in panne, se il camion si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono a decine ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Sulla stampa internazionale abbiamo censito almeno 1.621 vittime in tutto il Sahara. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, ogni viaggio conta i suoi morti. E ogni viaggio conta i suoi attacchi da parte di bande armate in Niger e Algeria.

      Tra i cento migranti arrivati a Sebha nel container di ieri c’è anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Arrestati tre giorni prima, a Ghat, alla frontiera con l’Algeria. Li incontriamo nell’ufficio del direttore. Il piccolino ha otto anni, faceva la terza elementare. Il padre lo stringe affettuosamente tra le forti braccia, mentre racconta in arabo, al nostro interprete, che lui in Europa non ci voleva andare. Che era venuto a Sebha perché aveva già lavorato qui nel 2002, con una compagnia tedesca. Hanno con sé i passaporti, ma senza il visto libico. Nel campo sono chiusi in celle separate. Il bimbo sta con la madre. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi undici mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone, soprattutto nigeriani, maliani, nigerini, ghanesi, senegalesi e burkinabé. Solo a novembre i rimpatri sono stati 1.120. Zarruq mi mostra l’elenco dei voli: 467 nigeriani deportati il 2 settembre, 420 maliani a metà novembre. Le ambasciate mandano qui i loro funzionari per identificare i propri cittadini, e poi si provvede al rimpatrio. Kabbiun e Ajouas hanno già incontrato l’ambasciata nigeriana. I piedi di Kabbiun sono scalzi. Lo hanno arrestato a Ghat, le scarpe le ha lasciate in mezzo al deserto. Ajouas invece viveva a Tripoli da sei anni. Nessuno di loro ha visto un giudice o un avvocato. Avviene tutto senza convalida e senza nessuna possibilità di presentare ricorso e tantomeno di chiedere asilo politico.

      È il caso di Patrick. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato un mese fa a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Possiamo parlare liberamente in francese, perché l’interprete non lo conosce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella. Sono camerate di otto metri per otto. I detenuti sono buttati per terra su stuoini e cartoni. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Ogni camerata è riempita con 60-70 persone. Stanno chiusi tutto il giorno, escono solo per i pasti, in un locale adibito a mensa, accanto a un piccolo chiosco dove i detenuti possono comprare bibite, dolci o medicine, sempre all’interno del muro di cinta.

      Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Zarruq scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara. E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a sha‘abiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti. Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti “rimpatri volontari”, quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

      Ma Zarruq non ha intenzione di parlare di questo. E nemmeno il luogo tenente Ghrera. È lui il responsabile delle pattuglie nel Sahara. L’Italia e l’Europa si sono impegnate a finanziare alla Libia un sistema di controllo elettronico delle frontiere terrestri, firmato FinMeccanica. Lui alla sola idea sorride. Lavora nel deserto da 35 anni. Conosce bene il terreno. Per darci un’idea ci accompagna a Zellaf, 20 km a sud di Sebha. Ancora non siamo nel grande Sahara. Eppure davanti a noi non si vede che sabbia. I due fuoristrada, dopo una corsa a cento km all’ora sulle dune, fermano i motori. Ghrera e l’altro autista, ‘Ali, si lavano le mani nella sabbia. E si inginocchiano verso est. Dopo la preghiera, si riavvicinano. Controllare le rotte nel Sahara è impossibile, dice. Sono 5.000 km di deserto. Un’area troppo vasta e un terreno troppo accidentato Gli 89 autisti – quasi tutti libici – arrestati nei primi undici mesi del 2008 sono un’inezia rispetto alle migliaia di persone che attraversano il Sahara ogni anno. Alle missioni di pattugliamento partecipano gruppi di 10 fuoristrada. Stanno fuori per cinque giorni, ci spiega. Poi sorride. Ha trovato una bottiglia vuota di Gin, per terra. L’alcol in Libia è illegale. E infatti sulla bottiglia c’è scritto fabriqué au Niger, prodotto in Niger. Ghrera lancia la bottiglia nella sabbia, poco lontano. Non dice niente. I traffici non riguardano solo gli immigrati. Ci sono l’alcol, le sigarette, la droga, le armi. Prima di riaccendere il motore ribadisce il concetto: anche con il doppio delle pattuglie, il deserto rimane una porta aperta.

      Il centro di detenzione di Sebha non è l’unico campo di detenzione al sud. Ce ne sono almeno altri cinque. Quelli di Shati, Qatrun, Ghat e Brak, nel sud ovest del paese, fanno capo a Sebha, nel senso che gli immigrati arrestati in queste località vengono poi smistati a Sebha dentro i container. L’altro campo si trova 800 km a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. È il carcere che gode della peggiore fama, tra gli stessi libici.

      Mohamed Tarnish è il presidente dell’Organizzazione per i diritti umani, una ong libica finanziata dalla Fondazione di Saif al Islam Gheddafi, il primogenito del colonnello. Ci incontriamo al Caffè Sarayah, a due passi dalla Piazza Verde, a Tripoli. La sua organizzazione, sotto la guida del suo predecessore, Jum‘a Atigha, ha ottenuto il rilascio di circa 1.000 prigionieri politici e si è battuta per il miglioramento delle condizioni delle carceri libiche. Da un paio d’anni hanno accesso anche ai centri di detenzione degli immigrati. Ne hanno visitati sette. Ha la bocca cucita, davanti a noi c’è un funzionario dell’agenzia per la stampa estera del governo libico. Ma riesce comunque a farci capire che il centro di Kufrah è il peggiore. Le condizioni del vecchio fabbricato, il sovraffollamento, la scadenza del cibo e l’assenza di assistenza sanitaria.

      Per capire il significato delle allusioni di Tarnish, rileggo le interviste fatte ai rifugiati eritrei ed etiopi nel 2007.“Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto” - “Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini” - “Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone” - “Di notte mi portavano in cortile. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana” – “Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi” - “C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli” - “I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti”. È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

      Non sono stato autorizzato a visitare il centro di Kufrah e non ho potuto verificare di persona. Tuttavia il fatto che le versioni dei tanti rifugiati con cui ho parlato coincidano nel disegnare un luogo di abusi, violenze e torture, mi fa pensare che sia tutto vero. Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Poco importa. Dal 2003, Italia e Unione Europea finanziano operazioni di contrasto dell’immigrazione in Libia. La domanda è la seguente: perché fingono tutti di non sapere?

      Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: “I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”. Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia. E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’ipocrita Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici “difficili” ma in fin dei conti “accettabili alla luce del contesto generale”. Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? “Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto”. Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

      [1] Testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/frontiera-sahara-i-campi-di-detenzione.html

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      Guantanamo Libia. Il nuovo gendarme delle frontiere italiane

      La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.

      I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: “Aiutateci!”. Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri.

      “La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte”. Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.

      All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde “Everything is good”. Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.

      Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325 persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

      Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

      Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

      “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione.

      Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”.

      Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.

      Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv.

      Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema dell’immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti. Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. “Due milioni di immigrati in Libia pronti a partire per l’Italia? Non è vero”. In realtà non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però – secondo Attir – non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior parte di loro non ha mai pensato all’Europa. E la Libia ha bisogno di loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle pressioni che l’Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue frontiere. Ma sa che “non c’è modo per farlo”.

      La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall’Italia. Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km. Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005. Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132 nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company.

      E proprio da Mellitah parte il #Greenstream, il gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata del Canale di Sicilia. Un’immagine che sintetizza perfettamente le relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte all’insegna dello slogan “più petrolio e meno immigrati”.

      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html
      #gazoduc

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      Liens qu’il a mis aujourd’hui sur FB pour accompagner ce message:

      Non conosco nessuno dell’equipaggio di #Lifeline, la nave della ONG accusata dal ministro Salvini di aver agito fuorilegge soccorrendo 239 passeggeri in difficoltà in acque libiche. Purtroppo però conosco bene le carceri libiche. Fui il primo giornalista italiano a visitarle nel 2008 insieme al collega e amico Roman Herzog. Abusi, pestaggi, violenze sulle donne erano la norma già allora. Gli unici che si salvavano erano quelli che riuscivano a farsi mandare abbastanza soldi dai familiari in Europa con cui corrompevano facilmente le guardie colluse con le mafie del contrabbando per farsi rilasciare e tentare di nuovo la traversata. Gli altri, dopo mesi di prigione in condizioni inumane venivano rimpatriati sui voli dell’OIM oppure, molto più spesso, stipati come vuoti a rendere dentro i container dei camion che prendevano la via del deserto, per decine di ore, mentre sotto il sole le lamiere di ferro diventavano un forno, per essere infine abbandonati alla frontiera sud con il Niger e il Sudan, in una terra di nessuno. E quanti ne sono morti anche lì, in mezzo al Sahara. Con molti giornalisti e documentaristi abbiamo denunciato questa situazione fin dal 2007. Da quando Prodi e Amato negoziarono gli accordi di respingimento con Gheddafi a quando Berlusconi e Maroni li misero in pratica nel 2009. Da allora sembra non essere cambiato molto. E allora, pur non conoscendoli, mi azzardo a pensare che l’equipaggio della #Lifeline abbia disobbedito all’ordine di consegnare i passeggeri alla guardia costiera libica temendo per il destino di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, immaginando il triste destino che li attendeva nelle prigioni oltremare.

      Dopodiché se il comportamento della #Lifeline costituisca un reato lo deciderà un giudice anche alla luce di queste considerazioni. Perché quello che il ministro Salvini si dimentica di ricordare è che la Libia non è Malta, non è la Spagna, non è la Francia. La Libia di oggi non è un paese sicuro.

      Ciononostante, attenzione, gli sbarchi devono cessare. Ma come si fa?

      Si aprono vie legali. Perché, ministro, da contribuenti italiani non vogliamo finanziare altre prigioni in Libia. Vogliamo finanziare asili nido, scuole, parchi, ospedali. Non vogliamo continuare a finanziare le milizie colluse con le stesse mafie del contrabbando che dite di voler combattere.

      Per sconfiggere quelle mafie, azzerare gli sbarchi e porre fine alle tragedie delle traversate c’è un unico modo: legalizzare l’emigrazione Africa-Europa. Perché fin quando quell’emigrazione sarà illegale, ci sarà qualche mafia pronta a lucrarci. Oggi i libici, domani gli egiziani o i tunisini. Il mare è grande e incontrollabile.

      La soluzione sarebbe così semplice che è incredibile credere che i vostri consiglieri non ve l’abbiano prospettata. Andate in Europa e chiedete a gran voce che le ambasciate UE in Africa riaprano i canali legali dei visti che hanno progressivamente chiuso in questi ultimi vent’anni, spingendo centinaia di migliaia di giovani nelle mani del contrabbando libico a cui abbiamo concesso il monopolio della mobilità sud-nord in questo mare.

      Calcolate quante persone ogni anno attraversano il mare per rimanere bloccati in Italia, senza documenti e senza lavoro. Calcolate quanti sono e rilasciate lo stesso numero di visti per ricerca di lavoro. Affinché quelle stesse persone possano comodamente imbarcarsi in aereo, con in tasca un passaporto e un visto europeo liberi di circolare in tutta Europa, ricongiungersi con i propri familiari e cercare lavoro là dove il lavoro c’è, in quel centro e nord Europa che in questi anni ha importato milioni di lavoratori dall’est mentre noi a sud predicavamo il blocco navale e continuavamo a contare i morti.

      In caso contrario, signor ministro, siate più chiari. Dite semplicemente che di negri in Europa non volete vederne. Né per le vie legali né per quelle illegali.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2121309374549318&id=100000108285082

    • La zona SAR libica non esiste. Il grande inganno nel rimbalzo dei soccorsi

      "Una zona SAR libica ad oggi non esiste”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di immigrazione, membro del direttivo di Osservatorio Solidarietà. “E non esiste in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR”, aggiunge l’avvocato.

      I requisiti consistono nell’accordo tra lo Stato che si pone come responsabile delle operazioni di salvataggio in una propria area di mare l’Organizzazione marittima internazionale (IMO). A quel punto i dati della zona SAR devono essere inseriti in un database ufficiale e pubblico, il GISIS. A marzo, in seguito al caso Open Arms, Famiglia Cristiana aveva fatto una verifica con l’IMO e la risposta ricevuta era stata: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”.

      “Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia costiera italiana proprio perché la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato”, aggiunge Vassallo Paleologo.

      “Ma tutto è cambiato dal caso Aquarius”. Infatti da alcuni giorni anche sul sito dell’IMO compare il riferimento alla zona SAR libica “ma continua a non esistere uno stato unitario e anche le guardie costiere delle diverse città rispondono a milizie diverse“, avverte l’avvocato. “Alla fine il risultato è che il trasferimento di competenze ai libici e l’allontanamento delle Ong produce un ritardo nei soccorsi, un amento delle vittime e delle persone riportate nei centri di detenzione in Libia dove continuano gli abusi”.

      Esiste invece una zona SAR maltese. Ma Malta ha dichiarato unilateralmente la sua zona di ricerca e soccorso, un’area molto ampia che però non è riconosciuta dalle autorità marittime internazionali poiché il Governo de la Valletta non ha mai sottoscritto alcune modifiche della convenzione di Amburgo del 1979 e della convenzione #Solas introdotte nel 2004. Queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi, in base al diritto internazionale e alla prassi i soccorsi coordinati dall’Italia hanno sempre indicato un porto di sbarco italiano.

      http://osservatoriosolidarieta.org/la-zona-sar-libica-non-esiste-il-grande-inganno-nel-rimbalz
      #Malte #SAR

    • Conséquences pour les droits de l’homme de la « dimension extérieure » de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne : loin des yeux, loin des droits ?

      Les objectifs de la délégation des procédures de migration aux pays en dehors des frontières de l’Union européenne sont, entre autres, d’alléger la pression migratoire des États membres aux frontières de l’UE et de réduire le besoin des migrants d’entreprendre des voyages terrestres et maritimes potentiellement mortels. La réinstallation dans toute l’Europe devrait ensuite faciliter un afflux plus régulier sur le continent. Cependant, le transfert des responsabilités et l’engagement de pays tiers dans le renforcement de contrôles aux frontières de l’UE comportent de sérieux risques pour les droits de l’homme. Il augmente le risque que les migrants soient « bloqués » dans les pays de transit par la réadmission et le recours accru à des mesures punitives et restrictives telles que le refoulement, la rétention arbitraire et les mauvais traitements. C’est également un moyen pour de nombreux États membres de l’Union européenne de prendre leurs distances par rapport à la question de l’assistance et de l’intégration des réfugiés, qui est source de divisions politiques.

      Ce #rapport exhorte les États membres à œuvrer ensemble pour que le recours accru à des politiques de dissuasion ne porte pas atteinte au devoir des États européens de respecter et de défendre les droits de l’homme à l’échelle mondiale et à s’abstenir d’externaliser le contrôle des migrations vers les pays où la législation, les politiques et les pratiques ne respectent pas les normes de la Convention européenne des droits de l’homme et de la Convention des Nations Unies relative au statut des réfugiés.

      http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-fr.asp?fileid=24808&lang=fr

    • Sahel, la France en guerre ?

      Au Mali, alors que la campagne pour les élections présidentielles du 29 juillet bat son plein, l’insécurité liée au terrorisme grandit. La France a-t-elle encore un rôle a jouer ? Elle a depuis 2013 une forte présence militaire entre le Sahel et le Sahara, mais quelle place tient-elle dans la guerre contre le terrorisme ?

      Sahel, la France en guerre ? Par David Dominé-Cohn ntoine de Saint-Exupéry dans Terre des hommes (1939) dresse le portrait des officiers français des compagnies méharistes au Sahara. Développées à partir de 1897 par le commandant Laperrine, ces unités d’infanterie, relevant pour partie de la Légion étrangère, apparentées aussi aux spahis, ont effectué un travail de police et de contrôle des populations des oasis. Chez l’écrivain, le capitaine Bonnafous exerce son autorité, fascinante pour l’observateur occidental, dans un mélange d’héroïsme, d’humanité et d’extrême violence : « À cause de Bonnafous chaque pas vers le sud devient un pas riche de gloire »… et d’insurrections des populations locales.

      Les grandes formes historiques semblent se reproduire dans le désert. Depuis 2013, la France entretient une présence militaire entre le Sahel et le Sahara : 4500 hommes au printemps 2018. Avec 500 opérations en trois ans et demi, l’objectif affiché est d’abord de maintenir la pression sur les groupes terroristes et d’apporter un soutien à la population locale. Les attaques terroristes sur place sont l’occasion de s’interroger sur l’espace du Sahara et du Sahel comme étant redevenu un espace majeur d’action militaire de la France. Témoignant dans le livre de David Revault d’Allones, Les guerres du président (2015), Sacha Mandel, plume de Jean-Yves Le Drian, revendique le terme de guerre pour ce qui a causé, pour la France 22 morts et des dizaines de blessés et des centaines morts et de blessés pour les adversaires. Or peut-on faire la guerre au terrorisme ?

      Faire la « guerre au #Mali » puis faire la guerre au #terrorisme

      L’intervention française au Mali avec l’opération Serval commence le 11 janvier 2013 pour soutenir l’État malien dans la reprise des villes du pays contrôlées par une alliance entre le MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad) touareg, qui réclame le développement et l’indépendance du Nord du pays, l’Azawad, et des mouvements islamistes comme Ansar Dine et le MUJAO (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) et d’autres issus de la guerre civile algérienne des années 1990 comme AQMI. Les opérations militaires françaises, appuyées par les forces des États voisins, visent d’abord à sécuriser Bamako, comme l’affirme le président Hollande le 15 janvier aux Émirats Arabes Unis. La boucle du fleuve Niger est reprise entre le 22 et le 28 janvier, la ville de Gao le 25. Le 27 janvier par une opération aéroportée de la Légion, Tombouctou est contrôlée, puis Kidal le 30. En février et mars les forces avancent vers le nord, vers Tesslit et Tigharghâr, pendant que Gao connaît un regain de violence et d’actes terroristes kamikazes comme dans la nuit du 9 au 10 février. Un effort important est fait pour séparer les mouvements de l’Azawad des islamistes. Ainsi, le général tchadien Mahamat Idriss Déby Itno déclare le 11 janvier à RFI que ses troupes, qui occupent la ville, entretiennent de bonnes relations avec le MNLA. Le 2 février, dans un discours à Bamako, François Hollande considère l’action française comme inachevée et se donne comme objectif l’éradication du terrorisme. Les opérations antiterroristes scandent toute la seconde moitié de l’année 2013 et le début de 2014. Le 1er août 2014, l’opération Serval et l’opération Épervier au Tchad sont regroupées dans l’opération Barkhane qui porte sur l’ensemble de la bande sahélo-saharienne. Michel Galy (La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara. Enjeux et zones d’ombre, 2013) rappelle que l’intervention française s’inscrit à la fois dans une forme de tradition française et dans un contexte général de transformation de la région. Au-delà de la remise en cause du mode de gouvernement du président Amadou Toumani Touré, les différents mouvements indépendantistes ou djihadistes s’inscrivent dans des enjeux régionaux où pèsent certains voisins du Maghreb, les puissances d’Afrique de l’Ouest et de toutes les grandes puissances mondiales occidentales ou orientales. Elles sont attentives au développement des mouvements terroristes se revendiquant de l’islam mais aussi à une région de plus en plus stratégique, jeune, au sous-sol très riche et qui sera un foyer de peuplement du XXI siècle.

      De la ligne de front à une ligne de postes

      Barkhane est devenue une opération de surveillance anti-terroriste d’un territoire immense à partir de postes avancés en liaison avec les forces locales. Le 18 avril 2018, Michel Cambon, président de la commission sénatoriale des affaires étrangères, de la défense et des forces armées souligne que dans ce cadre, la stratégie française est celle de « coups de poing » menées par des forces spéciales basées à Ouagadougou grâce au dispositif Sabre. Celui-ci est ancien, plus ancien que Barkhane et Serval. Dans le livre blanc de défense et de sécurité nationale en 2008, la désignation de l’arc de crises, allant de l’Océan atlantique à l’Océan indien entraîne la mise en place d’un plan Sahel qui comporte un large volet anti-terroriste. Comme le souligne Jean- Christophe Notin (La guerre de la France au Mali, 2014), la composante essentielle de ce volet est le prépositionnement d’unités dites Sabre de forces spéciales. Elles ont joué un rôle au début de Serval dans la protection des sites nucléaires du Niger et ont participé aux opérations Serval et Barkhane. Le soutien à la lutte anti-terroriste est un moyen majeur d’influence des grandes puissances en Afrique. Les États-Unis sont ainsi très présents depuis 2007 via leur commandement pour l’Afrique (Africom) ; la qualification de terroriste permet à chacun de se trouver un ennemi commun. Le passage d’une logique d’action militaire de reprise d’un territoire à une action de surveillance, de police et de contre-terrorisme se traduit par de nouveaux besoins en matériel, comme le souligne le sénateur Cambon : « les hélicoptères lourds, les véhicules de type quad/pickup pour la mobilité, les ISMI catcher pour l’écoute des GSM, la biométrie, la capacité « drones » ». Il conclue son rapport par « un message assez clair et assez pessimiste » : une opération militaire ne réglera pas un problème politique.

      Le terrorisme persiste largement dans la région. Le Groupement de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, qui fédère plusieurs groupes djihadistes, dont Ansar Dine, des katibats d’al-Qaïda au Maghreb islamique et d’al-Mourabitoune, lance régulièrement des attaques contre les forces dans la région. Le 2 mars 2018, deux attaques à Ouagadougou au Burkina Faso ont fait 8 morts et une soixantaine de blessés. Le 14 avril, le GSIM a lancé une attaque « complexe » avec une quinzaine d’attaquants à Tombouctou contre la force Barkhane et la Mission des Nations unies au Mali. Le groupe a revendiqué son action comme une réponse à des raids aériens. Le 5 juillet, Emmanuel Macron évoque un redéploiement du dispositif français. Le bureau pour l’Afrique de l’Ouest et le Sahel de l’ONU soulignait dans un rapport du 29 juin la montée en capacité des mouvements terroristes autant que le possible resserrement des liens entre les différents mouvements djihadistes violents avec une extension de leurs zones d’activité. La réduction des adversaires à des mouvements avant tout terroristes mais mobiles et circulant dans un large territoire a conduit à un renouvellement des logiques d’action : le droit de poursuite au-delà de la frontière est nécessaire. Créé en février 2014, le G5 regroupe le Mali, le Niger, le Burkina Faso et le Tchad. Il vise le développement régional et la lutte contre le terrorisme. Cependant l’objectif d’une force commune actée en novembre 2015 peine à se réaliser et il a fallu attendre juin 2017 pour que l’ONU salue sa mise en place. Les financements sont aujourd’hui très insuffisants par rapport aux immenses besoins nés des contraintes du territoire. La France occupe donc de fait un rôle central dans la réalisation d’opérations de contreterrorisme par sa capacité très supérieure dans les domaines du renseignement, de la mobilité et de la frappe. Dans un milieu désertique, un espace que l’on traverse, l’action militaire est une action de contrôle de flux qui entraîne soit l’enlisement, soit des reconfigurations politiques, militaires et institutionnelles profondes. La criminalisation des personnes circulant dans de tels espaces est une stratégie classique de contrôle. Pour Hélène Claudot-Hawad (Galy, La guerre au Mali, 2013), la question Touareg a été construite tout au long de la colonisation : à partir des années 1910, l’administration française déploie un projet de tribalisation dans le but de contrôler des groupes et des circulations dans la bande sahélo-saharienne. La question des Touaregs est restée problématique pour les pouvoirs issus de la décolonisation. A l’aube de la décennie 2000 les tensions sont fortes d’autant plus que les organisations régionales de contrebande rejoignent une partie des mouvements islamistes.

      L’envers de la lutte contre les pirates du désert

      Le G5 Sahel se veut l’instrument d’une action régionale centrée sur la lutte anti-terroriste. Le terroriste y est celui qui circule impunément et qui devient ce que Daniel Heller-Roazen a vu dans la figure ancienne du pirate : l’ennemi de tous (L’ennemi de tous. Le pirate contre les nations, 2010, édition originale anglaise 2009). Le pirate brouille la limite entre criminalité et politique : « la piraterie entraine une transformation du concept de guerre. » C’est dans cette perspective qu’on peut lire le rapport du Haut Commissariat des Nations Unies pour les Droits de l’Homme qui dénombre au Mali 1200 violations entre janvier 2016 et juin 2017 faisant 2700 victimes dont 441 morts. Si plus de 70% des violations sont le fait d’acteurs non étatiques on peut, par exemple, s’interroger sur le statut des 150 arrestations administratives faites par les forces de Barkhane. Les « neutralisations » des terroristes, leur mort pendant des combats ou suite à des frappes aériennes, posent également question. Le respect des Droits de l’Homme est en jeu, mais aussi le cadre juridique dans lequel interviennent les troupes françaises. En arrière plan, le rapport de l’ONU pointe que 20% des violations sont le fait des forces de sécurité maliennes. A l’horizon de ce rapport qui suit plusieurs autres avant lui, par exemple celui en mai 2017 de la FIDH « Mali : Terrorisme et impunité font chanceler un accord de paix fragile » souligne les impasses d’une approche centrée sur l’anti-terrorisme et qui ne vise pas un processus politique global dans la région. De ce fait, interroger l’action française au Sahel c’est aussi nous interroger sur le rapport au territoire des autres, particulièrement des pays en développement, le rapport aux flux dans un contexte d’urgence migratoire. Cela questionne les actions militaires futures. Ces engagements sont usants pour les hommes et les matériels et constituent un poids considérable sur notre appareil militaire. Les opérations de lutte contre le terrorisme sont légitimes dans la mesure où la terreur et les actes criminels ne sauraient être tolérés. Il faut mesurer le dilemme moral qui pèse sur tout gouvernant à la tête d’une puissance militaire capable d’une opération pour faire cesser ce qui constitue à un moment donné un scandale moral. Mais il faut admettre que ce qui constitue un scandale moral aujourd’hui s’inscrit dans des problématiques plus vastes et plus anciennes. Oublier que le terrorisme et les terroristes sont les manifestations de problèmes plus larges qu’eux-mêmes, c’est accepter de croire qu’il est possible aujourd’hui, en démocratie de faire la guerre à un mode d’action et à des idées et de gagner. L’aveuglement de certaines grandes puissances face à ces enjeux tient souvent du refoulement de problèmes qui leurs sont propres. Dans un coin du parc Montsouris à Paris, un obélisque commémore le colonel Flatters et ses compagnons tués par des Touaregs en 1881 à Bir el-Garama en tentant de rejoindre le Soudan français par le Sahara. Son expédition était l’aboutissement d’un projet porté depuis 1879 par la commission supérieure du Transsaharien visant à la création d’un chemin de fer allant de l’Algérie à Dakar via le Mali dans une double perspective de contrôle des circulations sahélo-sahariennes et donc des populations y vivant mais aussi des ressources présentes dans la région et pouvant présenter un intérêt colonial. L’échec de la mission Flatters n’a pas limité ces entreprises puisque le contrôle de ces espaces de désert a été un axe politique majeur des autorités coloniales de l’Algérie comme de l’Afrique occidentale française.

      https://aoc.media/analyse/2018/07/11/sahel-france-guerre

      signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    • États africains, portiers de l’Europe

      À coups de milliards versés par l’Union européenne, les États africains deviennent les nouveaux gardes-frontières du Vieux Continent. Cette vaste enquête menée dans douze pays explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      L’Espagne a été la première à franchir le pas : face à l’afflux de migrants sur les côtes des #Canaries, le pays a décidé de subventionner plusieurs pays d’#Afrique_de_l’Ouest afin qu’ils se chargent d’arrêter à leurs frontières les candidats à l’exil. L’#Union_européenne a emboîté le pas à l’Espagne, en conditionnant l’#aide_au_développement à destination d’une vingtaine de pays africains à un renforcement de ces contrôles. Policiers et militaires européens sont parallèlement envoyés sur place pour aider à briser les routes migratoires. L’UE n’hésite d’ailleurs pas à faire de dictatures comme l’#Érythrée et le #Soudan ses « partenaires » dans la chasse aux migrants. Les véritables gagnants de ces interventions à grande échelle sont les entreprises d’armement et de sécurité européennes, dans lesquelles sont réinvesties les subventions versées. Au fil d’une vaste enquête dans douze pays, Jan M. Schäfer explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      https://www.arte.tv/fr/videos/078195-000-A/etats-africains-portiers-de-l-europe
      #film #documentaire
      #business #armes #armement

      Le documentaire n’est plus disponible sur arte, mais peut être visionné sur Youtube, voici quelques liens actuellement valides :
      https://www.youtube.com/watch?v=IUSIi-qP2pY


      https://www.youtube.com/watch?v=o0nf5c4FOPo

      https://www.youtube.com/watch?v=Hu7VvY5fs7Y

    • La relation dangereuse entre migration, développement et #sécurité pour externaliser les frontières en Afrique

      L’ARCI, dans le cadre du projet de monitorat de l’externalisation des politiques européennes et italiennes sur les migrations – parallèlement à son travail de communication constant sur l’évolution des accords multilatéraux et bilatéraux avec les pays d’origine et de transit, a produit ce document d’analyse pour alerter la société civile et les gouvernements sur les dérives possibles de ces stratégies qui conduisent à des violations systématiques des droits fondamentaux et des Conventions internationales


      https://www.arci.it/documento/la-relation-dangereuse-entre-migration-developpement-et-securite-pour-externali
      #rapport #Soudan #Niger #Tunisie

      In English :
      https://www.arci.it/documento/the-dangerous-link-between-migration-development-and-security-for-the-externali

    • Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

      Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

      Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

      La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

      Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

      L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

      Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

      Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

      Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

      Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

      Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

      Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

      L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

      In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

      Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

      https://left.it/2018/08/07/giochi-pericolosi-delocalizzare-in-africa-le-frontiere-ue

    • Europe Is Making Its Migration Problem Worse. The Dangers of Aiding Autocrats

      Three years after the apex of the European refugee crisis, the European Union’s immigration and refugee policy is still in utter disarray. In July, Greek officials warned that they were unable to cope with the tens of thousands of migrants held on islands in the Aegean Sea. Italy’s new right-wing government has taken to turning rescue ships with hundreds of refugees away from its ports, leaving them adrift in the Mediterranean in search of a friendly harbor. Spain offered to take in one of the ships stuck in limbo, but soon thereafter turned away a second one.

      Behind the scenes, however, European leaders have been working in concert to prevent a new upsurge in arrivals, especially from sub-Saharan Africa. Their strategy: helping would-be migrants before they ever set out for Europe by pumping money and technical aid into the states along Africa’s main migrant corridors. The idea, as an agreement hashed out at a summit in Brussels this June put it, is to generate “substantial socio-economic transformation” so people no longer want to leave for a better life. Yet the EU’s plans ignore the fact that economic development in low-income countries does not reduce migration; it encourages it. Faced with this reality, the EU will increasingly have to rely on payoffs to smugglers, autocratic regimes, and militias to curb the flow of migrants—worsening the instability that has pushed many to leave in the first place.

      https://www.foreignaffairs.com/articles/africa/2018-09-05/europe-making-its-migration-problem-worse?cid=soc-tw-rdr

    • À QUI VA LA FORTUNE DÉPENSÉE POUR LUTTER CONTRE L’IMMIGRATION ?

      La politique migratoire européenne, de plus en plus restrictive, est une aubaine pour de nombreuses sociétés privées. En effet, les Etats européens sous-traitent des pans entiers de la gestion des migrations : surveillance des frontières, construction, entretien, surveillance et gestion de murs et de centres de rétention, délivrance des visas, livraison de repas, etc. Tous les éléments de cette politique coûteuse, inefficace et criminelle, profitent à de grandes entreprises, comme #Bouygues ou #Sodexo, pour ne citer que deux exemples français.

      Les migrations font partie de l’histoire de l’humanité mais les frontières n’ont jamais été aussi fermées qu’aujourd’hui. Les conventions issues des politiques migratoires actuelles ont divisé les migrants en différentes catégories (politiques, économiques, climatiques...) en fonction de la supposée légitimité ou non d’avoir accès au droit d’asile ou à séjourner sur un territoire étranger. « Le migrant économique », qui se déplace pour fuir la misère engendrée par les politiques liées au remboursement de la dette, est la catégorie qui bénéficie du moins de droits et son accès aux territoires extérieurs varie en fonction des besoins de main-d’œuvre ou des politiques de fermetures aux frontières.

      Ainsi, parmi les millions de personnes qui fuient leurs conditions de vie indécentes, celles qui migrent pour des raisons économiques seraient des migrants illégitimes ? Tout comme celles à qui on n’accorde pas le statut de réfugié politique mettant leur vie en péril ? Confrontés à une crise migratoire ou une crise de l’accueil ? Ces flux migratoires liés aux situations économiques sont en grande partie le résultat des politiques d’austérité et d’endettement insoutenables imposés par les Institutions financières internationales et les pays industrialisés du Nord aux pays appauvris du Sud, et par les pays du centre – dont ceux de l’Europe – aux pays de la périphérie. Ces politiques ont eu comme effet d’amplifier le phénomène de la pauvreté, de généraliser la précarité et, par conséquent, des situations d’exils. Les situations qui encouragent l’exode de populations pauvres sont la conséquence d’enjeux géostratégiques liés aux ressources et donc aux richesses, ou sont provoqués par l’hémorragie de capitaux pour honorer le service d’une dette bien souvent entachée d’illégitimité.

      Malmenés par la guerre ou la misère, les candidats à l’exil se retrouvent sur des routes rendues de plus en plus périlleuses par les politiques de gestion de l’immigration irrégulière. En plus d’être extrêmement coûteuses pour les populations qui en supportent les coûts, ces politiques criminalisent les migrants et les forcent à emprunter des voies de plus en plus dangereuses, comme les traversées en mer sur de frêles embarcations et à devoir s’adresser à la mafia des passeurs. Elles sont criminelles, coûteuses et inefficaces. Les murs n’ont jamais résolu de conflits et ne bénéficient qu’aux firmes qui les conçoivent, les construisent et les contrôlent.

      Loin d’adopter une politique d’accueil aux réfugiés conformément au droit international tel que stipulé par la Convention de Genève, les États adoptent des politiques sécuritaires qui bafouent le droit fondamental de liberté de circulation inscrit dans l’article 13 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme |1|. Alors que de nouveaux traités de libre-commerce ne cessent de prôner la libre-circulation des marchandises et des capitaux, les candidats à l’exil font face à des « agences de sécurité » lourdement armées et équipées par les grands industriels qui enfreignent le droit de circulation des laissés-pour-compte. Le fond de la Méditerranée est transformé en véritable fosse commune |2|, les frontières se referment et des murs sont érigés un peu partout sur la planète. Une fois passée la frontière, s’ils ne sont pas déportés vers leur pays d’origine, les migrants s’entassent dans des camps inhumains ou sont enfermés dans des centres de détention |3| qui leur sont dédiés, tels les 260 que l’on compte au sein de l’UE en 2015 |4|. Seule une faible proportion d’entre eux, suivant un fastidieux parcours bureaucratique, parvient à obtenir un droit à l’asile distribué avec parcimonie.

      A quel point les politiques migratoires européennes sont-elles dictées par l’activité de lobbying des entreprises privées de l’armement et de la sécurité ? Avec ces politiques sécuritaires, les migrants sont considérés non plus comme des personnes mais comme des numéros remplissant des quotas arbitraires pour honorer des courbes statistiques irrationnelles satisfaisant bien plus les cours de la Bourse que le bien-être collectif et les valeurs de partage et de solidarité.

      Qu’importent les conditions de travail des employés et les conditions d’accueil des migrants au mépris de leurs droits et de la dignité humaine, de plus en plus d’entreprises privées nationales ou multinationales profitent d’un business en pleine expansion aux dépens de la justice sociale et des budgets de nos États.

      Frontex, une agence européenne coûteuse, puissante, opaque et sans contrôle démocratique

      L’Europe a créé l’espace Schengen en 1985, elle l’a communautarisé en 1997 avec le traité d’Amsterdam. L’objectif annoncé était de créer un espace de « liberté, de sécurité et de justice » au sein de l’Union européenne (UE). Dans les faits, la liberté de circulation au sein de l’Europe a avancé à deux vitesses en fonction des pays et a principalement concerné les marchandises. Au fur-et-à-mesure, l’UE s’est coordonnée pour contrôler ses frontières extérieures en tentant d’appliquer une politique commune et un « soutien » aux pays ayant une frontière extérieure propice à l’entrée de migrants comme la Grèce, l’Espagne ou encore l’Italie. Depuis 2005, L’UE s’est dotée d’un arsenal militaire, l’agence Frontex, pour la gestion de la coopération aux frontières extérieures des États membres de l’Union européenne. Cette agence est la plus financée des agences de l’UE à l’heure où des efforts budgétaires sont imposés dans tous les secteurs.

      Cette agence possède des avions, des hélicoptères, des navires, des unités de radars, des détecteurs de vision nocturne mobiles, des outils aériens, des détecteurs de battement cardiaque... Frontex organise des vols de déportations, des opérations conjointes aux frontières terrestres, maritimes et aériennes |5|, la formation des gardes-frontières, le partage d’informations et de systèmes d’informations notamment via son système EUROSUR, qui a pour objectif la mise en commun de tous les systèmes de surveillance et de détections des pays membres de l’UE, etc. Son budget annuel n’a cessé d’augmenter jusqu’à ce jour : de 19 millions d’euros en 2006, il est passé à 238,7 millions en 2016 ! Les moyens militaires qui lui sont dévolus et son autonomie par rapport aux États membres ne cessent de croître.

      Depuis fin 2015, la tendance vers une ingérence de la Commission européenne dans les États membres s’accentue : La Commission européenne élargit le mandat de Frontex, elle devient « le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes ». Cette nouvelle agence peut dorénavant agir dans le processus d’acquisition d’équipement des États membres. Elle a notamment la possibilité d’intervention directe dans un État membre sans son consentement par simple décision de la Commission européenne. Elle a par exemple la possibilité de faire des « opérations de retour conjoint » de sa propre initiative |6|, l’objectif étant de sous-traiter à l’agence le renvoi forcé des personnes indésirables, à moindre coût mais au détriment du respect des droits humains.

      Migreurop et Statewatch, deux ONG qui défendent les droits des migrants, ont dénoncé une zone de flou entourant l’agence Frontex qui ne permet pas de faire respecter les droits humains fondamentaux : une responsabilité diluée entre l’agence et les États, une violation du droit d’asile et un risque de traitement inhumains et dégradants. La priorité du sauvetage en mer, normalement reconnue à Frontex, passe en second plan face au contrôle militarisé. En novembre 2014, l’Italie illustre dramatiquement cette situation en mettant fin à Mare Nostrum, opération de sauvetage de la marine italienne qui a sauvé des dizaines de milliers de vies en mer. L’opération Triton mise en place par Frontex l’a remplacée avec un budget trois fois moindre, une portée géographique plus limitée et surtout avec un changement de perspective orienté sur le renforcement des frontières plutôt que les missions de recherche et sauvetage en mer |7|.

      Plus Frontex est subventionnée, plus elle délègue à des entreprises privées. Via l’argent public qu’elle perçoit, l’agence s’adresse à des entreprises privées pour la surveillance aériennes mais aussi pour la technologie de pointe (drones, appareils de visions nocturnes…). De nombreuses multinationales se retrouvent à assumer les « services » qui étaient auparavant assumés par les États et pour des questions de rentabilité propre au secteur privé, les coûts augmentent. Le contrôle aux frontières est devenu un business florissant.

      Le complexe militaro-industriel de l’immigration irrégulière un business florissant qui grève les caisses des États

      La dangerosité accrue des parcours profite aux passeurs et aux réseaux criminels auxquels les migrants sont obligés de faire appel, alors que ces mêmes politiques de gestion des flux migratoires disent les combattre. Mais, d’autres secteurs d’activité moins médiatisés tirent un avantage financier bien plus important de l’immigration irrégulière, tellement important qu’on peut se demander s’ils ne font pas tout pour l’encourager ! Pour les gestionnaires des centres de détentions pour migrants ; les sociétés qui y assurent la livraison des repas, la sécurité ou le nettoyage ; les entreprises qui fournissent gardes et escortes de celles et ceux que l’on expulse ; les fabricants d’armes et l’industrie aéronautique ; la technologie de pointe pour la surveillance des frontières ou les sous-traitants pour la délivrance des visas, la crise des migrants constitue une véritable aubaine, voire un filon en or.

      Cette proportion non négligeable de services autrefois du ressort exclusif de l’État est maintenant gérée par de grands groupes privés qui – pour des raisons d’image notamment – s’abritent derrière une kyrielle de sous-traitants. Cette privatisation rampante grève encore plus les caisses des pouvoirs publics, favorise l’opacité et dilue les responsabilités en cas d’incident au cours des interventions, mettant les États à l’abri de violations de la loi, pourtant fréquentes |8|.

      Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à Bamako au Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la formation de la police aux frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      « Crise migratoire » ou « crise de l’accueil » ? L’Europe externalise ses frontières

      À la croisée des chemins entre l’Europe et l’Asie, la Turquie et la Grèce sont des pays de transit pour de nombreux migrants et réfugiés faisant face aux conflits chroniques et à l’instabilité politique et économique du Moyen-Orient. Après avoir ouvert ses frontières en 2015, dans un contexte de crise, l’UE se rétracte, dépourvue d’une réflexion à long terme sur sa politique d’accueil.

      Ainsi, sans grande opposition du gouvernement Tsipras, l’UE signe avec le gouvernement turc un accord visant à contrôler et filtrer l’immigration. L’accord qui entre en vigueur le 20 mars 2016, prévoit de renvoyer en Turquie tout nouveau migrant, réfugiés syriens compris, arrivé en Grèce. Et pour chaque Syrien renvoyé, l’UE réinstallera en Europe, un autre Syrien séjournant en territoire turc. On pourrait croire à un vulgaire arrangement comptable, il n’en est rien. Le rapport est clairement déséquilibré. L’UE a spécifié un quota maximum de 72 000 syriens réinstallés alors que plus d’1 millions ont été refoulés du territoire européen. Par ces échanges déshumanisés, l’UE se donne la liberté de choisir ses immigrés en fonction de ses intérêts économiques. En échange, l’UE promet 6 milliards d’euros à la Turquie, dit vouloir relancer les négociations d’adhésion du pays à l’Union et accélère le processus de libéralisation des visas pour les citoyens turcs. De plus, Ankara s’engage à enrayer le flux migratoire vers l’Europe. En conséquence de quoi, l’argent donné sert bien plus à ériger des murs qu’à accueillir. Déjà, béton, barbelés et militaires s’installent à la frontière turco-syrienne pour consolider l’Europe forteresse.

      D’autres accords ont déjà été conclus en ce sens mais aucun n’avait atteint de tels montants, ni ne comportait de tels enjeux. Le fait qu’il soit conclu directement par l’UE marque également le début d’une nouvelle ère. L’institution eurocrate négocie maintenant au nom et en amont de ses États membres, se substituant aux politiques nationales en termes d’affaires étrangères.Avec cet accord, l’UE se targue de respecter le droit international. Mais autant la Déclaration universelle des droits de l’homme que la Convention de Genève sur les réfugiées stipulent qu’une expulsion ne peut se faire que vers un pays considéré comme sûr. Or, on ne peut décemment pas, à la signature de l’accord, considérer la Turquie comme une terre sûre et accueillante pour les migrants. Le président Erdoğan a en effet entamé une purge sans précédent et se révèle encore plus répressif envers ses opposants politiques, depuis qu’il sait l’Europe dépendante et conciliante. Et il ne suffit pas de fustiger le gouvernement turc. Au cœur même de l’Europe, les murs s’érigent et les politiques autoritaires et xénophobes refont surface.
      Privatisation de la « gestion » des migrations

      Une telle gestion de l’immigration grève les recettes des États pour, in fine, bénéficier aux sociétés privées et leurs actionnaires aux dépens de la satisfaction des services publics essentiels aux populations concernées. Le lobbying de ces sociétés s’inscrit dans une surenchère militariste qui profite aux grandes entreprises du secteur. Au lieu d’investir dans des infrastructures d’accueil dignes et dans la gestion des conflits dont les pays industrialisés sont en grande partie responsables, l’orientation politique de nos dirigeants va dans le sens d’un accroissement des budgets liés à la sécurité et aux polices aux frontières.

      Les flux migratoires constituent non seulement une source de revenus pour les passeurs, mais également, dans des proportions bien plus importantes, un juteux business pour les grandes entreprises, qui rappelons-le, s’arrangent pour payer le moins d’impôt sur leurs bénéfices et accroître les dividendes de leurs actionnaires. Le marché de la sécurisation des frontières, estimé à quelques 15 milliards d’euros en 2015, est en pleine croissance et devrait augmenter à plus de 29 milliards d’euros par an en 2022 |9|.

      Dans un contexte de crise migratoire aiguë, de contrôles exacerbés, de détentions et déportations en forte augmentation, une multitude de sociétés privées se sont trouvé un juteux créneau pour amasser des profits.

      Concrètement, de plus en plus de sociétés privées bénéficient de la sous-traitance de la délivrance des visas (un marché entre autres dominé par les entreprises #VFS et #TLS_Contact), et facturent aux administrations publiques la saisie des données personnelles, la prise des empreintes digitales, des photos numérisées... Comme on pouvait s’y attendre, le recours au privé a fait monter les prix des visas et le coût supplémentaire est supporté par les requérants. Mais les demandes introduites pour obtenir visas ou permis de séjour ne sont pas à la portée de tout le monde et beaucoup se retrouvent apatrides ou sans-papiers, indésirables au regard de la loi.

      La gestion des centres de détention pour migrants où sont placés les sans-papiers en attente d’expulsion est, elle aussi, sous-traitée à des entreprises privées. Ce transfert vers la sphère privée renforce le monopole des trois ou quatre multinationales qui, à l’échelle mondiale, se partagent le marché de la détention. Ainsi, près de la moitié des 11 centres de détention pour migrants du Royaume-Uni sont gérés par des groupes privés. Ces entreprises ont tout intérêt à augmenter la durée d’incarcération et font du lobbying en ce sens, non sans résultats. Ainsi, les sociétés de sécurité privées prospèrent à mesure que le nombre de migrants augmente |10|. En outre, l’hébergement d’urgence est devenu un secteur lucratif pour les sociétés privées qui perçoivent des fonds de certains États comme l’Italie, aux dépens d’associations humanitaires qui traditionnellement prennent en charge les réfugiés.

      En Belgique, entre 2008 et 2012, le budget consacré aux rapatriements forcés - frais de renvois, sans même compter les séjours en centre fermé des quelque 8 000 détenus chaque année - est passé de 5,8 millions d’euros à 8,07 millions d’euros |11|.

      La société française Sodexo a vu les détentions de migrants comme une opportunité d’extension de ses activités dans les prisons. L’empire du béton et des médias français Bouygues est chargé de la construction des centres de détention pour migrants dans le cadre de contrats de #partenariats_publics-privés (#PPP) |12| et l’entreprise de nettoyage #Onet y propose ses services. Au Royaume-Uni, des multinationales de la sécurité telles #G4S (anciennement Group 4 Securitor) |13|, Serco ou #Geo, ont pris leur essor grâce au boom des privatisations. Aux États-Unis, #CCA et GEO sont les principales entreprises qui conçoivent, construisent, financent et exploitent les centres de détention et #Sodexho_Marriott est le premier fournisseur de services alimentaire de ces établissements.

      Certaines sociétés en profitent même pour faire travailler leurs détenus en attente de leur expulsion. Ainsi, au centre de Yarl’s Wood géré par l’entreprise #Serco au Royaume-Uni, le service à la cantine ou le nettoyage des locaux est effectué par des femmes détenues contre une rémunération 23 fois moindre que le salaire pratiqué à l’extérieur pour ce type de tâche (50 pence de l’heure en 2011, soit 58 centimes d’euros). Le groupe GEO, qui en 2003 a obtenu la gestion du camp de Guantanamo « offre » à ses occupants aux centres de Harmondsworth près de l’aéroport d’Heathrow et de Dungavel en Écosse, des « opportunités de travail rémunéré » pour des services allant de la peinture au nettoyage |14|. Ces entreprises ne lésinent pas sur l’opportunité d’exploiter une main d’œuvre très bon marché et sans droits.

      L’immigration rapporte plus qu’elle ne coûte

      Les quelques migrants qui finalement parviennent à destination se mettent alors à la recherche d’un emploi et le pays d’accueil profite d’une main-d’œuvre bon marché dont il s’épargne les frais de formation payée par le pays d’origine |15|. Une telle main-d’œuvre, flexible et exploitable à merci, comble un besoin dont les économies des pays industrialisés ne peuvent se passer si facilement.

      Loin de constituer une menace et contrairement à une idée fausse, les migrations ont généralement un impact positif sur les économies des pays d’accueil. Sur un plan purement économique, d’après l’OCDE, un immigré rapporte en moyenne 3 500 euros de rentrées fiscales annuelles au pays qui l’accueille |16|. Les sans-papiers qui travaillent ont des fiches de paies, souvent au nom de tierce personne et cotisent à une couverture sociale dont ils ne peuvent bénéficier.

      En définitive, s’installe le doute quant aux résultats attendus d’une telle stratégie de gestion des flux de déplacements humains. La politique anti-migratoire mise en œuvre tue, l’Europe compte les morts mais continue à dresser ses barricades. Pourtant les migrations ne sont pas un problème, un fléau en tant que tel contre lequel il faut lutter. Les migrations sont la conséquence des conflits, des persécutions, des catastrophes environnementales, des injustices sociales et économiques dans le monde. Et c’est à ces causes-là qu’il faut s’attaquer, si l’on veut mener une politique migratoire réellement juste et humaine.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs
      #privatisation #Frontex

    • Border-induced displacement: The ethical and legal implications of distance-creation through externalization

      Introduction: The role of #distance

      The externalization of European border control can be defined as the range of processes whereby European actors and Member States complement policies to control migration across their territorial boundaries with initiatives that realize such control extra-territorially and through other countries and organs rather than their own. The phenomenon has multiple dimensions. The spatial dimension captures the remoteness of the geographical distance that is interposed between the locus of power and the locus of surveillance. But there is also a relational dimension, regarding the multiplicity of actors engaged in the venture through bilateral and multilateral interactions, usually through coercive dynamics of conditional reward, incentive, or penalization. And there are functional and instrumental dimensions too, concerning the cost-effectiveness of distance-creation (in both ethical and legal grounds) vis-à-vis the (unwanted) migrant, who, removed from sight, is no longer considered of concern to the supervising State,[1] and the range of externalizing policy devices at the service of externalising agents in terms of purpose, format, delivery, and ultimate control.[2] European borders thus (re-)emerge as ubiquitous, multi-modal and translational systems of coercion – as an interconnected network of ‘little Guantánamos’.[3] This, in turn, creates a distance, both physically and ethically, that is utilized to shift away concomitant responsibilities.[4]
      Distance, as the next sections will demonstrate, plays a crucial role as a mechanism not only of dispersion of legal duties, blurring the lines of causation and making attribution of wrongful conduct a difficult task, but also as an artefact of oppression and displacement in itself. It does not prevent (unwanted) migration but rather makes it unviable through legally sanctioned, safe channels, diverting it through ever more perilous routes. The immediate effect of this distance that externalization engenders is at least threefold. First, it leads to the disempowerment of migrants, who are left with no options for safe and legal escape, being instead coerced into dangerous courses operated by smugglers. Second, it legitimizes the actors enforcing externalized control on behalf, and for the benefit, of the European Union and its Member States. Repressive forces in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation, as a result; their democratic and human rights credentials becoming secondary, if at all relevant, as the Libyan case illustrates below. Third, legal alternatives, like the relaxation of controls or the creation of safe and regular pathways, are rejected; perceived as an illogical concession to the failure of the externalization project.
      The final outcome, and what constitutes the focus of this contribution, is the ‘border-induced displacement’ effect,[5] resulting from the combination of the processes of extraterritorialisation and externalization taken together. Border-induced displacement is not equivalent to the original reasons forcing people into exile, but rather functions as a second-order type of (re-)displacement, produced precisely via (the violence implicated in) border control. This then leads to forms of ‘engineered regionalism’, that is, politics re-producing displacement in certain areas closest to the origin of flows.[6] ‘Safe third country’ rules and practices are the main vehicle of this development, discernible also within the EU, where the Dublin System has ‘rulified’ an asymmetric allocation of responsibility for asylum claims to peripheral countries situated at the external common frontiers of the Union, like Spain, Italy and Greece.[7] In the case of externalization, border-induced displacement is then imposed upon already-displaced persons by non-European actors implementing the EU’s pre-emptive control agenda, reinforcing prevailing patterns of exploitation and existing hierarchies of exclusion and subordination.
      The ethical and legal consequences of ‘distance-creation’ are what we turn to analyse in the remainder of this article. Section 2 pays attention to the assumptions and ethical and political-economic dimensions behind this strategy, discussing exit control, coercion, and the democratic legitimization of unelected actors enforcing the EU border within third countries. Section 3 investigates the legal impact of externalization and extraterritorialization, centring on the apparent accountability gaps that it generates, contesting the legality of responsibility dispersion mechanisms. The overall conclusion we reach is that the ‘rulification’ of externalization at EU level does not render it ethically and legally tenable under international law. The ‘lawification’ at EU level of practices inconsistent with human rights is insufficient to render them compatible with international legal standards.
      2. Ethical distance-creation: Examining attempts to justify externalization and border-induced displacement

      Although immigration ethics has thrived as a discipline since its late arrival in the 1980s, debates on border control between cosmopolitanism and liberal nationalism have often remained at an ideational level and generally based on liberal democratic foundations,[8] thus overlooking the composite ways through which border control is realized and experienced on the ground. This includes practices of externalization and extra-territorialization. Often, the assumptions guiding ethical debates on border control have reproduced a territorially trapped gaze, circumscribed by methodological nationalism,[9] which, through a set of idealized premises, reduces the complex and transnational dynamics of displacement and border control to a phenomenon of mis-placement between territorially bordered societies.[10] Such reduction is marred by what can be called reactive and regionalist postulations. These view border control, first, as a manifestation of State agency, and, second, as only a response to migration flows. Third, they naturalize the containment of displacement within certain regions, perceiving the phenomenon as geographically and morally distant from Europe.
      But immigration ethics is far from alone in reproducing methodological nationalism and reactive and regionalist conjectures, as these mirror prevailing paradigms about the relationship between displacement and borders.[11] However, it is instructive, nonetheless, to examine European externalization by applying existing ethical debates about the democratic legitimacy, coercion, and rights of border control to the issue of externalization.[12]
      2.1. The democratic legitimacy question

      One fundamental debate has concerned the democratic legitimacy of border control as such. Assuming that freedom and democracy are instrumentally valuable for securing individual autonomy, a principled concern is that the coercive aspects of border control amount to violations of autonomy when they happen without the consent of those exposed to them. In order for border control to be legitimate from a liberal democratic perspective, it would have to be justifiable to non-members – however the demos may initially be defined – through a deliberative process.[13] Yet, proponents of border control might argue that access to asylum procedures can resolve this concern, if asylum applications are seen as granting such deliberative voice to them. Although this debate has only concerned an undifferentiated notion of border control, we can extend it to the politics of externalization, if we imagine proponents to argue that, if externalized control is able to respect individual autonomy, it might also be deemed democratically legitimate.[14] The strength of such an argument will then depend on the meaning and function of externalization.
      European externalization processes occur when European Member States, through bi-, multi- or supranational venues, complement policies of controlling cross-border migration into their territories with pre-emptive initiatives realizing such control extra-territorially and/or through sub-contracting to actors and agencies other than their own.[15] Externalization has been discussed in terms of policy transfer, issue-linkages, and ripple effects,[16] but, crucially, its dynamics apply also to intra-European relations. For many years, the Dublin system has served to transfer the border control burdens of North-Western Member States to South-Eastern ones, causing heated discussions about lacking solidarity,[17] similar to those between European and non-European countries.[18]
      Justifications offered for externalization oscillate between grammars of securitized control and humanitarian care.[19] For instance, the June 2018 proposal by the EU ministers about ‘controlled centres’ and ‘regional disembarkation platforms’, whereto ‘boat migrants’ can be deported, is framed as an innovative idea allowing Member States both to ‘stem illegal migration’ and simultaneously save vulnerable migrants by breaking the ‘business model’ of smugglers and traffickers purportedly in accordance with human rights and the rule of law.[20]
      Yet, the 2018 externalization proposal is not as innovative as it may seem. Between the 1980s and mid-2000s, five very similar – and similarly controversial – externalization proposals were put forth by the British, Danish, Dutch, and German governments and by the European Commission. And they all revolved around externalized centres in Eastern Europe and North Africa whereto EU Member States would send asylum seekers or interdicted ‘boat migrants’. The terminologies varied from ‘regional protection areas’ by the British, ‘processing centres’ by the Danes, ‘reception centres’ by the Dutch, ‘EU reception centres’ by the German, and ‘Regional Protection Programmes’ (RPPs) by the European Commission.[21] All but the RPP proposal focused on administrative deportation from European territory, so that, as put by the Blair government, ‘refoulement should be possible and the notion of an asylum seeker in[land] should die’.[22] By 2005, the German proposal had dropped any talk of extraterritorial asylum processing and moved on to identifying Libya as a promising collaborator for pre-emptive containment.[23] In light of the concurrent dysfunctional intra-European dynamics of the Dublin system, the proposals between 1986 and 2018 illustrate how the externalization logic has long been invoked as a magic remedy to the Dublin ills, always couched in crisis-laden and emergency-driven rhetoric, while also holding out vague promises of protection.
      Externalization can be criticized for co-opting protection in favour of methods of ‘consensual containment’ that re-produce displacement in regions neighbouring the EU.[24] For instance, especially since 2017, Italy and the EU have pursued a policy of transferring search and rescue to the so-called Libyan Coast Guard (LYCG), thereby effectively turning missions into operations of exit control. It is due to their material contribution and close involvement in the internal command-and-control structure of the Libyan forces that the LYCG performed 19,452 pull-backs in 2017.[25] Political discourses on externalization can, however, be seen as arguing that this kind of regionalist engineering creates ‘protection elsewhere’ based on three claims, popular in ethical discussions on border control within liberal national regimes. In the following, we analyse them through standing ethical debates about coercion and prevention, peoples’ rights to enter and exit territories, and democratic legitimacy.
      2.2. Coercion: From ‘protection elsewhere’ to ‘protection nowhere’

      First comes the claim that border control, and thus also its externalized manifestations, is not illegitimately coercive, because it is only preventive. Here, coercion has been referred to as when individuals are forced to do a specific thing, while prevention is taken to mean when they are forced not to do a specific thing.[26] Second comes the aforementioned argument that border control can be legitimate when agreed upon democratically.[27] Third follows the statement of an entry/exit-asymmetry signifying that people’s rights against one State not to prevent them from exiting its territory is held to be morally paramount, but that it does not entail an equally forceful obligation on any other State to let them enter their territory.[28]
      Combining these claims, we then arrive at a ‘protection elsewhere’ argument maintaining that externalization is legitimate, since agreed to by all governments involved, and because it preserves displaced persons’ rights through extraterritorial asylum processing. Even if the policy may block their movement, this argument goes, it only prevents them from entering European territory, while still allowing them to find protection elsewhere, after having exited their own country. The zero-sum game effect that the generalisation of this policy would generate goes unaverted – if all countries did the same there would be ‘protection nowhere’.[29]
      But this argument is categorically flawed. Its definitions of coercion and prevention are problematic and rest upon a disconnect between abstract assumptions about border control guiding liberal nationalistic immigration ethics and the actual reality of displacement and European border surveillance, discounting its concrete effects on the ground. EU externalization practices yield extremely coercive checks amounting to violent regimes of exit control, also contravening the legally-sanctioned right – assumed in debates on immigration ethics – to leave one’s own country.[30] That is, even if one, for the sake of argument, assumes the right to exit to hold more value than that of entry – since at international law one is universally applicable while the other is only opposable to one’s own country[31] – actual externalization practices still violate not just the latter, but also the former.[32] The containment of migrants in Libyan detention structures, for instance, reveals an abusive regime that bars access to asylum. Amnesty International has counted twenty reports from reliable monitors, including UN and EU sources, attesting to this reality.[33] The abject brutality facing displaced persons, contained and circulated through externalization, can only be labelled non-coercive prevention from a Eurocentric, and extremely abstract vantage point. In truth, they cause suffering on such a scale that they may amount to atrocity crimes, according to the ICC Prosecutor,[34] and, as the UN High Commissioner for Human Rights has put it, they constitute ‘an outrage to the conscience of humanity’ – at least as far as the situation in Libya is concerned.[35] Collaborative border infrastructures are endowed with the power to coerce at a distance, with externalization leading to practices of ‘remote control’ that extraterritorially negate access to the European asylum systems to those (theoretically) entitled to international protection,[36] literally ‘trapping’ migrants in a constant ‘cycle of abuse’.[37]
      Nevertheless, even if the ethical ‘protection elsewhere’ argument must be rejected as an invalid justification for current European externalization policies the reasons for it are instructive. Seeing how externalization produces highly coercive collaborative regimes of exit control makes clear the problematic ramifications of the reactive and regionalist assumptions on which it rests. Conventional views on international relations and forced migration see the displacement to which borders respond as induced by conflicts or developmental or environmental factors.[38] Yet, while attention to the causes of displacement is important, this model embraces borders as only reactive to – rather than also constitutive of – displacement. But this is wrong. A range of border practices and infrastructures, performed at or beyond the physical frontiers of the EU, such as interdiction, detention, and deportation, do not just react to, but also in themselves cause displacement, by diverting flows towards increasingly dangerous routes and by multiplying death ratios at sea and at border zones.[39] This ‘border-induced displacement’, therefore, challenges the regionalist and reactive premise that the production of forced migration is primarily a problem created outside European territory and agency and contests the structural incorporation of (foreseeably lethal) coercion as a legitimate mechanism of border control.
      EU-Libyan relations, since the 2000s, illustrate how externalization has built the infrastructures enabling this kind of coercive re-displacement. This problematizes prevailing assumptions still dominating immigration ethics and politics, namely that the agency of border control consists of States’ discretion over movement across their territorial borders. Externalization underscores the need to consider more composite notions of agency – and thus responsibility – decoupled from national territories, and spanning several governments, organisations as well as non-state actors.
      The decades-long European-Libyan collaboration on border control is a case in point. After the European Commission decided to lift its arms embargo against Libya in 2004, two ‘technical missions’ followed. The first, in 2004, was meant to ‘identify concrete measures for possible balanced EU-Libyan cooperation particularly on illegal immigration’ and the second, in 2007, to develop ‘an operational and technical partnership’ for extraterritorial border control.[40] The case of Libya is but one example of how European externalization policies have facilitated the transformation of European border control into a flourishing market of violent deterrence and containment,[41] with little to do with a rights-based protection paradigm, and also how third countries’ control apparatuses have become a lucrative export venture for the arms-, security-, and IT-industries of the EU Member States.[42]
      2.3. Trading in rights for border control

      Companies like Spanish Indra, British BAE Systems, Italian Leonardo, French Thales and Ocea, Dutch Damen, German Rheinmetall and Airbus all compete for contracts to expand the capacity for surveillance and control of not just Libya, but also other Eastern European, North African and Middle Eastern countries collaborating on EU externalization. In 2012, an industrial consulting actor valued the global border industry at €25.8 billion, projecting an increase to €56 billion by 2022.[43] And European sales of patrol boats, jeeps, planes, drones, satellites, helicopters, radar systems and whole surveillance mechanisms for border control purposes were part of the EU export licenses worth €82 billion to the Middle East and North Africa between 2005–2014.[44] This political economy of externalization also applies to the industries of EU partner countries. For instance, in 2016, the EU channelled more than €83 million to contracts with Turkish Aselsan and Otokar to provide heavily armoured vehicles placed, respectively, at the Greek-Turkish border and the newly constructed 911 kilometre border-wall between Turkey and Syria.[45]
      The dynamics reshaping third-country border infrastructures elucidate how borders can function as engines of, rather than just responses to, displacement. This means that arguments for externalization appealing to democratic legitimacy face more problems than merely the barring of access to asylum procedures: First, because when EU Member States use their political-economic leverage to make externalization deals with non-EU countries, they are effectively asking them to replace their own public interest with the EU preference of avoiding asylum seeker flows towards the Member States. Second, because several examples, like the EU collaboration with Libyan actors, including militias and former traffickers, as further discussed in the next section, illustrate how the EU’s externalization partners very often lack democratic legitimacy.[46] EU border externalization entrenches forms of undemocratic governance in third countries, empowering undemocratic actors, transforming their relative weight within domestic structures, and weakening democratic channels of scrutiny, accountability, and power control. Externalization thereby risks creating a vicious cycle, where the influx of arms and funds to those actors willing to enact the European containment agenda grants them political validity, which is then used to undermine not only migrant rights, but also to repress domestic opposition and dissidence and thus destabilize internal democratisation processes. The short-term European goal of preventing asylum seeker flows thereby risks compromising the stated long-term goal of tackling the root causes of displacement,[47] which is sacrificed in the altar of externalised ‘integrated border management’.[48]
      3. Legal distance-creation: The juridical implications of externalization and border-induced displacement

      Externalization has not only been encapsulated in political and policy arguments and practices, but has also been embedded in law through the ‘protection elsewhere’ model. The ‘protection elsewhere’ model ultimately rests on the assumption that refugees and migrants are best served ‘at home’, whether it be in their countries of origin or in the neighbouring region (but away from the EU at any rate). ‘Onward movements’ defy this logic and are thus seriously penalized. Responsibility for reception and asylum has accordingly been delegated (or redirected) to countries proximate to the source of flows, via targeted rules on ‘safe third countries’ and readmission agreements that legalise the practice. But, as stated above, this (re-)allocation of protection duties to peripheral States is also part and parcel of the Common European Asylum System within the EU. The Dublin Regulation enshrines and ‘rulifies’ this vision for the Member States, allowing non-external border countries to deflect responsibility in a legal manner.
      Against this background, EU countries feel legitimized to claim their own irresponsibility vis-à-vis non-Member States,[49] projecting the model onto their external relations and imposing compliance with EU control rules as a matter of course. Fatalities at sea and elsewhere are then presented as the result of disorder and illegality; something avoidable if only (EU) rules were observed and effectively enforced by non-EU partners. The structural conditions imposed by the externalization apparatus, and the injustice that ensues, are usually disregarded or downplayed as unintended collateral damage. The fact that illegality is the only way out of a situation of want or persecution, and that smuggling is the only remaining vehicle to reach safety, is routinely silenced. It is the smugglers who profit of the precarious situation of ‘boat migrants’ – the argument goes. So, the eradication of smuggling and a return to (EU) law and order is portrayed as the solution. The option to relax border control rules and adapt them to the imperatives of human dignity, decriminalising the irregular movement of forced migrants, is not even contemplated. That would be perceived as an illogical concession; a descent into chaos and the negation of the rule of (EU) law. This EU-centric conception of the law is what sustains the externalization edifice and nurtures the collaboration with third countries.
      At the legal-strategic level, externalization politics are accompanied by at least two degrees of ‘irresponsibilitization’, enshrined in, and sanctioned by, EU law: responsibility diffusion and responsibility denial. ‘Diffusion’ refers to the relational dimension of externalization, to situations of multi-actor alliance where the causation chain and attribution operation become unclear, with different agents and organs of different States contributing to a particular (unlawful) result. By contrast, ‘denial’ captures scenarios of outright disclaiming of responsibility, where this is said to belong to a different actor altogether, according to the (usually EU-based) rules in place (or their self-serving interpretation).
      3.1. Responsibility diffusion

      The creation of physical distance, via exit control, disembarkation platforms, holding sites, or reception camps abroad, contributes to ‘irresponsibilitization’ through diffusion. None of the proposals put forth so far clarifies exactly who should be considered responsible for those intercepted in, and repatriated to, Libya or any alternative location hosting the centres. The overall supposition appears to be that EU Member States would ultimately escape the task.[50] But there is some residual notion that European countries could not completely ‘circumvent’ their obligations[51] – albeit without elaboration, even the Legal Service of the European Parliament concedes that migrants sent to disembarkation platforms located outside the territory of the Member States ‘should benefit from the guarantees provided for in the 1951 Geneva Convention […] and in the European Convention of Human Rights’, including the principle of non-refoulement.[52]
      Actually, under international law, ‘no State can avoid responsibility by outsourcing or contracting out its obligations’.[53] Cooperation with third countries does not exonerate EU Member States from their non-refoulement and related duties – both under general customary law and as per the relevant international Conventions.[54] According to the Strasbourg Court, ‘[w]here States establish […] international agreements to pursue cooperation in certain fields of activity’, whatever their legal nature, validity, and intent,[55] ‘there may be implications for the protection of fundamental rights’. With this in mind, it would be ‘incompatible with the purpose and object of the [European Convention of Human Rights][56] if Contracting States were thereby absolved from their responsibility under the Convention in relation to the field of activity covered by such [agreements]’.[57] As a result, ‘[i]n so far as any liability under the Convention is or may be incurred, it is liability incurred by the Contracting State […]’.[58] Despite its cooperation with Libya or any other third country, the independent responsibility of each EU Member State participating in the scheme of externalized migration controls subsists, ‘where the person[s] in question […] risk suffering a flagrant denial of the guarantees and rights secured to [them] under the Convention’.[59]
      Nor would Member States be able to evade responsibility by transferring functions to the UNHCR or the IOM – whatever their support and potential separate liability.[60] ‘Absolving Contracting States completely from their Convention responsibility in the areas covered by such a transfer would [again] be incompatible with the purpose and object of the Convention’, as Strasbourg clarifies. The final effect would be for ‘the guarantees of the Convention [to] be limited or excluded at will thereby depriving it of its peremptory character and undermining the practical and effective nature of its safeguards’,[61] negating the basic premise of the pacta sunt servanda principle.[62] And the same is true in regard to other instruments of international human rights law.
      Even though several actors combine to produce re-displacement, individual responsibility for its effects cannot be deflected. The principle is well established in international law. Article 47 of the ILC Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts (ARSIWA) contemplates precisely the scenario where several States participate in the same internationally wrongful act, stipulating that in such cases ‘the responsibility of each State may be invoked in relation to that act’.[63] Each State retains responsibility and, according to the ILC Commentary, ‘is separately responsible for the conduct attributable to it’. The fact that one or more additional States also contribute to the same act in no way reduces the responsibility of each single country.[64] So, any orders or transfers performed, or orchestrated by, EU Member States will engage their responsibility for any resulting breaches of their international commitments.
      Neither the ‘disembarkation platforms’ proposal, nor any other of the similar initiatives emerged since the 1980s explored above specifies where exactly those repatriated or ‘pulled back’, whether to Libya or other third countries, would be accommodated.[65] It is conceivable that proponents envisage offshore reception centres to be closed, since the ultimate aim is to contain and deter irregular movement.[66] This then entails large-scale, and potentially long-term, detention, in breach of Article 5 ECHR guarantees,[67] which have been recognised to apply extraterritorially, extending to cases of deprivation of liberty abroad.[68] Yet, the border-induced displacement effects of externalization practices, like involuntary retention in international waters, forcible transfer to warships, coercive escorting or imposing of a certain course, constitute restrictions of physical freedom and need to accommodate the legal safeguards of the Convention.[69]
      It is not known whether the ‘disembarkation platforms’ proposal foresees transfers to the country concerned to be automatic. Should that be the case, EU Member States risk incurring direct and indirect violations of the prohibition of collective expulsion and the (non-derogable/non-limitable) protection against refoulement. Regarding the latter, the Strasbourg Court attaches paramount importance to country information contained in reports from independent sources,[70] so that when reliable accounts of the circumstances prevailing in the receiving State make it ‘sufficiently real and probable’ that the general situation entails a ‘real risk’ of ill treatment in the sense of Article 3 ECHR, a refoulement presumption is activated and removal cannot be performed.[71] What is more, on account of the absolute character of Article 3, Contracting Parties must undertake the relevant investigation proprio motu and abstain from actions/omissions that put individuals at risk. As the Court asserted in Hirsi, ‘it [is] for the national authorities, faced with a situation in which human rights [are] systematically violated […] to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return’.[72] So, the Member States concerned are to comply with their non-refoulement obligations proactively, regardless of whether the persons in question seek protection or specifically alert of the dangers faced upon return. The fact that potential applicants fail to request asylum or to formally oppose their removal does not absolve Contracting Parties of their Convention duties,[73] and especially their positive due diligence obligations.
      This includes the requirement to provide access to adequate procedures.[74] Member States must offer a real opportunity for individuals to submit and defend their claims,[75] including an ‘effective remedy’.[76] This requires that the remedy in question be able to ‘prevent the execution of measures that are contrary to the Convention and whose effects are potentially irreversible’. Therefore, ‘it is inconsistent with Article 13 [ECHR] for such measures to be executed before the national authorities [of the Member State concerned] have examined whether they are compatible with the Convention’.[77] In these cases, appeals must have ‘automatic suspensive effect’.[78] And screening on board interdicting vessels or somewhere else offshore cannot satisfy these requirements.[79] Procedural responsibilities, just like substantive guarantees, cannot be deflected, postponed, or negated. The ultimate guarantors of ECHR safeguards are the Contracting Parties, which must ‘secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in [the] Convention’.[80]
      Due diligence commands the dual duty to refrain from any conduct that may result in arbitrary violations as well as the obligation to enact laws and policies that effectively protect individuals against abuse. Following the Human Rights Committee’s recent General Comment on the Right to Life, by analogy, State Parties are required to ‘organise all State organs and governance structures through which public authority is exercised in a manner consistent with the need to respect and ensure [human rights]’. This includes a duty of ‘continuous supervision’ in order to ‘prevent, investigate, punish and remedy’ any harm.[81] As a result, actions such as the ‘sale […] of […] weapons’, and presumably other similar law enforcement and border control equipment, must be preceded by a conscientious examination of its foreseeable impact on human rights.[82] As members of the international community and as subjects of customary law, States must take into account
      ‘their responsibility […] to protect lives and to oppose widespread or systematic attacks on [human rights]’[83] – like those sustained by migrants in Libya.[84] And, in particular, States have an obligation under general international law ‘not to aid or assist activities undertaken by other States and non-State actors that violate [human rights]’.[85]

      All these reasons should lead to the rejection of ‘disembarkation platforms’ and similar initiatives as ‘externalization fantasyland’.[86] EU Member States should not invest in a formula that promotes cooperation with human rights perpetrators and impedes the fulfilment of their pre-contracted obligations – such a course would hardly qualify as a good faith implementation of their binding commitments.[87] Instead, domestic systems of territorial protection should be reinforced, including the necessary intra-EU solidarity and responsibility-sharing mechanisms to make them effective.[88] Physical distance-creation, through off-shoring and outsourcing, does not translate into an erasure or diminution of legal duties. EU rules on ‘safe third countries’ and readmission cannot (unilaterally) undo international standards.[89]
      3.2. Responsibility denial

      Besides tools of responsibility deflection, mechanisms of outright denial of obligations are equally challenging. Usually, the capacitation of third countries’ control infrastructures, mimicking the Schengen ‘integrated border management’ system,[90] is framed as unproblematic. The transfer of funds, know-how, and equipment, as in the cases referred to in the previous section, are considered to emanate from a spirit of solidarity with non-EU partners and to be fully in line with the relevant criteria. The ethical distance between the EU or Member State gifting assets, ceding resources, or providing training and any potential human rights violations that may ensue is taken to preclude liability. There is no intent – no dolus specialis – intervening in the operation. Thus, the denial of responsibility on the European side for the atrocities in Libya, the abuses in Turkey, or the fatalities at sea associated with border-induced displacement, commonly recurs.[91]
      Yet, international law paints a more complex picture.[92] If one considers that it is ‘thanks’[93] to Italy, for instance, that the LYCG continues to exist in any functional form in the post-Kaddafi period,[94] an outright denial of responsibility becomes difficult.[95]
      Especially since the signature of the Memorandum of Understanding between Italy and the Libyan Government of National Accord in February 2017,[96] the delivery of training, equipment, and assets (including the four main patrol vessels employed by the LYCG) has intensified. Italy has created a dedicated ‘Africa Fund’, € 2.5 million of which has been allocated to the maintenance of LYCG boats and the training of their crews.[97] The EU, too, has committed € 46 million to prop up Libyan interdiction capacity.[98] It has been calculated that the total combined investment by Italy and the EU will be € 285 million by 2023,[99] with the EU alone providing € 282 million – most of which via programmes administered, coordinated, or supervised by Italy.[100] In addition, an extension of the Mare Sicuro Operation, named NAURAS,[101] was approved by the Italian Parliament in August 2017, consisting of four ships, four helicopters, and 600 servicemen, of which 70 per cent are deployed at sea, with the other 30 per cent stationed in Tripoli harbour. Their key mission, as declared by the Italian Navy itself, is to ‘establish [the] operational condition[s] for LN/LNCG [i.e. Libyan Navy and LYCG] assets and develop C2 [ie command-and-control] capabilities’. Meanwhile, an ‘ITN [ie Italian Navy] naval asset in Tripoli Harbour [is] acting as LNCC [ie Libyan Navy Communication Centre] and logistic assistance/support hub’, thus assuming the function of a floating maritime rescue coordination centre.[102]
      The nature of the LYCG as a proxy for Italian interdiction has furthermore been confirmed by the judge of Catania adjudicating on the related case concerning the rescue ship Open Arms of the NGO Proactiva. In his decision, the judge takes as proven the crucial role played by Italy in leading LYCG operations. The judge goes so far as to affirm that the interventions of Libyan patrol vessels happen ‘under the aegis of the Italian Navy’ and that the coordination of rescue missions is ‘essentially entrusted to the Italian Navy, with its own naval assets and with those provided to the Libyans’.[103] This corroborates the ‘high degree of integration’ between the two,[104] and the ‘effective control’ exercised by Italy over LYCG operations, making ensuing violations attributable to it.[105]
      The subsequent abuse of those pulled back to Tripoli happens despite Italy’s knowledge of the desperate situation facing migrants in Libya, including widespread and systematic torture, rape, inhuman and degrading treatment, and enslavement. The Deputy Minister for Foreign Affairs himself admitted that ‘taking [migrants] back to Libya, at this moment, means taking them back to hell’.[106] Nonetheless, the interdiction by proxy policy of Italy continues.[107] Amnesty International estimates that there are over 10,000 persons currently held in official detention centres in Libya – all of which funded through EU/Italian money. And, virtually all of them have been brought there as a result of their interdiction at sea by the EU/Italian-equipped and -trained LYCG.[108] Consequently, the combination of control exercised – though ‘contactless’[109] – and the knowledge of the circumstances migrants face should be understood to render Italy answerable for the resulting human rights violations, even if the LYCG is used as a surrogate.
      As per Article 8 ARSIWA, ‘[t]he conduct of a person or group of persons [such as the LYCG] shall be considered an act of a State [i.e. Italy in this case]’, when the group in question ‘is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct’. Taking the Italian Navy and the Judge of Catania’s assertions at face value, the LYCG are to be considered ‘auxiliaries’ of the Italian border machinery deployed extraterritorially, ‘instructed to carry out particular [interdiction] missions abroad’. The Italian Navy conducts the specific operations through its NAURAS effectives exercising coordination as well as command-and-control functions, meaning that the (wrongful) conduct of the LYCG shall be considered ‘an integral part of the operations’ aimed at impeding departures across the Central Mediterranean and thus be attributed to Italy.[110] It is the Italian authorities that locate targets, relay maritime coordinates, and equip and mandate the LYCG to proceed to the interdiction of migrant boats.[111] It is Italy that ‘directs’ the operations in a way that ‘does not encompass mere incitement or suggestion but rather connotes actual direction of an operative kind’.[112] Italian intervention is a sine qua non for the ‘pull-backs’ at sea to materialise, which could not be carried out autonomously by the LYCG.[113] Italy exercises ‘such a degree of control […] as to justify treating the [LYCG] as acting on its behalf’.[114]
      Italy’s involvement in Libyan search and rescue (or rather, interdiction) operations, in different ways and throughout time, rather than just an instance of complicity,[115] engaging indirect responsibility, can thus be characterised as a breach entailing direct responsibility, consisting of a ‘composite act’. Article 15 ARSIWA establishes that an international obligation (of non-refoulement, for instance, and of non-arbitrary interference with the right to leave) may indeed be violated via ‘a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful’. The financing or training of the LYCG alone may be harmless and perfectly licit, but, when taken together and alongside the infiltration of the command-and-control chain of the LYCG by the Italian Navy, the whole, in light of the final outcome of pull-backs, becomes an illicit under international law.
      Italian jurisdiction may indeed be engaged not only in relation to action occurring within its territory and in other areas subject to its ‘effective control’, but, as the Human Rights Committee has stated, also regarding conduct ‘having a direct and reasonably foreseeable impact on the right[s] […] of individuals [abroad]’.[116] The obligation to respect and protect human rights extends beyond territorial domain to all persons subject to its jurisdiction, that is, to ‘all persons over whose enjoyment of the right[s] [concerned] it exercises power’, including ‘persons located outside any territory effectively controlled by the State, whose [rights are] nonetheless impacted by its military and other activities’ – the transfer of money, equipment and enforcement capacity thus acquiring a significance of its own as a possible trigger of independent responsibility for wrongful conduct.[117] Not only the aiding and abetting of human rights violations is of relevance, whatever the form the assistance provided to the LYCG may take (whether commercial, financial, political, or logistical), but also actions (or omissions) that impede the effective enjoyment of human rights – counting the right to leave any country, to seek protection from harm, and to non-refoulement – matter too, from a legal perspective.[118] Following the Legal Service of the European Parliament in the context of its viability analysis of ‘disembarkation platforms’, engagement in any formal or informal arrangement with third countries – including Libya – to finance or contribute to the functioning of externalized structures of migration control ‘have to respect the prescriptions of the relevant provisions of international law’[119] – presumably including those under the ECHR, the ICCPR and general customary norms.[120] Failure to do so flouts the obligations concerned. Direct perpetration of an international wrong is not a pre-requisite for legal responsibility. Indirect contraventions – including via proxy – incur liability as well.[121]
      Distance-creation, through the ‘rulification’ of ‘irresponsibility’ in legal texts or self-seeking effectuations, does not do away with international obligations, nor does it legitimize the suffering it provokes. The EU and its Member States must come to recognise the predictable effect and implications of their externalization agenda. And, alongside the UN Special Rapporteur on Torture, acknowledge that, as currently designed, their ‘migration policies can amount to ill-treatment’.[122] Actually, ‘[t]he primary cause for the massive abuse suffered by migrants […] is neither migration itself, nor organised crime […] but the growing tendency of States to base their official migration policies and practices on deterrence, criminalisation and discrimination’.[123] It is this distinct strategy that causes border-induced displacement, breaches human rights obligations and triggers international legal responsibility.[124]
      4. Conclusion: ‘Rulification’ as the co-option of protection

      ‘Rulification’ does not represent a paradigm shift in European politics, but rather an up-scaling of the logic observable also in proposals pursued from the 1980s and onwards and which have led to the integration of the concepts of ‘first country of arrival’, ‘safe third country’ and maritime interdiction within the legal architecture of the common borders and asylum acquis, the primary purpose of which has been the avoidance of asylum seekers on EU territory. It is the abuse and exploitation entrenched within externalization strategies that engenders border-induced displacement in Europe’s border-region. With EU Member States viewing the opening up of legal escape routes as an irrational concession, the side-effects of externalization are exacerbated as the systemic logic of asymmetric, diffused, and denied responsibility for displaced persons is reproduced further and further away from Europe, and closer and closer to the repressive regimes people attempt to escape from.
      The reactionary and regionalist assumptions underpinning externalization arguments and practices tell a securitized tale of displacements constantly generated and managed far removed from European territory and agency. However, distance-creation strategies, whether ethical, spatial, or legal, belong to the category of ‘policies based on deterrence, militarization and extraterritoriality’, denounced by UN Special Rapporteurs and others, ‘which implicitly or explicitly tolerate [and perpetuate] the risk of migrant deaths as part of an effective control of entry’.[125] As the previous sections demonstrate, the structural nature of externalization problematizes traditional assumptions and debates in immigration ethics and politics. It traps migrants in a ‘vicious circle’ of more control, more danger, and more displacement, where they must rely on facilitators to escape life-threatening perils.[126]
      But smuggling and trafficking is the consequence, rather than the cause, of suffering. Suffering is embedded in the externalization system by design through the vehicle of ‘rulification’, which serves to launder the pernicious (and perfectly foreseeable) impact of extra-territorialised/externalised coercion into ‘law-ified’ (and purportedly unintended) side effects. At the same time, the European transfer of equipment and capacity for control outwards also risks undermining processes of accountability and democratic legitimacy in regions bordering Europe. And the ‘rulification’ of border-induced displacement does not make these implications any more palatable. In the words of UN Special Rapporteur Agnès Callamard, it is simply ‘not acceptable’ to deter entry by endangering life.[127] The fallacy of coercion-based protection needs to give way to an ethically grounded and legally sustainable rights-honouring paradigm. This is not to contest the legal existence of borders or their enforcement, but to challenge the legitimacy of mechanisms through which they are presently enacted in a manner incompatible with the most basic requirements of international law.

      http://www.qil-qdi.org/border-induced-displacement-the-ethical-and-legal-implications-of-distance-
      #responsabilité #déni_de_responsabilité #protection

  • Sudan — Ethiopian and Somali Migrants in Transit Desk Review Report (April 2018)

    this snapshot only focuses on Somali and Ethiopian migrants in transit, more precisely in Sudan. Different field locations for data collection activities were chosen and Sudan was selected as one of the transit countries. Sudan was chosen as case study under this project because of its geographical and strategic significance in the context of migration journeys from Ethiopia and Somalia towards Europe. Significant numbers of migrants from the Horn of Africa (in particular from Ethiopia and Somalia) travelling by land are known to travel through Sudan as a transit country. Available estimates of the numbers of Ethiopians going to Sudan each year range from 18,000 up to 100,000. A total of 1,197 interviews with migrants from Somalia and Ethiopia were conducted in Sudan between late November 2017 and the end of December 2017. Data was collected in the area of Khartoum, Sudan.The sample size consisted of 403 Somali and 794 Ethiopian migrants who had recently migrated from their home countries and were, at the time of data collection, passing through Sudan to reach their intended destination country in Europe.

    https://displacement.iom.int/reports/sudan-%E2%80%94-ethiopian-and-somali-migrants-transit-desk-review-
    #Soudan #réfugiés_éthiopiens #réfugiés_somaliens #réfugiés #asile #migrations #rapport #Corne_de_l'Afrique #statistiques #chiffres #transit #push-factors #facteurs_push #pays_de_transit

  • Les Émirats chassés de Somalie ?
    http://www.presstv.com/DetailFr/2018/02/28/553877/Corne-de-lAfrique-Les-Emirats-jouent-de-malheur

    Je serais à la place de MBS, je leur dirais de faire une coalition pour attaquer le Somalie et Djibouti.

    Et pourquoi pas l’Ethiopie, si j’en crois l’article arabe dont je mets le lien. @simplicissimus, ça a l’air super compliqué, et je te sens plus motivé que moi sur le sujet ;-)

    http://thenewkhalij.news/%D8%B3%D9%8A%D8%A7%D8%B3%D8%A9/%D8%A7%D9%84%D8%B5%D9%88%D9%85%D8%A7%D9%84-%D8%A7%D9%84%D8%A7%D8%AA%D)

    #fret_maritime #corne_de_l'afrique #émirats

    • Pouf, pouf !

      Deux choses distinctes, si je comprends bien. Mais pas tant que ça…

      • base navale à Berbera
      ça coince entre les EAU et le Somaliland. Pb, de qui s’agit-il Divers Marine Contracting LLC (citée dans l’article) est présente à Dubaï, à Abou Dhabi c’est Diver Marine Contracting LLC, à Sharjah (Head Office), Diver Shipping & Cargo and Ship Maintenance LLC, le tout dans un groupe du nom de Divers Group LLC (dont la (délicieuse) devise est Consider it done
      http://www.divers-marine.com/global-presence.html
      Ce même site mentionne une filiale dans la corne de l’Afrique, mais c’est à Bosasso au Puntland, donc en Somalie…

      Le litige porte sur une liaison routière Berbera-Wajale (à la frontière avec l’Éthiopie, sur la route vers Djidjiga, Harar (ô mânes de Rimbaud…) et (loin…) Addis-Abeba.

      • développement du port de Berbera
      Accord tripartite hier, jeudi, pour un projet de développement conjoint avec DP World aux manettes (filiale du fonds souverain Dubai World) avec 51%, le Somaliland (30%) et l’Éthiopie (19%)

      DP World Signs Agreement with Ethiopia, Somalia to Develop Port of Berbera | Asharq AL-awsat
      https://aawsat.com/english/home/article/1191896/dp-world-signs-agreement-ethiopia-somalia-develop-port-berbera
      https://www.youtube.com/watch?v=V6Q5tbitEXY

      Dubai’s state-owned DP World said on Thursday the Ethiopian government had taken a 19 percent stake in Somaliland’s Port of Berbera. The port operator said it would retain a 51 percent stake in the port and that Somaliland would retain 30 percent.

      DP World Group chairman and CEO Sultan Bin Sulayem lauded the strategic partnership, and stressed the role of partnerships between the public and private sectors in accelerating the pace of economic growth of countries.

      Bin Sulayem, said: “I am so excited about the prospects of working with the Ethiopian government. Ethiopia is home to approximately 110 million people."

      Accord dénoncé dès le lendemain par la Somalie (qui ne reconnait pas l’indépendance du Somaliland, pas plus qu’aucun autre pays d’ailleurs…)

      • MAIS…
      l’accord pour la base navale (février 2017) parlait (déjà…) de DP World (et on ne touche pas un mot de la liaison routière)

      Les Emirats arabes unis s’offrent une nouvelle base navale au Somaliland - RFI (article du 13/02/17, modifié (?) le 13/11/17…)
      http://www.rfi.fr/afrique/20170213-emirats-arabes-unis-base-navale-militaire-somaliland

      Les Émirats arabes unis (EAU) avaient déjà une base navale en Érythrée, ils en auront bientôt une seconde au Somaliland. Le Parlement de cette république auto-proclamée vient de lui donner son feu vert, en tout cas. Cette base doit renforcer la présence des Émirats dans la Corne de l’Afrique.

      Les EAU et le Somaliland sont sur le point de signer un bail de 25 ans. En 2042, donc, la base navale et aérienne deviendra la propriété du gouvernement de cette république auto-proclamée.

      En contrepartie, DP World, basé à Dubaï, troisième opérateur portuaire au monde, s’est engagé à agrandir le port de Berbera à l’horizon 2019 et à le gérer pendant 30 ans. Un contrat d’une valeur de plus de 400 millions d’euros.

      Ce port de commerce, l’un des rares en eau profonde de la Corne de l’Afrique, devrait renforcer le rôle économique de Berbera. L’Éthiopie s’en réjouit déjà, elle qui n’a aucun accès à la mer. Berbera est encore plus près d’Addis-Abeba que ne l’est Djibouti.

      Quant à la future base navale de Berbera, elle pourrait jouer un rôle stratégique dans la région. Il est probable que les EAU s’en servent dans le conflit qui, de l’autre côté de la mer Rouge, oppose le gouvernement du Yémen aux Houthis.

      Les Émirats, qui soutiennent Aden, utilisent déjà Assab, leur base en Erythrée, ou des avions de combat, y compris des Mirages, ont été déployés, selon la presse spécialisée. Pour la base d’Assab aussi, c’était du donnant-donnant. Pour s’y installer, les Émirats se sont engagés à moderniser l’aéroport d’Asmara.

      • Quant à Djibouti et Doraleh, on n’est pas sorti de l’auberge… le conflit est déjà ouvert, après un premier échec pour obtenir une renégociation en 2014, l’Assemblée nationale djiboutienne a passé une loi en novembre 2017 demandant la révision des contrats à caractère stratégique…

      Djibouti en conflit avec DP World sur le port de Doraleh - RFI (article du 24/02/18, modifié le 25/02/18)
      http://www.rfi.fr/afrique/20180224-djibouti-conflit-dp-world-port-doraleh-dubai

      Nouvelle escalade dans le conflit qui oppose le gouvernement de Djibouti à l’exploitant portuaire de l’émirat de Dubaï, DP World. Djibouti a repris la gestion du terminal de conteneur de Doraleh au nom des intérêts de la nation. Un conflit lourd de conséquences pour l’approvisionnement des pays de la Corne de l’Afrique.

      Le gouvernement de Djibouti a résilié le contrat de concession attribué à DP World en 2006 et repris la gestion directe du terminal portuaire de Doraleh, au nom de la souveraineté de l’Etat et des intérêts supérieurs de la nation. Et ce, de manière totalement illégale, selon Dubaï Ports World, l’un des plus grands gestionnaires d’installations portuaires au monde.

      DP World entend donc bien ne pas en rester là et a engagé une procédure devant la cour d’arbitrage international de Londres. Une cour qui s’est déjà prononcée en faveur du consortium de Dubaï dans le passé, quand Djibouti en 2014 avait déjà remis en cause le contrat qui les liait. Djibouti accusait l’opérateur portuaire d’avoir versé des pots-de-vin pour obtenir la concession de 50 ans.

      Ce conflit est lourd de conséquences et pas seulement pour les deux protagonistes, car le port en litige approvisionne les pays de la Corne de l’Afrique. Au premier rang desquels l’Ethiopie, dépourvue de façade maritime, qui dépend à 90% de ce port pour ses échanges commerciaux.

      • Cette dernière péripétie n’a en tous cas pas l’air d’avoir entamé l’optimisme de M. Bin Sulayem, comme on peut le voir sur la vidéo et qui doit certainement compter sur un arbitrage international favorable.
      De plus, avec Assab en Érythrée, Doraleh à Djibouti et Berbera au Somaliland, où les EAU disposent (ou vont disposer) de facilités, Djibouti va entrer en concurrence avec ses voisins pour garder son rôle de porte d’accès de et à l’Éthiopie. Pour le moment, il a l’avantage de la liaison ferroviaire toute neuve (et chinoise) reliant Djibouti à Addis Abeba.

      liaison inaugurée le 5 octobre 2016 et qui vient tout juste de commencer ses opérations commerciales, le 1er janvier 2018 (enfin, il paraît…)
      Chinese-built Ethiopia-Djibouti railway begins commercial operations - Xinhua | English.news.cn (article du 1er janvier 2018)
      http://www.xinhuanet.com/english/2018-01/01/c_136865306.htm

      The Chinese-built 756-km electrified rail project connecting landlocked Ethiopia to Djibouti officially started commercial operations on Monday with a ceremony held in Ethiopia’s capital Addis Ababa.

      Contracted by two Chinese companies, the first 320 km of the rail project from Sebeta to Mieso was carried out by the China Rail Engineering Corporation (CREC), while the remaining 436 km from Mieso to Djibouti port section was built by the China Civil Engineering Construction Corporation (CCECC).

      Bref, grandes manœuvres et compagnie. Ajoutes à cela ce qui se passe de l’autre côté de la Porte des Lamentations

      Enfin, tu remarqueras que tous les pays cités sont hautement démocratiques et connus pour la transparence de leurs décisions d’investissement…

    • A Djibouti, « la Chine commence à déchanter »
      http://www.lemonde.fr/afrique/article/2018/02/05/a-djibouti-la-chine-commence-a-dechanter_5252153_3212.html


      Le président djiboutien Ismaïl Omar Guelleh (à gauche) et le président chinois Xi Jinping, à Pékin, le 23 novembre 2017.
      Jason Lee / AFP

      Le torchon est-il en train de brûler ? Les entreprises chinoises qui espéraient décrocher des contrats dans la zone commencent à déchanter. Ainsi, les travaux des deux nouveaux aéroports confiés à China Civil Engineering Construction Corporation (CCECC) sont remis en cause. Celui d’Ali Sabieh, la deuxième ville de Djibouti, devait compter deux pistes d’atterrissage, avec la capacité de traiter 600 000 tonnes de fret par an. Le second devait quant à lui desservir le détroit de Bab Al-Mandeb, une zone stratégique pour le commerce international et pour la Chine.

      Mais les deux contrats signés par CCECC en janvier 2015 ont été brutalement remis en cause. La raison de la brouille n’est pas claire, personne ne souhaitant évidemment commenter, ni côté chinois, ni côté djiboutien. Electricité, transport, logistique… Les contrats sont tous plus ou moins remis en cause les uns après les autres, et rien n’est vraiment acquis pour les entreprises chinoises, qui apprennent sur le terrain la dure réalité des négociations dans une zone rongée par la corruption et les conflits politiques.

      Selon Africa Intelligence, l’exaspération des Chinois a atteint son comble lorsque le président Ismaïl Omar Guelleh est revenu sur sa promesse de leur laisser le monopole des zones franches dans le pays, ouvrant ainsi le jeu à des groupes indiens et émiratis. Une concurrence que vit très mal Pékin, qui pensait écraser tout le monde grâce à sa puissance militaire et financière et à ce fameux « partenariat stratégique ». Mais le jeu national est beaucoup plus complexe.

      Remarques :
      • le président Guelleh s’est rendu en Chine après le vote de l’Assemblée demandant le réexamen des contrats. Il a dû s’y faire sonner les cloches. Ce qui n’a, apparemment, pas empêché la remise en cause des contrats…
      • vu les articles qui précèdent, il se pourrait qu’il ait alors (ou un peu avant) découvert que le contrat de concession de DP World (de 2006, pour une durée de 30 ans) lui interdisait de confier d’autres zones portuaires à des tiers. Or, #OBOR, l’initiative stratégique des nouvelles routes de la soie a de grandes chances de comprendre un terminal multimodal à Djibouti.
      • or, c’est la Chine qui finance le développement de Doraleh, terminal multimodal dont la gestion est confiée à DP World, ainsi que Damerjog, spécialisé dans le bétail. J’imagine qu’elle y verrait bien un opérateur… chinois.

      Djibouti Starts Construction of Two Major Ports | World Maritime News
      (article de septembre 2013 où l’on retrouve Bin Sulayem, à l’époque former CEO de DP World)
      https://worldmaritimenews.com/archives/93197/djibouti-starts-construction-of-two-major-ports

      Djibouti President, Ismail Omar Guelleh, officially launched the construction of the Damerjog livestock port in Arta district and the multipurpose Doraleh port on Sunday.

      Also present was Somali Prime Minister, Abdi Farah Shirdon who was on an official visit to Djibouti, the former chief executive officer of Dubai’s DP World, Sultan Ahmed Bin Sulayem, and representatives from Ethiopia and South Sudan.

      Construction of the two ports is being funded by the China Merchants Group.

    • Pour La Tribune, à propos des développements récents à Djibouti (article du 24/02/18) parle des investissements de DP World et d’une durée de 50 ans pour la concession…

      Djibouti : le gouvernement rompt le contrat de l’exploitant portuaire DP World
      https://afrique.latribune.fr/politique/gouvernance/2018-02-24/djibouti-le-gouvernement-rompt-le-contrat-de-l-exploitant-portuair

      Le contentieux entre Djibouti et DP World remonte à 2014, suite à la plainte déposée contre l’opérateur portuaire émirati, dont le capital est détenu majoritairement par le gouvernement de Dubaï. Une action en justice justifiée par des accusations de paiements illégaux pour obtenir une concession portuaire d’une durée de 50 ans pour le Doraleh Container Terminal. Pour le cabinet présidentiel djiboutien, le contrat aurait pris fin après l’échec de la résolution du différend entre les deux parties survenu en 2012.

      Pour l’heure, les autorités djiboutiennes n’ont donné aucun détail sur la nature du différend qui les oppose à DP World, tout en rappelant que la décision de résilier l’accord de gestion vise à protéger la souveraineté nationale et l’indépendance économique du pays. Cette décision du président Guelleh a de fortes chances de mettre terme au contrat de concession signé en 2006. Le terminal a pour rappel connu son démarrage effectif en 2008.

      DP avait investi 400 millions de dollars pour la construction du terminal qui était géré par le Doraleh Container Terminal, détenu à hauteur de 66% par l’autorité portuaire djiboutienne et à 33% par l’opérateur émirati. La collaboration entre les deux partenaires se tend en 2015, lorsque le gouvernement djiboutien accuse DP World d’avoir versé des commissions occultes de plusieurs millions de dollars à Abdourahman Boreh, qui était à la tête de l’Autorité des ports et zones franches entre 2003 et 2008.

      L’entreprise est également accusée de fraude fiscale et de détournement de fonds publics. La procédure de résiliation lancée dans la foulée par Djibouti sera déboutée à Londres en février 2017. En réaction, le gouvernement Guelleh mettra en place une loi votée en octobre dernier, lui permettant de résilier unilatéralement des contrats publics liés à la réalisation de grandes infrastructures au nom de la souveraineté du pays.

      « Il convient de noter que le Doraleh Container Terminal sera désormais sous l’autorité de la Doraleh Container Terminal Manangement Company qui appartient à L’Etat », précise le communiqué du cabinet présidentiel.

      Bref, ça castagne dur et les Chinois ne sont pas réputés être tendres en affaire…

    • @simplicissimus : Heureusement, c’est plus calme dans la corne de la France ! Merci d’avoir débrouillé ce très gros sac de noeuds dont je n’imaginais même pas à quel point il était complexe. Le tout dernier lien sur le missile chinois est réjouissant si on peut dire...

    • Le nouvel exploitant (tout récemment devenu public…) du terminal de Doraleh fait affaire avec les singapouriens.

      Djibouti Signs New Container Terminal Deal – gCaptain
      http://gcaptain.com/djibouti-signs-new-container-terminal-deal

      Djibouti’s Doraleh Container Terminal Management Company has signed a deal with Singapore-based Pacific International Lines (PIL) to raise by a third the amount of cargo handled at the port, the country’s Ports and Zones Authority said on Tuesday.

    • Djibouti says its container port to remain in state hands
      https://www.reuters.com/article/us-djibouti-port/djibouti-says-its-container-port-to-remain-in-state-hands-idUSKCN1GQ1IB

      Djibouti’s container port will remain in state hands as the government seeks investment, a senior official said on Wednesday in comments likely to reassure Washington where lawmakers say they fear it could be ceded to China.

      The Doraleh Container Terminal is a key asset for Djibouti, a tiny state on the Red Sea whose location is of strategic value to countries such as the United States, China, Japan and former colonial power France, all of whom have military bases there.

      Djibouti last month terminated the concession of Dubai’s state-owned DP World to run the port, citing a failure to resolve a six-year contractual dispute.

      The cancellation accelerated diplomatic competition in Djibouti and renewed concerns in a number of capitals that other nations could use it to strengthen their influence.

      The port would remain “in the hands of our nation” as the government seeks new investors, said Djibouti’s Inspector General Hassan Issa Sultan, who oversees infrastructure for President Ismail Omar Guelleh.

      There is no China option and no secret plans for the Doraleh Container Terminal,” he told Reuters in an interview. “The port is now 100 percent managed by the state.

      The top U.S. general for Africa told U.S. lawmakers last week the military could face “significant” consequences should China take control of the terminal. Lawmakers said they had seen reports that Djibouti had seized control of the port to give it to China as a gift.

    • Et encore un nouveau terminal de containers à Doraleh, mais cette fois-ci avec… la France !
      … et Djibouti va (unilatéralement…) racheter les parts de DP World dans le premier terminal de Doraleh.

      Djibouti plans new container terminal to bolster transport hub aspirations
      https://uk.reuters.com/article/uk-djibouti-port/djibouti-plans-new-container-terminal-to-bolster-transport-hub-aspiratio

      The new container terminal project could break ground as early as September with construction expected to take 24 months, Hadi said, speaking on the sidelines of the Africa CEO Forum in Abidjan, Ivory Coast.

      We are going to build DICT, Doraleh International Container Terminal. This is a new plan,” he said. “We are in discussions with #CMA_CGM._

      The port authority was not in talks with any other potential partners, he said. Shipping group CMA CGM declined to comment.
      […]
      Meanwhile, Hadi said the port authority was ready to end a dispute with DP World over its cancellation of a concession contract for another facility, the Doraleh Container Terminal, by buying out DP World’s 33 percent stake.

      Djibouti ended the contract with the Dubai state-owned port operator last month, citing a failure to resolve a dispute that began in 2012.

      DP World has called the move illegal and said it had begun proceedings before the London Court of International Arbitration, which last year cleared the company of all charges of misconduct over the concession.

      “_We are prepared to pay them their 33 percent of shares,” Hadi said. “There is no need for arbitration. We are going to buy their shares.

      Ce qui semble du pur #wishful_thinking.

      Par ailleurs, à force de fricoter avec tout le monde, il va bien finir par arriver un accident dans cette zone hyper stratégique.

      Genre un missile « houthi » (?) qui s’égarerait et franchirait les quelques 120 km de Bab el Mandeb (et baie de Tadjoura) séparant l’île de Perim du palais présidentiel de Djibouti…

      Encore un coup des Persans et de leurs copains Chinois…

  • Je viens de mettre sur seenthis un rapport sur les passeurs dans la #Corne_de_l'Afrique, c’est ici :
    http://seen.li/e71e

    Je remets ici un tableau que j’ai trouvé dans le rapport. Il concerne le nombre de #morts / #décès de migrants dans cette région d’Afrique (en fait, ce tableau considère une région plus large que la Corne de l’Afrique). Je peux me tromper, mais je n’ai jamais vu passer cette info avant.
    Voici le tableau :


    #mourir_aux_frontières #statistiques #chiffres #Soudan #Libye #Egypte #Yémen #Somalie #Ethiopie #Tanzanie #Erythrée #Mozambique #Kenya #Afrique_de_l'Est #Zimbabwe #Djibouti #Malawi

    Les trois tableaux sont construits un peu bizarrement, car tout le rapport est basé sur des questionnaires, et je n’ai pas le temps de trop regarder la méthodo, mais je mets ici dans le cas où de bonnes âmes de seenthis ont envie de voir un peu plus clair... Le rapport c’est par ici : http://regionalmms.org/images/briefing/RMMS%20BriefingPaper6%20-%20Unpacking%20the%20Myths.pdf

    cc @reka @simplicissimus

  • Unpacking the Myths around Human Smuggling in and from East Africa

    This paper finds that migrant smuggling within and from the Horn of Africa continues to occur, with new smuggling routes opening in response to irregular migration related risks and law enforcement responses to migrant smuggling on traditionally popular routes. Smuggling as part of the mixed migration flows are more and more common, particularly as travel across borders becomes more dangerous. 4Mi data shows that at least 73% of migrants are using smugglers for at least part of their journey. The key findings from the research explore the dynamics and trends of this elicit trade:

    Migrant smuggling within and from the Horn of Africa remains a vibrant business, and new smuggling routes continue to open - largely in response to political and economic factors, migration risks, and law enforcement efforts to curtail certain routes.
    Many smugglers are young men who enter the smuggling trade because they have limited employment opportunities in their home countries, and smuggling activities are more lucrative than other job opportunities in their home countries.
    Across all three major routes leading out of the region, smuggling networks are organised. Some networks resembling loose, horizontal networks in which smugglers work collaboratively across national borders. In these networks, smugglers tend to hand over the migrants at borders to new smugglers operating the subsequent leg/s of the journey. Other networks, particularly Libya-based smuggling networks along the North-western route to Europe are increasingly hierarchical, with smuggling kingpins dominating the smuggling business from Libya, and Horn of Africa smugglers playing important, but usually subordinate, positions to the Libyan kingpins.
    For most smugglers operating in the region, migrant smuggling is the primary criminal enterprise. Predominantly on the Eastern, and North-western routes, smugglers may also be involved in other criminal activities, such as trafficking in persons, 1 kidnapping, and extortion.
    Government officials are reported to be involved, directly and indirectly, in migrant smuggling operations. Without this collaboration smugglers would likely encounter significant obstacles to conducting successful migrant smuggling ventures.
    With a reported pre-departure average expenditure for smuggling services of USD 1,036 per migrant, 2 the smuggling business remains lucrative for those involved. With a reported average expenditure of USD 2,371 3 per migrant on bribes and extortion, it is clear that many other individuals, including border guards, militia, kidnappers, and traffickers, are also profiting from the flows of smuggled migrants within and from the Horn of Africa.
    The migration flows within and from the Horn of Africa are mixed, 4 with asylum seekers and refugees being smuggled alongside economic migrants.
    Various political and socio-economic factors motivate irregular migration from the Horn of Africa region. The level of migration is highly reactive to political and other pressures, as well as national migration policy. Movement from the region is both in response to short-term crises, as well as rooted in long-term factors.
    Most smuggled migrants from the Horn of Africa are young, single men; however, the number of female migrants is reportedly increasing. Also reportedly increasing is the number of unaccompanied Horn of Africa minors travelling irregularly to Europe, the Gulf States and Middle East, and Southern Africa.
    Some migrants initiate the first leg of travel, and navigate one or more subsequent segments of travel without the aid of smugglers. These migrants tend to pay smugglers, where they are used, for each individual part of the journey, using cash or informal money transfer systems, such as hawala systems (informal financial transfers outside of the traditional banking system). 5 Other migrants use the services of smugglers to take them from their home country all the way to the destination country - some of these migrants pay for the entire journey in advance.
    The paper finds that paying for the entire smuggling journey in advance does not reduce the vulnerability of migrants to exploitation and abuse during the journey.
    In terms of volume, the most popular smuggling route is the Eastern route to the Gulf States and the Middle East. Horn of Africa migrants are also still being smuggled in large numbers to Europe, and to Southern Africa, particularly South Africa.

    http://www.regionalmms.org/index.php/research-publications/feature-articles/item/70-unpacking-the-myths-around-human-smuggling-in-and-from

    #smuggling #passeurs #Corne_de_l'Afrique #migrations #asile #réfugiés #frontières #business

    Lien vers le rapport :
    http://regionalmms.org/images/briefing/RMMS%20BriefingPaper6%20-%20Unpacking%20the%20Myths.pdf

    –-> intéressant pour analyser le discours, probablement aussi pour les chiffres (pas lu en détail le rapport), mais attention, car financé par la coopération au développement suisse et allemande... du coup, voilà... c’est probablement un papier qui légitime encore plus la fermeture des frontières...

    Voici des tableaux qui, je pense, suggèrent que j’ai raison à être un peu dubitative face à ce rapport :

    Où veulent aller les personnes en fuite ? En Europe pour la majorité, évidemment...

    Qui sont les facilitateurs ? Les passeurs, obviously...

    Pourquoi fuient-ils ? Pour des raisons économiques avant tout, évidemment...


    #flèches

    Un tableau intéressant sur le nombre des #décès :


    #mourir_aux_frontières #morts #chiffres #statistiques
    C’est la première fois que je vois les chiffres de personnes mortes aux frontières de la Corne de l’Afrique

    Et sur les #viols / #violences_sexuelles :

    cc @reka

  • Le président érythréen se rend en visite en #Egypte...
    Visite du président de l’Érythrée en Égypte - janvier 2018

    Le Président Abdel Fattah Al-Sissi a reçu 9 janvier 2018 son homologue érythréen, Issayas Afeworki actuellement en visite de deux jours en Egypte. L’hymne national des deux pays a été entonné au début des cérémonies de réception officielles réservées au Président de l’Erythrée. Les deux leaders ont eu un tête-à-tête après lequel s’est déroulée une séance d’entretiens élargie aux responsables des deux pays.
    Les discussions présidentielles ont planché sur les développements de la conjoncture dans les pays du Bassin du #Nil et de la #Corne_de_l'Afrique, ainsi que sur des questions d’ordre régional et international d’intérêt commun.
    Le président Al Sissi a fait part à son hôte de marque du grand intérêt qu’accorde l’Egypte au renforcement de sa #coopération stratégique avec l’Erythrée dans les divers domaines et à la fondation d’un partenariat durable entre les deux parties, en guise de consolidation des relations historiques et distinguées les unissant depuis bien des siècles. Le Chef de l’Etat a également estimé indispensable de faire progresser la mise en œuvre des projets de #coopération dans les différents secteurs, tels que l’agriculture, l’électricité, la santé et le commerce, sans omettre les domaines de la pisciculture et des ressources animales qui font la réputation de ce pays de la Corne de l’Afrique.
    Les deux dirigeants ont en outre évoqué leurs démarches conjointes en ce qui concerne la lutte contre le terrorisme, aspirant à intensifier leurs concertations relatives aux questions de la paix et de la stabilité régionales. Le Président érythréen a quant à lui, d’après des déclarations du porte-parole de la Présidence égyptienne, exprimé la grande estime de son pays à l’égard de l’Egypte avec qui il a tissé des relations historiques et stratégiques au fil des années. Il a de même salué le rôle pionner de l’Egypte dans la région et son souci de rétablir l’ordre et la stabilité dans le continent africain.
    « Nous désirons développer notre coopération bilatérale avec l’Egypte dans les divers domaines de sorte à réaliser les intérêts des deux peuples », a noté le Chef de l’Etat érythréen, avant de louer les expériences égyptiennes en matière d’assistance technique et de formation professionnelle.
    Les pourparlers constructifs entre l’Egypte et l’Erythrée démontrent la profondeur de leurs liens tous azimuts et leur convergence de vues vis-à-vis de nombreux dossiers de tout ordre, notamment des questions liées à la Corne de l’Afrique, cette région axiale dont la stabilité s’avère prioritaire pour la sécurité de la mer Rouge.

    http://www.sis.gov.eg/Story/107180?lang=fr
    #Erythrée #Egypte

    Ce qui ne va pas améliorer les relations #Egypte-#Soudan
    Petit rappel : le #Soudan aurait fermé les frontières avec l’Erythrée, probablement aussi en lien avec le fait que l’Erythrée s’est rapprochée de l’Egypte

    cc @reka

    • La tension monte encore entre le Soudan et l’Egypte

      Le Soudan a fermé, la semaine dernière, sa frontière avec l’Erythrée et a annoncé l’état d’urgence dans deux de ses Etats de l’est et déployés des milliers de soldats dans cette zone. Khartoum accuse l’Erythrée, appuyée par l’Egypte, de vouloir intervenir sur son territoir et même de vouloir renverser le président Omar el-Béchir.

      http://www.rfi.fr/afrique/20180111-soudan-egypte-relations-tendues-caire-khartoum-mer-rouge

    • #Barrage de Grande Renaissance : l’Erythrée à la rescousse de l’Egypte pour la résolution de la crise

      L’Egypte a trouvé en l’Erythrée, un nouvel allié dans la tension régionale engendrée par la construction du #barrage_hydroélectrique de #Grande_Renaissance. « Les deux parties ont convenu de poursuivre une coopération intensive sur toutes les questions liées à la situation actuelle pour soutenir la sécurité et la stabilité dans la région. », a affirmé Bassam Radi, le porte-parole de la présidence égyptienne, lors de la visite du président érythréen Isaias Afeworki.

      https://www.agenceecofin.com/electricite/1001-53364-barrage-de-grande-renaissance-l-erythree-a-la-rescousse-de-
      #eau

    • L’Égypte et le Soudan au bord de la confrontation ?

      Le Proche et Moyen Orient sont source de tension entre les différentes puissances régionales appuyées par les puissances impérialistes. C’est au tour de la corne de l’Afrique d’être en phase croissante de tension inter-étatique. L’Égypte qui tente depuis le coup d’état du Maréchal al-Sissi de prendre plus de place dans la région se voit opposée à la Turquie à travers un conflit frontalier avec le Soudan et l’Érythrée

      Le #barrage_de_la_Renaissance

      Ce barrage est en train d’être achevé par l’#Éthiopie sur le Nil et inquiète au plus haut point l’Égypte. Le Caire craint, en effet, que ce barrage dont l’usine hydroélectrique générera plus de 6 400 mégawatts réduise sa part des eaux du Nil. L‘Éthiopie quant à elle, justifie le projet en expliquant qu’il est nécessaire à son développement économique, soulignant le fait que la grande majorité de ses 95 millions d’habitants manquent d‘électricité.

      L’Égypte accuse le Soudan, au préalable médiateur, de prendre fait et cause pour l’Éthiopie qui lui fournit 100 MW par an, ce qui correspond à près de 15% de la production d’électricité soudanaise. De fait, le Caire s’est rapprochée de l’Érythrée, frère ennemi de l’Éthiopie. Le gouvernement éthiopien a accusé le gouvernement érythréen d’entraîner des rebelles en vue de mener des attaques de sabotage contre le barrage.

      L’Égypte cherche donc à exclure les Soudanais des discussions sur les eaux du Nil. Le Caire vient, en effet, de soumettre à l’Éthiopie une proposition relative à la sortie du Soudan des discussions sur la construction du barrage. A la place, ils proposent l’introduction de la Banque mondiale en tant que médiateur. Ce qui a du mal à passer du côté du dictateur soudanais puisqu’avec la construction du barrage, il aurait pu importer davantage d’électricité de son allié éthiopien.

      http://www.revolutionpermanente.fr/L-Egypte-et-le-Soudan-au-bord-de-la-confrontation
      #conflit #tensions

  • Il budget oscuro tra cooperazione e migrazione

    I fondi sulla carta destinati a promuovere lo sviluppo di paesi poveri in realtà rimangono in Italia, destinati all’accoglienza migranti. Parte delle spese utilizzate anche per l’esternalizzazione delle frontiere. La denuncia di Oxfam e Openpolis

    http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/562311/Il-budget-oscuro-tra-cooperazione-e-migrazione-Se-i-fondi-restano-i
    #Italie #aide_au_développement #développement #asile #migrations #réfugiés #coopération_au_développement #externalisation #accueil #fermeture_des_frontières #frontières

    • Il budget oscuro tra cooperazione e migrazione

      Accoglierli, come accoglierli, salvarli in mare, respingerli, rimpatriarli, fermare i flussi o governarli. Parole ed espressioni già ricorrenti nel dibattito pubblico che sicuramente saranno temi centrali della campagna elettorale. A maggior ragione diventa imprescindibile la sempre valida domanda: con quali costi? Seguire i soldi in questo caso vuol dire accostare due settori apparentemente distanti: la cooperazione internazionale allo sviluppo e la gestione del fenomeno migratorio.


      https://cooperazione.openpolis.it/minidossier/perche-confrontiamo-soldi-cooperazione-migranti

    • Coopération UE-Afrique sur les migrations. Chronique d’un chantage

      Alors que la communauté internationale fait mine de s’offusquer de la situation dramatique des personnes en migration en Libye, la Cimade, le collectif Loujna-Tounkaranké et le réseau Migreurop publient le rapport conjoint Coopération UE–Afrique, chronique d’un chantage. Outil de décryptage critique des mécanismes financiers et politiques de la coopération européenne sur les migrations avec les pays tiers, l’ouvrage appuie son analyse sur quatre pays africains : le Maroc, le Mali, le Sénégal et le Niger.

      http://www.lacimade.org/presse/cooperation-ue-afrique-migrations-chronique-dun-chantage
      #fonds_fiduciaire #fonds_fiduciaire_d’urgence #trust_fund

    • Aide au développement : les ONG réfutent le lien migration/développement

      « Nous, ONG, réfutons le lien entre #APD et politiques migratoires. L’APD doit réduire la pauvreté, c’est ça son objectif » a martelé avec conviction Bernard Pinaud du CCFD solidaire, suscitant de vifs applaudissements de l’ensemble des ONGs présentes.

      https://blogs.mediapart.fr/aide-et-action/blog/230218/aide-au-developpement-les-ong-refutent-le-lien-migrationdeveloppemen

    • Respect des engagements : adoption de nouveaux programmes sur la protection des migrants et l’aide au retour et à la réintégration en Afrique, d’un montant de 150 millions d’euros

      L’Union européenne adopte ce jour trois nouveaux programmes, d’une valeur supérieure à 150 millions d’euros, au titre du fonds fiduciaire d’urgence de l’Union européenne pour l’Afrique, faisant suite directement aux engagements pris par le groupe de travail commun Union africaine-Union européenne-Nations unies en vue de remédier à la situation des migrants en #Libye.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-1143_fr.htm

    • Aid and Migration : externalisation of Europe’s responsibilities

      European countries have seen over 3.8 million people seeking asylum in its territories between 2013 and 2016. In response, Europe has developed several plans, agreements and policy Frameworks on Migration. The EU has also established a number of cooperation agreements with third countries, highlighting the importance of “addressing the root causes behind irregular migration to non-EU countries”. On top, we notice EU Aid budgets being increasingly spent in favour of “migration management”.

      Development cooperation is more and more perceived by EU leaders as a tool to “control migration”, “manage migration” or “tackle the root causes of migration”. Why is that?


      https://concordeurope.org/2018/03/19/aid-migration-aidwatch-paper

      Pour télécharger le #rapport :
      https://concordeurope.org/wp-content/uploads/2018/03/CONCORD_AidWatchPaper_Aid_Migration_2018_online.pdf?7c2b17&7c2b17

    • Les partenariats entre l’Union européenne et les pays africains sur les migrations. Un enjeu commun, des intérêts contradictoires

      Pour atteindre ses objectifs, l’UE s’est dotée d’un instrument financier qui s’est rapidement imposé comme l’outil le plus visible de la politique de partenariat en matière de migration. Le #Fonds_fiduciaire_d’urgence_pour_l’Afrique (#FFU), adopté au cours du sommet de #la_Valette de novembre 2015, est devenu le signe d’une synergie renforcée, voire d’un alignement, entre les objectifs des politiques migratoires, de #sécurité et de #développement. Cependant, loin de répondre aux principes de partenariat et de responsabilité partagée, le FFU, comme les autres cadres de dialogue, reste entre les mains des Européens qui imposent leurs objectifs et contrôlent leur mise en œuvre. Les pays africains y trouvent peu d’espace dans lequel ils pourraient participer à la définition des objectifs et des moyens d’action.


      https://www.ifri.org/fr/publications/notes-de-lifri/partenariats-entre-lunion-europeenne-pays-africains-migrations-un-enjeu

    • The 2017 Annual Report of the EU Emergency Trust Fund for Africa is available

      The 2017 Annual report of the EU Emergency Trust Fund for Africa has been adopted by the Operational Comittee on 2 March 2018. It outlines the current state of affairs and the achievements of the Emergency Trust Fund for stability and addressing root causes of irregular migration and displaced persons in Africa (the EUTF for Africa) up to December 2017.

      The Report provides an overview of the strategic orientations, implementation and results achieved in each of the three regions of the EUTF for Africa.

      In 2017, the EUTF for Africa focused on deploying activities at country and regional level to address the compelling needs of African partner countries while further translating the Trust Fund’s strategic priorities into action. During the year, 40 new programmes have been approved in the three regions, bringing the total of approved programmes at the end of 2017 to 143 including three which operate across several regions. With EUR 900 million contracted, the implementation pace of the EUTF for Africa has significantly improved in 2017 bringing the overall amount of signed contracts to EUR 1.5 billion with implementing partners since the inception of the Trust Fund.

      Two years after its inception at the Valletta Summit on Migration, held in November 2015, the EUTF for Africa has further demonstrated its added value as a quick and effective implementing tool that facilitates political dialogue with partner countries, covers new sectors, allows innovative approaches, produces results, and pulls and attracts funding, expertise and experience from a variety of stakeholders and partners.

      Through its activities, the EUTF for Africa has been working actively in the three regions to limit the combined effects of worsened security conditions and long-lasting challenges such as demographic pressure, institutional weaknesses and extreme poverty.

      https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/all-news-and-stories/2017-annual-report_en
      #rapport

    • Protecting and supporting migrants and refugees: new actions worth €467 million under the EU Trust Fund for Africa

      European Commission - Press release

      Brussels, 29 May 2018

      The EU continues to deliver on its commitments to assist vulnerable migrants and refugees and address root causes of irregular migration. The new support measures in the Sahel/ Lake Chad region and the Horn of Africa will foster stability, jobs and growth, especially for young people and vulnerable groups.

      They complement ongoing bilateral and multilateral efforts, such as through the Joint African Union – European Union – United Nations Task Force. Today’s additional funds will allow for live-saving assistance to be taken forward, including accelerating resettlements of refugees from Niger as a priority.

      High Representative/Vice-President Federica Mogherini said: "We continue working to save lives, provide safe and dignified returns and legal avenues, and tackle the root causes of migration, by creating jobs and growth. With the UNHCR, we have evacuated 1,287 refugees from Libya to Niger, who need to be resettled swiftly now. With the IOM, we helped 22,000 people to return home and provide reintegration assistance. Today’s additional commitments will further consolidate our work towards managing human mobility - in a humane, secure and dignified way together with our partners.”

      Commissioner for International Cooperation and Development, Neven Mimica, said: “The majority of today’s €467 million assistance package will be dedicated towards improving employment opportunities, especially for young people. But challenges remain, and the Trust Fund’s resources are running out. If we want to continue our live-saving assistance, additional contributions by EU member states’ and other donors will be crucial.”

      Measures adopted today focus on the following areas:

      Protection and assistance for people on the move

      The European Union’s work with the UNHCR has so far allowed for 1,287 refugees to be evacuated from Libya to Niger through the Emergency Transit Mechanism, with 108 people having been further resettled to Europe. In parallel, together with the International Organisation for Migration, 22,000 migrants stranded along the routes have been assisted to voluntarily return home, where they receive reintegration support. Today, the EU mobilises an additional €70 million, of which €10 million will support accelerating resettlements under the UNHCR’s Emergency Transit Mechanism and €60 million ensure that voluntary return and reintegration assistance can be continuously provided by the IOM. In Kenya, an innovative approach to piloting private sector development will promote better economic integration of refugees and supports the implementation of the Comprehensive Refugee Response Framework. Additional €20 million in regional support will help countries in the Horn of Africa, in developing and implementing sustainable and rights-based return and reintegration policies.

      Increase stability, resilience of local populations and improve migration management

      Increasing stability and supporting the resilience of local populations is one of the pillars of the EU’s integrated approach. In central Mali, activities worth €10 million will address the rapidly degrading security situation, to increase trust between Malian security forces and local populations. Further new activities will promote conflict prevention, foster food security in South Sudan or improve knowledge on malnutrition in Sudan. In Sudan, support will also enable humanitarian and development actors to access hard-to-reach areas. In Cape Verde and Guinea Bissau new measureswill help to set up a reliable civil identification registration and document issuance system, to allow the population to benefit from enhanced mobility, document security and better access to rights.

      Economic opportunities for young people

      Providing sustainable employment opportunities for young people is key to tackle the root causes of irregular migration. New actions will support the skills development and vocational training of young people to help create better employment opportunities, for example in Ethiopia, Nigeria or The Gambia. In Sudan, a new support project, will strengthen the job skills of young people and support them through training to establish and grow businesses. This project will target disadvantaged groups, such as refugees and internally displaced people and, like all EU assistance in Sudan, will be realised through trusted implementing partners.

      In order to ensure continuous monitoring of the effectiveness of Trust Fund for Africa programmes, the funding of the dedicated monitoring and learning system has been doubled from €2 million to €4 million.

      Background

      The EU Emergency Trust Fund for Africa was established in 2015 in order to address the root causes of instability, irregular migration and forced displacement. Resources currently allocated to this Trust Fund are €3.4 billion from EU institutions, European Member States and other donors.

      Today’s assistance adds to the 147 programmes that were already previously approved across the three regions (North of Africa, Sahel and Lake Chad region and Horn of Africa) worth a total of €2,594 million, which was divided as follows: Sahel/Lake Chad €1,293 million (79 programmes), Horn of Africa €820.3 million (50 programmes), North of Africa €335 million (14 programmes). This amount also includes 4 cross-region programmes (€145.1 million).

      https://reliefweb.int/report/world/protecting-and-supporting-migrants-and-refugees-new-actions-worth-467-mil

    • Protection et aide pour les migrants et les réfugiés : nouvelles mesures d’un montant de 467 millions d’euros au titre du fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique

      L’Union européenne adopte ce jour des nouveaux programmes et projets pour un montant total de 467 millions d’euros au titre du fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique.

      L’UE continue de tenir les engagements qu’elle a pris de venir en aide aux migrants et réfugiés vulnérables et de lutter contre les causes profondes de la migration irrégulière. Les nouvelles mesures d’aide en faveur de la région du Sahel/du bassin du Lac Tchad et de la Corne de l’Afrique favoriseront la stabilité, l’emploi et la croissance, en particulier pour les jeunes et les groupes vulnérables.

      Ces mesures viennent compléter les efforts actuellement déployés dans des cadres bilatéraux et multilatéraux, notamment par l’intermédiaire du groupe de travail conjoint de l’Union africaine, de l’Union européenne et des Nations unies. Les ressources financières supplémentaires débloquées ce jour permettront de poursuivre l’aide vitale, y compris d’accélérer en priorité les réinstallations de réfugiés en provenance du Niger.

      Mme Federica Mogherini, haute représentante/vice-présidente, s’est exprimée dans les termes suivants : « Nous continuons à œuvrer pour sauver des vies, assurer le retour des réfugiés et des migrants en toute sécurité et dans la dignité, mettre en place des voies d’entrée légales et lutter contre les causes profondes de la migration en créant des emplois et de la croissance. Avec le HCR, nous avons procédé à l’évacuation de 1 287 réfugiés de la Libye vers le Niger, qu’il convient de réinstaller dans les plus brefs délais. Avec l’OIM, nous avons aidé 22 000 personnes à rentrer dans leur pays et avons fourni une aide à leur réintégration. Avec les nouveaux engagements pris ce jour, nous continuerons à consolider nos travaux pour gérer, conjointement avec nos partenaires, la mobilité des personnes de façon humaine, sûre et digne. »

      M. Neven Mimica, commissaire chargé de la coopération internationale et du développement a, quant à lui, fait la déclaration suivante : « La majeure partie du programme d’aide de 467 millions d’euros annoncé ce jour visera à améliorer les possibilités d’emploi, en particulier pour les jeunes. Mais des problèmes subsistent et les ressources du fonds fiduciaire s’épuisent. Il est essentiel que les États membres de l’UE et d’autres bailleurs de fonds fournissent des contributions supplémentaires si nous voulons continuer à apporter une aide vitale. »

      Les mesures adoptées aujourd’hui se concentrent sur les domaines suivants :

      Protection et assistance pour les populations en déplacement

      Grâce à la coopération entre l’Union européenne et le HCR, 1 287 réfugiés ont jusqu’à présent pu être évacués de Libye vers le Niger par l’intermédiaire du mécanisme de transit d’urgence ; 108 personnes ont en outre été réinstallées en Europe. En parallèle, 22 000 migrants bloqués le long des routes migratoires ont bénéficié d’une aide au retour volontaire vers leur pays d’origine, où ils ont reçu une aide à la réintégration, fournie conjointement avec l’Organisation internationale pour les migrations. L’UE mobilise ce jour un montant supplémentaire de 70 millions d’euros ; sur cette somme, 10 millions d’euros seront consacrés à accélérer les réinstallations dans le cadre du mécanisme de transit d’urgence du HCR et 60 millions d’euros permettront de garantir que la continuité de l’aide au retour volontaire et à la réintégration apportée par l’OIM. Au #Kenya, une approche innovante pour conduire le développement du secteur privé favorisera une meilleure intégration économique des réfugiés et soutiendra la mise en œuvre du cadre d’action global pour les réfugiés. Un soutien régional supplémentaire de 20 millions d’euros aidera les pays de la #Corne_de_l'Afrique à élaborer et à mettre en œuvre des #politiques_de_retour et de #réintégration durables et fondées sur les droits.

      Renforcement de la stabilité et de la résilience des populations locales et amélioration de la gestion de la migration

      Le renforcement de la stabilité et le soutien à la résilience des populations locales sont l’un des piliers de l’approche adoptée par l’UE. Dans le centre du #Mali, des mesures, dotées d’un budget de 10 millions d’euros, seront destinées à remédier à la situation en matière de sécurité, qui se détériore rapidement, afin d’accroître la confiance entre les forces de sécurité maliennes et les populations locales. En outre, des activités nouvelles favoriseront la prévention des conflits, encourageront la #sécurité_alimentaire au #Soudan_du_Sud ou amélioreront les connaissances sur la malnutrition au #Soudan. Au Soudan, l’aide permettra également aux acteurs de l’aide humanitaire et à ceux du développement de se rendre dans des zones difficiles d’accès. Au #Cap-Vert et en #Guinée-Bissau, les nouvelles mesures contribueront à mettre en place un système fiable d’état civil et de délivrance de documents pour permettre à la population de bénéficier d’une mobilité accrue, de la sécurité des documents et d’un meilleur accès aux droits.

      Des perspectives économiques pour les jeunes

      Il est essentiel d’offrir des possibilités d’emploi durable aux jeunes pour lutter contre les causes profondes de la migration irrégulière. Les nouvelles actions soutiendront le développement des compétences et la #formation_professionnelle des jeunes pour contribuer à améliorer les possibilités d’#emploi, par exemple en #Éthiopie, au #Nigeria ou en #Gambie. Au Soudan, un nouveau programme d’aide renforcera les compétences professionnelles des jeunes et les aidera à créer et à développer des entreprises grâce à des actions de #formation. Ce projet ciblera les groupes défavorisés, comme les réfugiés et les personnes déplacées à l’intérieur du pays et, à l’instar de tous les programmes d’assistance de l’UE au Soudan, sera mis en œuvre par des partenaires de confiance.

      Les ressources financières du système spécifique de suivi et d’apprentissage ont été doublées et sont passées de 2 millions à 4 millions d’euros afin de garantir le suivi permanent de l’efficacité des programmes financés par le fonds fiduciaire pour l’Afrique.

      Contexte

      Le fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique a été créé en 2015 en vue de remédier aux causes profondes de l’instabilité, de la migration irrégulière et des déplacements forcés. Ce fonds fiduciaire est actuellement doté d’un budget de 3,4 milliards d’euros provenant des institutions de l’UE, des États membres ainsi que d’autres bailleurs de fonds.

      L’aide annoncée ce jour vient s’ajouter aux 147 programmes approuvés précédemment en faveur de trois régions (Afrique du Nord, région du Sahel/bassin du lac Tchad et Corne de l’Afrique) pour un montant total de 2 594 millions d’euros, répartis de la façon suivante : 1 293 millions d’euros pour la région du Sahel/le bassin du Lac Tchad (79 programmes) ; 820,3 millions d’euros pour la Corne de l’Afrique (50 programmes) et 335 millions d’euros pour l’Afrique du Nord (14 programmes). Ce montant inclut également quatre programmes multi-volets (145,1 millions d’euros).

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-3968_fr.htm
      #développement

    • Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à #Bamako au #Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la #formation de la #police_aux_frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs