• Déforestation au Brésil : quatre banques françaises visées par une plainte pour blanchiment
    https://disclose.ngo/fr/article/deforestation-au-bresil-quatre-banques-francaises-visees-par-une-plainte-p

    BNP Paribas, Crédit Agricole, le groupe BPCE et Axa sont accusés d’avoir tiré profit de la déforestation illégale en Amazonie, en finançant l’industrie brésilienne du bœuf. L’ONG Sherpa, qui s’appuie notamment sur les révélations de Disclose, vient de déposer plainte au Parquet national financier pour blanchiment et recel de délits environnementaux. Lire l’article

  • Gli affari dei “campioni italiani” con il regime di #al-Sisi in Egitto

    #Eni, #Snam, #Intesa_Sanpaolo e #Sace hanno stretto in questi anni rapporti proficui con il governo del Cairo, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Nemmeno l’omicidio di Giulio Regeni ha segnato un punto di svolta nella fossile “campagna d’Egitto”. Il dettagliato report di ReCommon (https://www.recommon.org) in occasione della Cop27 sul clima.

    Perché Eni ha continuato ad aumentare i propri investimenti in Egitto persino dopo che sono emersi possibili legami tra l’assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni e il regime di Abdel Fattah al-Sisi? Qual è stata la destinazione finale degli ingenti finanziamenti che Intesa Sanpaolo ha concesso al ministero della Difesa e al ministero delle Finanze egiziani? Perché l’assicuratore pubblico Sace non ha avuto alcuna remora nel garantire la raffineria di Assiut, nonostante altri attori finanziari fossero preoccupati per le implicazioni reputazionali derivanti proprio dal “caso Regeni”? E perché Snam non pubblica ancora l’elenco completo degli azionisti dell’East mediterranean gas company?

    Sono solo alcune delle domande che ReCommon ha rivolto alle principali aziende e società italiane che hanno stretto in questi anni rapporti proficui con il governo egiziano, accusato di gravi e ripetute violazioni dei diritti umani (su tutte la detenzione di circa 60mila dissidenti politici) e che si rifiuta di collaborare con gli inquirenti italiani nelle indagini sul rapimento, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Gli interrogativi, insieme a un’attenta analisi degli interessi economici delle singole realtà, è contenuta nel dossier “La campagna d’Egitto – Gli affari dei ‘campioni’ italiani con il regime di al-Sisi” pubblicato il 7 novembre 2022, all’indomani dell’apertura della 27esima Conferenza della Nazioni Unite sul clima (Cop27) che si svolge a Sharm el-Sheikh. Un documento preciso e dettagliato da cui emerge, ancora una volta, come il business prevalga sui diritti umani e sui processi democratici.

    L’Egitto è un punto di investimento centrale per Eni, che lì possiede circa il 20% delle proprie riserve di gas con una produzione annuale di 15 miliardi di metri cubi (pari al 30% del totale dell’azienda e al 60% di quella egiziana) per un utile di 5,2 miliardi di euro in cinque anni, che costituisce circa un terzo degli utili complessivi della divisione “Esplorazione e produzione”.

    Uno snodo chiave negli interessi dell’azienda in Egitto è stata la scoperta ad agosto 2015 del giacimento sottomarino “Zohr” che, secondo le esplorazioni di Eni, conterebbe circa 850 miliardi di metri cubi di gas: si tratterebbe quindi di una delle maggiori riserve a livello mondiale e la più grande nel Mediterraneo. Con l’omicidio Regeni, rinvenuto il 2 febbraio 2016, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi si sono però complicate. “Abbiamo detto chiaramente che noi siamo per i diritti umani, per questo pretendiamo chiarezza assoluta. La vogliamo come italiani e come Eni”, aveva dichiarato Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’azienda, a Il Messaggero il 6 marzo 2016. Ma solo pochi giorni prima, il 21 febbraio, la sua società aveva ottenuto l’assegnazione proprio dell’appalto per il giacimento “Zohr”.

    Secondo ReCommon al centro dei legami tra Eni e il regime di al-Sisi vi sarebbero i debiti accumulati dalle aziende energetiche egiziane nei confronti delle compagnie fossili straniere che nel 2013, anno della presa del potere da parte del generale, avevano raggiunto quota sei miliardi di euro. In particolare Eni era tra le aziende più esposte, con un ammontare di crediti scaduti pari a un miliardo di euro. Nel 2015 l’azienda italiana è riuscita però ad accordarsi con l’Egitto garantendo cinque miliardi di euro in investimenti in cambio di condizioni contrattuali favorevoli che comprendono anche un raddoppio del prezzo del gas che il Paese acquista dall’azienda. “Di lì a poco la società realizzerà la maxi scoperta di ‘Zohr’ e nel giro di qualche anno i debiti contratti dallo Stato egiziano risulteranno azzerati. Non c’è ombra di dubbio che, dal punto di vista degli affari, Eni abbia vinto la sua scommessa, accettando però di legarsi al regime egiziano con un nodo così stretto da non allentarsi neppure di fronte all’uccisione di un cittadino italiano”, ricorda ReCommon. Inoltre grazie ai progetti realizzati da Eni, il regime di al-Sisi è riuscito a conquistarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere energetico regionale ed europeo

    Anche Snam, il più grande operatore d’Europa per quanto riguarda il trasporto del gas e che gestisce una rete di 41mila chilometri e una capacità di stoccaggio di 20 miliardi di metri cubi, partecipata dallo Stato italiano, vanta numerosi affari nel Paese nordafricano. L’azienda ha acquistato a dicembre 2021 il 25% della East mediterranean gas company (Emg), proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon che collega Israele ed Egitto, anche noto come “Gasdotto della pace”. Secondo ReCommon tra gli azionisti di Emg vi sarebbero Emed, una società “partecipata dalla israeliana Delek Drilling e dal gruppo statunitense Chevron” e che controlla il 39% di Emg. Secondo le inchieste di ReCommon e della testata investigativa egiziana Mada Masr, Emed avrebbe legami con i vertici dei servizi segreti egiziani.

    “Tutti questi investimenti infrastrutturali vengono attuati grazie agli istituti di credito e alle istituzioni finanziarie. In prima fila c’è Bank of Alexandria, la sussidiaria locale del primo gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo”, ricorda ReCommon. L’istituto è la quinta banca d’Egitto e conta 1,5 milioni di clienti su 179 filiali. Nel 2006 il governo di Hosni Mubarak aveva venduto per 1,6 miliardi di dollari l’80% delle azioni della banca a Intesa Sanpaolo. Bank of Alexandria, partecipata anche dal governo egiziano, afferma di essere il canale privilegiato degli investimenti italiani nel Paese nordafricano, tra cui il settore oil&gas e quello degli armamenti.

    A garanzia degli investimenti vi è poi Sace, l’assicuratore pubblico italiano controllato dal ministero dell’Economia, che tra il 2016 e il 2021 ha emesso garanzie a progetti oil&gas per un totale di 13,7 miliardi di euro, ponendosi così al terzo posto per il supporto finanziario all’industria fossile dopo le controparti canadesi e statunitensi. In Egitto, Sace ha emesso garanzie per 3,9 miliardi di euro. Tra le infrastrutture supportate dall’istituto vi sono due raffinerie: la Middle East oil refinery (Midor) e l’Assiut oil refinery (Aor), entrambe in capo all’Egyptian general petroleum corporation (Egpc), l’azienda petrolifera di Stato.

    Per realizzare Midor, Sace ha garantito i prestiti di Bnp Paribas, Crédit agricole e Cassa depositi e prestiti (Cdp) per un ammontare di 1,2 miliardi di euro. Mentre per quanto riguarda la raffineria di Assiut, Sace ha agito in modo simile garantendo a febbraio 2022 un supporto finanziario pari a 1,32 miliardi di euro: l’impianto è la più grande raffineria dell’Egitto meridionale e si tratta di un’infrastruttura strategica per al-Sisi che ha presenziato personalmente l’inaugurazione dei lavori il 22 dicembre 2021. Tuttavia secondo le ricostruzioni dei quotidiani StartMag e Milano Finanza (citate nel report di ReCommon) vi sarebbero state delle resistenze all’interno di Cdp in merito al finanziamento della raffineria dovute alla “scarsa sostenibilità ambientale e a imprecisate ‘considerazioni geopolitiche’”.

    La stima di 3,9 miliardi di euro relativa alle garanzie di Sace comprende però solo il supporto alle operazioni classificate di categoria A e B cioè “quei progetti che possono avere ripercussioni ambientali e sociali che vanno da gravi a irreversibili: raffinerie, oleodotti, gasdotti, centrali termoelettriche, petrolchimici, dighe e altre mega-infrastrutture”. Sace, infatti, non è obbligata a riportare le altre categorie di investimento tra cui possono ricadere armamenti come ad esempio l’acquisto di due fregate militari italiane da parte dell’Egitto da Fincantieri nel 2020 per un totale di 1,2 miliardi di euro. L’esposizione storica di Sace al regime del Generale al-Sisi è quindi molto superiore ai 3,9 miliardi di euro dichiarati.

    https://altreconomia.it/gli-affari-dei-campioni-italiani-con-il-regime-di-al-sisi-in-egitto

    #Italie #Egypte #Regeni #Giulio_Regeni #Assiut #pétrole #raffinerie #East_mediterranean_gas_company (#EMG) #droits_humains #Zohr #gaz #énergie #gazduc #gazduc_Arish-Ashkelon #Emed #Delek_Drilling #Chevron #Bank_of_Alexandria #Middle_East_oil_refinery (#Midor) #Assiut_oil_refinery (#Aor) #Egyptian_general_petroleum_corporation (#Egpc) #Bnp_Paribas #Crédit_agricole #Cassa_depositi_e_prestiti (#Cdp) #Fincantieri

  • Guerre en Ukraine : Auchan, Decathlon, Lactalis, Danone… les Français exposés
    https://www.lsa-conso.fr/guerre-en-ukraine-auchan-leroy-merlin-decathlon-lactalis-danone-les-entrep
    L’attaque dans la nuit du 23 au 24 février par l’armée russe d’un grand nombre de cibles militaires en Ukraine place sous les projecteurs l’importante activité des entreprises françaises dans le pays, en particulier les distributeurs avec la présence de 3 enseignes du groupe Mulliez (Auchan, Leroy Merlin et Decathlon) mais aussi l’industrie agroalimentaire avec des implantations pour Lactalis, Danone, Savencia, Soufflet, etc… Selon un extrait d’un document des douanes françaises, près de 160 entreprises françaises sont aujourd’hui implantées en Ukraine, employant 30 000 personnes et faisant de la France le premier employeur international en Ukraine. Elles sont présentes notamment dans la grande distribution (groupe Auchan, Decathlon), la banque (Crédit Agricole et BNP Paribas), l’agroalimentaire (notamment Louis Dreyfus, groupe Soufflet, Danone, Lactalis, Savencia, Malteurop, Limagrain), et le numérique (Ubisoft, Blablacar).


    Auchan compte 40 magasins en Ukraine dont 21 hypers pour 6000 salariés. Sur la photo un hypermarché Auhan à Kiev.

    15 entreprises agroalimentaires tricolores présentes en Ukraine
    Le site de la direction du Trésor indique par ailleurs qu’une quinzaine d’entreprises agroalimentaires et agricoles françaises sont présentes en Ukraine, plus particulièrement dans les domaines de la production, du négoce et de la transformation des céréales (Soufflet, Louis Dreyfus, Malteurop), de la transformation du lait (Danone, Lactalis, Savencia - Bongrain Zveniogorod), et de la production de semences végétales : Limagrain, MAS seeds (qui a ouvert récemment un centre de recherche à Borispil) et Euralis, groupes coopératifs ayant investi dans des unités de production.

    40 magasins Auchan, 5 Decathlon, 6 Leroy Merlin
    La distribution française est également présente en Ukraine via essentiellement des enseignes appartenant à la galaxie Mulliez. Contacté par LSA, Auchan retail qui mentionnait 26 magasins dans le pays dans son dernier rapport annuel, en compte en fait 40 aujourd’hui suite à des acquisitions notamment, dont 21 hypers, ce qui le situe au troisième rang de la distribution alimentaire locale. "Nous restons très attentifs à la situation, commente un porte parole du groupe qui ne notait néanmoins pas d’incidence sur les ouvertures de la plupart de ses magasins ce matin, précisant que l’enseigne ne compte aucun magasin dans le Donbass. Auchan emploie 6000 salariés dans le pays dont 3 expatriés (2 Français). Leroy Merlin, autre paquebot de l’Association Familiale Mulliez compte lui 6 magasins en Ukraine, 5 à Kiev 1 à Odessa. Enfin, Decathlon exploite 5 magasins en Ukraine, dont le premier a ouvert en 2019. « Nous restons attentifs, suivons et suivrons scrupuleusement les consignes gouvernementales », indique sobrement à LSA un porte-parole de l’enseigne de sport.

    Quid des activités françaises en Russie ?
    Mais pour ces trois distributeurs, ainsi que certains des industriels cités, s’ajoute un autre point de préoccupation, sans doute au moins aussi important. Quelles vont être les conséquences de la guerre pour leurs implantations et leurs activités en Russie cette fois-ci, où leurs infrastructures et leur poids économiques sont bien plus importants qu’en Ukraine. Selon son dernier rapport annuel, Auchan retail exploite 255 magasins en Russie (63 hypers, 193 supers) pour un chiffre d’affaires évalué à 4 milliards d’euros selon la presse locale, ce qui en fait le second pays du groupe après la France. L’enseigne emploie 30000 personnes en Russie, dont 25 expatriés. Pour Leroy Merlin, le pays est encore plus important. On estime que le champion français du bricolage y réalise plus de 5 milliards d’euros de chiffre d’affaires avec 112 magasins en Russie dans 56 villes selon les dernières données de l’enseigne. Quant à Decathlon, il compte 61 magasins en Russie, pays où il s’est implanté dès 2006. Est-ce que l’opposition française à la guerre contre l’Ukraine aura des répercussions directes ou indirectes sur leurs ventes et leur activité ? Bien malin qui pourra le prévoir au premier jour du conflit.

    Danone et Lactalis plus exposés en Russie qu’en Ukraine
    La Russie est aussi le pays où Danone est le plus exposé à des conséquences du conflit. Selon les données du groupe, le pays présidé par Vladimir Poutine représente environ 5% des revenus de Danone en 2021, et l’Ukraine moins de 1%. « Dans ces deux pays, nous opérons principalement dans la catégorie EDP (produits laitiers et d’origine végétale), avec un modèle principalement local, de la collecte de lait à la production et à la distribution », indique un porte-parole qui précise : Nos équipes locales suivent évidemment de près la situation et mettent en place toutes les actions nécessaires pour assurer la sécurité de nos salariés, ainsi que la continuité de nos activités."

    Chez Lactalis, les deux pays occupent également des positions non négligeables. L’industriel lavallois réalise 175 millions d’euros de chiffre d’affaires en Russie avec 4 sites de production (Istra, Belgorod, Effremov et Ekaterinbourg), 1 siège à Istra et 1900 salariés. A noter que Belgorod est proche de la frontière Ukrainienne et qu’une base militaire importante se trouve sur cette zone. Lactalis y produit localement les produits du marché russe et indique à LSA qu’il n’y a pas, à date, « de précautions particulières prises côté russe ». Comme « il n’y a pas de relations d’affaires entre la Russie et l’Ukraine depuis 2014. » L’entreprise française exploite 3 sites de production en Ukraine (Soumy / Pavlograd / Nikolaeiev) et 1 siège (Kiev) et emploie 850 collaborateurs Ukrainiens (pas d’expatriés) pour un chiffre d’affaires d’environ 100 millions d’euros. Elle y exporte vers la Géorgie, la Moldavie et les républiques d’Asie centrale. Lactalis précise à LSA qu’en Ukraine « nous nous efforcerons de maintenir notre contribution à l’alimentation des populations dans la limite d’assurer la sécurité de nos collaborateurs, fournisseurs et clients. A date, 100% de nos sites sont opérationnels et il n’y a pas de perturbation d’approvisionnement (Lait, Emballages, Ingrédients,…). En cas de risque dans les zones où des usines sont situées, nous demanderons l’arrêt de la production et le retour anticipé des salariés à leur domicile. »

    La France, 9e fournisseur de l’Ukraine
    Autre élément à ajouter aux conséquences économiques du conflit pour les entreprises françaises : le commerce extérieur avec l’Ukraine. Les douanes françaises dans le document précité précisent que la France est le 9ème fournisseur de l’Ukraine avec une part de marché de 2,8 %, en hausse constante par rapport à son niveau d’avant crise (2,2% en 2013). Le total des échanges commerciaux entre la France et l’Ukraine atteint 1,8 Md€ en 2019, en forte augmentation par rapport à 2018 (1,5 Md€). La France occupe notamment de solides positions sur les segments des produits chimiques, parfums et cosmétiques (35,4% de nos exportations en 2019), des équipements mécaniques, matériel électrique, électronique et informatique (19,1%, dont plus des deux tiers correspondant à des machines agricoles et forestières), des matériels de transport (9,2%), des produits pharmaceutiques (8,8%) et des produits agricoles (8%). Les biens importés en France en provenance d’Ukraine sont essentiellement des produits agricoles et agroalimentaires (66,2%).

    groupe #Mulliez #Auchan #Leroy Merlin #Decathlon #Lactalis #Danone #Savencia #Soufflet #Crédit_Agricole #BNP_Paribas #Louis_Dreyfus #groupe_Soufflet #Danone #Malteurop #Limagrain #Ubisoft #Blablacar #Bongrain #Limagrain #MAS_seeds #Euralis #lavallois #Ukraine #Russie #agroalimentaire

  • Le Crédit Agricole refuse le payement en ligne de dons à l’ABP
    https://abp.bzh/le-credit-agricole-refuse-le-payment-en-ligne-de-dons-a-l-abp-48504


    CA

    Dans une communication téléphonique de ce jour la responsable des services en ligne du Credit Agricole d’Ille-et-Vilaine, Mme Laurence Martin, à signifié à l’ABP que cette banque ne pouvait fournir un service de payements en ligne directs vers le compte de l’association ABPMN « en raison du contenu politique » du site web ABP.BZH. L’association ABPMN est une association loi 1901 qui collecte les dons pour l’ABP.

  • Le Défenseur des droits s’inquiète de l’effet de la dématérialisation sur l’accès aux services publics
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2019/01/17/le-defenseur-des-droits-s-inquiete-de-l-effet-de-la-dematerialisation-sur-l-

    Alors que fin octobre, le premier ministre a redit son ambition « que 100 % des services publics soient accessibles en ligne à l’horizon 2022 », le Défenseur des droits a publié, jeudi 17 janvier, son premier rapport entièrement consacré à la #dématérialisation, dans lequel il alerte sur le risque que cette mutation crée de nouvelles #inégalités d’accès aux #services_publics. « Aucune organisation administrative, aucune évolution technologique ne peut être défendue si elle ne va pas dans le sens de l’amélioration des #droits, pour tous et pour toutes », prévient le Défenseur des droits en introduction.

    Or, c’est justement ce que souligne le rapport par des exemples concrets : l’amélioration des droits d’une majorité de Français – grâce à la simplification des démarches administratives, accessibles en ligne – ne rime pas avec l’amélioration des droits de tous. Comment font ceux qui vivent dans une zone blanche, dépourvue de toute connexion Internet et mobile ? Certes seuls 0,7 % des Français sont concernés, mais c’est tout de même 500 000 personnes. Sans compter les zones grises, où le débit de la connexion est trop faible pour réaliser de longues procédures correctement : l’inscription sur le site de #Pôle_emploi prend entre vingt et quarante-cinq minutes avec téléchargement de pièces jointes.

    Outre cette fracture territoriale, il y a aussi une fracture sociale : le rapport souligne que 19 % des Français n’ont pas d’ordinateur à domicile et 27 % pas de smartphone. Sans compter ceux qui n’ont pas non plus de scanner, équipement incontournable pour l’envoi de pièces justificatives. Il y a, en outre, une fracture culturelle : si une majorité de Français sont très à l’aise dans l’univers numérique, un tiers s’estiment peu ou pas compétent pour utiliser un ordinateur. Or, parmi eux, se trouvent ceux qui en sont les plus tributaires pour toucher les allocations auxquelles ils ont droit : personnes âgées, personnes handicapées, #allocataires de minima sociaux.

    Pannes, blocages, dérives
    Les entraves viennent aussi de problèmes techniques, défauts de conception ou manque d’ergonomie des sites hébergeant les procédures. En cela, la catastrophique mise en œuvre du Plan préfectures nouvelle génération qui, depuis novembre 2017, oblige à faire les demandes de carte grise ou de permis de conduire uniquement en ligne, semble l’exemple à ne pas suivre. Pannes, blocages, lenteurs, erreurs, ont occasionné parfois des situations préjudiciables : faute de permis, certaines personnes ont saisi le Défenseur des droits après avoir perdu leur emploi.

    Un autre exemple concerne les #droits_des_étrangers. Le dépôt des demandes de titre de séjour occasionnant d’interminables files d’attente, trente préfectures ont rendu obligatoire la prise de rendez-vous en ligne. Mais le nombre de rendez-vous étant limité, les sites bloquent toute demande dès que le quota est atteint, rendant parfois leur prise impossible.
    S’ajoutent d’autres dérives : s’engouffrant dans ces failles, des prestataires privés proposent désormais moyennant finances d’effectuer certaines démarches de carte grise comme de titres de séjour, à la place des demandeurs. Avec même parfois, dénonce le Défenseur des droits, un accès privilégié à des procédures accélérées.
    Face à ces fractures, ces loupés, ces dérives, la première recommandation du Défenseur des droits est simple : « Qu’aucune démarche administrative ne soit accessible uniquement par voie dématérialisée. »

  • Damoclès

    Le député de Macron S_Trompille insulte des #GiletsJaunes et tente visiblement d’en frapper en criant « je m’en bats les couilles » et « tu crois que je suis qui moi ?! ». 1erDecembre #StephaneTrompille

    Bonjour S_Trompille. Vous confirmez que c’est bien vous sur ces images qui vous comportez comme une racaille et qui insultez les GiletsJaunes ?

    https://www.youtube.com/watch?v=SmcMjM5NnGQ

    Source : https://twitter.com/Damocles_Fr/status/1068966177702060032

    M. Stéphane Trompille
    Député La République en Marche de l’Ain (4e circonscription) stephane.trompille@assemblee-nationale.fr

    Conseiller de clientéle de professionnels au #Crédit_Agricole
    Revenus 2017 25 344 € net + Bien sur ses émoluments de Député

    Source : http://www2.assemblee-nationale.fr/deputes/fiche/OMC_PA718682

    #Violence #en_marche #mépris_de_classe #démocratie #Twitter #guerre_aux_pauvres #alcool

    • Dans les commentaires déchainés :

      J’ai un pote qui fait ça quand il est bourré.

      Ca en devient désespérant !

      ils sont vraiment classe les députés de Lrem

      Porter ce nom « Trompille » c’est déjà assez énervant. Difficile dans ces conditions, d’échapper à la critique aisée et cependant justifiée, de vouloir à la fois Tromper et Piller le bon peuple.

      Pas d inquiétude #LREM gère la situation motus et bouche cousue

      On avait déjà eu droit à la mordeuse de chauffeur de taxi, puis à l’assomeur au casque...pas de doute, ils ont du savoir vivre, nos marcheurs...

      Vous reconnaîtrez quand même qu’il y va sans casque et sans la protection des CRS, contrairement à ce faux dur de benalla !

      #benalla'band #benalla #alexandrebenalla

  • Romain Espino, responsable identitaire, se retrouve sans travail suite à la pression des pro-migrants - Les Observateurs
    https://lesobservateurs.ch/2018/07/27/romain-espino-responsable-identitaire-a-ete-licencie-suite-a-la-pres


    Non mais délire ! Le gars il se retrouve au chômage en fin de cdd (le truc qui arrive à de milliers de personnes tous les jours) et il lance une cagnotte tipee ! C’est pour se démarquer de tous ces assistés je suppose. Il sait que Pôle emploi ça existe ? Ou alors il a peur d’y aller parce qu’il y a trop de noirs et d’arabes là-bas lol

    Soutenez-moi en faisant un don sur ma page Tipee

    on ça a dû faire du bruit parce que il y a désormais une erreur 404…

    Le 25 avril dernier par exemple, un homme se réclamant de la Ligue de défense noire africaine a fait irruption dans une agence du Crédit Agricole de Montrouge (Hauts-de-Seine) pour demander son licenciement.

    Alors ça je l’avais vu et c’était énooooorme ! Un noir un peu costaud avait débarqué TOUT SEUL à l’agence pour exprimer son mécontentement et il avait fait fuir toutes les hôtesses d’accueil qui avaient eu l’ordre de dégager alors que le mec il est arrivé tout cool avec ses questions. Il a même pas pu les poser, il s’est retrouvé avec les vigiles noirs et arabes en attendant l’arrivée de la police. Mais si ça, ça a eu un retentissement, le mec il peut être fier de lui parce que c’était vraiment l’opération solo sans pancarte ni rien du tout !
    Franchement respect Ligue de Défense Noire Africaine (LDNA) !
    Mais bon, ça tombe Espino il faisait juste pas son chiffre !
    #Espino #crédit_agricole #LDNA #génération_identitaire

  • #Accaparement_de_terres : le groupe #Bolloré accepte de négocier avec les communautés locales
    –-> un article qui date de 2014, et qui peut intéresser notamment @odilon, mais aussi d’actualité vue la plainte de Balloré contre le journal pour diffamation. Et c’est le journal qui a gagné en Cour de cassation : https://www.bastamag.net/Bollore-perd-definitivement-son-premier-proces-en-diffamation-intente-a

    Des paysans et villageois du Sierra-Leone, de #Côte_d’Ivoire, du #Cameroun et du #Cambodge sont venus spécialement jusqu’à Paris. Pour la première fois, le groupe Bolloré et sa filiale luxembourgeoise #Socfin, qui gère des #plantations industrielles de #palmiers_à_huile et d’#hévéas (pour le #caoutchouc) en Afrique et en Asie, ont accepté de participer à des négociations avec les communautés locales fédérées en « alliance des riverains des plantations Bolloré-Socfin ». Sous la houlette d’une association grenobloise, Réseaux pour l’action collective transnationale (ReAct), une réunion s’est déroulée le 24 octobre, à Paris, avec des représentants du groupe Bolloré et des communautés touchées par ces plantations.

    Ces derniers dénoncent les conséquences de l’acquisition controversée des terres agricoles, en Afrique et en Asie. Ils pointent notamment du doigt des acquisitions foncières de la #Socfin qu’ils considèrent comme « un accaparement aveugle des terres ne laissant aux riverains aucun espace vital », en particulier pour leurs cultures vivrières. Ils dénoncent également la faiblesse des compensations accordées aux communautés et le mauvais traitement qui serait réservé aux populations. Les représentants africains et cambodgiens sont venus demander au groupe Bolloré et à la Socfin de garantir leur #espace_vital en rétrocédant les terres dans le voisinage immédiat des villages, et de stopper les expansions foncières qui auraient été lancées sans l’accord des communautés.

    https://www.bastamag.net/Accaparement-de-terres-le-groupe-Bollore-accepte-de-negocier-avec-les
    #terres #Sierra_Leone #huile_de_palme

    • Bolloré, #Crédit_agricole, #Louis_Dreyfus : ces groupes français, champions de l’accaparement de terres
      –-> encore un article de 2012

      Alors que 868 millions de personnes souffrent de sous-alimentation, selon l’Onu, l’accaparement de terres agricoles par des multinationales de l’#agrobusiness ou des fonds spéculatifs se poursuit. L’équivalent de trois fois l’Allemagne a ainsi été extorqué aux paysans africains, sud-américains ou asiatiques. Les plantations destinées à l’industrie remplacent l’agriculture locale. Plusieurs grandes entreprises françaises participent à cet accaparement, avec la bénédiction des institutions financières. Enquête.

      Au Brésil, le groupe français Louis Dreyfus, spécialisé dans le négoce des matières premières, a pris possession de près de 400 000 hectares de terres : l’équivalent de la moitié de l’Alsace, la région qui a vu naître l’empire Dreyfus, avec le commerce du blé au 19ème siècle. Ces terres sont destinées aux cultures de canne à sucre et de soja. Outre le Brésil, le discret empire commercial s’est accaparé, via ses filiales Calyx Agro ou LDC Bioenergia [1], des terres en Uruguay, en Argentine ou au Paraguay. Si Robert Louis Dreyfus, décédé en 2009, n’avait gagné quasiment aucun titre avec l’Olympique de Marseille, club dont il était propriétaire, il a fait de son groupe le champion français toute catégorie dans l’accaparement des terres.

      Le Groupe Louis-Dreyfus – 56 milliards d’euros de chiffre d’affaires [2] – achète, achemine et revend tout ce que la terre peut produire : blé, soja, café, sucre, huiles, jus d’orange, riz ou coton, dont il est le « leader » mondial via sa branche de négoce, Louis-Dreyfus Commodities. Son jus d’orange provient d’une propriété de 30 000 ha au Brésil. L’équivalent de 550 exploitations agricoles françaises de taille moyenne ! Il a ouvert en 2007 la plus grande usine au monde de biodiesel à base de soja, à Claypool, au Etats-Unis (Indiana). Il possède des forêts utilisées « pour la production d’énergie issue de la biomasse, l’énergie solaire, la géothermie et l’éolien ». Sans oublier le commerce des métaux, le gaz naturel, les produits pétroliers, le charbon et la finance.

      Course effrénée à l’accaparement de terres

      En ces périodes de tensions alimentaires et de dérèglements climatiques, c’est bien l’agriculture qui semble être l’investissement le plus prometteur. « En 5 ans, nous sommes passés de 800 millions à 6,3 milliards de dollars d’actifs industriels liés à l’agriculture », se réjouissait le directeur du conglomérat, Serge Schoen [3]. Le groupe Louis Dreyfus illustre la course effrénée à l’accaparement de terres agricoles dans laquelle se sont lancées de puissantes multinationales. Sa holding figure parmi les cinq premiers gros traders de matières premières alimentaires, avec Archer Daniels Midland (États-Unis), Bunge (basé aux Bermudes), Cargill (États-Unis) et le suisse Glencore. Ces cinq multinationales, à l’acronyme ABCD, font la pluie et le beau temps sur les cours mondiaux des céréales [4].

      L’exemple de Louis Dreyfus n’est pas isolé. États, entreprises publiques ou privées, fonds souverains ou d’investissements privés multiplient les acquisitions – ou les locations – de terres dans les pays du Sud ou en Europe de l’Est. Objectif : se lancer dans le commerce des agrocarburants, exploiter les ressources du sous-sol, assurer les approvisionnements alimentaires pour les États, voire bénéficier des mécanismes de financements mis en œuvre avec les marchés carbone. Ou simplement spéculer sur l’augmentation du prix du foncier. Souvent les agricultures paysannes locales sont remplacées par des cultures industrielles intensives. Avec, à la clé, expropriation des paysans, destruction de la biodiversité, pollution par les produits chimiques agricoles, développement des cultures OGM... Sans que les créations d’emplois ne soient au rendez-vous.

      Trois fois la surface agricole de la France

      Le phénomène d’accaparement est difficile à quantifier. De nombreuses transactions se déroulent dans le plus grand secret. Difficile également de connaître l’origine des capitaux. Une équipe de la Banque mondiale a tenté de mesurer le phénomène. En vain ! « Devant les difficultés opposées au recueil des informations nécessaires (par les États comme les acteurs privés), et malgré plus d’un an de travail, ces chercheurs ont dû pour l’évaluer globalement s’en remettre aux articles de presse », explique Mathieu Perdriault de l’association Agter.

      Selon la base de données Matrice foncière, l’accaparement de terres représenterait 83 millions d’hectares dans les pays en développement. L’équivalent de près de trois fois la surface agricole française (1,7% de la surface agricole mondiale) ! Selon l’ONG Oxfam, qui vient de publier un rapport à ce sujet, « une superficie équivalant à celle de Paris est vendue à des investisseurs étrangers toutes les 10 heures », dans les pays pauvres [5].

      L’Afrique, cible d’un néocolonialisme agricole ?

      L’Afrique, en particulier l’Afrique de l’Est et la République démocratique du Congo, est la région la plus convoitée, avec 56,2 millions d’hectares. Viennent ensuite l’Asie (17,7 millions d’ha), puis l’Amérique latine (7 millions d’ha). Pourquoi certains pays se laissent-il ainsi « accaparer » ? Sous prétexte d’attirer investissements et entreprises, les réglementations fiscales, sociales et environnementales des pays les plus pauvres sont souvent plus propices. Les investisseurs se tournent également vers des pays qui leur assurent la sécurité de leurs placements. Souvent imposées par les institutions financières internationales, des clauses garantissent à l’investisseur une compensation de la part de l’État « hôte » en cas d’expropriation. Des clauses qui peuvent s’appliquer même en cas de grèves ou de manifestations.

      Les acteurs de l’accaparement des terres, privés comme publics, sont persuadés – ou feignent de l’être – que seul l’agrobusiness pourra nourrir le monde en 2050. Leurs investissements visent donc à « valoriser » des zones qui ne seraient pas encore exploitées. Mais la réalité est tout autre, comme le montre une étude de la Matrice Foncière : 45% des terres faisant l’objet d’une transaction sont des terres déjà cultivées. Et un tiers des acquisitions sont des zones boisées, très rentables lorsqu’on y organise des coupes de bois à grande échelle. Des terres sont déclarées inexploitées ou abandonnées sur la foi d’imageries satellites qui ne prennent pas en compte les usages locaux des terres.

      40% des forêts du Liberia sont ainsi gérés par des permis à usage privés [6] (lire aussi notre reportage au Liberia). Ces permis, qui permettent de contourner les lois du pays, concernent désormais 20 000 km2. Un quart de la surface du pays ! Selon Oxfam, 60% des transactions ont eu lieu dans des régions « gravement touchées par le problème de la faim » et « plus des deux tiers étaient destinées à des cultures pouvant servir à la production d’agrocarburants comme le soja, la canne à sucre, l’huile de palme ou le jatropha ». Toujours ça que les populations locales n’auront pas...

      Quand AXA et la Société générale se font propriétaires terriens

      « La participation, largement médiatisée, des États au mouvement d’acquisition massive de terre ne doit pas masquer le fait que ce sont surtout les opérateurs privés, à la poursuite d’objectifs purement économiques et financiers, qui forment le gros bataillon des investisseurs », souligne Laurent Delcourt, chercheur au Cetri. Les entreprises publiques, liées à un État, auraient acheté 11,5 millions d’hectares. Presque trois fois moins que les investisseurs étrangers privés, propriétaires de 30,3 millions d’hectares. Soit la surface de l’Italie ! Si les entreprises états-uniennes sont en pointe, les Européens figurent également en bonne place.

      Banques et assurances françaises se sont jointes à cette course à la propriété terrienne mondiale. L’assureur AXA a investi 1,2 milliard de dollars dans la société minière britannique Vedanta Resources PLC, dont les filiales ont été accusées d’accaparement des terres [7]. AXA a également investi au moins 44,6 millions de dollars dans le fond d’investissement Landkom (enregistré dans l’île de Man, un paradis fiscal), qui loue des terres agricoles en Ukraine. Quant au Crédit Agricole, il a créé – avec la Société générale – le fonds « Amundi Funds Global Agriculture ». Ses 122 millions de dollars d’actifs sont investis dans des sociétés telles que Archer Daniels Midland ou Bunge, impliquées comme le groupe Louis Dreyfus dans l’acquisition de terres à grande échelle. Les deux banques ont également lancé le « Baring Global Agriculture Fund » (133,3 millions d’euros d’actifs) qui cible les sociétés agro-industrielles. Les deux établissement incitent activement à l’acquisition de terres, comme opportunité d’investissement. Une démarche socialement responsable ?

      Vincent Bolloré, gentleman farmer

      Après le groupe Louis Dreyfus, le deuxième plus gros investisseur français dans les terres agricoles se nomme Vincent Bolloré. Son groupe, via l’entreprise Socfin et ses filiales Socfinaf et Socfinasia, est présent dans 92 pays dont 43 en Afrique. Il y contrôle des plantations, ainsi que des secteurs stratégiques : logistique, infrastructures de transport, et pas moins de 13 ports, dont celui d’Abidjan. L’empire Bolloré s’est développée de façon spectaculaire au cours des deux dernières décennies « en achetant des anciennes entreprises coloniales, et [en] profitant de la vague de privatisations issue des "ajustements structurels" imposés par le Fonds monétaire international », constate le Think tank états-unien Oakland Institute.

      Selon le site du groupe, 150 000 hectares plantations d’huile de palme et d’hévéas, pour le caoutchouc, ont été acquis en Afrique et en Asie. L’équivalent de 2700 exploitations agricoles françaises ! Selon l’association Survie, ces chiffres seraient en deçà de la réalité. Le groupe assure ainsi posséder 9 000 ha de palmiers à huile et d’hévéas au Cameroun, là où l’association Survie en comptabilise 33 500.

      Expropriations et intimidations des populations

      Quelles sont les conséquences pour les populations locales ? Au Sierra Leone,
      Bolloré a obtenu un bail de 50 ans sur 20 000 hectares de palmier à huile et 10 000 hectares d’hévéas. « Bien que directement affectés, les habitants de la zone concernée semblent n’avoir été ni informés ni consultés correctement avant le lancement du projet : l’étude d’impact social et environnemental n’a été rendue publique que deux mois après la signature du contrat », raconte Yanis Thomas de l’association Survie. En 2011, les villageois tentent de bloquer les travaux sur la plantation. Quinze personnes « ont été inculpées de tapage, conspiration, menaces et libérées sous caution après une âpre bataille judiciaire. » Bolloré menace de poursuivre en justice pour diffamation The Oakland Institute, qui a publié un rapport en 2012 sur le sujet pour alerter l’opinion publique internationale.

      Au Libéria, le groupe Bolloré possède la plus grande plantation d’hévéas du pays, via une filiale, la Liberia Agricultural Company (LAC). En mai 2006, la mission des Nations Unies au Libéria (Minul) publiait un rapport décrivant les conditions catastrophiques des droits humains sur la plantation : travail d’enfants de moins de 14 ans, utilisation de produits cancérigènes, interdiction des syndicats, licenciements arbitraires, maintien de l’ordre par des milices privées, expulsion de 75 villages…. La LAC a qualifié les conclusions de la Minul « de fabrications pures et simples » et « d’exagérations excessives ». Ambiance... Plusieurs années après le rapport des Nations Unies, aucune mesure n’a été prise par l’entreprise ou le gouvernement pour répondre aux accusations.

      Une coopératives agricole qui méprise ses salariés

      Autre continent, mêmes critiques. Au Cambodge, la Socfinasia, société de droit luxembourgeois détenue notamment par le groupe Bolloré a conclu en 2007 un joint-venture qui gère deux concessions de plus de 7 000 hectares dans la région de Mondulkiri. La Fédération internationale des Droits de l’homme (FIDH) a publié en 2010 un rapport dénonçant les pratiques de la société Socfin-KCD. « Le gouvernement a adopté un décret spécial permettant l’établissement d’une concession dans une zone anciennement protégée, accuse la FIDH. Cette situation, en plus d’autres violations documentées du droit national et des contrats d’investissement, met en cause la légalité des concessions et témoigne de l’absence de transparence entourant le processus d’approbation de celles-ci. » Suite à la publication de ce rapport, la Socfin a menacé l’ONG de poursuites pour calomnie et diffamation.

      Du côté des industries du sucre, la situation n’est pas meilleure. Depuis 2007, le géant français du sucre et d’éthanol, la coopérative agricole Tereos, contrôle une société mozambicaine [8]. Tereos exploite la sucrerie de Sena et possède un bail de 50 ans (renouvelable) sur 98 000 hectares au Mozambique. Le contrat passé avec le gouvernement prévoit une réduction de 80% de l’impôt sur le revenu et l’exemption de toute taxe sur la distribution des dividendes. Résultat : Tereos International réalise un profit net de 194 millions d’euros en 2010, dont 27,5 millions d’euros ont été rapatriés en France sous forme de dividendes. « De quoi mettre du beurre dans les épinards des 12 000 coopérateurs français de Tereos », ironise le journaliste Fabrice Nicolino. Soit un dividende de 2 600 euros par agriculteur français membre de la coopérative. Pendant ce temps, au Mozambique, grèves et manifestations se sont succédé dans la sucrerie de Sena : bas salaires (48,4 euros/mois), absence d’équipements de protection pour les saisonniers, nappe phréatique polluée aux pesticides... Ce doit être l’esprit coopératif [9].

      Fermes et fazendas, nouvelles cibles de la spéculation

      Connues ou non, on ne compte plus les entreprises et les fonds d’investissement français qui misent sur les terres agricoles. Bonduelle, leader des légumes en conserve et congelés, possède deux fermes de 3 000 hectares en Russie où il cultive haricots, maïs et pois. La célèbre marque cherche à acquérir une nouvelle exploitation de 6 000 ha dans le pays. Fondée en 2007 par Jean-Claude Sabin, ancien président de la pieuvre Sofiproteol (aujourd’hui dirigée par Xavier Beulin président de la FNSEA), Agro-énergie Développement (AgroEd) investit dans la production d’agrocarburants et d’aliments dans les pays en développement. La société appartient à 51% au groupe d’investissement LMBO, dont l’ancien ministre de la Défense, Charles Millon, fut l’un des directeurs. Les acquisitions de terres agricoles d’AgroEd en Afrique de l’Ouest sont principalement destinées à la culture du jatropha, transformé ensuite en agrocarburants ou en huiles pour produits industriels. Mais impossible d’obtenir plus de précisions. Les sites internet de LMBO et AgroED sont plus que discrets sur le sujet. Selon une note de l’OCDE, AgroEd aurait signé un accord avec le gouvernement burkinabé concernant 200 000 hectares de Jatropha, en 2007, et négocient avec les gouvernements du Bénin, de Guinée et du Mali.

      « Compte tenu de l’endettement massif des États et des politiques monétaires très accommodantes, dans une optique de protection contre l’inflation, nous recommandons à nos clients d’investir dans des actifs réels et notamment dans les terres agricoles de pays sûrs, disposant de bonnes infrastructures, comme l’Argentine », confie au Figaro Franck Noël-Vandenberghe, le fondateur de Massena Partners. Ce gestionnaire de fortune français a crée le fond luxembourgeois Terra Magna Capital, qui a investi en 2011 dans quinze fermes en Argentine, au Brésil, au Paraguay et en Uruguay. Superficie totale : 70 500 hectares, trois fois le Val-de-Marne ! [10]

      Le maïs aussi rentable que l’or

      Conséquence de ce vaste accaparement : le remplacement de l’agriculture vivrière par la culture d’agrocarburants, et la spéculation financière sur les terres agricoles. Le maïs a offert, à égalité avec l’or, le meilleur rendement des actifs financiers sur ces cinq dernières années, pointe une étude de la Deutsche Bank. En juin et juillet 2012, les prix des céréales se sont envolés : +50 % pour le blé, +45% pour le maïs, +30 % pour le soja, qui a augmenté de 60 % depuis fin 2011 ! Les prix alimentaires devraient « rester élevés et volatils sur le long terme », prévoit la Banque mondiale. Pendant ce temps, plus d’un milliard d’individus souffrent de la faim. Non pas à cause d’une pénurie d’aliments mais faute d’argent pour les acheter.

      Qu’importe ! Au nom du développement, l’accaparement des terres continuent à être encouragé – et financé ! – par les institutions internationales. Suite aux famines et aux émeutes de la faim en 2008, la Banque mondiale a créé un « Programme d’intervention en réponse à la crise alimentaire mondiale » (GFRP). Avec plus de 9 milliards de dollars en 2012, son fonds de « soutien » au secteur agricole a plus que doublé en quatre ans. Via sa Société financière internationale (SFI), l’argent est distribué aux acteurs privés dans le cadre de programme aux noms prometteurs : « Access to land » (accès à la terre) ou « Land market for investment » (marché foncier pour l’investissement).

      Des placements financiers garantis par la Banque mondiale

      Les deux organismes de la Banque mondiale, SFI et FIAS (Service Conseil pour l’Investissement Étranger) facilitent également les acquisitions en contribuant aux grandes réformes législatives permettant aux investisseurs privés de s’installer au Sierra Leone, au Rwanda, au Liberia ou au Burkina Faso… Quels que soient les continents, « la Banque mondiale garantit nos actifs par rapport au risque politique », explique ainsi l’homme d’affaire états-unien Neil Crowder à la BBC en mars 2012, qui rachète des petites fermes en Bulgarie pour constituer une grosse exploitation. « Notre assurance contre les risques politiques nous protège contre les troubles civils ou une impossibilité d’utiliser nos actifs pour une quelconque raison ou en cas d’expropriation. »

      Participation au capital des fonds qui accaparent des terres, conseils et assistances techniques aux multinationales pour améliorer le climat d’investissement des marchés étrangers, négociations d’accords bilatéraux qui créent un environnement favorable aux transactions foncières : la Banque mondiale et d’autres institutions publiques – y compris l’Agence française du développement – favorisent de fait « la concentration du pouvoir des grandes firmes au sein du système agroalimentaire, (...) la marchandisation de la terre et du travail et la suppression des interventions publiques telles que le contrôle des prix ou les subventions aux petits exploitants », analyse Elisa Da Via, sociologue du développement [11].

      Oxfam réclame de la Banque mondiale « un gel pour six mois de ses investissements dans des terres agricoles » des pays en développement, le temps d’adopter « des mesures d’encadrement plus rigoureuses pour prévenir l’accaparement des terres ». Que pense en France le ministère de l’Agriculture de ces pratiques ? Il a présenté en septembre un plan d’action face à la hausse du prix des céréales. Ses axes prioritaires : l’arrêt provisoire du développement des agrocarburants et la mobilisation du G20 pour « assurer une bonne coordination des politiques des grands acteurs des marchés agricoles » Des annonces bien vagues face à l’ampleur des enjeux : qui sont ces « grands acteurs des marchés agricoles » ? S’agit-il d’aider les populations rurales des pays pauvres à produire leurs propres moyens de subsistance ou de favoriser les investissements de l’agrobusiness et des fonds spéculatifs sous couvert de politique de développement et de lutte contre la malnutrition ? Les dirigeants français préfèrent regarder ailleurs, et stigmatiser l’immigration.

      Nadia Djabali, avec Agnès Rousseaux et Ivan du Roy

      Photos : © Eric Garault
      P.-S.

      – L’ONG Grain a publié en mars 2012 un tableau des investisseurs

      – La rapport d’Oxfam, « Notre terre, notre vie » - Halte à la ruée mondiale sur les terres, octobre 2012

      – Le rapport des Amis de la Terre Europe (en anglais), janvier 2012 : How European banks, pension funds and insurance companies are increasing global hunger and poverty by speculating on food prices and financing land grabs in poorer countries.

      – Un observatoire de l’accaparement des terres

      – A lire : Emprise et empreinte de l’agrobusiness, aux Editions Syllepse.
      Notes

      [1] « En octobre 2009, LDC Bioenergia de Louis Dreyfus Commodities a fusionné avec Santelisa Vale, un important producteur de canne à sucre brésilien, pour former LDC-SEV, dont Louis Dreyfus détient 60% », indique l’ONG Grain.

      [2] Le groupe Louis Dreyfus ne publie pas de résultats détaillés. Il aurait réalisé en 2010 un chiffre d’affaires de 56 milliards d’euros, selon L’Agefi, pour un bénéfice net de 590 millions d’euros. La fortune de Margarita Louis Dreyfus, présidente de la holding, et de ses trois enfants, a été évaluée par le journal Challenges à 6,6 milliards d’euros.

      [3] Dans Le Nouvel Observateur.

      [4] L’ONG Oxfam a publié en août 2012 un rapport (en anglais) décrivant le rôle des ABCD.

      [5] Selon Oxfam, au cours des dix dernières années, une surface équivalente à huit fois la superficie du Royaume-Uni a été vendue à l’échelle mondiale. Ces terres pourraient permettre de subvenir aux besoins alimentaires d’un milliard de personnes.

      [6] D’après les ONG Global Witness, Save My Future Foundation (SAMFU) et Sustainable Development Institute (SDI).

      [7] Source : Rapport des Amis de la Terre Europe.

      [8] Sena Holdings Ltd, via sa filiale brésilienne Açúcar Guaraní.

      [9] Une autre coopérative agricole, Vivescia (Ex-Champagne Céréales), spécialisée dans les céréales, investit en Ukraine aux côtés Charles Beigbeder, fondateur de Poweo (via un fonds commun, AgroGeneration). Ils y disposent de 50 000 hectares de terres agricoles en location.

      [10] La liste des entreprises françaises dans l’accaparement des terres n’est pas exhaustive : Sucres & Denrée (Sucden) dans les régions russes de Krasnodar, Campos Orientales en Argentine et en Uruguay, Sosucam au Cameroun, la Compagnie Fruitière qui cultive bananes et ananas au Ghana…

      [11] Emprise et empreinte de l’agrobusiness, aux Editions Syllepse.


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    • Crime environnemental : sur la piste de l’huile de palme

      L’huile de palme est massivement importée en Europe. Elle sert à la composition d’aliments comme aux agrocarburants. Avec le soutien de la région Languedoc-Roussillon, une nouvelle raffinerie devrait voir le jour à Port-la-Nouvelle, dans l’Aude. À l’autre bout de la filière, en Afrique de l’Ouest, l’accaparement de terres par des multinationales, avec l’expropriation des populations, bat son plein. Basta ! a remonté la piste du business de l’huile de palme jusqu’au #Liberia. Enquête.

      Quel est le point commun entre un résident de Port-la-Nouvelle, petite ville méditerranéenne à proximité de Narbonne (Aude), et un villageois du comté de Grand Cape Mount, au Liberia ? Réponse : une matière première très controversée, l’huile de palme, et une multinationale malaisienne, #Sime_Darby. D’un côté, des habitants de Port-la-Nouvelle voient d’un mauvais œil la création d’« une usine clés en main de fabrication d’huile de palme » par Sime Darby, en partie financée par le conseil régional du Languedoc-Roussillon. À 6 000 km de là, les paysans libériens s’inquiètent d’une immense opération d’accaparement des terres orchestrée par le conglomérat malaisien, en vue d’exploiter l’huile de palme et de l’exporter vers l’Europe, jusqu’à Port-la-Nouvelle en l’occurrence. Un accaparement de terres qui pourrait déboucher sur des déplacements forcés de population et mettre en danger leur agriculture de subsistance.

      Le petit port de l’Aude devrait donc accueillir une raffinerie d’huile de palme. Deux compagnies, la néerlandaise #Vopak et le malaisien #Unimills – filiale du groupe Sime Darby – sont sur les rangs, prêtes à investir 120 millions d’euros, venant s’ajouter aux 170 millions d’euros du conseil régional. La Région promet la création de 200 emplois, quand Sime Darby en annonce 50 pour cette usine qui prévoit d’importer 2 millions de tonnes d’huile de palme par an [1].

      Du Languedoc-Roussillon au Liberia

      Une perspective loin de réjouir plusieurs habitants réunis au sein du collectif No Palme [2]. Ces riverains d’une zone Seveso ont toujours en tête l’importante explosion de juillet 2010 dans la zone portuaire, après qu’un camion transportant du GPL se soit renversé. « La population n’a jamais été consultée ni informée de ce projet de raffinerie, relève Pascal Pavie, de la fédération Nature et Progrès. Ces installations présentent pourtant un risque industriel surajouté. » Le mélange du nitrate d’ammonium – 1 500 tonnes acheminées chaque mois à Port-la-Nouvelle – avec de l’huile végétale constituerait un explosif cocktail. Avec les allers et venues de 350 camions supplémentaires par jour. Cerise sur le gâteau, l’extension du port empièterait sur une zone côtière riche en biodiversité. « Notre collectif s’est immédiatement intéressé au versant international et européen de ce projet », explique Pascal.

      L’opérateur du projet, Sime Darby, est un immense conglomérat malaisien, se présentant comme « le plus grand producteur mondial d’huile de palme ». Présent dans 21 pays, il compte plus de 740 000 hectares de plantations, dont plus d’un tiers au Liberia. Et c’est là que remonte la piste de l’huile que l’usine devra raffiner.

      De Monrovia, la capitale, elle mène à Medina, une ville de Grand Cape Mount. D’immenses panneaux de Sime Darby promettent « un avenir durable ». Scrupuleusement gardés par des forces de sécurité privées recrutées par la compagnie, quelques bâtiments en béton émergent au milieu des pépinières d’huile de palme. C’est là que les futurs employés pourront venir vivre avec leurs familles. 57 « villages de travail » seront construits d’ici à 2025, promet la firme. Mais quid des habitants qui ne travailleront pas dans les plantations ? L’ombre d’un déplacement forcé de populations plane. « Quand Sime Darby a commencé à s’installer, ils ont dit qu’ils nous fourniraient des centres médicaux, des écoles, du logement… Mais nous n’avons rien vu, se désole Radisson, un jeune habitant de Medina qui a travaillé pour l’entreprise. Comment pourraient-ils nous déplacer alors qu’aucune infrastructure n’est prévue pour nous accueillir ? »

      Agriculture familiale menacée

      Le village de Kon Town est désormais entouré par les plantations. Seuls 150 mètres séparent les maisons des pépinières d’huile de palme. « Le gouvernement a accordé des zones de concession à la compagnie sans se rendre sur le terrain pour faire la démarcation », déplore Jonathan Yiah, des Amis de la Terre Liberia. Un accaparement qui priverait les habitants des terres cultivables nécessaires à leur subsistance. Les taux d’indemnisation pour la perte de terres et de cultures sont également sous-évalués. « Comment vais-je payer les frais scolaires de mes enfants maintenant ? », s’insurge une habitante qui ne reçoit qu’un seul sac de riz pour une terre qui, auparavant, donnait du manioc, de l’ananas et du gombo à foison.

      La compagnie Sime Darby se défend de vouloir déplacer les communautés. Pourtant, un extrait de l’étude d’impact environnemental, financée par la compagnie elle-même, mentionne clairement la possibilité de réinstallation de communautés, si ces dernières « entravent le développement de la plantation » [3]. Du côté des autorités, on dément. Cecil T.O. Brandy, de la Commission foncière du Liberia, assure que le gouvernement fait tout pour « minimiser et décourager tout déplacement. Si la compagnie peut réhabiliter ou restaurer certaines zones, ce sera préférable ». Faux, rétorque les Amis de la Terre Liberia. « En laissant une ville au milieu d’une zone de plantations, et seulement 150 mètres autour pour cultiver, plutôt que de leur dire de quitter cette terre, on sait que les habitants finiront par le faire volontairement », dénonce James Otto, de l’ONG. Pour les 10 000 hectares déjà défrichés, l’association estime que 15 000 personnes sont d’ores et déjà affectées.

      Des emplois pas vraiment durables

      L’emploi créé sera-t-il en mesure de compenser le désastre environnemental généré par l’expansion des monocultures ? C’est ce qu’espère une partie de la population du comté de Grand Cape Mount, fortement touchée par le chômage. Sime Darby déclare avoir déjà embauché plus de 2 600 travailleurs permanents, auxquels s’ajouteraient 500 travailleurs journaliers. Quand l’ensemble des plantations seront opérationnelles, « Sime Darby aura créé au moins 35 000 emplois », promet la firme. Augustine, un jeune de Kon Town, y travaille depuis deux ans. D’abord sous-traitant, il a fini par être embauché par la compagnie et a vu son salaire grimper de 3 à 5 dollars US pour huit heures de travail par jour. Tout le monde ne semble pas avoir cette « chance » : 90 % du personnel de l’entreprise disposent de contrats à durée déterminée – trois mois en général – et sous-payés ! Les chiffres varient selon les témoignages, de 50 cents à 3 dollars US par jour, en fonction de la récolte réalisée. « Dans quelle mesure ces emplois sont-ils durables ?, interroge Jonathan, des Amis de la Terre Liberia. Une fois que les arbres seront plantés et qu’ils commenceront à pousser, combien d’emplois l’entreprise pourra-t-elle maintenir ? »

      L’opacité entourant le contrat liant le gouvernement à Sime Darby renforce les tensions [4]. Malgré l’adoption d’une loi sur les droits des communautés, les communautés locales n’ont pas été informées, encore moins consultées. « Sime Darby s’est entretenu uniquement avec les chefs des communautés, raconte Jonathan Yiah. Or, la communauté est une unité diversifiée qui rassemble aussi des femmes, des jeunes, qui ont été écartés du processus de consultation. »

      Contrat totalement opaque

      Même de nombreux représentants d’agences gouvernementales ou de ministères ignorent tout du contenu du contrat, certains nous demandant même de leur procurer une copie. C’est ainsi que notre interlocuteur au ministère des Affaires intérieures a découvert qu’une partie du contrat portait sur le marché des crédits carbone. Des subventions qui iront directement dans la poche de la multinationale, comme le mentionne cet extrait en page 52 du contrat : « Le gouvernement inconditionnellement et irrévocablement (...) renonce, en faveur de l’investisseur, à tout droit ou revendication sur les droits du carbone. »

      « C’est à se demander si les investisseurs son vraiment intéressés par l’huile de palme ou par les crédits carbone », ironise Alfred Brownell, de l’ONG Green Advocates. « Nous disons aux communautés que ce n’est pas seulement leurs terres qui leur sont enlevées, ce sont aussi les bénéfices qui en sont issus », explique Jonathan Yiah.

      La forêt primaire remplacée par l’huile de palme ?

      Les convoitises de la multinationale s’étendent bien au-delà. Le militant écologiste organise depuis des mois des réunions publiques avec les habitants du comté de Gbarpolu, plus au nord. Cette région abrite une grande partie de la forêt primaire de Haute-Guinée. Sime Darby y a obtenu une concession de 159 827 hectares… Du contrat, les habitants ne savaient rien, jusqu’à ce que les Amis de la Terre Liberia viennent le leur présenter. La question de la propriété foncière revient sans cesse. « Comment le gouvernement peut-il céder nos terres à une compagnie alors même que nous détenons des titres de propriété ? », interrogent-ils. La crainte relative à la perte de leurs forêts, de leurs terres agricoles, d’un sol riche en or et en diamants s’installe.

      Lors d’une réunion, au moment où James énonce la durée du contrat, 63 ans – reconductible 30 ans ! –, c’est la colère qui prend le pas. « Que deviendront mes enfants au terme de ces 63 années de contrat avec Sime Darby ? », se désespère Kollie, qui a toujours vécu de l’agriculture, comme 70 % de la population active du pays. Parmi les personnes présentes, certaines, au contraire, voient dans la venue de Sime Darby la promesse d’investissements dans des hôpitaux, des écoles, des routes, mais aussi dans de nouveaux systèmes d’assainissement en eau potable. Et, déjà, la peur de nouveaux conflits germent. « Nous ne voulons de personne ici qui ramène du conflit parmi nous », lance Frederick. Les plaies des deux guerres civiles successives (1989-1996, puis 2001-2003) sont encore ouvertes. Près d’un million de personnes, soit un Libérien sur trois, avaient alors fui vers les pays voisins.

      Mea culpa gouvernemental

      « En signant une série de contrats à long terme accordant des centaines de milliers d’hectares à des conglomérats étrangers, le gouvernement voulait relancer l’économie et l’emploi, analyse James, des Amis de la Terre Liberia. Mais il n’a pas vu toutes les implications ». D’après un rapport de janvier 2012 réalisé par le Centre international de résolution des conflits, près de 40 % de la population libérienne vivraient à l’intérieur de concessions privées ! Aux côtés de Sime Darby, deux autres compagnies, la britannique Equatorial Palm Oil et l’indonésienne Golden Veroleum, ont acquis respectivement 169 000 et 240 000 hectares pour planter de l’huile de palme.

      Dans le comté de Grand Cape Mount, en décembre 2011, des habitants se sont saisis des clés des bulldozers de Sime Darby afin d’empêcher la poursuite de l’expansion des plantations et d’exiger des négociations. Une équipe interministérielle a depuis été mise en place, où siègent des citoyens du comté. « Oui, il y a eu des erreurs dans l’accord », reconnait-on à la Commission foncière. « Nous essayons de trouver des solutions pour que chacun en sorte gagnant », renchérit-on au ministère des Affaires intérieures. Difficile à croire pour les habitants du comté, qui n’ont rien vu, jusque-là, des grandes promesses philanthropes de Sime Darby.

      De l’huile de palme dans les agrocarburants

      Et si le changement venait des pays où l’on consomme de l’huile de palme ? Retour dans l’Aude, au pied du massif des Corbières. En décembre 2011, Sime Darby a annoncé geler pour un an son projet d’implantation de raffinerie à Port-la-Nouvelle. Les prévisions de commandes d’huile de palme sont en baisse, alors que le coût de l’usine grimpe. L’huile de palme commence à souffrir de sa mauvaise réputation, alimentaire et environnementale. De nombreuses marques l’ont retirée de la composition de leurs produits. L’huile de palme contribuerait à la malbouffe. Une fois solidifiée par injection d’hydrogène, elle regorge d’acides gras qui s’attaquent aux artères : un cauchemar pour les nutritionnistes. Dans les enseignes bios, elle commence également à être pointée du doigt comme l’une des causes de la déforestation, en Indonésie, en Afrique ou en Amérique latine. Pourtant, bien que la grande distribution réduise son besoin en huile de palme, cette dernière demeure aujourd’hui, et de loin, la première huile végétale importée en Europe. Merci les agrocarburants…

      « La consommation moyenne d’un Européen est d’environ 12 litres/an d’huile de palme, ce qui représente un accaparement d’environ 25 m2 de plantation de palmiers à huile dans un autre pays », souligne Sylvain Angerand, des Amis de la Terre France. « Relocaliser l’économie, développer les transports en commun, lutter contre l’étalement urbain seraient autant de mesures structurelles permettant de réduire notre consommation de carburant », propose l’écologiste. Réduire nos besoins ici, en Europe, pourrait diminuer partiellement l’accaparement des terres dans le Sud. À Port-la-Nouvelle, le collectif No Palme planche déjà sur des plans de développement alternatif pour le port. Avec en tête, les témoignages de leurs compères libériens.

      https://www.bastamag.net/Crime-environnemental-sur-la-piste

  • Bâle 3 : les grandes banques françaises en pointe du #Lobbying contre la régulation financière internationale
    http://multinationales.org/Bale-3-les-grandes-banques-francaises-en-pointe-du-lobbying-contre-

    Les grandes banques françaises et leurs lobbys sont vent debout contre les projets du Comité de Bâle de renforcer les exigences de solvabilité des banques internationales. De nouvelles règles pourraient les obliger à augmenter considérablement leurs fonds propres, alors qu’elles avaient jusqu’ici réussi à passer entre les mailles de la vague de régulation qui avait suivi la crise financière de 2008. Elles en appellent désormais à Emmanuel Macron, lequel avait repris leurs arguments durant la campagne (...)

    Actualités

    / #France, #Finances_et_banques, #BNP_Paribas, #Société_générale, #BPCE, #Crédit_agricole, Lobbying, #influence, normes et (...)

    #normes_et_régulations
    « https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-06-12/france-holds-out-as-bank-regulators-drive-for-basel-capital-deal »
    « https://www.mediapart.fr/journal/economie/070317/emmanuel-macron-veut-reecrire-la-regulation-financiere?onglet=full »

  • Sur les côtes du Texas, les banques françaises se mouillent une nouvelle fois du côté de Trump contre la justice climatique
    http://multinationales.org/Sur-les-cotes-du-Texas-les-banques-francaises-se-mouillent-une-nouv

    BNP Paribas, #Société_générale et les autres grandes banques françaises se retrouvent à nouveau sur la sellette pour leur soutien aux projets de développement des énergies sales aux #États-Unis. Après le Dakota Access Pipeline, c’est un ensemble de trois terminaux géants d’exportation de #gaz_de_schiste, à l’extrême sud du Texas, qui est en ligne de mire, pour ses conséquences à la fois sur le climat et sur les #communautés_locales, dans une région pauvre peuplée à 90% de latinos. « Pourquoi les banques (...)

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    / États-Unis, #Énergie, #BNP_Paribas, #Crédit_agricole, Société générale, #Énergies_fossiles, #énergie, #impact_social, #impact_sur_l'environnement, communautés locales, #changement_climatique, #gaz_à_effet_de_serre, gaz de (...)

    « http://www.amisdelaterre.org/Gaz-de-schiste-un-nouveau-rapport-accuse-BNP-Paribas-d-exporter-le-ch »
    « https://multinationales.org/Standing-Rock-le-soutien-sans-failles-des-banques-francaises-a-l-ol »
    « https://www.theguardian.com/us-news/2017/may/10/dakota-access-pipeline-first-oil-leak »
    « https://www.theguardian.com/us-news/2017/may/02/keystone-xl-pipeline-route-water-native-american-reserves »
    « https://www.ran.org/shorting_the_climate »
    « https://www.facebook.com/events/408053036260445 »

  • La justice tape dur sur les #prêts toxiques en francs suisses
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/250417/la-justice-tape-dur-sur-les-prets-toxiques-en-francs-suisses

    Trois décisions viennent de porter des coups sévères, au pénal comme au civil, contre les prêts immobiliers vendus entre 2007 et 2009 par une filiale de la #BNP, par le #Crédit_agricole et par le #Crédit_mutuel. Gagés sur le #franc_suisse et censés être très compétitifs, ils sont devenus des gouffres financiers pour les emprunteurs.

    #Economie #Helvet_Immo

  • La justice tape dur sur les #prêts toxiques en francs suisses
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/200417/la-justice-tape-dur-sur-les-prets-toxiques-en-francs-suisses

    Trois décisions judiciaires viennent de porter des coups sévères, au pénal comme au civil, contre les prêts immobiliers vendus entre 2007 et 2009 par une filiale de la #BNP, le #Crédit_agricole et le #Crédit_mutuel. Gagés sur le #franc_suisse et censés être très compétitifs, ils se sont révélés être des gouffres financiers pour les emprunteurs.

    #Economie #Helvet_Immo

  • La justice tape dur contre les #prêts toxiques en francs suisses
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/200417/la-justice-tape-dur-contre-les-prets-toxiques-en-francs-suisses

    Trois décisions judiciaires viennent de porter des coups sévères, au pénal comme au civil, contre les prêts immobiliers vendus entre 2007 et 2009 par une filiale de la #BNP, le #Crédit_agricole et le #Crédit_mutuel. Gagés sur le #franc_suisse et censés être très compétitifs, ils se sont révélés être des gouffres financiers pour les emprunteurs.

    #Economie #Helvet_Immo

  • Vague de suicides au sein de #LCL
    http://multinationales.org/Vague-de-suicides-au-sein-de-LCL

    Au moins quatre suicides ou tentatives de suicide ont eu lieu depuis quelques mois parmi les salariés de LCL. L’ex Crédit Lyonnais, aujourd’hui filiale du #Crédit_agricole, a connu plusieurs restructurations se traduisant par des milliers de suppressions d’emploi et une pression accrue sur les employés. Malgré les alertes des représentants du personnel et des médecins du travail, la direction reste dans le déni. #Mediapart mène l’enquête sur plusieurs cas survenus au cours des derniers mois : Quatre (...)

    Actualités

    / #France, Mediapart, #Finances_et_banques, Crédit agricole, #Santé_et_sécurité_au_travail, LCL, #stress_et_risques_psycho-sociaux, #restructuration, #management, santé et sécurité au (...)

    #santé_et_sécurité_au_travail

  • A #LCL, ces #suicides que la direction ne veut pas voir
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/050417/lcl-ces-suicides-que-la-direction-ne-veut-pas-voir

    Entre septembre 2016 et mars 2017, quatre salariés de la #banque LCL (ex-Crédit lyonnais) se sont suicidés ou ont tenté de le faire. Dans cette filiale du groupe #Crédit_agricole qui vit au rythme des restructurations massives, les risques psychosociaux sont préoccupants. Face aux alarmes lancées depuis plusieurs années par les syndicats et les médecins du travail, la direction pratique l’omerta.

    #Economie #burn_out #souffrance_au_travail

  • Ces banques et sociétés d’assurances françaises qui financent l’expansion coloniale israélienne
    http://multinationales.org/Ces-banques-et-societes-d-assurances-francaises-qui-financent-l-exp

    Une enquête menée par un collectif de syndicats et d’organisations de défense des #droits_humains françaises et palestiniennes, révèle comment les principales banques françaises soutiennent l’expansion coloniale israélienne aux dépens des territoires palestiniens, et de la construction de la paix. Pourtant, la France a officiellement condamné cette colonisation et soutenu les résolutions des Nations Unies en la matière. Les auteurs du rapport espèrent que ces banques hexagonales imiteront les grands fonds (...)

    Actualités

    / #Palestine, #Israël, #Crédit_agricole, #Axa, #BPCE, #BNP_Paribas, #Société_générale, #droit_international, droits humains, Finances et (...)

    #Finances_et_banques
    « https://obliteratedfamilies.com/fr »
    « https://www.fidh.org/IMG/pdf/les_liaisons_dangereuses_de_banques_franc_aises_avec_la_colonisation_israe_lie »

  • Standing Rock : le soutien sans failles des banques françaises à l’oléoduc imposé aux Sioux par l’administration Trump
    http://multinationales.org/Standing-Rock-le-soutien-sans-failles-des-banques-francaises-a-l-ol

    Les forces de l’ordre ont procédé à l’évacuation du camp des Sioux et de leurs alliés qui s’opposaient encore à la construction de l’oléoduc Dakota Access. Bloqué par l’administration Obama, relancé par Donald Trump à son arrivée, cet oléoduc bénéficie du soutien financier de plusieurs grandes banques françaises. Celles-ci ont même débloqué des fonds supplémentaires à l’arrivée du nouveau locataire de la Maison blanche. Dans la journée du mercredi 22 février, le principal campement des opposants à l’oléoduc Dakota (...)

    Actualités

    / #Énergie, #États-Unis, #BNP_Paribas, #Société_générale, #BPCE, #Natixis, #Crédit_agricole, #Finances_et_banques, #communautés_locales, #impact_social, #impact_sur_l'environnement, #énergie, #solidarité_internationale, Énergies (...)

    #Énergies_fossiles
    « https://www.theguardian.com/us-news/2017/feb/22/dakota-access-pipeline-standing-rock-evacuation-police »
    « http://www.banktrack.org/show/page/defund_dapl »
    « http://www.amisdelaterre.org/Trump-Dakota-Access-Pipeline-et-les-banques-francaises.html »

  • Les grandes banques françaises derrière le projet d’oléoduc combattu par les Sioux
    http://multinationales.org/Les-grandes-banques-francaises-derriere-le-projet-d-oleoduc-combatt

    Depuis plusieurs mois, les Sioux de la réserve de Standing Rock, dans le Dakota du Sud, s’opposent à un projet d’oléoduc qui menace des sites culturels ancestraux et leurs sources d’eau. Cette infrastructure, qui vise à faciliter l’exploitation du pétrole de schiste de la région, a bénéficié du financement de plusieurs grandes banques internationales, dont #BNP_Paribas, #Crédit_agricole, #Société_générale et #Natixis. Celles-ci se trouvent aujourd’hui ciblées par les militants écologistes. Depuis plusieurs (...)

    Actualités

    / #États-Unis, #Finances_et_banques, #Industries_extractives, BNP Paribas, Société générale, #BPCE, Natixis, Crédit agricole, #Énergies_fossiles, #changement_climatique, #responsabilité_sociale_des_entreprises, investissement socialement responsable (ISR), #impact_social, impact sur (...)

    #investissement_socialement_responsable_ISR_ #impact_sur_l'environnement #eau #communautés_locales #solidarité_internationale
    « https://multinationales.org/Que-ferait-Sitting-Bull-Les-Sioux-de-Standing-Rock-menent-le-combat »
    « http://www.foodandwaterwatch.org/news/who's-banking-dakota-access-pipeline »
    « http://www.banktrack.org/show/article/an_open_letter_to_the_equator_principles_association »
    « http://www.commondreams.org/news/2016/11/09/defying-obama-request-dakota-access-co-mobilizes-drill-beneath-river »
    « http://www.banktrack.org/show/dodgydeal/dakota_access_pipeline »

  • Les grandes banques françaises ont encore 75 mille milliards d’euros investis dans des produits dérivés
    http://multinationales.org/Les-grandes-banques-francaises-ont-encore-75-mille-milliards-d-euro

    35 fois le PIB de la #France. C’est, selon les calculs d’Alternatives économiques, la somme investie par les quatre grandes banques françaises - #BNP_Paribas, #Société_générale, #Crédit_agricole et #BPCE - dans des contrats de produits dérivés, « au cœur de tous les dérapages de la finance depuis 1970 ». Un chiffre qui donne une idée des risques induits, même s’il tend à baisser depuis quelques années. Les produits dérivés ont été au cœur de tous les dérapages de la finance depuis les années 1970. Contrats signés (...)

    Actualités

    / #Alternatives_économiques, France, #Finances_et_banques, BNP Paribas, BPCE, Crédit agricole, Société générale, #Paradis_fiscaux, (...)

    #spéculation
    « http://www.alterecoplus.fr/banques-francaises-75-000-milliards-de-derives/00012240 »

  • « Que ferait Sitting Bull ? » Les Sioux de Standing Rock mènent le combat contre un nouveau projet d’oléoduc géant
    http://multinationales.org/Que-ferait-Sitting-Bull-Les-Sioux-de-Standing-Rock-menent-le-combat

    Depuis plusieurs semaines, les Sioux de la réserve de Standing Rock, dans le Dakota du Nord, organisent la résistance contre un projet d’oléoduc géant, le Dakota Access Pipeline, qui menace leurs terres et leurs sources d’eau. L’affaire est en train de prendre une envergure nationale aux #États-Unis. Les grandes banques françaises - #BNP_Paribas, #Crédit_agricole, #Natixis, #Société_générale - sont toutes impliquées dans le financement de l’oléoduc. La mobilisation des Sioux (Lakota) de la réserve de Standing (...)

    #Contre-pouvoirs

    / A la une, #Énergie, #Finances_et_banques, États-Unis, BNP Paribas, Crédit agricole, #BPCE, Natixis, Société générale, #Énergies_fossiles, #énergie, #changement_climatique, #eau, #communautés_locales, #mouvement_social, (...)

    #Enbridge
    "http://www.foodandwaterwatch.org/news/who%27s-banking-dakota-access-pipeline"
    "http://www.yesmagazine.org/planet/an-oil-pipeline-and-a-river-what-would-sitting-bull-do-20160829"
    "http://www.nytimes.com/2016/08/25/opinion/taking-a-stand-at-standing-rock.html"
    "https://www.flickr.com/photos/40969298@N05

    Flickr
    "

  • Un projet de centrale au #charbon en #Indonésie, test des prétentions climatiques des banques françaises
    http://multinationales.org/Un-projet-de-centrale-au-charbon-en-Indonesie-test-des-pretentions-

    À l’occasion de la Conférence climat de Paris, les grandes banques françaises ont rivalisé d’engagements et de beaux discours, annonçant notamment leur désengagement du charbon, principale source globale de #gaz_à_effet_de_serre. Un projet de centrale au charbon sur l’île de Java, que la #Société_générale et le #Crédit_agricole envisagent de soutenir, constitue le premier test significatif de ces bonnes résolutions. L’Indonésie figure parmi ces quelques gouvernements, comme ceux de l’Australie ou de la (...)

    Actualités

    / #Alternatives_économiques, Indonésie, #Finances_et_banques, #Énergie, Société générale, Crédit agricole, #Énergies_fossiles, charbon, gaz à effet de serre, #changement_climatique, Amis de la (...)

    #Amis_de_la_terre
    « http://www.alterecoplus.fr/climat/la-societe-generale-et-le-credit-agricole-vont-ils-enfin-laisser-tomber »

  • Les banques françaises solidement ancrées dans les #Paradis_fiscaux
    http://multinationales.org/Les-banques-francaises-solidement-ancrees-dans-les-paradis-fiscaux

    Les paradis fiscaux et judiciaires continuent à jouer un rôle central dans la stratégie des grandes banques françaises. C’est la conclusion d’une étude réalisée par trois ONG à partir des informations que ces banques ont dû rendre publiques cette année pour la première fois. Les grandes banques françaises réalisent plus d’un tiers de leurs bénéfices dans des paradis fiscaux, alors que ces derniers ne représentent qu’un quart de leurs chiffre d’affaires, un cinquième de leurs impôts, et seulement un sixième (...)

    Actualités

    / #Finances_et_banques, #France, #BNP_Paribas, #Société_générale, #BPCE, #Crédit_agricole, #CIC_Crédit_mutuel, Paradis fiscaux, fiscalité, #évasion_fiscale, #transparence, normes et (...)

    #fiscalité #normes_et_régulations
    « http://www.stopparadisfiscaux.fr/que-font-les-etats/la-france/article/nouveau-rapport-en-quete-de »

  • Peut-on confier les clés des financements climatiques aux grandes banques comme #HSBC ou le #Crédit_agricole ?
    http://multinationales.org/Peut-on-confier-les-cles-des-financements-climatiques-aux-grandes-b

    Le Fonds vert pour le climat a pour mission de collecter et répartir les milliards de dollars promis par les pays riches pour financer la lutte contre le #changement_climatique et l’adaptation dans les pays du sud. Comme tel, c’est une des clés de voûte de la mise en œuvre de l’accord atteint à Paris lors de la COP21. Mais il est aujourd’hui sous le feu des critiques pour avoir accrédité des grands banques comme #Deutsche_Bank, HSBC ou le Crédit agricole, lesquelles croulent sous les controverses et (...)

    Actualités

    / #Finances_et_banques, #Énergie, #Industries_extractives, Crédit agricole, HSBC, Deutsche Bank, changement climatique, #crimes_et_délits_économiques, #Greenwashing, #Énergies_fossiles, #charbon, Amis de la (...)

    #Amis_de_la_terre
    « http://webiva-downton.s3.amazonaws.com/877/be/8/7536/3-1-16_no-hsbc-ca-gcf.pdf »
    « https://multinationales.org/Quand-la-finance-verte-detruit-l-Amazonie »
    « http://climateactiontracker.org/assets/publications/briefing_papers/CAT_Coal_Gap_Briefing_COP21.pdf »
    « http://www.amisdelaterre.org/Non-a-l-accreditation-du-pollueur.html »
    « http://www.amisdelaterre.org/art1926.html »

  • Affaire Kerviel : deux banquiers ont contredit la #Société_Générale
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/010316/affaire-kerviel-deux-banquiers-ont-contredit-la-societe-generale

    Tout ne s’est peut-être pas passé comme l’affirme la Société générale, lorsqu’il s’est agi de « déboucler » les 50 milliards d’euros d’engagements pris par #Jérôme_Kerviel. Deux grands banquiers ont raconté à une journaliste financière qu’ils avaient été prévenus à l’avance par #Daniel_Bouton de l’opération. Ce qui change beaucoup de choses.

    #Economie #banques #Banques_populaires #Christian_Noyer #Crédit_agricole

  • Comment reconnaître une banque véritablement alternative, #éthique et d’utilité publique
    http://multinationales.org/Comment-reconnaitre-une-banque-veritablement-alternative-ethique-et

    C’est le moment de changer de banque : des banques éthiques émergent partout en Europe. Mais comment s’y retrouver ? Si en #France, trois des cinq plus grandes banques sont coopératives, cela ne les a pas empêchées de tremper dans la finance spéculative et toxique, au même titre que les banques d’affaires classiques. Heureusement, une nouvelle forme de banque coopérative fait son chemin. Avec un fonctionnement réellement démocratique et des financements socialement utiles, la #Nef et le #Crédit_coopératif (...)

    #Enquêtes

    / France, #BPCE, #Crédit_agricole, #Finances_et_banques, #utilité_sociale, #économie_sociale_et_solidaire, #impact_social, #impact_sur_l'environnement, éthique, #transparence, Crédit coopératif, (...)

    « http://www.febea.org/fr/febea/legal/febea »
    « http://www.lanef.com/wp-content/uploads/2015/04/liste_des_prets_2014.pdf »
    « https://www.jak.se/international »
    « http://www.bastamag.net/Evasion-fiscale-fraudes-et »
    « http://www.lanef.com/wp-content/uploads/2015/02/2014-05-24_Statuts.pdf »
    « http://www.epargnonsleclimat.fr »
    « http://www.fairfinancefrance.org/media/60889/banques-fran%C3%A7aises-quand-le-vert-vire-au-noir.pdf »
    « http://www.bastamag.net/Reforme-bancaire-comment-le »