• Nessuno vuole mettere limiti all’attività dell’Agenzia Frontex

    Le istituzioni dell’Ue, ossessionate dal controllo delle frontiere, sembrano ignorare i problemi strutturali denunciati anche dall’Ufficio europeo antifrode. E lavorano per dispiegare le “divise blu” pure nei Paesi “chiave” oltre confine

    “Questa causa fa parte di un mosaico di una più ampia campagna contro Frontex: ogni attacco verso di noi è un attacco all’Unione europea”. Con questi toni gli avvocati dell’Agenzia che sorveglia le frontiere europee si sono difesi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 9 marzo, per la prima volta in oltre 19 anni di attività (ci sono altri due casi pendenti, presentati dalla Ong Front-Lex), le “divise blu” si sono trovate di fronte a un giudice grazie alla tenacia dell’avvocata olandese Lisa-Marie Komp.

    Non è successo, invece, per le scioccanti rivelazioni del rapporto dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf) che ha ricostruito nel dettaglio come l’Agenzia abbia insabbiato centinaia di respingimenti violenti: quell’indagine è “semplicemente” costata la leadership all’allora direttore Fabrice Leggeri, nell’aprile 2022, ma niente di più. “Tutto è rimasto nel campo delle opinioni e nessuno è andato a fondo sui problemi strutturali -spiega Laura Salzano, dottoranda in Diritto europeo dell’immigrazione presso l’Università di Barcellona-. C’erano tutti gli estremi per portare l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia e invece nulla è stato fatto nonostante sia un’istituzione pubblica con un budget esplosivo che lavora con i più vulnerabili”. Non solo l’impunità ma anche la cieca fiducia ribadita più volte da diverse istituzioni europee. Il 28 giugno 2022 il Consiglio europeo, a soli due mesi dalle dimissioni di Leggeri, dà il via libera all’apertura dei negoziati per portare gli agenti di Frontex in Senegal con la proposta di garantire un’immunità totale nel Paese per le loro azioni.

    A ottobre, invece, a pochi giorni dalla divulgazione del rapporto Olaf -tenuto segreto per oltre quattro mesi- la Commissione europea chiarisce che l’Agenzia “si è già assunta piena responsabilità di quanto successo”. Ancora, a febbraio 2023 il Consiglio europeo le assicura nuovamente “pieno supporto”. Un dato preoccupante soprattutto con riferimento all’espansione di Frontex che mira a diventare un attore sempre più presente nei Paesi chiave per la gestione del fenomeno migratorio, a migliaia di chilometri di distanza dal suo quartier generale di Varsavia.

    “I suoi problemi sono strutturali ma le istituzioni europee fanno finta di niente: se già è difficile controllare gli agenti sui ‘nostri’ confini, figuriamoci in Paesi al di fuori dell’Ue”, spiega Yasha Maccanico, membro del centro di ricerca indipendente Statewatch.

    A fine febbraio 2023 l’Agenzia ha festeggiato la conclusione di un progetto che prevede la consegna di attrezzature ai membri dell’Africa-Frontex intelligence community (Afic), finanziata dalla Commissione, che ha permesso dal 2010 in avanti l’apertura di “Cellule di analisi del rischio” (Rac) gestite da analisti locali formati dall’Agenzia con l’obiettivo di “raccogliere e analizzare informazioni strategiche su crimini transfrontalieri” oltre che a “sostenere le autorità nella gestione dei confini”. A partire dal 2021 una potenziata infrastruttura garantisce “comunicazioni sicure e istantanee” tra le Rac e gli agenti nella sede di Varsavia. Questo è il “primo livello” di collaborazione tra Frontex e le autorità di Paesi terzi che oggi vede, come detto, “cellule” attive in Nigeria, Gambia, Niger, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Togo e Mauritania oltre a una ventina di Stati coinvolti nelle attività di formazione degli analisti, pronti ad attivare le Rac in futuro. “Lo scambio di dati sui flussi è pericoloso perché l’obiettivo delle politiche europee non è proteggere i diritti delle persone, ma fermarle nei Paesi più poveri”, continua Maccanico.

    Un gradino al di sopra delle collaborazioni più informali, come nell’Afic, ci sono i cosiddetti working arrangement (accordi di cooperazione) che permettono di collaborare con le autorità di un Paese in modo ufficiale. “Non serve il via libera del Parlamento europeo e di fatto non c’è nessun controllo né prima della sottoscrizione né ex post -riprende Salzano-. Se ci fosse uno scambio di dati e informazioni dovrebbe esserci il via libera del Garante per la protezione dei dati personali, ma a oggi, questo parere, è stato richiesto solo nel caso del Niger”. A marzo 2023 sono invece 18 i Paesi che hanno siglato accordi simili: da Stati Uniti e Canada, passando per Capo Verde fino alla Federazione Russa. “Sappiamo che i contatti con Mosca dovrebbero essere quotidiani. Dall’inizio del conflitto ho chiesto più volte all’Agenzia se queste comunicazioni sono state interrotte: nessuno mi ha mai risposto”, sottolinea Salzano.

    Obiettivo ultimo dell’Agenzia è riuscire a dispiegare agenti e mezzi anche nei Paesi terzi: una delle novità del regolamento del 2019 rispetto al precedente (2016) è proprio la possibilità di lanciare operazioni non solo nei “Paesi vicini” ma in tutto il mondo. Per farlo sono necessari gli status agreement, accordi internazionali che impegnano formalmente anche le istituzioni europee. Sono cinque quelli attivi (Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, Moldova) ma sono in via di sottoscrizione quelli con Senegal e Mauritania per limitare le partenze (poco più di 15mila nel 2022) verso le isole Canarie, mille chilometri più a Nord: accordi per ora “fermi”, secondo quanto ricostruito dalla parlamentare europea olandese Tineke Strik che a fine febbraio ha visitato i due Stati, ma che danno conto della linea che si vuole seguire. Un quadro noto, i cui dettagli però spesso restano nascosti.

    È quanto emerge dal report “Accesso negato”, pubblicato da Statewatch a metà marzo 2023, che ricostruisce altri due casi di scarsa trasparenza negli accordi, Niger e Marocco, due Paesi chiave nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. “Con la ‘scusa’ della tutela della riservatezza nelle relazioni internazionali e mettendo la questione migratoria sotto il cappello dell’antiterrorismo l’accesso ai dettagli degli accordi non è consentito”, spiega Maccanico, uno dei curatori dello studio. Non si conoscono, per esempio, i compiti specifici degli agenti, per cui si propone addirittura l’immunità totale. “In alcuni accordi, come in Macedonia del Nord, si è poi ‘ripiegato’ su un’immunità connessa solo ai compiti che rientrano nel mandato dell’Agenzia -osserva Salzano-. Ma il problema non cambia: dove finisce la sua responsabilità e dove inizia quella del Paese membro?”. Una zona grigia funzionale a Frontex, anche quando opera sul territorio europeo.

    Lo sa bene l’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp che, come detto, ha portato l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue. Il caso, su cui il giudice si pronuncerà nei prossimi mesi, riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia, è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia: quel volo è stato gestito da Frontex, in collaborazione con le autorità greche. “L’Agenzia cerca di scaricare le responsabilità su di loro ma il suo mandato stabilisce chiaramente che è tenuta a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali durante queste operazioni -spiega-. Serve chiarire che tutti devono rispettare la legge, compresa l’Agenzia le cui azioni hanno un grande impatto sulla vita di molte persone”.

    Le illegittimità nell’attività dei rimpatri sono note da tempo e il caso della famiglia siriana non è isolato. “Quando c’è una forte discrepanza nelle decisioni sulle domande d’asilo tra i diversi Paesi europei, l’attività di semplice ‘coordinamento’ e preparazione delle attività di rimpatrio può tradursi nella violazione del principio di non respingimento”, spiega Mariana Gkliati, docente di Migrazione e Asilo all’università olandese di Tilburg. Nonostante questi problemi e un sistema d’asilo sempre più fragile, negli ultimi anni i poteri e le risorse a disposizione per l’Agenzia sui rimpatri sono esplosi: nel 2022 questa specifica voce di bilancio prevedeva quasi 79 milioni di euro (+690% rispetto ai dieci milioni del 2012).

    E la crescita sembra destinata a non fermarsi. Frontex nel 2023 stima di poter rimpatriare 800 persone in Iraq, 316 in Pakistan, 200 in Gambia, 75 in Afghanistan, 57 in Siria, 60 in Russia e 36 in Ucraina come si legge in un bando pubblicato a inizio febbraio 2023 che ha come obiettivo la ricerca di partner in questi Paesi (e in altri, in totale 43) per garantire assistenza di breve e medio periodo (12 mesi) alle persone rimpatriate. Un’altra gara pubblica dà conto della centralità dell’Agenzia nella “strategia dei rimpatri” europea: 120 milioni di euro nel novembre 2022 per l’acquisto di “servizi di viaggio relativi ai rimpatri mediante voli di linea”. Migliaia di biglietti e un nuovo sistema informatico per gestire al meglio le prenotazioni, con un’enorme mole di dati personali delle persone “irregolari” che arriveranno nelle “mani” di Frontex. Mani affidabili, secondo la Commissione europea.

    Ma il 7 ottobre 2022 il Parlamento, nel “bocciare” nuovamente Frontex rispetto al via libera sul bilancio 2020, dava conto del “rammarico per l’assenza di procedimenti disciplinari” nei confronti di Leggeri e della “preoccupazione” per la mancata attivazione dell’articolo 46 (che prevede il ritiro degli agenti quando siano sistematiche le violazioni dei diritti umani) con riferimento alla Grecia, in cui l’Agenzia opera con 518 agenti, 11 navi e 30 mezzi. “I respingimenti e la violenza sui confini continuano sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime così come non si è interrotto il sostegno alle autorità greche”, spiega la ricercatrice indipendente Lena Karamanidou. La “scusa” ufficiale è che la presenza di agenti migliori la situazione ma non è così. “Al confine terrestre di Evros, la violenza è stata documentata per tutto il tempo in cui Frontex è stata presente, fin dal 2010. È difficile immaginare come possa farlo in futuro vista la sistematicità delle violenze su questo confine”. Su quella frontiera si giocherà anche la presunta nuova reputazione dell’Agenzia guidata dal primo marzo dall’olandese Hans Leijtens: un tentativo di “ripulire” l’immagine che è già in corso.

    Frontex nei confronti delle persone in fuga dal conflitto in Ucraina ha tenuto fin dall’inizio un altro registro: i “migranti irregolari” sono diventati “persone che scappano da zone di conflitto”; l’obiettivo di “combattere l’immigrazione irregolare” si è trasformato nella gestione “efficace dell’attraversamento dei confini”. “Gli ultimi mesi hanno mostrato il potenziale di Frontex di evolversi in un attore affidabile della gestione delle frontiere che opera con efficienza, trasparenza e pieno rispetto dei diritti umani”, sottolinea Gkliati nello studio “Frontex assisting in the ukrainian displacement. A welcoming committee at racialised passage?”, pubblicato nel marzo 2023. Una conferma ulteriore, per Salzano, dei limiti strutturali dell’Agenzia: “La legge va rispettata indipendentemente dalla cornice in cui operi: la tutela dei diritti umani prescinde dagli umori della politica”.

    https://altreconomia.it/nessuno-vuole-mettere-limiti-allattivita-dellagenzia-frontex

    #Frontex #migrations #asile #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #justice #Lisa-Marie_Komp #OLAF #Sénégal #externalisation #Africa-Frontex_intelligence_community (#Afic) #Rac #Nigeria #Gambie #Niger #Ghana #Côte_d'Ivoire #Togo #Mauritanie #status_agreement #échange_de_données #working_arrangement #Serbie #Monténégro #Albanie #Moldavie #Macédoine_du_Nord #CJUE #cours_de_justice #renvois #expulsions

    • I rischi della presenza di Frontex in Africa: tanto potere, poca responsabilità

      L’eurodeputata #Tineke_Strik è stata in Senegal e Mauritania a fine febbraio 2023: in un’intervista ad Altreconomia ricostruisce lo stato dell’arte degli accordi che l’Ue vorrebbe concludere con i due Paesi ritenuti “chiave” nel contrasto ai flussi migratori. Denunciando la necessità di una riforma strutturale dell’Agenzia.

      A un anno di distanza dalle dimissioni del suo ex direttore Fabrice Leggeri, le istituzioni europee non vogliono mettere limiti all’attività di Frontex. Come abbiamo ricostruito sul numero di aprile di Altreconomia, infatti, l’Agenzia -che dal primo marzo 2023 è guidata da Hans Leijtens- continua a svolgere un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione europea nonostante le pesanti rivelazioni dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), che ha ricostruito nel dettaglio il malfunzionamento nelle operazioni delle divise blu lungo i confini europei.

      Ma non solo. Un aspetto particolarmente preoccupante sono le operazioni al di fuori dei Paesi dell’Unione, che rientrano sempre di più tra le priorità di Frontex in un’ottica di esternalizzazione delle frontiere per “fermare” preventivamente i flussi di persone dirette verso l’Europa. Non a caso, a luglio 2022, nonostante i contenuti del rapporto Olaf chiuso solo pochi mesi prima, la Commissione europea ha dato il via libera ai negoziati con Senegal e Mauritania per stringere un cosiddetto working arrangement e permettere così agli “agenti europei” di operare nei due Paesi africani (segnaliamo anche la recente ricerca pubblicata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul tema).

      Per monitorare lo stato dell’arte di questi accordi l’eurodeputata Tineke Strik, tra le poche a opporsi e a denunciare senza sconti gli effetti delle politiche migratorie europee e il ruolo di Frontex, a fine febbraio 2023 ha svolto una missione di monitoraggio nei due Paesi. Già professoressa di Diritto della cittadinanza e delle migrazioni dell’Università di Radboud di Nimega, in Olanda, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2019 nelle fila di GroenLinks (Sinistra verde). L’abbiamo intervistata.

      Onorevole Strik, secondo quanto ricostruito dalla vostra visita (ha partecipato alla missione anche Cornelia Erns, di LeftEu, ndr), a che punto sono i negoziati con il Senegal?
      TS La nostra impressione è che le autorità senegalesi non siano così desiderose di concludere un accordo di status con l’Unione europea sulla presenza di Frontex nel Paese. L’approccio di Bruxelles nei confronti della migrazione come sappiamo è molto incentrato su sicurezza e gestione delle frontiere; i senegalesi, invece, sono più interessati a un intervento sostenibile e incentrato sullo sviluppo, che offra soluzioni e affronti le cause profonde che spingono le persone a partire. Sono molti i cittadini del Senegal emigrano verso l’Europa: idealmente, il governo vuole che rimangano nel Paese, ma capisce meglio di quanto non lo facciano le istituzioni Ue che si può intervenire sulla migrazione solo affrontando le cause alla radice e migliorando la situazione nel contesto di partenza. Allo stesso tempo, le navi europee continuano a pescare lungo le coste del Paese (minacciando la pesca artigianale, ndr), le aziende europee evadono le tasse e il latte sovvenzionato dall’Ue viene scaricato sul mercato senegalese, causando disoccupazione e impedendo lo sviluppo dell’economia locale. Sono soprattutto gli accordi di pesca ad aver alimentato le partenze dal Senegal, dal momento che le comunità di pescatori sono state private della loro principale fonte di reddito. Serve domandarsi se l’Unione sia veramente interessata allo sviluppo e ad affrontare le cause profonde della migrazione. E lo stesso discorso può essere fatto su molti dei Paesi d’origine delle persone che cercano poi protezione in Europa.

      Dakar vede di buon occhio l’intervento dell’Unione europea? Quale tipo di operazioni andrebbero a svolgere gli agenti di Frontex nel Paese?
      TS Abbiamo avuto la sensazione che l’Ue non ascoltasse le richieste delle autorità senegalesi -ad esempio in materia di rilascio di visti d’ingresso- e ci hanno espresso preoccupazioni relative ai diritti fondamentali in merito a qualsiasi potenziale cooperazione con Frontex, data la reputazione dell’Agenzia. È difficile dire che tipo di supporto sia previsto, ma nei negoziati l’Unione sta puntando sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime.

      Che cosa sta avvenendo in Mauritania?
      TS Sebbene questo Paese sembri disposto a concludere un accordo sullo status di Frontex -soprattutto nell’ottica di ottenere un maggiore riconoscimento da parte dell’Europa-, preferisce comunque mantenere l’autonomia nella gestione delle proprie frontiere e quindi non prevede una presenza permanente dei funzionari dell’Agenzia nel Paese. Considerano l’accordo sullo status più come un quadro giuridico, per consentire la presenza di Frontex in caso di aumento della pressione migratoria. Inoltre, come il Senegal, ritengono che l’Europa debba ascoltare e accogliere le loro richieste, che riguardano principalmente i visti e altre aree di cooperazione. Anche in questo caso, Bruxelles chiede il mandato più ampio possibile per gli agenti in divisa blu durante i negoziati per “mantenere aperte le opzioni [più ampie]”, come dicono loro stessi. Ma credo sia chiaro che il loro obiettivo è quello di operare sia alle frontiere marittime sia a quelle terrestri.
      Questo a livello “istituzionale”. Qual è invece la posizione della società civile?
      TS In entrambi i Paesi è molto critica. In parte a causa della cattiva reputazione di Frontex in relazione ai diritti umani, ma anche a causa dell’esperienza che i cittadini senegalesi e mauritani hanno già sperimentato con la Guardia civil spagnola, presente nei due Stati, che ritengono stia intaccando la sovranità per quanto riguarda la gestione delle frontiere. È previsto che il mandato di Frontex sia addirittura esecutivo, a differenza di quello della Guardia civil, che può impegnarsi solo in pattugliamenti congiunti in cui le autorità nazionali sono al comando. Quindi la sovranità di entrambi i Paesi sarebbe ulteriormente minata.

      Perché a suo avviso sarebbe problematica la presenza di agenti di Frontex nei due Paesi?
      TS L’immunità che l’Unione europea vorrebbe per i propri operativi dispiegati in Africa non è solo connessa allo svolgimento delle loro funzioni ma si estende al di fuori di esse, a questo si aggiunge la possibilità di essere armati. Penso sia problematico il rispetto dei diritti fondamentali dei naufraghi intercettati in mare, poiché è difficile ottenere l’accesso all’asilo sia in Senegal sia in Mauritania. In questo Paese, ad esempio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) impiega molto tempo per determinare il loro bisogno di protezione: fanno eccezione i maliani, che riescono a ottenerla in “appena” due anni. E durante l’attesa queste persone non hanno quasi diritti.

      Ma se ottengono la protezione è comunque molto difficile registrarsi presso l’amministrazione, cosa necessaria per avere accesso al mercato del lavoro, alle scuole o all’assistenza sanitaria. E le conseguenze che ne derivano sono le continue retate, i fermi e le deportazioni alla frontiera, per impedire alle persone di partire. A causa delle attuali intercettazioni in mare, le rotte migratorie si stanno spostando sulla terra ferma e puntano verso l’Algeria: l’attraversamento del deserto può essere mortale. Il problema principale è che Frontex deve rispettare il diritto dell’Unione europea anche se opera in un Paese terzo in cui si applicano norme giuridiche diverse, ma l’Agenzia andrà a operare sotto il comando delle guardie di frontiera di un Paese che non è vincolato dalle “regole” europee. Come può Frontex garantire di non essere coinvolta in operazioni che violano le norme fondamentali del diritto comunitario, se determinate azioni non sono illegali in quel Paese? Sulla carta è possibile presentare un reclamo a Frontex, ma poi nella pratica questo strumento in quali termini sarebbe accessibile ed efficace?

      Un anno dopo le dimissioni dell’ex direttore Leggeri ritiene che Frontex si sia pienamente assunta la responsabilità di quanto accaduto? Può davvero, secondo lei, diventare un attore affidabile per l’Ue?
      TS Prima devono accadere molte cose. Non abbiamo ancora visto una riforma fondamentale: c’è ancora un forte bisogno di maggiore trasparenza, di un atteggiamento più fermo nei confronti degli Stati membri ospitanti e di un uso conseguente dell’articolo 46 che prevede la sospensione delle operazioni in caso di violazioni dei diritti umani (abbiamo già raccontato il ruolo dell’Agenzia nei respingimenti tra Grecia e Turchia, ndr). Questi problemi saranno ovviamente esacerbati nella cooperazione con i Paesi terzi, perché la responsabilità sarà ancora più difficile da raggiungere.

      https://altreconomia.it/i-rischi-della-presenza-di-frontex-in-africa-tanto-potere-poca-responsa

    • «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare». La missione di ASGI in Senegal e Mauritania

      Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato il rapporto «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare» (https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania), frutto del sopralluogo giuridico effettuato tra il 7 e il 13 maggio 2022 da una delegazione di ASGI composta da Alice Fill, Lorenzo Figoni, Matteo Astuti, Diletta Agresta, Adelaide Massimi (avvocate e avvocati, operatori e operatrici legali, ricercatori e ricercatrici).

      Il sopralluogo aveva l’obiettivo di analizzare lo sviluppo delle politiche di esternalizzazione del controllo della mobilità e di blocco delle frontiere implementate dall’Unione Europea in Mauritania e in Senegal – due paesi a cui, come la Turchia o gli stati balcanici più orientali, gli stati membri hanno delegato la gestione dei flussi migratori concordando politiche sempre più ostacolanti per lo spostamento delle persone.

      Nel corso del sopralluogo sono stati intervistati, tra Mauritania e Senegal, più di 40 interlocutori afferenti a istituzioni, società civile, popolazione migrante e organizzazioni, tra cui OIM, UNHCR, delegazioni dell’UE. Intercettare questi soggetti ha consentito ad ASGI di andare oltre le informazioni vincolate all’ufficialità delle dichiarazioni pubbliche e di approfondire le pratiche illegittime portate avanti su questi territori.

      Il report parte dalle già assodate intenzioni di collaborazione tra l’Unione Europea e le autorità senegalesi e mauritane – una collaborazione che in entrambi i paesi sembra connotata nel senso del controllo e della sorveglianza; per quanto riguarda il Senegal, si fa menzione del ben noto status agreement, proposto nel febbraio 2022 a Dakar dalla Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson, con il quale si intende estendere il controllo di Frontex in Senegal.

      L’obiettivo di tale accordo era il controllo della cosiddetta rotta delle Canarie, che tra il 2018 e il 2022 è stata sempre più battuta. Sebbene la proposta abbia generato accese discussioni nella società civile senegalese, preoccupata all’idea di cedere parte della sovranità del paese sul controllo delle frontiere esterne, con tale accordo, elaborato con un disegno molto simile a quello che regola le modalità di intervento di Frontex nei Balcani, si legittimerebbe ufficialmente l’attività di controllo dell’agenzia UE in paesi terzi, e in particolare fuori dal continente europeo.

      Per quanto riguarda la Mauritania, si menziona l’Action Plan pubblicato da Frontex il 7 giugno 2022, con il quale si prospetta una possibilità di collaborare operativamente sul territorio mauritano, in particolare per lo sviluppo di governance in materia migratoria.

      Senegal

      Sin dai primi anni Duemila, il dialogo tra istituzioni europee e senegalesi è stato focalizzato sulle politiche di riammissione dei cittadini senegalesi presenti in UE in maniera irregolare e dei cosiddetti ritorni volontari, le politiche di gestione delle frontiere senegalesi e il controllo della costa, la promozione di una legislazione anti-trafficking e anti-smuggling. Tutto questo si è intensificato quando, a partire dal 2018, la rotta delle Canarie è tornata a essere una rotta molto percorsa. L’operatività delle agenzie europee in Senegal per la gestione delle migrazioni si declina principalmente nei seguenti obiettivi:

      1. Monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime. Il memorandum firmato nel 2006 da Senegal e Spagna ha sancito la collaborazione ufficiale tra le forze di polizia europee e quelle senegalesi in operazioni congiunte di pattugliamento; a questo si aggiunge, sempre nello stesso anno, una presenza sempre più intensiva di Frontex al largo delle coste senegalesi.

      2. Lotta alla tratta e al traffico. Su questo fronte dell’operatività congiunta tra forze senegalesi ed europee, la normativa di riferimento è la legge n. 06 del 10 maggio 2005, che offre delle direttive per il contrasto della tratta di persone e del traffico. Tale documento, non distinguendo mai fra “tratta” e “traffico”, di fatto criminalizza la migrazione irregolare tout court, dal momento che viene utilizzato in maniera estensiva (e arbitraria) come strumento di controllo e di repressione della mobilità – fu utilizzato, ad esempio, per accusare di traffico di esseri umani un padre che aveva imbarcato suo figlio su un mezzo che poi naufragato.

      Il sistema di asilo in Senegal

      Il Senegal aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status de rifugiati e del relativo Protocollo del 1967; la valutazione delle domande di asilo fa capo alla Commissione Nazionale di Eleggibilità (CNE), che al deposito della richiesta di asilo emette un permesso di soggiorno della durata di 3 mesi, rinnovabile fino all’esito dell’audizione di fronte alla CNE; l’esito della CNE è ricorribile in primo grado presso la Commissione stessa e, nel caso di ulteriore rifiuto, presso il Presidente della Repubblica. Quando il richiedente asilo depone la propria domanda, subentra l’UNHCR, che nel paese è molto presente e finanzia ONG locali per fornire assistenza.

      Il 5 aprile 2022 l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato una nuova legge sullo status dei rifugiati e degli apolidi, una legge che, stando a diverse associazioni locali, sulla carta estenderebbe i diritti cui i rifugiati hanno accesso; tuttavia, le stesse associazioni temono che a tale miglioramento possa non seguire un’applicazione effettiva della normativa.
      Mauritania

      Data la collocazione geografica del paese, a ridosso dell’Atlantico e delle isole Canarie, in prossimità di paesi ad alto indice di emigrazione (Senegal, Mali, Marocco), la Mauritania rappresenta un territorio strategico per il monitoraggio dei flussi migratori diretti in Europa. Pertanto, analogamente a quanto avvenuto in Senegal, anche in Mauritania la Spagna ha proceduto a rafforzare la cooperazione in tema di politiche migratorie e di gestione del controllo delle frontiere e a incrementare la presenta e l’impegno di attori esterni – in primis di agenzie quali Frontex – per interventi di contenimento dei flussi e di riammissione di cittadini stranieri in Mauritania.

      Relativamente alla Mauritania, l’obiettivo principale delle istituzioni europee sembra essere la prevenzione dell’immigrazione lungo la rotta delle Canarie. La normativa di riferimento è l’Accordo di riammissione bilaterale firmato con la Spagna nel luglio 2003. Con tale accordo, la Spagna può chiedere alla Mauritania di riammettere sul proprio territorio cittadini mauritani e non solo, anche altri cittadini provenienti da paesi terzi che “si presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare irregolarmente in Spagna. Oltre a tali interventi, il report di ASGI menziona l’Operazione Hera di Frontex e vari interventi di cooperazione allo sviluppo promossi dalla Spagna “con finalità tutt’altro che umanitarie”, bensì di gestione della mobilità.

      In tale regione, nella fase degli sbarchi risulta molto dubbio il ruolo giocato da organizzazioni come OIM e UNHCR, poiché non è codificato; interlocutori diversi hanno fornito informazioni contrastanti sulla disponibilità di UNHCR a intervenire in supporto e su segnalazione delle ONG presenti al momento dello sbarco. In ogni caso, se effettivamente UNHCR fosse assente agli sbarchi, ciò determinerebbe una sostanziale impossibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale da parte di qualsiasi potenziale richiedente asilo che venga intercettato in mare.

      Anche in questo territorio la costruzione della figura del “trafficante” diventa un dispositivo di criminalizzazione e repressione della mobilità sulla rotta atlantica, strumentale alla soddisfazione di richieste europee.
      La detenzione dei cittadini stranieri

      Tra Nouakchott e Nouadhibou vi sono tre centri di detenzione per persone migranti; uno di questi (il Centro di Detenzione di Nouadhibou 2 (anche detto “El Guantanamito”), venne realizzato grazie a dei fondi di un’agenzia di cooperazione spagnola. Sovraffollamento, precarietà igienico-sanitaria e impossibilità di accesso a cure e assistenza legale hanno caratterizzato tali centri. Quando El Guantanamito fu chiuso, i commissariati di polizia sono diventati i principali luoghi deputati alla detenzione dei cittadini stranieri; in tali centri, vengono detenute non solo le persone intercettate in prossimità delle coste mauritane, ma anche i cittadini stranieri riammessi dalla Spagna, e anche le persone presenti irregolarmente su territorio mauritano. Risulta delicato il tema dell’accesso a tali commissariati, dal momento che il sopralluogo ha rilevato che le ONG non hanno il permesso di entrarvi, mentre le organizzazioni internazionali sì – ciò nonostante, nessuna delle persone precedentemente sottoposte a detenzione con cui la delegazione ASGI ha avuto modo di interloquire ha dichiarato di aver riscontrato la presenza di organizzazioni all’interno di questi centri.

      La detenzione amministrativa risulta essere “un tassello essenziale della politica di contenimento dei flussi di cittadini stranieri in Mauritania”. Il passaggio successivo alla detenzione delle persone migranti è l’allontanamento, che si svolge in forma di veri e propri respingimenti sommari e informali, senza che i migranti siano messi nelle condizioni né di dichiarare la propria nazionalità né di conoscere la procedura di ritorno volontario.
      Il ruolo delle organizzazioni internazionali in Mauritania

      OIM riveste un ruolo centrale nel panorama delle politiche di esternalizzazione e di blocco dei cittadini stranieri in Mauritania, tramite il supporto delle autorità di pubblica sicurezza mauritane nello sviluppo di politiche di contenimento della libertà di movimento – strategie e interventi che suggeriscono una connotazione securitaria della presenza dell’associazione nel paese, a scapito di una umanitaria.

      Nonostante anche la Mauritania sia firmataria della Convenzione di Ginevra, non esiste a oggi una legge nazionale sul diritto di asilo nel paese. UNHCR testimonia come dal 2015 esiste un progetto di legge sull’asilo, ma che questo sia tuttora “in attesa di adozione”.

      Pertanto, le procedure di asilo in Mauritania sono gestite interamente da UNHCR. Tali procedure si differenziano a seconda della pericolosità delle regioni di provenienza delle persone migranti; in particolare, i migranti maliani provenienti dalle regioni considerate più pericolose vengono registrati come rifugiati prima facie, quanto non accade invece per i richiedenti asilo provenienti dalle aree urbane, per loro, l’iter dell’asilo è ben più lungo, e prevede una sorta di “pre-pre-registrazione” presso un ente partner di UNHCR, cui segue una pre-registrazione accordata da UNHCR previo appuntamento, e solo in seguito alla registrazione viene riconosciuto un certificato di richiesta di asilo, valido per sei mesi, in attesa di audizione per la determinazione dello status di rifugiato.

      Le tempistiche per il riconoscimento di protezione, poi, sono differenti a seconda del grado di vulnerabilità del richiedente e in taluni casi potevano condurre ad anni e anni di attesa. Alla complessità della procedura si aggiunge che non tutti i potenziali richiedenti asilo possono accedervi – ad esempio, chi proviene da alcuni stati, come la Sierra Leone, considerati “paesi sicuri” secondo una categorizzazione fornita dall’Unione Africana.
      Conclusioni

      In fase conclusiva, il report si sofferma sul ruolo fondamentale giocato dall’Unione Europea nel forzare le politiche senegalesi e mauritane nel senso della sicurezza e del contenimento, a scapito della tutela delle persone migranti nei loro diritti fondamentali. Le principali preoccupazioni evidenziate sono rappresentate dalla prospettiva della conclusione dello status agreement tra Frontex e i due paesi, perché tale ratifica ufficializzerebbe non solo la presenza, ma un ruolo legittimo e attivo di un’agenzia europea nel controllo di frontiere che si dispiegano ben oltre i confini territoriali comunitari, ben oltre le acque territoriali, spingendo le maglie del controllo dei flussi fin dentro le terre di quegli stati da cui le persone fuggono puntando all’Unione Europea. La delegazione, tuttavia, sottolinea che vi sono aree in cui la società civile senegalese e mauritana risulta particolarmente politicizzata, dunque in grado di esprimere insofferenza o aperta contrarietà nei confronti delle ingerenze europee nei loro paesi. Infine, da interviste, colloqui e incontri con diretti interessati e testimoni, il ruolo di organizzazioni internazionali come le citate OIM e UNHCR appare nella maggior parte dei casi “fluido o sfuggevole”; una prospettiva, questa, che sembra confermare l’ambivalenza delle grandi organizzazioni internazionali, soggetti messi innanzitutto al servizio degli interessi delle istituzioni europee.

      Il report si conclude auspicando una prosecuzione di studio e analisi al fine di continuare a monitorare gli sviluppi politici e legislativi che legano l’Unione Europea e questi territori nella gestione operativa delle migrazioni.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/un-laboratorio-di-esternalizzazione-tra-frontiere-di-terra-e-di-mare

    • Pubblicato il rapporto #ASGI della missione in Senegal e Mauritania

      Il Senegal e la Mauritania sono paesi fondamentali lungo la rotta che conduce dall’Africa occidentale alle isole Canarie. Nel 2020, dopo alcuni anni in cui la rotta era stata meno utilizzata, vi è stato un incremento del 900% degli arrivi rispetto all’anno precedente. Il dato ha portato la Spagna e le istituzioni europee a concentrarsi nuovamente sui due paesi. La cosiddetta Rotta Atlantica, che a partire dal 2006 era stata teatro di sperimentazioni di pratiche di contenimento e selezione della mobilità e di delega dei controlli alle frontiere e del diritto di asilo, è tornata all’attenzione internazionale: da febbraio 2022 sono in corso negoziazioni per la firma di un accordo di status con Frontex per permettere il dispiegamento dei suoi agenti in Senegal e Mauritania.

      Al fine di indagare l’attuazione delle politiche di esternalizzazione e i loro effetti, dal 7 al 13 maggio 2022 un gruppo di socз ASGI – avvocatз, operatorз legali e ricercatorз – ha effettuato un sopralluogo giuridico a Nouakchott, Mauritania e a Dakar, Senegal.

      Il report restituisce il quadro ricostruito nel corso del sopralluogo, durante il quale è stato possibile intervistare oltre 45 interlocutori tra istituzioni, organizzazioni internazionali, ONG e persone migranti.

      https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania
      #rapport

    • Au Sénégal, les desseins de Frontex se heurtent aux résistances locales

      Tout semblait devoir aller très vite : début 2022, l’Union européenne propose de déployer sa force anti-migration Frontex sur les côtes sénégalaises, et le président Macky Sall y semble favorable. Mais c’était compter sans l’opposition de la société civile, qui refuse de voir le Sénégal ériger des murs à la place de l’Europe.

      Agents armés, navires, drones et systèmes de sécurité sophistiqués : Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes créée en 2004, a sorti le grand jeu pour dissuader les Africains de prendre la direction des îles Canaries – et donc de l’Europe –, l’une des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Cet arsenal, auquel s’ajoutent des programmes de formation de la police aux frontières, est la pierre angulaire de la proposition faite début 2022 par le Conseil de l’Europe au Sénégal. Finalement, Dakar a refusé de la signer sous la pression de la société civile, même si les négociations ne sont pas closes. Dans un climat politique incandescent à l’approche de l’élection présidentielle de 2024, le président sénégalais, Macky Sall, soupçonné de vouloir briguer un troisième mandat, a préféré prendre son temps et a fini par revenir sur sa position initiale, qui semblait ouverte à cette collaboration. Dans le même temps, la Mauritanie voisine, elle, a entamé des négociations avec Bruxelles.

      L’histoire débute le 11 février 2022 : lors d’une conférence de presse à Dakar, la commissaire aux Affaires intérieures du Conseil de l’Europe, Ylva Johansson, officialise la proposition européenne de déployer Frontex sur les côtes sénégalaises. « C’est mon offre et j’espère que le gouvernement sénégalais sera intéressé par cette opportunité unique », indique-t-elle. En cas d’accord, elle annonce que l’agence européenne sera déployée dans le pays au plus tard au cours de l’été 2022. Dans les jours qui ont suivi l’annonce de Mme Johansson, plusieurs associations de la société civile sénégalaise ont organisé des manifestations et des sit-in à Dakar contre la signature de cet accord, jugé contraire aux intérêts nationaux et régionaux.

      Une frontière déplacée vers la côte sénégalaise

      « Il s’agit d’un #dispositif_policier très coûteux qui ne permet pas de résoudre les problèmes d’immigration tant en Afrique qu’en Europe. C’est pourquoi il est impopulaire en Afrique. Frontex participe, avec des moyens militaires, à l’édification de murs chez nous, en déplaçant la frontière européenne vers la côte sénégalaise. C’est inacceptable, dénonce Seydi Gassama, le directeur exécutif d’Amnesty International au Sénégal. L’UE exerce une forte pression sur les États africains. Une grande partie de l’aide européenne au développement est désormais conditionnée à la lutte contre la migration irrégulière. Les États africains doivent pouvoir jouer un rôle actif dans ce jeu, ils ne doivent pas accepter ce qu’on leur impose, c’est-à-dire des politiques contraires aux intérêts de leurs propres communautés. » Le défenseur des droits humains rappelle que les transferts de fonds des migrants pèsent très lourd dans l’économie du pays : selon les chiffres de la Banque mondiale, ils ont atteint 2,66 milliards de dollars (2,47 milliards d’euros) au Sénégal en 2021, soit 9,6 % du PIB (presque le double du total de l’aide internationale au développement allouée au pays, de l’ordre de 1,38 milliard de dollars en 2021). « Aujourd’hui, en visitant la plupart des villages sénégalais, que ce soit dans la région de Fouta, au Sénégal oriental ou en Haute-Casamance, il est clair que tout ce qui fonctionne – hôpitaux, dispensaires, routes, écoles – a été construit grâce aux envois de fonds des émigrés », souligne M. Gassama.

      « Quitter son lieu de naissance pour aller vivre dans un autre pays est un droit humain fondamental, consacré par l’article 13 de la Convention de Genève de 1951, poursuit-il. Les sociétés capitalistes comme celles de l’Union européenne ne peuvent pas dire aux pays africains : “Vous devez accepter la libre circulation des capitaux et des services, alors que nous n’acceptons pas la libre circulation des travailleurs”. » Selon lui, « l’Europe devrait garantir des routes migratoires régulières, quasi inexistantes aujourd’hui, et s’attaquer simultanément aux racines profondes de l’exclusion, de la pauvreté, de la crise démocratique et de l’instabilité dans les pays d’Afrique de l’Ouest afin d’offrir aux jeunes des perspectives alternatives à l’émigration et au recrutement dans les rangs des groupes djihadistes ».

      Depuis le siège du Forum social sénégalais (FSS), à Dakar, Mamadou Mignane Diouf abonde : « L’UE a un comportement inhumain, intellectuellement et diplomatiquement malhonnête. » Le coordinateur du FSS cite le cas récent de l’accueil réservé aux réfugiés ukrainiens ayant fui la guerre, qui contraste avec les naufrages incessants en Méditerranée et dans l’océan Atlantique, et avec la fermeture des ports italiens aux bateaux des ONG internationales engagées dans des opérations de recherche et de sauvetage des migrants. « Quel est ce monde dans lequel les droits de l’homme ne sont accordés qu’à certaines personnes en fonction de leur origine ?, se désole-t-il. À chaque réunion internationale sur la migration, nous répétons aux dirigeants européens que s’ils investissaient un tiers de ce qu’ils allouent à Frontex dans des politiques de développement local transparentes, les jeunes Africains ne seraient plus contraints de partir. » Le budget total alloué à Frontex, en constante augmentation depuis 2016, a dépassé les 754 millions d’euros en 2022, contre 535 millions l’année précédente.
      Une des routes migratoires les plus meurtrières

      Boubacar Seye, directeur de l’ONG Horizon sans Frontières, parle de son côté d’une « gestion catastrophique et inhumaine des frontières et des phénomènes migratoires ». Selon les estimations de l’ONG espagnole Caminando Fronteras, engagée dans la surveillance quotidienne de ce qu’elle appelle la « nécro-frontière ouest-euro-africaine », entre 2018 et 2022, 7 865 personnes originaires de 31 pays différents, dont 1 273 femmes et 383 enfants, auraient trouvé la mort en tentant de rejoindre les côtes espagnoles des Canaries à bord de pirogues en bois et de canots pneumatiques cabossés – soit une moyenne de 6 victimes chaque jour. Il s’agit de l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus meurtrières au monde, avec le triste record, ces cinq dernières années, d’au moins 250 bateaux qui auraient coulé avec leurs passagers à bord. Le dernier naufrage connu a eu lieu le 2 octobre 2022. Selon le récit d’un jeune Ivoirien de 27 ans, seul survivant, le bateau a coulé après neuf jours de mer, emportant avec lui 33 vies.

      Selon les chiffres fournis par le ministère espagnol de l’Intérieur, environ 15 000 personnes sont arrivées aux îles Canaries en 2022 – un chiffre en baisse par rapport à 2021 (21 000) et 2020 (23 000). Et pour cause : la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      « Les frontières de l’Europe sont devenues des lieux de souffrance, des cimetières, au lieu d’être des entrelacs de communication et de partage, dénonce Boubacar Seye, qui a obtenu la nationalité espagnole. L’Europe se barricade derrière des frontières juridiques, politiques et physiques. Aujourd’hui, les frontières sont équipées de moyens de surveillance très avancés. Mais, malgré tout, les naufrages et les massacres d’innocents continuent. Il y a manifestement un problème. » Une question surtout le hante : « Combien d’argent a-t-on injecté dans la lutte contre la migration irrégulière en Afrique au fil des ans ? Il n’y a jamais eu d’évaluation. Demander publiquement un audit transparent, en tant que citoyen européen et chercheur, m’a coûté la prison. » L’activiste a été détenu pendant une vingtaine de jours en janvier 2021 au Sénégal pour avoir osé demander des comptes sur l’utilisation des fonds européens. De la fenêtre de son bureau, à Dakar, il regarde l’océan et s’alarme : « L’ère post-Covid et post-guerre en Ukraine va générer encore plus de tensions géopolitiques liées aux migrations. »
      Un outil policier contesté à gauche

      Bruxelles, novembre 2022. Nous rencontrons des professeurs, des experts des questions migratoires et des militants belges qui dénoncent l’approche néocoloniale des politiques migratoires de l’Union européenne (UE). Il est en revanche plus difficile d’échanger quelques mots avec les députés européens, occupés à courir d’une aile à l’autre du Parlement européen, où l’on n’entre que sur invitation. Quelques heures avant la fin de notre mission, nous parvenons toutefois à rencontrer Amandine Bach, conseillère politique sur les questions migratoires pour le groupe parlementaire de gauche The Left. « Nous sommes le seul parti qui s’oppose systématiquement à Frontex en tant qu’outil policier pour gérer et contenir les flux migratoires vers l’UE », affirme-t-elle.

      Mme Bach souligne la différence entre « statut agreement » (accord sur le statut) et « working arrangement » (arrangement de travail) : « Il ne s’agit pas d’une simple question juridique. Le premier, c’est-à-dire celui initialement proposé au Sénégal, est un accord formel qui permet à Frontex un déploiement pleinement opérationnel. Il est négocié par le Conseil de l’Europe, puis soumis au vote du Parlement européen, qui ne peut que le ratifier ou non, sans possibilité de proposer des amendements. Le second, en revanche, est plus symbolique qu’opérationnel et offre un cadre juridique plus simple. Il n’est pas discuté par le Parlement et n’implique pas le déploiement d’agents et de moyens, mais il réglemente la coopération et l’échange d’informations entre l’agence européenne et les États tiers. » Autre différence substantielle : seul l’accord sur le statut peut donner – en fonction de ce qui a été négocié entre les parties – une immunité partielle ou totale aux agents de Frontex sur le sol non européen. L’agence dispose actuellement de tels accords dans les Balkans, avec des déploiements en Serbie et en Albanie (d’autres accords seront bientôt opérationnels en Macédoine du Nord et peut-être en Bosnie, pays avec lequel des négociations sont en cours).

      Cornelia Ernst (du groupe parlementaire The Left), la rapporteuse de l’accord entre Frontex et le Sénégal nommée en décembre 2022, va droit au but : « Je suis sceptique, j’ai beaucoup de doutes sur ce type d’accord. La Commission européenne ne discute pas seulement avec le Sénégal, mais aussi avec la Mauritanie et d’autres pays africains. Le Sénégal est un pays de transit pour les réfugiés de toute l’Afrique de l’Ouest, et l’UE lui offre donc de l’argent dans l’espoir qu’il accepte d’arrêter les réfugiés. Nous pensons que cela met en danger la liberté de circulation et d’autres droits sociaux fondamentaux des personnes, ainsi que le développement des pays concernés, comme cela s’est déjà produit au Soudan. » Et d’ajouter : « J’ai entendu dire que le Sénégal n’est pas intéressé pour le moment par un “statut agreement”, mais n’est pas fermé à un “working arrangement” avec Frontex, contrairement à la Mauritanie, qui négocie un accord substantiel qui devrait prévoir un déploiement de Frontex. »

      Selon Mme Ernst, la stratégie de Frontex consiste à envoyer des agents, des armes, des véhicules, des drones, des bateaux et des équipements de surveillance sophistiqués, tels que des caméras thermiques, et à fournir une formation aux gardes-frontières locaux. C’est ainsi qu’ils entendent « protéger » l’Europe en empêchant les réfugiés de poursuivre leur voyage. La question est de savoir ce qu’il adviendra de ces réfugiés bloqués au Sénégal ou en Mauritanie en cas d’accord.
      Des rapports accablants

      Principal outil de dissuasion développé par l’UE en réponse à la « crise migratoire » de 2015-2016, Frontex a bénéficié en 2019 d’un renforcement substantiel de son mandat, avec le déploiement de 10 000 gardes-frontières prévu d’ici à 2027 (ils sont environ 1 500 aujourd’hui) et des pouvoirs accrus en matière de coopération avec les pays non européens, y compris ceux qui ne sont pas limitrophes de l’UE. Mais les résultats son maigres. Un rapport de la Cour des comptes européenne d’août 2021 souligne « l’inefficacité de Frontex dans la lutte contre l’immigration irrégulière et la criminalité transfrontalière ». Un autre rapport de l’Office européen de lutte antifraude (Olaf), publié en mars 2022, a quant à lui révélé des responsabilités directes et indirectes dans des « actes de mauvaise conduite » à l’encontre des exilés, allant du harcèlement aux violations des droits fondamentaux en Grèce, en passant par le refoulement illégal de migrants dans le cadre d’opérations de rapatriement en Hongrie.

      Ces rapports pointent du doigt les plus hautes sphères de Frontex, tout comme le Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), une commission d’enquête créée en février 2021 par le Parlement européen dans le but de « contrôler en permanence tous les aspects du fonctionnement de Frontex, y compris le renforcement de son rôle et de ses ressources pour la gestion intégrée des frontières et l’application correcte du droit communautaire ». Ces révélations ont conduit, en mars 2021, à la décision du Parlement européen de suspendre temporairement l’extension du budget de Frontex et, en mai 2022, à la démission de Fabrice Leggeri, qui était à la tête de l’agence depuis 2015.
      Un tabou à Dakar

      « Actuellement aucun cadre juridique n’a été défini avec un État africain », affirme Frontex. Si dans un premier temps l’agence nous a indiqué que les discussions avec le Sénégal étaient en cours – « tant que les négociations sur l’accord de statut sont en cours, nous ne pouvons pas les commenter » (19 janvier 2023) –, elle a rétropédalé quelques jours plus tard en précisant que « si les négociations de la Commission européenne avec le Sénégal sur un accord de statut n’ont pas encore commencé, Frontex est au courant des négociations en cours entre la Commission européenne et la Mauritanie » (1er février 2023).

      Interrogé sur les négociations avec le Sénégal, la chargée de communication de Frontex, Paulina Bakula, nous a envoyé par courriel la réponse suivant : « Nous entretenons une relation de coopération étroite avec les autorités sénégalaises chargées de la gestion des frontières et de la lutte contre la criminalité transfrontalière, en particulier avec la Direction générale de la police nationale, mais aussi avec la gendarmerie, l’armée de l’air et la marine. » En effet, la coopération avec le Sénégal a été renforcée avec la mise en place d’un officier de liaison Frontex à Dakar en janvier 2020. « Compte tenu de la pression continue sur la route Canaries-océan Atlantique, poursuit Paulina Bakula, le Sénégal reste l’un des pays prioritaires pour la coopération opérationnelle de Frontex en Afrique de l’Ouest. Cependant, en l’absence d’un cadre juridique pour la coopération avec le Sénégal, l’agence a actuellement des possibilités très limitées de fournir un soutien opérationnel. »

      Interpellée sur la question des droits de l’homme en cas de déploiement opérationnel en Afrique de l’Ouest, Paulina Bakula écrit : « Si l’UE conclut de tels accords avec des partenaires africains à l’avenir, il incombera à Frontex de veiller à ce qu’ils soient mis en œuvre dans le plein respect des droits fondamentaux et que des garanties efficaces soient mises en place pendant les activités opérationnelles. »

      Malgré des demandes d’entretien répétées durant huit mois, formalisées à la fois par courriel et par courrier, aucune autorité sénégalaise n’a accepté de répondre à nos questions. « Le gouvernement est conscient de la sensibilité du sujet pour l’opinion publique nationale et régionale, c’est pourquoi il ne veut pas en parler. Et il ne le fera probablement pas avant les élections présidentielles de 2024 », confie, sous le couvert de l’anonymat, un homme politique sénégalais. Il constate que la question migratoire est devenue, ces dernières années, autant un ciment pour la société civile qu’un tabou pour la classe politique ouest-africaine.

      https://afriquexxi.info/Au-Senegal-les-desseins-de-Frontex-se-heurtent-aux-resistances-locales
      #conditionnalité #conditionnalité_de_l'aide_au_développement #remittances #résistance

    • What is Frontex doing in Senegal? Secret services also participate in their network of “#Risk_Analysis_Cells

      Frontex has been allowed to conclude stationing agreements with third countries since 2016. However, the government in Dakar does not currently want to allow EU border police into the country. Nevertheless, Frontex has been active there since 2006.

      When Frontex was founded in 2004, the EU states wrote into its border agency’s charter that it could only be deployed within the Union. With developments often described as the “refugee crisis,” that changed in the new 2016 regulation, which since then has allowed the EU Commission to negotiate agreements with third countries to send Frontex there. So far, four Balkan states have decided to let the EU migration defense agency into the country – Bosnia and Herzegovina could become the fifth candidate.

      Frontex also wanted to conclude a status agreement with Senegal based on this model (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t). In February 2022, the EU Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, announced that such a treaty would be ready for signing by the summer (https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal). However, this did not happen: Despite high-level visits from the EU (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t), the government in Dakar is apparently not even prepared to sign a so-called working agreement. It would allow authorities in the country to exchange personal data with Frontex.

      Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometers of external border; like neighboring Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Senegal is considered a safe country of origin by Germany and other EU member states like Luxembourg.

      Even without new agreements, Frontex has been active on migration from Senegal practically since its founding: the border agency’s first (and, with its end in 2019, longest) mission started in 2006 under the name “#Hera” between West Africa and the Canary Islands in the Atlantic (https://www.statewatch.org/media/documents/analyses/no-307-frontex-operation-hera.pdf). Border authorities from Mauritania were also involved. The background to this was the sharp increase in crossings from the countries at the time, which were said to have declined successfully under “Hera.” For this purpose, Frontex received permission from Dakar to enter territorial waters of Senegal with vessels dispatched from member states.

      Senegal has already been a member of the “#Africa-Frontex_Intelligence_Community” (#AFIC) since 2015. This “community”, which has been in existence since 2010, aims to improve Frontex’s risk analysis and involves various security agencies to this end. The aim is to combat cross-border crimes, which include smuggling as well as terrorism. Today, 30 African countries are members of AFIC. Frontex has opened an AFIC office in five of these countries, including Senegal since 2019 (https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-opens-risk-analysis-cell-in-senegal-6nkN3B). The tasks of the Frontex liaison officer stationed there include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states.

      The personnel of the national “Risk Analysis Cells” are trained by Frontex. Their staff are to collect strategic data on crime and analyze their modus operandi, EU satellite surveillance is also used for this purpose (https://twitter.com/matthimon/status/855425552148295680). Personal data is not processed in the process. From the information gathered, Frontex produces, in addition to various dossiers, an annual situation report, which the agency calls an “#Pre-frontier_information_picture.”

      Officially, only national law enforcement agencies participate in the AFIC network, provided they have received a “mandate for border management” from their governments. In Senegal, these are the National Police and the Air and Border Police, in addition to the “Department for Combating Trafficking in Human Beings and Similar Practices.” According to the German government, the EU civil-military missions in Niger and Libya are also involved in AFIC’s work.

      Information is not exchanged with intelligence services “within the framework of AFIC activities by definition,” explains the EU Commission in its answer to a parliamentary question. However, the word “by definition” does not exclude the possibility that they are nevertheless involved and also contribute strategic information. In addition, in many countries, police authorities also take on intelligence activities – quite differently from how this is regulated in Germany, for example, in the separation requirement for these authorities. However, according to Frontex’s response to a FOIA request, intelligence agencies are also directly involved in AFIC: Morocco and Côte d’Ivoire send their domestic secret services to AFIC meetings, and a “#Center_for_Monitoring_and_Profiling” from Senegal also participates.

      Cooperation with Senegal is paying off for the EU: Since 2021, the total number of arrivals of refugees and migrants from Senegal via the so-called Atlantic route as well as the Western Mediterranean route has decreased significantly. The recognition rate for asylum seekers from the country is currently around ten percent in the EU.

      https://digit.site36.net/2023/08/27/what-is-frontex-doing-in-senegal-secret-services-also-participate-in-t
      #services_de_renseignement #données #services_secrets

  • River Runner Global
    https://river-runner-global.samlearner.com

    The Global River Runner is a vizualization simulating the path a raindrop would take, assuming it runs off into a stream and from then on to a terminating location, likely an inland water body or the ocean. A running list of interesting flow paths can be found here.
    DISCLAIMER

    The Global River Runner is an open source Work In Progress, based on open data and open source software components, some of which themselves are in early or alpha development stages (all described in detail below). The vast majority of river paths calculated are based on topographic data collected and processed automatically, and may not reflect true river paths that may be affected by engineered features such as dams, canals, and conduits. Many names of rivers and inland water features such as lakes may be inaccurate as they are based on only on easily available datasets with global coverage. At times, the UI may exhibit slow or otherwise poor performance or encounter other errors. If you find issues regarding any of the above, please submit an issue through Github if you have an account, or fill out an issue survey form, to help us improve the application and underlying data!

  • Abus sexuels dans l’Église : le Nord - Pas-de-Calais particulièrement concerné
    https://actu.fr/societe/abus-sexuels-dans-l-eglise-le-nord-pas-de-calais-particulierement-concerne_4545

    Le nombre de 216 000 victimes de crimes sexuels par des prêtres de 1950 à 2020 en France a été mis en avant par la CIASE, commission indépendante sur les abus sexuels dans l’Église, qui vient de rendre son rapport (appelé rapport Sauvé). Quels sont les chiffres par région, par diocèse ? Le rapport présente plusieurs cartes. Le Nord et le Pas-de-Calais, terres catholiques, sont particulièrement concernées.

    Les régions les plus touchées sont les plus pratiquantes
    « La carte des violences répertoriées recoupe assez bien la carte des diocèses de France selon leur degré de pratique religieuse » dit le rapport Sauvé en page 138 (consultable en ligne ici sur 485 pages https://www.ciase.fr/medias/Ciase-Rapport-5-octobre-2021-Les-violences-sexuelles-dans-l-Eglise-catholique- ). C’est-à-dire que ce sont les diocèses avec le plus fort nombre de prêtres et de catholiques qui ont connu le plus d’abus sexuels en nombre.

    Le Nord et le Pas-de-Calais font partie des diocèses dits « de chrétienté », ce qui signifie les plus marqués par la présence chrétienne.

    Ainsi, « sur l’ensemble de la période, les 12 diocèses ‘de chrétienté’ regroupent le plus grand nombre d’affaires par diocèse (16,3 affaires par diocèse, contre 11,9 par diocèse de tradition chrétienne, et 14 affaires par diocèse ‘détaché’) ».

    Un nombre de prêtres abuseurs plus élevé qu’ailleurs…
    Trois périodes sont retenues : de 1950 à 1970 ; de 1970 à 1990 ; de 1990 à 2020.

    Côté chiffres, les départements du Nord et du Pas-de-Calais, référencés comme terres chrétiennes, sont particulièrement touchés :
    • 1950-1970 : plus de 20 cas de prêtres abuseurs recensés dans le Pas-de-Calais, une dizaine pour le Nord ;
    • 1970-1990 : plus de 20 cas dans le Nord ; entre 5 et 10 dans le Pas-de-Calais ;
    • 1990-2020 : plus de 20 cas dans le Pas-de-Calais ; une quinzaine dans le Nord.

    Quelques dizaines de cas, cela semble peu, mais en fait, ce sont les chiffres les plus élevés en France. Ce qui fait des départements du Nord et du Pas-de-Calais des départements particulièrement concernés par la pédo-criminalité au sein de l’Église.

    Le Nord et le Pas-de-Calais sont très concernés par les abus sexuels dans l’Eglise, avec les chiffres les plus élevés par rapport au reste de la France. (©Rapport CIASE)

    … mais moins de victimes par prêtre
    Avec une précision : à l’inverse, ce sont les diocèses moins chrétiens qui ont un nombre d’abus par prêtre plus élevé. « S’il y a plus d’affaires en valeur absolue dans les diocèses de chrétienté, il y a plus d’affaires par prêtre, en valeur relative, dans les diocèses ‘indifférents’. »

    Cela veut dire qu’il y a plus de victimes par prêtre dans les départements moins chrétiens.

    Précisément, « les ratios mesurant la prévalence du phénomène, qu’il s’agisse du rapport entre le nombre d’affaires et le nombre d’habitants (ratio de mis en cause), ou du rapport entre le nombre d’affaires et le nombre de prêtres (ratio de condamnés) sont respectivement 1,3 (pour les mis en cause) à 4 fois (pour les condamnés) plus forts que dans les terres de chrétienté ». 

    Le rapport émet des hypothèse quant aux causes de ce moindre nombre de cas par prêtre dans les diocèses les plus christianisés. « Du côté des diocèses de chrétienté, on peut se demander si la moindre proportion d’affaires et de condamnations ne procède pas d’un moins grand nombre de situations de violences sexuelles, procédant d’un plus grand contrôle social des clercs (par la population et l’institution), d’une plus grande capacité ecclésiastique à influencer le cours de la justice, voire d’une plus grande tolérance des jurys de cours d’assises envers les clercs. Le nombre supérieur d’acquittements, lors des affaires pénales, dans les diocèses de chrétienté, pourrait aller dans ce sens. »

    Le profil des prêtres condamnés
    Sur l’âge des prêtres abuseurs : « Les condamnés, dans les diocèses de chrétienté, sont nettement plus jeunes, et ils sont jugés, pour presque la moitié d’entre eux, dans les 10 années suivant leur ordination. Ailleurs, les condamnés sont majoritairement des hommes mûrs, allant entrer ou déjà entrés dans la cinquantaine, avec un étalement jusqu’à la fin de la soixantaine pour les diocèses ‘indifférents’. » 

    #Nord #Pas_de_Calais #Régions #viol #pédocriminalité #déni #pédophilie #violophilie #élites #France #culture_du_viol #déni #catholicisme #eglise #religion #prêtres #victimes #diocèses #ratios #victimes #justice #jurys #cours_d’assises #contrôle_social #CIASE

    • Rapport Sauvé sur les crimes de pédophilie dans l’église catholique :
      L’église catholique et le Gouvernement macron/darmanin pris à leurs propres pièges !
      https://www.fnlp.fr/2021/10/11/léglise-catholique-et-le-gouvernement-macron

      Le rapport Sauvé est un véritable séisme qui risque d’emporter l’église catholique toute entière dans l’abime, d’où l’effroi, les erreurs, les provocations des éminences qui s’accrochent à l’autel pour ne pas disparaitre. Chacun essaie de tirer son épingle du jeu et la crise se développe.Pourtant, tout avait été fait pour limiter le scandale. A l’instar de ce qu’elle avait déjà fait pour l’Affaire touvier, l’église catholique mettait en place une commission pour noyer le poisson : la Commission Sauvé, en espérant que cela arriverait au même résultat que pour le milicien Touvier :


      L’église catholique n’était en rien responsable, seuls quelques individus en marge étaient en cause.Mais patatras, c’est le poisson qui noyait le pêcheur et le « pécheur » était bien fautif en la matière.La Commission Sauvé (et il faut lui rendre hommage pour cela, contrairement aux premières craintes de la Libre Pensée) a fait remarquablement son travail. Le scandale était si énorme, les victimes si nombreuses, l’horreur si grande, que plus rien ne pouvait empêcher la lumière de se faire jour.

      Dès le mois d’août 2021, le Congrès national de Voiron de la Libre Pensée analysait ainsi les choses :
      « Ce n’est pas un hasard, nous l’avons souvent souligné, que cela soit aux Etats-Unis que les affaires de pédophilie dans le clergé catholique ont été mises au grand jour. C’est l’impérialisme et ses subsidiaires qui ont fait éclater les affaires pour domestiquer le vatican. L’épiscopat catholique des USA est exsangue, il a été saigné à blanc par les indemnités qu’il a dû verser aux victimes des crimes du clergé.

      Et c’est au tour de la France, de l’Allemagne, de l’Espagne. Tout cela va déferler et rien ne pourra l’empêcher. Le vatican risque d’être emporté par la tourmente financière. Pour pouvoir tenir face à cette déferlante, le pape n’a pas d’autre choix que de faire le ménage sur tous les plans, pour tenter de résister.D’où les procès au sein de la curie, d’où les tentatives d’en finir avec la pédophilie et les scandales,notamment financiers.

      Et c’est là, que la Libre Pensée a un rôle à jouer. La Commission Sauvé sur les crimes de pédophilie dans le clergé français semble tétanisée pour remettre son rapport. La ligne de conduite est claire : il va falloir payer beaucoup pour faire taire les victimes. Qui va payer ? L’église aimerait bien, comme à l’accoutumée,que cela soit les autres.

      Mais déjà les résistances se dévoilent. Au sein même des fidèles, commence à se constituer un mouvement de refus : pourquoi les brebis devraient cracher au bassinet pour les fautes du berger ? Le clergé faute,les fidèles paient. Cela a du mal à passer.

      Bien entendu, l’église va tendre la sébile auprès des pouvoirs publics pour qu’ils paient à sa place. Déjà, émmanuel macron a décidé de faire passer la déduction fiscale pour le denier du Culte de 66% à 75%.Mais cela ne suffira pas. Il faut s’attendre, pour arracher à l’église et aux autres religions dans la foulée un certain soutien à sa politique, que macron mette en œuvre une série de mesures pour financer les cultes,afin, entre autre, d’acheter leur silence sur les entorses au libre exercice du culte, mises en œuvre par la loi dite « Séparatisme ». Passe–moi la rhubarbe, je te passerai le séné. C’est pourquoi, émmanuel macron est contraint d’aller à lourdes faire le pitre comme un premier communiant, une première depuis Pétain, pour tenter de donner du baume au cœur des Evêques. Tout cela confine au ridicule et à la dérision.

      Nous avons décidé de proposer au Congrès national qu’il décide (ce qui a été décidé) que les Fédérations départementales s’engagent dans une grande enquête, sur tous les fronts, pour mettre à jour les biens de l’église, à combien ils se montent, quelle est la richesse exacte du clergé. L’objectif est par cette enquête d’intérêt public d’empêcher que l’Etat finance les réparations aux victimes à la place des Evêques. L’église a les moyens, qu’elle paie le prix de ses turpitudes ! Nous avons déjà envoyé aux Fédérations un certain nombre d’éléments et d‘outils de travail pour cela

      Si la Libre Pensée veut faire cela, ce n’est pas par simple anticléricalisme de bon aloi, c’est que cette question va devenir une affaire de défense de la République, de la laïcité des institutions, des libertés démocratiques qui veulent que la justice s’applique aux justiciables, ce n’est pas aux innocents de payer. On connaît le vieil adage catholique : l’église ne connait pas le péché, elle ne connait que les pécheurs.Mais là, cela risque d’être une autre affaire. »

      Faisons ensemble l’inventaire des biens de l’église :
      L’église peut payer, l’église doit payer !

      A peine connu le Rapport Sauvé que chaque prélat, chaque mitré y allait de son repentir. Au même moment, Médiapart dévoilait que l’archevêque de Strasbourg, qui faisait aussi son numéro de repentir, avait préservé et préserve toujours la réputation d’un agresseur, accusé d’abus sexuel. Que ta main droite ignore ce que fait ta main gauche.

      Le Président de la Conférence des Evêque de France déclarait même que les lois de dieu étaient aussi au-dessus de la République et qu’en conséquence, il ne fallait pas violer le secret de la Confession auriculaire. Comme la Libre Pensée l’établit dans la note d’analyse ci-jointe à ce communiqué, le « secret de la confession » est une auguste fadaise qui ne s’impose à personne au nom d’une quelconque autorité, quelle qu’elle soit. Le « secret de la confession » est une convenance personnelle passée entre personnes qui l’acceptent. C’est une convention purement privée. Elle n’a aucune force de loi.

      Ce secret est de même nature que celui que sont « obligés » de respecter, en « vertu de la loi morale », les Francs-Maçons. Cela ne peut servir en aucun cas à camoufler et à taire des crimes, surtout contre des enfants. D’ailleurs, l’église catholique ne s’est pas toujours pliée au respect du secret de la confession. Le nombre de victimes de l’Inquisition est là pour en témoigner.
      Le gouvernement macron/darmanin a mis en œuvre la loi « Séparatisme » contre les présupposés musulmans. Le ministre de l’Intérieur a même dit à cette occasion : « Les catholiques n’ont rien à craindre ». On ne lui conseille pas de se recycler comme voyante, ses prédictions n’ont pas fait flores, loin s’en faut.

      Nous rappelons que la loi « Séparatisme » et le projet de décret rendu public prévoit que si un membre d’une association religieuse tient des propos séditieux (et le Président de la CEF en a tenu incontestablement), le gouvernement est tenu d’engager un processus de dissolution de l’association concernée.

      Monsieur Darmanin va-t-il dissoudre l’église catholique ?

      Si le Ministre de l’Intérieur devait traiter autrement l’église catholique que les associations musulmanes qu’il a fait dissoudre, que faudrait-il en conclure ? Que nous sommes à nouveau dans Les animaux malades de la peste : « Selon que vous serez puissant ou misérable, les jugements de Cour vous rendront blanc ou noir. » ?

      Par la loi « Séparatisme », le gouvernement et sa majorité parlementaire aux ordres a mis en route une véritable machine de guerre civile contre la population, pour mieux la diviser pour la réprimer. On en voit toutes les prémices aujourd’hui.

      L’heure des comptes est en train de sonner ! Abrogation de la loi totalitaire et xénophobe dit « Séparatisme » !

      La Bastille, le 11 octobre 2021

      #secret #confession #fadaise #scandale #indemnités #loi #secret de la #confession #séparatisme #associations_religieuses #affaire #touvier #Strasbourg

  • #Liberté, #exigence, #émancipation. Réinstituer l’#Université

    Les strates successives de #réformes subies par l’Université depuis vingt ans, même si elles ne sont pas dénuées d’incohérences, reposent sur un socle politique et idéologique relativement précis [1]. Celui-ci trouve notamment son articulation dans les travaux de sociologie des établissements d’enseignement supérieur par Christine Musselin [2] ou dans le rapport Aghion-Cohen de 2004 [3] sur “éducation et croissance”[4]. Pour une part, ce socle reprend les théories de la #croissance par l’#innovation et la “#destruction_créatrice” inspirées de #Joseph_Schumpeter [5] , surtout pertinentes pour la #recherche. Le socle intellectuel présidant aux réformes récentes combine cet héritage avec une vision de l’#aménagement_du_territoire fondée sur la partition entre des #métropoles intelligentes et concurrentielles et un vaste hinterland tributaire du #ruissellement_de_croissance, ce qu’Olivier Bouba-Olga et Michel Grossetti [6] appellent la « #mythologie_CAME » (#compétitivité-#attractivité-#métropolisation-#excellence). Dans cette perspective, hormis quelques cursus d’élite, les formations universitaires doivent surtout offrir des gages “d’#employabilité” future. Au fil des reconversions professionnelles, le “portefeuille de #compétences” initial se verra étoffé par des #certificats_modulables attestant de quelques #connaissances_spécialisées, ou de “#savoir-faire” dont certains relèveront probablement surtout du conditionnement opérationnel. Dans le même temps, #évaluation et #valorisation sont devenus les termes incontournables et quasi indissociables de la formulation d’une offre “client” qui débouche sur une organisation par marché(s) (marché des formations diplômantes, des établissements, de l’emploi universitaire…). Dans les variantes les plus cohérentes de ce programme, ces #marchés relèvent directement du #Marché, d’où la revendication d’une #dérégulation à la fois des #frais_d’inscription à l’université et des #salaires des universitaires.

    Sortir l’Université de l’ornière où ces réformes l’ont placée impose de construire un contre-horizon détaillé. Les mots d’ordre défensifs de 2008 et 2009 n’avaient sans doute que peu de chances d’arrêter la machine. Aujourd’hui, la demande d’une simple abrogation des dispositions prises à partir de 2007 ne serait pas à la hauteur des changements internes que ces politiques ont induits dans l’Université. On ne saurait de toute façon se satisfaire d’une perspective de restauration de l’ancienne Université. C’est en ce sens que nous parlons de ré-institution ou de refondation.

    Émanciper qui, de quoi, pour quoi faire

    Il est impératif de prendre comme point de départ la question des finalités sociales et politiques de l’Université. Si la référence à la notion d’émancipation est indispensable à nos yeux, elle ne suffit pas non plus à définir un nouvel horizon. La capacité du discours réformateur néolibéral à assimiler et finalement dissoudre le projet émancipateur n’est plus à prouver, y compris en matière scolaire : le recours à la notion de compétence, du primaire à l’université, renvoie ainsi, cyniquement, à une idée généreuse de pédagogies alternatives visant à libérer l’institution scolaire de ce qui était perçu comme un carcan autoritaire transformant les élèves en singes savants. Cet idéal scolaire émancipateur systématiquement dévoyé a pris des formes multiples et parfois contradictoires, et ce n’est pas ici le lieu de les analyser. Au moins depuis Boltanski & Chiapello [7], on sait qu’il ne faut pas sous-estimer la capacité du management à digérer la “critique artiste du capitalisme”, pour mettre en place un nouveau modèle de néolibéralisme autoritaire. L’auto-entrepreneur·euse de soi-même assujetti·e aux normes de valorisation par le marché est pour nous un épouvantail, mais il s’agit d’une figure d’émancipation pour certains courants réformateurs.

    L’émancipation n’est jamais une anomie : c’est un déplacement collectif et consenti de la nature des normes et de leur lieu d’exercice. Poser la question de la finalité émancipatrice de l’#enseignement_supérieur, c’est demander qui doit être émancipé de quoi et pour quoi faire. Ce “pour quoi faire”, en retour, nous renvoie au problème du comment, dans la mesure où devant un tel objectif, c’est sans doute la détermination du chemin qui constitue en soi le seul but atteignable.

    L’#autonomie_étudiante

    À première vue, la réponse à la question « qui » est tautologique : il s’agit d’émanciper les étudiant·es — mais comme on va le voir, si l’on pose l’existence d’un cycle auto-amplificateur entre étudiant·es et enseignant·es, cela pose aussi la question de l’émancipation de l’ensemble des universitaires. Il importe de souligner que les étudiant·es ne sont pas forcément « la jeunesse », ni la jeunesse titulaire du baccalauréat. Quant à savoir de quoi il s’agit de les émanciper, la réponse est d’abord : du déterminisme par le milieu social, culturel et géographique d’origine [8]. Cela représente à la fois un enjeu démocratique et un enjeu social majeur.

    L’Université doit être librement et gratuitement accessible à toute personne détenant le baccalauréat à tout âge de la vie ; tout établissement universitaire doit proposer une voie d’accès, le cas échéant via une propédeutique, aux personnes ne détenant pas le baccalauréat mais désirant entamer des #études_supérieures ; l’#accès gratuit à l’Université et à son ouverture intellectuelle et culturelle ne doit pas être conditionné à l’inscription à un cursus diplômant.

    Ce programme impose la mise en œuvre parallèle d’une politique d’#autonomie_matérielle des étudiant·es. Nous souscrivons à l’essentiel des propositions formulées par le groupe Acides [9] en faveur d’un “#enseignement_supérieur_par_répartition”, c’est-à-dire d’un système socialisé d’#accès_aux_études, pour qu’elles soient menées dans les meilleures conditions de réussite. Nous proposons que l’#allocation_d’autonomie_étudiante soit versée de droit pour trois ans, prolongeables d’un an sur simple demande, à toute personne inscrite dans une formation diplômante de premier cycle, avec possibilité de la solliciter pour suivre une formation universitaire non-diplômante, mais aussi une formation de deuxième ou de troisième cycle. Pour ces deux derniers cycles, toutefois, ce système nous semble devoir coexister avec un dispositif de pré-recrutement sous statut d’élève-fonctionnaire dans les métiers d’intérêt général que la collectivité a vocation à prendre en charge : médecine et soins infirmiers, enseignement primaire et secondaire, recherche scientifique, aménagement du territoire et transition écologique…

    Pour une #géographie de l’#émancipation_universitaire

    Ces premiers éléments nécessitent de se pencher sur ce qu’il est aujourd’hui convenu d’appeler “le #paysage_universitaire”. Il faut ici distinguer deux niveaux : un niveau proprement géographique, et un niveau sociologique qui conduit immanquablement à poser la question des différents cursus post-bac hors universités, et notamment des grandes écoles.

    Au plan géographique, il est nécessaire de s’extraire de la dichotomie mortifère entre des établissements-monstres tournés vers la compétition internationale et installés dans des métropoles congestionnées, et des universités dites “de proximité” : celles-ci, à leur corps défendant, n’ont pas d’autre fonction aux yeux des réformateurs que d’occuper une jeunesse assignée à résidence géographiquement, socialement et culturellement [10]. Le #maillage_territorial actuel est dense, du fait de l’héritage de la dernière vague de création d’#universités_de_proximité. Pour autant, il s’organise selon une structure pyramidale : l’héritage évoqué est en effet corrigé par une concentration des investissements au profit de quelques établissements hypertrophiés. A contrario, nous préconisons une organisation en réseau, dont les cellules de base seraient des établissements de taille moyenne, c’est-à-dire ne dépassant pas les 20.000 étudiants. Nous avons besoin d’universités à taille humaine, structurées en petites entités autonomes confédérées. Ces établissements doivent offrir aux étudiants des perspectives d’émancipation vis-à-vis du milieu d’origine et de la sclérose intellectuelle qui frappe le pays ; ils doivent permettre une recherche autonome, collégiale et favorisant le temps long.

    Pour cela, nous proposons un plan en deux temps. D’une part, un surcroît d’investissement doit être consenti vers des pôles de villes moyennes pour en faire, non des “universités de proximité” centrées sur le premier cycle, mais des établissements complets proposant également une activité scientifique de pointe et exerçant une attraction nationale, afin de décentrer le système universitaire actuellement structuré par l’opposition entre métropoles et hinterland. D’autre part, nous préconisons d’installer trois à cinq nouvelles universités dans des villes moyennes ou des petites villes, à bonne distance des métropoles, en prenant appui sur le patrimoine bâti abandonné par l’État et sur les biens sous-utilisés voire inoccupés appartenant aux collectivités. Certaines #villes_moyennes voire petites disposent en effet d’anciens tribunaux, de garnisons ou même des bâtiments ecclésiastiques qui tombent en déshérence. Notons qu’il ne s’agit pas seulement de les transformer en laboratoires et en amphithéâtres : au bas mot, notre pays a aussi besoin d’une centaine de milliers de places supplémentaires de cités universitaires à très brève échéance.

    L’#utilité_sociale de l’enseignement supérieur ne se réduit pas à “former la jeunesse” : cette nouvelle géographie ne saurait être pensée sur le mode du phalanstère coupé du monde. Au contraire, les #universités_expérimentales doivent être fondues dans la ville et dans la société. La refondation de l’Université s’accompagne donc d’un projet urbanistique. L’#architecture de l’université doit être pensée en sorte que les #campus soient des #quartiers de la ville, avec les services publics et privés nécessaires à une intégration vivante de ces quartiers dans le #territoire. Les lieux de vie universitaires doivent inclure des écoles maternelles, primaires et secondaires, des commerces, des librairies, des théâtres, des zones artisanales et des quartiers d’habitation pour celles et ceux qui feront vivre ces lieux. Les bibliothèques universitaires et les bibliothèques municipales des villes universitaires doivent être rapprochées, voire fusionnées.

    La question des #Grandes_Écoles

    Les politiques de différenciation entre établissements de recherche et de proximité croisent la problématique des grandes écoles, mais ne se confond pas avec elle : en atteste l’échec du projet de fusion de Polytechnique avec l’université d’Orsay-Saclay, ou la survivance d’une myriade d’écoles d’ingénieur·es et de commerce proposant des formations indigentes avec un taux d’employabilité équivalent à celui d’une licence d’une petite université de proximité. La refondation esquissée ici sera compromise tant que la question de la dualité Université / Grandes Écoles n’aura pas été réglée. On ne fera pas l’économie d’une instauration effective du monopole de l’Université sur la collation des grades. Cela implique une montée en puissance des #capacités_d’accueil, c’est-à-dire du nombre d’établissements, des moyens récurrents et des postes d’universitaires titulaires dans tous les corps de métier, de façon à pouvoir atteindre une jauge de 600.000 étudiant·es par promotion de premier cycle, 200.000 étudiant·es par promotion de deuxième cycle, 20.000 étudiant·es (rémunéré·es !) par promotion de troisième cycle, soit un total d’environ 2,4 millions d’étudiant·es. Précisons qu’il y avait en 2019-2020 1,6 millions d’étudiants à l’Université, 600.000 dans d’autres établissements publics, majoritairement des lycées (CPGE, BTS), et 560.000 dans le secteur privé. Le chiffre de 2.4 millions d’étudiants à l’Université correspond donc à une estimation basse des effectifs une fois le monopole universitaire sur la collation des grades rétabli.

    Dans le détail, l’application de ce programme signifie que les formations d’ingénieurs pourront et devront être assurées à l’Université, avec un pré-recrutement dans certains domaines, l’écologie notamment ; les sections de technicien supérieur (STS) seront soit rattachées aux instituts universitaires de technologie (IUT) existants, soit constituées en IUT. Pour ce qui est des écoles de commerce, on pourra se contenter de supprimer la reconnaissance de leurs diplômes dans les conventions collectives et les concours de la Fonction publique. L’Institut d’Études Politiques de Paris doit devenir une université de droit commun. Les IEP de Province et les antennes régionales de l’IEP Paris ont vocation à intégrer l’université la plus proche sous la forme d’une UFR de sciences politiques, tandis que la Fondation Nationale des Sciences Politiques doit être dissoute, et son patrimoine transféré, par exemple à la Fondation Maison des Sciences de l’Homme [11].

    La question des #Écoles_Normales_Supérieures (#ENS), initialement pensées pour pré-recruter des enseignants et des chercheurs au service de l’Université, peut être résorbée par l’extension de ce pré-recrutement à travers le pays, le décentrage vis-à-vis de Paris et Lyon, la construction de cités étudiantes dotées de bibliothèques et la mise en place de formations expérimentales par la recherche interdisciplinaire. Les ENS seraient ainsi rendues caduques du fait de l’extension à l’Université du mode de fonctionnement qui était censé être le leur.

    Une fois privées de leur débouché de principe, on peut se demander quelle utilité resterait aux #classes_préparatoires : beaucoup fermeraient, mais certaines pourraient être maintenues pour aider au maillage territorial à un niveau de propédeutique, si l’on souhaite rétablir une sorte de trivium occupant les trois ou quatre premiers semestres, fonction que le DEUG assurait jadis. En tout état de cause, la licence elle-même ne pourra être obtenue qu’à l’Université.

    Que faire des #cursus ?

    Cela nous amène au problème de l’organisation des enseignements et des cursus, lequel nous impose de faire retour à la question initiale : émanciper qui, de quoi, comment et pour quoi faire ? Pour nous, l’existence de l’Université comme institution d’enseignement distincte du lycée se justifie par un lien spécifique entre la formation universitaire et la #recherche_scientifique. L’enseignement secondaire a pour fonction de transmettre des savoirs déjà stabilisés, ce qui n’est pas exclusif d’un aperçu de l’histoire complexe de cette consolidation, ni même des contradictions subsistant dans les corpus enseignés. La formation universitaire a ceci de spécifique qu’elle ne dissocie jamais totalement la production, la transmission et la critique des #savoirs. Par conséquent, seul le niveau propédeutique, encore essentiellement consacré à l’acquisition de bases communément admises d’une discipline, peut à la rigueur être dispensé hors Université, dans la mesure où il ne donne pas lieu à la collation d’un grade.

    Inversement, la licence (ou le titre qui pourrait lui succéder) impose un saut qualitatif avec une première confrontation aux réalités de la recherche scientifique, entendue comme pratique collégiale de la dispute argumentée, sur une problématique construite par la communauté au vu d’un état de la recherche. Aucune licence ne devrait pouvoir être accordée sans une première expérience en la matière, ne serait-ce qu’en position d’observation. Cette première expérience doit prendre des formes différentes selon les disciplines : stage d’observation en laboratoire, brève étude de terrain, traduction commentée… assortis de la rédaction d’un état de l’art. De ce fait, un #cursus_universitaire doit reposer sur un enseignement dispensé par des scientifiques ayant une activité de recherche. On peut penser qu’en-deçà de deux tiers du volume horaire d’enseignement assuré directement par des scientifiques titulaires, le caractère universitaire d’un cursus est remis en jeu. Reconnaître ce seuil aurait également le mérite de limiter réglementairement le recours aux #vacataires et contractuel·les, qui s’est généralisé, tout en laissant une marge suffisamment importante pour offrir aux doctorant·es qui le souhaitent une première expérience de l’enseignement, et en ménageant une place à des intervenant·es extérieur·es qualifié·es dont le point de vue peut être utile à la formation.

    S’agissant des formes d’#enseignement, nous ne croyons pas qu’il soit possible de s’abstraire dès le premier cycle d’une présentation argumentée et contradictoire de l’#état_de_l’art sur les grandes questions d’une discipline. Le #cours_magistral garde donc une pertinence, non comme instrument de passation d’un savoir déjà établi, mais comme outil de liaison entre transmission et critique des savoirs existants. La dimension expérimentale et créative de la formation doit toutefois monter en puissance au fur et à mesure que cette phase propédeutique initiale approche de son terme. De même, la forme du #séminaire_de_recherche doit avoir sa place dans le ou les derniers semestres de licence, et ce quel que soit le cursus.

    Nous ne nous inscrivons pas dans la distinction binaire entre cursus professionnalisants et non-professionnalisants. Cette question de la qualification nous paraît relever d’une pluralité de pratiques qui doit être réglée à l’échelle des disciplines et des mentions. Pour tenir les deux bouts, l’Université doit proposer un éventail de formations présentant des degrés divers d’imbrication avec la recherche finalisée et non-finalisée, des formes plurielles d’application, et des objectifs professionnels différents. Elle doit être conçue comme une grande maison rassemblant la diversité des formations supérieures ; à cet égard, elle ne doit pas reproduire l’opposition des trois baccalauréats (général, technologique et professionnel), ni leur hiérarchie.

    #Disciplines et #indiscipline

    La progression chronologique des cursus et leur cohérence académique ont une importance particulière. Nous persistons à penser que la connaissance scientifique a une dimension historique et cumulative, qui inclut aussi une part de contradictions. C’est ce qui fait l’importance de l’initiation à la notion d’état de la recherche. De ce fait, la temporalité des cursus doit être pensée en conformité avec une progression intellectuelle, pédagogique et scientifique, et non réduite à une combinaison de modules qu’il faudrait faire entrer au chausse-pied dans des maquettes obéissant à des contraintes essentiellement administratives. De là découlent plusieurs conséquences, qui s’appliquent aussi aux cursus interdisciplinaires et expérimentaux que nous appelons de nos vœux. Tout d’abord, les contraintes bureaucratiques ne doivent pas conduire à malmener la #temporalité_pédagogique des étudiant·es. Cela signifie en particulier que l’allocation d’autonomie étudiante en licence devra pouvoir être portée à quatre ans sur simple demande.

    Sur le plan de l’organisation de l’offre de cours, l’insistance sur la #progression_pédagogique et intellectuelle implique de définir quels enseignements fondamentaux doivent impérativement être validés pour permettre le succès dans les étapes ultérieures de la formation. Cela pose la question de la “compensation” des sous-disciplines entre elles : dans sa forme la plus radicale, ce dispositif permet notamment de passer à l’année supérieure si l’on obtient une moyenne générale supérieure à 10/20, sans considération des enseignements non-validés. Il ne nous semble pas pertinent d’abolir toute forme de compensation, car ce dispositif procède assez logiquement de l’idée qu’un cursus n’est pas une juxtaposition de certificats, mais représente l’agencement cohérent d’enseignements obéissant à une structure systématique. En revanche, nous pensons que pour chaque cursus, un bloc disciplinaire doit être dégagé, à l’échelle duquel un niveau minimal doit être atteint par l’étudiant·e pour être en situation de bénéficier des enseignements ultérieurs. Pour augmenter les chances de succès des étudiant·es après une première tentative infructueuse, les enseignements fondamentaux du premier cycle doivent être répétés à chaque semestre.

    On touche ici à un équilibre délicat : en effet, l’exigence d’une progression pédagogique cohérente, qui requiert un cadrage disciplinaire national, ne doit pas être mise au service d’une conception privilégiant la pure transmission au détriment de la production, de la critique et de la reconfiguration des savoirs et in fine des disciplines elles-mêmes. La discipline représente un stade socialement stabilisé de la pratique scientifique, mais elle émerge à partir d’un réseau social (au sens littéral du terme) de scientifiques, qui développent un jargon, des modèles de pensée, des revues, des conférences, dans une dialectique de l’évolution et de la conservation. Les maquettes de cursus et les instances d’élaboration du cadrage national doivent donc impérativement maintenir le caractère évolutif des disciplines, ainsi que la possibilité de leur hybridation, de leur scission ou de leur fusion.

    Si le contact avec la production et la critique des savoirs, au niveau licence, peut se réduire à une simple observation, il n’en va pas de même en master. Tout master, y compris ceux qui préparent à l’enseignement secondaire et ceux qui ouvrent le droit au titre d’ingénieur, doit inclure une part significative de séminaires de recherche et/ou de séjours en laboratoires et de terrains d’analyse. Considérant la définition que nous donnons de la recherche scientifique comme pratique argumentative contradictoire empiriquement étayée, reposant sur un état de l’art et faisant appel à un appareil probatoire objectivable, il nous semble que la mobilité des étudiants d’un établissement ou d’un laboratoire vers un autre doit être encouragée. Cela passerait par la mise en place de dispositifs d’accompagnement financier et logistique pour favoriser une pratique démocratique de la peregrinatio étudiante. En particulier, elle peut être systématisée dans les cursus donnant lieu à un pré-recrutement sous statut d’élève-fonctionnaire.

    Échapper à la Tour d’Ivoire

    La finalité sociale d’une refondation de l’enseignement supérieur ne doit pas se réduire à la formation initiale des corps mettant en œuvre l’accès aux droits fondamentaux (soin, santé environnementale, génie civil, justice, éducation…). Plus généralement, le rôle de l’Université excède la question de l’émancipation “des étudiant·es” au sens d’un groupe social à la recherche d’une formation précise ou d’une qualification. À la crise environnementale qui frappe la terre entière selon des modalités différentes s’ajoute en France une crise sociale et démocratique profonde. L’objectif de refondation de l’Université est une étape de la réponse politique à cette triple crise.

    Nous devons satisfaire trois exigences : la première est l’autonomie intellectuelle et matérielle maximale de la jeunesse ; la deuxième nécessité est la réévaluation de l’utilité sociale des savoirs et des qualifications, contre les hiérarchies actuelles : il s’agit d’aller vers une organisation où un·e bachelier·e professionnel·le maîtrisant les bonnes techniques agro-écologiques ne se verra plus placé.e socialement et scolairement en-dessous d’un·e trader·euse polytechnicien·ne, ni un·e professeur·e des écoles en-dessous d’un·e publicitaire. Le troisième objectif, par lequel nous souhaitons terminer cette contribution, est l’octroi d’une formation scientifique, technique et artistique de qualité pour le plus grand nombre, condition nécessaire à un traitement démocratique et contradictoire des grands problèmes scientifiques, techniques et écologiques du moment.

    Ce dernier point impose un double mouvement. L’imbrication de l’Université dans la ville doit également concerner les formations elles-mêmes. L’Université doit être sa propre “#université_populaire”, dispensant des enseignements ouverts à toutes et tous. Cela peut se faire pour partie sous la forme d’une #formation_continue gratuite ; l’argent actuellement versé au titre de la formation continue serait alors converti en cotisations patronales à l’enseignement supérieur “par répartition”. Mais au-delà des formations continues, l’Université doit continuer de proposer des formations scientifiques non diplômantes et des cours libres à destination des publics intéressés, et étoffer cette offre lorsqu’elle existe.

    Réinstituer une #communauté_universitaire

    Ce plan suppose une émancipation des universitaires, en particulier des corps enseignants, qui soit l’œuvre des universitaires eux-mêmes. Or après vingt années de fabrication managériale du consentement, le refus ou la difficulté de penser la science et ses modalités de production, de réception et de critique prévalent dans l’esprit d’un grand nombre d’enseignant·es-chercheur·euses. Répondre en détail à ce défi imposerait un retour sur les #politiques_de_recherche qu’il s’agit de reconstruire, et sur l’organisation collective de l’#autonomie_du_monde_savant, avec ses conditions budgétaires et statutaires notamment. Cette affirmation ne relève pas du mot d’ordre catégoriel mais de la nécessité intellectuelle : une recherche scientifique de qualité, participant du libre exercice de la #disputatio ou discussion argumentée et orientée vers la recherche de la vérité, demande des garanties matérielles contre toute tentative d’intimidation ou toute dépendance vis-à-vis de donneur·euses d’ordres, de financeur·euses extérieur·es ou tout·e collègue plus puissant·e et susceptible de prendre ombrage d’un travail. La #liberté_académique a ses conditions de réalisation, et la première est d’offrir aux universitaires un statut pérennisant leur indépendance [12].

    La #précarisation objective et subjective des emplois universitaires et scientifiques change la nature de leur métier, et par ricochet, l’essence même de la recherche, et des formations dispensées à l’Université. En droit, cette protection statutaire s’étend à tous les corps de métier vitaux à l’exercice des missions universitaires. Pour nous, les personnes concernées ne sont pas des “personnels des universités” : elles sont l’Université en tant que communauté de pratiques et de buts. Aujourd’hui, une sphère bureaucratico-managériale s’est constituée par accrétion d’une partie de ces corps de métier (au premier rang desquels certain·es enseignant·es-chercheur·euses). Cette sphère se trouve de fait dans une situation de sécession vis-à-vis du reste de l’Université. Ses prébendes reposent sur la dépossession pratique des agent·es qui constituent la sphère académique. Pour le dire autrement : la sphère gestionnaire des universités se construit sur la négation de l’idée d’Université, et la reconstruction de celle-ci passera nécessairement par le démantèlement de celle-là.

    Le réarmement rationaliste critique a des implications pour l’organisation même de l’Université, qui doit être intégralement revue dans le sens d’une gestion collégiale à échelle humaine, avec rotation des responsabilités, réduction maximale de la division du travail, reconnaissance de la valeur de tous les métiers de l’enseignement supérieur et de la recherche, protection contre les différentes formes de harcèlement et d’intimidation, qu’elles émanent de l’intérieur ou de l’extérieur de l’institution. Cette auto-administration au plus près du terrain doit être redoublée par des garanties nationales en termes de péréquation territoriale et disciplinaire et par la présence d’instances démocratiques de coordination en réseau, selon le principe d’équilibre territorial énoncé plus haut. Les prérogatives accaparées par les bureaucraties depuis vingt ans doivent être reprises démocratiquement, à la fois au sommet (au niveau du pilotage national), et au niveau de l’organisation du fonctionnement des établissements.

    Il y a quelques années, un dirigeant d’université parisienne déplorait que son établissement, alors occupé par des étudiants, soit devenu un “capharnaüm” avec “de la violence, de la drogue, du sexe même” — il y aurait beaucoup à dire sur la hiérarchie des maux que construit cette formule. Signalons simplement que l’Université promue par ces dirigeants est une maison qui rend fou, pleine de violence, de CAME et de souffrance. L’avenir démocratique du pays dépend en partie de notre capacité à leur opposer une vision de l’Université comme tiers-lieu plein de controverses argumentées, d’invention intellectuelle et de #plaisir.

    [1] L’objet de cette contribution n’est pas de récapituler la littérature abondante consacrée à la critique de l’existant ou à la documentation des réformes. Pour une synthèse informée, on se reportera notamment à l’ouvrage de Chr. Granger La destruction de l’Université française (La Fabrique, 2015). On lira également avec intérêt, pour ce qui est des questions de formation, L’Université n’est pas en crise de R. Bodin et S. Orange (Le Croquant, 2013) et La Société du concours d’A. Allouch (Le Seuil, 2017). Le séminaire « Politique des Sciences » et la revue Contretemps Web proposent également des suivis analytiques intéressants de la mécanique réformatrice sur la moyenne durée. Pour une critique des premières étapes du programme réformateur, on lira notamment les travaux de Chr. Charle et Ch. Soulié, comme Les ravages de la « modernisation » universitaire en Europe (Paris : Syllepse, 2007) et La dérégulation universitaire : La construction étatisée des « marchés » des études supérieures dans le monde (Paris : Syllepse, 2015).

    [2] Chr. Musselin, Le Marché des universitaires. France, Allemagne,États-Unis, Paris, Presses de Sciences Po, 2005 ; Chr. Musselin, La grande course des universités,Paris, Presse de Sciences Po, 2017.

    [3] Ph. Aghion, É. Cohen (avec É. Dubois et J. Vandenbussche). Éducation et croissance. Rapport du Conseil d’Analyse Économique, 2004. https://www.cae-eco.fr/Education-et-croissance.html

    [4] Il faudrait également analyser sur la durée la production de think tanks et de revues proches des milieux réformateurs. Citons par exemple plusieurs rapports de l’Institut Montaigne : J.-M. Schlenker, Université : pour une nouvelle ambition, avril 2015 ; G. Babinet & E. Husson (dir.), Enseignement supérieur et numérique : connectez-vous !, juin 2017 ; R. McInness (dir.), Enseignement supérieur et recherche : il est temps d’agir !, avril 2021. On pourra également prendre connaissance avec intérêt du dossier « Universités : vers quelle autonomie ? » paru dans Esprit en décembre 2007, sous la codirection d’Yves Lichtenberger, Emmanuel Macron et Marc-Olivier Padis.

    [5] On pourrait contester l’interprétation que Philippe Aghion, notamment, donne de Schumpeter, en objectant que les théories de celui-ci sont pensées pour l’innovation industrielle et prennent pour point de départ le profit lié au cycle de la marchandise. L’application de tels modèles à un capitalisme de crédit faisant une place importante à la dette étudiante représente une rupture par rapport au cadre initial de Schumpeter, rupture dont les tenants et aboutissants en terme d’économie politique gagneraient à être explicités par les économistes défendant de ce nouveau modèle.

    [6] O. Bouba-Olga et M. Grossetti, “La mythologie CAME (Compétitivité, Attractivité, Métropolisation, Excellence) : comment s’en désintoxiquer ?”, 2018. hal-01724699v2

    [7] L. Boltanski et E. Chiapello, Le Nouvel Esprit du Capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.

    [8] La réflexion politique de RogueESR étant articulée autour des notions d’autonomie et de liberté, nous employons de préférence le terme d’ »émancipation », à la fois pour sa dimension simultanément collective et individuelle, pour sa capacité à désigner l’autoritarisme réformateur comme adversaire central, et pour sa faculté à souligner qu’il ne s’agit pas d’offrir l’éducation à celles et ceux qui en sont privés, mais aussi de libérer celle-ci. Mais au moins pour ce qui est de son premier volet, ce programme d’émancipation rejoint la problématique de la « démocratisation » posée par le Groupe de Recherches pour la Démocratisation Scolaire.

    [9] D. Flacher, H. Harari-Kermadec, L. Moulin. “Régime par répartition dans l’enseignement supérieur : fondements théoriques et estimations empiriques », Économie et Institutions, 2018. DOI : 10.4000/ei.6233

    [10] Le projet de “collège de premier cycle” de l’université Paris-Saclay a montré que le même établissement peut parfois jouer tour à tour les deux rôles via des dispositifs de différenciation interne.

    [11] Assurément, ces changements, qui n’affecteront qu’une minorité d’étudiant·es, se heurteront à une résistance considérable compte tenu du rôle que les corps concernés jouent dans l’appareil d’Etat. C’est l’une des raisons pour lesquelles nous récusons l’idée qu’une refondation de l’enseignement supérieur pourrait se faire sur la seule base de revendications catégorielles ou à plus forte raison strictement budgétaires : le concept d’Université, pour être réalisé, demande une articulation à un programme de ré-institution plus large de la société.

    [12] Cela implique un plan de rattrapage pour l’emploi titulaire, à destination des universitaires précaires qui assurent aujourd’hui des tâches fondamentales dans tous les corps de métiers. Dans la mesure où le chiffre de 15.000 postes parfois avancé est manifestement insuffisant puisqu’inférieur à ce que nécessiterait le simple maintien des taux d’encadrement tels qu’ils étaient en 2010, nous ne nous avancerons pas sur un chiffrage : celui-ci devra être réalisé a posteriori, sur la base d’un audit des besoins qui en définisse le plancher – et non le plafond. Pour un chiffrage des besoins, voir https://tinyurl.com/2jmfd5k9. Le collectif Université Ouverte a également publié des éléments de chiffrage : https://tinyurl.com/4uptvran

    https://mouvements.info/liberte-exigence-emancipation-reinstituer-luniversite

  • RÉUSSIR L’ACCUEIL ET L’INTÉGRATION DES RÉFUGIÉS EN FRANCE

    À un an des présidentielles, #JRS France a publié un rapport « Bien accueillir les réfugiés et mieux les intégrer », avec le soutien de l’Association Nationale des Villes et Territoire Accueillants, les projets collectifs de Science Po, le Cnam et l’Icam. Nous proposons une série de recommandations aux pouvoirs publics sur l’accès effectif des demandeurs d’asile au marché du travail et aux formations.

    https://www.jrsfrance.org/reussir-laccueil-et-lintegration-des-refugies-en-france

    Pour télécharger le #rapport :
    https://www.jrsfrance.org/wp-content/uploads/2021/04/Rapport-JRS-France-Bien-accueillir-les-re%CC%81fugie%CC%81s-et-mieux-les-

    #JRS_France #intégration #travail #emploi #insertion_professionnelle #France #réfugiés #asile #migrations #formation #langue #cours_de_langue #enseignement_supérieur #compétences #apprentissage #accès_au_travail #dignité #Directive_Accueil #recommandations #formation_professionnelle

    via @karine4
    ping @isskein

    • Conférence de presse de présentation du rapport :
      https://www.facebook.com/jrs.france/videos/2984853098507693
      14.04.2021

      Je transcris ici les propos de #Thierry_Tuot, conseiller d’Etat, qui prends la parole en son nom et pas en celui de l’institution qu’il représente :

      A partir de la minute 21’26

      « Tout démontre que nous ne tirons aucun profit d’une sorte d’#agressivité, #dureté ou #harcèlement contre les demandeurs d’asile et que la #bienveillance facilite ultérieurement aussi bien l’application du droit lorsqu’il s’agit de reconduire les gens à la frontière que la bonne intégration. Cette espèce de sas d’agressivité et de harcèlement, de retard, de difficultés que nous imposons n’est profitable à personne. Evidemment pas à eux, mais pas à nous non plus. Quand quelqu’un a risqué sa vie pour traverser l’Afrique ou l’Asie, la Méditerannée et a échappé aux passeurs, à la mer et à la misère, qu’il soit ou non demandeur d’asile bien-fondé, ça n’est pas le #harcèlement_administratif qui va le dissuader de venir.
      Contrairement à ce qu’on nous disait il y a 10, 20 ou 40 ans, non, nous ne sommes toujours pas submergés, non, le Grand Remplacement n’a pas lieu, non, nous ne sommes pas plus pauvres parce qu’il y a plus d’immigrés. Je vous invite à relire les déclarations innombrables qui, depuis les années 70, nous expliquent que nous allons disparaître, que notre civilisation va s’effondrer, que notre modèle de vie va disparaître parce que nous avons renoncer à notre identité, à l’assimilation, à l’intégration. C’est exactement le contraire qui se passe.
      Il faut méditer l’exemple allemand. (...) Tout le monde disait en 2015 que la ’vague d’immigrés’ qu’Angela Merkel a accepté avec beaucoup de légèreté allait submerger l’Allemagne. (...) Comme elle le disait, ils pouvaient s’en sortir et il s’en sont sortis. Je constate d’ailleurs que, au fur et à mesure des élections, les partis les plus extrémistes et hostiles aux étrangers sont en déclin depuis qu’une politique d’intégration a été conduite en Allemagne. (...)
      Aujourd’hui la priorité reste toujours la même : nous devons, quand quelqu’un franchit la frontière, d’abord être bienveillant, parce que c’est la meilleure façon de pouvoir ensuite entretenir avec la relation que le droit commande. Il est inutile de vouloir sans cesse changer les règles. La seule question est de savoir ce que nous voulons. Nous avons souscrit les engagements internationaux - la Convention de Genève -, il faut les appliquer. Ceux qui ne relèvent pas de la Convention de Genève, il est légitime que nous mettions fin à leur séjour. Il faut le faire avec lucidité. Je rappelle que sur les 500’000 immigrés que les Allemands ont accueillis et qui n’avaient aucun droit de se considérer comme réfugiés, avec une politique extrêmement ferme de reconduite à la frontière, car en Allemagne on assigne les gens à résidence et si les personnes s’éloignent des camps dans lesquels on les héberge, soigne et protège ne peuvent pas toucher d’aide sociale... L’Allemagne a réussi à expulser 22’000 demandeurs. Les autres vont rester. Les proportions sont les mêmes chez nous. Et il n’y a pas de solution sauf à devenir une dictature sanguinaire qui, elle-même, aurait du mal à procéder aux expulsions. Il faut affronter cela avec #réalisme. Et le réalisme national, européen, c’est qu’une politique d’intégration bien conduite est moins coûteuse qu’une politique de prétendue reconduite à la frontière qui ne s’exécute pas et que, même dans cette perspective-là, avoir bien accueilli les gens dès le début, traité rapidement leur demande et mis fin à leur séjour dans des conditions de qualité, nous coûterait 10 fois moins cher et serait sans doute plus efficace que la politique crispée qui est la nôtre.
      Nous sommes un grand pays puissant et prospère, nous ne sommes pas menacés par les flux migratoires, c’est à nous de les maîtriser, les orienter et les traiter avec dignité. »

      #dissuasion #efficacité #inefficacité

  • #Budget genré de #Lyon : pour l’#égalité réelle femmes/hommes

    Pour la première fois en #France, une ville de plus de 500 000 habitants va mettre en place un #budget_sensible_au_genre. La ville de Lyon, sous l’impulsion d’#Audrey_Henocque, première adjointe en charge des #finances, et #Florence_Delaunay, adjointe à l’égalité femmes-hommes, va en effet évaluer son budget selon la répartition de la #dépense_publique envers les bénéficiaires hommes et femmes.

    En 2021, les #lignes_budgétaires de cinq directions seront analysées : une mairie d’arrondissement, le musée des beaux-arts pour la culture, la direction des sports, la direction des espaces verts et la direction de la commande publique. En 2022, ce seront l’ensemble des lignes budgétaires qui seront étudiées.

    L’objectif est de prendre conscience des #déséquilibres éventuels, et d’y répondre par des #actions_correctives.

    Dès 2021, pour répondre aux déséquilibres déjà criants, la ville de Lyon met également en place des actions pour renforcer l’égalité entre les femmes et les hommes, notamment en accordant autant de #subvention à l’OL féminin qu’à l’équipe masculine, et en travaillant sur les #cours_d’écoles à la fois pour les végétaliser, mais aussi les rendre plus adaptées à la #mixité des jeux. Pour que chacun et chacune ait sa place dans l’#espace_public, et dans la société. Pour passer d’une égalité de droits, à une #égalité_réelle entre les femmes et les hommes.

    Recommandé par l’ONU Femmes et le Conseil de l’Europe, le budget sensible au genre est déjà en place à #Vienne, capitale de l’Autriche, depuis plus de 15 ans, mais aussi au #Canada, #Mexique, #Australie, #Japon, #Islande. Marlène Schiappa avait d’ailleurs promis sa mise en place au niveau du budget de l’État. En matière d’environnement comme en matière d’égalité femmes-hommes, il y a ceux qui parlent, et les écologistes qui font.

    https://www.eelv.fr/budget-genre-de-lyon-pour-legalite-reelle-femmes-hommes

    #genre #école #féminisation_de_la_politique

  • Lancement du cycle de #conférence
    « Les #pédagogies de 2021 : enseignons à distance »

    Bonjour à toutes et tous,

    Ce cycle de conférences propose des rendez-vous mensuels, en compagnie de conférenciers ayant initié des #pratiques_pédagogiques variées. Les conférenciers rythment leurs partages d’expériences avec des exemples concrets et proposent un temps d’échanges avec leur public.

    « Pédagogie et #hybridation » : Le Jeudi 25 mars 2021 de 12h30 à 13h15
    Le premier rendez-vous du semestre sera co-animé par Marie Delcroix, enseignante PRAG en russe, et Daniel Frost, maître de conférence en anglais et chercheur en didactique des langues à l’Université Grenoble Alpes.
    Ils partageront leur expérience autour de la question suivante : Comment concevoir des ressources en ligne réexploitables ?
    Ces ressources ont été réalisées en équipe pédagogique au sein du projet HELD.
    >> S’inscrire à la conférence du 25 mars 2021 via le formulaire en ligne : https://www.univ-grenoble-alpes.fr/actualites/agenda/agenda-formation/pedagotalks-pedagogie-et-hybridation--626751.kjsp

    « Pédagogie et #scénarisation » : Le Jeudi 29 avril 2021 de 12h30 à 13h15
    Le second rendez-vous du semestre sera animé par Raphael Lachello, doctorant en histoire de l’éco-système à l’Université Grenoble Alpes.
    Cette année, il a cherché à répondre à la question : Comment captiver ses étudiants dans son cours malgré la #distance ?
    Il a basé ses cours en visioconférence sur un des cadres de référence de ses étudiants : le format « #Twitch » adapté à un #cours_universitaire.
    >> S’inscrire à la conférence du 29 avril 2021 via le formulaire en ligne : https://www.univ-grenoble-alpes.fr/actualites/agenda/agenda-formation/pedagotalks-pedagogie-et-scenarisation--814730.kjsp

    Ces 2 premières conférences auront lieu à distance, sur ZOOM.
    Pour recevoir le lien vers la conférence, inscrivez-vous !

    Toute l’équipe de la DAPI, Direction d’Appui à la Pédagogie et l’Innovation, vous souhaite une bonne journée.

    Reçu via email par la newsletter de l’#Université_Grenoble_Alpes, le 09.03.2021

    #normalisation #distanciel #ESR #enseignement_supérieur #enseignement_à_distance #facs #université #pédagogie

  • L’#enseignement_numérique ou le supplice des Danaïdes. Austérité, surveillance, désincarnation et auto-exploitation

    Où l’on apprend comment les étudiants en #STAPS de #Grenoble et #Saint-Étienne ont fait les frais de la #numérisation - #déshumanisation de l’#enseignement bien avant l’apparition du coronavirus. Et comment ce dernier pourrait bien avoir été une aubaine dans ce processus de #destruction programmé – via notamment la plate-forme #FUN (sic).

    Les #plateformes_numériques d’enseignement ne datent pas de la série quasiment continue de confinements imposés aux universités depuis mars 2020. Enseignante en géographie à l’Université Grenoble Alpes, je constate le développement croissant d’« outils numériques d’enseignement » dans mon cadre de travail depuis plus d’une dizaine d’années. En 2014, une « #licence_hybride », en grande majorité numérique, est devenue la norme à Grenoble et à Saint-Étienne dans les études de STAPS, sciences et techniques des activités physiques et sportives. En 2020, tous mes enseignements sont désormais numériques à la faveur de l’épidémie. Preuves à l’appui, ce texte montre que le passage total au numérique n’est pas une exceptionnalité de crise mais une #aubaine inédite d’accélération du mouvement de numérisation global de l’#enseignement_supérieur en France. La #souffrance et les dégâts considérables que provoque cette #numérisation_de_l’enseignement étaient aussi déjà en cours, ainsi que les #résistances.

    Une politique structurelle de #transformation_numérique de l’enseignement supérieur

    La licence hybride de l’UFR STAPS à Grenoble, lancée en 2014 et en majorité numérique, autrement dit « à distance », est une des applications « pionnières » et « innovantes » des grandes lignes stratégiques du ministère de l’Enseignement supérieur en matière d’enseignement numérique définies dès 2013. C’est à cette date que la plateforme FUN - #France_Université_Numérique [1] -, financée par le Ministère, a été ouverte, regroupant des #MOOC - Massive Open Online Courses - ayant pour but d’« inciter à placer le numérique au cœur du parcours étudiant et des métiers de l’enseignement supérieur et de la recherche [2] » sous couvert de « #démocratisation » des connaissances et « #ouverture au plus grand nombre ». De fait, la plateforme FUN, gérée depuis 2015 par un #GIP - #Groupe_d’Intérêt_Public [3] -, est organisée autour de cours gratuits et en ligne, mais aussi de #SPOC -#Small_Private_Online_Course- diffusés par deux sous-plateformes : #FUN-Campus (où l’accès est limité aux seuls étudiant·e·s inscrit·e·s dans les établissements d’enseignement qui financent et diffusent les cours et doivent payer un droit d’accès à la plateforme) et #FUN-Corporate (plate-forme destinée aux entreprises, avec un accès et des certifications payants). En 2015, le ministère de l’Enseignement supérieur présentait le nouveau « #GIP-FUN » et sa stratégie pour « mettre en place un modèle économique viable en développant de nouveaux usages de cours en ligne » avec :

    - une utilisation des MOOC en complément de cours sur les campus, voire en substitution d’un #cours_magistral, selon le dispositif de la #classe_inversée ;
    - une proposition de ces #cours_en_ligne aux salariés, aux demandeurs d’emploi, aux entreprises dans une perspective de #formation_continue ;
    – un déploiement des plateformes en marques blanches [4]

    Autrement dit, il s’agit de produire de la sur-valeur à partir des MOOC, notamment en les commercialisant via des #marques_blanches [5] et des #certifications_payantes (auprès des demandeurs d’emploi et des entreprises dans le cadre de la formation continue) et de les diffuser à large échelle dans l’enseignement supérieur comme facteur de diminution des #coûts_du_travail liés à l’#encadrement. Les MOOC, dont on comprend combien ils relèvent moins de l’Open Source que de la marchandise, sont voués aussi à devenir des produits commerciaux d’exportation, notamment dans les réseaux postcoloniaux de la « #francophonie [6] ». En 2015, alors que la plateforme FUN était désormais gérée par un GIP, vers une #marchandisation de ses « produits », était créé un nouveau « portail de l’enseignement numérique », vitrine de la politique du ministère pour « déployer le numérique dans l’enseignement supérieur [7] ». Sur ce site a été publié en mars 2016 un rapport intitulé « MOOC : À la recherche d’un #business model », écrit par Yves Epelboin [8]. Dans ce rapport, l’auteur compare en particulier le #coût d’un cours classique, à un cours hybride (en présence et via le numérique) à un cours uniquement numérique et dresse le graphique suivant de rentabilité :

    Le #coût fixe du MOOC, à la différence du coût croissant du cours classique en fonction du nombre d’étudiants, suffit à prouver la « #rentabilité » de l’enseignement numérique. La suite du document montre comment « diversifier » (depuis des partenariats publics-privés) les sources de financement pour rentabiliser au maximum les MOOC et notamment financer leur coût de départ : « la coopération entre les universités, les donateurs, des fonds spéciaux et d’autres sources de revenus est indispensable ». Enfin, en octobre 2019, était publié sur le site du ministère de l’Enseignement supérieur un rapport intitulé « #Modèle_économique de la transformation numérique des formations dans les établissements d’enseignement supérieur [9] », écrit par Éric Pimmel, Maryelle Girardey-Maillard et Émilie‐Pauline Gallie, inspecteurs généraux de l’éducation, du sport et de la recherche. Le rapport commence par le même invariable constat néolibéral d’#austérité : « croissance et diversité des effectifs étudiants, concurrence nationale et internationale, égalité d’accès à l’enseignement supérieur dans les territoires et augmentation des coûts, dans un contexte budgétaire contraint », qui nécessitent donc un développement généralisé de l’enseignement numérique. La préconisation principale des autrices·teurs du rapport tient dans une « réorganisation des moyens » des universités qui :

    « consiste notamment à réduire le volume horaire des cours magistraux, à modifier les manières d’enseigner (hybridation, classes inversées...) et à répartir différemment les heures de cours, voire d’autres ressources, comme les locaux par exemple. Les économies potentielles doivent être chiffrées par les établissements qui devront, pour ne pas se voir reprocher de dégrader les conditions d’enseignement, redéployer ces montants dans les équipements ou le développement de contenus pédagogiques. »

    Autrement dit encore, pour financer le numérique, il s’agit de « redéployer » les moyens en encadrement humain et en locaux, soit les moyens relatifs aux cours « classiques », en insistant sur la dimension « pédagogique » du « redéploiement » pour « ne pas se voir reprocher de dégrader les conditions d’enseignement ». Le financement du numérique dans l’enseignement universitaire par la marchandisation des MOOC est aussi envisagé, même si cette dernière est jugée pour l’instant insuffisante, avec la nécessité d’accélérer les sources de financement qu’ils peuvent générer : « Le développement de nouvelles ressources propres, tirées notamment de l’activité de formation continue ou liées aux certificats délivrés dans le cadre des MOOCs pourrait constituer une voie de développement de ressources nouvelles. » Un programme « ambitieux » d’appel à « #flexibilisation des licences » a d’ailleurs été lancé en 2019 :

    Au‐delà de la mutualisation des ressources, c’est sur la mutualisation des formations qu’est fondé le projet « #Parcours_Flexibles_en_Licence » présenté par la mission de la pédagogie et du numérique pour l’enseignement supérieur (#MIPNES / #DGESIP) au deuxième appel à projets du #fonds_pour_la_transformation_de_l’action_publique (#FTAP) et financé à hauteur de 12,4 M€ sur trois ans. La mission a retenu quatre scénarios qui peuvent se combiner :

    - l’#hybridation d’une année de licence ou le passage au #tout_numérique ;

    - la transformation numérique partielle de la pédagogie de l’établissement ;

    - la #co‐modalité pour répondre aux contraintes ponctuelles des étudiants ;

    - les MOOCS comme enjeu de visibilité et de transformation.

    Le ministère a pour ambition, depuis 2013 et jusqu’à aujourd’hui, « la transformation numérique partielle de la pédagogie des établissements ». Les universités sont fermées depuis quasiment mars 2020, avec une courte réouverture de septembre à octobre 2020. L’expérience du passage au numérique, non plus partiel, mais total, est en marche dans la start-up nation.

    Nous avons déjà un peu de recul sur ce que l’enseignement numérique produit comme dégâts sur les relations d’enseignement, outre la marchandisation des connaissances qui remet en cause profondément ce qui est enseigné.

    A Grenoble, la licence « pionnière » de STAPS- Sciences et Techniques des Activités Physiques et Sportives

    En 2014 et dans le cadre des politiques financières décrites précédemment, était lancée à Grenoble une licence « unique en son genre » de STAPS- Sciences et Techniques des Activités Physiques et Sportives dont voici le fonctionnement :

    Les universités Grenoble-Alpes et Jean-Monnet-Saint-Étienne proposent une licence STAPS, parcours « entraînement sportif », unique en son genre : la scolarité est asynchrone, essentiellement à distance, et personnalisée.

    Cette licence s’appuie sur un dispositif de formation hybride : les étudiant·e·s s’approprient les connaissances chez eux, à leur rythme avant de les manipuler lors de cours en présentiel massés.

    Le travail personnel à distance s’appuie sur de nouvelles pédagogies dans l’enseignement numérique : les cours #vidéos, les #screencasts, #quizz et informations complémentaires s’articulent autour de #parcours_pédagogiques ; des sessions de #classe_virtuelle sont également organisées à distance [10].

    Dès 2017, des enseignant·e·s de STAPS faisaient paraître un texte avec la section grenobloise du syndicat FSU - Fédération Syndicale Unitaire - intitulé « Les STAPS de Grenoble sont-ils un modèle à suivre ? ». Les auteur·trice·s expliquaient que, en 2014, la présidence de l’université avait instrumentalisé un « dilemme impossible : “la pédagogie numérique ou la limitation d’accueil” ». Il s’agit ici d’un exemple significatif de technique néolibérale de capture de l’intérêt liée à la rhétorique de l’#austérité. Ce même non-choix a été appliqué dans l’organisation de la #PACES à Grenoble, première année de préparation aux études de médecine : numérique ou limitation drastique des étudiant·e·s accueilli·e·s. La tierce voie, toujours écartée, est évidemment celle de recruter plus d’enseignant·e·s, de personnels administratifs, de réduire les groupes d’amphithéâtres, de construire des locaux qui permettent à des relations d’enseignement d’exister. En 2017, les enseignant·e·s de STAPS constataient, effectivement, que « l’enseignement numérique permet(tait) d’accueillir beaucoup de monde avec des moyens constants en locaux et personnels enseignants titulaires (postes) ; et même avec une diminution des #coûts_d’encadrement ». Elles et ils soulignaient dans le même temps que le niveau d’#épuisement et d’#isolement des enseignant·e·s et des étudiant·e·s était inédit, assorti d’inquiétudes qui résonnent fortement avec la situation que nous traversons aujourd’hui collectivement :

    —Nous craignons que le système des cours numérisés s’accompagne d’une plus grande difficulté à faire évoluer les contenus d’enseignements compte tenu du temps pour les réaliser.
    — Nous redoutons que progressivement les cours de L1 soient conçus par un seul groupe d’enseignants au niveau national et diffusé dans tous les UFR de France, l’enseignant local perdant ainsi la main sur les contenus et ceux-ci risquant de se rigidifier.
    — Un certain nombre de travaux insistent sur le temps considérable des jeunes générations accrochées à leur smartphone, de 4 à 6 heures par jour et signalent le danger de cette pratique pour la #santé physique et psychique. Si s’ajoutent à ces 4 à 6 heures de passe-temps les 3 ou 4 heures par jour de travail des cours numériques sur écran, n’y a-t-il pas à s’inquiéter ?
    — Si les étudiants de L1 ne sont plus qu’une douzaine d’heures par semaine à l’université pour leurs cours, qu’en est-il du rôle de #socialisation de l’université ?

    (…)

    Il est tout de même très fâcheux de faire croire qu’à Grenoble en STAPS en L1, avec moins de moyens humains nous faisons aussi bien, voire mieux, et que nous ayons trouvé la solution au problème du nombre. Il serait plus scrupuleux d’exposer que :

    — nous sommes en difficulté pour défendre la qualité de nos apprentissages, que sans doute il y a une perte quant aux compétences formées en L1 et que nous devrons compenser en L2, L3, celles-ci. Ce qui semble très difficile, voire impossible ;
    — le taux de réussite légèrement croissant en L1 se fait sans doute à ce prix et qu’il est toujours faible ;
    — nous nous interrogeons sur la faible participation de nos étudiants au cours de soutien (7 % ) ;
    — nous observons que les cours numériques n’ont pas fait croître sensiblement la motivation des étudiants [11].

    Ces inquiétudes, exprimées en 2017, sont désormais transposables à large échelle. Les conditions actuelles, en période de #confinement et de passage au tout numérique sur fond de #crise_sanitaire, ne sont en effet ni « exceptionnelles », ni « dérogatoires ». Ladite « #exceptionnalité de crise » est bien plus l’exacerbation de ce qui existe déjà. Dans ce contexte, il semble tout à fait légitime de s’interroger sur le très probable maintien de l’imposition des fonctionnements généralisés par temps de pandémie, aux temps « d’après », en particulier dans le contexte d’une politique très claire de transformation massive de l’#enseignement_universitaire en enseignement numérique. Ici encore, l’analyse des collègues de STAPS publiée en 2017 sur les modalités d’imposition normative et obligatoire de mesures présentées initialement comme relevant du « volontariat » est éloquente :

    Alors qu’initialement le passage au numérique devait se faire sur la base du #volontariat, celui-ci est devenu obligatoire. Il reste à l’enseignant ne souhaitant pas adopter le numérique la possibilité d’arrêter l’enseignement qui était le sien auparavant, de démissionner en quelque sorte. C’est sans doute la première fois, pour bon nombre d’entre nous, qu’il nous est imposé la manière d’enseigner [12].

    Depuis 2020, l’utopie réalisée. Passage total à l’enseignement numérique dans les Universités

    Depuis mars et surtout octobre 2020, comme toutes les travailleur·se·s et étudiant·e·s des universités en France, mes pratiques d’enseignement sont uniquement numériques. J’avais jusqu’alors résisté à leurs usages, depuis l’analyse des conditions contemporaines du capitalisme de plateforme lié aux connaissances : principalement (1) refuser l’enclosure et la #privatisation des connaissances par des plateformes privées ou publiques-privées, au service des politiques d’austérité néolibérale destructrices des usages liés à l’enseignement en présence, (2) refuser de participer aux techniques de surveillance autorisées par ces outils numériques. Je précise ici que ne pas vouloir déposer mes cours sur ces plateformes ne signifiait pas me replier sur mon droit de propriété intellectuelle en tant qu’enseignante-propriétaire exclusive des cours. Au contraire, un cours est toujours co-élaboré depuis les échanges singuliers entre enseignant·e·s et étudiant·e·s ; il n’est pas donc ma propriété exclusive, mais ressemble bien plus à un commun élaboré depuis les relations avec les étudiant·e·s, et pourrait devoir s’ouvrir à des usages et des usager·ère·s hors de l’université, sans aucune limite d’accès. Sans défendre donc une propriété exclusive, il s’agit dans le même temps de refuser que les cours deviennent des marchandises via des opérateurs privés ou publics-privés, déterminés par le marché mondial du capitalisme cognitif et cybernétique, et facilité par l’État néolibéral, comme nous l’avons vu avec l’exposé de la politique numérique du ministère de l’Enseignement supérieur.

    Par ailleurs, les plateformes d’enseignement numérique, en particulier de dépôt et diffusion de documents, enregistrent les dates, heures et nombres de clics ou non-clics de toutes celles et ceux qui les utilisent. Pendant le printemps 2020, sous les lois du premier confinement, les débats ont été nombreux dans mon université pour savoir si l’ « #assiduité », comme facteur d’ « #évaluation » des étudiant·e·s, pouvait être déterminée par les statistiques individuelles et collectives générées par les plateformes : valoriser celles et ceux qui seraient les plus connectées, et pénaliser les autres, autrement dit « les déconnecté·e·s », les dilettantes. Les éléments relatifs à la #fracture_numérique, l’inégal accès matériel des étudiant·e·s à un ordinateur et à un réseau internet, ont permis de faire taire pendant un temps celles et ceux qui défendaient ces techniques de #surveillance (en oubliant au passage qu’elles et eux-mêmes, en tant qu’enseignant·e·s, étaient aussi possiblement surveillé·e·s par les hiérarchies depuis leurs fréquences de clics, tandis qu’elles et ils pouvaient s’entre-surveiller depuis les mêmes techniques).

    Or depuis la fermeture des universités, ne pas enseigner numériquement signifie ne pas enseigner du tout. Refuser les plateformes est devenu synonyme de refuser de faire cours. L’épidémie a créé les conditions d’un apparent #consentement collectif, d’une #sidération aussi dont il est difficile de sortir. Tous les outils que je refusais d’utiliser sont devenus mon quotidien. Progressivement, ils sont même devenus des outils dont je me suis rendue compte dépendre affectivement, depuis un rapport destructeur de liens. Je me suis même mise à regarder les statistiques de fréquentation des sites de mes cours, les nombres de clics, pour me rassurer d’une présence, là où la distance commençait à creuser un vide. J’ai eu tendance à surcharger mes sites de cours de « ressources », pour tenter de me rassurer sur la possibilité de resserrer des liens, par ailleurs de plus en plus ténus, avec les étudiant·e·s, elles-mêmes et eux-mêmes confronté·e·s à un isolement et une #précarisation grandissantes. Là où la fonction transitionnelle d’objets intermédiaires, de « médias », permet de symboliser, élaborer l’absence, j’ai fait l’expérience du vide creusé par le numérique. Tout en étant convaincue que l’enseignement n’est jamais une affaire de « véhicule de communication », de « pédagogie », de « contenus » à « communiquer », mais bien une pratique relationnelle, réciproque, chargée d’affect, de transfert, de contre-transfert, que « les choses ne commencent à vivre qu’au milieu [13] », je n’avais jamais éprouvé combien la « communication de contenus » sans corps, sans adresse, créait de souffrance individuelle, collective et d’auto-exploitation. Nombreuses sont les analyses sur la difficulté de « #concentration », de captation d’une #attention réduite, derrière l’#écran. Avec Yves Citton et ses travaux sur l’#écologie_de_l’attention, il m’apparaît que la difficulté est moins celle d’un défaut de concentration et d’attention, que l’absence d’un milieu relationnel commun incarné :
    Une autre réduction revient à dire que c’est bien de se concentrer et que c’est mal d’être distrait. Il s’agit d’une évidence qui est trompeuse car la concentration n’est pas un bien en soi. Le vrai problème se situe dans le fait qu’il existe toujours plusieurs niveaux attentionnels. (…) La distraction en soi n’existe pas. Un élève que l’on dit distrait est en fait attentif à autre chose qu’à ce à quoi l’autorité veut qu’il soit attentif [14].

    La souffrance ressentie en tant que désormais « enseignante numérique » n’est pas relative à ce que serait un manque d’attention des étudiant·e·s généré par les écrans, mais bien à l’absence de #relation incarnée.

    Beaucoup d’enseignant·e·s disent leur malaise de parler à des « cases noires » silencieuses, où figurent les noms des étudiant·e·s connecté·e·s au cours. Ici encore, il ne s’agit pas de blâmer des étudiant·e·s qui ne « joueraient pas le jeu », et n’ouvriraient pas leurs caméras pour mieux dissimuler leur distraction. Outre les questions matérielles et techniques d’accès à un matériel doté d’une caméra et d’un réseau internet suffisamment puissant pour pouvoir suivre un cours et être filmé·e en même temps, comment reprocher à des étudiant·e·s de ne pas allumer la caméra, qui leur fait éprouver une #intrusion dans l’#espace_intime de leur habitation. Dans l’amphithéâtre, dans la salle de classe, on peut rêver, regarder les autres, regarder par la fenêtre, regarder par-dessus le tableau, à côté, revenir à sa feuille ou son écran…pas de gros plan sur le visage, pas d’intrusion dans l’espace de sa chambre ou de son salon. Dans une salle de classe, la mise en lien est celle d’une #co-présence dans un milieu commun indéterminé, sans que celui-ci n’expose à une intrusion de l’espace intime. Sans compter que des pratiques d’enregistrement sont possibles : où voyagent les images, et donc les images des visages ?

    Pour l’enseignant·e : parler à des cases noires, pour l’étudiant·e : entendre une voix, un visage en gros plan qui ne le·la regarde pas directement, qui invente une forme d’adresse désincarnée ; pour tou·te·s, faire l’expérience de l’#annihilation des #corps. Même en prenant des notes sur un ordinateur dans un amphithéâtre, avec un accès à internet et maintes possibilités de « s’évader » du cours, le corps pris dans le commun d’une salle engage des #liens. Quand la relation ne peut pas prendre corps, elle flotte dans le vide. Selon les termes de Gisèle Bastrenta, psychanalyste, l’écran, ici dans la relation d’enseignement, crée l’« aplatissement d’un ailleurs sans au-delà [15] ».

    Le #vide de cet aplatissement est synonyme d’#angoisse et de symptômes, notamment, celui d’une #auto-exploitation accrue. Le récit de plusieurs étudiant.e.s fait écho à l’expérience d’auto-exploitation et angoisse que je vis, depuis l’autre côté de l’écran. Mes conditions matérielles sont par ailleurs très souvent nettement meilleures aux leurs, jouissant notamment de mon salaire. La précarisation sociale et économique des étudiant·e·s creuse encore le vide des cases noires. Plusieurs d’entre elles et eux, celles et ceux qui peuvent encore se connecter, expliquent qu’ils n’ont jamais autant passé d’heures à écrire pour leurs essais, leurs dissertations…, depuis leur espace intime, en face-à-face avec les plateformes numériques qui débordent de fichiers de cours, de documents… D’abord, ce temps très long de travail a souvent été entrecoupé de crises de #panique. Ensuite, ce temps a été particulièrement angoissant parce que, comme l’explique une étudiante, « tout étant soi-disant sur les plateformes et tout étant accessible, tous les cours, tous les “contenus”, on s’est dit qu’on n’avait pas le droit à l’erreur, qu’il fallait qu’on puisse tout dire, tout écrire, tout ressortir ». Plutôt qu’un « contenu » élaborable, digérable, limité, la plateforme est surtout un contenant sans fond qui empêche d’élaborer une #réflexion. Plusieurs étudiant·e·s, dans des échanges que nous avons eus hors numérique, lors de la manifestation du 26 janvier 2021 à l’appel de syndicats d’enseignant·e·s du secondaire, ont également exprimé cet apparent #paradoxe : -le besoin de plus de « #contenu », notamment entièrement rédigé à télécharger sur les plateformes pour « mieux suivre » le cours, -puis, quand ce « contenu » était disponible, l’impression de complètement s’y noyer et de ne pas savoir quoi en faire, sur fond de #culpabilisation d’« avoir accès à tout et donc de n’avoir pas le droit à l’erreur », sans pour autant parvenir à élaborer une réflexion qui puisse étancher cette soif sans fin.

    Face à l’absence, la privatisation et l’interdiction de milieu commun, face à l’expression de la souffrance des étudiant·e·s en demande de présence, traduite par une demande sans fin de « contenu » jamais satisfaite, car annulée par un cadre désincarné, je me suis de plus en plus auto-exploitée en me rendant sur les plateformes d’abord tout le jour, puis à des heures où je n’aurais pas dû travailler. Rappelons que les plateformes sont constamment accessibles, 24h/24, 7j/7. Poster toujours plus de « contenu » sur les plateformes, multiplier les heures de cours via les écrans, devoir remplir d’eau un tonneau troué, supplice des Danaïdes. Jusqu’à l’#épuisement et la nécessité - politique, médicale aussi - d’arrêter. Alors que je n’utilisais pas les plateformes d’enseignement numérique, déjà très développées avant 2020, et tout en ayant connaissance de la politique très offensive du Ministère en matière de déshumanisation de l’enseignement, je suis devenue, en quelque mois, happée et écrasée par la fréquentation compulsive des plateformes. J’ai interiorisé très rapidement les conditions d’une auto-exploitation, ne sachant comment répondre, autrement que par une surenchère destructrice, à la souffrance généralisée, jusqu’à la décision d’un arrêt nécessaire.

    L’enjeu ici n’est pas seulement d’essayer de traverser au moins pire la « crise » mais de lutter contre une politique structurelle de #destruction radicale de l’enseignement.

    Créer les milieux communs de relations réciproques et indéterminées d’enseignement, depuis des corps présents, et donc des présences et des absences qui peuvent s’élaborer depuis la #parole, veut dire aujourd’hui en grande partie braconner : organiser des cours sur les pelouses des campus…L’hiver est encore là, le printemps est toujours déjà en germe.

    https://lundi.am/L-enseignement-numerique-ou-le-supplice-des-Danaides

    #numérique #distanciel #Grenoble #université #facs #France #enseignement_à_distance #enseignement_distanciel

    • Le #coût fixe du MOOC, à la différence du coût croissant du cours classique en fonction du nombre d’étudiants, suffit à prouver la « #rentabilité » de l’enseignement numérique.

      mais non ! Si la création du MOOC est effectivement un coût fixe, son fonctionnement ne devrait pas l’être : à priori un cours en ligne décemment conçu nécessite des interactions de l’enseignant avec ses étudiants...

  • L’#excellence en temps de pandémie : chronique du #naufrage des Universités

    Entre mesures incohérentes des responsables politiques, #inaction des instances universitaires et #chaos_organisationnel dans les services, accompagner correctement les étudiants en pleine crise sanitaire sur fond de généralisation de l’#enseignement_à_distance devient une mission impossible... Petit aperçu du quotidien dans la « #Big_French_University ».

    Maîtresse de conférences depuis cinq ans dans une « grande » Université parisienne et responsable d’une L1 depuis septembre, je prends le temps aujourd’hui de décrire un peu ce à quoi ressemble la vie d’une universitaire d’un établissement qui se dit d’excellence en temps de #crise_sanitaire.

    Depuis peu, mon université a été fusionnée dans un énorme établissement, gros comme trois universités, qui désormais s’enorgueillit d’émarger au top 100 du #classement_de_Shanghai.

    Mais depuis septembre, étudiants, personnels administratifs et enseignants-chercheurs vivent un véritable #cauchemar au sein de cet établissement "d’excellence". Je ne pourrai pas retranscrire ici l’expérience des étudiants ni celle des personnels administratifs. Car je ne l’ai pas vécue de l’intérieur. Mais comme enseignante-chercheure et responsable pédagogique d’une promo de 250 étudiants de L1, j’ai un petit aperçu aussi de ce qu’elles et ils ont vécu. Si j’écris sur mon expérience personnelle en utilisant « je », ce n’est pas pour me singulariser, mais c’est pour rendre concret le quotidien actuel au sein des universités de toute une partie de celles et ceux qui y travaillent et y étudient. Ce texte se nourrit des échanges avec des collègues de mon université, enseignants-chercheurs et administratifs, et d’autres universités en France, il a été relu et amendé par plusieurs d’entre elles et eux – que je remercie.

    Depuis juillet, nous préparons une #rentrée dans des conditions d’#incertitude inégalée : crise sanitaire et #fusion. Quand je dis "nous", je parle du niveau le plus local : entre enseignants chercheurs, avec l’administration la plus proche de nous, les collègues de la logistique, de la scolarité, des ressources humaines. Car nous avons peu de nouvelles de notre Université…

    Sur la crise sanitaire

    Notre Université a acheté des licences #Zoom. Voilà à peu près tout ce qui a été fait pour anticiper la crise sanitaire qui s’annonçait pourtant. A part cela, rien n’a été fait. Rien.

    En septembre, aucune consigne claire à l’échelle de l’Université n’a été donnée : sur un site d’enseignement, il fallait respecter des #demies_jauges ; sur un autre campus du même établissement, pas de contrainte de demies jauges. Mais quelles jauges faut-il mettre en œuvre : diviser les effectifs par deux ? Mettre en place une distance d’un mètre ? Un mètre sur les côtés seulement ou devant/derrière aussi ? Les équipes logistiques s’arrachent les cheveux.

    L’université n’a rien fait pour rendre possible les #demi-groupes.

    Aucun système de semaine A/semaine B n’a été proposé et, chez nous, tout a été bricolé localement, par les enseignants-chercheurs, en faisant des simulations sur excel ("on découpe par ordre alphabétique ou par date de naissance ?"). Aucun #équipement des salles pour la captation vidéo et audio n’a été financé et mis en place, pour permettre des #cours_en_hybride : les expériences - que j’ai tentées personnellement - du "#bimodal" (faire cours à des étudiants présents et des étudiants absents en même temps) ont été faites sur l’équipement personnel de chacun.e, grâce à la caméra de mon ordinateur portable et mes propres oreillettes bluetooth. Et je ne parle pas des capteurs de CO2 ou des systèmes de #ventilation préconisés depuis des mois par des universitaires.

    Depuis, nous naviguons à vue.

    Au 1er semestre, nous avons changé trois fois de système d’organisation : jauges pleines pendant une semaine sur un site, puis demi jauge sur tous les sites, puis distanciel complet. Ce sont à chaque fois des programmes de cours qu’il faut refaire. Car sans équipement, quand on a des demi groupes, on doit dédoubler les séances, diviser le programme par deux, et faire deux fois le même cours pour chaque demi groupe. Tout en préparant des contenus et exercices pour les étudiants contraints de rester chez eux. Avec des groupes complets sur Zoom, l’#organisation change à nouveau.

    Alors même que le gouvernement annonçait la tenue des examens en présentiel en janvier, notre UFR a décidé de faire les examens à distance, pour des raisons compréhensibles d’anticipation sanitaire.

    Le gouvernement faisait de la communication, et localement on était obligé de réfléchir à ce qui était épidémiologiquement le plus réaliste. La période des #examens a été catastrophique pour les étudiants qui ont dû les passer en présentiel : des étudiants ont été entassés dans des amphis, terrorisés de ramener le virus à leurs parents déjà fragiles ; d’autres, atteints du Covid, se sont rendus en salle d’examen car ils n’étaient pas assurés sinon de pouvoir valider leur semestre. Les #examens_à_distance ne sont qu’un pis-aller, mais dans notre Licence, on a réussi à faire composer nos étudiants à distance, en bricolant encore des solutions pour éviter les serveurs surchargés de l’Université, sans grande catastrophe et sans abandon massif, on en était assez fiers.

    Le 2e semestre commence, et les #annonces_contradictoires et impossibles du gouvernement continuent.

    Le 14 janvier le gouvernement annonce que les cours reprendront en présentiel demie jauge le 25 janvier pour les étudiants de L1. Avec quels moyens ??? Les mêmes qu’en septembre, c’est-à-dire rien. Alors qu’en décembre, le président de la république avait annoncé une possible réouverture des universités 15 jours après le 20 janvier, c’est-à-dire le 10 février (au milieu d’une semaine, on voit déjà le réalisme d’une telle annonce...).

    A cette annonce, mes étudiants étrangers repartis dans leur famille en Égypte, en Turquie, ou ailleurs en France, s’affolent : ils avaient prévu de revenir pour le 8 février, conformément aux annonces du président. Mais là, ils doivent se rapatrier, et retrouver un #logement, en quelques jours ? Quant aux #équipes_pédagogiques, elles doivent encore bricoler : comment combiner #présentiel des demi groupes en TD avec le #distanciel des CM quand les étudiants sur site ne sont pas autorisés à occuper une salle de cours pour suivre un cours à distance s’il n’y a pas de prof avec eux ? Comment faire pour les créneaux qui terminent à 18h alors que les circulaires qui sortent quelques jours plus tard indiquent que les campus devront fermer à 18h, voire fermer pour permettre aux étudiants d’être chez eux à 18h ?

    Dans notre cursus de L1, 10 créneaux soit l’équivalent de 250 étudiants sont concernés par des créneaux terminant à 18h30. Dans mon université, les étudiants habitent souvent à plus d’une heure, parfois deux heures, du campus. Il faut donc qu’on passe tous les cours commençant après 16h en distanciel ? Mais si les étudiants sont dans les transports pour rentrer chez eux, comment font-ils pour suivre ces cours en distanciel ? Sur leur smartphone grâce au réseau téléphone disponible dans le métro et le RER ?

    Nous voulons revoir les étudiants. Mais les obstacles s’accumulent.

    On organise tout pour reprendre en présentiel, au moins deux semaines, et petit à petit, l’absence de cadrage, l’accumulation des #contraintes nous décourage. A quatre jours de la rentrée, sans information de nos instances ne serait-ce que sur l’heure de fermeture du campus, on se résout à faire une rentrée en distanciel. Les étudiants et nous sommes habitués à Zoom, le lien a été maintenu, peu d’abandons ont été constatés aux examens de fin de semestre.

    C’est une solution peu satisfaisante mais peut-être que c’est la seule valable... Et voilà que jeudi 21 janvier nous apprenons que les Présidences d’Université vont émettre des circulaires rendant ce retour au présentiel obligatoire. Alors même que partout dans les médias on parle de reconfinement strict et de fermeture des écoles ? Rendre le présentiel obligatoire sans moyen, sans organisation, de ces demis groupes. Je reçois aujourd’hui les jauges des salles, sans que personne ne puisse me dire s’il faudra faire des demi salles ou des salles avec distanciation de 1 mètre, ce qui ne fait pas les mêmes effectifs. Il faut prévenir d’une reprise en présentiel les 250 étudiants de notre L1 et les 37 collègues qui y enseignent deux jours avant ?

    Breaking news : à l’heure où j’écris Emmanuel Macron a annoncé une nouvelle idée brillante.

    Les étudiants devront venir un jour par semaine à la fac. Dans des jauges de 20% des capacités ? Sur la base du volontariat ? Est-ce qu’il a déjà regardé un planning de L1 ? 250 étudiants en L1 avec plusieurs Unités d’enseignement, divisés en CM et TD, c’est des dizaines et des dizaines de créneaux, de salles, d’enseignant.es. Une L1 c’est un lycée à elle toute seule dans beaucoup de filières. Un lycée sans les moyens humains pour les gérer.

    Derrière ces annonces en l’air qui donnent l’impression de prendre en compte la souffrance étudiante, ce sont des dizaines de contraintes impossibles à gérer. Les étudiants veulent de la considération, de l’argent pour payer leur loyer alors qu’ils ont perdu leurs jobs étudiants, des moyens matériels pour travailler alors que des dizaines d’entre eux suivent les cours en visio sur leur téléphone et ont dû composer aux examens sur leur smartphone !

    Les étudiants ne sont pas plus stupides ou irresponsables que le reste de la population : il y a une crise sanitaire, ils en ont conscience, certains sont à risque (oui, il y a des étudiants immuno-déprimés qui ne peuvent pas prendre le #risque de venir en cours en temps d’épidémie aiguë), ils vivent souvent avec des personnes à risque. Ils pourraient prendre leur parti du distanciel pour peu que des moyens leur soient donnés. Mais il est plus facile d’annoncer la #réouverture des universités par groupe de 7,5 étudiants, pendant 1h15, sur une jambe, avec un chapeau pointu, que de débloquer de réels moyens pour faire face à la #précarité structurelle des étudiants.

    Et dans ce contexte, que fait notre Présidence d’Université ? Quelles ont été les mesures prises pour la réouvrir correctement ? Je l’ai déjà dit, rien n’a changé depuis septembre, rien de plus n’a été mis en place.

    Sur la fusion et le fonctionnement, de l’intérieur, d’une Université d’excellence

    Mais sur cette crise sanitaire se greffe une autre crise, interne à mon Université, mais symptomatique de l’état des Universités en général.

    Donc oui, j’appartiens désormais à une Université entrée dans le top 100 des Universités du classement de Shanghai.

    Parlez-en aux étudiants qui y ont fait leur rentrée en septembre ou y ont passé leurs examens en janvier. Sur twitter, mon Université est devenu une vraie célébrité : en septembre-octobre, des tweets émanant d’étudiants et d’enseignants indiquaient l’ampleur des #dysfonctionnements. Le système informatique était totalement dysfonctionnel : dans le service informatique central, 45 emplois étaient vacants.

    Tant la fusion s’était faite dans des conditions désastreuses de gestion du personnel, tant le travail est ingrat, mal payé et mal reconnu.

    Cela a généré des semaines de problèmes d’inscriptions administratives, d’étudiants en attente de réponse des services centraux de scolarité pendant des jours et des jours, sans boîte mail universitaire et sans plateforme numérique de dépôt des cours (le fameux Moodle) pendant des semaines - les outils clés de l’enseignement à distance ou hybride.

    Pendant trois mois, en L1, nous avons fonctionné avec une liste de diffusion que j’ai dû créer moi-même avec les mails personnels des étudiants.

    Pendant des semaines, un seul informaticien a dû régler tous les dysfonctionnement de boîte mail des dizaines d’étudiants qui persistaient en novembre, décembre, janvier…

    En janvier, les médias ont relayé le désastre des examens de 2e année de médecine encore dans notre Université - avec un hashtag qui est entré dans le top 5 les plus relayés sur twitter France dans la 2e semaine de janvier, face à la catastrophe d’examens organisés en présentiel, sur des tablettes non chargées, mal configurées, des examens finalement reportés à la dernière minute. Les articles de presse ont mis en lumière plus largement la catastrophe de la fusion des études de médecine des Universités concernées : les étudiants de 2e année de cette fac de médecine fusionnée ont dû avaler le double du programme (fusion = addition) le tout en distanciel !

    Les problèmes de personnel ne concernent pas que le service informatique central.

    Ils existent aussi au niveau plus local : dans mon UFR, le poste de responsable "Apogée" est resté vacant 6 mois. Le responsable #Apogée c’est le nerf de la guerre d’une UFR : c’est lui qui permet les inscriptions en ligne de centaines d’étudiants dans des groupes de TD, qui fait les emplois du temps, qui compile les notes pour faire des jurys et donc les fameux bulletins de notes qui inquiètent tant les Ministères de l’Enseignement supérieur – et ce pour des dizaines de formations (plusieurs Licences, plusieurs Masters).

    Pendant six mois, personnels et enseignants chercheurs, nous avons essayé de pallier son absence en faisant les emplois du temps, les changements de groupe des étudiants, l’enregistrement des étudiants en situation de handicap non gérés par l’université centrale (encore une défaillance honteuse), l’organisation des jurys, etc. Mais personne n’a touché à la configuration des inscriptions, des maquettes, des notes, car il faut connaître le logiciel. Les inscriptions dans les groupes de TD du 2e semestre doivent se faire avant la rentrée du semestre 2 logiquement, idéalement dès le mois de décembre, ou début janvier.

    Mais le nouveau responsable n’arrive qu’en décembre et n’est que très peu accompagné par les services centraux de l’Université pour se familiariser aux réglages locaux du logiciel, par manque de personnel... Les inscriptions sont prévues le 18 janvier, une semaine avant la rentrée…

    Résultat : la catastrophe annoncée depuis des mois arrive, et s’ajoute à la #mauvaise_gestion de la crise sanitaire.

    Depuis lundi, les inscriptions dans les groupes de TD ne fonctionnent pas. Une fois, deux fois, trois fois les blocages se multiplient, les étudiants s’arrachent les cheveux face à un logiciel et un serveur saturés, ils inondent le secrétariat de mails inquiets, nous personnels administratifs et enseignants-chercheurs passons des heures à résoudre les problèmes. Le nouveau responsable reprend problème par problème, trouve des solutions, jusqu’à 1h du matin, tous les jours, depuis des jours, week-end compris.

    Maintenant nous voilà jeudi 21 janvier après-midi, à 3 jours de la rentrée. Sans liste d’étudiants par cours et par TD, sans informations claires sur les jauges et les horaires du campus, avec des annonces de dernière minute plus absurdes et irréalistes les unes que les autres, et on nous demande de ne pas craquer ? On nous dit que la présidence de l’Université, le ministère va nous obliger à reprendre en présentiel ? Nous renvoyant l’image de tire-au-flanc convertis au confort du distanciel ?

    L’an passé, un mouvement de grève sans précédent dans l’enseignement supérieur et la recherche a été arrêté net par le confinement de mars 2020.

    Ce mouvement de grève dénonçait l’ampleur de la précarité à l’université.

    La #précarité_étudiante, qui existait avant la crise sanitaire, nous nous rappelons de l’immolation de Anas, cet étudiant lyonnais, à l’automne 2019. La précarité des personnels de l’université : les #postes administratifs sont de plus en plus occupés par des #vacataires, formés à la va-vite, mal payés et mal considérés, qui vont voir ailleurs dès qu’ils en ont l’occasion tant les #conditions_de_travail sont mauvaises à l’université. La précarité des enseignants chercheurs : dans notre L1, dans l’équipe de 37 enseignants, 10 sont des titulaires de l’Université. 27 sont précaires, vacataires, avec des heures de cours payées des mois en retard, à un taux horaire en dessous du SMIC, qui attendent pendant des années avant de décrocher un poste de titulaire, pour les plus « chanceux » d’entre eux, tant les postes de titulaires se font rares alors que les besoins sont criants…

    Deux tiers des créneaux de cours de notre L1 sont assurés par des vacataires. Le mouvement de #grève a été arrêté par le #confinement mais la colère est restée intacte. En pleine crise sanitaire, le gouvernement a entériné une nouvelle #réforme de l’université, celle-là même contre laquelle la mobilisation dans les universités s’était construite, la fameuse #LPPR devenue #LPR, une loi qui augmente encore cette précarité, qui néglige encore les moyens nécessaires à un accueil décent des étudiants dans les universités. Le gouvernement a fait passer une loi sévèrement critiquée par une grande partie du monde universitaire au début du 2e confinement en novembre, et a fait passer ses décrets d’application le 24 décembre, la veille de Noël.

    Le gouvernement piétine le monde de l’enseignement supérieur et de la recherche et nous montre maintenant du doigt parce qu’on accueillerait pas correctement les étudiants ? Parce qu’on serait réticents à les revoir en présentiel ?

    Parce que finalement, pour nous enseignants à l’université, c’est bien confortable de faire cours au chaud depuis chez soi, dans sa résidence secondaire de Normandie ?

    J’enseigne depuis mon appartement depuis novembre.

    Mon ordinateur portable est posé sur la table à manger de mon salon, car le wifi passe mal dans ma chambre dans laquelle j’ai un bureau. J’ai acheté une imprimante à mes frais car de temps en temps, il est encore utile d’imprimer des documents, mais j’ai abandonné de corriger les devoirs de mes étudiants sur papier, je les corrige sur écran. Heureusement que je ne vis pas avec mon compagnon, lui aussi enseignant-chercheur, car matériellement, nous ne pourrions pas faire cours en même temps dans la même pièce : pas assez de connexion et difficile de faire cours à tue-tête côte à côte.

    A chaque repas, mon bureau devient ma table à manger, puis redevient mon bureau.

    En « cours », j’ai des écrans noirs face à moi, mais quand je demande gentiment à mes étudiants d’activer leur vidéo, ils font un effort, même s’ils ne sont pas toujours à l’aise de montrer le lit superposé qui leur sert de décor dans leur chambre partagée avec une sœur aide-soignante à l’hôpital qui a besoin de dormir dans l’obscurité quand elle rentre d’une garde de nuit, de voir leur mère, leur frère passer dans le champ de leur caméra derrière eux. Certains restent en écran noir, et c’est plus dur pour moi de leur faire la petite morale habituelle que j’administre, quand je fais cours dans une salle, aux étudiants endormis au fond de la classe. Je ne sais pas si mon cours les gonfle, s’ils sont déprimés ou si leur connexion ne permet pas d’activer la vidéo...

    Donc non, ce n’est pas confortable l’enseignement à distance. Ce n’est pas la belle vie. Ce n’est pas de gaieté de cœur que nous envisageons de ne pas revoir d’étudiants en vrai avant septembre prochain.

    Je suis enseignante-chercheure. Je dois donner des cours en L1, L3, Master.

    Depuis des jours, plutôt que de préparer des scénarios de rentrée intenables ou de résoudre les problèmes des inscriptions, j’aimerais pouvoir me consacrer à l’élaboration de ces cours, réfléchir aux moyens d’intéresser des étudiants bloqués derrière leurs ordinateurs en trouvant des supports adaptés, en préparant des petits QCM interactifs destinés à capter leur attention, en posant des questions qui visent à les faire réfléchir. Je dois leur parler d’immigration, de réfugiés, de la manière dont les États catégorisent les populations, des histoires de vie qui se cachent derrière les chiffres des migrants à la frontière.

    C’est cela mon métier.

    Je suis enseignante-chercheur mais à l’heure qu’il est, si je pouvais au moins être correctement enseignante, j’en serais déjà fortement soulagée.

    Il faut donc que nos responsables politiques et nos Présidences d’université se comportent de manière responsable. En arrêtant de faire de la com’ larmoyante sur l’avenir de notre jeunesse. Et en mettant vraiment les moyens pour diminuer la souffrance de toutes et tous.

    Il s’agit de notre jeunesse, de sa formation, de son avenir professionnel et citoyen.

    La mise en péril de cette jeunesse ne date pas de la crise sanitaire, ne nous faisons pas d’illusion là-dessus.

    La #crise_des_universités est plus ancienne, leur #sous-financement devenu structurel au moins depuis les années 2000. Alors arrêtez de vous cacher derrière l’imprévu de la crise sanitaire, arrêtez de vous faire passer pour des humanistes qui vous souciez de votre jeunesse alors que depuis mars dernier, rares ou marginaux ont été les discours et mesures prises pour maintenir l’enseignement en présentiel à l’Université.

    Cela fait cinq ans que j’enseigne à l’Université et déjà, je suis épuisée. De la même manière que nos soignant.es se retrouvent désemparé.es dans les hôpitaux face à l’impossibilité d’assurer correctement leur mission de service public de santé en raison des coupes budgétaires et des impératifs gestionnaires absurdes, je suis désespérée de voir à quel point, en raison des mêmes problèmes budgétaires et gestionnaires, nous finissons, dans les Universités, par assurer si mal notre #service_public d’#éducation...

    https://blogs.mediapart.fr/une-universitaire-parmi-dautres/blog/220121/l-excellence-en-temps-de-pandemie-chronique-du-naufrage-des-universi

    #université #facs #France #covid-19 #pandémie #coronavirus #épuisement

    signalé aussi dans ce fil de discussion initié par @marielle :
    https://seenthis.net/messages/896650

  • Pour en finir avec des cours de récréation sexistes, où les filles n’existent qu’à la marge

    « On n’a pas le droit d’aller au milieu de la cour, les garçons ne veulent pas », disent souvent les filles, dès l’école élémentaire. La cour de récréation, le premier espace public que les enfants expérimentent, serait-elle aussi l’un des points de départ des #inégalités_de_genre ? Des élus de Trappes se sont penchés sur les mécanismes à l’œuvre dans les cours d’école, où règne souvent, déjà, une répartition inégalitaire de l’espace. Pour y remédier, et faire en sorte que l’égalité et la mixité s’éprouvent au quotidien, il est possible, et même souhaitable, d’imaginer des aménagements non genrés des cours de récréation. Des alternatives existent.

    Avez-vous déjà pris le temps d’observer une cour d’école à l’heure de la récréation ? Au centre, les garçons jouent au foot. À la périphérie, occupant la place qui leur reste, les filles font ce que l’on appelle leurs « petits » jeux : corde à sauter, élastique, jeux de rôles. Apparemment caricaturale, cette répartition de l’espace est pourtant une réalité dans la quasi-totalité des cours d’école en France. Quand on demande aux filles les raisons de leur éloignement du centre, les réponses sont abruptes : « On n’a pas le droit. »

    Pourquoi ? « Parce que les garçons ne veulent pas. » Celles qui osent revendiquer, et tentent de négocier, s’entendent dire qu’« elles sont trop nulles ». Disqualifiées d’office, tenues de restreindre leurs mouvements [1].
    « Les garçons n’osent pas jouer avec leurs copines parce qu’ils vont se faire traiter de filles »

    « Au collège la plupart des filles ont capitulé, souligne Édith Maruéjouls, géographe du genre et auteure de nombreux travaux sur les inégalités dans les cours d’école [2]. Elles sont convaincues qu’elles n’ont pas les mêmes jeux, ni les mêmes préoccupations, ni les mêmes sujets de conversation que les garçons. Et vice versa. »

    Les quelques élèves convaincu.es du contraire osent rarement le dire. « Un jour, un jeune collégien m’a dit qu’il rêvait de parler avec les filles. Il aurait aimé pouvoir échanger avec elles, mais il ne le pouvait pas. Il n’osait pas parce qu’il se serait fait "traiter" d’homosexuel par les autres garçons. On observe cela dès la primaire : les garçons n’osent pas jouer avec leurs copines parce qu’ils vont se faire traiter de filles. » Sexistes et homophobes nos cours d’école ? Apparemment, oui…
    « La cour est le premier espace public »

    « Dans les cours de récréation, il y a les jeux de filles et les jeux de garçons, remarque Edith Maruéjouls. C’est un processus qui est très ancré et qui ne donne pas les mêmes droits à tout le monde. » Reléguées physiquement, les filles n’ont pour elles que des petits espaces, ce qui les empêche de faire des grands jeux, de courir et de se déployer physiquement comme elles aimeraient le faire. « Parfois, elles ne peuvent même pas traverser la cour, parce qu’elles risquent de se prendre un ballon ou se font rabrouer par les garçons, explique Edith Maruéjouls. Elles sont obligées de mettre en place des stratégies d’évitement, d’inventer des parcours compliqués même pour se rendre aux toilettes. »

    « On retrouve la même dynamique dans l’espace public, ajoute Edith Maruéjouls. Il y a des zones d’évitement, où les filles se demandent souvent à quoi elles sont autorisées. Ont-elles le droit d’être là, à telle heure, habillées comme ceci ou comme cela ? Elles s’habituent à être mises à l’écart, et celles qui osent négocier se fatiguent, et renoncent. »

    Cette habitude au renoncement et au retrait s’observe dans l’occupation de l’espace public, mais également dans le monde du travail. Prendre sa place s’apprend de bonne heure. « La cour, c’est le premier espace public, décrit Thomas Urdy, maire-adjoint à l’urbanisme, l’environnement et la qualité de vie à Trappes (Yvelines, mairie divers gauches). C’est donc un outil dont on peut se saisir, à l’échelle d’une ville, pour lutter contre l’occupation inégale de l’espace public entre les femmes et les hommes. »

    Casser les habitude pour que filles et garçons se rencontrent

    L’élu s’est saisi de la question il y a quatre ans, peu après l’arrivée de la nouvelle équipe à la tête de la ville. « Nous avons commencé par remettre de la nature dans la ville et notamment dans les cours d’école, décrit Thomas Urdy. Ça a été une première étape importante. Sitôt qu’il y a un peu d’herbe, des arbres, quelques fleurs, on se détend et on est plus serein. » Et ce sont des espaces qui attirent tout le monde, filles et garçons. « Les fleurs – "ce truc de filles" disent les garçons – finalement, ce n’est pas si niais, intervient Edith Maruéjouls. On peut facilement observer que, lorsqu’il y a des plantes dans une cour, tous les enfants aiment jouer à proximité. »

    Second épisode à Trappes : proposer d’autres revêtements que le traditionnel et si triste bitume. « Nous avons mis en place des sols souples, sur lesquels les enfants peuvent se poser. Les enseignants nous rapportent que les garçons et les filles s’y assoient et discutent ensemble. » À chaque fois, l’élu doit faire face à des réticences du côté des agents techniques. « Ils étaient sûrs que les enseignants refuseraient les coins nature parce que les enfants allaient rapporter des saletés en classe. Quant au bitume, c’est plus simple à entretenir… On casse les habitudes. Donc il faut être convaincu ! »
    Défaire la toute-puissance du football

    Un autre levier consiste à supprimer le « traditionnel » espace réservé au football. « Je suis une fois intervenue dans une école des Yvelines (92) où, pour d’autres raisons que le partage de l’espace, les maîtresses avaient confisqué le ballon depuis un mois, raconte Edith Maruéjouls. Elles avaient remarqué que filles et garçons s’étaient remis à jouer ensemble. » « On a redécouvert les jeux de quand on était petits », disaient les garçons.

    « Les garçons qui jouent au foot ne jouent que au foot, précise Edith Maruéjouls, et se privent de tout un monde créatif. Il ne s’agit pas seulement de permettre aux filles de jouer également au foot, ni d’empêcher les garçons d’y jouer d’ailleurs. » L’objectif est bien de partager l’espace, et de permettre à tout le monde de jouer. Les garçons qui n’aiment pas jouer au foot, ou qui n’ont pas le droit parce qu’ils ne sont pas assez forts, ceux qui sont trop gros, trop gauches, non « conformes », s’en trouvent soulagés. Ils ont, enfin, le droit d’exister en dehors des normes de virilité dictées par les garçons qui dirigent la cour.
    « Ne pas pré-définir l’usage des espaces »

    En se débarrassant du caractère systématique de la partie de foot ou des marquages sportifs au sol, on ouvre les possibles. Les enfants peuvent mettre leur imagination en mouvement, se rencontrer plus facilement. « C’est important de ne pas pré-définir l’usage des espaces », souligne Célia Ferrer, designeuse et réalisatrice d’un jeu de soutien à l’aménagement non genré des cours. Sur le plateau qu’elle a dessiné, les enfants sont libres d’imaginer les règles qu’ils veulent. Ils ont à leur disposition des pièces avec différents motifs (croix, traits, flèches...) et différentes couleurs. Une fois testé en classe, en petit format, les enfants peuvent le transposer dans la cour. « Ils peuvent se mettre d’accord sur un labyrinthe, par exemple, et dès qu’il y a une flèche il faut se mettre à courir. Comme ils réfléchissent ensemble aux règles, c’est beaucoup plus collectif. » Son jeu, Pazapa, a été testé dans plusieurs écoles de l’agglomération bordelaise.

    Non pré-définis dans leurs usages, les espaces peuvent évoluer. « Comment on s’assoit ensemble ?, interroge Edith Maruéjouls. C’est très important pour les enfants. » Il faudrait pouvoir déplacer des chaises, ou imaginer des bancs en rond. Ce n’est pas nécessairement compliqué... ni très onéreux. « On a privilégié les grands plateaux ouverts avec beaucoup de visibilité. Il faut revenir à des petits coins, recréer des espace semi-intimes. »

    A Trappes, les enfants de l’école maternelle Michel de Montaigne évoluent dans une cours où s’enfilent différents espaces : parcours de gym, potager, ou encore pistes cyclables. Le fait de ne pas avoir d’espace central évite aussi qu’un groupe ne se l’approprie. « La cour est devenue un terrain d’aventures commun où les garçons et les filles s’amusent ensemble », se réjouit Thomas Urdy.
    « Quand on chausse les lunettes de l’égalité, on ne voit pas la vie en rose »

    Passer du modèle classique de non-mixité, à un lieu où garçons et filles se mélangent ne se fait par en un jour. « Affirmer que les espaces des villes ne sont pas neutres, qu’ils sont faits par les hommes et pour les hommes ne va pas de soi », observe Thomas Urdy. Edith Maruéjouls, qui intervient depuis dix ans auprès d’enseignants, élus et parent d’élèves, confirme :« Il faut développer un argumentaire, avoir de l’expertise, démontrer que le sexisme de la cour d’école et de la société en général a des effets dramatiques pour les filles, pour les femmes. Pour ne prendre qu’un exemple, 70% des travailleurs pauvres sont des femmes. »

    « Quand on chausse les lunettes de l’égalité, on ne voit pas la vie en rose, poursuit Geneviève Letourneux, élue déléguée aux droits des femmes et à l’égalité à Rennes, où plusieurs cours d’école avec des aménagements non genrées sont programmées. Poser la question de l’égalité bouscule l’ordre des choses. Ce n’est pas nécessairement confortable. Il faut donc s’outiller, avoir des compétences qui permettent de comprendre pourquoi ces phénomènes sont tellement banalisés et invisibilisés. »

    A Trappes comme à Rennes, les municipalités ont mis en place des marches exploratoires, véritables sessions d’arpentage urbain, en groupe, pour repérer les espaces hostiles aux femmes, proposer des aménagements, intégrer la question du genre dans les projets urbanistiques (Voir notre article). A Trappes, « on a pu identifier, par exemple, des passages étroits, non éclairés et souvent squattés par des groupes d’hommes à la sortie de la gare, où les femmes se sentaient particulièrement insécurisées, se rappelle Thomas Urdy. Bien sûr l’aménagement urbain ne peut pas tout, et il n’y a pas de recette miracle. Mais les marches exploratoires, comme les aménagements des cours d’école, permettent de se mettre en action. »
    Les enfants attendent des adultes qu’ils se positionnent

    « Si on reste au niveau des valeurs, c’est abstrait, reprend Geneviève Letourneux. Tout le monde est pour l’égalité. Mais comment faire, concrètement, pour que l’espace public soit investi de manière égalitaire ? L’aménagement des cours permet de mieux visualiser les choses. Il autorise une mise en mouvement collective, comme avec les marches exploratoires. » Les prises de parole publiques, ces dernières années, des victimes de violences masculines ont facilité la tâche de ceux et celles qui luttent pour une égalité réelle. « On a parfois des silences polis, mais rarement des moqueries, remarque Edith Maruéjouls. Les gens savent que derrière la question des inégalités, se cache celle du harcèlement et des violences. »

    L’implication des adultes est d’autant plus importante que les enfants, notamment les filles, comptent sur eux pour rétablir de l’égalité dans les cours de récréation. D’après une étude réalisée par l’Unicef à l’automne 2018, le sentiment d’inégalité est répandu chez 45% des filles. Elles sont conscientes dès l’école primaire que les garçons occupent le centre des cours tandis qu’elles sont à la marge. Les garçons ne commencent à s’interroger sur le sujet qu’au collège.
    « Les parents et enseignants d’autres écoles veulent s’y mettre »

    « Le sentiment d’injustice est un terrain fertile pour que les adultes interviennent, pense Edith Maruéjouls. Les enfants demandent aux adultes d’encourager la mixité. 80 % de ces enfants ne sont pas d’accord avec ce qui se passe dans les cours d’école. Il faut qu’ils puissent le dire, proposer et vivre autre chose. Quand on leur offre un cadre de réflexion et la possibilité d’agir, ils trouvent des solutions. Il s’agit de replacer les enfants dans leur capacité d’agir, et cela de manière collective. » Des compétences qui serviront toute la vie…

    La volonté de redessiner les cours d’école n’émane pas toujours des élus. Les parents d’élèves ou enseignants enclenchent parfois la démarche. Quoi qu’il en soit, un travail collectif est nécessaire. « L’école est un petit territoire, mais qui est très intéressant, estime Thomas Urdy. Il peut fédérer une ville et ses habitants. » « Il y a un véritable enjeu démocratique à ce que la cour soit partagée. C’est un catalyseur pour penser ce qu’est l’espace public dans une ville », ajoute Geneviève Letourneux.

    Une fois lancée, ces démarches semblent faire mouche. « C’est un cercle vertueux, analyse Thomas Urdy. Les parents et enseignants des écoles dont l’aménagement n’a pas été revu veulent s’y mettre. Pour nous, les résultats sont là : les enfants découvrent la mixité en jouant. » Et quand il y a de la #mixité, du mélange, il est plus compliqué d’asseoir une #domination.

    https://www.bastamag.net/Pour-en-finir-avec-des-cours-de-recreation-sexistes-ou-les-filles-n-existe

    #marginalité #école #cours_de_récréation #récréation #écoles #filles #garçons #genre #cours_d'école #sexisme

    déjà signalé en 2019 par @_nka, je remets ici pour archivage :
    https://seenthis.net/messages/774265

    via @cede

    –—

    ajouté à la métaliste consacrée à cette question :
    https://seenthis.net/messages/899200

  • Du malaise en milieu étudiant

    Seul un étudiant sur dix parvient encore à suivre ses #cours_en_ligne. Non, le problème n’est pas individuel. Arrêtez de nous envoyer vers des psychologues tout en prolongeant notre #isolement.

    Tous les cours se ressemblent. Se lever une demi-heure avant à grand-peine (rythme de sommeil complètement déstructuré), s’asseoir et ouvrir l’ordinateur, le connecter à la 4G instable du téléphone, chercher le lien de la visioconférence, couper le micro, et malaise.

    #Malaise des professeurs qui monologuent devant une galerie de portraits ennuyés et silencieux, au mieux, devant une grille de prénoms muets la plupart du temps. Mosaïques sinistres de visages qui en disaient davantage derrière un masque. Les professeurs disent : Je sais que les temps sont difficiles mais nous n’avons pas le choix, vous lirez cet article pour la fois prochaine, rendez-moi le travail pour mi-décembre. Ils disent aussi, sur un ton angoissé ou agacé – sûrement conscients du ridicule de la situation – Est-ce que ça va ? Vous m’entendez ? Quelqu’un veut répondre à la question ? Bon, s’il n’y a pas de remarque alors je poursuis. Malaise des étudiants, notre malaise. Il n’y a pas de questions parce qu’il n’y a rien à questionner ; on ne sait pas exactement ce qui vient d’être dit et on s’en fout, aussi. Trop difficile de rester concentré, les écrans finissent par brûler et fatiguer les yeux, la tête bourdonne des bruits de micros saturés. Malaise parce que ça ne rime à rien, parce que c’est complètement irréel, parce qu’on ne voit plus pourquoi on continuerait. Ça avait du sens lorsque c’était encore pris dans des relations sociales, lorsqu’il y avait un rapport entre le professeur et les étudiants, un jeu de regards, des interventions spontanées, des corps et des attitudes, un ancrage dans le réel. Ce n’est plus le cas. Et, pire, l’irréalité n’a plus de bornes depuis que le professeur donne cours dans nos chambres ; il n’y a plus guère de séparation spatiale entre vie étudiante et vie personnelle, et la première – celle qui déjà occupait et préoccupait beaucoup – envahit totalement la seconde. Avant, on refermait le cahier ou l’ordinateur portable, on faisait son sac, on discutait quelque temps avec des camarades ou un professeur, on prenait le métro, le bus, le vélo ou on marchait jusqu’à chez soi. Maintenant, on quitte la réunion Zoom et on reste sur la même chaise, dans la même chambre, avec la même solitude, à faire ce que l’on faisait de creux ou de sans intérêt pour passer le temps pendant le cours qu’on n’écoutait pas vraiment. Toujours ce sentiment d’irréalité, d’absurdité ; ce malaise.

    Les symptômes de ce malaise s’expriment partout, dans des circonstances plus ou moins terribles. Le premier confinement a été difficile, le second confinement est un coup de grâce. Nous sommes dans un sale état, toutes les enquêtes réalisées le prouvent : Article 1, dans une enquête datant du 16 novembre mené parmi 700 étudiants issus de milieux populaires, relève que 73.5 % d’entre eux se disent stressés et épuisés. À Sciences Po Paris, l’Association de l’École d’Affaires Publiques rapporte dans les résultats de son sondage (environ 1200 réponses) que les états dépressifs ont actuellement un taux de prévalence de 41 % parmi les étudiants, en plus de l’anxiété qui touche 61 % des interrogés (les moyennes françaises en octobre étaient respectivement autour de 15 % et 19 %). 91 % des étudiants affirment avoir des difficultés à suivre les cours en ligne. Dans le sondage réalisé dans notre spécialité de M1, on retrouve des chiffres similaires : onze personnes sur dix-huit (soit 61 %) rapportent des sentiments de tristesse ou de mélancolie, et seuls trois élèves sur dix-huit se disent capables de suivre correctement les cours. Les troubles du sommeil et les troubles alimentaires ont également des taux de prévalence particulièrement inquiétants. L’épuisement et la fatigue sont omniprésents, et concernent quinze étudiants sur dix-huit. On comprend aisément comment la charge de travail accrue, l’angoisse, l’exposition intensive aux écrans, les états dépressifs et l’isolement peuvent expliquer cette lassitude. Nous attendons les résultats d’enquêtes plus larges, mais rien ne laisse présager de meilleures conclusions.

    Malaise, donc : des professeurs font cours à des étudiants en souffrance qui ne les écoutent pas. Quel sens est-ce que ça peut bien avoir, pour nous comme pour nos enseignants ? Les professeurs et les administrations envoient les étudiants vers des psychologues, dans des messages pleins de bienveillance et de take care, parce qu’ils ne savent pas comment répondre autrement. Les tribunes et les articles qui paraissent ces dernières semaines sur le sujet ont beau faire ce même constat terrible, ils demandent également plus d’aide psychologique pour les étudiants. Ils se trompent : nous n’avons pas besoin de psychologues. Il est impossible de croire que le problème que nous rencontrons est individuel, alors qu’il concerne une majorité écrasante d’entre nous. Le problème n’est pas psychologique et ne se règle pas avec des séances chez un psy, des antidépresseurs ou des anxiolytiques. Ce n’est pas non plus une preuve de paresse des étudiants, et pas davantage un défaut d’adaptation que le temps corrigera. Nos études nous intéressent, nous voulons réussir et nous nous en savons capables : voilà pourquoi notre malaise est aussi dérangeant. Si le problème est aussi massif, c’est bien qu’il ne relève pas de fragilités individuelles et qu’un encouragement à s’accrocher ne suffit pas. Le problème, c’est que notre vie quotidienne est devenue insupportable et que tout le monde prétend ne rien voir parce que c’est plus simple.

    Il faut briser le silence et affronter ce malaise-là maintenant, parce que nous en payons les conséquences beaucoup trop cher. Affronter le fait qu’en moyenne sur Zoom, dans une classe de trente personnes, il n’y a que trois personnes qui écoutent effectivement. Affronter le fait que nous sommes envahis par les cours, les travaux à rendre et l’angoisse à l’idée de ne pas y parvenir. Affronter le fait que nous n’avons pour la plupart pas besoin d’un soutien psychologique, mais d’un changement matériel, réel de nos conditions d’étude. Affronter le fait que c’est pour la majorité d’entre nous un cauchemar qui n’en finit pas : si le déconfinement est prévu le 15 décembre, que tous les commerces sont ouverts et que les offices religieux peuvent se tenir à plus de trente personnes depuis le 28 novembre, les étudiants ne peuvent même pas rêver de retourner en cours avant mi-février – dans l’hypothèse plus que fragile qu’aucun nouveau confinement ne soit décrété. Le covid-19 ne nous a presque pas touchés, mais nous sommes écrasés par ses conséquences dans le déni général.

    Jusqu’à présent, chaque fois que nous avons osé parler, on nous a systématiquement répondu que dans les circonstances actuelles, on nous comprend mais que c’est une impasse et que tout le monde fait déjà au mieux. On nous répond – avec la facilité que cela comporte – qu’effectivement la période est difficile et frustrante, mais que les professeurs doivent bien évaluer leurs cours, qu’ils ne sont pas compétents en psychiatrie et qu’il faut consulter, et qu’on n’a pas le choix. Tous ces arguments sont audibles, mais aussi sans pertinence face à ce que nous vivons. Il n’y a pas d’impasse. Il n’y a d’impasse que parce qu’on refuse de toucher aux murs, parce qu’on se dit que les étudiants trouveront bien un moyen de tenir, qu’on notera gentiment leurs travaux médiocres, et que tout ça ne sera pas éternel ; comme on a toujours fait. Et on continue à faire des cours Zoom – au moins on ne se rend pas compte que personne n’écoute – en ignorant ce qui se passe de l’autre côté des écrans.

    Voilà ce qu’il y a, derrière les écrans, derrière les têtes fatiguées-ennuyées, les caméras éteintes et le mode muet : il y a nous qui ne tenons pas, nous qui arrivons de moins en moins à rendre des travaux même médiocres, nous pour qui l’horizon est complètement bouché. Alors il n’y a pas d’autre possibilité que de remettre en cause ce à quoi on refusait de toucher, dans sa totalité.

    https://blogs.mediapart.fr/maina-catteau/blog/051220/du-malaise-en-milieu-etudiant

    #ESR #étudiants #confinement #distanciel #enseignement #université #facs #enseignement_à_distance #témoignage #silence #interaction #concentration #relations_sociales #vie_étudiante #vie_personnelle #espace #séparation_spatiale #solitude #dépression #sondage #épuisement #fatigue #lassitude #souffrance #angoisse #conditions_d'étude #cauchemar #déconfinement #déni #covid-19 #coronavirus

    Déjà signalé ici : https://seenthis.net/messages/889944
    –-> j’ai ajouté des mots-clé

    • #Naomi_Klein: How #big_tech plans to profit from the pandemic

      Public schools, universities, hospitals and transit are facing existential questions about their futures. If tech companies win their ferocious lobbying campaign for remote learning, telehealth, 5G and driverless vehicles – their Screen New Deal – there simply won’t be any money left over for urgent public priorities, never mind the Green New Deal that our planet urgently needs. On the contrary: the price tag for all the shiny gadgets will be mass teacher layoffs and hospital closures.

      https://www.theguardian.com/news/2020/may/13/naomi-klein-how-big-tech-plans-to-profit-from-coronavirus-pandemic

      #stratégie_du_choc #technologie #surveillance

    • Online Education and the Struggle over Disposable Time

      During COVID-19 times, the ‘social distancing’ catchphrase has invaded every aspect of our lives. Public space has been fragmented into individualized, quarantined units, transforming social relations into aggregates of their interactions. Unlike other pandemics of yesteryears, COVID-19 has given a tremendous push to technology to secure social distancing. In the field of education, the phenomenon of online education was already slowly gaining space especially as complementary to traditional classroom education and as a mechanism of distance learning.

      Today, the ideology of social distancing has brought online education in the centre of educational systems. It has acquired legitimacy and the capacity to take over the whole system of education. In countries such as India, where COVID-19 has been used by the state as an opportunity to revamp various sectors, including health and medicine, a reconception of education is underway. Online education serves as the organizing force in this regard.
      Education as Commodity and the Question of its Production

      Popular debates on technology and online education generally revolve around the idea of education as a commodity to be put to consumption in the classical sense of the word. It is, of course, a commodity with a use-value, much in parlance with material commodities like food items, daily wear etc. Such commodified education naturally must meet the parameters of consumer satisfaction. Therefore, much discussion on the recent COVID 19-triggered tech-intensive online teaching harps on students’ differential access to internet connectivity and bandwidth, the problems of long-distance assessments without the characteristic ‘fairness’ metrics associated with offline exams etc. In short, anything connected to the students’ overall satisfaction with their purchase of this immaterial commodity.

      What these debates however miss are the fundamental processes that go into the production of education, and the complex dynamics of the teacher-student relationship underpinning such production. By neglecting its sphere of production, we miss out on a very important aspect of this commodity – one that would help us understand online education, and the role of technology better, and also identify spaces of critique of education, as understood in the current socio-economic system.

      Notwithstanding the similarities, education is unlike any other commodity, not just in the material or physical sense, but mainly in the organization of its consumption and production. Material objects such as pens, cars etc. have an immediate use-value for buyers, consumed beyond the sphere of production. Education on the other hand, produces students as workers for their future entry into the labour market; its consumption or use-value lies in generating new, educated and skilled labour power for further use in the processes of production. Through a network of local and international educational institutions placed at different orders of hierarchy and status, education reinforces and reproduces the existing and (unequal) social relations by producing a heterogeneous group of future workers with differential skills, and by extension, differential wages. Hence, from the students’ perspective, education is consumptive production.

      Education as knowledge production is unique in placing this consumer – the student – in the production sphere itself. In other words, education as a commodity is a co-production of teachers and students, and is generated through continuous dialogue and interaction between them. It is not a fixed commodity, but one that is processual, and evolves within the dialectic of the educated-educator relationship. This dialectic constitutes a predicament for education in the current system. On one hand, there is the tendency to establish standardized syllabi and programs in response to the needs of a globalized labour market, making the practice of teaching and learning very mechanical; on the other, there is an equally strong opposition from the co-producers against attempts to kill their cooperative agency and creativity.

      Classroom settings and face to face instruction allow the dialectic of education to be productive in their dialogicity, with teachers innovating ideas and methods in dynamic and synchronous concord with students. With both instructors and learners present in the same physical space, learning – despite constraints of fixed syllabi and evaluation metrics – evolves through collective thinking and with a view to the intellectual needs and abilities of the participants. There are challenges thrown in with big class sizes and formal disciplinary settings leading to alienation typical of a hierarchized industrial scenario – an intensified lack of interest and commitment from both learners and teachers. However, since education in such settings is still based on direct relationships between students and teachers, there is always a possibility to overcome the alienating institutional mediation. There is a relative autonomy operating in this dialogic relationship, which allows innovation in ideas and knowledge production.
      Technology and the Informatization of Education

      Online education, on the other hand, despite and because of deploying the best of technologies, fails to simulate the same environment. Educational production is now distributed over multiple zones, with producers confined to their virtual cubicles. Without a shared space, education is reduced to instruction and information, discretized and reintegrated by the mediating pre-programmed machines. The dialogical relationship is now between the machine and the producers, not between the co-producers. The teacher is deprived of her role of the facilitator in this dialogue. She is just an instructor in this new environment. Her instructions are received by the machine, which mediatizes them and delivers them to students in a manner that it is programmed to deliver. This overhauls the whole dialectic of education, which is now hierarchized. Alienation in this process is quite stark, since the relations of production of education are completely transformed, which cannot be overcome by the deployment of any kind of technology.

      Technology, in fact, plays a big role in this alienation of labour that happens through the informatization of education. In the effort to replicate the classroom experience sans the direct relationship of affectivity between teachers and students, there is an overaccumulation of technologies and educational products, bringing in the surveillance techniques for remote disciplining of students and teachers.

      One only needs to look at the number of new gadgets and software for online education to understand the extent to which technology tries to overcome its artificiality. The market is flooded with AI-driven ‘smart content’ materials, customized lessons, digitized textbooks, easy to navigate chapter summaries, flashcards, automatically-graded exams, cameras for remote surveillance etc. The process of alienation is evermore intensified, since human living labour of both teachers and students are objectified in the development of these technologies. Their vivacity is reduced to an appendage to the artificiality of the machine.

      What is interesting is that while technology deskills the producers by taking over their powers of imagination and judgement, it also forces them to reskill themselves. With evermore new technologies hitting the online teaching platforms every day, both students and teachers are forced to continuously update themselves in their technical knowhow to assist these machines. This has led to generational and occupational redundancies in education too by promoting lean production methods and Taylorising techniques in education.
      The Struggle over Disposable Time

      What happens to education as a commodity in this alienated and Taylorized production process? Education internalizes the segmented social relations that characterize capitalism. This introduces dualism in its institutionalization, which gets further systematized and globalized in the wake of the ongoing technicization of education. On the one hand, we have mass production of education as a set of discrete information and instruction to train the majority of the working population in the drudgery of assisting the machines. This is facilitated by online education technologies. On the other hand, we have elite institutions monopolizing the rights to innovate and research (secured by various legal and institutional mechanisms like patenting, funding etc.), for which the more intensive conventional teaching methods must continue. This duality of education enhanced by online educational technologies has been developing for the last few decades to keep pace with the human resource requirements of other industrial and service sectors. Hence, online education itself has emerged as a fast-growing industry. The COVID-19 pandemic has given its production and dissemination a new intensity, urgency and definite possibility.

      With the growing dominance of online education, and discretized learning/teaching methods, there is also a proportionate increase in disposable time for both teachers and students. In the absence of direct and personalized contact during lectures, instruction intensifies; knowledge in the form of discretized information is produced in less time than in traditional classroom set-ups due to the absence of students’ queries and interventions. But what will be the utility of this disposable time? The system controls this disposable time by retrenchment, and by increasing workload and diversifying work profiles for the existing educational or knowledge workers.

      However, from the workers’ perspective, the disposable time has a different meaning, one that allows the co-producers to overcome drudgery and alienation by reclaiming the time-space for innovation and creativity. It is in this time-space that workers recognize knowledge as a result of their co-production, and re-appropriate it, going beyond being passive feeders-receivers of information assisting the machine. Dialogues between the students and the teachers are reestablished through more interpersonal interactions. This leads to a process of conscientization, in which the co-producers move beyond the classroom norms and fixed syllabi, and collectively build an understanding of phenomena and concepts, drawing on their own realities and experience.

      The disposable time enables workers to reclaim their common space and self-organize knowledge production, while reducing technology to mere means in this process, not as a mediator, organizer and controller of production and producers. It is only through such collaborative activities in these fractured times, that teachers and students together can assert their autonomy as knowledge producers and consumers.

      https://socialistproject.ca/2020/08/online-education-and-the-struggle-over-disposable-time

  • L’effet de la #formation_linguistique sur l’#intégration_économique des immigrés en #France

    Au milieu des années 2000, le gouvernement français a mis en place des mesures visant à améliorer l’intégration économique et sociale des immigrés et à leur donner la dignité garantie par la Déclaration universelle des droits de l’homme. Depuis 2007, chaque nouvel immigrant admis pour la première fois au séjour en France, âgé de plus de 16 ans et venant d’un pays non membre de l’Union européenne, doit signer un Contrat d’accueil et d’intégration (transformé depuis en Contrat d’Intégration Républicaine). Une #formation_linguistique y est proposée pour augmenter les chances de participer activement au #marché_du_travail sans garantir pour autant un #emploi stable.

    Le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration (#CAI), remplacé en 2016 par un nouveau #Contrat_d’Intégration_Républicaine, imposait une #formation_civile aux institutions françaises et aux valeurs de la République, une formation linguistique et une session d’information sur la vie en France. Il fournissait également une attestation de #compétences_professionnelles.

    En s’intéressant à la formation linguistique, notre recherche, menée sous la direction de Hillel Rapoport et Biagio Speciale au sein de l’École d’Économie de Paris (PSE), examine l’impact que l’#apprentissage_du_français peut avoir sur l’#intégration dans le marché du travail : l’obtention ou la recherche d’emploi, la probabilité d’être employé, d’avoir un contrat à durée indéterminée, d’être impliqué dans un travail informel, et l’effet sur le revenu de l’individu.

    Nous avons travaillé sur la base de données de l’Enquête longitudinale sur l’intégration des primo-arrivants (ELIPA), créée par le Ministère de l’Intérieur, qui suit sur trois années (2010, 2011 et 2013) le parcours d’intégration de 6 000 immigrés ayant signé un contrat d’accueil et d’intégration en 2009. Nos méthodes économétriques relèvent principalement de la méthode dite de « régression sur discontinuité », qui consiste à comparer les individus de part-et-d’autre du seuil (ici le score au test linguistique préalable) qui détermine la participation au programme de formation.

    Apprendre le français aide à entrer sur le marché du travail

    En 2010, 24 % des signataires du CAI étaient invités à suivre une formation linguistique, leur niveau étant jugé trop faible après avoir passé le test de connaissances de la langue française écrite et parlée. Nos recherches montrent que le nombre d’heures de formation linguistique reçues augmente de manière significative la participation de l’immigrant à la population active. Avec 100 heures de formation, la probabilité d’entrer sur le marché du travail augmente de 14,5 à 26,6 points de pourcentage. La probabilité moyenne pour les immigrants de participer à la population active étant de 81 % en 2013, nos résultats montrent donc un effet assez remarquable.

    Les bénéfices de la formation au français augmentent avec le niveau d’éducation de la personne, qui a lui-même un effet positif direct sur la participation à la population active. Les individus non alphabétisés tirent peu profit ou pas du tout des cours de langue, et les femmes ont tendance à bénéficier moins de la formation linguistique. C’est le cas aussi des individus au-dessus de l’âge médian.

    Cependant, participer à la population active ne signifie pas obligatoirement un emploi stable. Nous ne trouvons aucun effet significatif de la formation linguistique sur la probabilité d’être employé, d’avoir un CDI, d’avoir un travail même informel, ou sur le revenu par tête du ménage. Participer à des cours de langue semble même avoir un impact légèrement négatif sur le fait d’avoir un emploi à temps plein, peut-être parce qu’apprendre une langue demande du temps libre. Il est probable que la période de notre étude (3 ans) est trop courte pour permettre de capter les effets à long terme de la maîtrise de la langue, et donc la transition entre la simple participation au marché du travail (qui inclut la recherche d’emploi) au fait d’avoir à un emploi pérenne.

    Une formation linguistique ne garantit pas l’intégration

    Dans l’enquête ELIPA, 70 % des individus qui ont suivi une formation linguistique ne pensent pas que celle-ci était suffisante pour apprendre le français, et à peu près le même pourcentage aurait aimé avoir plus d’heures d’enseignement. D’ailleurs, les cours de langue ne semblent pas avoir d’impact significatif sur le niveau du français parlé et écrit. Le français de ceux qui ont suivi des cours n’est pas meilleur en 2013 que celui de ceux qui n’en ont pas suivis, sauf pour les immigrants dont la langue maternelle n’est pas trop éloignée du français.

    En outre, on pourrait s’attendre à ce qu’une formation linguistique se traduise par une augmentation plus importante du taux d’emploi ou donne accès à de nouveaux réseaux d’amis, notamment français, mais ce n’est pas ce que nous trouvons.

    Nous avons également tenté d’évaluer si la formation linguistique délivrée dans le cadre du CAI avait un effet positif sur les perceptions qu’ont les individus eux-mêmes de leur intégration ; là encore les effets sont plutôt négatifs, en lien peut-être avec une déception ou une démotivation après avoir réalisé que les cours de langue ne les aident pas à trouver un emploi. Les immigrés qui ont suivi des cours ne déclarent pas maîtriser mieux les compétences linguistiques que les autres et expriment plutôt un moindre « sentiment d’être chez soi » en France et un moindre intérêt pour la politique française.

    Des cours pour s’ouvrir à la vie en France

    Enfin, et pour conclure sur une note positive, la formation linguistique semble avoir un effet sur ce que nous appelons le canal de l’information. Avant, pendant et après les cours, les participants peuvent en profiter pour échanger sur leurs expériences en France et se donner des conseils importants sur la vie quotidienne et le marché du travail. Cet échange implique non seulement les participants, mais aussi l’enseignant qui peut devenir une référence directe et une source d’information accessible exclusivement aux participants. Un effet positif des cours de français est observé sur la recherche d’un travail (via Pôle Emploi), l’obtention du permis de conduire ou la demande de reconnaissance du dernier diplôme universitaire. Ces constatations amplifient notre compréhension des cours de langue comme moyen de faciliter l’intégration.

    Depuis le nouveau plan d’intégration de 2016, les cours de langue du Contrat d’Intégration Républicaine (CIR) proposent une formation plus avancée. Le CIR prévoit des parcours de 50, 100 ou 200 heures selon les besoins, pour atteindre un niveau (A1), supérieur à celui de l’ancien CAI. La formation est plus personnalisée, et prévoit des cours plus interactifs et basés sur l’utilisation des nouvelles technologies. Afin de favoriser l’#insertion_professionnelle, certaines parties de la formation se concentrent sur la vie pratique, publique et professionnelle en France. Le gouvernement organise également des cours gratuits de niveaux A2 et B1, requis pour renouveler le permis de séjour « pluriannuel » et pour la procédure de naturalisation. Pour analyser si ce changement de politique d’intégration est bénéfique pour l’intégration des immigrants, de nouvelles vagues de l’enquête ELIPA sont actuellement en cours de réalisation.

    http://icmigrations.fr/2020/06/08/defacto-020-01
    #intégration #formation #langue #cours_de_langue #intégration_professionnelle #asile #migrations #réfugiés

    –—

    voir l’article scientifique d’où est tirée cette synthèse :
    https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0014292119300200

    ping @isskein @karine4

  • Quand les villes suent

    Le changement climatique provoque de plus en plus de vagues de #chaleur. Ce sont les villes qui en souffrent le plus. En été, elles enregistrent davantage de jours de #canicule et de #nuits_tropicales. Pour se rafraîchir, elles misent sur la #végétalisation, la multiplication des #plans_d’eau ouverts et une bonne #circulation_de_l’air dans les quartiers.

    En été, lorsqu’il fait chaud, les jets d’eau de la Place fédérale de Berne ravissent autant les touristes que les locaux. Devant les grandes façades de grès du Palais fédéral et de la Banque nationale, des enfants s’ébattent entre les 26 jets d’eau qui représentent chacun un canton suisse. Trempés jusqu’aux os, ils s’allongent à plat ventre sur le sol en pierre chaud pour se faire sécher. Aux terrasses des restaurants, au bord de l’Aar et aux stands de glaces, on respire une atmosphère méditerranéenne. Et c’est un fait : du point de vue climatique, les villes de l’hémisphère nord deviennent de plus en plus méridionales. Une étude de chercheurs de l’ETH de Zurich, qui ont analysé les changements climatiques prévus ces 30 prochaines années pour 520 capitales, le démontre. En 2050, le climat de Berne pourrait être le même que celui de Milan aujourd’hui. Londres lorgnera du côté de Barcelone, Stockholm de Budapest et Madrid de Marrakech.

    En Suisse, les derniers scénarios climatiques prévoient une hausse des températures estivales de 0,9 à 2,5 degrés Celsius. Par conséquent, le nombre de jours de canicule (dès 30°C) continuera d’augmenter, mettant à rude épreuve surtout les villes, qui deviennent de véritables #îlots_de_chaleur. Enfilades de maisons sans #ombre et #places_asphaltées réchauffent fortement l’atmosphère. La nuit, l’air refroidit peu, et les « nuits tropicales » (lorsque le thermomètre ne descend pas au-dessous de 20°C) se multiplient.

    Des #arbres plutôt que des #climatiseurs

    En Suisse, le chef-lieu du canton du Valais, #Sion, est particulièrement touché par la hausse de la chaleur : dans aucune autre ville suisse, les températures n’ont autant grimpé au cours de ces 20 dernières années. Le nombre de jours de canicule est passé de 45 à 70 depuis 1984. Il y a six ans, le chef-lieu a lancé un projet pilote soutenu par la Confédération, « #AcclimataSion ». Le but est de mieux adapter l’#aménagement_urbain et les normes de construction au changement climatique, explique Lionel Tudisco, urbaniste de la ville. Le slogan qui accompagne le projet est le suivant : « Du vert et du bleu plutôt que du gris ». Dans l’espace public, on mise sur une végétalisation accrue. « Un arbre livre la même fraîcheur que cinq climatiseurs », souligne l’urbaniste. À l’ombre des arbres, on enregistre en journée jusqu’à sept degrés de moins qu’aux alentours. Le « bleu » est fourni à la ville par les cours d’eau, fontaines, lacs ou fossés humides : « Ils créent des microclimats et réduisent les écarts de température ». Ces mesures visent non seulement à réduire la chaleur en ville, mais aussi à atténuer le risque d’inondations. Car le changement climatique accroît aussi la fréquence des fortes précipitations. Les Sédunois l’ont constaté en août 2018, quand un orage violent a noyé les rues basses de la ville en quelques instants.

    La réalisation phare d’« AcclimataSion » est le réaménagement du cours Roger Bonvin, une promenade située sur la tranchée couverte de l’autoroute. Avant, cet espace public de 500 mètres de long était peu attrayant et, avec ses surfaces imperméabilisées, il était livré sans protection aux rayons du soleil. Aujourd’hui, 700 arbres dispensent de l’ombre et des promeneurs flânent entre les îlots végétalisés. Une plage de sable et un vaste espace où s’asseoir et se coucher créent une atmosphère de vacances. Des enfants barbotent dans des bassins.

    #Points_chauds sur les #cartes_climatiques

    Dans les grandes villes suisses aussi, le changement climatique préoccupe les autorités. La ville de #Zurich s’attend à ce que le nombre de jours de canicule passe de 20 à 44, et veut agir. « Notre but est d’éviter la #surchauffe sur tout le territoire urbain », explique Christine Bächtiger, cheffe du département municipal de la protection de l’environnement et de la santé. Concrètement, il s’agit de réduire autant que possible les surfaces goudronnées ou imperméabilisées d’une autre manière. Car celles-ci absorbent les rayons du soleil et réchauffent les alentours. La ville souhaite aussi décharger certains quartiers où la densité d’habitants est forte et où vivent de nombreux seniors, particulièrement sensibles à la chaleur. On envisage d’étoffer le réseau de chemins menant à des parcs ou à des quartiers moins chargés. Par rapport à d’autres villes, Zurich jouit d’une topographie favorable : trois quarts des zones habitées urbaines bénéficient d’un air frais qui arrive la nuit par les collines boisées entourant la ville. Pour préserver cette #climatisation_naturelle, il faut conserver des axes de #circulation_de_l’air lorsqu’on construit ou limiter la hauteur des immeubles.

    La ville de #Bâle a elle aussi repéré les îlots de chaleur, les espaces verts rafraîchissants et les flux d’air sur une #carte_climatique. Des urbanistes et des architectes ont utilisé ces données pour construire le quartier d’#Erlenmatt, par exemple. Là, les bâtiments ont été orientés de manière à ne pas couper l’arrivée d’air frais de la vallée de Wiesental. De grands #espaces_ouverts et des rues avec des zones de verdure façonnent également l’image de ce nouveau quartier urbain construit selon des principes durables.

    La ville de #Genève, quant à elle, mise sur une végétalisation accrue. Les autorités ont arrêté l’été dernier un plan stratégique faisant de la végétalisation un instrument à part entière du Plan directeur communal. Dans le cadre du programme « #urbanature » déjà, les jardiniers municipaux avaient planté près de 1200 arbres et 1,7 million de plantes dans l’#espace_public. La municipalité juge par ailleurs qu’un changement de paradigme est nécessaire du côté de la #mobilité, avec une diminution du #trafic_individuel_motorisé. Ainsi, des cours intérieures aujourd’hui utilisées comme places de parc pourraient être végétalisées. Les arbres apportent de la fraîcheur en ville, et ils absorbent les particules fines qui se trouvent dans l’air.

    La ville de #Berne compte elle aussi agir à différents niveaux. Ainsi, les #revêtements ne seront plus imperméabilisés que si cela s’avère indispensable pour le trafic ou l’accès des personnes handicapées. Tandis qu’un revêtement en #asphalte sèche immédiatement après la pluie, l’eau s’infiltre dans les surfaces en #gravier et peut s’évaporer plus tard. « Nous devons repenser tout le #circuit_de_l’eau », déclare Christoph Schärer, directeur de Stadtgrün Bern. L’#eau ne doit plus être guidée au plus vite vers les #canalisations, mais rester sur place pour contribuer au #refroidissement_de_l’air par l’#évaporation ou pour assurer l’#irrigation. « Chaque mètre carré non imperméabilisé est un mètre carré gagné. » À Berne, les nombreuses #fontaines et #cours_d’eau participent aussi au refroidissement de l’atmosphère, comme le Stadtbach qui coule à ciel ouvert dans la vieille ville.

    En ce qui concerne la végétalisation, Berne adopte de plus en plus de variétés d’arbres « exotiques » adaptés au changement climatique. Certains arbres indigènes comme le tilleul à grandes feuilles ou l’érable sycomore supportent mal la chaleur et la sécheresse. Alors on plante par exemple des #chênes_chevelus. Ce feuillu originaire du sud de l’Europe supporte le chaud, mais aussi les hivers froids et les gelées printanières tardives qui ont été fréquentes ces dernières années. Christoph Schärer ne parlerait donc pas d’une « #méditerranéisation », du moins pas en ce qui concerne les arbres.

    https://www.revue.ch/fr/editions/2020/03/detail/news/detail/News/quand-les-villes-suent
    #urban_matter #changement_climatique #villes

    • Acclimatasion

      Le climat se réchauffe et les événements extrêmes se multiplient. Avec ACCLIMATASION la Ville de Sion s’est engagée pour la réalisation d’aménagements urbains qui donnent la priorité à la végétation et au cycle de l’eau. Objectif ? Diminuer la chaleur, favoriser la biodiversité et limiter les risques d’inondation.

      La Confédération réagit face au changement climatique. De 2014 à 2016, elle a soutenu une trentaine de projets pilotes avec pour but d’identifier les meilleures pistes pour limiter les dommages et maintenir la qualité de vie des habitants.

      La Ville de Sion, en partenariat avec la Fondation pour le développement durable des régions de montagne, a été choisie pour mener à bien un projet lié à l’adaptation des villes au changement climatique, c’est ACCLIMATASION.

      Au terme du projet pilote une série de résultats concrets sont visibles, en particulier :

      Des aménagements exemplaires ont été réalisés par la Ville dans le cadre du projet pilote et se poursuivent aujourd’hui par la réalisation de nouveaux projets. Le réaménagement du Cours Roger Bonvin réalisé en 2016 est le projet phare d’ACCLIMATASION.
      Des projets privés ont été soutenus pour montrer des solutions concrètes et inciter les propriétaires à s’engager. Le guide de recommandations à l’attention des propriétaires privés capitalise les actions concrètes que tout un chacun peut entreprendre.
      Diverses actions ont été menées pour sensibiliser la population, échanger avec les professionnels et mobiliser les responsables politiques : événements de lancement et de capitalisation, expositions et concours grand public, interventions dans les écoles.
      Les outils d’aménagement du territoire évoluent progressivement, de même que les compétences des services communaux et des professionnels. En particulier, les principes d’un aménagement urbain adapté au changement climatique ont été consolidés dans des lignes directrices adoptées par l’exécutif de la Ville en 2017 et applicables à l’ensemble des espaces publics.

      https://www.youtube.com/watch?v=PUI9YsWfT7o

      https://www.sion.ch/acclimatasion

    • #urbannature

      Ce programme, lancé par le Conseiller administratif Guillaume Barazzone, repense les espaces publics bétonnés en les rendant plus conviviaux et en les végétalisant. À terme, il a comme ambition de favoriser la biodiversité en milieu urbain. Le programme urbanature rend Genève encore plus verte ; il est mis en place et réalisé par le Service des espaces verts (SEVE).

      Le programme
      Corps de texte

      Il comprend trois niveaux d’action : des réalisations temporaires et saisonnières (fin mai à fin octobre), des aménagements durables, ainsi que l’élaboration d’un plan stratégique de végétalisation.

      Chaque année, des réalisations temporaires permettent d’amener de la végétation rapidement dans différents secteurs de la Ville. Depuis 2015, des projets durables de végétalisation sont réalisés afin d’étendre le maillage vert encore essentiellement constitué par les parcs. Le plan stratégique de végétalisation de la Ville sert à décrire les différentes actions concrètes à mener à long terme pour rendre Genève encore plus verte.

      https://vimeo.com/97531194

      https://www.urbanature.ch

    • Ô comme je pense que le mépris des dirigeants bordelais pour la nature en ville vient du fait qu’ils ont des jardins (la ville est très verte entre les murs des particuliers) et qu’ils passent l’été au cap Ferret. Qu’ils n’ont donc pas besoin de ces arbres qui pour d’autres sont vitaux.

  • Les universités, l’#enseignement_à_distance et le #Covid-19 (1/2)

    Alors que nos universités vivent depuis quelques semaines un des psychodrames dont elles ont malheureusement l’habitude au sujet des modalités d’examen ou de contrôle des connaissances à appliquer cette année, il peut être utile de prendre le temps de réfléchir quelques instants à la situation inédite à laquelle les universitaires sont confrontés et, surtout, à la manière dont cette crise va modifier, en profondeur, les métiers universitaires et l’université toute entière.

    En premier lieu, il faut remarquer et apprécier une véritable révolution spirituelle chez bon nombre de collègues, hier réticents et même hostiles à l’idée d’enseigner en ligne, de se faire enregistrer et diffuser, et qui semblent s’être convertis très rapidement à ces nouvelles méthodes, au point d’exiger, aux quatre coins de la France, l’organisation d’#examens en ligne afin de sanctionner les cours en ligne ! Alors qu’il y a quelques semaines, beaucoup refusaient catégoriquement de se laisser filmer en cours, considérant qu’il s’agissait d’une insupportable atteinte à leur liberté de parole ou d’enseignement, ils défendent aujourd’hui avec véhémence la conversion de l’université au tout numérique, examen compris, ce qui n’a pourtant jamais été envisagé même par les plus numériques d’entre nous. Étonnant revirement. Bien sûr, il convient d’interpréter ce nouvel amour pour ce qu’il est, c’est-à-dire un simple flirt passager lié aux circonstances particulières du confinement et la manifestation d’une addiction à l’examen et à la sélection qui frappe beaucoup d’universitaires.

    Toutefois, pour quelqu’un qui s’est battu presque dix ans pour développer la politique de #pédagogie_numérique de son université, cela reste un phénomène plaisant à observer. Naturellement, comme souvent, les nouveaux convertis se montrent imprudents, excessifs et bien trop zélés. Leur amour naissant les fait oublier bien des enjeux, comme la protection de la vie privée ou le nécessaire respect de l’#égalité entre étudiant∙es. Il convient, maintenant qu’ils ont la foi, de les faire réfléchir sur l’outil hier haï et aujourd’hui vénéré. Il y a urgence car si la conversion totale au numérique est une vue de l’esprit confiné, la réflexion sur ces outils désormais popularisés mais toujours méconnus doit désormais s’envisager dans une perspective de profonde rénovation de l’université que la crise sanitaire a complètement bouleversé au point de rendre un retour à la situation antérieure difficilement envisageable.

    Des #limites de l’enseignement numérique

    Une des premières choses qu’il convient de rappeler est le fait que l’équation « #cours_présentiel = #cours_à_distance » n’a jamais été vraie. Il y a une différence de nature entre les deux et il faut davantage envisager leur complémentarité plutôt que de les croire substituables. D’ailleurs, il ne s’agit pas d’établir une hiérarchie entre ces deux formes d’enseignement ! Dans certains cas, l’enseignement à distance se montre plus efficace que l’enseignement présentiel : il permet aux étudiant∙es de travailler en fonction de leur propre emploi du temps, ils peuvent revoir les interventions enregistrées, les utiliser pour apprendre puis réviser, poser leurs questions au milieu de la nuit ou en plein dimanche avec l’espoir de recevoir une réponse, rarement immédiate mais dans un délai raisonnable.

    Ainsi, dans mon université, après avoir créé une préparation estivale à distance pour les étudiant∙es souhaitant passer l’examen d’accès aux CRFPA (les centres de formation pour les futurs avocats), nous avons pu dématérialiser quasiment l’intégralité des préparations, même durant l’année universitaire, avec des résultats très concluant. Les préparations s’adressent à des étudiant∙es titulaires d’un Master 1 ou en passe de l’être et souhaitant entreprendre la carrière d’avocat. Avec un public très motivé, capable de travailler en parfaite #autonomie et ayant un temps limité pour préparer l’examen, la #dématérialisation des enseignements offre bien des avantages, pour le préparateur comme pour le préparant. Le programme est un indéniable succès qui a permis à l’université de devenir en quelques années le plus grand centre de préparation à cet examen en France. Pour autant, ce qu’il est possible de faire pour des programmes de préparation n’est pas nécessairement reproductible pour des enseignements de licence ou de maîtrise. Dans ces cas, la présence de l’enseignant demeure nécessaire pour stimuler les étudiant∙es, motiver ceux qui ne le sont pas ou plus, réorienter ceux qui sont perdus, orienter ceux qui survolent, c’est-à-dire enseigner en veillant à ne jamais laisser des étudiant∙es décrocher mais en s’efforçant aussi de ne pas frustrer les meilleurs. La recherche de ce fragile équilibre n’est pas vaine, dans un amphi ou dans une classe. Tous ceux qui ont eu l’occasion d’enseigner et qui ont senti une vocation, non à se mettre en scène, mais dans le fait de transmettre, le savent. Sans lieu, sans classe, sans amphi, tout cela disparaît et n’est pas remplacé. Il n’y a pas lieu de recenser ici les innombrables différences entre l’enseignement à distance et en présence de l’enseignant mais il convient de comprendre qu’elles sont de toute nature. Ainsi, par exemple, il n’est pas absurde de s’interroger sur la disparition ou la transformation du sentiment d’#empathie derrière un écran et l’effet que cela peut avoir sur le processus de #transmission. Quiconque connait le métier est à même de voir les innombrables différences entre ces méthodes s’il fait l’effort d’y réfléchir.

    Ensuite, même si dans certains cas l’enseignement à distance peut être utile et efficace, il suppose des #outils qui ne peuvent être improvisés en quelques jours ou en quelques semaines ! La construction d’un cours en ligne est un travail conséquent, que l’universitaire ne peut, en général, mener seul, sauf à réduire son enseignement à quelques vidéos mal cadrées dans lesquels on le voit en contrejour parler pendant des heures avec un mauvais micro ou à des documents à imprimer de plusieurs centaines de pages balancés en vrac aux étudiant∙es. L’attention d’un auditeur en amphi est déjà limitée à quelques dizaines de minutes ; devant un ordinateur, chez lui, c’est pire ! Le pouvoir de l’éloquence, les effets de manche et même, pour l’étudiant, le fait de pouvoir s’adresser à son voisin pour quelques secondes de détente disparaissent en ligne, ce qui rend le cours bien plus monotone et difficile à suivre, quel que soit l’intérêt de l’étudiant pour le propos de l’enseignant. Il convient donc de concevoir des #outils_pédagogiques qui prennent en compte ces limites et qui s’adaptent à cette réalité. La conversion en quelques jours et dans l’urgence de centaines d’enseignements en cours en ligne est une entreprise vouée à l’échec malgré l’enthousiasme de certains collègues et, si cette solution imparfaite permet malgré tout de sauver l’année en cours, elle ne saurait être considérée comme un modèle pour l’avenir ni comme une base sérieuse pour mettre en place un contrôle des connaissances discriminant.

    Surtout, l’enjeu de demain transcende largement le problème d’aujourd’hui et devrait nous convaincre, collectivement, à engager une réflexion approfondie sur notre avenir. Pense-t-on sérieusement que, passée la crise actuelle, nous allons revenir au monde d’hier, avec les amphis bondés, les couloirs noirs de monde, les nez qui coulent et les gorges qui raclent par centaines en hiver dans des espaces mal aérés ? Les comptoirs administratifs pris d’assaut, les files d’étudiant∙es se pressant autour de l’enseignant à la fin du cours, les cocktails de fin d’année où l’on égare son verre et récupère celui du voisin, les rentrées chaotiques avec les étudiant∙es perdus, errant de salles en salles à la recherche de leur enseignant, tout cela risque d’être impossible dans le monde de demain. La fin du confinement n’annonce pas la fin de la #distanciation_sociale ou de l’impérieuse nécessité de respecter des règles d’hygiène minimales actuellement impossibles à imaginer dans le contexte universitaire. Trop d’étudiant∙es, aucun moyen, des locaux vétustes et des habitudes bien ancrées risquent de faire de la rentrée et de toutes les rentrées prochaines un insoluble #casse-tête.

    Un nouveau modèle universitaire

    C’est dans ce cadre que l’outil pédagogique numérique mérite d’être étudié. Bien pensées, les formations à distance peuvent représenter un appui à l’intégration à l’université pour de nombreux étudiant∙es mais aussi des méthodes d’approfondissement particulièrement efficaces ; elles peuvent aussi être étudiée afin de désengorger considérablement les locaux universitaires permettant alors de consacrer les mètres carrés libérés à des actions davantage personnalisées. Ainsi, par exemple, il est possible d’imaginer que certains cours en présentiel ne soient accessibles qu’après avoir finalisé un parcours numérique d’apprentissage. Il n’est pas nécessaire d’imaginer des tests ou des examens discriminants : le simple suivi sérieux du cours peut suffire à s’assurer de la motivation et à exclure les plus dilettantes des séances en présentiel.

    Naturellement, des dispositifs d’appui aux étudiant∙es en difficulté numérique ou ayant besoin d’un suivi plus dense doivent se développer. Cette diversification plaide pour une multiplication des classes aux #effectifs_restreints. En revanche, l’enseignement classique, les cours dans les gigantesques amphis, serait progressivement abandonné au profit de #conférences_numériques accessibles à un nombre encore plus important d’auditeurs dans des conditions de sécurité et d’hygiène garanties. Ces conférences pourraient se tenir en public, avec un auditoire restreint mais, diffusées à grande échelle, elles permettraient à tous d’y accéder simplement. Ces nouvelles méthodes d’apprentissage pourraient également favoriser l’#entraide au sein de la communauté étudiante en valorisant l’échange entre étudiant∙es de niveaux différents. Le tuteur étudiant pourrait être rémunéré, le libérant ainsi de la nécessité de trouver des financements pour ses longues études en dehors de l’université. Ces nouveaux circuits économiques, peu exploités en France avant le doctorat, auraient pour effet de renforcer la communauté universitaire, multipliant les liens entre l’institution et son public.

    Dans ce nouveau monde universitaire, le mandarin avide de cours d’amphi mais avare d’échanges et fuyant l’étudiant comme la peste n’aurait plus vraiment sa place – qui s’en plaindra ? – contrairement à l’enseignant affable et humain, privilégiant le dialogue au monologue. Cela suppose, dans de nombreuses disciplines, une transformation radicale du rapport de l’enseignant-chercheur avec son université et ses étudiant∙es. Ainsi, par exemple, s’il doit pouvoir bénéficier d’un lieu de travail adapté au sein des locaux universitaires, l’enseignant doit, en contrepartie, accepter un temps de présence plus important au sein de la faculté au bénéfice exclusif des étudiant∙es. Le bureau de l’enseignant pourrait ainsi se transformer en lieu de production et de transmission du savoir, accessible aux étudiant∙es comme aux collègues. Aujourd’hui, le bureau universitaire, denrée rare dans certaines universités, est le plus souvent un simple espace utile pour expédier les trop nombreuses tâches administratives qui pèsent sur les épaules de nombreux enseignant∙es-chercheur∙es investis dans leurs universités et organiser quelques rendez-vous pour traiter les cas d’étudiant∙es un peu atypiques et suffisamment téméraires pour demander un entretien. La culture de la porte ouverte n’existe pratiquement pas.

    Plus généralement, ce nouveau modèle permettrait de mettre fin à l’illusion selon laquelle l’égalité serait respectée en offrant à tous le même régime. Il privilégierait, au contraire, une approche fondée sur la diversité et la confrontation avec l’étudiant, envisagé dans sa singularité et non comme un simple atome d’une masse informe dont il s’agirait de trier le bon grain de l’ivraie. Cette adaptation de l’institution à ses étudiant∙es ne saurait naturellement être totale mais au contraire centrée sur ce que l’université a réellement à offrir, c’est-à-dire le fruit du travail des chercheurs qui sont le véritable cœur de l’institution universitaire.

    https://academia.hypotheses.org/23645

    #université #facs #France #enseignement_distanciel #confinement #coronavirus #ESR #témoignage

    • Marianne veut anticiper les bons et les mauvais côtés du #téléenseignement à la #rentrée

      Pour dédoubler les enseignements — cours magistraux et travaux dirigés — à la rentrée 2020, il faut des locaux et des enseignant·es. Difficile de gérer les locaux, plus simple de recruter des enseignant·es ?


      https://academia.hypotheses.org/23577

    • #LaFacÀDistance – ou imaginer notre pédagogie en #télé-enseignement

      Nous le pressentions depuis des semaines, notre ministre confirme : la rentrée universitaire de l’automne sera au moins en partie en distanciel.

      Nous avons besoin de nous y préparer dès maintenant. Pour cela, quelques éléments à garder en tête d’abord :

      Oui, nous n’avons pas envie de le faire, parce que nous aimons enseigner en présence de nos étudiant∙es. Cela peut même être au cœur de notre pratique et identité professionnelles, voire la raison pour laquelle nous avons choisi ce métier. Il faut prendre le temps d’acter ce renoncement sous contraintes et de faire le deuil de ce qui aurait pu être.
      Oui le passage au distanciel pose énormément de questions politiques (mainmise d’entreprises privées par les outils choisis, accroissement de certaines inégalités – pas toutes –, instrumentalisation au service de la néolibéralisation en cours à l’université avec plus de précariat, moins de protection des personnels, risques psycho-sociaux etc.). N’oublions cependant pas que l’enseignement à distance est là pour améliorer la sécurité sanitaire des étudiant∙es, d’abord, et des personnels, pas seulement enseignantes. Et n’oublions pas non plus le travail acharné depuis des années en pédagogie critique du supérieur pour faire de l’enseignement à distance qui ait un vrai sens pédagogique et émancipateur1. Jeter l’anathème sur l’enseignement à distance dans son ensemble, non.
      Ce que nous avons fait au second semestre est un atterrissage en catastrophe : transférer en quelques jours des enseignements conçus pour être en présentiel en distanciel. Sans savoir pour combien de temps (@6amart6), sans avoir le temps d’être formé·es à cela ou d’y avoir réfléchi, avec les outils que nous avions sous la main, que nous prenions en main, en devant en changer, etc. Ce n’est donc pas du distanciel, c’est de la gestion d’urgence. Nous avons là un peu plus de temps pour réfléchir à nos enseignements de la rentrée et pour pouvoir les concevoir différemment. Nous pouvons prendre le temps de les penser en distanciel (surtout les CM). Nous pouvons les construire de manière flexible permettant l’alternance de phases en distanciel et en présentiel, sachant que nous n’aurons pas la main sur les dates d’éventuels reconfinements. Nous pouvons intégrer la possibilité d’un retour en présentiel, ce que @melpicard appelle les « penser à l’envers.
      Ce qui ne veut pas dire que nous n’avons rien à apprendre de l’expérience de ce semestre (full disclosure : ma charge d’enseignement mensuelle est presque en totalité au premier semestre, donc vous en savez en général plus que moi). Voir ce qu’en dit Michelle Miller ici : https://www.chronicle.com/article/5-Takeaways-From-My-Covid-19/248713 et les liens très intéressants de l’article.
      Enfin, tout ne dépend pas de nous. Beaucoup de nos étudiant·es n’ont pas d’ordinateur personnel (ou insuffisant) ; iels n’ont pas de lieu où travailler, pas de connexion stable, etc. Si nous pouvons et devons continuer de faire pression sur nos établissements pour que cela soit intégré (par l’emprunt d’ordi, par des envois et financements de clefs 4G comme cela a été fait, pour l’intégration des salles informatiques dans les équipements à rouvrir, avec règles de distanciation sociale, etc.), si nous pouvons et devons concevoir des dispositifs pédagogiques flexibles, avec des roues de secours pour un maximum de configuration
      J’insiste sur ce point : nous, enseignant∙es-chercheru∙ses, n’avons pas les moyens de résoudre ce problème matériel. Sachons distinguer ce que nous pouvons et devons faire, ce que nous devons faire remonter, et ce qui n’est hélas pas dans nos mains – nous en serons plus efficace ou plus satisfait∙es et moins en burnout.

      Nos étudiant·es savent quels sont leurs besoins et viennent d’avoir l’expérience de ce semestre en distanciel de catastrophe. Demandons-leur ce qui a marché et ce qui ne convient pas (sachant que les besoins et problèmes sont différents en fonction des gens, des disciplines, des niveaux, des établissements…) et mettons nos idées en commun (#entraide #KropotkinFoerever). En nous rappelant que sur cette question comme sur beaucoup de questions pédagogiques, il n’y a pas de solution magique et que chacune doit être adaptée à nos situations d’enseignement.

      Je restitue donc ici la discussion qui a eu lieu sur Twitter, en grande partie sous l’hashtag #LaFacADistance (merci @6amart6), en remerciant très sincèrement toutes les personnes qui y ont participé, listées ci-dessous. J’ai essayé d’attribuer au maximum les idées, parfois collectives ou dialogiques, et de les créditer quand leurs auteur·es m’en ont donné la permission, en citant les tweets en les éditorialisant a minima. Mes excuses, vous étiez tant que j’ai très probablement oublié des gens dans la multitude des belles réponses.

      Pour chacun.e d’entre nous
      1. Créér et maintenir la relation enseignant·e / étudiant·e

      Des rencontres (pouvant être visio) en petit groupe pour faire connaissance et instaurer la relation de confiance, notamment avec les nouveaux et les L1 (@Chouyo)
      Des horaires de permanence hebdomadaire aussi en visio, pour garder un maximum de contact et être accessible à celleux qui rencontreraient des problèmes. Et quand ces permanences sont pour répondre aux questions sur le cours, laisser un peu de temps pour « digérer » (@FrançoisLevrier) !
      Des tchats dédiés, pour comprendre collectivement les difficultés et ne pas hésiter à en parler pour ajuster (@GoLuluGogo)
      Les liens importants et adresse mail de contact dispo et visibles partout, tout le temps. (@Chouyo)
      Une vidéo d’accueil du cours, en particulier pour les L1
      Des accusés de réceptions des travaux, permettant de limiter le stress (@mcbd, @Chouyo, @WritingRg)

      2. Accompagner la création d’un collectif

      pour des L1 en particulier, mais pour les autres aussi, il faut favoriser le contact entre étudiantEs voire le travail de groupe, y compris sur les rendus (éventuellement en optionnel, @edragone18). Ce n’est déjà pas toujours évident en présentiel mais c’est gage d’entraide et donc de ne pas uniquement se reposer sur les enseignant·es. Cela aide aussi à la motivation (@GoLuluGogo). Cela peut aller avec un outil de type réseau social dans l’ENT (@melpicard) et selon plusieurs modalités : rendre un devoir commun, partager une lecture, échanger dessus, partager des incompréhensions, se relire (@ChRabier). L’idée est d’avoir un relais à l’enseignant·e et que le cours vive entre étudiant·es. De favoriser la cohésion et l’aide pour la réussite de toustes (@GoLuluGogo).

      3. Les cours eux-mêmes

      Un syllabus clair et complet pour chaque cours (@melpicard)
      Prendre un maximum de groupes de TD associés quand on fait le cours d’amphi pour permettre du face-à-face (oui, collègues PR, vous aussi). Car, comme le souligne @GoLuluGogo, les TD auront une vraie fonction de lien social. Sans lien et sans confiance mutuelle, le distanciel est pénible pour les enseignant·es et les étudiant·es.
      Enregistrer une partie du cours par oral (@edragone18) pour aller avec le PDF et/ou les diapos
      L’explication des cours en version vidéo (@49Lyloo05), en se rappelant des contraintes de connexion de certains étudiant·es et des difficultés à charger des fichiers lourds, ainsi que des recommandations des études de pédagogie sur le fait qu’il faut éviter des vidéos longues (<15 mn), inefficaces sur le plan de la transmission et de la rétention des informations. Bien cibler donc.
      Un mélange entre éléments synchrones (nécessaires, @adelinedurandm) et asynchrones
      La mise à disposition de tous les documents nécessaires numérisés (dont les ouvrages)
      Offrir des exercices d’application pour la mise en pratique du cours et pas une simple lecture (@edragone18)
      Donner un temps indicatif pour certains travaux et cours (prévoir 15min d’écoute pour cette capsule, 25 si prise de notes etc.) (@Chouyo)
      Donner des documents et des travaux facultatifs, pour celleux qui peuvent, veulent, voire en ont besoin, ainsi que des ressources supplémentaires en libre accès (@edragone18)
      Si possible, une barre de progression de la tâche/cours par rapport au déroulé du semestre. (@Chouyo)

      4. Les examens

      Construire les examens en fonction (@anthropolegiste) : par exemple en valorisant les questions métacognitives, comme « qu’est-ce que ma matière peut vous apporter »« quelle est votre opinion sur le sujet du cours ? » comme les questions de réflexion (@claireplacial)

      5. De la souplesse et de l’attention aux plus vulnérables

      Des créneaux, rendus, dispositifs de secours pour être le plus flexibles possibles, pour que les étudiant·es ne fassent pas les frais de pannes de connexion, souci matériel, maladie, mise en quarantaine subite, etc.
      De manière plus générale, augmentation des boucles rétroactives ! Isolé·es, les étudiant·es ont encore plus besoin de retours de la part des enseignants et de motivation/réconfort. (@stperret, @49Lyloo05). Voir qui décroche, n’ose pas poser de question, ne parvient pas à se connecter pour pouvoir agir de manière ciblée.
      Être particulièrement attentif.ve aux étudiant·es handicapé·es (@adelinedurandm) et intégrer leurs besoins dans le design du cours (voir par exemple les enjeux d’accessibilités pour les étudiant·es sourd·es, si on n’a pas de vrais moyens mis sur les sous-titres, aveugles et mal-voyant·es sur les diapos (@Anne-GE).
      Être aussi attentif.ves aux étudiant·es plus vulnérables : étudiant·es étranger·es, de première génération etc.
      Prendre en compte l’impact psychologique de la situation sur les étudiant·es y compris du retour en présentiel, dans ce qui peut aussi être un lieu nouveau (@adelinedurandm, @Angryotterr)
      S’assurer que les étudiant·es en fracture numérique puissent recevoir les cours et participer au cours le plus possible (@edragone18, @6amart6).

      À l’échelle de l’équipe pédagogique :

      De la coordination, de la coordination, de la coordination

      Un calendrier clair et donné à l’avance (sur un ou deux mois dans l’idéal, voire plus) pour les dates de cours, de TD, les dates de rendus, etc., partagé (@stperret, @gaydrian_smith, @adelinedurandm, @Angryotterr, @edragone18, @Anne_GE, @WritingRg) et UTILISE par les membres de l’équipe et partagé avec les étudiant·es
      Une attention collective donnée à la charge de travail globale des étudiant·es (@FrancoisLevrier)

      À l’échelle de l’établissement

      Travailler avec les services informatiques et les services d’appui pédagogiques pour le choix des outils, les questions d’équipement, de connexion, de soutien logistique, etc.
      Idem pour les questions d’accessibilité (sous-titres, question des illustrations etc.)
      Se mettre en lien avec les services handicap pour travailler à l’accessibilité (@adelinedurandm)
      Demander que l’université propose un outil de communication collective (libre) pour ses étudiant-es (un Mattermost par ex.) ; sans quoi celleux qui ne sont pas sur facebook vont être complètement écarté·es d’un groupe « promo ». (@Anne_GE)
      Demander que l’université ait réglé leurs logiciels sur les prénoms d’usage. (@Anne_GE)

      Et beaucoup, énormément, à la folie, toujours plus, jamais assez, de bienveillance (@stperret, @edragone18)

      Enfin, la plupart de ces belles idées sont des pratiques que nous enseignant·es devrions DE TOUTE FACON, adopter en temps dit normal et en présentiel…

      Pour compléter ce rapide panorama de propopositions, nous vous invitons à continuer à faire vos propositions #LaFacÀDistance sur la plateforme ci-dessous.

      Merci de votre aide !

      Formulaire à idées :
      https://framaforms.org/lafacadistance-1589008071

      https://academia.hypotheses.org/23546

      #rentrée_2020 #rentrée_universitaire #septembre_2020

    • À distance, il n’y a pas d’école

      Sous la condition du « confinement », l’univers numérique a connu une énorme expansion. Même les plus réticents et beaucoup de ceux qui étaient exclus de l’utilisation des nouvelles technologies –généralement des personnes âgées– ont fait leur initiation. La vie à distance a forcé l’intégration dans l’écosystème numérique.

      L’expérience en cours la plus notable et la plus importante est l’enseignement à distance, qui fait sortir l’école de son enceinte protectrice et la fait entrer dans l’intimité du foyer. Le dispositif de l’enseignement à distance implique un danger auquel nous sommes tous exposés aujourd’hui, presque sans protection : une expansion significative du panoptique numérique (qui permet de tout voir et d’exercer une surveillance). Mais la question fondamentale dans cette expérience est de savoir si elle est réussie sur le plan niveau didactique (plus précisément, quel niveau de réussite a été atteint), et quelles conclusions peut-on en tirer. Il est évident que les résultats diffèrent grandement, en fonction des disciplines, des enseignants et des élèves. Je ne me fonderai pas sur des expériences particulières, les réflexions que je propose se situent sur un plan moins empirique.

      Je commencerai par la question de la transparence : l’école a été protégée tant qu’elle a bénéficié de l’état hermétique de la classe, que la porte de la salle de classe a été fermée, créant un espace discontinu, sans intrusions extérieures (espace qui pouvait être utopique ou oppressant aussi bien). Ce temps est révolu depuis longtemps et la salle de classe, qui reflète l’ouverture de l’école dans son ensemble, n’est plus un espace autarcique. La transparence, qui auparavant avait déjà donné lieu à une discussion sur la nécessité ou non de la moduler, connaît désormais, avec le confinement, une nouvelle étape : elle est devenue totale et absolue. À la maison, chacun peut regarder les « performances » des enseignants, évaluer leurs manières de faire et « apprécier » leur vidéogénie. Un certain degré de technophobie était encore toléré tant que l’enseignant exerçait dans sa classe ; dans l’enseignement à distance, ce n’est pas possible, et les arguments pour légitimer cette technophobie ne semblent plus recevables.

      Mais la question la plus importante qui ressort de cette expérience exceptionnelle — qui a peut-être pour effet de montrer combien l’école est une institution indispensable et capable d’alimenter la dernière utopie à laquelle nous avons droit — est celle de l’école comme lieu de construction du collectif et de la centralité de la classe en tant que communauté. Le modèle de la communauté éducative a une très grande signification politique.

      Un autre aspect important est celui de l’attention. Comme nous le savons, le plus grand défi de l’école est celui de l’attention : comment gagner et fixer l’attention des élèves, ces « sujets numériques » qui vivent sous le régime du fractionnement de l’attention ? Le grand combat de l’école, ces dernières années, a consisté à se doter de rituels spécifiques qui servent de dispositifs attentionnels, afin de récupérer ce que l’on appelle généralement « l’attention conjointe » (ou attention partagée), mode qui désigne le fait que l’attention de quelqu’un (dans la circonstance, un élève) est attirée sur l’objet qui lui est indiqué par la personne (dans la circonstance, le professeur) qui joue un rôle de guide.

      Or l’attention conjointe est intrinsèquement liée à la présence. C’est un fait bien connu de nos jours que les enfants et les adolescents n’échouent pas à l’école parce qu’on leur y enseignerait des choses difficiles à apprendre, mais parce que ce qu’ils apprennent à l’école ne les intéresse pas. C’est pourquoi les situations d’enseignement doivent être analysées du point de vue d’une écologie de l’attention. La salle de classe doit être conçue comme un écosystème d’attention. Est-il possible de créer cet écosystème dans l’enseignement à distance ? Dans son livre sur la figure du pédagogue Joseph Jacotot, Le maître ignorant, le philosophe français Jacques Rancière décrit et analyse une action pédagogique visant essentiellement à « l’émancipation intellectuelle ». La fonction essentielle du maître (potentiellement ignorant) n’est pas d’expliquer les contenus, mais d’exercer sur les élèves la capacité d’attention, soit par un ordre imposé, soit en stimulant leur désir. Toute l’expérience de l’enseignement, dit Rancière, doit tendre à « l’habitude et au plaisir que l’on éprouve en observant et en fixant avec attention » (attention : ad-tendere, tendre vers). C’est pourquoi la salle de classe est le lieu d’une expérience unique, irremplaçable, capable parfois de procurer une expérience euphorique, tant au « maître » qu’aux élèves.

      https://academia.hypotheses.org/23475

    • #As_It_Used_To_Be

      Depuis 2001, le « 48 Hour Film Project » est une compétition annuelle qui invite de jeunes réalisateurs à réaliser un court-métrage à contraintes (en 48h, en tirant au sort genre, personnage, objet, réplique). Après avoir remporté la victoire à Paris en 2011 avec le film « Casse-gueule », #Clément_Gonzalez a rencontré le succès à nouveau avec « As it used to be » en 2012 (mise en ligne 2013), qui développe en deux séquences et 8’13’’ quelques puissantes images associées à l’enseignement à distance (EAD) dans les universités. Le concours se tient dans une centaine de centres urbains du monde entier ; c’est à Johannesburg que Clément Gonzalez et son « Collectif 109 » ont tourné « As it used to be », dont la carrière a débuté de façon foudroyante par une avalanche de programmations et de récompenses1, avant de ressurgir en 2020 par la grâce d’une généralisation brutale et massive de l’EAD dûe aux mesures de confinement.

      L’Université de Johannesburg prête son architecture brutaliste aux décors de cette courte histoire de near future, comme l’ont fait ensuite les structures de la Bibliothèque Nationale de France dans la série Tripalium (Arte, 2016), ou auparavant les célèbres Espaces d’Abraxas de Noisy-le-Grand dans de nombreux films, de Brazil (1985) à Hunger Games (2012). L’Université de Johannesburg est d’ailleurs également réputée pour avoir lancé les premiers diplômes 100% à distance d’Afrique du Sud en 2017 et 20182 – et ses étudiant·es se sont fortement mobilisé·es en avril dernier pour faire entendre la voix des moins bien équipé·es des leurs3.)

      Le charisme des deux acteurs du film, l’intelligence et l’émotion de cet aperçu de la passion d’enseigner font dire à Clément Gonzalez que le court-métrage, depuis le début, a rencontré l’adhésion aussi bien des étudiant·es que des professeur·es. Il confie également qu’un projet d’extension en long métrage est en écriture depuis quelque temps. Le moment ne serait pas mal choisi pour développer un récit de contre-dystopie, où des voix persévèrent à résonner entre les murs des amphis.

      https://academia.hypotheses.org/23598
      https://vimeo.com/57814889

      #court-métrage #film

    • Les universités, l’enseignement à distance et le Covid-19 (2/2)

      Mettre fin à une lente et longue dérive

      Ces dernières années, deux phénomènes ont progressivement fait perdre son sens à l’université et l’ont profondément pervertie. D’une part, la complexification administrative due notamment à l’augmentation des effectifs étudiant∙es conjugué à la réduction du personnel administratif, a eu pour effet de développer la fonction administrative de l’enseignant-chercheur, au détriment de ses deux véritables fonctions, l’enseignement et la recherche. Cette nouvelle fonction administrative est évidemment mal assurée par un personnel qui n’a pas été formé à cela et qui vit cet investissement nécessaire le plus souvent comme une punition ou une calamité. Cela a pour conséquence d’augmenter les tensions entre la composante administrative de l’université et la composante pédagogique et de diminuer, encore, la qualité du service surtout dans les grandes universités au sein desquelles les personnels se connaissent mal. D’autre part, la croyance, de plus en plus ancrée dans l’esprit des étudiant∙es, des enseignant∙es et de la société en général, selon laquelle le diplôme universitaire permet d’accéder à l’emploi, a entrainé une modification de la nature de l’enseignement et des diplômes universitaires, pensés comme de plus en plus professionnalisant et techniques et reflétant de moins en moins l’activité de recherche dans la discipline concernée. Le tissu économique, l’État et désormais de nombreux étudiant∙es voudraient que l’on sorte de l’université prêt·e à l’emploi, ce qui est difficilement envisageable dans la mesure où la plupart des futurs métiers des étudiant∙es universitaires ne sont pas représentés dans les athénées. Si le diplôme peut parfois permettre d’accéder à une profession, cela reste marginal et surtout cela ne saurait être considérée comme un élément décisif pour juger de la pertinence d’un enseignement universitaire.

      Le monde de l’entreprise a un intérêt à la transformation des universités en de gigantesques centres de formation professionnelle, car cela permet de réduire les coûts de la formation interne des entreprises. Le savoir technique est enseigné par des fonctionnaires, les stages sont financés par l’argent public et l’employeur peut donc embaucher des travailleurs prêts à l’emploi. Le risque d’une rapide obsolescence des formations trop techniques est ignoré au profit d’une incessante critique de l’incapacité de l’université à s’adapter à la réalité économique… Le transfert du coût de la formation interne des entreprises à la collectivité nationale, à travers notamment l’institutionnalisation du stage, n’est jamais mentionné et les universitaires sont au contraire invités à remercier gracieusement les entreprises pour leur sacrifice qui consiste à accueillir une main d’œuvre jeune, motivée et… pratiquement gratuite ! Loin de pouvoir leur demander des comptes, les universités sont sommées de se plier aux desideratas de ces gentils philanthropes. Si la loi d’encadrement des stages a permis de mettre fin à certains abus trop criants pour être ignorés, elle n’a pas eu pour effet de modifier le système en profondeur ou de changer les rapports déséquilibrés qui se sont progressivement installés au profit du monde économique.

      Surtout, ces deux évolutions concomitantes, l’augmentation de la charge administrative et l’injonction du prêt à l’emploi, ont perverti le travail de l’universitaire qui n’exerce plus que marginalement le métier qu’il a pourtant choisi et pour lequel il a été formé plusieurs années. Avec moins de temps à consacrer à ses recherches et contraint d’enseigner un savoir de plus en plus éloigné d’elles, il subi, comme de nombreux fonctionnaires, une lente dérive qui l’éloigne de ce qu’il est ou plutôt de ce qu’il voulait être. L’irruption massive du numérique, si elle est aussi pensée à cet effet, peut constituer un moyen efficace pour aider l’université à sortir de cette situation désolante et à se retrouver.
      L’informatique au service du renouveau universitaire

      Certes, il ne s’agit pas du remède universel capable de guérir miraculeusement tous les maux ! L’outil informatique demeure un simple instrument qui peut servir le pire comme le meilleur. Il peut toutefois permettre de concilier des impératifs apparemment contradictoires comme la nécessaire diminution de la fréquentation des sites universitaires et l’augmentation de l’audience des universités. Il favorise aussi le travail de divulgation et de diffusion des travaux de recherche dont tout chercheur doit aujourd’hui se préoccuper. Ainsi, les revues universitaires, les éditions de facultés qui ont progressivement disparu ou qui vivotent ici ou là doivent devenir de puissants vecteurs de diffusion des travaux des universitaires, non en direction uniquement de leur propre communauté scientifique, mais également en s’adressant au plus grand nombre. La recherche étant financée par des fonds publics, il va de soi que le savoir produit doit être distribué gratuitement ou à des coûts très modiques, ce que permet l’approche numérique. A contrario, l’existence des centaines et parfois des milliers de revues, propriétés de grands groupes privés mais qui vivent uniquement grâce au travail des chercheurs, principalement fonctionnaires, et concentrent aujourd’hui l’essentiel des publications scientifiques dans plusieurs domaines, mérite d’être profondément remis en question. Des initiatives en ce sens existe déjà et doivent être massivement développées.
      De même, la production de matériel pédagogique par les universitaires ne peut continuer, comme aujourd’hui, à alimenter un marché privé très rentable, massivement financé par l’impôt puisqu’essentiellement destiné à vendre des produits réalisés par des fonctionnaires dans le cadre de leur fonction mais qui débouche sur la vente de manuels forts chers pour les bourses étudiantes. Là encore, l’outil numérique est à même d’escamoter ce modèle économique étrange au profit d’une vision moins naïve permettant de rendre à l’université ce qui est à l’université tout en offrant à l’étudiant l’outil sans lequel ses études s’avèrent impossible et qu’il est aujourd’hui obligé d’acheter à un éditeur privé.

      A contrario, comme les universités en font douloureusement l’expérience depuis plus de dix ans, l’outil numérique ne peut se substituer à l’existence d’une administration universitaire importante pour ne pas dire pléthorique. La diminution conséquente du personnel administratif par rapport à la masse d’étudiant∙es en constante augmentation a conduit au recours au traitement informatique des données dans un nombre toujours croissant de domaines, des inscriptions à la saisie des notes jusqu’à la délivrance des diplômes. Tout, ou presque, a été dématérialisé. Si ce processus présente d’indéniables avantages qu’il convient d’exploiter pour l’avenir, il ne doit paradoxalement pas être accompagné d’une réduction massive des effectifs administratifs et doit au contraire servir à développer des fonctions essentielles progressivement délaissées.

      Il en va de la survie même de l’administration universitaire dont le travail ne peut se réduire, pour des milliers de fonctionnaires, à la saisie informatique de données. Ce travail à la chaine aussi abrutissant que dévalorisant doit être subdivisé et le plus possible délégué ou partagé avec l’ensemble de la communauté universitaire : personnels administratifs, enseignant∙es mais aussi étudiant∙es. Cette tâche ingrate mais nécessaire doit être évidemment compensée à la hauteur de sa pénibilité. Aux côtés de cette administration fortement dématérialisée et déconcentrée, il faut reconstruire une administration qui soit un véritable soutien aux usagers comme aux enseignant∙es. Cela ne signifie pas rétablir une hiérarchie interne qui n’a pas de raison d’être entre l’administration et les pédagogues mais au contraire mettre l’ensemble de l’université, enseignant∙es et administrations, au service des étudiant∙es et plus généralement de la fonction universitaire.

      Il faut un personnel formé, qualifié, comme il en existe dans des milliers d’entreprises prestataires de service qui se soucient du niveau de satisfaction de leurs usagers et se préoccupent de leurs employés. Ainsi, par exemple, les universités doivent se doter de réels services de ressources humaines, avec un suivi des carrières, une capacité à proposer à chaque employé des possibilités d’évolution, des informations utiles sur la formation professionnelle, etc. Aujourd’hui, les services d’orientation pour les étudiant∙es sont quasiment inexistants alors que l’univers de l’enseignement supérieur n’a jamais été aussi complexe. Également, les directions des relations extérieures doivent être renouvelée et renforcée, en particulier au service des étudiant∙es qui souhaitent avoir une expérience à l’étranger et pour lesquels si peu est fait. La liste des services à repenser est longue et il ne s’agit pas ici de la dresser avec exhaustivité. Il convient, dans un premier temps, simplement d’admettre que si beaucoup de choses peuvent aujourd’hui être traitées exclusivement par mail et par tableur, comme les inscriptions ou le suivi académique, d’autres ne peuvent pas l’être et ne pourront jamais l’être. Il faut cesser de faire comme si dans le simple objectif non avoué de réduire, toujours plus, les dépenses et donc le personnel. Le chantier de reconstruction de l’administration universitaire est immense et la route est longue mais il faut s’y engager pour espérer redonner à l’université sa fonction et par là-même, son prestige.
      Le nerf de la guerre : le diplôme national

      Rien ne sera cependant possible sans une réflexion profonde sur la place des titres et diplômes que délivrent les universités et qui se sont progressivement substitués au chercheur, à la recherche et à l’enseignement, pour devenir le véritable moteur de l’université. Il convient de les considérer pour ce qu’ils sont, c’est-à-dire de simples accessoires d’une entreprise plus noble et bien plus complexe que la distribution des distinctions : la transmission du savoir universitaire. Le titre ou le diplôme ne donne pas de travail, tout au plus qualifie-t-il pour un emploi mais dans la majeure partie des cas il n’est là que pour attester de la formation reçue par le diplômé. Il n’a pas d’autre valeur que celle qu’il certifie, à savoir la qualité de l’enseignement. Or, l’université ne sait véritablement et efficacement former que par la transmission du savoir qu’elle produit et dont elle est dépositaire. Ce savoir est parfois très pratique, y compris dans des champs disciplinaires qui pourraient paraître improductifs, mais il demeure intimement lié à l’activité du chercheur. Ce lien indissoluble entre recherche, enseignement et diplôme doit être restauré et conduire à l’abandon de l’idée selon laquelle l’université pourrait tout enseigner. Elle ne doit plus être vue comme le prolongement naturel de l’éducation nationale, destinée à accueillir toute la jeunesse française, prétendument capable de tout enseigner et de tous les former. A contrario, elle doit s’ouvrir à nouveau sur la société et s’adresser à tous, jeunes et moins jeunes, indépendamment de la question de la délivrance d’un titre national qui viendrait systématiquement sanctionner ses formations. L’univers de la formation aujourd’hui regorge de méthodes de certifications et autres techniques qui attestent de l’enseignement ou de la formation reçue, de manière plus souple, moins contraignante et souvent bien plus pertinente que les diplômes nationaux. Les universités doivent investir massivement ce champ afin de valoriser les domaines de recherche de ses enseignant∙es-chercheur∙es et au contraire délaisser les multiples formations pour lesquelles elles n’ont d’autres compétence que leur capacité à faire appel à des formateurs extérieurs ou à forcer leurs propres enseignant∙es.

      Le diplôme national, avec son cadre nécessairement rigide et l’indispensable harmonisation des formations qui le délivrent, doit retrouver sa juste place, c’est-à-dire celle d’un titre donnant accès à des professions, des métiers ou des formations qui ne peuvent être exercés ou suivies par quelqu’un qui n’en serait pas titulaires. Ainsi, la santé, la justice ou encore l’enseignement sont des activités qui peuvent supposer une certaine uniformité du savoir transmis aux futurs acteurs. C’est à la fois lié à la nature de l’activité et à sa prise en charge par la communauté. Il est d’ailleurs intéressant de remarquer, qu’à l’exception notable de la formation médicale qui peut intégralement avoir lieu au sein de l’université grâce aux centres hospitaliers universitaires, de nombreuses activités réglementées requiert le passage d’examens et de formations à l’extérieur de l’université, comme pour les professions juridiques (avocats, notaires, juges…) ou l’enseignement. En revanche, le diplôme national, n’a, dans de très nombreuses situations, aucune utilité : ainsi des milliers de métiers les plus divers peuvent légalement s’exercer sans devoir exhiber de titre. Malgré cela, le diplôme national s’est progressivement imposé comme la forme normale de certification d’une formation d’enseignement supérieur au détriment de la diversité et surtout de la qualité réelle des formations dispensées. Il ne garantit évidemment aucune forme d’égalité entre étudiant∙es provenant d’établissements universitaires différents mais donne au contraire lieu à des formes de concurrence malsaine entre établissements : certains choisissant de limiter l’attribution du diplôme afin de garantir la « qualité » du titre délivré par l’université tandis que d’autres facilitent cette obtention afin d’attirer des candidats. Le marché de l’emploi n’est pas dupe de cette réalité et sait parfaitement établir sa propre échelle de valeur des formations délivrées par les établissements universitaires. Aussi, faire croire que le diplôme est le même quelle que soit l’université qui le délivre consiste à entretenir une fiction à laquelle plus personne ne croit et qui finit non par valoriser la formation moins qualitative mais à faire perdre son sens au diplôme national.


      *

      La crise actuelle permet de penser le basculement. La fermeture des universités les a inévitablement réduites à ce qu’elles sont essentiellement : une communauté de chercheurs et d’enseignant∙es au service des étudiant∙es. Pour beaucoup, ils se démènent pour permettre à leur enseignement d’exister malgré les circonstances, pour continuer à transmettre mais aussi à apprendre. La transmission et la circulation du savoir résiste alors que tout le reste s’est effondré en quelques heures suivant le confinement. Cela n’aurait pas été possible, le plus souvent, sans l’implication active des services informatiques pédagogiques qui ont dans de nombreux cas remarquablement relevé le défi et ont efficacement épaulé des milliers d’enseignant∙es et d’étudiant∙es. Cette extraordinaire et héroïque résistance de ce qui constitue l’âme de l’université, sa fonction première de sauvegarde et de transmission du savoir, est un trésor sur lequel construire l’avenir.

      https://academia.hypotheses.org/23753

  • Rentrée 2020 : #Vidal à la pêche aux moules

    Voilà près de deux semaines que la rumeur court (https://twitter.com/ChRabier/status/1255538859137478656?s=20]).

    Sur Twitter, on lit des choses comment en réunion d’UFR, on nous a dit qu’on pourrait reprendre avec des TD de 15 ; ou nous ne pourrions pas reprendre en présentiel, ou encore :

    ou encore

    Un doyen nous assure que la veille en comité de direction, rien n’avait filtré, en dépit d’une demande insistante ; un autre collègue le contredit : « Nous, on l’a su sur le mode « j’ai interdiction de vous dire que… », notre Président ayant reçu une lettre cette semaine ». Les échanges allaient bon train, jusqu’à jeudi soir.

    Jusqu’à cette date, nous ne craignions pas des scénarios pour une rentrée de pandémie : présentiel, présentiel mixte, distanciel, rentrées décalées, etc. En bon∙nes professionnel∙les, en effet, nous souhaitons pouvoir anticiper et préparer, afin que la sidération de mars ne devienne pas cafouillage de septembre. Nous tenons à ce que nos étudiant es soient correctement formés, qu’ielles aient accès aux connaissances et aux méthodes que nous souhaitons leur transmettre, quitte à réfléchir plus longuement aux dispositifs qu’il nous faut imaginer et à demander les moyens dont nous – et dont les étudiant∙es – avons besoin.

    En revanche, nous ne souhaitons pas une gestion gouvernementale telle qu’elle a commencé : mesures non-urgentes en lieu et place de gestion de l’épidémie ; défaut de budget supplémentaire pour lutter contre la pandémie et pour continuer à assurer nos missions1 ; communication en lieu et place de consultation et d’administration. Notre énergie n’était-elle pas encore consacrée cette semaine à régler les problèmes d’examens, voire à faire voter les modalités du contrôle de connaissance modifiées par l’état d’urgence sanitaire. Il était temps de disposer de perspectives solides pour la rentrée.

    C’est raté. Faute d’utiliser la voie officielle et hiérarchique, la Ministre jette son dévolu sur le Parisien en édition abonnés pour distiller des « informations » discutables. De quoi mettre nombre d’entre nous, du professeur en mathématiques à la maîtresse de conférences en littérature, en passant par des directeurs d’UFR, « en rage ».

    Le plan de #déconfinement du #MESRI nous était parvenu officiellement mardi 5 mai 2020, soit deux jours avant. Il prévoit que nous serions informé∙es mi-juin des dispositions pour la rentrée. Mi-juin : c’est vraiment limite ; on aurait aimé avoir eu idée des grandes lignes ou des possibilités étudiées dès maintenant. Mais c’est le rôle de l’administration d’informer les agents de l’enseignement supérieur. Ce n’est pas celui d’une journaliste.

    C’est pourtant Le Parisien en mode péage qui publie notre première circulaire de rentrée. Pourquoi Le Parisien ? On ne saura pas, mais la plupart des titres ont, depuis, repris les informations délayées au compte-goutte dans l’interview. L’opération de communication laisse entendre un travail étroit avec les présidences d’universités. Elle a un but : elle vise à court-cuiter toutes les instances universitaires, les directions opérationnelles des UFR et les organisations syndicales, qui ont pourtant voix à porter au chapitre et qui seront en première ligne à la rentrée.

    Que dit Frédérique Vidal ?

    Après des banalités sur les examens – les universités ont fait beaucoup, et elles font toujours beaucoup – et sur les concours en présentiel cet été – masques ou pas masques – la Ministre est interrogée sur les « amphithéâtres bondés ».

    Nous avons demandé aux établissements de prévoir que les #cours_magistraux puissent être offerts à distance. Ils sont en train de regarder si c’est possible. On se prépare à plusieurs scénarios mais avec une ligne : les dates de la rentrée ne seront pas décalées.

    Que faut-il entendre ? Ce qui est non-négociable, ce n’est pas la qualité de la formation, c’est la #date_de_la_rentrée. « Les cours magistraux [seront] offerts à distance » : l’enseignement n’étant pas un #service, les enseignant∙es-chercheur∙ses « n’offrent » pas des cours, mais assurent un #enseignement. Or c’est l’ensemble de la #pédagogie qu’il faut revoir, en concertation. Cela prend du temps et requiert des moyens. Nous n’aurons donc ni l’un ni les autres.

    La question de la journaliste qui suit semble venir directement de la bouche de la Ministre.

    Est-ce que les #cours_à_distance vont rester pour de bon à l’université, même après la crise ?

    Il est déjà classique de proposer des #enseignements_hybrides, où une partie se fait à distance. Que l’on puisse franchir un pas supplémentaire pour les cours magistraux, les équipes y réfléchissent. Mais on n’apprend pas uniquement dans des livres ou sur ordinateur. Il faut des interactions avec les enseignants. C’est essentiel.

    Non : il n’est pas classique de proposer des enseignements hybrides, si cela veut dire suppression de cours magistraux. Certes, nous n’avons pas attendu ce Ministère pour développer des stratégiques pédagogiques sophistiquées, reposant sur l’enquête de terrain2 ou les tutoriels vidéo, par exemple. Pour autant, il ne s’agit pas de jeter le bébé avec l’eau du bain. Les cours magistraux s’avèrent une entrée indispensable à la matière, à la curiosité, aux savoir-faire, des compétences rhétoriques, une entrée d’autant plus réussie qu’ils reposent sur les épaules d’enseignant∙es chevronné∙es. Les travaux dirigés le sont tout autant et demandent souvent davantage de travail, même s’ils sont moins rémunérées. Il faudait donc d’abord nous laisser, nous – enseignant∙es-chercheur∙ses, doyen∙nes de faculté, directions de diplômes – nous laisser organiser une #nouvelle_pédagogie, quitte à aménager les amphithéâtres et les salles de TD, afin qu’étudiant∙es et enseignant∙es soient satisfait∙es de la formation dispensée3.

    Notre trravail repose sur celui — absolument essentiel — des personnels administratifs, et notamment des collègues de la scolarité. Ces personnes — très majoritairement des femmes — ont assuré depuis le début de l’année déjà, et dans des conditions de travail difficile depuis le confinement , un travail remarquable pour que nos étudiant·es connaissent une scolarité aussi normale que possible, en répondant de surcroît aux nombreuses questions qu’ils ou elles pouvaient avoir. Dans un scénario « On ne change pas la date de la rentrée » qui prévoit donc la clôture de Galaxie le 1er juillet, puis la préparation de la rentrée et la finalisation administrative pour les enseignant·es-chercheur·ses pour le 10 juillet, que ces collègues continuent de travaillent sans repos pour assurer un caprice de ministre4.

    Jusqu’à hier soir, nous universitaires n’avions donc aucune idée claire des scénarios que préparait le Ministère. Nous savions déjà que ce n’était pas la note qui faisait la qualité d’un diplôme mais la formation dispensée. Nous savons désormais que ce n’est pas la date de rentrée qui doit prévaloir mais la préparation et la coordination. Nous avons deviné que nous allons préparer cette rentrée seul∙es. Pendant que la Ministre ira visiter les plages.

    Lien :
    Universités : la ministre annonce « des cours à distance à la rentrée », par Christel Brigaudeau, Le Parisien, 7 mai 2020, 20h44 : http://www.leparisien.fr/societe/universite-la-ministre-annonce-des-cours-a-distance-a-la-rentree-07-05-20

    #septembre_2020 #rentrée_2020 #rentrée_universitaire #Frédérique_Vidal #fac #ESR #université #facs #France

    • Universités : la ministre annonce « des cours à distance à la rentrée »

      Afin d’éviter les amphis bondés, la ministre de l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal, a demandé aux facs de prévoir des dispositifs spéciaux en septembre.

      Alors que s’ouvre la période des examens et concours, les universités planchent déjà sur un autre épineux chantier : celui d’une rentrée universitaire dans laquelle, consignes sanitaires oblige, les amphis bondés n’auront vraisemblablement plus le droit d’exister. Frédérique Vidal, ministre de l’Enseignement supérieur, annonce avoir demandé aux établissements de faire durer les cours magistraux à distance. Elle revient aussi sur cette fin d’année si particulière pour les jeunes, et si délicate pour les plus précaires.
      Les partiels débutent alors que les universités sont fermées. Quelles formes prennent-ils ?
      FRÉDÉRIQUE VIDAL. Les établissements ont fait des choix différentsselon les disciplines et les facultés. Des examens se font sous forme de remise de devoir ou de rapport à la maison. Certains ont choisi d’organiser des oraux par visioconférence, d’autres proposent des tests en ligne. Dans l’immense majorité des cas les choses ne se feront pas en présentiel.
      Des étudiants s’inquiètent d’une rupture d’égalité dans les partiels télésurveillés. Les universités doivent-elles renoncer à ces dispositifs pour éviter que des jeunes soient lésés pour des questions techniques ou sociales ?
      J’ai demandé qu’on vérifie qu’aucun étudiant ne soit lésé par ces circonstances particulières. Les universités ont identifié les étudiants qui ont du mal à accéder aux ressources en ligne, elles les ont contactés. Parfois, elles ont pris en charge des clés 4G, des prêts d’ordinateurs… Il n’y a que dans la plus grande proximité que l’on peut faire en sorte que les épreuves se déroulent le mieux possible.
      VIDÉO. Confinement : les écoles rouvriront à partir du 11 mai, mais pas les universités
      A quoi vont ressembler les examens et concours prévus cet été en présentiel ?

      Nous préparons sous l’égide des autorités sanitaires un vade-mecum de consignes qui doivent être scrupuleusement suivies par les organisateurs des épreuves. Par exemple, il faudra sans doute prévoir des salles avec plusieurs entrées et un parcours particulier pour que les candidats puissent rejoindre leur place, sans se croiser. Il y aura un minimum d’un mètre entre chaque table et la possibilité pour les étudiants qui ont des besoins particuliers, pour des raisons de santé par exemple, de composer à l’écart. Ces consignes pourront être adaptées en fonction de l’évolution de la situation sanitaire.
      C’est-à-dire ?
      Les organisateurs de concours sont en train de préparer les épreuves, notamment en ce qui concerne le choix de lieux qui permettent l’application de ces consignes et de préserver la sécurité des candidats et des surveillants.
      Les étudiants devront-ils composer masqués ?
      Ils devront porter un masque pour entrer dans les salles. Ensuite, l’espacement des tables leur permettra de l’enlever s’ils le souhaitent.
      Les amphis bondés qu’on connaît dans plusieurs formations, comme en droit, vont-ils perdurer en septembre ?
      Nous avons demandé aux établissements de prévoir que les cours magistraux puissent être offerts à distance. Ils sont en train de regarder si c’est possible. On se prépare à plusieurs scénarios mais avec une ligne : les dates de la rentrée ne seront pas décalées.
      Est-ce que les cours à distance vont rester pour de bon à l’université, même après la crise ?
      Il est déjà classique de proposer des enseignements hybrides, où une partie se fait à distance. Que l’on puisse franchir un pas supplémentaire pour les cours magistraux, les équipes y réfléchissent. Mais on n’apprend pas uniquement dans des livres ou sur ordinateur. Il faut des interactions avec les enseignants. C’est essentiel.
      Ceux qui avaient prévu des études à l’étranger à la rentrée pourront-ils partir ?
      On ne sait pas ce que vont faire l’ensemble des universités dans le monde à la rentrée de septembre. Nous devons être prudents et envisager d’organiser les mobilités hors espace européen plutôt au 2e semestre qu’au premier. Cependant, là où existent des partenariats entre universités et si les sites partenaires sont ouverts et accessibles en toute sécurité, les mobilités devraient pouvoir se tenir.

      Combien d’étudiants sont en difficulté financière ?
      Les Crous nous indiquent qu’environ 10 % ont perdu leur job du fait du Covid-19. Plus généralement, 20 % d’étudiants sont en situation de précarité, et 40 % touchent des aides de l’Etat. Depuis le début de la crise, plusieurs paliers d’aides supplémentaires ont été mis en place. Par exemple, 7 millions d’euros ont été distribués directement par les établissements depuis mars. Comme l’a annoncé le Premier ministre, une aide supplémentaire de 200 euros par étudiant en difficulté du fait de la crise va être versée dans les prochaines semaines.
      Qui pourra en bénéficier ?
      Elle concerne ceux, boursiers ou non boursiers, qui étaient en stage rémunéré obligatoire ou en emploi au 1er mars, et qui travaillaient au moins 32 heures par mois, ainsi que les étudiants ultramarins isolés en métropole. Il faudra, pour en bénéficier, se connecter sur le site etudiant.gouv.fr, à partir de mardi. On estime qu’elle pourrait toucher 400 000 étudiants.
      Cette aide sera-t-elle reconduite pendant l’été ?
      Je ne peux pas vous le dire. Pour l’instant, il faut que les étudiants se saisissent de ce guichet, qui représente 80 millions d’euros.
      L’étudiant qui avait tenté de s’immoler devant le Crous de Lyon, pour protester contre la précarité étudiante, est sorti du coma. Avez-vous eu de ses nouvelles ?
      Nous prenons de ses nouvelles, notamment par l’université et par le Crous. Je suis évidemment extrêmement soulagée, pour lui et sa famille.

      http://www.leparisien.fr/societe/universite-la-ministre-annonce-des-cours-a-distance-a-la-rentree-07-05-20

      #paywall (eh oui...)

  • Syrian Kurdish administration starts online education during anti-coronavirus curfew- Kurdistan 24
    The Kurdish self-administration in northern Syria has launched online lessons and lectures for schools and universities to meet educational needs amid the curfew that has been imposed by local authorities to stop the spread of the coronavirus, officials said on Monday
    #Covid19#Syrie#Rojava#Education#Cours_en_ligne#Université#Politique#Santé#camp#déplacés#migrant#migration

    https://www.kurdistan24.net/en/news/d5485b5a-ed6a-4263-acd1-26ec72fe7651

  • « Ce gouvernement de premiers de cordée révèle son absolue ignorance de ce que représente le travail des autres »
    https://www.bastamag.net/continuite-pedagogique-inegalites-temoignage-professeur-universite-conditi

    Enseigner à distance n’est pas une sinécure, au contraire de ce que semblent croire certains membres du gouvernement. Cécile Boulaire, professeure d’université à Tours, réagit aux propos insultants de Sibeth Ndiaye et raconte comment elle tente de compenser un peu la rupture pédagogique liée au confinement. Depuis 10 jours, en tant que directrice de département et de filière universitaire, je me dois de relayer à mes collègues les injonctions, toujours plus pressantes, en faveur de la « continuité (...) #Témoignages

    / #Conditions_de_travail, #Education

  • Faire comme si de rien n’était, vraiment ? À propos de la « #continuité_pédagogique » en période de confinement.

    Samedi, alors que le premier Ministre annonçait le #confinement, sans annuler les élections, j’ai reçu un énième message sur les « #cours_en_distanciel ». Émanant d’une collègue que j’aime beaucoup, il indiquait qu’elle allait faire ses #cours_en_ligne de telle façon, mais pas de telle autre. La notice venait après des dizaines d’autres, sur Twitter et sur des listes professionnelles, où on continuait à voir circuler des appels à contributions pour des colloques, des appels à projet et bien sûr des trucs et astuces pour faire des cours. Sur mes propres listes institutionnelles, une fièvre s’était emparée de mes collègues dès mercredi pour savoir quels étaient les meilleurs #outils, libres ou non, pour faire des séminaires à distance. Était-ce la douceur d’un soir marseillais ? Je me suis demandée comment les Marseillais·es avaient vécu l’épidémie de 1720 — du moins celles et ceux qui n’avaient pas fui

    Ces enseignant•es qui veulent continuer à enseigner envers et contre tout, auraient-il/elles fait la même chose pendant la peste de 1720 ou l’épidémie de choléra de 1832 ?

    Non. Parce que le numérique n’existait pas, me direz-vous.

    Sommes-nous à ce point (dé)connectés que nous ne parvenons pas à comprendre que nous allons vivre une profonde #perturbation de notre #quotidien, de nos #habitudes, de nos #temps_sociaux ? Que cette perturbation implique déjà de nous occuper de nos proches, nos enfants, nos parents, voire nos voisins dans le besoin, et surtout de s’attacher à ne pas propager le virus, en restant chez soi ?
    Peut-être l’idée de connaître des deuils affleure-t-elle encore à peine à la conscience. Peut-être aussi la paranoïa ne laisse pas de place pour l’information objective. Si le taux de mortalité à 3% de la population affectée est confirmée, il n’est pas de doute que la mort va se rapprocher de nous. Elle va aussi se rapprocher des étudiant·es.
    Ne pouvons-nous aussi nous arrêter d’enseigner quelque temps ? Que veut dire cette « continuité pédagogique » qu’on nous serine à longueur de correspondance institutionnelle ?

    On peut légitimement se demander ce que voulait dire déjà cette « continuité pédagogique », quand les étudiant·es se voyaient retirer leur titre de séjour en cours d’année, quand ils ou elles se retrouvaient sans toit, sans emploi, sans de quoi se nourrir, quand leur présence en cours était si rare, parce qu’ils ou elles devaient travailler ? Que veut dire « continuité pédagogique » aujourd’hui ?
    Ce qui m’interroge davantage encore, c’est le rapport qu’entretiennent mes collègues à leur savoir. Déployer de l’énergie à essayer de mettre en œuvre des #visioconférences, c’est aussi imposer aux étudiant·es la croyance que le savoir universitaire — et son partage dans une relation pédagogique — surpasse tout. Je ne parle des collègues qui ne jurent plus que par les « pédagogies innovantes de type MOOC »2 sans s’être jamais demandé de quels outils et de quelle qualité de connexion les étudiant·es disposaient, confiné·es hors des campus. Je ne parle pas non plus de la croyance en la nécessité d’une relation pédagogique surplombante, de maître à élève, en laquelle semblent adhérer quelques collègues. Est-ce le pouvoir qu’ils ou elles retirent de cette #domination_savante qui justifie cet entêtement ? Ou plus simplement, leur #addiction_au_travail et le #déni de la #pandémie ?
    Dans cette logique, la #relation_pédagogique universitaire serait ainsi tellement éminente pour justifier l’enseignement universitaire et sa validation en tout temps. Même en celui où les collègues enseignant·es, hommes et femmes, parents de jeunes et moins jeunes enfants, enfants de parents âgées, se retrouvent du jour au lendemain sans autre solution que de s’en occuper à temps plein.
    Cela fait plusieurs mois qu’en dépit des signaux les plus crus de destruction massive de l’Université et du Code de l’Éducation, de la pauvreté dramatique de certain·es étudiant·es, de la mise en danger du renouvellement de nos disciplines, faute de recrutements, tout le monde continue, comme si de rien n’était, à faire cours, déposer des ANR, organiser des réunions, faire des colloques, recruter des doctorant·es —en sachant pertinemment qu’ils ou elles n’auront pas de postes après les longues et pénibles années de thèse.Pour autant, ce qui a primé, chez une majorité de collègues universitaires c’est continuer à travailler.
    Avec le COVID-19, je prends conscience d’une #pathologie_pédagogique : celle d’une déconnexion de la vie savante et de la vie tout court. Je ne suis pas sûre d’avoir envie d’entraîner mes etudiant•es dans cette voie névrotique.
    Bien au contraire, c’est d’abord du bien-être de mes étudiant·es et de leurs besoins que je me suis enquise. Je l’ai fait non sans savoir que plusieurs d’entre elleux n’auront pas l’envie de dévoiler une situation délicate ou des soucis de santé physique ou mentale, alors qu’ils ou elles sont loin de leurs proches, quand ils ou elles ont encore de la famille. C’est ensuite — d’abord — et surtout de mon fils, avec qui il va me falloir composer pendant quelques semaines, sans sortir. Bien sûr, je sais qu’il me faudra un temps d’#adaptation, après trois mois de veille et de chroniques quotidiennes sur ce blog, auxquelles je suis devenue dépendante. Par chance, contrairement aux Marseillais·es de 1720, le téléphone et Internet existent pour que mon fils et moi maintenions vivante l’affection qui nous lie à nos proches à l’autre bout de la France et à nos ami·es un peu moins éloigné·es, comme à celles et ceux vivant à l’étranger. Il sera temps bientôt de demander si je peux être utile, auprès de collectifs contre les violences faites aux femmes, de Réseau Éducation Sans Frontière, ou d’autres associations solidaires.

    Lors d’une épidémie du 16e siècle, Claire Dolan avait suivi les trajets quotidiens du notaire pour enregistrer sans relâche baptêmes, décès, dernières volontés, au travers des portes cochères et par les fenêtres3 /. En 1720, le dévouement du chevalier Roze et de l’évêque de Belsunce ont durablement marqué la mémoire des Marseillais·es. Les médecins avaient fui. Ce qui est moins connu, c’est que les habitant·es confinés ont eu aussi une grande confiance dans leur soignant·es, ces « chirurgiens de peste » mercenaires, de basse extraction, recrutés dans tout le royaume pour s’occuper des malades, en l’échange de la promesse de pouvoir s’installer sans frais4. Il est peut-être ridicule de nous comparer avec ces humains d’un autre temps. Pourtant réfléchir à leur histoire et leur expérience de l’épidémie nous tend un miroir5 : quel sera le rôle des universitaires de sciences humaines et sociales en ) 2020 ? Faire des cours en ligne ? (Re)devenir simple citoyen ? Continuer d’élaborer, dans le prolongement de la mobilisation de l’hiver, l’Université de demain ? Ou tout autre chose ?

    Notes :

    Sur l’expérience de la peste et la transformation des institutions de police et de justice, voir la thèse de Fleur Beauvieux, Expériences ordinaires de la peste. La société marseillaise en temps d’épidémie (1720-1724) (EHESS, 2017), à paraître chez David Gaussen éditeur en 2020. [↩]
    Je ne parle même pas des collègues qui, n’ayant jamais envoyé un document .pdf à leurs étudiant·es de leur vie, vantent les MOOC sans les avoir pratiqué et don sans connaître leurs désavantages. [↩]
    Claire Dolan, Le notaire, la famille et la ville (Aix-en-Provence à la fin du XVIe siècle. Toulouse, Presses du Mirail, 1998. [↩]
    Voir la thèse de Jamel El Hadj, Les chirurgiens et l’organisation sanitaire contre la peste à Marseille : 17e-18e siècles (EHESS, 2016). [↩]
    À l’instar de celui que Marc Bloch nous a tendu dans L’étrange défaite, texte rédigé entre juillet et septembre 1940, comme manière de rationnaliser la panique qui venait. [↩]

    https://academia.hypotheses.org/21189

    Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique...

    • Le #diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte
      d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des
      formes parfois autoritaires. Ou alors on voit naître des fayots de service, fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple
      à tous les personnels enseignants.
      Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que les étudiants et médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une #indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.
      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement
      dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les
      nouvelles relations avec des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain.
      Mais il y a plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisi de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix.
      Or il n’y a pas de cours à l’université sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage
      qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi
      je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Reçu par email de la part de Pascal Maillard, le 18.03.2020.

      –-----

      Pascal Maillard a publié ce texte, légèrement modifié, sur son blog aussi...

      Continuité ou rupture pédagogique ?

      « Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité ». Publication d’une lettre envoyée cette nuit aux personnels de l’université. Contre la rupture numérique, la taylorisation des enseignements et le confinement des esprits.

      Bonsoir,

      Voici le message envoyé ce jour à tous les personnels de l’université de Strasbourg par l’intersyndicale. Je joins à ce mail la motion du CHSCT adoptée à l’unanimité le vendredi 13 et qui a fait l’objet d’un refus du président, lequel a été rattrapé par les décisions nationales. Il nous a accordé seulement un représentant des personnels dans la cellule de crise. Dimanche après-midi on y est allé à trois : à contexte exceptionnel, décisions exceptionnelles. On a obtenu une réunion le 20 pour valider le Plan de continuité d’activité, qui est toujours à l’état de brouillon. On a demandé une nouvelle réunion ce jour pour rendre des avis urgents sur de multiples questions.

      Lundi c’était un peu l’anarchie sur le campus. J’avais demandé dimanche qu’ils désactivent les badges d’accès aux bâtiments et ne valident que les accès des personnels essentiels, mais ils n’ont pas voulu au prétexte qu’il fallait laisser les collègues récupérer leurs affaires. Evidemment beaucoup de collègues dans les bureaux et les labos et des contaminations en plus…

      Aujourd’hui c’était plus calme, mais des cas de contamination sont signalés et la mise en place du télétravail est chaotique. Le diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des formes parfois autoritaires. Ou alors on découvre des collègues fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple à tous les personnels enseignants. Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que des étudiants et des médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.

      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les nouvelles relations entre des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain. C’est une main mise dans l’engrenage de la taylorisation de nos enseignements, après celui de la recherche. Mais il y a encore plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisis de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, de ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix. Or il n’y a pas de cours sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité.

      Bien à vous,

      Pascal Maillard

      PS 1 : Un exemple de dispositif digne d’intérêt : http://philo.unistra.fr/uploads/media/FAC_PHILO-CONTINUITE_PEDAGOGIQUE.05.Publie2020-03-17.pdf

      PS 2 du 18 mars à 14h30 : L’urgence sanitaire requiert d’appeler tout le monde à la plus grande prudence et à la responsabilité. Les représentants des personnels dans les CHSCT ont un rôle majeur à jouer. Il peuvent sauver des vies, surtout dans un contexte où des présidences et des directions d’université, souvent débordées ou mal informées, n’appliquent pas les règles de précaution et de sécurité qui s’imposent. Il faut être inflexible avec elles et imposer le plus haut degré de sécurité. Aucun personnel dans les locaux universitaires sans masques FFP2 et sans gants. Décontamination de tous les locaux occupés. Que les CHSCT prennent des avis en urgence et les fassent respecter. C’est une question d’heure !

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/180320/continuite-ou-rupture-pedagogique

    • « Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique... »
      personnellement j’ai commencé à le détester au premier mail reçu de la présidence de l’université. Je lui ai substitué ce qui me semble être un assez bon synonyme : « continuité bureaucratique »

    • Covid19 : Plan de (dis)continuité académique

      Dans la situation de crise actuelle, les universitaires, et probablement plus largement les enseignants, attendent et reçoivent des instructions pour décider de leur comportement professionnel et personnel. Notre appareil de décision et de diffusion des ordres est mis à rude épreuve. L’impression qui se dégage pour l’instant est que le résultat est confus et anxiogène. En plus des fautes de communication, il convient de noter l’absence de l’information la plus importante en temps de crise : un plan de #priorité clair. Cette absence empêche la bonne réorganisation et surtout corsète les initiatives, empêchant de déployer pleinement le potentiel de nos enseignants.

      Le ministre de l’éducation nationale a introduit sa communication de crise par une série d’annonces erronées : la fermeture des écoles n’est pas envisagées, les enseignants continueront d’aller dans les écoles, les examens et concours de recrutement seront maintenus, le dispositif d’enseignement à distance est prêt… Au final, les écoles sont fermées, les enseignants confinés, les examens annulés, et lundi matin le dispositif d’enseignement à distance s’écroulait.

      Pour l’enseignement supérieur, nous disposons d’un courrier d’instructions sommaires et d’un « #plan_de_continuité_pédagogique » consistant en une collection d’#astuces_pédagogiques (« Tenez compte des horaires », « Encouragez les élèves à réfléchir »), de quelques informations techniques sur des plateformes utilisables, et de points de droit notamment sur les stages.

      Premièrement, les prérogatives des enseignants ne sont jamais clairement identifiées : nous ne savons pas quelles questions seront traitées par la hiérarchie, et quelles sont celles que nous pouvons traiter par nous-mêmes. C’est un frein majeur à la #réorganisation. Deuxièmement, aucun plan de priorités clair n’est établi. Toutes les instructions, parfois contradictoires, sont présentées au même niveau. Or, la gestion d’une #crise est en tout premier lieu une histoire de priorités. Etre privé d’un système de priorité pour guider ses décisions est non seulement anxiogène, mais peut aussi conduire à essayer de tout faire, et donc mal faire et s’épuiser, et ensuite peut créer des dissensions au sein des équipes.

      Une proposition de plan de priorités

      Si la hiérarchie n’est pas en mesure de fournir un plan de priorités, il est urgent que les équipes s’en dotent elle-mêmes. En voici une proposition :

      Préserver la santé de tous les étudiants et personnels, y compris précaires, et de leurs proches.

      Exemples :

      Tous doivent être assurés que leur absence ne sera en aucun cas sanctionné sous quelque forme que ce soit, pour peu qu’elle soit notifiée.
      La #continuité_sanitaire pour les étudiants et personnels isolés : un recensement doit être fait, et un plan nourriture/logement établi.

      Limiter le stress du à l’établissement.

      Exemples :

      Les questions liées aux études pour les étudiants et aux rémunérations pour les personnels précaires ne doivent en aucun cas être source d’un stress supplémentaire et ne doivent pas conduire les personnels à se mettre en danger.
      Toutes les difficultés individuelles, y compris au niveau financier, feront l’objet d’un traitement urgent et généreux.
      Assurer le #moral_collectif.

      Exemples :

      La cohésion des équipes et la confiance des personnels est primordiale dès lorsque la santé et le stress sont gérés.
      En temps de crise, la bonne entente est plus importante que l’atteinte d’objectifs fonctionnels, y compris dans l’environnement familial.

      La continuité des activités scientifiques et pédagogiques.

      Exemple :

      C’est seulement lorsque #santé, #stress et #moral sont gérés que les activités scientifiques et pédagogiques peuvent continuer.
      Préserver l’#environnement_familial en période de confinement est plus important qu’assurer des cours à distance.

      Les validations des études et la complétion des formalités administratives.

      Exemples :

      C’est seulement lorsque santé, stress et moral sont gérés, et que les activités scientifiques et pédagogiques ont continué, qu’une validation des études est envisageable.
      Les formalités administratives ne doivent pas empiéter sur la santé, le stress et le moral de la communauté, ainsi que sur la continuité des activités.

      Ce plan de priorité n’est qu’une proposition. On pourra par exemple estimer que les notes sont plus importantes que les cours. Peu importe, mais il est indispensable de pouvoir se référer à un tel plan pour décider de son comportement, notamment lorsque qu’il est impossible de tout faire correctement. Concrètement, ce plan doit permettre à un enseignant dépassé par l’ampleur des tâches de décider de se concentrer soit sur les notes, soit sur les cours, en étant pleinement rassuré que cette décision ne lui portera pas préjudice.

      Sur la base d’un tel plan, les énergies des enseignants pourront se libérer et se focaliser, ce qui sera éventuellement l’occasion d’expérimenter de nouvelles formes de pédagogie.

      Libérer et ouvrir les enseignements

      A l’heure actuelle, puisque l’injonction est d’assurer une continuité pédagogique, nous cherchons à éviter les cassures, et nous reproduisons donc nos classes physiques dans des environnements virtuels, avec l’illusion que ce sera presque pareil. C’est rater l’occasion d’essayer vraiment de nouvelles formes d’organisation pédagogique. Si le plan de priorités estime les notes secondaires, alors il devient possible de s’affranchir des carcans scolaires, et d’innover à l’échelle d’un établissement.

      A titre d’exemple, il devient alors possible que tous les enseignants qui le souhaitent fassent cours à tous les étudiants qui le souhaitent, et même les autres enseignants, les élèves des collèges et lycées, ainsi que les travailleurs et citoyens. Nous sommes parfaitement capables d’adapter les cours que nous maîtrisons déjà ou de monter des conférences de recherche grand public, et de les assurer en ligne, sous forme de cours magistraux. Les infrastructures techniques sont limitées pour une large interaction, mais pas pour une très large diffusion.

      Dans le contexte actuel, libérés des obligations habituelles, il ne faudrait pas plus d’une journée à une université pour collecter une offre pléthorique d’enseignements faisables en ligne. Aucun problème technique ou organisationnel ne s’oppose à la mise en ligne d’un calendrier par les services de communication, puis à une diffusion la plus large possible, à tous les étudiants mais aussi la presse locale. On mettrait ainsi à disposition de tout le monde une véritable offre de formation, faite en direct à la maison, et diffusée en direct dans les maisons.

      La force des libertés académiques

      La force de ce système est le respect des #libertés_académiques. En fournissant un plan de priorités sans indications concrètes sur sa mise en œuvre, on laisserait les universitaires déployer leur énergie et leur imagination au service de toutes et tous, avec la meilleure vue concrète sur le terrain qu’on puisse avoir. En ne prescrivant pas comment les cours doivent être faits ni ce sur quoi ils doivent porter, en laissant les étudiants choisir ce qui les intéresse et en ouvrant les cours au plus grand nombre, on exploiterait pleinement la véritable puissance de l’Université.

      La crise est une occasion unique de réellement faire de l’interdisciplinarité, de l’éducation initiale, scientifique, populaire et continue, et même de la science citoyenne. Rater cette occasion serait une faute morale pour l’Université.

      http://blog.educpros.fr/julien-gossa/2020/03/18/covid19-plan-de-dis-continuite-academique

    • Testo di Filippo Celata, ricevuto via mail:

      «In giorni di isolamento, comunicazioni a distanza, didattica online, riunioni su skype, è bene ricordare i vantaggi preziosi e insostituibili degli incontri di persona, “faccia a faccia”: stimolano la partecipazione attiva, implicano un maggiore impegno reciproco, scoraggiano a mentire, consentono risposte più rapide, forme di comunicazione non verbale, di capire le reali intenzioni e emozioni dell’interlocutore (‘screening’), facilitano la condivisione di valori e linguaggi specifici, consentono la trasmissione di conoscenze tacite, non codificabili, riservate, rafforzano i legami e la fiducia reciproca, rimuovono l’anonimato, riducono la sostituibilità dell’interlocutore, permettono non solo lo scambio di informazioni pre-esistenti per realizzare obiettivi prestabiliti ma di stabilire questi obiettivi e produrre nuove conoscenze, consentono esiti casuali e non pianificati (serendipità), favoriscono l’informalità, permettono il ‘rush’ (condividere decisioni complesse in tempi rapidi), stimolano l’imitazione, sono meno escludenti e escludibili, non richiedono l’utilizzo di infrastrutture di terzi, sono più efficienti e più efficaci. Le relazioni interpersonali, dice John Urry, possono essere per un po’ gestite e mantenute “a distanza”, ma richiedono di essere per lo meno periodicamente riattivate tramite la compresenza. Ok quindi, coronavirus, che l’isolamento sia totale, ma breve.. ne va dell’infrastruttura sociale che arricchisce e sostiene le nostre relazioni personali, amicali, economiche, politiche..»

    • AMIS PROFS, OÙ EST L’URGENCE ?
      Réflexion de #Bénédicte_Tratnjek (@ville_en) publiée sur Facebook, le 19.03.2020.

      Je me remets sur un pavé, ce sera le dernier « cri » que j’écrirai, chacun s’apaisera ou non s’il le souhaite. Je ne m’y épuiserais plus...

      Je lis sans cesse ces jours-ci que la précipitation et l’urgence nous font faire des choix sur lesquels nous pouvons peut-être prendre le temps de réfléchir.

      Je lis sans cesse ces jours-ci des messages d’amis parents désespérés par la surcharge de travail qui leur tombe dessus.

      Pour les familles, lundi, découverte de tous les mails que nous avons envoyés pour expliquer comment nous allions fonctionner, tous individuellement car la situation a fait que nous n’avons pas pu le préparer collectivement. La situation est ainsi, mais laissons le temps aux familles (nos élèves et leurs parents) de digérer tout ça, de comprendre.

      Je lis depuis des messages qui me font halluciner, totalement. Tel prof qui n’a pas dormi depuis 4 jours pour tout mettre en ligne. Mais c’est quoi ce « tout » ??? Scanner tout ce que nous aurions fait en une heure avec les élèves a-t-il du sens ? Se précipiter est-il efficace ?

      Tel autre prof qui a fait un plan de travail sur 2 semaines pour que les élèves fassent totalement en autonomie une activité. Ce plan de travail magnifique, qui a dû prendre un temps fou pour la mise en page, y insérer des tableaux d’objectifs, d’activités, de compétences et de tout un truc qui ne parle qu’à nous est-il accessible en totale autonomie, peu importe la volonté qui mettront nos élèves et leurs familles ? Il est réfléchi, mais pour nous, pour nos besoins. Peut-être faut-il prendre le temps de réfléchir à être explicites dans le contexte présent, différent mais aussi stimulant intellectuellement.

      Tel autre prof qui écrit se lever à 4h du matin pour faire de multiples activités pour ses élèves, puis être surchargé par ce que les collègues demandent à ses propres enfants et s’en plaindre (une contradiction digne des reportages de Guillaume Meurice s’il en est !), puis retourné une partie de la nuit travailler à surcharger ses élèves. L’expérience des uns et des autres ne doit-elle pas nous enrichir plutôt que nous appauvrir ?

      Nous râlons, à juste titre, de ne pas avoir le temps de faire toutes les demandes annexes qui nous sont demandés : histoire des arts, éducation aux médias et à l’information, etc. N’est-ce pas le moment de se donner le temps, avec nos élèves, de faire tout ce que nous aimerions faire habituellement ? Ce lien histoire/français sur le Moyen Âge que nous n’avons jamais le temps de monter en se disant qu’on ne propose aux élèves qu’une activité commune allégeant ainsi de manière raisonnable (ni trop ni pas assez) notre charge de travail (un coup c’est moi, un coup c’est toi qui dépose une activité aux élèves) et celle des élèves (une activité commune, pas trop longue, pour deux heures « officielles » dans l’emploi du temps « ordinaire »). Ce lien arts plastiques/histoire que nous ne faisons jamais sur l’impressionnisme au XIXe siècle (tu leur fais étudier la gare Saint-Lazare de Monet, je fais une reprise plus tard sur l’industrialisation). Ce lien SVT/géographie sur le développement durable. Ce lien mathématiques/géographie sur les échelles. Je pourrais multiplier les exemples, c’est sans fin. Sans l’injonction des EPI, très lourds, en faisant simple. Réutilisable en plus les années prochaines.

      Réfléchissons ensemble : c’est quoi apprendre ? c’est quoi enseigner ? qu’est-ce que je veux vraiment enseigner à mes élèves ? que doivent-ils vraiment retenir/comprendre/savoir-faire pour se construire comme citoyen, comme humain, comme personnes qui pensent par elles-mêmes ?

      Prenons le temps de ne pas nous imposer à nous-mêmes des urgences qui n’existent pas. Les instructions officielles relèvent de la « continuité » pédagogique. J’ai beau cherché dans le dictionnaire, « continuité » n’est pas synonyme de « totalité » et encore moins de surplus. L’antonyme de continuité n’est pas totalité : c’est discontinuité, absence.

      Nous serions en tort de ne rien donner. Nous sommes en tort de trop donner.

      Trop donner, c’est faire stresser nos élèves et leurs familles. Trop donner, c’est créer un sentiment de dévalorisation chez ceux qui ne parviennent pas à suivre ce rythme. Trop donner, c’est favoriser la fracture numérique. Trop donner, c’est forcer les familles à choisir quel enfant de la fratrie aura le plus de temps de connexion pour répondre à toutes les exigences des profs et quel(s) enfant(s) n’auront pas accès à tout ça et seront vus comme « mauvais élèves » par leurs enseignants. Trop donner, c’est accentuer les inégalités sociales.

      Trop donner, ce n’est peut-être pas enseigner... On ne sait pas faire, on va se tromper, on va tâtonner. Mais avant tout RÉFLÉCHISSONS. OÙ EST L’URGENCE si je n’envoie pas « du lourd » les premiers jours. Tâtonnons avec les élèves, prenons le temps qu’ils comprennent comment faire, de connaître leur rythme, le nôtre aussi.

      ATTENTION À NOS BONNES INTENTIONS ! Nous les avons toutes et tous. Ce n’est pas la question ! L’enfer est pavé de bonnes intentions... Ne pavons pas l’enfer ! Éclairons nos élèves, donnons leur goût d’apprendre autrement, de pouvoir apprendre avec leurs familles et non pas dans les cris et dans les larmes, veillons à ce qu’ils aillent bien.

      Ce qui se passe est stressant pour des enfants et des jeunes. Et va l’être de plus en plus. Ce n’est que le début de cette période. Soyons raisonnables ! Pour nos élèves, pour leurs familles, pour nous aussi, pour nos proches !

      https://www.facebook.com/benedicte.tratnjek/posts/10156750046895059

      Cela complète cet autre texte de Bénédicte que j’avais déjà publié sur seenthis :
      L’#enseignement en temps de #confinement
      https://seenthis.net/messages/831621

    • Fermeture des universités : la #validation du semestre est nécessaire

      Quelques passages choisis :

      -Nous avons eu accès à une note du ministère concernant le "#Plan_de_continuité_pédagogique", prévoyant d’organiser des #examens_à_distance avec "#télésurveillance" via des prestataires privés, comme #TestWe tarifant un examen à 17€ par étudiant-e. À l’Université de Nanterre par exemple, si les 6752 étudiant-e-s de L1 devaient passer un examen via ce
      prestataire cela reviendrait à 114 784€ l’examen pour une université au budget déjà bien affaibli. Imaginez le #coût que cela engendrerait pour notre université de faire passer la totalité des UE d’un semestre avec ce #prestataire à tou-te-s les étudiant-e-s ! Une mauvaise connexion wifi entraînerait l’ajournement de l’étudiant-e à son partiel ?

      –Maintenir les #examens et #partiels dans cette situation pénaliserait les étudiant.e.s les plus défavorisé.e.s socialement pour qui la situation ne leur permettra pas d’étudier dans
      de bonnes conditions. Nous ne sommes pas opposés à la tenue de cours en ligne si des personnes souhaitent les suivre ou les dispenser, or nous pensons qu’aucune #évaluation ou contrôle d’assiduité ne doit en découler, pour les raisons évoquées plus haut.

      –nous rappelons qu’un examen à distance ne peut pas avoir lieu si l’Université ne peut pas vérifier et garantir que chaque candidat-e dispose des moyens techniques pour être évalué-e. Ainsi le stipule l’article D. 611-12 du Code de l’éducation : « La validation des enseignements contrôlée par des épreuves organisées à distance sous forme numérique, doit être garantie par : « 1° La vérification que le candidat dispose des moyens techniques lui permettant le passage effectif des épreuves ; »

      –Ainsi, nous demandons la validation du semestre 2. C’est la seule mesure qui ne pénalise pas les étudiants, que ce soit sur le plan des résultats ou sur le fait qu’elle ne reporte pas le calendrier universitaire.

      –concernant masters, les possibilité de poursuivre la recherche n’étant pas garantie, nous réclamons le report des rendus de mémoires. En effet la réduction de la documentation accessible ne permet pas de satisfaire les exigences scientifiques attendues pour ces travaux.

      –Il nous semble aussi évident que dans un tel contexte les candidatures en Licence (#Parcoursup) et en Master (#eCandidat) doivent être reportées. Prétendre pouvoir maintenir ces dispositifs de sélection à l’entrée des filières dans un contexte de crise sanitaire, où les #conditions_d’études des étudiant-e-s et lycéen-ne-s sont fortement perturbées, ne fait qu’accroître le #stress et l’#angoisse des jeunes.

      –D’autre part il n’est pas acceptable que #CROUS Grenoble maintienne l’obligation de payer le loyer malgré les mesures de confinement alors même que d’autres CROUS, notamment celui de Poitiers, ont suspendu le versement des loyers pour les étudiant-e-s confiné-e-s.

      –Nous tenons à exprimer notre soutien aux personnels qui souhaiteraient exercer leur #droit_de_retrait si ces mesures n’étaient pas respectées.

      –-> Reçu par mail le 20.03.2020

      #privatisation

    • J’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon #ASA pour #garde_d'enfant.

      Chères et chers collègues,

      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici : https://services.dgesip.fr/T712/covid_19. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.

      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.

      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE (https://suptice.univ-rennes1.fr) est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions (https://www.univ-rennes1.fr/covid19-foires-aux-questions-frequently-asked-questions). La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU (https://www.univ-rennes1.fr/interlocuteurs/direction-de-la-formation-et-de-la-vie-universitaire-dfvu) pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.

      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales), le SFCA (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales) et le SOIE (https://soie.univ-rennes1.fr). Avec l’aide de la Fondation Rennes 1, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.

      Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.

      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.

      Bien à vous,

      Cette lettre, que j’ai reçue via mail le 20.03.2020, a été accompagnée de ce commentaire :

      Face aux injonctions délirantes de notre université (faire de la continuité pédagogique, en anticipant l’organisation à distance des évaluations et aussi en prenant soin de vérifier que nos étudiants vont bien, et maintenant que nos supports numériques sont accessibles aux handicapés, voir mails envoyés par le VP CFVU et le SUPTICE),

      j’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon ASA pour garde d’enfant.

      Cela ne résoudra pas tous les problèmes, évidemment. Mais déjà si nous remplissons massivement ces ASA, ça leur montrera l’#absurdité de leurs #injonctions.

      Quelques heures avant, cette même enseignante avait envoyé ce message à la liste :

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en oeuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA ?) pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler.

      J’essaie tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant.es connecté.es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      – Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.

      – De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.

      – De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.

      – Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.

      – Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychogique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.

    • #Concours titulaires de l’enseignement supérieur et de la recherche : un projet de décret en « #distanciel »

      Le jeudi 24 mars 2020, sera soumis au Comité technique du Ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation un projet de décret sur le recours à la visio-conférence pour les concours de chercheur·euses et d’enseignant·s-chercheur·ses.

      Le CTMESR est une instance représentative et consultative, devant laquelle le Ministère a l’obligation de présenter tous ses projets en matières d’emploi, de rémunération et de conditions de travail. Son rôle est de fait limité : s’il ne peut abroger un projet qui lui serait soumis, il peut néanmoins les retarder si ses membres, à l’unanimité le juge insuffisant. Dans ce cas, le MESR est censé reconvoquer le CT pour l’examen d’une nouvelle mouture1.

      Compte tenu de l’importance du sujet, il est utile de faire connaître à la communauté, titulaires ou candidat·es au recrutement, le projet du Ministère, qui ne semble pas bien prendre la mesure de l’épidémie. De fait la question des concours poursuit sous une autre forme celle de la « continuité pédagogique » dont Academia a déjà eu l’occasion de présenter les termes du débat 2.

      Nous avons déjà été surpris par le degré d’impréparation des services nationaux de visio-conférence, type Renavisio, qui a immédiatement indiqué ne pouvoir tenir la surcharge du télétravail. En décembre déjà, la tenue des seules soutenances de thèse avaient été chaotiques. Pourtant, elles se tenaient pour l’essentiel sur site, avec deux ou trois membres à distance, pas en distantiel total. Il semble déjà bien impossible de tenir à distance une réunion à 12 ou 15 membres, sans même parler de qualité de délibération.

      Mais ne boudons pas notre plaisir : faisons l’hypothèse que si les titulaires peuvent se réunir à distance pour l’examen des dossiers, au motif qu’ils ou elles disposent des mêmes conditions d’accès (connexion et matériel) à la visio-conférence, nous savons au bout d’une semaine d’essais infructueux que seuls les logiciels type jeux vidéos arrivent à tenir plus de 10 personnes en ligne de façon stable pendant la durée de la réunion. Mais déjà cette hypothèse se trouve infirmée par les relocalisations pré-confinement de plusieurs titulaires dans des zones rurales au câblage moins puissant ; les conversations sont hâchées, coupées pendant plusieurs minutes, interrompues ; le son est quelquefois exécrable, sans même parler des cris d’enfants au milieu des discussions. Si bien évidemment, on souhaite la réunion de l’ensemble du jury, et pas seulement la poignée de membres qui aura réussi à se connecter sans encombre, on peut donc raisonnablement penser que ces réunions seront matériellement impossibles à tenir3.

      Pour ce qui est des #auditions, la perspective n’est même pas envisageable. Le ministère peut-il fournir à l’ensemble des candidat·es l’équipement et la connexion nécessaire à son domicile ? Non. Alors il y a rupture d’#égalité. Jusqu’à présent, les auditions en visio-conférence pouvaient être organisées sur le site universitaire le plus proche du ou de la candidate, plus rarement au domicile. Dans la situation du confinement, ce sera simplement impossible.

      Cela, c’est sans tenir compte de l’inconnue que représente l’évolution de l’épidémie sur la vie quotidienne. Nous pouvons d’ores et déjà que la séquence examens des dossiers + concours se produira au moment attendu du pic de mortalité, en avril. À un moment où les membres des jurys et les candidat·es, s’ils ou elles ne sont pas affectées dans leur corps, auront sans doute à gérer de près ou à distance un décès d’un parent ou d’un proche — sans parler des difficultés inhérentes à toute épidémie, comme les pénuries, les soucis financiers, etc.

      Il sera regrettable qu’en raison de la gestion irresponsable du Ministère, à l’origine de nombreuses ruptures d’égalité ou d’annulations techniques de concours, les candidat·es subissent par des procédures pour #rupture_d’égalité une #double_peine. Ou pire, qu’arguant de la loi d’exception, le Ministère cesse de considérer que les principes d’#impartialité et d’égalité qui régissent les concours de la #fonction_publique cessent d’opérer.

      –------------

      Décret n° du

      fixant les conditions de recours à la #visioconférence pour l’organisation des concours des chargés de recherche et des directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques et des enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur au titre de l’année 2020

      Publics concernés : chargés de recherche et directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques (EPST) et enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur et de recherche

      Objet : utilisation de la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions ainsi que pour les réunions de délibération des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et autres jurys de recrutement d’enseignants-chercheurs.

      Entrée en vigueur : lendemain de la publication

      Notice : le décret vise à ouvrir à l’ensemble des membres des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et jurys d’enseignants-chercheurs organisés au titre de l’année 2020 la possibilité d’utiliser la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions et les délibérations.

      Références : le décret peut être consulté sur le site Légifrance (http://www.legifrance.gouv.fr).

      Le Premier ministre,

      Sur le rapport du ministre de l’action et des comptes publics, du ministre de l’éducation nationale et de la jeunesse et de la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation,

      Vu la loi n° 83-634 du 13 juillet 1983 modifiée portant droits et obligations des fonctionnaires, ensemble la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 modifiées portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°82-451 du 28 mai 1982 modifié relatif aux commissions administratives paritaires ;

      Vu le décret n°83-1260 du 30 décembre 1983 modifié fixant les dispositions statutaires communes aux corps de fonctionnaires des établissements publics scientifiques et technologiques ;

      Vu le décret n°84-431 du 6 juin 1984 fixant les dispositions statutaires communes applicables aux enseignants-chercheurs et portant statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences ;

      Vu le décret n°84-1185 du 27 décembre 1984 modifié relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires du centre national de la recherche scientifique ;

      Vu le décret n°84-1207 du 28 décembre 1984 relatif au statut particulier des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement ;

      Vu le décret n°84-1206 du 28 décembre 1984 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (I.N.S.E.R.M.) ;

      Vu le décret n°85-1060 du 2 octobre 1985 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut de recherche pour le développement (IRD) ;

      Vu le décret n° 86-83 du 17 janvier 1986 relatif aux dispositions générales applicables aux agents contractuels de l’Etat pris pour l’application des articles 7 et 7 bis de la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°86-576 du 14 mars 1986 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche en informatique et en automatique ;

      Vu le décret n°88-451 du 21 avril 1988 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national d’études démographiques ;

      Vu le décret n°99-272 modifié du 6 avril 1999 relatif aux commissions paritaires d’établissement des établissements publics d’enseignement supérieur ;

      Vu le décret n°2011-184 du 15 février 2011 relatif aux comités techniques dans les administrations et les établissements publics de l’Etat ;

      Vu le décret n° 2017-1748 du 22 décembre 2017 fixant les conditions de recours à la visioconférence pour l’organisation des voies d’accès à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu l’avis du comité technique du ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche du ;

      Vu l’avis du comité technique des personnels titulaires et stagiaires de statut universitaire du XXX ;

      Après avis du Conseil d’Etat (section de l’administration),

      Décrète

      Article 1er

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps de chargés de recherche et de directeurs de recherche régis par les dispositions du décret du 30 décembre 1983 susvisé peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 2

      La dernière phrase du 4ème alinéa de l’article 9-2 du décret du 6 juin 1984 susvisé ne s’applique pas aux concours de recrutement de professeur des universités ou de maître de conférences régis par ce même décret organisés au titre de l’année 2020.

      Article 3

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres du jury mentionné à l’article 46-1 du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par arrêté ministériel dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 4

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps assimilés aux enseignants-chercheurs relevant du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 5

      Les commissions administratives partiaires relevant du décret du 28 mai 1982 susvisé, les commissions consultatives paritaires relevant de l’article 1-2 du décret du 17 janvier 1986 susvisé et les commissions paritaires d’établissement relevant du décret du 6 avril 1999 susvisé, instituées dans les services et les établissements publics du ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation peuvent, pour leurs réunions organisées en 2020, appliquer les dispositions de l’article 42 du décret du 15 février 2011 susvisé.

      Article 6

      Le ministre de l’action et des comptes publics, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation et le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics sont chargés, chacun en ce qui le concerne, de l’exécution du présent décret, qui sera publié au Journal officiel de la République française.

      Par le Premier ministre :

      Le ministre de l’action et des comptes publics,

      Gérald Darmanin

      La ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation

      Frédérique Vidal

      Le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics,

      Olivier Dussopt

      https://academia.hypotheses.org/21391

    • Continuité pédagogique ? Témoignages d’enseignantes-chercheuses

      Nous avons recueilli, au hasard des listes de discussions, sur Twitter, en échangeant avec les collègues, plusieurs témoignages qu’il nous semble indispensable de publier pour saisir la distinction entre ce que j’ai appelé la névrose de la continuité pédagogique,et les tentatives, sincères, désespérées quelquefois, de faire vivre le lien pédagogique, ayant conduit Julien Gossa à lancer un appel pour un plan de (dis)continuité pédagogique. Car l’Université, c’est avant tout ces chaînes de transmission de savoir, qui sont aussi des liens éthiques et des valeurs.

      –-------

      Caroline Muller – Rennes-2

      « Chères toutes, chers tous,Je prends conscience que, dans l’effervescence de la mise en place de la « continuité pédagogique », je ne vous ai sans doute pas assez dit l’essentiel : cette période étrange n’est en aucun cas le moment de paniquer ou stresser sur vos cours. Nous savons que tout le monde n’a pas une bonne connexion internet ou des conditions de travail optimales ; je sais aussi que le confinement a des effets psychologiques qui peuvent rendre difficile la concentration. Mon mail précédent était indicatif : l’idée est de garder un peu d’activité intellectuelle et d’éviter un « décrochage » trop violent, pas de préparer à tout prix tout ce qui était prévu.

      Profitez de vos proches s’ils sont avec vous, jouez à la console, écoutez de la musique, plongez dans Gallica ou toutes ces très belles offres culturelles qui nous parviennent (comme quoi, en temps de crise, on se rend compte qu’on pourrait inventer une culture gratuite et accessible à tous), regardez des films, cuisinez si vous pouvez, faites du yoga (sans vous cogner aux meubles si vous êtes dans 12 mètres carrés), applaudissez aux fenêtres, observez ce que l’événement fait à la société, fomentez la fin du capitalisme, dormez, rêvez, parlez à vos amis, organisez des apéros Skype si vous avez une connexion, écrivez à vos professeur(e)s qui sont là pour vous, ressortez les puzzle et les lego, bref : faites ce qui vous fait du bien. Et n’hésitez pas à m’écrire si vous êtes angoissés. On peut même créer un groupe de discussion si vous avez besoin.
      Pour ceux et celles qui sont salarié(e)s, ces temps sont aussi particulièrement difficiles à gérer, entre inquiétude de contamination, pressions hiérarchiques, injonctions contradictoires et nécessité de subvenir à ses besoins. N’hésitez pas à nous contacter pour nous faire part de toute situation de grande fragilité ou de précarité et surtout ne vous donnez pas une pression supplémentaire quant au suivi de votre cursus : nous trouverons des solutions ensemble le moment venu ».

      –------

      VB – Région Rhône-Alpes

      J’ai quand même un collègue qui nous dit, quand on discute des difficultés des étudiants, « Oui enfin bon c’est peut-être juste de la fainéantise et il ne faudrait pas que nous baissions notre niveau d’exigence ».
      Au même moment une étudiante m’écrivait pour s’excuser de ne pas avoir participé au chat que j’avais planifié, parce qu’elle est caissière en supermarché et fait plus d’heures à cause des absences. Au supermarché, bordel, pendant que nous on est confinés avec nos 2500 bouquins et qu’on glose sur « oui mais alors faudrait pas donner leur semestre aux fainéants ».

      –-------

      CP – Grand Est

      Mail de la hiérarchie demandant, UE par UE, un tableau des aménagements prévus pour la continuité pédagogique, et disant que d’autres formations ont déjà remonté les tableaux le week-end dernier. Je ne sais pas dans quel monde c’est humainement possible. On a besoin de TEMPS là. Jean-Michel Blanquer déteint sur l’ESR ou bien ? Les demandes comminatoires de trucs pas raisonnables et précipités, quand on n’a ni pratique, ni formation, ni anticipation vague du passage en distanciel, ça remet une pièce dans le juke box de l’anxiété.
      Du coup, ma réponse :

      CR – Région Centre – Message envoyé au doyen le 20 mars au doyen

      « Il est clair aujourd’hui que les étudiants sont en train de supporter un stress considérable dans ce système improvisé (improvisation qui n’est la faute de personne) : on leur laisse à penser qu’ils doivent suivre des formations à distance qui seront l’objet d’évaluation.
      De mon point de vue, c’est totalement injuste et irresponsable de notre part.
      Nous savons que les inégalités d’accès à Internet nous obligeront à renoncer à toute évaluation sur les « enseignements » donnés dans ce cadre.

      Il est donc de notre responsabilité de dire clairement le plus vite possible aux étudiants que seuls les cours faits avant la fermeture et éventuellement après la reprise feront l’objet d’une évaluation selon des modalités que nous ignorons aujourd’hui.

      Et, en même temps , leur dire que nous les encourageons malgré tout à ne pas se démobiliser en utilisant les ressources données par les enseignants pour réviser et travailler le reste du programme même si cela ne fera pas partie de ce qui sera évalué. Nos étudiants sont assez intelligents pour comprendre cela.

      C’est ce que nous avons fait pendant et à la suite des grèves de 1995-1996 et 2007-2009 ».

      –----------

      VM – Île-de-France

      « Je me posais déjà la question de l’accès aux outils numériques pour les étudiants, mais j’ai reçu des messages complètement catastrophés d’étudiantes et d’étudiants ces derniers jours : pas d’internet autrement qu’un petit forfait sur le téléphone (donc des devoirs à la main envoyés en photos), un ordi pris d’assaut par la famille, pas de BU, etc.

      Les conditions de confinement sont très variables. Certains sont seuls chez eux, d’autres avec un.e ami.e, d’autres avec leurs parents, leurs frères et sœurs, leurs grands-parents. Certains sont dans leur petite chambre d’étudiants, d’autres dans l’appartement familial, certains en ville, d’autres à la campagne. Certains continuent à travailler pour leur job étudiant, d’autres se demandent comment ils vont faire financièrement maintenant qu’ils n’ont plus cette source de revenus. Certains ont des proches malades, voire sont malades eux-mêmes. Certains ont besoin de travailler pour mettre à distance ce qui nous arrive, d’autres sont trop angoissés pour le faire.

      Comment alors leur demander de rendre des devoirs en laissant peser la menace du contrôle continu ? Et quand nous reviendrons ou pas et tenterons de valider le semestre, comment faire pour que ceux qui n’ont pas pu travailler ne soient pas pénalisés ?

      J’ai donc décidé pour la semaine prochaine de mettre sur notre ENT un cours et une correction d’un commentaire qui était à me rendre hier. Nous ferons une heure de classe virtuelle pour que je réponde à leurs questions et que nous maintenions un lien. Ensuite, je continuerai à mettre à l’heure normale du cours des textes, des articles, des liens, toujours en rapport avec l’histoire, mais pas nécessairement en lien avec la thématique exacte de mon cours. Je conserve aussi 1h d’échange par chat ou par classe virtuelle par semaine pour continuer à apprendre. Ceux qui peuvent et veulent me renvoient les devoirs initialement prévus : je n’en tiendrai compte dans l’évaluation que si cela leur est favorable. Et je vais réfléchir à des modalités d’évaluation raisonnables et justes pour la fin du semestre.

      Il me semble absolument nécessaire de continuer à réfléchir, à lire, à faire preuve d’esprit critique, à échanger des idées et des connaissances avec eux. Mais je ne veux mettre aucun d’eux dans une situation encore plus difficile et stressante ».

      –------

      6° BS – Région Bretagne

      Echange de courriels
      a. Du Département Suptice

      Chers collègues,
      En cette période de crise sanitaire et de confinement, nous sommes tous mobilisés pour assurer une continuité pédagogique auprès de l’ensemble de nos étudiants, notamment par le recours aux outils et aux ressources d’enseignement en ligne. Dans ce contexte, une attention particulière doit être apportée à nos étudiants en situation de handicap.
      C’est pourquoi nous nous faisons le relais des recommandations proposées par Monsieur XXX , enseignant et référent pédagogique Handicap, en matière de consignes pour la création de supports en ligne respectueux des règles d’accessibilité.
      Nous vous invitons à en prendre connaissance et à les appliquer lors de la création de vos supports de cours.
      Restant à votre écoute,
      Bien cordialement
      b. Message de la Présidence

      Chères et chers collègues,
      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.
      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.
      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions. La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.
      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI, le SFCA et le SOIE. Avec l’aide de la Fondation de l’Université, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.
      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.
      Bien à vous, PRESIDENCE
      c. BS, enseignante-chercheuse

      Bonsoir … , chers collègues,

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en œuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA1 pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler. Mon directeur d’UFR est super et soutient tous les personnels de l’UFR. J’essaie de mon côté tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant·es connecté·es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.
      De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.
      De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.
      Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.
      Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychologique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.
      Cordialement, BS

      –--------

      Véronique Beaulande- Université Grenoble Alpes

      https://academia.hypotheses.org/21372

    • Ma vie de prof mise a distance : première semaine

      Jean-Michel #Blanquer a assuré la semaine dernière que tout était prêt pour l’enseignement à distance, mais les enseignants n’en avaient même pas été informés. Nous ne devions donc pas compter dans ce dispositif ? Ou bien nous n’étions attendus que comme « petites mains » de son plan génial ? Malaise.

      Travail du weekend : habituellement, je me limite au maximum sur le travail du weekend, pour… avoir une vie de famille, et essayer d’avoir un temps où je décroche du travail*.

      Malgré tout, comme beaucoup de mes collègues, je travaille le weekend. Et là, il y a une urgence exceptionnelle.

      Samedi 14 : J’ai contacté mes collègues de philosophie pour voir comment nous pourrions mutualiser notre travail pour les semaines à venir. Rédaction et lecture de plusieurs mails à différents moments (samedi après-midi, dimanche après-midi). Deux de mes collègues ont de jeunes enfants qu’elles devront garder à la maison, et m’informent qu’elles ne pourront assurer que le minimum.

      Nous ne savons pas encore si nous aurons l’obligation de nous rendre dans nos établissements sur nos horaires de cours habituels. Cet ordre a été donné par certains recteurs. Ce serait absurde, car nous n’avons pas de bureaux, pas de livres, parfois même pas d’ordinateurs pour travailler sur place, évidemment pas de conditions de sécurité sanitaire minimales, mais cela permettrait à notre institution de nous avoir à l’œil comme des petits moutons, dont on pourrait s’assurer qu’ils ne prennent pas du bon temps pendant la fermeture des établissements scolaires…. Cela semble être la première crainte, la première précaution que notre administration souhaite prendre, j’allais dire « à notre égard », mais c’est plutôt « à notre encontre ». Certains proviseurs envisagent même d’organiser des réunions toute la semaine, et tentent d’intimider et d’humilier les professeurs qui protestent au cours du weekend contre ces mesures.

      Échange mail avec la Cheffe d’Etablissement, pour l’informer de mon inquiétude pour les élèves qui n’auront pas accès à Internet (pas d’ordinateur individuel, pas de connexion de qualité suffisante), ou qui devront faire face à d’autres urgences.

      Retour de mail à tous les enseignants dans l’après-midi, qui nous informe qu’il sera de notre responsabilité d’identifier les élèves qui ne se connecteraient pas. Voilà, la responsabilité est pour nous.

      Dimanche : Je me lève à 7h00 du matin, car je suis prise d’une inspiration subite, et j’écris une longue lettre à mes élèves, avec lesquels je n’ai pas pu communiquer de vive voix après l’annonce de la fermeture des établissements scolaires, pour les inviter, en cas de difficultés de connexion, à lire de beaux livres, de ces livres capables de porter et ouvrir le monde. Le meilleur enseignement à distance ! Ce qui ne signifie pas que nous n’avons pas besoin de passeurs ou de passeuses pour accéder aux grands textes. (J’ai soigneusement travaillé la rédaction de ma lettre, car je compte sur le travail de l’écriture pour compenser, un peu, la non présence en chair et en os !).

      Je prends mon petit déjeuner en même temps que j’écris, pour ne pas perdre l’inspiration.

      Envoi de ma lettre vers 9h00. J’espère que mes élèves la trouveront en ouvrant l’ENT lundi. Qu’ils aient au moins ça.

      Je vais voter.

      Visite à ma mère qui a quatre-vingts ans. Dernière visite avant combien de temps ? J’ai mal dans les poumons. La perspective de mourir, peut-être dans les deux ou trois semaines à venir, m’a motivée pour arrêter de fumer. Ma mère, en pleine forme, me dit qu’elle a bien vécu sa vie, et m’invite à ne pas m’inquiéter pour elle.

      18h00 : je réponds à une élève qui a déjà lu ma lettre, et me demande des précisions pour se procurer un livre.

      LUNDI :

      Dès 8h00 (mon horaire de début de travail habituel le lundi) : recherche de ce qui est immédiatement disponible (cours déjà prêts et tapés) pour pouvoir les distribuer au plus vite aux élèves.

      9h30 : rédaction de petites fiches de programme de travail pour les élèves que j’ai habituellement en classe les mardi et mercredi.

      9h45 : première tentative de connexion sur l’ENT (Environnement Numérique de Travail) : inaccessible.

      Recherche de textes, mise sous format PDF de mes cours et de documents.

      Re tentative de connexion à l’ENT : inaccessible.

      J’annonce à mon collègue de philosophie que je ne serai vraisemblablement pas disponible pour la réunion téléphonique que j’avais initialement proposée à 14h00.

      13h00 : Re-tentative de connexion à l’ENT, qui plante. Début d’inquiétude : comment faire pour communiquer avec les élèves ? Recherche de solutions : créer des mailing listes ? Communication par liste de diffusion avec les collègues qui constatent le même plantage de l’ENT, et cherchent et proposent des solutions d’accès, qui ne fonctionnent que très ponctuellement.

      Je commence à organiser le lockdown avec mes fils : lequel ira chez moi, lequel ira chez leur père. Préparation des valises et organisation de l’échange de domicile. Appel à ma maman, à ma sœur, pour lesquelles je suis inquiète, car elles seront seules chez elles.

      14h30 : re-tentative de connexion à l’ENT. Sans succès.

      15h00 : préparation du travail pour les classes que j’ai jeudi. Rédaction de contenu de cours, impression de documents, rédaction d’exercices.

      16h30 : échanges avec collègue de philo sur les cours déjà prêts que nous pouvons partager, et ceux que nous aurions à rédiger.

      J’ai renoncé à l’idée de proposer des petits exercices sur les outils de l’ENT, puisque celui-ci n’est pas accessible.

      Pas d’accès sur le site du CNED, pas de possibilité de tester le dispositif de « classe à la maison ».

      Echanges avec les collègues et avec la Cheffe d’Etablissement, pour voir si nous pouvons créer des mailing listes. La CDE m’invite à patienter, « les choses vont se mettre en place ».

      18h00 : Je vais chercher mon fils et ses valises chez son père. Je dis au-revoir à mes deux autres fils. Je ne sais pas quand je vais les revoir.

      20h00 : tentative de connexion à l’ENT.

      22h30 : je reçois un mail, sur une adresse mail de secours (hors ENT) que j’ai pu communiquer à quelques élèves, de la part d’un élève consciencieux, lequel est très inquiet, car une consigne d’un exercice donné par une collègue de physique ne lui parait pas complète. Je pressens qu’à 22h30, dans les premiers temps de la fermeture des établissements scolaires, et juste avant le lockdown, son inquiétude n’est pas que scolaire. Je transfère sa question à ma collègue. Au passage, il me souhaite « bonne nuit » : c’est mignon, ça ne m’était jamais arrivé, qu’un élève me souhaite « bonne nuit » ; je lui souhaite « bonne nuit » à mon tour. Il me pose d’autres questions, mais je cesse de lui répondre, car je suis… au lit !

      MARDI :

      Je me lève à 6h00. Angoissée ? oui.

      J’en profite pour tenter de me connecter à l’ENT. Je parviens à envoyer un mail.

      Petit déjeuner et douche : je ne sais plus si c’est sur mon temps de travail ou pas : on en est où ?

      Tentative de création et d’envoi sur une mailing liste : ça ne marche pas correctement. Protestation inquiète ou amusée d’élèves, sur l’adresse mail de secours. Je leur réponds. Echanges avec les collègues sur le plantage de l’ENT, sur les possibilités de prendre d’autres chemins de communication avec les élèves. Est-ce légal, est-ce une bonne chose pour eux et pour nous ? Débat sur fond de désarroi et sentiment d’être abandonnés par notre institution. Question à la Cheffe d’Etablissement : je lui demande des instructions claires sur ce point. Elle m’invite à patienter. Certains collègues sont parvenus à créer eux-mêmes des moyens de communication avec les élèves, mais avouent déjà craquer, car ils/elles travaillent 12h00 par jour depuis le weekend.

      L’institution semble s’inquiéter grandement de la manière de nous surveiller, de disposer de nous pour toute nouvelle mission, par exemple, contacter les familles avec nos téléphones personnels, faire des photocopies sur nos imprimantes, mais pas de nous informer ni de nous donner les outils de travail qui nous sont indispensables. Mais qui, parmi nos « managers », nos « super managers », sait ce que c’est qu’un travail de prof ? Aucun. De là à penser que ce que l’on ignore n’existe pas : erreur classique, basique. Et alors, comment exploiter, diriger ce dont on ignore tout, si ce n’est en compartimentant en petites cases méthodiquement, en contrôlant on ne sait pas trop quoi, en mettant tout en pièces, personnes et savoirs ?

      Beaucoup de collègues sont angoissés, car ils/elles ne veulent pas abandonner leurs élèves les plus fragiles : les élèves qui n’auront pas à leur domicile des conditions correctes d’études.

      Rédaction de fiches d’exercices et de contenus. Proposition à mon collègue de philosophie de contenus que je peux mettre à sa disposition, et proposition d’un nouveau programme de travail pour nous, si il est possible de le tenir !

      J’ai des copies en retard : je culpabilise.

      J’ai des bulletins à remplir : pas d’accès à l’ENT.

      Après-midi : je ne sais plus quelle heure, tout se mélange.

      J’ai enfin accès à l’ENT, je poste le maximum d’infos et contenus que je peux à destination des élèves, dans leurs casiers, le cahier de texte, en documents partagés. Pas d’accès à la messagerie. Pas de possibilité de remplir les bulletins. Les élèves n’ont pas accès à l’ENT.

      Echange par mail avec les professeures principales de mes classes, sur leurs adresses personnelles, car pas d’accès à la messagerie de l’ENT. Je leur transmets un scan de mes appréciations et avis sur les élèves pour les prochains conseils de classe.

      J’informe les collègues, avec lesquels je suis en contact, de l’accès possible à l’ENT pour les professeurs.

      Je prends la résolution de respecter le temps de travail pour lequel je suis rémunérée= 80%. En gros, soit quatre jours pleins, soit trois jours pleins plus deux demi-journées.

      Je m’occupe de mon fils qui a un gros coup de déprime ce soir.

      MERCREDI :

      Réveil 6h00 et gros coup de déprime pour moi aussi. Déjà ? Comment est-ce que je vais tenir ? Comment est-ce que l’on va tenir ?

      Échange avec des élèves qui me demandent quel est le travail à faire, sur mails persos, car ils ont difficilement accès à l’ENT ou pas du tout. Je les rassure : je n’exige pas le rendu du travail immédiatement, et je leur donne jusqu’à la fin de la semaine, pour rendre ce travail de préférence, sur l’ENT.

      Rédaction d’un cours pour les élèves de TS pour la semaine prochaine, sur les Propos sur les pouvoirs d’Alain.

      Après-midi : il fait beau, je jardine, et j’alterne la rédaction de mon cours et le jardinage. Le jardinage me fait du bien : être dehors, travailler avec son corps, toucher les plantes et la terre, travailler à la beauté.

      Une élève, inquiète, m’écrit pour me dire que certains des élèves de la classe ont pu avoir accès à l’ENT, mais pas elle. Elle me demande si je peux lui proposer une autre solution. Je lui réponds que non, pour le moment.

      Un élève se plaint de ce que j’ai envoyé trop de messages, et dans des dossiers différents : il ne s’y retrouve plus.

      Un élève n’a pas compris la consigne. En classe, on répète les consignes plusieurs fois, on les écrit au tableau, dans le cahier, on les reformule, on commente. Pas question de jouer à cela par mail, sinon les élèves vont être perdus. Je laisse tomber.

      21h00 : mon compagnon, qui est prof aussi, m’indique qu’il a pu enfin avoir accès à la classe virtuelle du CNED. Je me connecte, je crée des groupes, je poste du contenu : celui que j’ai déjà posté à destination de mes élèves sur l’ENT.

      C’est peut-être la solution pour mon élève qui n’y a pas accès. Je me réjouis d’avoir trouvé la solution, et de pouvoir la lui proposer dès demain matin.

      21h30 : réception de deux photos : un élève à photographié son travail manuscrit. Il a pris soin de bien calligraphier. Je désespère : comment vais-je pouvoir lire et corriger cela ? Comment vais-je m’en sortir, si mes 130 élèves m’envoient, par différents canaux, plusieurs pages manuscrites, copiées sous différents formats ? Comment vais-je pouvoir m’y retrouver : les classer, les lire et les corriger, les rendre ?

      22h00 : j’arrête pour ce soir.

      22h45 : Je supplie mon compagnon, qui répond encore à des mails d’élèves, d’arrêter de travailler. Je suis déjà au lit avec un livre, j’ai hésité à lire le livre de philosophie que j’étudie avec mes élèves, mais finalement, j’ai choisi un roman. Je suis incapable de lire.

      JEUDI :

      Réveil à 6h20 : je progresse, je dors un peu mieux…

      Mon compagnon se lève, prend un petit déjeuner vite fait, et s’installe pour corriger des copies. Je le supplie de définir des horaires de travail.

      Il me propose de venir voir son travail sur la classe en ligne. Je proteste : il est 8h00, je ne suis pas encore au « bureau ».

      8h30 : j’ouvre ma classe virtuelle du CNED : tout ce que j’ai créé la veille, les groupes, et les documents que j’au cru pouvoir mettre à la disposition des élèves a disparu… Que de temps perdu !

      Mon compagnon est en classe virtuelle avec ses élèves, de 9h00 à 10h30. Je regarde comment cela fonctionne.

      Échange de mails pour prendre des nouvelles de collègues que je sais isolés.

      Recherche et rédaction de cours à partager avec mes collègues de philosophie.

      Récréation : je jardine une demie heure. En rentrant dans la maison, je m’arrête devant la porte d’entrée. C’est le choc :

      L’HORREUR DE LA CLÔTURE, LA TERREUR DE L’ENFERMEMENT !

      Je respire. Je bois un café.

      Réponse à quelques mails d’élèves, paumés, qui n’ont pas accès aux documents, ne parviennent pas à les ouvrir. Je reçois par mail un exercice d’élève enregistré dans un format que je ne parviens pas à ouvrir.

      C’est vrai que leur demander un exercice écrit tapé au clavier est une difficulté supplémentaire pour eux. Très difficile pour moi de corriger des exercices rendus manuscrits, très difficile pour eux de composer des écrits sur clavier. Comment faire ?

      Échanges avec des collègues sur la situation.

      14h00 : Je prépare la séance avec les élèves de première prévue demain, sur la révolution astronomique : visionnage et sélection de vidéos (trois heures), rédaction de questions pour guider leur activité (une heure trente).

      J’envisage un rendez-vous avec eux en classe virtuelle via le CNED. Problème : comment faire un cours de philosophie à distance ? Le cours de philosophie suppose un temps de travail et de réflexion des élèves, qu’ils peuvent faire en « autonomie guidée » (les vidéos avec les questions à préparer), mais il suppose aussi un dialogue avec la classe. Cela peut-il fonctionner en classe virtuelle ? Que faire si je n’ai aucune réaction en face de moi ? Vais-je discourir toute seule devant mon écran ? Cela n’a aucun sens.

      Comment lire avec eux un texte ? Comment construire avec eux un problème ? Comment faire sans les visages ?

      Je me propose de donner tout de même rendez-vous aux élèves pour tester le dispositif demain, et pouvoir les écouter et répondre à leurs questions.

      Test du dispositif classe virtuelle chez moi (une heure) : problème de son. Je ne peux ni recevoir, ni émettre.

      J’arrête à 19h00 : ma séquence pour demain n’est pas prête. Je n’ai pas non plus pu adapter le cours que je me proposai d’envoyer à mon collègue : ce sera pour vendredi.

      Copies non corrigées : je culpabilise.

      Bulletins pas encore remplis : je culpabilise.

      Je consulte la messagerie professionnelle.

      Pas de retours d’exercices d’élèves sur l’ENT.

      22h05 : mail d’un élève qui m’annonce qu’il m’envoie son exercice. Pas de pièce jointe.

      22h06 : la pièce jointe.

      22h30 : j’essaie de lire, je n’y arrive pas. Trop de tension, c’est la surchauffe.

      Le bruit commence à courir que l’année scolaire pourrait être prolongée, le bac reporté en juillet…

      VENDREDI :

      Nouveau visionnage des vidéos que j’ai sélectionnées pour les élèves de première. Le deuxième documentaire que j’avais sélectionné n’est plus accessible : il me faut en choisir un autre.

      Vont-ils pouvoir consulter l’ENT, lire les vidéos ? Seront-ils au rendez-vous tout à l’heure ? Aurais-je du son ?

      Ou bien : est-ce que j’aurais travaillé plusieurs heures pour rien ?

      Invitation lancée à mes collègues pour une réunion syndicale, par téléphone, lundi prochain à 16h30 : il faut que l’on puisse réfléchir ensemble à ce que l’on est en train de faire, à ce que l’on nous demande, aux limites que nous rencontrons, et à celles que nous devons poser. Reprendre une réflexion collective et politique.

      Je reçois encore quelques exercices d’élèves, par des canaux différents. Les élèves n’ont pas respecté la consigne de les envoyer sur l’ENT. Pas pu ? Heureusement qu’il n’y en a pas trop : il me faudra vite les classer.

      Une collègue a ouvert un forum de discussion à destination de ses élèves sur l’ENT. Je fais de même pour trois de mes classes, afin de pouvoir répondre à leurs questions et être informée de leurs problèmes matériels. Les questions arrivent tout au long de la journée, sur tous les sujets, et pas seulement celui de la philosophie…

      Des collègues témoignent sur les réseaux sociaux de chefs d’établissements qui leur demandent des preuves de leur travail : horaires de connexion, échanges par mail, par téléphone avec les élèves, fiches de préparation. Ça y est, l’institution retrouve de sa vigueur, la grande surveillance va tenter de se mettre en place. L’institution n’est pas bienveillante. L’institution n’a aucune notion de la confiance. L’institution est aveugle et méfiante.

      13h30. Je m’installe dans ma classe virtuelle. Déconnexion toutes les quarante secondes. Je revisionne une dernière fois les vidéos. Je télécharge les documents que je souhaite partager avec la classe.

      Déconnexion.

      14h30 : Top départ : c’est l’heure du rendez-vous avec les élèves. J’ai le trac.

      J’essaie d’ouvrir ma session, et je reçois le message selon lequel je suis déjà connectée.

      Je réessaie. Dix fois. Je suis déconnectée. Je suis déjà connectée. Déconnectée. Je redémarre l’ordinateur : je suis déjà connectée.

      A 14h45, je reçois un mail d’une élève sur l’adresse mail de secours. Elle ne parvient pas à se connecter. Elle reçoit un message qui lui indique qu’elle est déjà connectée. Nous tournons en rond. Nous finissons par comprendre que nous avons le même lien, et que personne ne peut se connecter…

      Je vérifie : sur mon bloc note, j’ai effectivement deux fois le même lien. Je recherche le mail de confirmation d’inscription reçu du CNED : la messagerie académique ne fonctionne pas.

      Et puis tout d’un coup j’ai mal au dos. Grosse montée d’angoisse. Je devrais sortir, mais, dehors, c’est tellement désespérant.

      J’imagine une « manifestation fantôme » : nous irions à notre tour déposer nos pancartes, nos gilets jaunes, sur une place, au pied des arbres. Demain ?

      https://blogs.mediapart.fr/arielle-kies/blog/200320/ma-vie-de-prof-mise-distance-premiere-semaine

    • Bonjour

      En tant qu’enseignant-chercheur, j’approuve sans réserve la lettre de l’enseignante postée plus haut sur ses interrogations à propos de ce qui se passe du côté des étudiant⋅e⋅s. Du côté des enfants je n’ai pas de souci particulier, j’ai mon fils à la maison, mais c’est un « grand » de terminale, il ne réclame pas une attention constante.

      Pour en revenir au chapitre des étudiant⋅e⋅s, il y a plusieurs choses qui me chiffonnent. J’ai monté dans l’urgence tout un tas de dispositifs pour essayer de continuer à faire mes TP (j’enseigne l’info en IUT, et en ce moment j’ai une longue période de TPs, en programmation, et en administration système, pour ceux qui connaissent). Je passe sur les aspects techniques qui sont hors-sujet dans cette discussion, pour perler du lien aux étudiant⋅e⋅s.

      Le premier jour (mercredi dernier donc) j’ai du avoir 95% de taux de présence et beaucoup d’interaction. En gros : ils ou elles accédaient à distance à une de nos salles à l’université, ce qui était déjà tout un souk, tout en pouvant interagir avec moi par chat, et quand je voyais qu’un problème ou une question était récurrente, je faisais un petit billet sur un forum dédié pour que ça serve aux suivants. 4 groupes dans la journée, 2h chacun. À la fin j’étais nerveusement épuisé, vidé.

      Jeudi j’ai du avoir a peu près le même taux de présence, peut-être un peu moins (même matière, même nombre de groupes). Même état d’épuisement à la fin.

      Vendredi c’était programmation, 4 groupes toujours, elles ou ils bossent chez eux, interagissent par chat (+forum là aussi pour globaliser et pérenniser les retours), me déposent des travaux à évaluer sur un ensemble de points de dépôt correspondant à des étapes dans le projet qu’ils doivent réaliser. 50% de présence... J’appréhende la semaine prochaine, et j’ai pas envie de jouer au flic.

      Bon, tout ça c’est essentiellement du factuel. Ce que je retire de tout ça maintenant : Le « groupe de tête », celles et ceux qui sont toujours en avance sur les autres, s’accommode fort bien de ce mode de fonctionnement. Ils ou elles adorent même. De toutes façon celles ou ceux-là, je pense que tu peux avoir n’importe quelle attitude pédagogique, ils ou elles sont quasi autonomes dans l’acquisition des connaissances. Je dis bien quasi, parce que je sais aussi le nombre de trucs qu’ils ou elles croient savoir et que je corrige mine de rien.

      Vient la masse de celles et ceux pour qui ça se passe pas trop mal, à des degrés divers. Ils avancent à peu près correctement. C’est plus compliqué avec celles et ceux-ci, par manque d’interaction, c’est pas immédiat le chat, et puis ça permet pas tout, et puis je peux pas d’un coup attraper un feutre pour aller gribouiller un truc au tableau. Voilà c’est ça : je ne peux pas alterner mode individuel et mode groupe comme je veux. C’est pas possible. Donc je répète sans arrêt les conseils, je fais les mêmes réponses à x étudiants. C’est extrêmement usant. J’ai beau essayer d’amortir ça en me servant du forum pour faire remonter des informations synthétisées à tou⋅te⋅s, c’est usant.

      Et puis il y a celles et ceux qui s’accrochent mais ont de réelles difficultés pour plein de raisons, personnelles (problèmes de communication, problèmes familiaux...). Là c’est terrible, parce-que tu les sens partir. Tu les sens glisser alors que quand tu les as devant toi tu peux les maintenir à flot, parce que tu es présent, tu as un lien avec eux et tu peux les encourager, d’un mot, d’un geste, d’un regard, de petits riens de la communication qui changent absolument tout. Et là je les vois s’éloigner, et je crains la semaine qui vient, en me demandant combien je vais en perdre d’autres.

      Je pourrais aussi parler de l’étudiant qui m’écris pour me dire qu’il est pompier volontaire et donc réquisitionné, et donc qu’il ne pourra pas suivre mes TP en ligne ; celui qui bosse dans une supérette et qui a aussi été réquisitionné (je vous laisse apprécier la différence entre ces deux réquisitions... le deuxième j’ai été très tenté de lui répondre qu’il devrait foutre son poing dans la gueule de son patron).

      Le vendredi d’avant le confinement, lors de la dernière journée de TP, j’ai demandé aux étudiant⋅e⋅s qui n’auraient pas accès à un ordinateur de tout suite prendre contact avec moi. Je n’ai pas eu de retour, est-ce que ça veut dire qu’il n’y en a pas, je ne sais pas.

      Ce que je sais c’est qu’au final cette histoire de continuité pédagogique c’est la continuité du hamster dans sa roue : on essaie de se persuader qu’on va continuer « presque comme avant », mais en réalité on fait du tri social : les plus faibles vont dégager, sauf que c’est rendu invisible par l’interface technologique. Mais ça va tout à fait dans le sens de l’université voulue par les peigne-culs qui nous gouvernent : le high-tech pour les classes aisées, la caisse du supermarché pour les autres. Le tri social par l’accès aux technologies, et le recul de la réflexion sur le savoir : tournez petits hamsters.

      Bon voilà. En relisant je me dis que c’est un peu le bordel ce texte, je crois que j’avais besoin de dire tout ça, mais maintenant il faudrait faire le tri et revoir le tout sous plusieurs angles.

      Si vous aussi vous êtes confrontés au télé-enseignement j’aimerais bien avoir votre avis et le récit de votre vécu.

    • A la «continuité», le CDNT répond «solidarité» !

      En pleine crise sanitaire, alors que nous devrions tout faire pour faciliter la vie des plus vulnérables d’entre nous, l’injonction à la "continuité" pédagogique tient de l’acharnement. Or, nous ne pouvons accepter de sacrifier nos conditions de travail et les conditions de vie de nos étudiant.e.s pour satisfaire à la seule rhétorique guerrière de nos pouvoirs publics.

      De toute évidence, la pandémie de Covid-19 est une crise sanitaire sans précédent qui exige des mesures économiques et sociales exceptionnelles, à l’instar de ces mesures de confinement que nous nous devons de respecter dans l’intérêt de tou.te.s. Cependant, si la situation est exceptionnelle, nous ne pouvons tolérer que des décisions puissent être prises sans respect du cadre démocratique et du dialogue social. Ainsi, si nous souhaitons bien évidemment que ce temps de confinement soit dédié au partage et à la solidarité, l’injonction à la « continuité pédagogique » qui nous est faite par le gouvernement, et relayée localement par la présidence de notre établissement et nos directions de composantes nous semble complètement déconnectée de la réalité présente et des enjeux actuels. Elle n’est ni réalisable, ni souhaitable, tout en n’ayant pas fait l’objet d’une réelle consultation préalable des équipes pédagogiques et administratives et de leurs organisations représentatives.

      Déconnectée, tout d’abord, parce qu’au moment où nous devons organiser localement de nouvelles solidarités pour faire face au défi posé par le Covid-19 (pour nos familles, pour nos proches, pour nos voisin.e.s, et notamment pour les plus vulnérables d’entre elleux), le maintien d’une activité d’enseignement à distance n’est pas une priorité. Nous ne considérons pas l’enseignement et la recherche comme des activités non-essentielles ; au contraire, nous nous battons depuis des années pour que celles-ci puissent être exercées dans des conditions dignes, et puissent occuper une place d’autant plus importante dans notre société. Mais s’acharner à vouloir « enseigner » alors que nos étudiant.e.s et nous-mêmes avons certainement d’autres priorités tiendrait, pour reprendre ce terme à un camarade strasbourgeois syndiqué au SNESUP, de « l’indécence »[1].

      Irréalisable, ensuite, parce que nous ne disposons pas des moyens adéquats pour maintenir notre activité là où personnels et étudiant.e.s sont inégalement équipé.e.s et disponibles pour enseigner et apprendre. Qu’en est-il de la fracture numérique, là où nous savons qu’une part non-négligeable de nos étudiant.e.s, parmi les plus précaires, ne sont pas équipé.e.s d’ordinateurs personnels à domicile ? Qu’en est-il de la qualité du suivi, quand la principale alternative semble être la seule mise en ligne de nos cours sur une plateforme numérique (ce qui pose des problèmes de propriété intellectuelle au demeurant) ? Qu’en est-il de la qualité du travail, quand nous devons parfois nous occuper de nos enfants ou des personnes les plus vulnérables de notre entourage ?

      Et si cette « continuité pédagogique » n’est pas souhaitable, c’est parce qu’elle s’inscrit en faux avec tout ce pour quoi nous nous battons afin d’améliorer nos conditions de travail et d’étude dans l’ESR. Elle est à la fois un dévoiement du sens de notre métier, qui est un métier de contact et d’accompagnement qui ne saurait être réduit à la seule production de contenus, et une attaque contre nos conditions de travail, en nous imposant une organisation du travail à laquelle nous n’avons pas consentie et qui est inadaptée aux enjeux réels de l’Université.

      Signalons par ailleurs que la dématérialisation de l’enseignement est l’un des objectifs des réformes successives que l’université publique subit depuis plusieurs années. Montrer que notre métier est « dématérialisable », c’est aussi accepter les suppressions de postes que nous connaissons déjà et que nous connaîtrons encore avec cette gestion néo-libérale de l’ESR.

      Nous continuerons à être en contact avec nos étudiant.e.s. Mais si nous le faisons, c’est pour construire de nouvelles solidarités à un moment où nous en avons tou.te.s particulièrement besoin. Nous continuerons à construire l’université publique que nous désirons : une université ouverte et démocratique. Mais nous refusons d’être les promoteur.ices d’une université marchande réduite à la seule production industrielle de connaissances scientifiques. Nous refusons de sacrifier nos existences et celles de nos étudiant.e.s avec pour seule finalité celle de continuer pour continuer. Nous refusons enfin de fermer les yeux sur les profondes inégalités qui existent au sein du corps étudiant et que nous ne ferons qu’aggraver en défendant cette forme d’enseignement à distance : si nous devions défendre l’enseignement à distance, ce serait sous la forme d’un suivi particulier, notamment à destination des personnes qui ne peuvent se rendre à l’Université, mais celui-ci nécessite des moyens dont nous ne disposons pas en l’état.

      En somme, la crise sanitaire actuelle, bien loin de suspendre les enjeux politiques et sociaux face auxquels nous nous engageons depuis plusieurs années, et en particulier depuis le mois de novembre, les exacerbe. Cette situation, d’ores et déjà dénoncée par de nombreux collectifs étudiants, n’est pas digne de notre institution.

      Les inégalités sociales et la précarité étudiante et enseignante continuent d’être pensées "au cas par cas" alors qu’elle constitue une problématique sociale, structurelle que l’ESR semble vouloir continuer d’ignorer. Les réformes en cours, bien que "suspendues" ou "reportées" présentent toujours un danger pour l’avenir de nos retraites, de nos parcours professionnels, et pour l’enseignement et la recherche. Par conséquent, la rétention des notes engagée au premier semestre pour toutes ces raisons reste d’actualité. Nous ne nous "encombrerons pas des casseroles" de celleux qui considèrent à la fois qu’il faut continuer le travail pédagogique et clôturer les luttes engagées jusque-là. Si besoin, nous continuerons de communiquer ces notes aux étudiant.e.s qui en font la demande et nous pourrons faire des attestations au cas par cas si celles-ci sont nécessaires dans le cadre de candidatures à des formations ou de démarches administratives.

      Pour terminer, nous serons vigilant.e.s. à ce que les personnels les plus précaires, les personnels vacataires, soient bel et bien rémunéré.e.s pendant cette période de confinement. Nous demandons à ce titre le versement rapide de leurs salaires dus et que la mensualisation soit effective et scrupuleusement respectée en cette période où ielles en ont plus que besoin, ainsi qu’à l’avenir. Nous serons également vigilant.e.s à ce que cette période ne soit pas l’occasion pour certain.e.s de sanctionner et de contrôler d’autant plus nos collègues. Nous appelons par ailleurs à l’annulation des examens et autres modalités d’évaluation au profit d’une validation du semestre avec une note unique (18/20) pour tou.te.s, ceci en considérant l’impossibilité de garantir des conditions d’examen égalitaires. Enfin, nous souhaitons faire part de notre solidarité à celleux qui luttent au quotidien contre cette crise sanitaire, les personnels de santé, mais aussi les personnels d’entretien, de la distribution, et tous.tes celles.eux qui aident, par leur travail trop souvent invisibilisé, à faire face à cette crise dans les meilleures conditions.

      Force à elles et eux au cours des prochaines semaines !

      Le collectif des doctorant.e.s et non-titulaires de Lyon 2

      https://blogs.mediapart.fr/enseignant-vacataire-en-greve-lyon-2/blog/200320/la-continuite-le-cdnt-repond-solidarite

    • « Restez chez vous » mais « continuez l’activité » : trois temps d’une lecture syndicale pour un paradoxe de crises

      Dans le cadre de la pandémie du COVID-19, nous ne pouvons que saluer la décision du gouvernement de protéger les étudiants et les personnels de l’université, en privilégiant le télétravail pour le plus grand nombre et en accordant des autorisations spéciales d’absences aux personnels lorsque le télétravail n’est pas possible. Nous soutenons de tout cœur les personnels amenés à continuer à se rendre au travail, pour assurer les fonctions vitales de notre Université.

      Cependant, les injonctions du gouvernement sont à la fois « restez chez vous » et « continuez l’activité », et ce paradoxe demande réflexion. La vie de notre université doit effectivement continuer, mais la crise et les réponses gouvernementales et locales appellent des actions et des propositions.

      Dans une demande certaine d’unité nationale, les organisations syndicales continuent à avoir des choses à faire et à dire. Le paradoxe des injonctions gouvernementales contradictoires, ancré dans des crises multiples, nous semble appeler trois temps d’une lecture syndicale, pour aujourd’hui, pour hier et pour demain.

      Aujourd’hui, et dans les jours et les semaines à venir, l’heure est à l’action pour organiser la vie de et dans notre université. Nous saluons et appuyons la volonté des équipes de direction de l’Université de fournir une réponse cohérente et précise qui permette à chacun de s’adapter au mieux aux conséquences graves de cette crise. Concrètement, nous sommes engagés dans cette réponse collective, comme tous les membres de notre communauté académique, mais aussi comme élus au CT, au CHSCT, aux conseils centraux, et comme organisation syndicale. Nous avons porté au CT dématérialisé de ce lundi 23 mars à l’UGA et en réunion intersyndicale avec la présidence de Grenoble-INP un certain nombre de questions portant sur les points suivants :

      · Continuité des rémunérations – Nous saluons les engagements pris par l’UGA et de Grenoble-INP pour garantir la continuité des rémunérations, pour les titulaires, les contractuels et les vacataires. Un problème subsiste concernant les gratifications de stages : en effet, les stages en cours peuvent être arrêtés à la demande des structures d’accueil, ce qui suspend de fait le versement des gratifications. Nous demandons que l’établissement mette en place des aides individualisées, comme le prévoit la "FICHE 6 stage" du courrier du ministère du 17 mars 2020 et conformément à l’article L. 821-1, alinéa 2, du Code de l’éducation.

      · Fracture numérique – Des dispositifs sont mis en place à Grenoble pour tenter de venir en aide aux étudiants confinés dans leur famille, en colocation ou dans les résidences universitaires, mais, à notre connaissance, ceux-ci sont disponibles uniquement par internet (pour le moment). Comment aider les étudiants dénués d’accès à l’internet ? (dans leur vie quotidienne et dans le cadre de leurs études). L’enquête de l’UGA a recensé 45 étudiants dénués d’ordinateur pour suivre les cours. L’UGA leur fournira une tablette afin qu’ils puissent travailler. Cependant, ce nombre nous semble sous-estimé, étant donné que le recensement des étudiants n’est pas terminé dans toutes les composantes.
      Cette fracture touche aussi certains personnels qui -même s’ils ont pu bénéficier des mesures facilitant le télétravail mises en place à l’UGA- n’ont pas forcement tous une connexion internet haut débit, une imprimante, etc… Plus globalement, les outils de travail collaboratifs sont saturés (par exemple, ENT, framapad). Comment envisager la « continuité » du travail dans un cadre aussi inégalitaire ? Ne faudrait-il pas nous concentrer sur l’absolu nécessaire, en acceptant pleinement l’idée que nous travaillions en mode « dégradé » ?

      · Conditions de travail des personnels – Les personnels sont invités à continuer leurs activités administratives. Au-delà d’une simple « relocalisation de l’activité » (de l’université vers la maison), il s’agit d’un changement radical de l’environnement de travail, dans lequel les collectifs de travail sont disloqués et les individus se retrouvent bien souvent livrés à eux-mêmes. Comment organiser des réponses collectives, comment bien répartir les situations et la charge de travail ? Et les conditions de sécurité des personnels qui doivent aller travailler à l’UGA, sont-elles suffisantes, adaptées et respectées ?

      · Continuité pédagogique – Les enseignants sont appelés à assurer la « continuité pédagogique ». Mais comment transposer les cours, travaux dirigés et travaux pratiques, initialement élaborés pour du présentiel, en un contenu à distance, avec une situation dégradée sur le plan pédagogique, qui fait fi de la nécessaire interaction collective ? Comment corriger les inégalités d’accès aux enseignements (que crée cette situation de confinement) pour nos étudiants ? Pouvons-nous décemment organiser des examens ou des évaluations dans ces conditions (comme le prévoit le ministère en proposant de recourir à des sociétés privées pour organiser des examens « dématérialisés ») ? Comment empêcher que les étudiants ne se découragent et n’abandonnent leurs études ? Ces questionnements sont tout à fait en phase avec les inquiétudes légitimes de nos étudiants (voir communiqué en pièce jointe) et nous demandons à la présidence d’y répondre.

      En général, nous insistons sur la nécessité d’alléger le programme des UE, sur le besoin de flexibilité des emplois du temps (par exemple, ne pas suivre forcément les calendriers de cours tels que prévus sur ADE avant le confinement), sur l’utilisation de moyens les plus simples et les plus légers possible pour enseigner à distance, et bien sûr nous insistons pour ne pas contrôler l’assiduité des étudiants lorsqu’ils se connectent aux plateformes numériques (et nous nous opposons à tout moyen de pression à destination des étudiants en général). Des dispositions particulières pour les examens devront aussi être trouvées, afin de ne pénaliser aucun·e étudiant·e face à la fracture numérique.

      · Appels à projets – Les chercheurs et enseignants-chercheurs doivent-ils continuer à répondre aux appels à projets (deux appels IDEX pour la mobilité internationale ont été lancés la semaine dernière, ainsi qu’un appel de Grenoble INP sur les dispositifs bourses présidence …) ? Ces appels ne sont-ils pas un peu « décalés » dans le contexte de confinement global de la population ? Plus généralement, faut-il maintenir la compétition entre collègues ou, au contraire, l’université doit-elle assurer la solidarité entre les personnels qui voient leurs recherches arrêtées, avec parfois des répercussions qui s’étaleront sur plusieurs mois, voire quelques années ?

      · Accréditations – Le report d’un mois de la remontée des dossiers HCERES annoncée par le ministère est une bonne nouvelle mais ne suspend pas le travail. Les responsables pédagogiques doivent-ils continuer d’assurer la préparation de la prochaine accréditation (qui plus est anticipée par rapport aux autres établissements de la vague A) ? doivent-ils dès maintenant organiser la rentrée 2020 comme prévu ? Les contenus ne devront-ils pas être adaptés en septembre, pour tenir compte de la période de confinement et de la dégradation des conditions d’études de nos étudiants ? Et vu des nombreux incidents qui émaillent l’usage des environnements numériques de travail dans les établissements du second degré (voir cet article), ne serait-il pas urgent d’obtenir de la ministre la suspension du processus Parcoursup, comme de toutes les procédures d’inscription en ligne (ecandidat, PEF) dont l’accès n’est plus garanti pour tout le monde ?

      Mais la situation d’aujourd’hui ne peut s’analyser sans revenir dès à présent sur ce qu’était celle d’hier. Dans le domaine de la santé, la solidarité et l’immense respect qui accompagne le dévouement sans limites des personnels hospitaliers ne peut se passer du rappel de la déshérence organisationnelle et matérielle dans laquelle l’hôpital public est placé depuis des années. Dans le domaine de l’éducation, dans l’Enseignement Supérieur et la Recherche, le dévouement des enseignants, des enseignants chercheurs, des chercheurs, des personnels techniques et administratifs pour assurer un minimum de continuité de service ne peut masquer l’incompréhension et la colère qui ont monté depuis des mois face à une politique gouvernementale à la fois libérale et autoritaire, sure d’elle-même et systématiquement sourde et méprisante face à toutes les analyses et revendications portées par les personnels. Jour après jour et depuis des mois, jusqu’au 13 mars, date du début des annonces qui ont mené au confinement que nous connaissons, nous avons dénoncé des projets de loi construits sur les inégalités et la mise en concurrence et en opposition des individus à tous les niveaux. Plus que jamais, ce qui était et reste dans les cartons du gouvernement, retraite à points, LPPR, doit être dénoncé et combattu. Plus que jamais, la défense du service public, de l’hôpital, de l’éducation, de la formation, de la recherche, des transports, de l’énergie, de la culture, du sport, est nécessaire, et nos luttes d’hier construisent, à travers les grandes difficultés d’aujourd’hui, les transformations nécessaires de demain.

      Car effectivement, il va bien falloir penser à demain. Même si nos énergies sont tendues aujourd’hui dans l’engagement individuel et collectif, le souci des proches, la solidarité au quotidien, demain est déjà en vue, et peut proposer le meilleur comme le pire.

      Le meilleur, ce serait que cette pandémie dramatique permette enfin d’affronter les autres crises qui nous menacent, au-delà de la crise sanitaire et de la crise économique – crise climatique, crise démocratique qui oppose des gouvernances inflexibles à des populations qui veulent changer de modèles. Le meilleur, ce serait dans l’ESR de prendre enfin la mesure de ce que devrait être une formation universitaire démocratique et ouverte, une recherche collaborative et libre au service de la société. Le meilleur pourrait être, à l’UGA, de redéfinir comment notre « université d’excellence » constamment soumise aux directives de l’IDEX pourrait redevenir une communauté académique sachant réfléchir collectivement à ses fonctionnements, à ses stratégies et à l’utilisation de ses moyens, et comment l’UGA pourrait construire un plan d’urgence à destination des personnels et des étudiants permettant un redéploiement des ressources de l’IDEX et de l’ANR pour mieux assurer les besoins « de base » de l’université.

      Mais demain peut aussi nous apporter le pire. Les crises fournissent des occasions fortes, pour des lobbys bien organisés à proximité des pouvoirs, de rebattre fortement et durablement les cartes dans une « stratégie du choc » bien décrite par ailleurs (voir ici). Demain est déjà en préparation dans la loi d’urgence du gouvernement, avec des évolutions dangereuses et potentiellement durables de nos conditions de travail (voir ici et là).

      Le débat commence, nous proposons à chacun d’y participer et de ne pas abandonner, dans les solidarités conjoncturelles d’aujourd’hui, la construction de solidarités plus profondes qui devraient être celles de demain …

      Nous appelons nos collègues et nos étudiants à rejoindre toutes les formes de solidarité qui sont en train de se construire : les démarches collectives qui retissent un "tou·te·s ensemble" et toutes les formes d’expression pour soutenir les personnes qui assurent la continuité des soins et de la vie quotidienne, ou analyser sans complaisance les risques de décisions d’un gouvernement "guerrier" sont notre meilleure réponse au confinement !

      Reçu par mail du syndicat SNESUP-FSU, le 23.03.2020

    • Communiqué signé par l’Association 11ème Thèse, la section CNT Sup Recherche Bordeaux, le Collectif Marcel Mauss, le collectif des Précaires de l’ESR de Bordeaux, SOlidaires étudiant-e-s Bordeaux ainsi que SUD Recherche Bordeaux :

      Nous ne sommes pas en guerre, restons vénères et solidaires !

      On s’y attendait : Macron a ordonné le confinement généralisé de la population à compter du mardi 17 mars à midi. Cette mesure fait suite à la décision, jeudi dernier, de fermer tous les établissements scolaires et tous les établissements de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche (ESR) à compter du lundi 16 mars, puis à celle du vendredi 13 mars, d’interdire tout rassemblement de plus 100 personnes.

      Ces réponses à la crise sanitaire causée par l’épidémie du Covid-19 cachent mal le fait que cette crise n’est en rien le fruit d’un hasard malheureux. Il s’agit d’une crise sanitaire mais également et surtout d’une crise systémique. Les gouvernements néolibéraux précédents et actuels, ici comme ailleurs, ont participé à en créer les conditions par leur inaction écologique, leurs politiques anti-sociales qui accroissent la vulnérabilité des plus fragiles, et leur démantèlement des services publics de santé. Comme de nombreux chercheurs l’affirment [1], cette crise résulte d’un système d’exploitation de la nature et des humains : la perte de biodiversité liée à la destruction des habitats naturels, l’urbanisation débridée, les élevages industriels intensifs ; autant de facteurs qui concourent aux développements de zoonoses (c’est-à-dire de maladies transmissibles entre animaux humains et non humains) par une promiscuité croissante entre espèces sauvages et domestiques et à la propagation de maladies infectieuses, dont le nombre de crises se multiplient de manière inquiétante à travers le monde ces dernières années (SRAS, grippe aviaire, Ebola, Covid-19, etc.). Par ailleurs, l’amenuisement du soutien à la recherche fondamentale publique, que manifeste la politique de suppression de postes et de réduction des budgets, a conduit à une situation de vulnérabilité face aux risques sanitaires qui aurait pu être évitée [2]. La crise actuelle est le résultat de politiques de démantèlement et de privatisation des services publics de recherche, de santé et d’éducation.

      Les mesures prises dans l’urgence, en décalage avec les
      recommandations de l’OMS et dans la cacophonie d’un gouvernement qui semble ne rien maîtriser de la situation, ne font qu’aggraver la situation des plus précaires et des plus vulnérables. A cela s’ajoute, le tournant autoritaire et répressif que prend l’opération de confinement ordonnée par le gouvernement. Tandis que 100 000 policiers et gendarmes sont déployés dans les rues pour contrôler et mettre des
      amendes à celles et ceux qui ne respecteraient les normes du
      confinement, le mot d’ordre « Restez chez vous » n’empêche pas les employeurs d’imposer aux travailleu.r.se.s des conditions de travail qui mettent en danger leur vie et la santé.

      La mise en place de « plans de continuité d’activités pédagogiques » alors même que les universités sont fermées compte parmi les mesures qui sont en total décalage avec l’urgence de la situation des étudiants et personnels les plus précaires et vulnérables. Cette exigence de continuité pédagogique par voie numérique que cherchent à mettre en place les universités et le ministère de l’éducation nationale relève en effet d’une fausse logique : celle de maintenir « coûte que coûte » un système social et économique qui étale pourtant au grand jour son inadéquation et ses injustices. La précarité n’est pas seulement un concept mais une réalité qui affecte la plupart d’entre nous de façon croissante : c’est l’impossibilité de s’en sortir quand on perd ses maigres sources de revenus en tant qu’étudiant.e salarié.e ; c’est
      l’isolement psychologique et social quand on est étudiant.e étranger.e sans structure de soutien ; c’est l’exposition aux risques sanitaires quand on est personnel BIATSS ; c’est le risque de ne pas être payé quand on est personnel précaire, etc. Ceci expose clairement l’aveuglement du gouvernement actuel qui ne prend aucunement la mesure
      de la nature des problèmes économiques, sociaux et sanitaires que pose l’épidémie du Covid-19.

      L’urgence pour une grande partie des étudiant.e.s aujourd’hui, c’est d’abord le besoin de structures solidaires pour s’alimenter ou se procurer des produits de première nécessité. Il est absolument vital de fournir des autorisations de circuler aux associations et de mobiliser l’entraide. En ces temps de crise, il relève de la responsabilité du
      CROUS de maintenir des distributions de nourriture par solidarité avec les étudiant.e.s en manque de revenus, isolé.e.s psychologiquement, socialement et géographiquement. Rappelons que la moitié des étudiant.e.s doivent travailler pour subvenir à leurs besoins et se retrouvent par conséquent dans une situation critique, en particulier les étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS et les étudiant.e.s étranger.e.s. Sans plus de sources de revenus, sans possibilité d’êtres aidé.e.s par leurs familles, et sans une aide
      sociale d’urgence, les étudiant.e.s vont être les premier.e.s à pâtir d’une longue situation de confinement. Les risques psycho-sociaux pour des étudiant.e.s déjà précarisé.e.s et isolé.e.s sont importants.

      À cet égard la volonté de continuité pédagogique paraît bien loin des réalités du terrain, sans compter qu’elle provoquera une rupture d’égalité, qui accentuera encore la situation de précarité des plus fragiles. Pour rappel en effet, une partie importante des étudiant.e.s salarié.e.s ou des étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS n’ont pas d’accès personnel garanti à internet, ni même d’ordinateur
      portable individuel. Les plus isolé.e.s sont éloigné.e.s de leurs
      familles et n’ont pas d’accès aux ressources culturelles (bibliothèques fermées, peu ou pas de livres sous la main, etc.) pourtant nécessaires
      pour assurer des conditions matérielles et psychologiques propices au suivi de cours numériques et à la préparation des examens. Le simple accès à leur messagerie, essentiel pour être informé.e des directives de la présidence ou de leurs enseignant.e.s, leur est compromis.

      À cet égard, sur le campus bordelais, des personnels et étudiant.e.s mobilisé.e.s ce lundi 16 mars ont pu recueillir des témoignages directs de la détresse des étudiant.e.s qui se sont trouvé.e.s dans l’impossibilité de s’approvisionner (isolement sur le campus, étudiant.e.s étranger.e.s esseulé.e.s, étudiant.e.s se retrouvant sans revenus, structures du CROUS fermées pour l’alimentation, etc.). Plus de 160 étudiant.e.s ont pu être aidé.e.s en urgence pour des besoins de première nécessité, mais c’est une réponse hélas bien dérisoire au regard des dizaines de demandes locales qui ne cessent d’affluer.

      Pour ce qui est des personnels précaires de l’ESR, il est aberrant que la production de cours numériques par télétravail soit exigée de la part des enseignants vacataires. En effet, non seulement, pour le moment, aucune garantie n’a été donnée concernant le paiement de leurs services, mais encore, les moyens techniques fournis par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche ne sont pas adaptés. Qu’en est-il par ailleurs de la prise en charge des coûts matériels et
      économiques liés au télétravail (ordinateur adapté, accès internet, logiciels payants, imprimante et scanner pour la correction d’éventuels travaux, etc.) ? Dans la situation actuelle, des règles strictes encadrent le télétravail (horaires, jours travaillés, matériel, etc.) et les droits des travailleur.ses doivent être respectés [3][4]. Concernant les personnels BIATSS, et notamment les personnels de nettoyage et de maintenance, les risques sanitaires doivent être précisément évalués et des moyens alloués pour assurer leur sécurité,
      puisque l’injonction qui leur est faite de se rendre sur leurs lieux de travail et la nature de leurs tâches les exposent plus que jamais.

      Au vu des manquements, des risques sanitaires et psycho-sociaux, des précipitations et des incohérences dans les mesures prises, souvent dans la poursuite d’intérêts économiques supposés et jamais dans l’intérêt des travailleur.ses, personnels et étudiant.es, nous appelons tous les personnels précaires et titulaires de l’ESR à exercer leur droit de retrait !

      Si elle rendra d’autant plus manifestes et critiques les situations de précarité économique, psychologique et sociale, la crise du Coronavirus ne doit pas nous faire oublier ni arrêter le combat mené contre la réforme des retraites et la réforme de l’ESR.

      Précaires de l’ESR de Bordeaux, nous renouvelons l’appel au droit de retrait de tous les personnels et à la grève de toutes et tous ! Libérons-nous du temps, mobilisons-nous dans l’entraide aux étudiant.e.s les plus démuni.e.s et isolé.e.s et non pour des « cours numériques » ou pour la préparation d’examens dans ces conditions iniques et selon un calendrier hypothétique !

      Face à la crise actuelle maintenons une vigilance à tous égards pour les travailleurs.ses précaires et vulnérables ! Faisons respecter nos droits et intensifions la lutte contre un système qui nous rend vulnérables !
      Seule une stratégie de solidarité pourra nous permettre de faire face à la crise du Covid-19 et de faire plier le gouvernement ! Tou.te.s pour l’abrogation de la LPPR et du projet de réforme des retraites !!! Une fois le confinement levé, ne nous laissons pas endormir et réinvestissons nos lieux de travail et la rue au service de la lutte sociale ! Penser la suite demande de s’engager maintenant !

      Sources :
      [1]
      https://charliehebdo.fr/2020/02/societe/la-crise-de-la-biodiversite-favorise-les-maladies-infectieuses-emergent
      [2]
      https://lejournal.cnrs.fr/articles/la-science-fondamentale-est-notre-meilleure-assurance-contre-les-epid

      [3]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000035994394&categorieLien=id

      [4]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000032036983&categorieLien=id

    • Les étudiants face à la pression scolaire : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement »

      L’Université a affiché cette semaine sa priorité : la « continuité pédagogique », sans considérer les inégalités entre les étudiants, que ce soit au niveau sanitaire, des conditions de confinement ou d’accès aux matériels informatiques : témoignages d’étudiants de l’Université Paris 1 confinés.

      La « continuité pédagogique », c’est tout ou rien : #surcharge_de_travail ou silence Radio du corps enseignants. De la même manière qu’elle avait maintenu des partiels en période de grève, l’université, toujours sous couvert de sa « valeur du diplôme », s’acharne à maintenir une #notation plutôt que de dispenser un enseignement.

      A Paris 1, malgré les directives de la Présidence, les étudiants sont soumis aux exigences inégales de leurs professeurs. La plupart font reposer sur leurs chargés de TD la tâche de rassurer les étudiants, sans leur donner de réelles informations à communiquer. S’il faut reconnaitre que certains ont assoupli le contrôle continu, en évaluant sur la base du volontariat, la majorité laisse les étudiants totalement livrés à eux même.

      Comme le témoigne Maria et Irene* (les prénoms ont été modifiés), étudiantes en Droit, le #stress et la pression sont décuplés : « je suis plus stressée qu’en présentiel. Sous prétexte d’une soi-disant #valeur_du_diplôme, on autorise ce genre de conditions. Il est temps que les étudiants se fassent entendre, on n’est pas des robots ».

      Alors que les étudiants se retrouvent dans des situations très inégalitaires, et que les pressions de la #sélection pèsent sur les élèves, les règles sont pourtant les mêmes pour tout le monde : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement. Entre les préparations de TD notées, à rendre à heures fixes, auxquelles s’ajoutent les devoirs supplémentaires, les évaluations et les examens en ligne, certains professeurs nous laissent carrément élaborer notre cours tout seul. Dans le meilleur des cas on reçoit les plans, avec des références à des manuels. Les manuels en question peuvent couter plus de 50€, on avait l’habitude de les consulter en bibliothèque, surtout qu’ils ne sont pas tous accessible en ligne. En plus, c’est l’année de la sélection. On a l’impression que l’université s’en fou, est dans le #déni total. Moi j’ai pas d’ordinateur, je galère. Je pense même pas à ceux qui n’ont pas internet, ou qui sont confinés dans un 9m carré. Quand tu sais pas comment payer ton loyer, acheter un livre à 50€, c’est la dernière de tes priorités ».

      Plutôt que d’installer un système d’#entraide entre les étudiants, l’université semble accroître sa logique de #pression_scolaire, le tout pour maintenir la sélection en master 1 et master 2, et nourrir l’illusion de la valeur du diplôme. Dans de telles conditions, elle ne sélectionnera pas sur des compétences, mais bien en fonction de critères sociaux.

      Finalement, cette crise met en lumières tous les problèmes liés à la #précarité_étudiante : un étudiant sur trois est bousier, un sur quatre est salarié, ce seront eux les plus touchés.

      Pour Lucien, étudiant en Histoire de l’art et archéologie, « ce virus n’a fait qu’exacerber les contradictions de classes au sein de notre système éducatif […] C’est comme si la fac fermait les yeux sur les #inégalités entre ses étudiants. Certains élèves sont cloitrés chez eux, seuls, avec un minimum de moyen financier. »

      Comme l’explique Nadia*, étudiante en Économie, une nouvelle fois l’université met de côté ceux qui sont dans des situations précaires, et qui ont par exemple été licenciés ces derniers jours : « Avec le confinement, on a perdu notre boulot. Il faut pas oublier que quand t’es étudiant, t’as pas beaucoup de choix pour travailler. On travaille dans la restauration, ou en tant que baby sitter, la plupart du temps non déclaré. Y a pas de chômage technique quand tu travailles au black. »

      Lola, elle, est en régime terminal : un régime spécifique souvent utilisé par les étudiants qui sont obligés de se salarier à côté de leurs études, ou qui ont des problèmes de santé : « Dans tout ça, on oublie les étudiants en #examen_terminal. Pour nous, on ne sait pas, c’est silence radio. L’administration ne donne aucune réponse claire sur la tenue des examens. On est déjà livrés à nous même toute l’année. Il faut pas oublier qu’on a choisi ce régime pour des raisons de santé, ou parce que notre situation financière ne nous permet pas de vivre avec la bourse et les petits boulots. Là on nous laisse sur le carreau, j’ai l’impression qu’on est même pas considéré dans la gestion de la crise ».

      Face à cette crise, l’obstination dont fait preuve l’université à noter ses étudiants et à maintenir une sélection, malgré leur état de stress, les inégalités de confinement et d’accès à l’enseignement qui les divisent, illustre ce qu’elle est devenue depuis plusieurs années et notamment depuis 2018 et la loi ORE : une institution qui se complet dans un système concurrentiel, au mépris de sa vocation première, l’accessibilité, et l’égalité devant l’instruction.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Les-etudiants-face-a-la-pression-scolaire-je-n-ai-jamais-eu-aut

    • « Continuité pédagogique » : Méfiance... - Lettre flash n°10 du 25 mars 2020

      La pandémie provoquée par le Covid-19 a entraîné un certain nombre de mesures sanitaires d’une dimension exceptionnelle. Parmi elles, les mesures de confinement ont un impact très important sur l’ensemble des secteurs de l’Éducation, de l’Enseignement supérieur et de la Recherche. Dans l’état actuel des informations, les établissements devraient continuer à être fermés jusqu’à la fin du mois d’avril. De telles mesures, indispensables, bouleversent les calendriers universitaires du second semestre et posent la question de la continuité du service public de l’ESR, traduite hâtivement et sans précaution en “continuité pédagogique”.

      Les consignes gouvernementales demandent expressément de rester confiné-es et de recourir au télétravail ou au travail à distance. Aucun personnel ne peut être sommé de déroger au confinement, sauf absolue nécessité justifiée par l’organisation concrète de la continuité du service. Les déplacements doivent être réduits à l’essentiel et il convient de ne pas se rendre sur son lieu de travail. Le SNESUP-FSU rappelle que les moyens nécessaires doivent être donnés aux personnels pour qu’ils assurent à distance les missions considérées comme d’absolue nécessité.

      Cela implique par conséquent que des mesures soient prises pour assurer l’égalité dans l’accès aux outils numériques pour l’ensemble des étudiant·es. Et pour les enseignant-es, de mettre en place les moyens de la concertation pour trouver des solutions, dans le respect du confinement, en ce qui concerne les disciplines où le travail à distance est particulièrement difficile voire impossible. Cela implique aussi d’engager la concertation avec les personnels pour étudier les conditions de validation du semestre et de l’année en cours en garantissant l’égalité de traitement pour tou·tes les étudiant-es. L’engagement collectif de toutes et de tous est le meilleur garant de la qualité des formations et des diplômes qui seront délivrés cette année.

      Le SNESUP-FSU rappelle, qu’en tout état de cause, les dispositifs pédagogiques mis en place par les enseignant-es sont transitoires et répondent à une situation tout à fait exceptionnelle. En aucun cas, ils ne peuvent être envisagés de façon pérenne comme des mesures servant à pallier le manque dramatique de postes de titulaires.

      Les personnels de tous les métiers de l’Enseignement Supérieur font preuve de la plus grande responsabilité et de professionnalisme. Les enseignant·es mettent tout en œuvre pour maintenir le lien avec tou·tes leurs étudiant·es. Il faut leur faire confiance. Pour le SNESUP-FSU, l’urgence n’est pas dans le maintien total des contenus des cours mais dans le maintien pour toutes et tous les étudiant·es d’un lien avec les apprentissages et la recherche, dans le respect de la protection due aux agent·es. La situation est suffisamment anxiogène pour rester raisonnable dans les attentes. Elle demande une attention particulière aux difficultés rencontrées par les étudiant·es. L’accompagnement des étudiant·es ne doit pas conduire à la normalisation des pratiques pédagogiques prônée par le ministère et certains établissements. Il est illusoire de chercher à délivrer des notes et des évaluations à un rythme ordinaire et coûte que coûte. Les enseignant·es et les étudiant·es font le maximum en fonction de leurs moyens et de leur vie extra-universitaire. Nous devons accepter de fonctionner dans un mode “dégradé”, respecter les consignes de confinement ainsi que les contraintes et les rythmes nouveaux qu’elles entraînent.

      Dans ce contexte, le SNESUP-FSU réaffirme la nécessité que pour tous les personnels, tous statuts confondus, y compris pour les contractuel·les et les vacataires, l’intégralité du service soit réputé fait et que toutes les heures prévues à l’emploi du temps soient prises en compte pour les rémunérations.

      https://www.snesup.fr/article/continuite-pedagogique-mefiance-lettre-flash-ndeg10-du-25-mars-2020

    • Détenu·es confin·ées : #discontinuité_pédagogique

      Aucun plan de gestion de la crise du COVID-19 en prison n’a vraiment été prévu, à l’instar de l’Italie. On s’achemine donc vers une situation tout aussi explosive : un risque d’épidémie grave ; l’arrêt des contacts avec l’extérieur, des surveillant·es en première ligne d’exposition au virus, des mutineries, des drames.

      Toutes les prisons ne sont pas dans la même situation. Les prisons centrales, pour les longues peines, dont la plupart des personnes incarcérées bénéficient d’une cellule individuelle, sont relativement moins surpeuplées que les maisons d’arrêt. En revanche, les maisons d’arrêts, qui mélangent toutes les peines, sont, quant à elles, vraiment surpeuplées et atteignent aujourd’hui 138%, selon l’Observatoire international des prisons (1e janvier 2020)2.

      On pourrait avoir l’illusion que les détenu∙es étaient déjà confinés. Ce serait ignorer la vie d’une prison : il y a de nouveaux arrivants tout le temps ; des extérieurs qui s’y rendent. Aujourd’hui, familles, avocat∙es, enseignant∙es n’ont plus le droit de s’y rendre. Mais il faut bien administrer la prison : les surveillant·es continuent d’y travailler.

      Des cas de coronavirus ont été déclarés en prison. Vu la surpopulation en détention, le confinement individuel des personnes atteintes est impossible. Le virus risque de se répandre très rapidement, tant chez les personnes détenues que les surveillant∙es. L’épidémie risque d’y être d’autant plus grave que 1° la promiscuité et la surpopulation facilitent les contaminations 2° les bâtiments sont insalubres, l’hygiène insuffisante, les systèmes de santé vétustes. Qui plus est, les populations carcérales s’avèrent particulièrement à risque, en raison de leur mauvais état de santé général.

      Mais ce n’est pas tout : parmi les personnes-cibles de l’épidémie en prison, on risque non seulement les surveillant∙es, donc, mais aussi le personnel de santé. On trouvera bien sûr des personnes condamnées, mais aussi des personnes en incarcération préventive3, soit un quart de la population carcérale (21 000/80 000 personnes détenues)4. Dans la prison surpeuplée de Fresnes, un homme testé positif au coronavirus est mort. Il avait été incarcéré dix jours avant, alors qu’il était très âgé (74 ans) et de santé fragile – indice, s’il en était besoin, des inégalités exacerbées par la situation carcérale, entre un Balkany et un détenu anonyme. Le jour même, deux infirmières y étaient testées positives au coronavirus.

      Quelles sont les mesures qui sont prises ? Pour l’instant, surtout l’arrêt presque total des interventions extérieures, des parloirs, etc. Or beauoup de détenus auront d’immenses difficultés à vivre, physiquement5 et mentalement sans contacts extérieurs. En conséquence, des incidents ont éclaté dans de nombreuses prisons – et même un début de mutinerie à Réau, Perpignan, Angers, Maubeuge, Bois d’Arcy, La Santé6 et des émeutes à Grasse, avec interventions des ERIS et tirs de sommations. Le problème c’est qu’on risque une escalade de la violence : interdiction possible des promenades, par exemple, pour éviter tout regroupement collectif, détenus encore plus à cran, surveillants déjà à cran, sans protection (masques, par ex) encore plus exposés, etc.

      https://twitter.com/AdelineHazan/status/1239986843757826048?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

      Devant cette situation, la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté a demandé la mise en place de visioconférences pour compenser la fin des parloirs ainsi que la gratuité du téléphone.7

      La seule mesure efficace serait le désengorgement des prisons et la fermeture des centres de rétention8. C’est ce à quoi appellent plusieurs associations, syndicats et la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté elle-même. Ce serait un changement majeur.

      D’autres lieux de privation de liberté sont concernés par l’épidémie : les geôles, en cas de gardes à vue prolongées, et de comparution immédiate. Ces pratiques judiciaires se poursuivent en dépit de risques sanitaires graves.

      Le coronavirus expose tous les dysfonctionnements de notre société. Il suffit de peu de choses pour que tout explose. Ça vaut pour nos services publics exsangue, mais aussi pour les prisons. Et devant la maladie, ce sont toujours les plus fragiles et les plus précaires qui sont aussi le plus exposés.


      *

      Ailleurs dans le monde, on retrouve la même situation explosive. Émeutes, grèves de la fin, destructions matérielles, évasions : les prisons italiennes ont déjà connu plusieurs morts, dans un système pénitentiaire surpeuplé à 130%, où la moitié de la population a plus de 50 ans. Avec 2,2 millions de détenus, les États-Unis abritent les prisons les plus peuplées au monde, laissant craindre une flambée de l’épidémie de coronavirus en milieu carcéral. En Iran, l’un des pays les plus touchés du monde par le coronavirus, 85.000 détenus ont été libérés : il s’agit d’hommes et de femmes condamnés à moins de 5 ans, qui devront finir de purger leur peine à une date indéterminée.

      Le manque de communication claire a des conséquences particulièrement graves en prison, où n’importe quel petit rien peut favoriser la psychose et le développement de rumeurs qui enflent en raison de l’enfermement, des addictions, de la santé mentale fragique des populations carcérales, sans même de l’incompréhension de la situation par les personnes non francophones.

      Mais même dans ces situations-là on traite les détenus de sales privilégiés : un article, intitulé « Nous allons distribuer 100 000 masques en prison », annonce Nicole Belloubet, se trouvent rapidement assortis de commentaires de type « eux ont le droit à des masques, pas nous ! », alors que les masques sont destinés aux surveillant∙es…

      Le 19 mars, le Ministère de la Justice annonce quelques mesures : à partir du lundi 23 mars, chaque détenu aura d’un crédit de 40€ par mois pour téléphoner ; la télé sera gratuite ; les détenus indigents recevront une aide majorée de 40€/mois pour cantiner.

      https://twitter.com/OIP_sectionfr/status/1240602063224156161?s=20

      En revanche, il n’y a aucune continuité pédagogique mise en place en détention. Les enseignant∙es ont été prévenu·es au dernier moment, n’ont rien pu préparer. En l’absence d’Internet, les cours sont suspendus. Simplement.

      https://academia.hypotheses.org/21331
      #prisons #prison

    • Des enfants confiés et confinés à domicile

      « Je suis éducateur dans une association de la protection de l’enfance, dans un service qui intervient auprès de famille où l’enfant est confié par le juge des enfants au département, mais reste domicilié chez leurs parents (chez l’un d’entre eux du moins).

      En cette période, ma collègue et moi-même avons pour directive de ne pas nous rendre dans les familles. Nous sommes donc en lien téléphonique avec elles. En cas d’urgences réelles, que nous nous devons d’évaluer nous-même ou si les familles nous sollicitent, nous pouvons être amené à nous y déplacer.

      Il est compliqué à l’heure actuelle de dire que c’est difficile pour les enfants d’être H24 avec leurs parents sans que ces derniers bénéficient d’un soutien éducatif plus soutenu, comme le demandent les mesures de placement.

      Cependant, nous nous devons de faire confiance, faire confiance en ces parents qui, bien qu’ils aient des compétences (sur lesquelles on s’appuie énormément), peuvent être défaillants ou en difficultés. Je leur tire mon chapeau car ils font au moins pire. Malgré cela, sur les 12 enfants accompagnés, la scolarité est grandement impactée pour plus de la moitié d’entre eux.

      Alors que sur les groupes d’internat de l’association qui accueillent des jeunes confiés quotidiennement, des moyens ont été trouvé pour assurer le minimum de continuité scolaire avec la présence d’éducateurs scolaires et d’éducateurs techniques, les parents auprès desquelles j’interviens, sont livrés à eux-mêmes. Rares sont ceux qui bénéficient d’un accès à un PC où PRONOTE, Maxicours ou le CNED permettent (lorsqu’il y a suffisamment de connexion) d’avoir accès à des supports de cours.

      Certains ont pu se mettre en lien avec l’enseignant pour avoir des documents papiers imprimés. D’autres utilisent simplement leur smartphone pour avoir accès aux plateformes….

      Pour certaines familles, nous avons pu imprimer énormément de documents, et nous leur avons fait parvenir…

      Quelle utopie maintenant ? Celle d’avoir des enfants qui se mettent à travailler d’eux-mêmes, aidés si besoin par leurs parents qui peuvent leur expliquer les cours de physique, chimie, SVT, Français, Histoire-Géographie, Anglais, Espagnol…. Je ne cible pas leurs incompétences, car ils s’essaient tous tant bien que mal. Mais nous même, nous ne sommes pas capables de fournir un tel accompagnement, alors comment demander, à des familles où la problématique est souvent ailleurs, d’assurer cette scolarité ? A cela, s’ajoute les pathologies psychologiques (TDAH, trouble déficit de l’attention avec ou sans hyperactivité, par exemple) et difficultés scolaires de ces enfants qui en temps normal bénéficient d’une scolarité spécifique et/ ou de soins. Cette charge est donc laissée quotidiennement aux parents qui ont probablement d’autres choses à gérer (comme un budget repas par exemple, où l’aide à la cantine scolaire ne fonctionne pas à la maison….).

      Alors, oui, en ces temps de confinement, nous veillons à ce que le domicile reste un environnement sain, moins pire qu’ailleurs. Quitte à passer la scolarité au troisième plans. Tant pis si lorsque le confinement sera terminé, nous auront creusé de nouvelles inégalités… »

      https://www.modop.org/se-relier/#26mars

    • La continuité pédagogique, vraiment ?

      Dès avant la fermeture des établissements le 16 mars dernier, les enseignant.es ont reçu des consignes pour leur demander d’assurer ce qu’on a appelé la “continuité pédagogique” : il fallait aussi rapidement que possible imaginer et mettre en oeuvre des solutions pour continuer d’assurer les cours magistraux et les travaux dirigés, les séminaires et les stages. Face à cette injonction pressante, des solutions ont été très vite expérimentées, dès le début de la semaine dernière. Des solutions très variables, pour ce que j’ai pu en observer dans mon université grenobloise, et dans quelques autres à travers les récits de collègues : certain.es enseignant.es ont pu très rapidement trouver des formes alternatives d’enseignement en utilisant des plateformes collaboratives permettant d’utiliser la vidéo ou l’audio, comme Discord ou Zoom ; d’autres enseignant.es ont enregistré leurs cours dans des fichiers audio ; d’autres enfin, moins habitué.es à utiliser les outils numériques, ont déposé des versions écrites de leurs cours dans les ENT (environnements numériques de travail) de leur établissement. Tout y poussait : la conscience professionnelle, le souhait de maintenir le contact avec les étudiant.es pour éviter les abandons, la crainte de leur faire “manquer” un semestre.

      Il m’a pourtant très vite semblé qu’on mettait en quelque sorte la charrue avant les boeufs et qu’on essayait de mettre ainsi en oeuvre cette “continuité pédagogique”, de façon un peu désordonnée, sans se demander ni si c’était souhaitables, ni si c’était possible et à quelles conditions. Mes interrogations me venaient de mes propres difficultés : comme les autres, je cherchais des solutions, et dans mon cas particulier, j’avais beaucoup de mal à les trouver : comment faire, en effet, pour enseigner les méthodes quantitatives avec R à distance, dans des groupes de TD de plusieurs dizaines d’étudiant.es de deuxième année de licence ou de première année de master de sociologie ? Tout ce que nous avions “en présentiel”, était-il possible de le reconstituer à distance : des ordinateurs suffisamment puissants, des logiciels correctement installés, le travail en groupes, l’accompagnement individuel, face aux écrans ?

      Plutôt que supposer que tout cela était possible, nous avons alors choisi, avec mon collègue Olivier Zerbib qui co-anime avec moi ces travaux dirigés, de réaliser un sondage auprès de nos étudiant.es pour essayer d’évaluer leur capacité à suivre des cours à distance. Ce sont les résultats de ce sondage, que nous avons finalement étendu à la totalité des étudiant.es de licence de sociologie de l’Université Grenoble Alpes ainsi qu’aux quelques étudiants du master (SIRS) “Sociologie de l’innovation et recompositions sociales”, que je voudrais vous présenter rapidement dans ce billet.
      Un sondage sur les capacités à suivre des cours à distance ? Encore faut-il pouvoir même y répondre…

      Le questionnaire de cette mini-enquête a été mis en ligne sur Moodle (la plateforme ENT de l’UGA) le jeudi 19 mars, et il est resté ouvert jusqu’au samedi 21 mars à midi. Les étudiant.es ont été invité.es à y répondre par plusieurs messages envoyés là encore par Moodle, et relayés de différentes façons (pages Facebook, forums Discord, emails personnels…) par les enseignant.es et les étudiant.es de sociologie. Le choix de mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance à partir d’un sondage sur Moodle était délibéré : cela devait permettre déjà tout simplement de déterminer la proportion des étudiant.es qui recevraient le message les invitant à répondre à ce sondage, par un canal ou un autre, et qui arriveraient à y répondre dans Moodle. La non-participation au sondage pourrait de ce fait être tenue comme un indice d’une très grande difficulté à utiliser même les outils les plus simples à notre disposition pour faire cours à distance, et qui sont aussi ceux que notre établissement nous recommande très fortement d’utiliser.

      De ce point de vue, la conclusion est malheureusement sans ambiguïté. Même après avoir restreint la population étudiée à la liste des étudiant.es qui se sont connecté.es à Moodle au moins une fois depuis le début de l’année universitaire, le taux de réponse général au sondage est très faible (voir tableau ci-dessous).

      Seulement 92 des 334 étudiant.es de sociologie ont pu répondre à l’enquête, soit 28% d’entre eux. Et on constate de fortes disparités : les meilleurs taux de réponse sont observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3. Ce faible taux de réponse ne s’explique probablement pas fondamentalement par des difficultés “techniques” de connexion : ces étudiant.es ont pratiquement tou.tes des smartphones avec des abonnements internet mobiles, et comme on sait qu’ils.elles sont déjà allé.es au moins une fois sur Moodle depuis le début de l’année universitaire, on peut faire l’hypothèse qu’ils connaissent leur identifiant et leur mot de passe.

      La première explication est liée aux variations de leur “implication”, autrement dit du lien qu’ils.elles ont pu maintenir avec les préoccupations universitaires, ou que nous, enseignant.es, avons pu maintenir. Ce sont les fortes variations du taux de réponse en fonction du niveau qui permettent de le penser. Les meilleurs taux de réponse sont en effet observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3, et cela peut s’expliquer en partie par le fait que le sondage a été transmis aux étudiant.es de L2 et M1 dans le Moodle de cours où ils m’ont comme enseignant ce semestre : cela a pu favoriser leur implication. On note du reste qu’un sondage similaire réalisé par Olivier Zerbib directement dans son cours de “Sociologie de l’innovation” en L3 a reçu 19 réponses sur 24 inscrit.es au cours, alors que le sondage mis dans le Moodle dans le cours de “sociologie des réseaux” du premier semestre n’a reçu que 4 réponses sur 47. Mais il n’en reste pas moins qu’en L1 le taux de réponse est très faible, et qu’en L2, où les étudiant.es ont reçu plusieurs relances par plusieurs canaux pour répondre au sondage, cette capacité à répondre à une demande très simple dans Moodle en moins de trois jours n’est observable que dans à peine la moitié de la promotion. Et en L2, les ayant vu vendredi juste avant la fermeture, Olivier a pu leur recommander très fortement de rester connectés.

      La seconde explication n’est pas liée aux événements. Avant même d’invoquer des difficultés de connexion liées à la crise sanitaire et au confinement, ou la démobilisation, il faut d’abord tout simplement se demander si même avant le début de cette crise, les étudiant.es de sociologie utilisaient Moodle. Or, la date de la dernière connexion permet de voir que c’est loin d’être le cas de tout.es : en réalité, déjà un quart d’entre eux ne s’étaient pas connectés à Moodle depuis le début du semestre.

      Le résultat : une très faible capacité générale à suivre des cours à distance

      De ce qui précède, il ressort que déjà, même en L2 où le taux de réponse a été “élevé”, c’est en réalité à peine la moitié des étudiant.es qui a pu répondre à un questionnaire de 3 questions dans Moodle. Dans les autres niveaux, que ce soit en licence ou en master, ces taux sont bien moindres. Qu’ont-ils.elles répondu, celles et ceux qui sont parvenu.es à le faire ? Pour évaluer la capacité des étudiant.es de sociologie à suivre des cours à distance, trois questions leur avaient été posées, dont vous trouverez les réponses dans les tableaux ci-dessous, calculées en fonction du niveau de licence et de master.
      Une accès basique à internet apparemment correct, mais un accès compliqué aux plateformes nécessitant un débit élevé et un ordinateur fixe.

      Les réponses à la première question sont pratiquement unanimes : en tout cas parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, il n’y a en tout et pour tout que 2 étudiant.es qui n’ont pas les moyens d’accéder aux outils les plus basiques, soit la messagerie électronique et Moodle. Par construction, cela dit, on peut estimer que les étudiant.es qui ont pu répondre à ce sondage sur Moodle après avoir reçu un message sur leur messagerie universitaire disposaient par définition de ces moyens élémentaires de travail à distance. Les réponses à cette question démontrent toutefois qu’il reste possible de communiquer avec cette moitié-là de nos étudiant.es via Moodle et la messagerie universitaire, qu’ils.elles peuvent consulter au moins sur leur smartphone.

      Ils.elles sont déjà un peu plus nombreux.ses, une quinzaine sur la centaine de répondant.es, à ne pas avoir les moyens de suivre des cours à distance qui mobiliseraient des outils plus complexes ou plus gourmands en bande passante, comme les outils et plateformes de visio- ou d’audio-conférence. Les très nombreux commentaires libres donnés en réponse à la dernière question du sondage sont particulièrement éclairants de ce point de vue. Ils permettent en effet de prendre la dimension des très nombreuses difficultés qui vont faire obstacle à la possibilité de suivre des cours et de produire des travaux universitaires en utilisant les outils bureautiques habituels : accès à internet seulement avec des abonnements mobiles dont les plafonds sont très rapidement atteints, difficultés à s’approprier des outils instables, pas d’ordinateur, ordinateurs trop anciens ou pas suffisamment puissants…

      Cela dit, il faut en partie relativiser ces difficultés : sur la quinzaine d’étudiant.es indiquant de telles difficultés, il y en a 9 qui sont en L2. Or, cela tient certainement en partie au fait que le sondage leur ait été diffusé dans le Moodle du TD de méthodes quantitatives, et qu’ils.elles s’inquiètent pour l’utilisation de R à distance et le travail de groupe avec ce logiciel, comme en témoignent les commentaires libres.
      Des conditions de travail dégradées pour un nombre significatif d’étudiant.es

      Enfin, et surtout, la dernière question montre qu’on aurait tort de penser que les obstacles sont seulement techniques. En effet, presque la moitié des étudiant.es de sociologie qui ont pu répondre au sondage ne s’estiment pas dans des “conditions matérielles, intellectuelles, économiques et sociales” (on aurait dû ajouter également “psychologiques” dans la formulation de la question) qui leur permettraient de suivre correctement des cours et d’effectuer leur travail universitaire à distance. Là encore, les commentaires libres sont instructifs : pertes des emplois qui leur permettaient de financer les études, horaires des cours incompatibles avec des obligations professionnelles ou familiales, conditions de logement ne permettant pas de s’isoler pour travailler, anxiété, inquiétudes face au caractère inégalitaire de l’enseignement à distance…


      Le tableau ci-dessus indique aussi qu’il faudrait dissocier les réponses pédagogiques à apporter en L1 de celles pour les autres niveaux de formations. Parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, ce sont les étudiant.es de première année qui indiquent le plus nettement qu’ils.elles ne sont pas dans des conditions générales qui leur permettent d’étudier à distance. La question reste de savoir s’il faut en conclure qu’il faut renoncer à le faire, ou au contraire qu’il faut prendre le problème à bras le corps pour leur proposer des solutions pédagogiques spécifiques, parce que l’enjeu est crucial et les conséquences sur le taux d’abandon potentiellement dramatiques.
      La continuité pédagogique, à toutes forces ?

      On peut résumer les résultats qui précèdent en un seul tableau très simple, synthétisant les différents critères utilisés pour mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance. On utiliser pour cela une échelle unique, allant du simple fait de n’avoir même pas pu répondre au sondage sur Moodle (qu’on appellera le niveau 0 de la capacité à suivre des cours à distance), jusqu’à un niveau 3 correspondant à l’absence totale de difficultés à suivre de tels cours.

      La conclusion reste quantitativement sans ambiguïté : seule une très faible minorité d’étudiant.es est parvenue à nous indiquer qu’elle se trouve dans des conditions générales permettant d’étudier correctement à distance. Cette conclusion peut néanmoins être légèrement nuancée selon les niveaux : en L2, un tiers tout de même des étudiant.es ont pu indiquer qu’ils étaient dans des conditions correctes pour étudier à distance, et c’est le cas également de plus de la moitié des étudiant.es de M1 SIRS (voir tableau ci-dessous). On peut aussi redire que dans le cours de L3 de sociologie de l’innovation animé par Olivier, 18 des 19 étudiant.es qui ont répondu au sondage d’Olivier ont indiqué être en capacité de suivre ce cours à distance. Il en reste tout de même 6 (soit un peu plus de 20%) qui ne le peuvent pas, soit parce qu’ils.elles ne sont pas dans la capacité de le faire, soit parce qu’ils.elles y ont renoncé.

      Dans tous les cas, et probablement même dans le cas des L3, ces proportions ne semblent pas suffisantes pour garantir que la mise en place d’enseignements à distance, et a fortiori d’évaluations de ces enseignements à distance, ne produira pas d’importantes inégalités entre des étudiant.es de sociologie dont les commentaires libres témoignent qu’ils.elles y sont particulièrement sensibles. Comment s’en étonner ? D’une part nos étudiant.es n’appartiennent pas forcément aux mêmes milieux sociaux que d’autres composantes de l’université qui ont mis en place des enseignements à distance sans se préoccuper de la rupture d’équité que cela pouvait occasionner. Et d’autre part, cette attention de nos étudiant.es aux inégalités, nous devrions au contraire en être fier.es, puisque c’est aussi notre métier que de leur en montrer et en démonter les mécanismes.

      En tout état de cause, les résultats de ce sondage plaideraient plutôt en faveur des conclusions suivantes :

      Seulement une très faible minorité des étudiant.es de sociologie de l’UGA se déclare pour l’instant en situation de suivre correctement des cours à distance.
      Dans ces conditions, instaurer des cours à distance dont les évaluations participeraient à la validation du second semestre provoquerait une profonde rupture de l’équité entre les étudiant.es.
      La seule mesure générale qu’il est possible de préconiser au vu de ces résultats est la validation de l’ensemble des enseignements dont les modalités de contrôle n’avaient pas été satisfaites à la date de la fermeture de l’université, ou reposeraient sur des connaissances qui devraient être acquises après cette date.
      La traduction la plus simple possible de cette mesure générale consisterait à valider le second semestre pour l’ensemble des étudiant.es ayant validé des UE de premier semestre, de façon à permettre à ces étudiant.es de poursuivre normalement leurs études sans “perdre” un semestre ou un an.

      Ces conclusions n’interdisent bien entendu pas, dans certains cas particuliers et clairement identifiés, de mettre en place des formes d’activités pédagogiques à distance. Il faut peut-être par exemple appliquer des règles différentes en L1 et dans les niveaux suivants de licence, où les effectifs plus réduits et la socialisation plus ancienne aux études universitaires permettent d’expérimenter des formes pédagogiques alternatives.

      En TD de méthodes quantitatives de L2, avec Olivier, nous allons essayer de continuer à accompagner le travail de nos étudiants sur les données de leur belle enquête sur les couples et le numérique (ils.elles venaient de finir d’en saisir les 1759 questionnaires quand nous avons fermé), en nous appuyant sur Moodle et sur Discord. Plusieurs commentaires libres, et nos échanges de la semaine écoulée avec nos étudiant.es, pointent l’importance du rôle socialisateur de ces initiatives développées par certain.es d’entre nous.

      En master au contraire, il peut être tout-à-fait bénéfique de renoncer aux cours magistraux pour permettre aux étudiant.es de se concentrer sur la rédaction de leurs mémoires de recherche (ils étaient en train de terminer leurs terrains) et de stage (si celui-ci a pu être réalisé, ou peut être réalisé en télétravail), en leur proposant des formes d’accompagnement à distance adaptées (forums, rendez-vous par Skype, séminaires d’accompagnement et de méthodologie de la recherche en ligne…).

      On peut néanmoins redire que toutes ces activités pédagogiques à distance devraient au minimum respecter un certain nombre de règles importantes, pour atténuer la rupture d’équité qu’entraîne leur maintien :

      Ces activités devraient avoir principalement pour fonction de maintenir des formes de communication et de socialisation avec celles et ceux des étudiant.es pour qui elles exercent un effet socialement structurant, qui peut être précieux dans ce contexte de crise.
      Ces activités ne devraient pas être évaluées, ou en tout cas ces évaluations doivent avoir une visée purement pédagogique et ne pas conditionner la validation des enseignements.
      En licence au moins, ces activités ne devraient pas se dérouler seulement en direct sur des plateformes de diffusion vidéo ou audio, dans la mesure où de nombeux.ses étudiant.es n’ont pas la possibilité d’être disponibles aux horaires des cours, ou ne bénéficient pas de conditions permettant de les suivre correctement (pas de wifi, pas d’ordinateur, impossibilité de s’isoler…). Il faudrait que les cours puissent être suivis en différé, et donc que les documents à lire et les enregistrements vidéo et audio restent facilement accessibles même après la fin de la séance.
      Ces activités ne devraient pas obliger les étudiant.es à utiliser un nombre trop élevé de plateformes et d’outils différents. Elles devraient centralement utiliser les possibilités offertes par Moodle et à l’intérieur de Moodle. L’expérience de la semaine écoulée a montré que des étudiant.es avaient apprécié l’utilisation de Discord par certains enseignants, même si là encore nous n’avons aucune garantie du caractère égalitaire du recours à cet outil. Dans tous les cas, on devrait éviter de multiplier les outils utilisés, au gré des initiatives individuelles, et on devrait éviter en particulier les outils nécessitant des ressources techniques trop importantes, et a fortiori les outils payants.

      Et pour clore provisoirement cette présentation des résultats de notre petite enquête, on peut également dire qu’en fonction des solutions adoptées, il faudra certainement en observer avec la plus grande attention les effets, aussi bien sur les étudiant.es et leurs cursus, que sur l’enseignement supérieur même et les évolutions des études universitaires dans les mois et les années à venir. Force est de constater que la crise sanitaire en cours, et en particulier le confinement, fabriquent de fait le consommateur et la consommatrice dont rêvaient les plateformes numériques. Et donc peut-être aussi l’étudiant.e dont rêvaient les établissements d’enseignement supérieur : assigné.e à résidence, moins coûteux.se en locaux et en personnels, privé.e de sa capacité à se mobiliser… En nous précipitant sur les outils numériques permettant de faire cours à distance à un nombre très restreint d’étudiant.es bénéficiant de conditions matérielles, économiques et sociales privilégiées, et disposant aussi des capacités socialement construites à l’auto-discipline que nécessitent les auto-apprentissages, on prend le risque de faire croire que c’est possible, sans se demander ni se soucier ce qui est réellement transmis de cette façon, ni à qui. Quand on a ouvert la boîte de Pandore, il est très difficile de la refermer…

      http://pierremerckle.fr/2020/03/la-continuite-pedagogique-vraiment

    • … et il n’y a toujours pas de masques

      Il y a elle ; elle est chez ses parents au fin fond de quelque part, et ne capte pas grand chose, d’un point de vue informatique je veux dire, elle a bien la 3G mais c’est littéralement au fond du jardin.

      Il y a ma compagne ; elle est professeure de français histoire géographie dans un lycée professionnel. Elle a des classes et des élèves. Elle a des « elle » et des « il » aussi. Il faut qu’elle s’en occupe.

      Il y a mon groupe 2 en DIG2 ; il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui ; il est réquisitionné et travaille dans l’alimentaire à 125% depuis le début du confinement, il est inquiet pour la suite de ses études.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste.

      Il y a elle ; elle dit que “Nous n’entendons pas demander à un enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas, compte tenu de la fermeture des écoles, de traverser la France entière pour aller récolter des fraises gariguette”…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a iel ; son père/ sa mère est docteur.e/infirmier.ère, iel est inquiète et a du mal à travailler.

      Il y a ma fille ; elle a 7 ans, cette semaine elle a appris deux nouveaux sons sans sa maîtresse. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a lui ; il est juste inquiet, juste angoissé, il n’a jamais vu ça. Il ne sait pas s’il arrivera à finir son semestre.

      Il y a elles et ils ; iels font la queue devant le magasin de fruits et de légumes, une file étrange au milieu d’une route sans voiture. Eloigné.es les un.es des autres d’un mètre au moins ; iels attendent, iels ne parlent pas.

      Il y a le service public télé et radio qui organise une soirée de soutien pour trouver des sous pour le service public hospitalier… et tout le monde a l’air de trouver ça normal de faire nos fonds de poches pour les services publics que nos gouvernements managérisent, déstructurent, détruisent depuis des années.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle, elle a besoin d’une lettre de recommandation. C’est pour partir à l’étranger l’année prochaine. Ah. C’est bien, il y aura une année prochaine…

      Il y a ma fille de 11 ans ; elle a des devoirs tous les jours. On n’a pas d’imprimante alors elle recopie ses leçons à la main. Elle râle un peu mais ça va. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon amphi de L1 ; il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, …

      Il y a ce mail là, un peu bizarre pour une réunion le 3 juillet…

      Il y a iel ; iel ne comprend pas comment compléter des diaporamas sans support de cours et juste avec des liens internet… moi non plus. Je ne sais pas trop quoi lui dire, ce n’est pas mon cours.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique.

      Il y a les cloches qui sonnent huit heures, on va applaudir sur le balcon toustes celles et ceux qui luttent pour sauver des vies.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; par chance elle a pris une UE de sport ce semestre. Cette UE est considérée comme acquise.

      Il y a mes parents ; iels sont âgé.es. Je suis inquiet et j’ai besoin de mes parents. Il y a mon groupe 6 en DIG2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui, par malchance il y pris une ETC disciplinaire comme « égalité femmes hommes » par exemple et doit quand même rendre quelque chose.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique. Il y a les informations qui hantent nos journées.

      Il y a le président ; il a l’air de trouver que finalement l’hôpital c’est pas mal et que ça vaut le coup d’investir dedans.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; elle est dans la réserve sanitaire, mobilisable à tout moment. Il y a lui ; il est dans la réserve militaire ; il est mobilisable à tout moment.

      Il y a ma fille ; elle a 13 ans, ses enseignant.es du collège ont pris leur rythme de croisière, elle travaille au moins 5 heures par jour. Elle a besoin de ses parents. Il y a lui ; ils sont à cinq dans un petit appartement, il y a un PC, le papa travaille en télétravail, la maman travaille en télétravail, son frère fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet et sa sœur fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet. Et puis il y a celui qui n’a qu’un téléphone dans sa chambre de 11m² du CROUS.

      Il y a mon groupe de Géo & média, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a elle ; elle m’envoie un courriel pour me dire qu’elle est en quatorzaine dans sa chambre ;

      Il y a chamilo, un jour je le ferai griller au-dessus d’un feu de bois ou dans une cheminée,

      Il y a les questions nombreuses qui affluent par courriel : et le confinement ? monsieur, s’il se prolonge ? et les notes monsieur ? comment on fait ? monsieur on n’a pas de nouvelle d’untel ? monsieur, monsieur ?

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe…

      Et il y a les miennes de questions. Pourquoi on continue de faire comme si c’était normal ? Comment on va gérer tous les « il » et toutes les « elle » qui se multiplient ces derniers jours et qui ne pourront pas être traité.es comme toustes les autres ?

      Et pour les stages ? il y a elle ou lui qui l’ont déjà et il y a elle ou lui qui ne l’ont pas fait ; comment les noter équitablement ? et quand est-ce qu’on décide d’arrêter la mascarade et d’annoncer que l’année est terminée ? et quand est-ce qu’on admet qu’on n’était pas prêt ? et que ce n’est pas grave ? et qu’en est-ce qu’on arrête le délire sur les maquettes et que l’université nous dit que « c’es bon » on décale tout de trois mois…

      Et quand est-ce qu’on arrête de faire semblant, de faire comme si tout était normal alors que pas grand choses ne l’est en ce moment…

      Et puis, il y a Jérôme Salomon qui prend la parole et qui compte les morts…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      https://academia.hypotheses.org/21695

    • Message d’une promo de l’IUGA à Grenoble :

      Suite à de nombreux échanges entre nous, vous voulons vous faire part de notre avis sur la situation actuelle et les différents travaux demandés.
      Tout d’abord, nous sommes conscients que la période que nous traversons est autant difficile pour nous que pour vous. Cependant, les projets notés que nous devons vous rendre ne semblent pas en adéquation avec ce que nous vivons, et nous voulons vous faire part de notre inquiétude. En effet, nos conditions de travail en cette période de confinement sont toutes très différentes, certains n’ayant plus d’espace de travail approprié, un accès à un internet limité et les différentes ressources auxquelles on peut accéder (bibliothèques, espaces de travail...) étant fermées.
      A des fins égalitaires, il nous paraît injuste de nous noter sur un même piédestal. De plus nous ne reconnaissons pas l’aspect pédagogique de certains travaux, nous avons l’impression de travailler sans rien apprendre, bien loin de la fonction principale d’une université. Nous avons peur que ces notes soient préjudiciables pour la suite de nos études.
      Nous savons que la situation est loin d’être évidente pour vous également mais il nous paraissait important de vous faire part de la situation qui préoccupe l’ensemble de la promo, mais également le corps enseignant de part l’appel a la grève promulguée par certains de vos collègues que nous rejoignons (notamment par la lettre de Sébastien Leroux « Il y a iel » : https://academia.hypotheses.org/21695).
      Par conséquent, et compte tenu de cette situation inédite ne permettant pas une évaluation équitable entre les étudiants, nous souhaiterions une organisation différente nous permettant d’être évalué sur nos réelles capacités (comme ce fut le cas lors du premier semestre) et non sur des travaux n’ayant pour seul but le remplissage d’un bulletin qui n’aura aucune réelle valeur pédagogique.

    • Ma réponse à mon collègue Sébastien Leroux (https://academia.hypotheses.org/21695) :

      Et puis… la colère, et puis …la peur

      « En lisant le texte de mon collègue Sébastien, je me demande comment il fait et comment font mes collègues enseignant·es à la fac qui ont beaucoup de cours à donner ce semestre. Par chance, mon semestre est chargé en automne, mais beaucoup moins au printemps.

      Et je n’ai pas d’enfants. Nous accueillons chez nous à la maison un demandeur d’asile, mais il est majeur, autonome et est surtout une aide… Il nous fait souvent à manger, il nous aide dans les tâches ménagères et aide mon compagnon à terminer les petits travaux qui restent à faire dans notre nouvel appartement.

      Malgré ma situation décidément privilégiée, je n’arrête pas. Il y a des étudiant·es étrangères dont je m’occupe en tant que responsable du master international que je dirige et qui sont en difficulté. Cela m’a pris beaucoup de temps. Mais en réalité, ce n’est pas vraiment cela qui me prend plus de temps. Et ce n’est pas cela qui m’empêche d’avoir du temps et de l’énergie. C’est la multiplication des mails de gestion administrative de la crise. Et ce sont des pensées qui trottent dans la tête, en ces temps bien étranges. Car, comme me l’a dit hier une collègue, on voit tellement clairement avec cette crise qu’on a tout un arsenal prêt pour une guerre, la « vraie guerre », pas celle contre l’ « ennemi invisible » de Macron… On a une armée et des soldats, des bombes, on a mis en place des tactiques et des stratégies… Mais rien pour contrer ce virus, dont son émergence était tout de même « annoncée », comme le dit si bien le microbiologiste Sansonetti ; on est complètement démuni·es. Seule solution : le confinement. Seule solution car il n’y a pas de tests de dépistages, il n’y a pas de masques et il n’y a pas assez de lits dans nos hôpitaux, que les gouvernements successifs ont démantelé, brique par brique.

      Et la colère monte, en pensant à cela. C’est cette colère qui m’empêche de me concentrer. Et qui me pousse à faire ce que fais en temps « normaux », mais ce travail prend désormais plus de temps car aux thèmes habituels s’ajoutent ceux liées à la crise sanitaire : prendre et archiver des infos, les partager. En « temps normaux », je fais ce travail sur mes thèmes de recherche : migrations, réfugiés et frontières. Mais désormais s’ajoutent à cela des infos sur ce virus et cette crise sanitaire, pour que l’info critique puisse circuler. Alors je trie l’info, je la mets sur mon réseau social préféré et sur lequel j’archive des infos depuis des années : seenthis.net. Et en plus, je partage l’info avec celleux qui m’ont dit vouloir se tenir informé·es par des canaux autres que ceux gouvernementaux ou des médias mainstream.

      Du coup, j’ai créé un fil sur seenthis sur la maudite continuité pédagogique, car en tant qu’enseignante, c’est parmi les thèmes qui m’agacent le plus.

      Mais il y a aussi cette autre question, très peu traitée par les médias, celle du lien entre confinement et violences domestiques, dont se préoccupent pas mal de personnes autour de moi, mais dont on parle très peu, en réalité. Car le mot d’ordre est « restez chez vous ». Mais quand le « chez soi » n’est pas un refuge mais un condensé de violence, quoi faire ? Et quand, à vrai dire, on n’a pas du tout de chez soi ?

      (…)

      Et puis, dans notre amap, c’est la trêve hivernale pour notre maraîcher. Pas de légumes, jusqu’au mois de mai. Trop difficile, une vie sans les légumes d’Yvan. Et alors, j’essaie d’organiser un moyen pour ne pas devoir me rendre dans les supermarchés où je ne vais plus depuis que je suis arrivée en France… Il y a un « plan légumes via notre amap ». J’y adhère, je partage avec des ami·es qui, elleux aussi, sont à la recherche de légumes. C’est parti, petit tableau pour regrouper les commandes, organisation de la distribution…

      Tout cela, ça prend du temps. Mais c’est ce qui me donne de la vie et de l’énergie en ces temps de confinement. Confiné·es, mais pas isolé·es. Et alors j’essaie de me dire que c’est une chance peut-être de pouvoir s’organiser autrement, de pouvoir trouver d’autres liens. On peut enfin apprécier une ville sans trafic motorisé. Et ça fait du bien, oh que ça fait du bien ! Je me dis, parfois, qu’il y a de l’espoir… c’est peut-être une chance. Pour repenser notre monde. Un jour, peut-être, on dira « merci coronavirus ». Les gens ont enfin compris que l’hôpital public, c’est essentiel. Que nos maraîchers et maraîchères, sont essentiels. A la survie. A la vie.

      Mais souvent, c’est la peur qui me prend à la gorge. Non pas la peur de ce virus, malgré les nouvelles inquiétantes qui nous arrivent d’Italie, que j’ai commencé à suivre bien avant mes ami·es et collègues ici en France. Je savais que ça allait arriver ici aussi. Cela semble se confirmer : 11 jours de retard sur l’Italie. 11 jours. Et tout sera comme en Italie. Et les nouvelles de Bergame, ça fait peur. Je ne sais pas si le fait d’être de langue maternelle italienne est une chance ou pas, dans ces conditions. Je ne l’ai pas encore compris.

      La peur, je disais… La peur qu’en réalité, dans l’après covid-19, on se réveillera et ça fera mal. La peur que ce que Naomi Klein décrivait pour l’Irak, est en train de se passer ici et maintenant. En Europe, en 2020. La stratégie du choc. C’est cela, la peur qui me prend à la gorge. C’est cela qui m’empêche de penser à ce que je dois faire comme si « tout était normal ». C’est cette peur qui ne me fait pas croire à la « continuité pédagogique ». Pour moi, un seul cours à assurer (et l’appui à un autre), mais je n’arrive pas à m’y mettre vraiment. Pourtant, pour ce cours, les étudiant·es sont là, présent·es. Ielles travaillent et s’y mettent. Avec ma collègue nous avons adapté le cours, et ça a l’air de marcher. Je n’avais pas de nouvelles d’un sous-groupe, j’étais inquiète. Après quelques jours, j’arrive à atteindre les étudiants du groupe, une personne sans internet dans le groupe. Et tout s’écroule. Mais il va bien. C’est ce qui compte. On adaptera. On ne pénalisera pas. Mais j’ai cette étrange impression que ces étudiant·es de L3 GES sont bien plus présent·es que moi. Ou alors ielles jouent. The show must go on. Continuité pédagogique oblige. Je ne sais pas si ielles font semblant ou si ielles y croient vraiment à ce beau projet qu’on était en train de construire ensemble : améliorer l’offre alimentaire des étudiant·es de l’IUGA. Je pense qu’ielles y croient et c’est pour cela qu’ielles sont là, présent·es. Ou peut-être ielles ont juste peur de ne pas avoir les crédits à la fin de l’année. Je pense qu’on ne le saura jamais. Mais je leur suis vraiment très reconnaissante, car ielles me motivent à ne pas lâcher. A les accompagner. On se donne tous les vendredis RV sur Discord. Et ça marche. Parce qu’ielles sont là au RV. Là avec leurs idées et leur envie d’avancer. Juste pour cela, ielles méritent une bonne note. Une belle leçon. »

      https://www.modop.org/se-relier/#29mars

      Le texte complet : https://www.modop.org/wp-content/uploads/2020/03/Et-puis-la-col%C3%A8re-et-puis-la-peur.pdf

    • Lettre ouverte adressée au président de l’université Savoie Mont Blanc par des étudiant.e.s mobilisé.e.s, à travers le syndicat Solidaires Etudiant-es, 31.03.2020

      Monsieur le Président de l’Université Savoie Mont Blanc,

      Le syndicat Solidaire Etudiant·e·s Savoie a pris l’initiative de créer un questionnaire à destination des étudiant·e·s sur la situation actuelle de la crise sanitaire et sociale. Le but de celui-ci est d’identifier les problèmes rencontrés par les étudiant·e·s durant cette période exceptionnelle de confinement pour tou·te·s, en se basant aussi bien sur l’aspect matériel que psychologique. Nous vous adressons donc aujourd’hui, Monsieur le Président, une lettre pour vous faire état de cette situation. 
Nous avons conscience que cette période apporte beaucoup d’inquiétudes, de questions et que les réflexions à distance sont compliquées. Cependant, nous souhaitons faire entendre les voix des étudiant·e·s. Le confinement nous oblige à modifier le déroulement de la fin de ce second semestre tant pour la continuité pédagogique que pour les examens qui devaient se tenir entre le 27 avril et le 16 mai 2020. Les craintes étudiantes concernant les modalités d’évaluation sont plus que présentes. C’est pourquoi nous vous demandons de prendre en considération les conséquences que pourrait avoir le maintien des examens. Aussi, ce questionnaire n’a aucune vocation scientifique ; il a été créé dans l’urgence et en réponse au questionnaire envoyé par la direction LLSH de l’USMB, que nous jugeons insuffisant puisque la seule dimension technique (connexion internet, ou pas) y est abordée. Pourtant, c’est loin d’être l’unique difficulté rencontrée. D’autres facteurs sont tout autant importants, à commencer par l’aspect psychologique, non négligeable, qui compte de cette situation inédite.

      Nous avons voulu connaître la situation des étudiant·e·s. C’était donc le but de notre questionnaire qui a été mis en ligne entre jeudi 26 mars et lundi 30 mars 14 heures. Il a été clôturé temporairement pour nous laisser le temps d’analyser les 808 réponses récoltées à l’heure de ces lignes. Nous le remettrons en ligne suite à la demande de plusieurs personnes. Les questions portent sur les conséquences du confinement ; l’état émotionnel, l’organisation personnelle dans la continuité pédagogique, sur les difficultés à suivre les cours à distance aussi bien au niveau des problèmes de matériel, de connexion qu’au niveau de la mise en place d’un environnement de travail approprié pour étudier.

      Dans un premier temps, nous pensons qu’il est important de souligner le taux d’inquiétude, de stress et d’angoisse incroyablement élevé des étudiant·e·s. En effet, à la question « êtes-tu angoissé·e, stressé·e, inquièt·e ? » 74,6% ont répondu par l’affirmative. Ce niveau d’angoisse extrême est facilement explicable par la crise sanitaire que nous vivons et beaucoup l’ont développé : la peur de tomber malade ou bien qu’un proche le soit a envahi leur quotidien. Face à ce taux particulièrement haut, nous avons cherché à savoir qu’elle était la source de cette inquiétude à travers les études. Le plus évident est d’abord la validation de leur année (506 personnes sur 808 se sentent concernées) mais également les concours reportés (170 sur 808). L’angoisse vis-à-vis des examens s’accroît d’autant plus avec les conditions de travail à la maison, qui ne garantissent pas l’égalité des chances. Certain·e·s étudiant·e·s doivent assurer la continuité pédagogique de leur·s frère·s ou soeur·s en plus de la concentration demandée pour leurs propres études. De même, les conditions de travail sont radicalement changées et ce malgré la volonté des professeur·e·s de bien faire : débit internet insuffisant, partage d’ordinateur avec les autres membres de la famille notamment pour le télétravail, impossibilité d’avoir un endroit au calme et de pouvoir travailler sans être dérangé·e, activités professionnelles qui continuent dans la grande distribution par exemple donc dans des lieux à risques ce qui engendre une inquiétude en plus et une méfiance parfois. Travailler chez soi est difficile pour beaucoup. Sur 808 étudiant·e·s, seulement 176 ont la possibilité de suivre correctement leurs cours, soit 21,8%, ce qui ne représente qu’un cinquième des étudiant·e·s sondé·e·s. C’est peu et insuffisant pour permettre la tenue d’examens en de bonnes conditions. Les étudiant·e·s sont également anxieux·ses face au report des examens ; vous n’êtes pas sans savoir que beaucoup sont obligé·e·s de travailler dès les mois de mai ou juin pour assurer une stabilité financière qui leur permettra d’avoir des conditions de vie décentes (567 étudiant·e·s sondé·e·s sur 808 soit 70,2% déclarent qu’un report des examens aurait des conséquences financières dramatiques pour eux·elles)
Un report des examens en présentiel ne ferait que renforcer le statut déjà précaire des étudiant·e·s. 
Les inquiétudes sont aussi tournées vers les conséquences de cette situation sur les sélections en master, la mobilité étudiante ou encore les stages et concours reportés.
      Nous demandons des décisions à la hauteur de la situation actuelle, égalitaires et équitables pour tou·te·s et surtout qui élimineraient les différents problèmes mentionnés ici.

      Monsieur le Président, nous voulons sincèrement croire en votre « sincère et fidèle soutien dans la situation particulière que nous traversons ». Mais les effets de manche ne suffiront pas aux étudiant·e·s : les actes doivent suivre les discours. Ainsi, vu la situation sanitaire et sociale d’un bon ensemble de vos étudiant·e·s, les modalités d’évaluation classiques ne pourront pas s’appliquer.
      Premièrement, nous demandons la suppression des évaluations en contrôle continu (en ligne) durant la période de confinement et de fermeture de l’Université. Ensuite, en ce qui concerne les contrôles terminaux : un report des examens durant les mois de mai ou de juin, en présentiel, est inconcevable pour différentes raisons : certain·e·s n’auront pas la possibilité de se loger en mai et juin, d’autres se sont déjà engagé·e·s dans des responsabilités professionnelles, familiales ou associatives. Un report des examens en présentiel impliquera de facto des conséquences financières et logistiques nuisant à beaucoup. Comme nous l’avons précédemment évoqué, l’enseignement pédagogique à distance n’est pas possible pour tout un ensemble d’étudiant·e·s, malgré la bonne volonté des différentes équipes pédagogiques. Une évaluation terminale, sur des contenus et relations pédagogiques fragiles de part la distance, que certain·e·s n’auront pas vécu·e·s, est donc totalement incohérente.
      Pour ce même objet, l’alternative numérique est un danger. Nous implorons donc à chacun et chacune ne pas céder à quelque démagogie ou essentialisme que ce soit : non, les « jeunes » ne préfèrent pas, par nature, l’usage du numérique. Si elle peut apparaître comme une solution par défaut, nous y voyons au contraire un outil excluant bon nombre d’entre nous.

      Mais alors... quelles solutions ? Nous demandons la validation de tous les enseignements dont les modalités de contrôle n’ont pas été faites avant la fermeture de l’Université. La condition sine qua non de cette mesure est l’établissement d’une note plancher de 12 pour toutes et tous, ou en fonction des notes correspondantes à celles des UE du premier semestre ou alors la validation automatique. Pour les étudiant·e·s en rattrapages, une solution devra être proposée, en prenant considération des contraintes de ce second semestre.
      Cette modification administrative concernant les notes et la validation du semestre ne signifie pas la fin de la continuité pédagogique, bien au contraire. Beaucoup d’équipes pédagogiques font des efforts considérables pour permettre à toutes et tous d’avoir des éléments et ressources pédagogiques. Nous demandons que cet effort soit maintenu, et que les échanges pédagogiques perdurent.

      Nos sincères salutations,

      Solidaire Etudiant·e·s Savoie

      –-> reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • Lettre écrite à l’initiative de plusieurs enseignant.e.s du département des sciences de l’éducation de Paris8

      Bonjour à tous et toutes,
      Nous sommes quelques enseignant·e·s de l’UFR de sciences de l’éducation de l’université
      Paris 8 à nous poser des questions sur ce qui nous arrive et nous tenons à partager avec
      vous nos interrogations.
      Nous voici confiné.e.s pour au moins quinze jours, mais probablement le double si l’on en
      croit les expériences du Hubeï ou d’Italie.
      Nous sommes passé·e·s d’une vie publique et politique intense à une vie resserrée sur
      l’espace domestique. Pourtant rien ne cesse vraiment de nous indigner.
      Paraît-il que les journalistes se sont organisé·e·s pour assurer la « continuité de
      l’information » et nous voici avec un flot continu de discours sur l’évolution à la minute de
      la pandémie, la réaction de nos politiques en temps réel et les soubresauts de la bourse,
      tout ceci bien enrobé « d’unité nationale ». Alors à nous tous et toutes, professionnel·le·s
      de l’éducation de la maternelle à l’université, de prendre nos responsabilités pour assurer
      la « continuité pédagogique » et de faire vivre cette « nation apprenante » dont on voit mal
      ou trop bien (c’est selon) ce qu’elle peut bien signifier ! Nous savons tous et toutes que les
      plus vulnérables seront les plus touché·e·s par le virus, mais aussi par la nécessité
      d’assurer toutes formes de continuité, de s’occuper des proches, de gérer le quotidien.
      La grève prend ainsi une drôle de tournure dans un moment où la défense de nos services
      publics et une plus juste répartition des richesses semblent d’une brûlante actualité. Il ne
      s’agit évidemment pas de contester la décision de confinement mais de ne pas cesser
      d’être critiques et solidaires parce que nous avons cessé de sortir et de nous réunir. Il ne
      s’agit peut-être pas non plus d’assurer une « continuité de la grève » plutôt qu’une
      continuité pédagogique… mais peut-être d’accepter la rupture !
      Cessons de tenter de télé-travailler, tout en essayant de télé-enseigner, de télé-s’éduquer,
      de télé-s’angoisser les un·e·s les autres. Partageons plutôt des ressources, des attentions,
      des idées, des sourires, des réflexions, des lectures...
      Cette année a été chamboulée et tout ne sera pas rattrapé, quelle que soit la date de
      sortie de confinement. Les mouvements sociaux suspendus en plein vol n’ont pas perdu
      de leur pertinence, bien au contraire. La lettre d’un chercheur travaillant sur le coronavirus
      et exposant ces difficultés récurrentes à obtenir des financements pour ses recherches au

      cours des dernières années en est un exemple frappant. Il s’agira donc d’en tenir compte
      et d’avancer à partir de ces données. Peut-être arriverons-nous à trouver les espaces pour
      nous demander collectivement ce que nous avons appris de cette drôle d’année et la
      manière dont ces apprentissages résonnent avec nos projets individuels et collectifs.
      Peut-être arriverons-nous à penser et mettre en oeuvre une université de service public qui
      soit une réelle institution des communs.
      En définitive, nous refusons fermement :
      ● De passer de la grève à la continuité pédagogique sans nous interroger sur ce que
      cela signifie.
      ● Que l’on continue à nous faire croire que notre société peut persévérer dans ses
      routines de vitesse, de performance, de résultats et de compétition généralisée.
      C’est ce qui se joue derrière les injonctions faites aux enseignant·e·s et aux parents
      de continuer l’école à la maison, au détriment des foyers les moins équipés et des
      familles les moins familières de la culture scolaire. C’est ce qui se joue également
      dans l’injonction faite aux élèves et aux étudiant·e·s de continuer à étudier sans
      tenir compte de la grande précarité de certaines situations.
      ● De faire comme si les élèves et les étudiant·e·s pouvaient passer les examens de
      fin d’année comme si de rien n’était alors qu’ils et elles sont matériellement et
      culturellement dans une situation d’inégalité face à l’offre d’apprentissage à
      distance proposée par le ministère de l’éducation et par les universités.
      ● De répondre à l’injonction de télé-enseigner alors que nous nous occupons de nos
      enfants et de nos proches, fonction dont on sait que, socialement, elle incombe
      surtout aux femmes.
      ● De demander à nos élèves et étudiant·e·s de répondre à l’injonction de télé-étudier
      alors que certain·e·s sont dans des situations de précarité, ont des familles à
      charge, n’ont pas cessé leur activité salariée ou dépendent de parents qui n’ont pas
      le temps de les aider à prendre en main les outils numériques.
      ● De taire nos critiques au nom d’une prétendue solidarité qui arrive bien tardivement
      dans le quinquennat présidentiel !
      Nous voulons pouvoir parler de ce qui fâche : l’avenir de nos sociétés mondialisées
      néo-libérales et celui de nos démocraties qui, les unes après les autres, renoncent aux
      libertés fondamentales pour faire face à l’épidémie.
      À partir de là et poing à point contre les inquiétudes, nous voulons adresser les messages
      suivants à nos étudiant.e.s :
      ● La priorité est au soin de soi et de ses proches (idée : une carte des solidarités -
      sans se mettre en danger !)
      ● Si vous rencontrez des difficultés particulières face à cette situation de confinement,
      des professionnel·le·s et des militant·e·s sont disponibles par mail et par téléphone
      pour répondre à vos questions et besoins : violences conjugales (appeler le 3919 – Il
      est déconseillé de sortir, mais il n’est pas interdit de fuir), problème de logement,
      situation de travail, éventuelles questions sur le droit de retrait (lire par exemple le
      communiqué de solidaires étudiant·e·s ).
      Vous pouvez évidemment vous confier aux enseignant·e·s en qui vous avez confiance. Ils
      et elles feront de leur mieux pour vous aider et/ou vous orienter vers les personnes
      compétentes.
      ● Nous tenterons, quoiqu’il arrive, de rester en contact mais sans pression de part et
      d’autre. Nous restons joignables à nos adresses mails et ferons au mieux, avec tout
      ce que nous avons à gérer de quotidien, pour y répondre avec précision.
      ● Le semestre sera validé pour tous les étudiants et toutes les étudiantes qui suivent
      nos cours. Les modalités se discuteront collectivement autant que faire se peut, mais
      chaque enseignant·e·s reste décisionnaire pour les cours qui le concernent.
      Des enseignant·e·s de l’UFR SEPF - Université Paris8.

      –-> reçue le 30.03.2020 via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • « Des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac »

      Les mots sortent avec difficulté. Le constat est douloureux. « Je suis dépassée », confie Milouda, 51 ans, une femme de ménage qui élève seule ses deux enfants de 11 et 18 ans en Ariège. Elle continue de travailler à un rythme réduit. Comme tous les élèves de France, son fils, qui est en sixième, a du travail à faire. Et cela au nom de la sacro-sainte « continuité pédagogique » voulue par Jean-Michel Blanquer, au mépris des multiples réalités sociales des familles.

      La mère explique que ses difficultés à faire la classe à la maison sont imputables, entre autres, à sa mauvaise maîtrise de l’informatique. Elle dispose d’une tablette mais « n’y arrive pas » et ne possède pas d’imprimante. Il lui est donc difficile de suivre les consignes des enseignants, eux-mêmes assez absents. Une fois, en ces deux semaines, un enseignant a donné un cours d’histoire-géographie à distance. Il s’agit du seul contact que Milouda et son fils ont eu avec le corps enseignant.

      La situation semble inextricable. Cela génère tensions et souffrances pour la mère et son fils. « Je suis à bout, j’ai lâché, je ne peux plus rien faire, on ne fait plus rien du tout. Je n’arrive pas à lui expliquer les cours. Je me sens impuissante de ne pas pouvoir faire d’autres exercices. J’ai du mal à avoir les devoirs aussi, car je n’ai pas le matériel. Comme je suis arrivée tard du Maroc, je n’ai pas le niveau et je ne sais pas quoi faire. Mon fils ne se sent pas bien, il se dit qu’il est nul », soupire Milouda. Son fils sait accéder à l’espace numérique de travail (ENT) seul mais c’est tout.

      Alors, elle veut témoigner pour alerter sur sa situation et celle d’autres familles dans son cas. Elle veut raconter à quel point cette configuration est injuste pour une population modeste déjà oubliée. Milouda doit tout assumer seule, sans aide. « Je me sentais déjà larguée, il fallait que je me batte pour beaucoup de choses. Là, il n’y a rien de pire, on est des sacrifiés. Déjà qu’on avait l’impression que tout le monde se fout de nous… »

      Nordy Granger, responsable de l’association Sorosa, dans la Drôme, connaît les difficultés induites par l’école à distance. Elle accompagne des jeunes mineurs non accompagnés et des jeunes majeurs étrangers scolarisés en lycée professionnel ou en centre de formation d’apprentis (CFA) éventuellement. Les mineurs sont pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance (ASE). Il a fallu là encore s’organiser pour faire face à l’école à distance, particulièrement délicate en filière professionnelle.

      « Au début, raconte la responsable, la première semaine, il y a eu un cafouillage, la continuité pédagogique n’a pas été tellement mise en place. Puis, il y a eu une accélération. Les profs ont envoyé des devoirs par mail. »

      Depuis le début de la fermeture des établissements scolaires, il y a deux semaines, des difficultés techniques sur les plateformes officielles de travail à distance ont obligé les enseignants à faire preuve de créativité. Certains ont conçu des groupes WhatsApp. D’autres envoient simplement des consignes et exercices par courriel. Un peu trop parfois.

      Un jeune s’est retrouvé aussi avec 40 pages de travail, avec un rendu la semaine suivante.

      Certains élèves n’ont pas d’adresse mail, d’ordinateur, Internet ou de smartphone. Les éducateurs du département n’ont pas le droit de se déplacer. « Personne ne savait comment procéder. Pour les familles exilées, c’est compliqué. Parfois, elles ne parlent pas français. S’il y a un grand frère ou une grande sœur adolescente qui parle français, il ou elle va expliquer ce que les petits doivent faire. S’il n’y a pas de grands, cela signifie que les petits ne vont pas faire de devoir tout le temps du confinement ? Vont-ils redoubler ? », s’interroge encore Nordy Granger.

      Elle explique qu’ils sont livrés à eux-mêmes. Certains sont francophones mais ont des difficultés à l’écrit et besoin d’un enseignant pour tout comprendre. « Les éducateurs font tout ce qu’ils peuvent, ils sont eux-mêmes en télétravail, ils essaient d’aider par téléphone. Les enseignants de français langue étrangère, le FLE, appellent les élèves pour discuter avec eux et les rassurer. Mais c’est un tel chantier… »

      Alors l’association a décidé de tenir une permanence le mercredi et le samedi, en respectant les règles sanitaires et en filtrant l’accès au local, personne par personne. Ainsi une adolescente de 14 ans est-elle venue faire ses devoirs dans le petit bureau de la permanence, car elle vit dans un squat sans ordinateur.

      Nordy Granger s’inquiète de ces bouleversements de la scolarité, même s’ils sont indépendants de leur volonté. Quid des diplômes ? Comment vont faire les élèves en apprentissage pour valider leur cursus alors que les entreprises – hors BTP – sont à l’arrêt ?

      Elle craint que cela les pénalise pour obtenir un titre de séjour, lequel est conditionné par « suivi réel et sérieux de leurs études ». Or, s’il est écrit que le demandeur n’a pas fait d’effort pour suivre les cours dans son bulletin du troisième trimestre, la préfecture pourrait bien refuser sa délivrance.

      De son côté Aurore, mère de deux enfants, enceinte du troisième et proche du terme, joue de malchance. L’ordinateur familial a planté. Il n’est pas possible de le faire réparer ni d’aller en acheter un nouveau, faute d’avoir le budget et de pouvoir se rendre dans les magasins. Ses enfants, respectivement en sixième et en troisième, se débrouillent avec les smartphones de leurs parents.

      Seulement, il est difficile d’aller sur Pronote, l’une des plateformes utilisées pour l’école à distance, sur un simple téléphone. « Nous avons accès à tous les cours mais impossible d’être évalués », résume Aurore.

      L’école française se distingue pour sa propension à nourrir les inégalités qui la traversent. Ce moment inédit qui voit 12 millions d’élèves suivre leurs cours à distance met au jour ce que tous les observateurs du monde scolaire s’échinent à dénoncer. L’école est loin d’être aveugle aux différences sociales et, pire, elle ne fait pas grand-chose pour les corriger.

      Le ministre de l’éducation nationale l’a reconnu mardi 31 mars sur CNews. Selon Jean-Michel Blanquer, il y a « un grand risque » que la situation actuelle « creuse les inégalités » entre les familles qui ont la possibilité de faire la classe à la maison et les autres. Il a estimé qu’entre 5 et 8 % des élèves ont été perdus par leurs professeurs, qui ne peuvent pas les joindre depuis deux semaines.

      Pour lutter contre cela, un accord a notamment été passé avec La Poste, qui « va permettre à chaque professeur d’envoyer à partir de son ordinateur un document imprimé à un élève qui n’a pas d’équipement numérique ou qu’il n’a pas réussi à joindre autrement », a-t-il détaillé. Des tablettes peuvent être distribuées par des collectivités locales ou des associations aux familles qui n’ont pas d’équipement informatique, a promis le ministre.
      Le système D prévaut

      En attendant, pour les familles comme pour les enseignants, le système D prévaut.

      Virginie*, professeure des écoles dans une école Réseau d’éducation prioritaire (REP) à Pantin, en Seine-Saint-Denis, a fait en sorte de contourner les difficultés des familles de sa classe et a scanné un maximum d’exercices pour faire écrire les petits de CM2. Elle regrette simplement de n’avoir pas pensé à donner des crayons de couleur et des feutres aux élèves les plus démunis, car elle leur a aussi demandé de colorier des cartes et n’est pas sûre que tous possèdent le matériel idoine. Mais dans la précipitation, elle a paré au plus urgent.

      Depuis le début du confinement, Julien enseignant dans le Morbihan, s’occupe de sa classe de CM2 et de ses filles. Comme sa collègue de Pantin, il a veillé à limiter au maximum le stress. Il sait que des familles dysfonctionnent et que mettre une trop grande pression aux petits pourrait créer des conflits dans des foyers déjà violents. Certains n’ont pas d’équipement numérique ou pas de réseau internet. Il a donc évincé tout exercice nécessitant une imprimante et a privilégié les ressources gratuites et activités ludiques. Il fait écrire ses élèves « pour qu’ils ne perdent pas tout ».

      Parce qu’il sait aussi que la réalité scolaire, plus que jamais, est conditionnée par le milieu social des enfants.

      « Je fais attention au vocabulaire que j’emploie dans mes consignes pour ne pas utiliser le jargon pédago incompréhensible pour le commun des mortels. Malgré tout, plein de parents m’écrivent, car leur enfant pleure tous les jours et ne veut rien faire. Je leur dis de le laisser appréhender la situation car c’est incroyable ce qu’on vit. »

      La responsable de l’association Sorosa a contacté les enseignants, « bienveillants » pour leur demander de restreindre les demandes d’impression, « car on ne sait pas comment on va se procurer de l’encre quand on n’aura plus de réserves. Et surtout, on a envie de leur dire d’arrêter de mettre la pression aux élèves ».

      Pour sa part Milouda se débrouille malgré le confinement et réussit à se rendre chez un camarade de son fils, à deux kilomètres de là. « Le problème, c’est que son beau-père est raciste, il refuse que je vienne. Alors, j’y vais très tôt, avant qu’il ne se réveille, je récupère des devoirs que me donne la maman par la fenêtre. Mais elle ne peut pas tout imprimer car elle aussi est en rade. » Mais c’est déjà ça.

      Milouda est inquiète, car son fils a déjà des difficultés à l’école. En temps normal, il fréquente l’aide aux devoirs. Un soutien appréciable mais inaccessible aujourd’hui. « En milieu rural, il n’y a pas de MJC, pas de service public. Il n’y a rien pour les ados, pas de solidarité », regrette-t-elle.

      Des difficultés dans toutes les familles

      Des parents, mieux armés, font eux aussi part de leurs difficultés à assurer la mission qui leur est dévolue. À tel point que la FCPE de Paris a réclamé dans un communiqué qu’il y ait moins de pression sur les parents, les enfants et les enseignants de la part du ministère, qui tient à ce que tout continue.

      Marie a 46 ans et vit à Bayonne avec ses deux enfants de 10 et 2 ans. Adjointe administrative, elle est en télétravail. Son conjoint est à son compte mais avec une activité ralentie. De son propre aveu, elle se sent « privilégiée », même si l’école à la maison n’est pas une sinécure. Elle est très angoissée pour sa fille. Résultat, les premiers jours ont été très tendus.

      Sa fille est en CM1 et reçoit un planning quotidien, « assez ludique », par mail. Une fois par semaine, il y a une classe virtuelle d’une heure pour que tous les élèves se voient. Enfin… pour ceux qui possèdent le matériel informatique idoine… De son côté, Marie explique que tout est chronométré dans la journée de l’écolière.

      « Nous on déborde sur le temps de pause, ce qui nous met la pression. J’ai peur que ma fille n’y arrive pas et qu’elle accumule du retard. » Au bout de quelques jours, la mère de famille s’est dit qu’il fallait dédramatiser et que ce n’était pas grave de louper quelques exercices. « Sinon cela va devenir irrespirable. »

      Même les parents d’adolescents peuvent se sentir submergés. C’est le cas de France, 48 ans. Elle travaille à Paris dans la communication et s’occupe de son fils, élève de première. Celui-ci, comme tous les élèves de son niveau, a connu une année mouvementée, entre les grèves de transports, les blocus contre les « E3C », les nouvelles épreuves de contrôle continu, et maintenant le confinement pour cause de coronavirus. Les jeunes qui préparent un examen attendent encore des réponses claires de la part du ministre pour connaître les modalités du baccalauréat, ce qui ajoute un peu plus d’angoisse.

      La mère de cet adolescent reconnaît tout de go « ne pas être une super pédagogue », malgré ses diplômes de l’enseignement supérieur. « À 17 ans, ce n’est pas sa meilleure période, ni avec moi ni avec lui-même. Famille recomposée. On a un seul ordinateur, pas d’imprimante, ça complique les choses. »

      Elle ne se voit pas non plus dispenser à son fils un cours de sociologie ou disserter avec lui sur Le Rouge et le Noir de Stendhal, au programme, mais qu’elle a lu il y a une éternité.

      Eva* a 40 ans et vit dans le Val-de-Marne. Elle a deux enfants en primaire, en CE2 et en CM2. Responsable des ressources dans une association, elle gère son équipe à distance. Son conjoint est infirmier, donc impossible pour lui de l’aider dans le contexte actuel. Alors, la mère de famille s’est organisée le mieux possible. Elle a constitué des plannings avec des temps de travail, de pause et de déjeuner. Elle s’astreint à une routine avec ses enfants « pour différencier les jours de la semaine ».

      Sur le plan scolaire, Eva explique qu’elle gère au fil de l’eau, surtout avec un fils qui réclame une attention particulière : « On fait comme on peut, on reçoit par mail tout ce qu’il faut faire chaque soir. Autant l’aînée est autonome, elle a peu besoin d’aide. Mais son petit frère est en CE2, avec des difficultés de concentration et d’apprentissage. Ce n’est pas inquiétant mais il ne peut pas travailler tout seul. Et là c’est dur. Avec la maîtresse, il n’y a pas de lien affectif dans la dimension éducative. Là, tout vire au conflit. »

      Elle craint que son fils ne décroche s’il n’écrit pas et ne lit pas régulièrement. « Je vois tout ce qu’il aurait dû faire en une journée et qu’on n’a pas réussi… »
      Et si on arrêtait l’école à la maison ?

      Marwa aussi se démène comme elle peut avec deux enfants atteints de troubles de l’attention. À 43 ans, elle vit dans le VIIIe arrondissement à Paris, un quartier chic. Cette commerciale « à temps partiel » tient à préciser qu’elle élève seule ses deux enfants de 7 et 10 ans et occupe un logement social. Les deux souffrent d’un trouble du déficit de l’attention avec hyperactivité (TDAH).

      La mère a entretenu une relation complexe avec l’école. Victime d’une orientation forcée en BEP secrétariat, elle regrette de n’avoir pu suivre les études longues dont elle rêvait. Elle raconte encore que son fils aîné a subi du harcèlement à l’école plus jeune et craint surtout que ses deux fils ne soient « catalogués comme futurs ratés en allant dans une école de bourgeois sans l’être eux-mêmes ».

      Alors, elle fait en sorte qu’ils poursuivent tant bien que mal leur scolarité, même confinés. L’aîné a été diagnostiqué tardivement, il accuse un retard dans son cursus. Marwa possède « une imprimante mais pas d’encre ». Elle se rend régulièrement à l’école – malgré les dangers – pour récupérer des exercices auprès du directeur.

      Marwa constate que la charge de travail est énorme. Elle tente de s’adapter. « C’est dur pour une maman solo. Ils ne savent pas se canaliser, ça hurle, ça chahute. Le matin, ce sont des piles électriques, impossible de les calmer. Après le déjeuner, j’arrive à avoir un moment d’attention. En temps normal, le premier a un AESH [accompagnant des élèves en situation de handicap − ndlr]. Là, il est greffé à moi. Le dernier arrive à peu près à travailler ; mais au bout d’un quart d’heure, il a besoin d’une pause. »

      Son fils aîné se braque dans un contexte tendu qui exacerbe son hypersensibilité, explique encore Marwa. « Il refuse de faire le minimum et se trouve des excuses. Je me retrouve à me battre pour un exercice. Je me suis battue deux heures pour une fraction… Ce n’est pas mon métier, on est à la maison. Lui-même n’arrive plus à se contenir. L’école le calme, c’est un cadre pour lui, il y a des règles là-bas. »

      D’ordinaire, un enseignant de collège, formé à travailler avec des enfants souffrant d’un TDAH, vient deux fois par semaine, le mercredi et le samedi pour aider les deux fils de Marwa. Ce qui lui permet un peu de souffler. Ce n’est pas le cas en ce moment.

      Aujourd’hui, elle vit mal son isolement et son sentiment d’impuissance. « On nous met une espèce de culpabilité, car on n’a pas toujours les moyens intellectuels ou la méthodologie pour expliquer à nos enfants. Rien que les divisions, ça a changé. On ne les pose plus pareil. » Elle craint qu’à la rentrée, une partie des élèves « ne soit complètement larguée, car dans le VIIIe, c’est marche ou crève ».

      France identifie une multitude « de micro-choses » qui font que c’est stressant. Le contexte général, très anxiogène, la pression volontaire ou involontaire des enseignants et des parents, la masse considérable de travail à rendre, parfois sur des notions à peine survolées en cours.

      « C’est un peu culpabilisant. J’ai l’impression d’être l’artisan de l’échec de nos enfants. Il y aura deux camps. Ceux qui auront su et ceux qui n’auront pas pu. Je ne comprends pas l’acharnement à maintenir tout cela. À part quelques ados qui ont le plaisir de l’apprentissage, on va dégoûter cette génération parce qu’on ne veut pas prendre en compte la réalité. On marche sur la tête. Il y a une pandémie, des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac. On ne peut pas fonctionner normalement quand rien ne fonctionne normalement. »

      Eva plaide en faveur d’une solution radicale. Arrêter l’école à la maison. « Il est impossible d’enseigner et de télétravailler en même temps. Stopper les cours desserrerait la pression, mettrait tout le monde à égalité, même si on sait que les CSP+ ne laisseront pas leurs enfants devant la télé. Mais du point de vue de l’institution, il n’y aura pas d’injonction remplie d’un côté et pas de l’autre… »

      Julien, l’enseignant du Morbihan, s’est aussi étonné que sa propre fille, en CM1, ait reçu une somme considérable de travail, une quarantaine de pages. À tel point qu’il a été surpris du nombre de feuilles sorties de l’imprimante qu’il a lancée sans regarder. Sans compter qu’il est difficile d’enseigner à son propre enfant, quand bien même c’est son métier. Lui aussi a dû faire face à des crises avec sa fille, qui s’est braquée à plusieurs reprises.

      Pour toutes ces raisons, il aurait aimé que tous les enseignants n’obéissent pas à la consigne ministérielle et proposent, au lieu des révisions des leçons, des activités pédagogiques. Histoire de réussir à ne pas trop creuser les inégalités dont est percluse l’école française.

      Le professeur ne se fait guère d’illusions : « De toute façon, on dénonce le mythe de l’école républicaine qui abolirait les différences. On savait que c’était faux, mais là, ça l’accentue. Là, le grand public les vit au quotidien, ces inégalités et leurs conséquences, ce qu’on dénonce tous depuis des années. »

      Certaines familles se sont « évanouies dans la nature », constate Virginie. Sur une vingtaine, une petite quinzaine ne donne pas de nouvelles. Les autres se surinvestissent au contraire. « Elles poussent leurs enfants, ce que j’arrivais à contenir quand on était en classe. Ces parents m’envoient cinq messages par jour pour me poser des questions. Ce sont ceux de la classe moyenne qui veulent que leurs enfants prennent l’ascenseur social », analyse Virginie.

      L’enseignante est inquiète des conséquences du confinement, car elle sait que certains sont inscrits sur des sites qui prétendent offrir des cours particuliers efficaces en ces temps inhabituels. « J’ai peur que les parents prennent trop d’initiatives. Quand je vais les récupérer, ils auront vu de nouvelles notions, ça va creuser les inégalités. En fait, cette situation exacerbe les comportements habituels. Ça laisse libre cours à ceux qui s’en fichent et à ceux qui mettent trop de pression à leurs enfants. »

      La « continuité pédagogique » voulue par le ministre Jean-Michel Blanquer suscite de plus en plus de critiques. De nombreux parents, notamment dans les familles modestes, se sentent dépassés. Témoignages de parents qui galèrent.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/310320/des-gens-vont-mourir-mais-il-faut-que-tu-passes-ton-bac?onglet=full

    • M. Blanquer, arrêtez de #faire_semblant

      Si l’on en croit M. Le ministre de l’Education nationale, tout est sous contrôle. Tout le monde a trouvé son « rythme de croisière » sur la plateforme Ma classe à la maison, les jeunes de Terminale pourront passer leur bac d’ici la fin du mois de juin, les élèves rattraperont leurs retards d’apprentissage cet été grâce à des modules gratuits…
      Mais M. Blanquer, si vous arrêtiez de faire semblant ?
      Semblant de maîtriser une situation imprévisible, ou à tout le moins imprévue, semblant de faire comme si la continuité pédagogique fonctionnait, semblant de penser que plus de 90 % des élèves n’ont pas « décroché »… Bien sûr, les parents sont reconnaissants du travail réalisé par des professeurs mis en demeure d’enseigner à distance alors même qu’ils n’ont jamais, ou presque, été formés à ces nouvelles pratiques. Bien sûr, les parents ont répondu présent quand le Ministre leur a demandé d’accompagner leurs enfants dans ce processus. Mais voilà, ils n’en peuvent plus ! Ils disent stop à la pression qui s’exerce sur eux et les élèves.
      Ils ne veulent plus qu’on leur donne des dates de sortie de confinement sujettes à caution, recevoir des injonctions sur ce qu’ils devraient faire ou ne pas faire durant leurs vacances, préparer leurs enfants à des examens dont on ne connaît même pas l’organisation, aller chercher des devoirs photocopiés alors qu’ils devraient rester confinés. Tous se plaignent des devoirs trop lourds, du coût matériel induit par cette « continuité pédagogique » ou encore de l’impossibilité de se connecter à Parcoursup en respectant les dates limites.
      Nous, nous ne faisons pas semblant, tous les jours nous devons répondre aux parents stressés par leur difficulté à ne pas perdre pied dans le travail qui est demandé à leur enfants et qui s’ajoute à l’inquiétude causée par la pandémie.
      Désormais, nous exigeons :
      – la suspension immédiate de Parcoursup ;
      – l’arrêt des notes données aux élèves en cette période de confinement ;
      – l’allégement des travaux à réaliser à la maison ;
      – la garantie d’une reprise des cours là où les enseignants les avaient arrêtés le 16 mars dernier ;
      – la garantie que les diplômes des élèves ne prendront en compte que les notes obtenues en présentiel.

      https://www.fcpe.asso.fr/sites/default/files/2020-03/31-03-2020-M%20Blanquer%20arre%CC%82tez%20de%20faire%20semblant%281%29.pdf

    • La #loi_organique_d’urgence, le #Conseil_constitutionnel et la continuité pédagogique

      Démarrons par un point apparemment éloigné de la continuité pédagogique : le Conseil constitutionnel a rendu jeudi 26 mars sa décision sur la « loi organique d’urgence pour faire face à l’épidémie de Covid-19 ». La loi « organique » d’urgence est une loi qui vient compléter la loi « ordinaire » d’urgence du 23 mars dernier, sur un point bien précis : elle suspend jusqu’au 30 juin 2020 les délais dans lesquels doivent être normalement examinées les questions prioritaires de constitutionnalité, « afin de faire face aux conséquences de l’épidémie du virus covid-19 » (article unique de la loi, qui n’a toujours pas été publiée au Journal officiel).

      Les lois organiques sont des lois d’un type très particulier. Leur adoption étant prévue par la Constitution elle-même, elles sont d’une valeur juridique supérieure aux lois ordinaires et doivent être promulguées selon une procédure spéciale fixée à l’article 46 de la Constitution. Entre autres choses, un projet de loi organique ne peut pas « être soumis à la délibération de la première assemblée saisie avant l’expiration d’un délai de quinze jours après son dépôt » (alinéa 2). L’objectif poursuivi par cette règle est simple : si la Constitution de la Ve République impose qu’entre le dépôt du projet de loi organique par le gouvernement sur le bureau de l’Assemblée nationale ou du Sénat et sa discussion par le Parlement, quinze jours au moins se soient écoulés, c’est parce que les lois organiques sont trop importantes pour que l’on puisse prendre le risque de les adopter dans la précipitation.

      Pour la loi organique d’urgence, cette condition n’était pas remplie. Le projet de loi a été déposé mercredi 18 mars 2020 sur le bureau du Sénat et a commencé à être examiné dès le lendemain. Le non-respect du texte de la Constitution était donc indiscutable. Et pourtant… Dans sa décision du jeudi 26 mars, le Conseil constitutionnel ne voit là aucun motif d’inconstitutionnalité. Plus précisément, il estime que « compte-tenu des circonstances particulières de l’espèce, il n’y a pas lieu de juger que cette loi organique a été adoptée en violation des règles de procédure prévues à l’article 46 de la Constitution ». « Compte tenu des circonstances particulières de l’espèce », une demi-phrase, et c’en est tout de l’argumentation juridique. C’est qu’il n’y a pas grand-chose à expliquer, en fait : face à une loi organique qui viole de manière flagrante l’article 46 de la Constitution, le Conseil constitutionnel n’a pas eu d’autre choix que de créer une « théorie des circonstances exceptionnelles » en droit constitutionnel français. C’était, pourrait-on dire, le prix constitutionnel à payer à partir du moment où son choix était de sauver la loi organique.
      On comprend que le Conseil constitutionnel, eu égard à l’âge vénérable de ses membres – 72 ans de moyenne d’âge – et aux risques qui y sont associés, se sente en première ligne face à l’épidémie de covid-19, et panique quelque peu. Mais la décision de jeudi dernier est proprement indigne : indigne de toutes celles et tous ceux qui, des caisses de supermarché aux hôpitaux, sont vraiment en première ligne ; indigne, surtout, des fonctions d’une institution qui, normalement, ne devrait pas avoir vocation – en tout cas pas si facilement – à être aux ordres. Perd-on donc toute lucidité juridique dès que la situation devient exceptionnelle et urgente ?

      C’est à tous les niveaux que cette perte de lucidité juridique s’observe en ce moment, en réalité. L’enseignement supérieur et la recherche, on l’aura compris des différents articles publiés sur Academia depuis le début de l’épidémie, n’échappe pas à ce constat1. Que les circonstances soient exceptionnelles, c’est une chose ; qu’elles autorisent le ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et les établissements qui en relèvent, à faire n’importe quoi, c’en est une autre. Pour la communauté de l’ESR, la situation devient très désagréable : englué dans l’urgence de la situation et le bouleversement de nos quotidiens, on regarde, sidéré, les « consignes » tomber. Il est temps, cependant, de reprendre collectivement notre lucidité juridique2, pour ne pas être écrasés par l’exceptionnalité du moment : vérifions une à une la validité de ces injonctions, et faisons la part des choses.
      La continuité pédagogique, certes, mais à quelles conditions juridiques ?

      La continuité pédagogique est la grande injonction du moment, et elle autorise tous les abus. À l’évidence, certains – au ministère, dans les rectorats et dans nos universités – semblent intimement persuadés que le vieux principe juridique de « continuité du service public », associé aux circonstances exceptionnelles qui sont les nôtres, suffit à recouvrir d’un voile de légalité chacune des décisions qui sont prises.

      Qu’il existe un principe de continuité du service public, c’est certain, tout comme il est certain que le juge administratif a toujours été compréhensif vis-à-vis des administrations qui, confrontées à une circonstance exceptionnelle, prenaient quelques largesses avec le droit auquel elles étaient soumises. Mais il serait désastreux que l’on prenne ces deux certitudes pour un argumentaire juridique à toute épreuve : à ce niveau de généralité, il ne s’agit que d’une mauvaise bouillie de droit administratif.

      Commençons plutôt par rappeler une donnée simple. Ni les « plans de continuité pédagogique » divers et variés qui inondent nos boîtes mail, ni les « plans de continuité des activités » (PCA) que tous les établissements arborent désormais pompeusement ne produisent du droit et n’ont pas davantage d’autorité réglementaire. Ils ne le peuvent tout simplement pas : ce sont tantôt des conseils, tantôt des mesures d’organisation des services ; mais, dans tous les cas, ce ne sont pas des mesures d’une force juridique suffisante pour introduire des dérogations au droit de la fonction publique, et encore moins des limitations aux libertés universitaires.

      Reprenons, à partir de là, les choses dans l’ordre. La réalité juridique actuelle dans les universités est bien plus prosaïque qu’on ne le croit, en fait. Elle tient en deux phrases : sur le fondement du décret du 23 mars 2020 « prescrivant les mesures générales nécessaires pour faire face à l’épidémie de covid-19 dans le cadre de l’état d’urgence sanitaire »,

      1° nos universités sont fermées aux « usagers des activités de formation », c’est-à-dire aux étudiants (article 9) ; et
      2° nous n’avons, pas davantage que nos étudiants, le droit d’y accéder, car, pour l’immense majorité d’entre nous, les trajets entre nos domiciles et nos établissements ne sont pas considérés comme des déplacements « insusceptibles d’être différés » (article 3).

      À ce stade, nous ne voyons rien d’autre sur le plan des textes juridiques. Ce ne sont pas les occasions légistiques qui ont manqué, pourtant : une loi et 31 ordonnances ont été publiées au Journal officiel la semaine dernière pour « faire face à l’épidémie », sans compter les multiples décrets et arrêtés. Mais c’est ainsi : le décret du 23 mars 2020 ne dit rien qui pourrait concerner la continuité pédagogique, pas plus que la loi d’urgence du 23 mars 2020. Aucune mesure d’« adaptation provisoire » du décret du 6 juin 1984 – le statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences –, et en particulier de son article 7 sur les services d’enseignement, n’a par ailleurs été prise. Et rien n’a été modifié quant aux conditions d’application du décret du 11 février 2016 sur la mise en œuvre du télétravail dans la fonction publique.

      Cette donnée juridique là, ce ne sont pas les « fiches » de la direction générale de l’Enseignement supérieur et de l’Insertion professionnelle qui y changeront quoi que ce soit, pas plus que la flopée de mails de nos présidents d’université. Pour le dire autrement, s’il existe bien un principe de continuité du service public, et quand bien même les circonstances sont exceptionnelles, ni la DGESIP, ni les présidents d’université n’ont un titre juridique suffisant pour ordonner ce que l’on doit faire pour assurer la continuité pédagogique. Il serait très grave que ce principe soit oublié dans le contexte dramatique actuel, et il est crucial de tenir bon sur ce point, alors que les présidents viennent déjà de recevoir des pouvoirs exorbitants pour décider des formes des prochains examens – une question qui relève, pourtant, directement des choix pédagogiques ((Sur les marges de manœuvre considérables qui sont reconnues aux présidents, ainsi que sur les interrogations quant aux concours de recrutement, nous renvoyons aux analyses – encore à approfondir – de l’ordonnance du 27 mars 2020 relative à l’organisation des examens et concours pendant la crise sanitaire née de l’épidémie de covid-19 : « Il n’est pas besoin de beaucoup de mots » : dérogations à tout va dans les universités, 28 mars 2020 et Oups ! Fin prématurée des mandats de présidents d’université ?, 29 mars 2020.)).

      Sans texte juridique, aucun dispositif précis de contrôle ne peut d’ailleurs être introduit. Qui aurait le droit de décider qu’une heure d’enseignement vaut une heure de vidéo ou de son, ou X pages de cours ? Qui aurait le droit de procéder à de telles équivalences, alors même que le bouleversement de notre cadre de travail est sans équivalent ? La règle, si règle il y a, elle est bien simple : chacun fait ce qu’il peut et ce qu’il se sent de faire, selon ses possibilités personnelles et familiales, son environnement de travail et son état psychologique. Personne, en particulier, ne pourra être sanctionné parce qu’il n’a pas assuré l’intégralité de son service : il manquerait un fondement juridique à cela, tout simplement parce que personne n’aura enfreint aucune règle, tant que les règles n’auront pas été modifiées. N’inversons pas l’ordre des choses, tout simplement : ce que fait le droit pour l’instant, ce n’est pas de nous obliger à une quelconque continuité pédagogique ; ce qu’il fait, c’est de nous confiner, donc de nous empêcher d’assurer nos heures d’enseignement relevant de nos obligations statutaires ou de nos contrats.

      Pour que les choses soient parfaitement claires : cela ne signifie pas qu’il n’y a aucune obligation de télétravail. En effet, même si, du côté de la fonction publique, il n’existe pas l’équivalent de l’article L. 1222-11 du code du travail, il ne fait aucun doute qu’en cas de contentieux, le juge administratif soutiendra qu’en période d’épidémie, la mise en œuvre du télétravail doit être considérée comme un aménagement du poste de travail rendu nécessaire pour permettre la continuité du service public et garantir la protection des agents. Mais cela signifie, en revanche, qu’on ne saurait se laisser dicter les conditions de la continuité pédagogique.

      Celle-ci est littéralement nue : faute de fondement juridique, elle n’est qu’une injonction. Bien sûr, il n’est pas impossible que de nouveaux textes soient édictés dans les prochaines semaines ; mais pour l’instant, la continuité pédagogique, ce n’est que ça : une injonction parfois autoritaire, qui se drape dans l’intérêt supérieur de nos étudiants, tout en oubliant qu’elle passe en réalité par pertes et profits la dégradation considérable de la qualité des enseignements que ces mêmes étudiants reçoivent et les inégalités tout aussi considérables que l’on crée entre eux. De ce point de vue, faute de fondement juridique, la continuité pédagogique ne s’apprécie que sur le plan pédagogique, de sorte que chaque enseignant-chercheur et enseignant, au titre de sa liberté d’enseigner, est légitime à apporter sa réponse aux problèmes pédagogiques lourds que soulève l’épisode actuel : combien d’étudiants perdons-nous en route dans toute cette affaire ? Quel est, plus précisément, notre seuil d’acceptabilité ?

      Bref, s’il est évidemment crucial qu’en ces temps tourmentés, nous accompagnions du mieux que l’on peut nos étudiants, il ne faudrait pas, pour autant, que quelques collègues – parfois devenus plus managers que collègues, d’ailleurs – perdent de vue que si continuité pédagogique il y a, elle procède d’abord et avant tout de la bonne volonté et du sens du service public des personnels de l’ESR. Il ne faudrait pas non plus, d’ailleurs, qu’ils perdent de vue que dans tous les cas, l’enseignement n’occupe qu’une partie de nos fonctions : les conditions d’une continuité de la recherche doivent aussi être respectées. Nous devons avoir un peu de temps pour bosser sur nos articles et nos livres, en somme.

      Hors ce dernier point, et quand bien même la « liberté pédagogique » des enseignants de l’éducation nationale n’offre pas le même niveau d’indépendance que les libertés universitaires, on observe que ce constat vaut largement, aussi, pour les collègues enseignant dans le premier degré et dans le second degré. C’est sans doute pourquoi, d’ailleurs, la porte-parole du gouvernement a si vite rétropédalé, mercredi dernier, après ses propos sur les « enseignants qui ne travaillent pas ». Ce n’est pas seulement que ses propos étaient factuellement faux ; c’est qu’ils présentent l’inconvénient d’attirer l’attention sur une réalité juridique dont chacun devrait prendre conscience : si la « continuité pédagogique » est à l’œuvre, c’est d’abord et avant tout en raison de la bienveillance des enseignants à l’égard de leurs élèves, beaucoup plus qu’en raison d’une obligation juridique. C’est aux enseignants qu’il revient d’en déterminer le contenu et la forme.

      Voilà le fin mot : sans nous, l’éducation nationale, l’enseignement supérieur et la recherche ne sont rien, car nous portons le système. Et en ce moment – dans les « circonstances particulières de l’espèce », pour reprendre la formule du Conseil constitutionnel –, nous le portons bien au-delà de ce à quoi nous sommes obligés.

      https://academia.hypotheses.org/21798

    • Message reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte, le 17.4.2020 :

      Je partage avec vous un email reçu il y a 2 ans m’indiquant que la visioconférence prise en charge avec un équipement professionnel n’était pas envisageable mais aujourd’hui l’université impose la continuité pédagogique de la même discipline sur la plateforme #moodle avec des heures fixées et un temps imparti pour réaliser le devoir.
      Il paraît évident qu’à présent que les étudiants sont enfermés chez eux avec un ordinateur de fortune et une connexion internet basique, tout devient possible.

      C’est #carnavalesque !

      –-----------

      Bonsoir,

      J’ai lu avec attention votre message concernant $$$$$$$$.
      Je comprends aisément, à l’insistance de vos messages, combien la discipline vous tient à cœur au sein de l’université.

      Toutefois, je tiens à vous informer que le $$$$$$$$ n’est pas référencé dans les maquettes pédagogiques proposées par $$$$$$$$ ... et il n’est donc pas envisageable, sous quelque régime que ce soit, d’organiser un enseignement de $$$$$$$$.

      De manière complètement partagée par l’ensemble de l’équipe pédagogique locale, la formule de la visio conférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique, notamment, et surtout, pour ce type de matière, basée d’abord (et surtout) sur la notion de « dialogue permanent et fluide ». « L’échange » (réel, et non pas biaisé) avec un enseignant reste primordial si l’on désire garantir un certain niveau de résultat, ce que le système ne permet pas vraiment à ce jour, aussi performant soit-il technologiquement.

      Nos étudiants le savent parfaitement et en ont accepté le principe : le niveau d’exigence attendu dans toutes les matières dispensées présentiellement est perçu par eux comme relativement élevé.

      Je ne voudrais pas néanmoins que vous en concluiez que le $$$$$$$$ restera, par choix institutionnel, à jamais « sinistré » $$$$$$$$.
      S’il est une solution à envisager, je pense qu’il conviendrait de la mettre en œuvre en partenariat avec le service du $$$$$$$$, dont $$$$$$$$ constitue la mission première. A travers lui, des étudiants passionnés isolés pourraient trouver tout à loisir réponse à leurs attentes.
      Je vous invite donc désormais à plutôt vous adresser à $$$$$$$$, qui en est la directrice à $$$$$$$$.

      Ayant je l’espère apporté tous les éclairages nécessaires (et suffisants) à vos préoccupations et à votre démarche,
      Bien cordialement,

      –-> vous avez vu cette phrase, qui date, selon la personne qui envoyé le message, d’il y a 2 ans ??

      "la formule de la #visioconférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique"

      #visio-conférence

    • Oui à la continuité pédagogique à l’université, mais sans évaluation !

      Plus de 120 enseignants-chercheurs, issus de différentes universités, s’élèvent contre l’évaluation des étudiants pendant cette période de confinement. « Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes ». Une évaluation reviendrait à les renforcer davantage.

      Nous vivons une situation de crise exceptionnelle et historique, malgré cela de nombreux acteurs de l’enseignement supérieur sont dans la continuité (des examens, des concours…) comme si tout pouvait se poursuivre normalement. Or pour de nombreux étudiants, la situation actuelle de confinement n’est pas propice pour étudier convenablement à l’université. S’il est ainsi souhaitable de leur proposer des enseignements à distance, les évaluer sur des notions travaillées pendant cette période reviendrait à créer de profondes inégalités.

      Tout comme l’enseignement primaire et secondaire, l’université s’est lancée dans la poursuite des enseignements (cours magistraux, travaux dirigés, parfois même travaux pratiques) effectués avant le début du confinement. Les enseignants et enseignants-chercheurs ont souvent dû faire preuve d’ingéniosité et de ténacité pour continuer sur leur lancée. Contrairement au primaire et au secondaire où les enseignants doivent suivre les directives ministérielles, ceux de l’université ont une certaine liberté sur le contenu et les modalités pédagogiques (notamment l’évaluation) de leurs enseignements.

      Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes. En temps normal, elles sont quelque peu lissées : les étudiants peuvent tous assister (au moins en partie) aux cours, même s’ils ont de longs trajets ou s’ils doivent travailler à côté pour subvenir à leurs besoins… L’université met en effet à leur disposition des bibliothèques universitaires pour travailler au calme et utiliser des ressources documentaires, des ordinateurs, du réseau (wifi), parfois des imprimantes… Comme elle ne fournit pas ou peu d’ordinateurs portables aux étudiants ni de connexion Internet « à la maison », cette période de confinement et de « continuité pédagogique » repose uniquement sur les outils et accès au réseau personnels des étudiants.

      Des sondages réalisés récemment auprès d’étudiants de différents instituts montrent qu’un nombre non négligeable d’étudiants dispose uniquement d’un smartphone, ou doit partager ordinateur ou tablette avec le reste de la famille. L’étudiant muni seulement de son smartphone est alors fortement dépendant de son forfait personnel, mais aussi du réseau local. Une de nos étudiantes, confinée à la campagne, doit aller en haut d’une colline pour simplement lire ses mails ! Ne parlons pas de suivre des cours en ligne… Ou de lire un polycopié sur un écran de téléphone. Même avec un ordinateur, la qualité de la connexion peut être insuffisante pour assurer le suivi de cours en ligne avec des vidéos particulièrement gourmandes en termes de débit numérique.

      Au-delà de ces conditions techniques, il faut également bénéficier d’un endroit calme pour travailler pendant une partie substantielle de la journée, ce qui n’a rien d’évident. Dans une filière de l’université Paris Saclay où un sondage auprès des étudiants a été effectué, seuls les deux tiers des étudiants peuvent s’isoler pour travailler. Nombre d’étudiants doivent ainsi composer avec un logement étroit pour une famille, garder des frères et sœurs, etc. Certains doivent poursuivre leur travail alimentaire à côté : une étudiante caissière doit faire plus d’heures qu’en temps normal à cause de l’épidémie, elle est donc moins disponible pour suivre les cours. Il peut en outre y avoir des tensions au sein de la famille, moins perceptibles habituellement. On peut ainsi constater toutes sortes de situations bien réelles, qui sont objectivement un frein à l’apprentissage à distance.

      Malgré cela des cours en ligne ont lieu. On peut ici saluer le travail remarquable fait par les enseignants qui, s’ils sont en général confinés dans de meilleures conditions que leurs étudiants, sont également confrontés à certaines difficultés évoquées plus haut.

      La situation exceptionnelle que nous vivons est particulièrement anxiogène : étudier dans ces conditions est loin d’être optimal. Prolonger alors un cours à distance, en confinement, est une façon de penser à autre chose non seulement pour les étudiants qui peuvent le suivre décemment, mais aussi pour les enseignants. « Je dirais que les cours en visio sont ce qu’il y a de plus constructif et agréable, les rapports humains étant presque absents dans ce confinement, ils permettent d’entretenir du lien et d’entendre la voix de nos professeurs », témoigne ainsi une étudiante de l’Inalco.

      Compte tenu de toutes ces raisons, il est important que les enseignants poursuivent tant bien que mal leurs cours et travaux dirigés par l’intermédiaire d’outils de visualisation en ligne. En revanche, ces parties de cours effectuées depuis le début du confinement ne doivent pas faire l’objet d’une évaluation des étudiants ⎼⎼ à distance ou pas ⎼⎼ visant à l’attribution d’une note comptant dans la scolarité, sous peine d’amplifier les inégalités entre eux. Des examens pourront éventuellement se tenir à l’issue du confinement, dans les locaux des universités, et non en ligne, et ne devront pas porter sur des concepts vus pendant le confinement.

      Le service public d’enseignement supérieur fait un travail admirable pour le suivi pédagogique des étudiants à distance. Néanmoins, les processus d’enseignement à distance mis en place doivent faire figure d’exception et non devenir une norme, rien ne peut remplacer la présence physique d’un enseignant dans le processus d’apprentissage. « Par rapport à un cours présentiel, chaque activité me demande deux fois plus de temps. Les cours en ligne me demandent un travail très important et j’ai du mal à tout assimiler. Apprendre un concept seul ou avec de faibles interactions est beaucoup plus compliqué qu’en présentiel. » rapporte une étudiante de l’université Grenoble Alpes.

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/220420/oui-la-continuite-pedagogique-l-universite-mais-sans-evaluation

  • Une partie de l’#aide_au_développement des pays pauvres est détournée vers les paradis fiscaux

    Trois chercheurs ont étudié les #flux_financiers de vingt-deux Etats, dans un rapport publié par la Banque mondiale.

    C’est en découvrant qu’une hausse des #cours_du_pétrole entraînait un afflux de capitaux vers les paradis fiscaux que #Bob_Rijkers, économiste à la #Banque_mondiale, a eu cette idée de recherche : et si l’aide au développement produisait les mêmes effets ? La réponse est oui.

    A la question « Les élites captent-elles l’aide au développement ? », le rapport publié, mardi 18 février, par la Banque mondiale (http://documents.worldbank.org/curated/en/493201582052636710/pdf/Elite-Capture-of-Foreign-Aid-Evidence-from-Offshore-Bank-Accoun) conclut : « Les versements d’aides vers les pays les plus dépendants coïncident avec une augmentation importante de #transferts vers des #centres_financiers_offshore connus pour leur opacité et leur gestion privée de fortune. »

    Autrement dit, une partie de l’#aide_publique_au_développement dans les pays pauvres est détournée vers les paradis fiscaux. Le #taux_de_fuite présumée s’élève en moyenne à 7,5 %.

    Un article publié, le 13 février, par le magazine britannique The Economist laisse entendre que les hauts responsables de la Banque mondiale n’ont pas franchement apprécié les conclusions des trois chercheurs, dont deux sont indépendants. La publication du #rapport aurait été bloquée, en novembre 2019, par l’état-major de l’institution dont le siège est à Washington, ce qui aurait précipité le départ de son économiste en chef, #Pinelopi_Goldberg, qui a annoncé sa démission, début février, seulement quinze mois après sa nomination.

    « Coïncidence » plutôt qu’un lien de causalité

    « Il est possible que la Banque mondiale l’ait irritée en décidant de bloquer la publication d’une étude de son équipe », écrit The Economist, citant d’autres hypothèses, comme la réorganisation de la Banque, qui place désormais l’économiste en chef sous la tutelle de la nouvelle directrice opérationnelle, Mari Pangestu. Dans le courriel envoyé le 5 février en interne pour annoncer sa démission, et auquel Le Monde a eu accès, Mme Goldberg reconnaît seulement que sa décision était « difficile » à prendre, mais qu’il était temps pour elle de retourner enseigner à l’université américaine de Yale (Connecticut).

    #Niels_Johannesen, l’un des coauteurs de l’étude, qui enseigne à l’université de Copenhague et n’est pas employé à la Banque mondiale, l’a d’abord mise en ligne sur son site Internet, avant de la retirer quelques jours plus tard, afin qu’elle soit modifiée et, finalement, approuvée cette semaine par l’Institution.

    Dans la première version, les auteurs expliquent que les versements d’aides sont la « cause » des transferts d’argent vers les #centres_offshore, tandis que dans la version finale, ils préfèrent évoquer une « #coïncidence » plutôt qu’un #lien_de_causalité. « Les modifications ont été approuvées par les auteurs, et je suis satisfait du résultat final », tient à préciser Niels Johannesen. Dans un communiqué publié, mardi 18 février, la Banque mondiale, qui publie près de 400 études chaque année, explique « prendre très au sérieux la corruption et les risques fiduciaires qui lui sont liés ».

    Les chercheurs ont croisé les données de la #Banque_des_règlements_internationaux (#BRI), à savoir les flux financiers entre les paradis fiscaux et vingt-deux pays pauvres, avec les #déboursements que ces derniers reçoivent de la Banque mondiale. Les deux coïncident sur un intervalle trimestriel. Les pays pauvres qui reçoivent une aide publique au développement équivalente à 1 % de leur produit intérieur brut voient leurs transferts vers les centres offshore augmenter en moyenne de 3 % par rapport à ceux qui ne reçoivent aucune assistance.

    « Elites économiques »

    Les auteurs ont éliminé d’autres hypothèses pouvant expliquer ces transferts massifs. Ils ont vérifié qu’aucun événement exceptionnel, comme une crise économique ou une catastrophe naturelle, ne justifiait une sortie de capitaux plus élevée que d’ordinaire, et ont constaté que cette hausse ne bénéficiait pas à d’autres centres financiers plus transparents, comme l’Allemagne ou la France.

    Vingt-deux pays pauvres, dont une majorité se trouvent en #Afrique, ont été inclus dans l’étude pour donner à l’échantillon une taille suffisamment importante, d’où la difficulté d’en tirer des leçons sur un pays en particulier. Autre limite : les données sont collectées à partir de 1990 et ne vont pas au-delà de 2010. « Certains pays sont réticents à ce que la BRI nous fournisse des données récentes », regrette M. Johannesen.

    Malgré toutes ces limitations, les auteurs de l’étude estiment qu’« il est presque certain que les bénéficiaires de cet argent, envoyé vers les centres offshore au moment où leur pays reçoit une aide au développement, appartiennent à l’élite économique ». Les populations de ces pays pauvres ne détiennent souvent aucun compte bancaire, encore moins à l’étranger.

    https://www.lemonde.fr/economie/article/2020/02/21/dans-les-pays-pauvres-le-versement-de-l-aide-au-developpement-coincide-avec-
    #développement #coopération_au_développement #paradis_fiscaux #corruption #follow_the_money #détournement_d'argent #APD

    signalé par @isskein
    ping @reka @simplicissimus @fil

  • Le gouvernement laisse les #cours_d’eau à la merci des #pesticides
    https://reporterre.net/Le-gouvernement-laisse-les-cours-d-eau-a-la-merci-des-pesticides

    Après des mois de tergiversation, le gouvernement a enfin pris un arrêté pour limiter les épandages de produits phytosanitaires près des habitation. Les riverains devraient être mieux protégés face aux pesticides. Mais qu’en est-il de l’eau que nous buvons ? À l’origine, notre loi sauvegarde les rivières, canaux et autres lacs des contaminations en interdisant à leurs abords tout versement de substances biocides. C’est ce qu’on appelle les « zones de non-traitement » (#ZNT). Mais depuis quelques années, le lobby agricole pousse de tous les côtés afin d’affaiblir cette législation, qu’il juge complexe et contre-productive.

    Comme Reporterre l’avait raconté, la #FNSEA — le syndicat agricole majoritaire — et ses alliés ont d’abord choisi d’attaquer la définition même d’une rivière. Car, sans le statut protecteur de « cours d’eau », un écoulement se retrouve hors des radars des lois encadrant les pratiques agricoles et limitant les travaux de calibrage, les constructions et autres barrages hydrauliques).

    Dans les faits, une partie de la profession agricole a exigé — et obtenu — une cartographie hydrographique, département par département, se fondant sur une définition au rabais d’un cours d’eau, excluant d’innombrables ruisselets mais également des canaux pluriséculaires, comme dans le marais poitevin. À force de pression, des centaines de kilomètres d’écoulements ont été purement et simplement gommés. Le hic, pour les tenants de ce travail de détricotage — ou de simplification, c’est selon — : ces nouvelles cartes, qualifiées « police de l’eau », n’avaient alors aucune valeur juridique, elles n’étaient qu’indicatives. L’État est donc venu parachever le sabordage. En mai 2017, le gouvernement a ainsi pris un arrêté « relatif à l’utilisation des #produits_phytopharmaceutiques et de leurs adjuvants », interdisant comme il se doit l’usage de pesticides aux abords des points d’eau… tout en restant très flou quant à la définition de ces points d’eau. Pire, il a renvoyé la patate chaude aux préfets.