• Quei bambini chiusi in trappola a Gaza. Il racconto di #Ruba_Salih
    (une interview de Ruba Salih, prof à l’Université de Bologne, 5 jours après le #7_octobre_2023)

    «Mai come in queste ore a Gaza il senso di appartenere a una comune “umanita” si sta mostrando più vuoto di senso. La responsabilità di questo è del governo israeliano», dice Ruba Salih antropologa dell’università di Bologna che abbiamo intervistato mentre cresce la preoccupazione per la spirale di violenza che colpisce la popolazione civile palestinese e israeliana.

    Quali sono state le sue prime reazioni, sentimenti, pensieri di fronte all’attacco di Hamas e poi all’annuncio dell’assedio di Gaza messo in atto dal governo israeliano?

    Il 7 ottobre la prima reazione è stata di incredulità alla vista della recinzione metallica di Gaza sfondata, e alla vista dei palestinesi che volavano con i parapendii presagendo una sorta di fine dell’assedio. Ho avuto la sensazione di assistere a qualcosa che non aveva precedenti nella storia recente. Come era possibile che l’esercito più potente del mondo potesse essere sfidato e colto così alla sprovvista? In seguito, ho cominciato a chiamare amici e parenti, in Cisgiordania, Gaza, Stati Uniti, Giordania. Fino ad allora si aveva solo la notizia della cattura di un numero imprecisato di soldati israeliani. Ho pensato che fosse una tattica per fare uno scambio di prigionieri. Ci sono più di 5000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e 1200 in detenzione amministrativa, senza processo o accusa. Poi sono cominciate da domenica ad arrivare le notizie di uccisioni e morti di civili israeliani, a cui è seguito l’annuncio di ‘guerra totale’ del governo di Netanyahu. Da allora il sentimento è cambiato. Ora grande tristezza per la quantità di vittime, dell’una e dell’altra parte, e preoccupazione e angoscia senza precedenti per le sorti della popolazione civile di Gaza, che in queste ore sta vivendo le ore piu’ drammatiche che si possano ricordare.

    E quando ha visto quello che succedeva, con tantissime vittime israeliane, violenze terribili, immagini di distruzione, minacce di radere al suolo Gaza?

    Colleghi e amici israeliani hanno cominciato a postare immagini di amici e amiche uccisi – anche attivisti contro l’occupazione- e ho cominciato dolorosamente a mandare condoglianze. Contemporaneamente giungevano terribili parole del ministro della Difesa israeliano Gallant che definiva i palestinesi “animali umani”, dichiarando di voler annientare la striscia di Gaza e ridurla a “deserto”. Ho cominciato a chiamare amici di Gaza per sapere delle loro famiglie nella speranza che fossero ancora tutti vivi. Piano piano ho cominciato a cercare di mettere insieme i pezzi e dare una cornice di senso a quello che stava succedendo.

    Cosa può dirci di Gaza che già prima dell’attacco di Hamas era una prigione a cielo aperto?

    Si, Gaza è una prigione. A Gaza la maggior parte della popolazione è molto giovane, e in pochi hanno visto il mondo oltre il muro di recinzione. Due terzi della popolazione è composto da famiglie di rifugiati del 1948. Il loro vissuto è per lo più quello di una lunga storia di violenza coloniale e di un durissimo assedio negli ultimi 15 anni. Possiamo cercare di immaginare cosa significa vivere questo trauma che si protrae da generazioni. Gli abitanti di Gaza nati prima del 1948 vivevano in 247 villaggi nel sud della Palestina, il 50% del paese. Sono stati costretti a riparare in campi profughi a seguito della distruzione o occupazione dei loro villaggi. Ora vivono in un’area che rappresenta l’1.3% della Palestina storica con una densità di 7000 persone per chilometro quadrato e le loro terre originarie si trovano a pochi metri di là dal muro di assedio, abitate da israeliani.

    E oggi?

    Chi vive a Gaza si descrive come in una morte lenta, in una privazione del presente e della capacità di immaginare il futuro. Il 90% dell’acqua non è potabile, il 60% della popolazione è senza lavoro, l’80% riceve aiuti umanitari per sopravvivere e il 40% vive al di sotto della soglia di povertà: tutto questo a causa dell’ occupazione e dell’assedio degli ultimi 15 anni. Non c’è quasi famiglia che non abbia avuto vittime, i bombardamenti hanno raso al suolo interi quartieri della striscia almeno quattro volte nel giro di una decina di anni. Non credo ci sia una situazione analoga in nessun altro posto del mondo. Una situazione che sarebbe risolta se Israele rispettasse il diritto internazionale, né più né meno.

    Prima di questa escalation di violenza c’era voglia di reagire, di vivere, di creare, di fare musica...

    Certo, anche in condizioni di privazione della liberta’ c’e’ una straordinaria capacità di sopravvivenza, creatività, amore per la propria gente. Tra l’altro ricordo di avere letto nei diari di Marek Edelman sul Ghetto di Varsavia che durante l’assedio del Ghetto ci si innamorava intensamente come antidoto alla disperazione. A questo proposito, consilgio a tutti di leggere The Ghetto Fights di Edelman. Aiuta molto a capire cosa è Gaza in questo momento, senza trascurare gli ovvi distinguo storici.

    Puoi spiegarci meglio?

    Come sapete il ghetto era chiuso al mondo esterno, il cibo entrava in quantità ridottissime e la morte per fame era la fine di molti. Oggi lo scenario di Gaza, mentre parliamo, è che non c’è elettricità, il cibo sta per finire, centinaia di malati e neonati attaccati alle macchine mediche hanno forse qualche ora di sopravvivenza. Il governo israeliano sta bombardando interi palazzi, le vittime sono per più della metà bambini. In queste ultime ore la popolazione si trova a dovere decidere se morire sotto le bombe in casa o sotto le bombe in strada, dato che il governo israeliano ha intimato a un milione e centomila abitanti di andarsene. Andare dove? E come nel ghetto la popolazione di Gaza è definita criminale e terrorista.

    Anche Franz Fanon, lei suggerisce, aiuta a capire cosa è Gaza.

    Certamente, come ho scritto recentemente, Fanon ci viene in aiuto con la forza della sua analisi della ferita della violenza coloniale come menomazione psichica oltre che fisica, e come privazione della dimensione di interezza del soggetto umano libero, che si manifesta come un trauma, anche intergenerazionale. La violenza prolungata penetra nelle menti e nei corpi, crea una sospensione delle cornici di senso e delle sensibilità che sono prerogativa di chi vive in contesti di pace e benessere. Immaginiamoci ora un luogo, come Gaza, dove come un rapporto di Save the Children ha riportato, come conseguenza di 15 anni di assedio e blocco, 4 bambini su 5 riportano un vissuto di depressione, paura e lutto. Il rapporto ci dice che vi è stato un aumento vertiginoso di bambini che pensano al suicidio (il 50%) o che praticano forme di autolesionismo. Tuttavia, tutto questo e’ ieri. Domani non so come ci sveglieremo, noi che abbiamo il privilegio di poterci risvegliare, da questo incubo. Cosa resterà della popolazione civile di Gaza, donne, uomini bambini.

    Come legge il sostegno incondizionato al governo israeliano di cui sono pieni i giornali occidentali e dell’invio di armi ( in primis dagli Usa), in un’ottica di vittoria sconfitta che abbiamo già visto all’opera per la guerra Russia-Ucraina?

    A Gaza si sta consumando un crimine contro l’umanità di dimensioni e proporzioni enormi mentre i media continuano a gettare benzina sul fuoco pubblicando notizie in prima pagina di decapitazioni e stupri, peraltro non confermate neanche dallo stesso esercito israeliano. Tuttavia, non utilizzerei definizioni statiche e omogeneizzanti come quelle di ‘Occidente’ che in realtà appiattiscono i movimenti e le società civili sulle politiche dei governi, che in questo periodo sono per lo più a destra, nazionalisti xenofobi e populisti. Non è sempre stato così.

    Va distinto il livello istituzionale, dei governi e dei partiti o dei media mainstream, da quello delle società civili e dei movimenti sociali?

    Ci sono una miriade di manifestazioni di solidarietà ovunque nel mondo, che a fianco del lutto per le vittime civili sia israeliane che palestinesi, non smettono di invocare la fine della occupazione, come unica via per ristabilire qualcosa che si possa chiamare diritto (e diritti umani) in Palestina e Israele. Gli stessi media mainstream sono in diversi contesti molto più indipendenti che non in Italia. Per esempio, Bcc non ha accettato di piegarsi alle pressioni del governo rivendicando la sua indipendenza rifiutandosi di usare la parola ‘terrorismo’, considerata di parte, preferendo riferirsi a quei palestinesi che hanno sferrato gli attacchi come ‘combattenti’. Se sono stati commessi crimini contro l’umanità parti lo stabiliranno poi le inchieste dei tribunali penali internazionali. In Italia, la complicità dei media è invece particolarmente grave e allarmante. Alcune delle (rare) voci critiche verso la politica del governo israeliano che per esempio esistono perfino sulla stampa liberal israeliana, come Haaretz, sarebbero in Italia accusate di anti-semitismo o incitamento al terrorismo! Ci tengo a sottolineare tuttavia che il fatto che ci sia un certo grado di libertà di pensiero e di stampa in Israele non significa che Israele sia una ‘democrazia’ o perlomeno non lo è certo nei confronti della popolazione palestinese. Che Israele pratichi un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi è ormai riconosciuto da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, nonché sottolineato a più riprese dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese.

    Dunque non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la retorica israeliana?

    Ma non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la narrativa israeliana. Sono anni che i palestinesi sono disumanizzati, resi invisibili e travisati. Il paradosso è che mentre Israele sta violando il diritto e le convenzioni internazionali e agisce in totale impunità da decenni, tutte le forme di resistenza: non violente, civili, dimostrative, simboliche, legali dei palestinesi fino a questo momento sono state inascoltate, anzi la situazione sul terreno è sempre più invivibile. Persino organizzazioni che mappano la violazione dei diritti umani sono demonizzate e catalogate come ‘terroristiche’. Anche le indagini e le commissioni per valutare le violazioni delle regole di ingaggio dell’esercito sono condotte internamente col risultato che divengono solo esercizi procedurali vuoti di sostanza (come per l’assassinio della reporter Shereen AbuHakleh, rimasto impunito come quello degli altri 55 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano). Ci dobbiamo seriamente domandare: che cosa rimane del senso vero delle parole e del diritto internazionale?

    Il discorso pubblico è intriso di militarismo, di richiami alla guerra, all’arruolamento…

    Personalmente non metterei sullo stesso piano la resistenza di un popolo colonizzato con il militarismo come progetto nazionalistico di espansione e profitto. Possiamo avere diversi orientamenti e non condividere le stesse strategie o tattiche ma la lotta anticoloniale non è la stessa cosa del militarismo legato a fini di affermazione di supremazia e dominio di altri popoli. Quella dei palestinesi è una lotta che si inscrive nella scia delle lotte di liberazione coloniali, non di espansione militare. La lotta palestinese si collega oggi alle lotte di giustizia razziale e di riconoscimento dei nativi americani e degli afro-americani contro società che oggi si definiscono liberali ma che sono nate da genocidi, schiavitù e oppressione razziale. Le faccio un esempio significativo: la prima bambina Lakota nata a Standing Rock durante le lunghe proteste contro la costruzione degli olelodotti in North Dakota, che stanno espropriando e distruggendo i terre dei nativi e inquinando le acque del Missouri, era avvolta nella Kuffyah palestinese. Peraltro, il nazionalismo non è più il solo quadro di riferimento. In Palestina si lotta per la propria casa, per la propria terra, per la liberazione dalla sopraffazione dell’occupazione, dalla prigionia, per l’autodeterminazione che per molti è immaginata o orientata verso la forma di uno stato laico binazionale, almeno fino agli eventi recenti. Domani non so come emergeremo da tutto questo.

    Emerge di nuovo questa cultura patriarcale della guerra, a cui come femministe ci siamo sempre opposte…

    Con i distinguo che ho appena fatto e che ribadisco – ossia che non si può mettere sullo stesso piano occupanti e occupati, colonialismo e anticolonialismo -mi sento comunque di dire che una mobilitazione trasversale che aneli alla fine della occupazione deve essere possibile. Nel passato, il movimento femminista internazionalista tentava di costruire ponti tra donne palestinesi e israeliane mobilitando il lutto di madri, sorelle e figlie delle vittime della violenza. Si pensava che questo fosse un legame primario che univa nella sofferenza, attraversando le differenze. Ci si appellava alla capacità delle donne di politicizzare la vulnerabilità, convinte che nella morte e nel lutto si fosse tutte uguali. La realtà è che la disumanizzazione dei palestinesi, rafforzata dalla continua e sempre più violenta repressione israeliana, rende impossibile il superamento delle divisioni in nome di una comune umanità. Mentre i morti israeliani vengono pubblicamente compianti e sono degni di lutto per il mondo intero, i palestinesi – definiti ‘terroristi’ (anche quando hanno praticato forme non-violente di resistenza), scudi-umani, animali (e non da oggi), sono già morti -privati della qualità di umani- prima ancora di morire, e inscritti in una diversa classe di vulnerabilità, di non essenza, di disumanità.

    Antropologa dell’università di Bologna Ruba Salih si interessa di antropologia politica con particolare attenzione a migrazioni e diaspore postcoloniali, rifugiati, violenza e trauma coloniale, genere corpo e memoria. Più recentemente si è occupata di decolonizzazione del sapere e Antropocene e di politiche di intersezionalità nei movimenti di protesta anti e de-coloniali. Ha ricoperto vari ruoli istituzionali tra cui membro eletto del Board of Trustees del Arab Council for the Social Sciences, dal 2015 al 2019. È stata visiting professor presso varie istituzioni tra cui Brown University, University of Cambridge e Università di Venezia, Ca’ Foscari.

    https://left.it/2023/10/12/quei-bambini-chiusi-in-trappola-a-gaza-il-racconto-di-ruba-salih

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    • Gaza between colonial trauma and genocide

      In the hours following the attack of Palestinian fighters in the south of Israel Western observers, bewildered, speculated about why Hamas and the young Palestinians of Gaza, born and bred under siege and bombs, have launched an attack of this magnitude, and right now. Others expressed their surprise at the surprise.

      The Israeli government responded by declaring “total war”, promising the pulverization of Gaza and demanding the inhabitants to leave the strip, knowing that there is no escape. Mobilising even the Holocaust and comparing the fighters to the Nazis, the Israeli government engaged in an operation that they claim is aimed at the destruction of Hamas.

      In fact, as I am writing, Gaza is being razed to the ground with an unbearable number of Palestinian deaths which gets larger by the hour, with people fleeing under Israeli bombs, water, electricity and fuel being cut, hospitals – receiving one patient a minute – on the brink of catastrophe, and humanitarian convoys prevented from entering the strip.

      An ethnic cleansing of Palestinians in Gaza is taking place with many legal observers claiming this level of violence amounts to a genocide.

      But what has happened – shocking and terrible in terms of the number of victims – including children and the elderly – creates not only a new political scenario, but above all it also imposes a new frame of meaning.

      Especially since the Oslo accords onwards, the emotional and interpretative filter applying to the “conflict” has been the asymmetrical valuing of one life over the other which in turn rested on an expectation of acquiescence and acceptance of the Palestinians’ subalternity as a colonised people. This framing has been shattered.

      The day of the attack, millions of Palestinians inside and outside the occupied territories found themselves in a trance-like state – with an undeniable initial euphoria from seeing the prison wall of Gaza being dismantled for the first time. They were wondering whether what they had before their eyes was delirium or reality. How was it possible that the Palestinians from Gaza, confined in a few suffocating square kilometres, repeatedly reduced to rubble, managed to evade the most powerful and technologically sophisticated army in the world, using only rudimentary equipment – bicycles with wings and hang-gliders? They could scarcely believe they were witnessing a reversal of the experience of violence, accustomed as they are to Palestinian casualties piling up relentlessly under Israeli bombardments, machine gun fire and control apparatus.

      Indeed, that Israel “declared war” after the attack illustrates this: to declare war assumes that before there was “peace”. To be sure, the inhabitants of Sderot and southern Israel would like to continue to live in peace. For the inhabitants of Gaza, on the other hand, peace is an abstract concept, something they have never experienced. For the inhabitants of the strip, as well as under international law, Gaza is an occupied territory whose population – two million and three hundred thousand people, of which two thirds are refugees from 1948 – lives (or to use their own words: “die slowly”) inside a prison. Control over the entry and exit of people, food, medicine, materials, electricity and telecommunications, sea, land and air borders, is in Israeli hands. International law, correctly invoked to defend the Ukrainian people and to sanction the Russian occupier, is a wastepaper for Israel, which enjoys an impunity granted to no other state that operates in such violation of UN resolutions, even disregarding agreements they themselves signed, never mind international norms and conventions.

      This scaffolding has crucially rested on the certainty that Palestinians cannot and should not react to their condition, not only and not so much because of their obvious military inferiority, but in the warped belief that Palestinian subjectivity must and can accept remaining colonised and occupied, to all intents and purposes, indefinitely. The asymmetry of strength on the ground led to an unspoken – but devastatingly consequential – presumption that Palestinians would accept to be confined to a space of inferiority in the hierarchy of human life.

      In this sense, what is happening these days cannot be understood and analysed with the tools of those who live in “peace”, but must be understood (insofar as this is even possible for those who do not live in Gaza or the occupied Palestinian territories) from a space defined by the effects of colonial violence and trauma. It is to Franz Fanon that we owe much of what we know about colonial violence – especially that it acts as both a physical and psychic injury. A psychiatrist from Martinique who joined the liberation struggle for independence in Algeria under French colonial rule, he wrote at length about how the immensity and duration of the destruction inflicted upon colonised subjects results in a wide and deep process of de-humanisation which, at such a profound level, also compromises the ability of the colonised to feel whole and to fully be themselves, humans among humans. In this state of physical and psychic injury, resistance is the colonised subject’s only possibility of repair. This has been the case historically in all contexts of liberation from colonial rule, a lineage to which the Palestinian struggle belongs.

      It is in this light that the long-lasting Palestinian resistance of the last 75 years should be seen, and this is also the key to understanding the unprecedented events of the last few days. These are the result, as many observers – including Israeli ones – have noted, of the failure of the many forms of peaceful resistance that the Palestinians have managed to pursue, despite the occupation, and which they continue to put into play: the hunger strikes of prisoners under “administrative detention”; the civil resistance of villagers such as Bil’in or Sheikh Jarrah who are squeezed between the separation wall, the expropriation of land and homes, and suffocated by the increasingly aggressive and unstoppable expansion of settlements; the efforts to protect the natural environment and indigenous Palestinian culture, including the centuries-old olive trees so often burnt and vandalised by settlers; the Palestinian civil society organisations that map and report human rights violations – which make them, for Israel, terrorist organisations; the struggle for cultural and political memory; the endurance of refugees in refugee camps awaiting implementation of their human rights supported by UN resolutions, as well as reparation and recognition of their long term suffering; and, further back in time, the stones hurled in resistance during the first Intifada, when young people with slingshots threw those same stones with which Israeli soldiers broke their bones and lives, back to them.

      Recall that, in Gaza, those who are not yet twenty years old, who make up about half the population, have already survived at least four bombing campaigns, in 2008-9, in 2012, in 2014, and again in 2022. These alone caused more than 4000 deaths.

      And it is again in Gaza that the Israeli tactic has been perfected of firing on protesters during peaceful protests, such as those in 2018, to maim the bodies – a cynical necropolitical calculation of random distribution between maimed and dead. It is not surprising, then, that in post-colonial literature – from Kateb Yacine to Yamina Mechakra, just to give two examples – the traumas of colonial violence are narrated as presence and absence, in protagonists’ dreams and nightmares, of amputated bodies. This is a metaphor for a simultaneously psychic and physical maiming of the colonised identity, that continues over time, from generation to generation.

      Despite their predicament as colonised for decades and their protracted collective trauma, Palestinians inside and outside of Palestine have however shown an incredible capacity for love, grief and solidarity over time and space, of which we have infinite examples in day-to-day practices of care and connectedness, in the literature, in the arts and culture, and through their international presence in other oppressed peoples’ struggles, such as Black Lives Matter and Native American Dakota protestors camps, or again in places such as the Moria camp in Greece.

      The brutality of a 16 years long siege in Gaza, and the decades of occupation, imprisonment, humiliation, everyday violence, death, grief – which as we write happen at an unprecedented genocidal intensity, but are in no way a new occurrence – have not however robbed people of Gaza, as individuals, of their ability to share in the grief and fear of others.

      “Striving to stay human” is what Palestinians have been doing and continue to do even as they are forced to make inhumane choices such as deciding who to rescue from under the rubbles based on who has more possibility to survive, as recounted by journalist Ahmed Dremly from Gaza during his brief and precious dispatches from the strip under the heavy shelling. This colonial violence will continue to produce traumatic effects in the generations of survivors. Yet, it has to be made clear that as the occupied people, Palestinians cannot be expected to bear the pain of the occupier. Equal standing and rights in life are the necessary preconditions for collective shared grief of death.

      Mahmoud Darwish wrote, in one of his essays on the “madness” of being Palestinian, written after the massacre of Sabra and Shatila in 1982, that the Palestinian “…is encumbered by the relentless march of death and is busy defending what remains of his flesh and his dream…his back is against the wall, but his eyes remain fixed on his country. He can no longer scream. He can no longer understand the reason behind Arab silence and Western apathy. He can do only one thing, to become even more Palestinian… because he has no other choice”.

      The only antidote to the spiral of violence is an end to the occupation and siege, and for Israel to fully comply with international law and to the UN resolutions, as a first and non-negotiable step. From there we can begin to imagine a future of peace and humanity for both Palestinians and Israelis.

      https://untoldmag.org/gaza-between-colonial-trauma-and-genocide
      #colonialisme #traumatisme_colonial #génocide

    • Can the Palestinian speak ?

      It is sadly nothing new to argue that oppressed and colonised people have been and are subject to epistemic violence – othering, silencing, and selective visibility – in which they are muted or made to appear or speak only within certain perceptual views or registers – terrorists, protestors, murderers, humanitarian subjects – but absented from their most human qualities. Fabricated disappearance and dehumanisation of Palestinians have supported and continue to sustain their physical elimination and their erasure as a people.

      But the weeks after October 7th have set a new bar in terms of the inverted and perverse ways that Palestinians and Israel can be represented, discussed, and interpreted. I am referring here to a new epistemology of time that is tight to a moral standpoint that the world is asked to uphold. In that, the acts of contextualising and providing historical depth are framed as morally reprehensible or straight out antisemitic. The idea that the 7th of October marks the beginning of unprecedented violence universalises the experience of one side, the Israeli, while obliterating the past decades of Palestinians’ predicament. More than ever, Palestinians are visible, legible, and audible only through the frames of Israeli subjectivity and sensibility. They exist either to protect Israel or to destroy Israel. Outside these two assigned agencies, they are not, and cannot speak. They are an excess of agency like Spivak’s subaltern,[1] or a ‘superfluous’ people as Mahmoud Darwish[2] put it in the aftermath of the Sabra and Chatila massacre. What is more is the persistent denying by Israel and its Western allies, despite the abundant historical evidence, that Palestinian indigenous presence in Palestine has always been at best absented from their gaze – ‘a problem’ to manage and contain – at worse the object of systemic and persistent ethnic cleansing and erasure aiming at fulfilling the narcissistic image of “a land without a people for a people without a land.” Yet, the erasure of Palestinians, also today in Gaza, is effected and claimed while simultaneously being denied.

      A quick check of the word “Palestine” on google scholar returns one million and three hundred thousand studies, nearly half of them written from the mid 1990s onwards. Even granting that much of this scholarship would be situated in and reproducing orientalist and colonial knowledges, one can hardly claim scarcity of scholarly production on the dynamics of subalternity and oppression in Palestine. Anthropology, literary theory, and history have detected and detailed the epistemological and ontological facets of colonial and post-colonial erasure. One might thus ask: how does the persistent denial of erasure in the case of Palestinians work? We might resort to psychoanalysis or to a particular form of narcissistic behaviour known as DAVRO – Deny, Attack, and Reverse Victim and Offender[3] – to understand the current pervading and cunning epistemic violence that Israel and its allies enact. Denying the radical obstructing and effacing of Palestinian life (while effecting it through settler-colonialism, settler and state violence, siege, apartheid, and genocidal violence in Gaza) is the first stage in Israel’s and western allies’ discursive manipulation. Attacking historicisation and contextualisation as invalid, antisemitic, propaganda, hate speech, immoral, outrageous, and even contrary to liberal values is the second stage. Lastly is the Reversing Victim and Offender by presenting the war on Gaza as one where Israel is a historical victim reacting to the offender, in response to demands that Israel, as the colonial and occupying power, takes responsibility for the current cycle of violence.

      This partly explains why the violent attack that Hamas conducted in the south of Israel last October, in which 1200 people were killed, is consistently presented as the start date of an ‘unprecedented’ violence, with more than 5000 Palestinians killed in carpet bombings of Gaza until 2022 doubly erased, physically and epistemically. With this, October 7th becomes the departure point of an Israeli epistemology of time assumed as universal, but it also marks an escalation in efforts to criminalise contextualisation and banish historicisation.

      Since October 7th, a plurality of voices – ranging from Israeli political figures and intellectuals, to mainstream and left-leaning journalists – has condemned efforts to inscribe Gaza into a long term history of colonialism as scurrilous justification for the killing of Israeli civilians. Attempts to analyse or understand facts through a historical and political frame, by most notably drawing attention to Gazans’ lived experience over the past 16 years (as a consequence of its long term siege and occupation) or merely to argue that there is a context in which events are taking place, such as General UN director Guterres did when he stated that October 7th “did not happen in a vacuum,” are represented as inciting terrorism or morally repugnant hate speech. In the few media reports accounting for the dire and deprived conditions of Palestinians’ existence in Gaza, the reasons causing the former are hardly mentioned. For instance, we hear in reports that Palestinians in Gaza are mostly refugees, that they are unemployed, and that 80% of them are relying on aid, with trucks of humanitarian aid deemed insufficient in the last few weeks in comparison to the numbers let in before the 7th of October. Astoundingly, the 56 years old Israeli occupation and 17 years old siege of Gaza, as root causes of the destruction of the economy, unemployment, and reliance on aid are not mentioned so that the public is left to imagine that these calamities are the result of Palestinians’ own doing.

      In other domains, we see a similar endeavour in preventing Palestine from being inscribed in its colonial context. Take for instance the many critical theorists who have tried to foreclose Franz Fanon’s analysis of colonial violence to Palestinians. Naming the context of colonial violence and Palestinians’ intergenerational and ongoing traumas is interpreted as morally corrupt, tantamount to not caring for Israeli trauma and a justification for the loss of Israeli lives. The variation of the argument that does refer to historical context either pushes Fanon’s arguments to the margins or argues that the existence of a Palestinian authority invalidates Fanon’s applicability to Palestine, denying therefore the effects of the violence that Palestinians as colonised subjects have endured and continue to endure because of Israeli occupation, apartheid, and siege.

      But perhaps one of the most disconcerting forms of gaslighting is the demand that Palestinians should – and could – suspend their condition of subordination, their psychic and physical injury, to centre the perpetrators’ feelings and grief as their own. In fact, the issue of grief has come to global attention almost exclusively as an ethical and moral question in reaction to the loss of Israeli lives. Palestinians who accept to go on TV are constantly asked whether they condemn the October 7th attack, before they can even dare talk about their own long history of loss and dispossession, and literally while their families are being annihilated by devastating shelling and bombing and still lying under the rubbles. One such case is that of PLO ambassador to the UK Hussam Zomlot, who lost members of his own family in the current attack, but was asked by Kirsty Wark to “condemn Hamas” on screen. To put it another way: would it even be conceivable to imagine a journalist asking Israeli hostages in captivity if they condemn the Israeli bombardments and the war on Gaza as a precondition to speak and be heard?

      “Condemning” becomes the condition of Palestinian intelligibility and audibility as humans, a proof that they share the universal idea that all human life is sacred, at the very moment when the sacrality of human life is violently precluded to them and when they are experiencing with brutal clarity that their existence as a people matters to no one who has the power to stop the carnage. This imperative mistakes in bad faith the principle that lives should have equal worth with a reality that for Palestinians is plainly experienced as the opposite of this postulate. Israel, on the other hand, is given “the extenuating circumstances” for looking after Israelis’ own trauma by conducting one of the most indiscriminate and ferocious attacks on civilians in decades, superior in its intensity and death rate to the devastation we saw in Afghanistan, Iraq, and Syria, according to the New York Times. Nearly 20.000 killed – mostly children, women, and elderly – razed, shelled, bulldozed while in their homes or shelters, in an onslaught that does not spare doctors, patients, journalists, academics, and even Israeli hostages, and that aims at making Gaza an unlivable habitat for the survivors.

      Let us go back to the frequently invoked question of “morality.” In commentaries and op-eds over the last few weeks we are told that any mention of context for the attacks of October 7th is imperiling the very ability to be compassionate or be moral. Ranging from the Israeli government that argues that a killing machine in Gaza is justified on moral grounds – and that contextualisation and historicisation are a distraction or deviation from this moral imperative – to those who suggest Israel should moderate its violence against Palestinians – such as New York times columnist Nicholas Kristof who wrote that “Hamas dehumanized Israelis, and we must not dehumanize innocent people in Gaza” – all assign a pre-political or a-political higher moral ground to Israel. Moreover, October 7th is said to – and is felt as – having awakened the long historical suffering of the Jews and the trauma of the Holocaust. But what is the invocation of the Holocaust – and the historical experience of European antisemitism – if not a clear effort at historical and moral contextualisation? In fact, the only history and context deemed evocable and valid is the Israeli one, against the history and context of Palestinians’ lives. In this operation, Israeli subjectivity and sensibility is located above history and is assigned a monopoly of morality with October 7th becoming an a-historical and a meta-historical fact at one and the same time. In this canvas Palestinians are afforded permission to exist subject to inhabiting one of the two agencies assigned to them: guardian of Israeli life or colonised subject. This is what Israeli president Herzog means when he declares that there are no innocents in Gaza: “It’s an entire nation out there that is responsible. This rhetoric about civilians not aware, not involved, it’s absolutely not true. They could’ve risen up, they could have fought against that evil regime”. The nearly twenty thousand Palestinian deaths are thus not Israel’s responsibility. Palestinians are liable for their own disappearance for not “fighting Hamas” to protect Israelis. The Israeli victims, including hundreds of soldiers, are, on the other hand, all inherently civilians, and afforded innocent qualities. This is the context in which Heritage Minister Amichai Eliyahu, of Itamar Ben Gvir’s far-right party in power, can suggest nuking Gaza or wiping out all residents: “They can go to Ireland or deserts, the monsters in Gaza should find a solution by themselves”. Let us not here be mistaken by conceding this might just be a fantasy, a desire of elimination: the Guardian and the +972/Local call magazines have provided chilling evidence that Palestinian civilians in Gaza are not “collateral” damage but what is at work is a mass assassination factory, thanks to a sophisticated AI system generating hundreds of unverified targets aiming at eliminating as many civilians as possible.

      Whether Palestinians are worthy of merely living or dying depends thus on their active acceptance or refusal to remain colonised. Any attempts to exit this predicament – whether through violent attacks like on October 7th or by staging peaceful civil tactics such as disobedience, boycott and divesting from Israel, recurrence to international law, peaceful marches, hunger strikes, popular or cultural resistance – are all the same, and in a gaslighting mode disallowed as evidence of Palestinians’ inherent violent nature which proves they need taming or elimination.

      One might be compelled to believe that dehumanisation and the logic of elimination of Palestinians are a reaction to the pain, sorrow, and shock generated by the traumatic and emotional aftermath of October 7th. But history does not agree with this, as the assigning of Palestinians to a non-human or even non-life sphere is deeply rooted in Israeli public discourse. The standpoint of a people seeking freedom from occupation and siege has consistently been reversed and catalogued as one of “terror and threat” to Israeli state and society when it is a threat to their colonial expansive or confinement plans, whether the latter are conceived as divinely mandated or backed by a secular settler-colonial imaginary. In so far as “terrorists” are birthed by snakes and wild beasts as Israeli lawmaker Ayelet Shaker states, they must be exterminated. Her words bear citation as they anticipate Gaza’s current devastation with lucid clarity: “Behind every terrorist stand dozens of men and women, without whom he could not engage in terrorism. They are all enemy combatants, and their blood shall be on all their heads”. Urging the killing of all Palestinians women, men, and children and the destruction of their homes, she continued: “They should go, as should the physical homes in which they raised the snakes. Otherwise, more little snakes will be raised there. They have to die and their houses should be demolished so that they cannot bear any more terrorists.” This is not an isolated voice. Back in 2016 Prime Minister Netanyahu argued that fences and walls should be built all around Israel to defend it from “wild beasts” and against this background retired Israeli general and former head of Intelligence Giora Eiland, in an opinion article in Yedioth Aharonoth on November 19, argues that all Palestinians in Gaza die of fast spreading disease and all infrastructure be destroyed, while still positing Israel’s higher moral ground: “We say that Sinwar (Hamas leader in Gaza, ndr) is so evil that he does not care if all the residents of Gaza die. Such a presentation is not accurate, since who are the “poor” women of Gaza? They are all the mothers, sisters, or wives of Hamas murderers,” adding, “And no, this is not about cruelty for cruelty’s sake, since we don’t support the suffering of the other side as an end but as a means.”

      But let us not be mistaken, such ascription of Palestinians to a place outside of history, and of humanity, goes way back and has been intrinsic to the establishment of Israel. From the outset of the settler colonial project in 1948, Palestinians as the indigenous people of the land have been dehumanised to enable the project of erasing them, in a manner akin to other settler colonial projects which aimed at turning the settlers into the new indigenous. The elimination of Palestinians has rested on more than just physical displacement, destruction, and a deep and wide ecological alteration of the landscape of Palestine to suit the newly fashioned Israeli identity. Key Israeli figures drew a direct equivalence between Palestinian life on the one hand and non-life on the other. For instance, Joseph Weitz, a Polish Jew who settled in Palestine in 1908 and sat in the first and second Transfer Committees (1937–1948) which were created to deal with “the Arab problem” (as the indigenous Palestinians were defined) speaks in his diaries of Palestinians as a primitive unity of human and non-human life.[4] Palestinians and their habitat were, in his words, “bustling with man and beast,” until their destruction and razing to the ground in 1948 made them “fossilized life,” to use Weitz’ own words. Once fossilised, the landscape could thus be visualised as an empty and barren landscape (the infamous desert), enlivened and redeemed by the arrival of the Jewish settlers.

      Locating events within the context and long durée of the incommensurable injustices inflicted upon the Palestinians since 1948 – which have acquired a new unimaginable magnitude with the current war on Gaza – is not just ethically imperative but also politically pressing. The tricks of DARVO (Denying Attacking and Reversing Victim and Offender) have been unveiled. We are now desperately in need of re-orienting the world’s moral compass by exposing the intertwined processes of humanisation and dehumanisation of Jewish Israelis and Palestinians. There is no other way to begin exiting not only the very conditions that usher violence, mass killings, and genocide, but also towards effecting the as yet entirely fictional principle that human lives have equal value.

      [1] Spivak, G. “Can the Subaltern Speak?” (1988). In Lawrence Grossberg and Cary Nelson, eds., Marxism and the Interpretation of Culture, pp. 271–313. Urbana: University of Illinois Press; Basingstoke: Macmillan.

      [2] Mahmoud Darwish, “The Madness of Being a Palestinian,” Journal Of Palestine Studies 15, no. 1 (1985): 138–41.

      [3] Heartfelt thanks to Professor Rema Hamami for alerting me to the notion of DAVRO and for her extended and invaluable comments on this essay.

      [4] Cited in Benvenisti M (2000) Sacred Landscape: The Buried History of the Holy Land since 1948. Berkeley: University of California Press. pp.155-156.

      https://allegralaboratory.net/can-the-palestinian-speak
      #violence_épistémique #élimination #in/visilité #nettoyage_ethnique #oppression #DAVRO

  • La #désinformation qui déstabilise la #démocratie

    « La désinformation est un bouton fantastique sur lequel appuyer pour déstabiliser les démocraties. C’est la #menace la plus sournoise. Parce que la démocratie fonctionne si on a accès à l’#information, pour pouvoir porter un jugement et participer au #débat_public ». C’est ainsi que le professeur adjoint en communication publique et politique à l’ENAP, Philippe Dubois, résumait le problème qui était au coeur du forum La démocratie au temps de la désinformation, tenu le 30 novembre à Montréal.

    La démocratie recule, soulignait d’ailleurs cette année un rapport du Varieties of Democracy Institute de l’Université de Göteborg (Suède) (https://v-dem.net/documents/29/V-dem_democracyreport2023_lowres.pdf), fruit d’une collaboration de près de 4000 experts de 180 pays. La désinformation, la #polarisation et l’#autocratisation se renforcent mutuellement.

    Avec l’ajout récent de la Thaïlande et du Mali, pour la première fois depuis plus de 20 ans, la liste des pays compte plus d’#autocraties que de démocraties : 5,7 milliards de personnes vivent dans des autocraties (72% de la population mondiale) contre 1 milliard de personnes pour les démocraties libérales —soit à peine 13%. Et près d’un tiers du premier groupe vit même au sein d’autocraties fermées (Chine, Iran, Myanmar et Vietnam, par exemple).

    Bref, le niveau de démocratie pour le citoyen mondial moyen est en recul, pour revenir au niveau de 1986. L’Europe de l’Est et l’Asie centrale, ainsi que l’Amérique latine et les Antilles, ont retrouvé leur niveau de la fin de la guerre froide.

    « C’est souvent un idéal que l’on prend pour acquis avec ses opportunités de délibération : presse libre, débats publics, et des institutions publiques pour faire fonctionner cela », avance Philippe Dubois. Ce « modèle le moins pire », comme l’aurait dit Churchill, « a bien souffert lors de la récente pandémie ». Avec ses mesures exceptionnelles et restrictives, la Covid-19 a vu reculer, de manière temporaire, certains droits et libertés. Cela a entaché la confiance dans les institutions démocratiques, et dans leurs acteurs, confiance qui n’était déjà pas si élevée avant la crise sanitaire.

    Or, les #réseaux_sociaux jouent eux aussi un rôle dans cette #régression. Peut-être parce qu’ils répercutent plus les #frustrations et la #colère que la #raison et les #nuances, il y aurait, semble-t-il, plus de cyniques et de mécontents qu’avant. Certaines tranches de la population s’avèrent aussi moins attachées à la démocratie, comme les jeunes, qui s’informent eux-mêmes davantage que les plus vieux par les algorithmes. « Cela ne signifie pas qu’ils rejettent la démocratie. Cela signifie plutôt qu’ils partagent davantage un type de contenu » qui la rejette, note le chercheur.

    L’École des médias de l’UQAM avait mandaté cet été la firme Léger pour sonder la population québécoise sur leurs perceptions sur des enjeux liés à la démocratie et à la désinformation. Le rapport montre que 25% de la population québécoise pense que les gouvernements cachent la réalité sur la nocivité des vaccins —18% pensent que c’est probable, alors que 8% pensent que c’est certain.

    C’est une #méfiance envers les institutions qui augmente, tout comme celle envers les #médias, car selon ce sondage, 44% de la population québécoise pense que les médias manipulent l’information qu’ils diffusent.

    En quête de #littératie_scientifique

    « Nous vivons une #crise_épistémologique avec une remise en question des #figures_d’autorité » constatait, lors du forum du 30 novembre, le professeur au département sciences humaines, lettres et communications de la TÉLUQ, Normand Landry. « Les gens parlent d’#esprit_critique mais c’est un mot galvaudé : où est notre capacité de se remettre en question et de changer d’idées et d’admettre nos erreurs ? »

    D’où l’importance de l’#éducation_aux_médias et de la littératie scientifique, soulignait-on dans ce forum organisé par les Fonds de recherche du Québec. Mélissa Guillemette, rédactrice en chef du magazine Québec Science, note que « moins de la moitié des Canadiens ont des bases solides en science (42%), c’est donc à mettre au premier plan. La littératie en santé au Québec reste elle aussi très faible chez 2 personnes sur 3 et pour 95% des 60 ans et plus, il s’avère même difficile de comprendre un médecin. »

    Les #jeunes ont particulièrement du mal à distinguer le #vrai du #faux. « Les adolescents ont du mal à reconnaître la désinformation. Ils manquent de bons critères d’évaluation pour juger de la qualité d’une bonne information », relève l’étudiante à la maîtrise en sciences de l’éducation de l’Université de Sherbrooke, Élise Rodrigue-Poulin.

    « Chez les enseignants aussi, le niveau de pensée critique varie souvent de faible à moyen. Et lorsque la nouvelle fait appel à trop d’#émotion, la plupart d’entre nous ne sommes plus capables de l’évaluer correctement », ajoute-t-elle.

    La solution serait de s’éduquer à reconnaître la désinformation, mais il faudrait aussi développer du contenu scolaire pour soutenir l’esprit critique chez les jeunes – et par ricochet, le personnel enseignant. Des éléments inclus dans le nouveau programme Culture et citoyenneté québécoise, vont dans ce sens.

    Ce serait toutefois insuffisant. « Le programme a plusieurs points positifs : donner des outils et des critères sur les informations et les médias, et l’explication de ce qu’est la démocratie. Comme enseignante, je trouve ça bon, mais il n’est pas obligatoire cette année et il a été présenté aux enseignants quelques jours avant la rentrée », explique Mme Rodrigue-Poulin. Il doit être implanté dans toutes les écoles en septembre 2024.

    Normand Landry renchérit : « Je salue l’adoption d’un programme mais je le pense moins sérieux dans le soutien à développer ce savoir. Depuis plus de 20 ans, l’#école développe du contenu d’éducation aux médias – par exemple, sur les compétences numériques, adopté en 2019 – mais sans se donner les conditions de déploiement et des ressources pour les enseignants. »

    La désinformation à gogo

    « Nous sommes dans une espèce de jungle et trouver la vérité, c’est un casse-tête. La désinformation, cela ne date pas d’hier mais c’est le volume qui augmente. », rappelle Nicolas Garneau, chercheur postdoctoral en informatique à l’Université de Copenhague.

    Et nous pouvons tous partager de la désinformation. Les réseaux sociaux sont conçus pour nous inviter à générer du contenu – « exprimez-vous », « posez des actions » – à partir de messages qui en appellent à nos #émotions.

    Il faut donc apprendre à se méfier des choix des #algorithmes et développer son esprit critique – « d’où ça sort ? », « quelle est la source de l’info ? »

    « Il ne faut pas oublier que ce sont des modèles économiques basés sur nos données. Ils enregistrent ce que l’on regarde et lorsqu’on s’exprime. Les plateformes exploitent nos #failles_psychologiques », rappelle Emmanuelle Parent, directrice générale et recherche du Centre pour l’intelligence émotionnelle en ligne (Le Ciel).

    Le professeur en journalisme à l’École des médias de l’Université du Québec à Montréal, Jean-Hugues Roy, s’intéresse plus spécifiquement à Facebook. Il remarque qu’il y a beaucoup de contenus viraux —et religieux— qui circulent. Qui plus est, en l’absence de véritables informations – en raison du blocage du contenu des médias par Meta – « il n’y a plus rien de pertinent. C’est un véritable marché aux puces de #contenus_viraux dont certains peuvent être toxiques. Cela peut prendre l’apparence de contenu journalistique, en ajoutant des éléments mensongers et trompeurs uniquement pour faire des clics. »

    Il est temps d’encadrer ces plateformes, poursuit-il. Une démarche entamée par le Canada avec le projet de loi C-18 qui vise à forcer les « géants du web » à indemniser les médias d’information —c’est ce projet de loi qui est la raison du boycottage des médias entrepris en ce moment par Meta au Canada.

    « Ce sont des entreprises privées et on s’attend à ce qu’elles prennent leurs responsabilités ou que les autorités le fassent. Nous avons une agence d’inspection des aliments au Canada, il est possible d’imaginer une agence d’inspection des réseaux sociaux alors que nos vies sont dessus et qu’ils font beaucoup d’argent avec nos données », pense M. Roy.

    Autrement dit, il faut un encadrement de ces outils par l’humain. « Leur raison d’être est de nous donner un coup de main, pas de décider à notre place », tranche encore Nicolas Garneau.

    https://www.sciencepresse.qc.ca/actualite/2023/12/15/desinformation-destabilise-democratie

  • Berliner Clan : So versuchten Unbekannte einen gefangenen Remmo zu befreien
    https://www.berliner-zeitung.de/news/berlin-gefangenenbefreiung-eines-clan-mitglieds-scheitert-li.217056

    Berlin a ses Mesrine de pacotille. Ces jeunes gens vivent leur propre mythe. Leurs triomphes éphémères (le vol de la pièce d’or la plus lourd du monde, une intrusion armée dans la bijouterie du KaDeWe, l’accumulation d’un patrimoine immobilier) sont célébrés par les rappeurs et l’entreprise criminelle tourne sans relâche.

    Pourtant tenir le cap est plus difficile dans vraie vie que dans les histoires. La tentative de libération d’un membre de la bande vient d’échouer parce que l’évasion a été mal préparée. C’est l’hybris chez les fiers braqueurs.

    On se rappelle de la fin de la traque de Mesrine. Les cambrioleurs les plus fiers de Berlin, les frères Sass, ont été assassinés après l’arrivée au pouvoir des nazis. La bande des Remmo aura réussi son entrée dans la ligue des braqueurs historiques. Espérons que leur fin sera moins dramatique.

    Les grands criminels qui ont réussi à bätir une fortune pour les génerations suivantes ont fait preuve de grande discrétion et de compétences en politique. Pour ne citer que les exemples les mieux connus, il s’agit des familles derrière Porsche, BMW et Mercedes. Leurs ancêtres ont su transmettre leurs fortunes acquises par la guerre et le génocide au dela la fin du fascisme allemand . Ils ont réussi à rétablir les bonnes relations d’avant-guerre avec les impérialistes états-uniens. Aujourd’hui ces familles font partie du cartel qui contrôle le destin de l’Allemagne

    Les kurdo-arabes Remmo n’accederont jamais à ce niveau de pérennité. Ils n’ont pu qu’agir à l’encontre des lois. Leurs adversaires sont les forces qui travaillent pour les criminels qui font les règles dans l’état allemand. On le sait déjà quelle bande gagnera.

    21.12.2023 von Christian Gehrke - Ein Mitglied eines Berliner Clans sollte aus einem gesicherten Krankenhaus in Buch befreit werden. Wachleute bemerkten die Aktion jedoch. Der Berliner Zeitung liegen weitere Details vor.

    Ein Mitglied des bekannten arabischstämmigen Remmo-Clans in Berlin sollte aus einem gesicherten Krankenhaus für Kriminelle befreit werden. Der Versuch der Gefangenenbefreiung in der Nacht zu Mittwoch im Stadtteil Buch im Norden Berlins scheiterte aber, weil Wachleute den Einbruch bemerkten. Das Clan-Mitglied befand sich in einem sogenannten Krankenhaus des Maßregelvollzugs, einer Klinik für psychisch kranke Straftäter.

    Am Donnerstag werden weitere Details zur Tat bekannt. Nach Informationen der Berliner Zeitung verschafften sich vier mit Sturmhauben maskierte Männer, die dunkel gekleidet waren, über die Zufahrt des benachbarten Helios-Klinikums Zugang zu dem gesicherten Krankenhaus. Mit einem Winkelschleifer durchtrennten sie den Außenzaun und hebelten mit einem Kuhfuß die Durchgangstür auf.

    Die Täter liefen danach zu dem Haftraum des 26-jährigen Clan-Mitglieds und gaben ihm durch die vergitterten Fenster einen Winkelschleifer. Mit dem Winkelschleifer und weitere Geräten versuchten die vier Männer und der Inhaftierte, das massive Fenstergitter zu entfernen. Die Alarmanlage wurde ausgelöst, Sicherheitsmitarbeiter störten die Täter. Die vier Männer ergriffen die Flucht in einem BMW und einem Audi und ließen den Inhaftierten zurück. Dieser wurde in einen anderen Bereich des Krankenhauses verlegt, bei ihm wurden mehrere Mobiltelefone gefunden.
    Remmo-Clan: Polizei Berlin kennt die Kennzeichen der Fluchtautos

    Die Ermittler werten jetzt Videoaufnahmen aus und versuchen, die Täter so zu überführen. Die Kennzeichen der Fluchtautos sind ihnen bekannt.

    Die Gewerkschaft der Polizei (GdP) teilte mit, der „dreiste Versuch“ beweise einmal mehr, dass es im Zusammenhang mit der bekannten Großfamilie Täter gebe, die den Rechtsstaat missachteten. „Wir hoffen, dass die Videoaufnahmen zur Überführung der Täter führen. Dann müssten sie auch nicht wieder mit Flex Zäune und Gitter durchtrennen, sondern könnten gleich in der Zelle nebenan Platz nehmen.“

    Guten Morgen!
    Nach Recherche von @DennisMeischen sollte in der Nacht zu Mittwoch ein kriminelles Mitglied der Familie Remmo aus dem Maßregelvollzug in Buch befreit werden - Der Fluchtversuch scheiterte dank aufmerksamer Arbeit des Personals https://t.co/TpUvl100ZE pic.twitter.com/E0Csx6IkLE
    — GdP Berlin (@GdPHauptstadt) December 21, 2023

    #Allemagne #Berlin #criminalité #mythologie

  • 🏗️ Ceci n’est pas une crise
    https://www.dixit.net/nl20-12-copy

    Mais il y a une erreur sur le diagnostic, car ceci n’est pas une crise. Une crise a un début et une fin, mais il n’y aura pas de sortie cette fois-ci. L’industrie immobilière se confronte aux limites planétaires, comme le paquebot touche l’iceberg que son capitaine faisait semblant de ne pas voir. Il n’y aura pas de fin, car ceci n’est pas une crise, un mauvais moment à passer ou l’ouverture d’une parenthèse. C’est la fermeture d’une longue parenthèse pendant laquelle le béton a coulé à flots, les ressources étaient illimitées, l’argent pas cher et le foncier agricole infini. C’est la fin brutale de la ville facile, et le début d’un nécessaire changement de cap.

  • « Loin de créer un “choc des savoirs”, Gabriel Attal va produire un choc d’ignorance », Pierre Merle, spécialiste des questions scolaires
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/19/pierre-merle-specialiste-des-questions-scolaires-loin-de-creer-un-choc-des-s

    La réforme souhaitée par le ministre de l’éducation nationale, Gabriel Attal, sous l’appellation « choc des savoirs », est fondée sur des diagnostics erronés. Première contrevérité, le collège français n’est nullement « uniforme ». En 2022, les collèges publics scolarisent près de 40 % d’élèves défavorisés. Les collèges privés en scolarisent moins de 16 %. Encore ne s’agit-il que de moyenne ! Dans les réseaux d’éducation prioritaire (REP et REP+), la proportion d’élèves d’origine populaire dépasse parfois 70 % alors qu’elle est souvent inférieure à 10 % dans les collèges privés du centre-ville des capitales régionales.

    A cette #ségrégation_sociale interétablissement, à laquelle correspondent des différences considérables de compétences des élèves, s’ajoute, énonce notamment une étude publiée en 2016 par le Conseil national d’évaluation du système scolaire (Cnesco), une ségrégation intraétablissement d’une importance équivalente en raison de la multiplication des #sections bilangues et européennes, des classes à horaires aménagés, des langues rares, etc.

    Vouloir créer des groupes de niveau (faible, moyen, fort) dans des classes déjà homogènes est une triple erreur. D’abord, l’idée (en elle-même bienvenue) de réduire à 15 le nombre de collégiens dans les groupes de niveau d’élèves faibles profitera à des élèves moyens, voire bons, scolarisés dans les collèges très favorisés, au détriment des élèves réellement faibles scolarisés en REP.

    Ensuite, en 2019, une synthèse des recherches publiée par Sciences Po Paris a montré un effet bénéfique de la mixité sociale et scolaire sur les progressions des élèves faibles, sans effet négatif sur les meilleurs. Séparer encore davantage les élèves faibles des élèves moyens et forts ne fera qu’accentuer leurs difficultés d’apprentissage.

    Mixité sociale bénéfique à tous

    Enfin, l’évaluation des expériences de mixité sociale réalisées en France, souligne une note publiée en avril par le Conseil scientifique de l’éducation nationale, se traduit par un accroissement du bien-être de l’ensemble des élèves, y compris celui des élèves favorisés. La mixité sociale favorise aussi le développement des capacités socioémotionnelles, réduit la prévalence des #stéréotypes raciaux et sociaux et, pour les élèves socialement défavorisés, améliore leur insertion professionnelle (note de l’Institut des politiques publiques, publiée en novembre). Autant d’effets bénéfiques à tous les élèves. L’établissement scolaire et la classe sont des petites sociétés. Il faut créer de l’unité, non des groupes de niveau.

    La seconde contrevérité du projet ministériel est d’accréditer l’idée d’un redoublement favorable aux élèves en difficulté. Un large consensus scientifique a montré que cette politique débouche sur un résultat inverse. Le redoublement produit des effets négatifs en termes d’estime de soi, de motivation et d’apprentissages ultérieurs. Les seules exceptions concernent, outre la classe de terminale, les classes de 3e et de 2de dans lesquelles les élèves faibles, en cas de redoublement, sont motivés pour éviter une orientation non choisie.

    Tout comme la création des groupes de niveau, des redoublements plus fréquents pénaliseront les élèves faibles, majoritairement d’origine défavorisée. Alors même que, pour l’école française, le constat principal de l’édition 2022 du Programme international pour le suivi des acquis des élèves (PISA) est l’écart considérable entre le niveau des élèves d’origine défavorisée et favorisée, le ministre Gabriel Attal, loin de créer un choc des savoirs, va produire un choc d’ignorance fondé sur une mise à l’écart encore plus accentuée des élèves les plus faibles.

    Le projet ministériel contient d’autres contradictions. Par exemple, Gabriel Attal souhaite une réforme des programmes et une labellisation des manuels scolaires, non pas en référence avec les cycles actuels de trois ans, mais avec des « objectifs annuels », voire « semi-annuels ». Finalement, après avoir dénoncé une uniformité fantasmée du collège, le ministre veut imposer un rythme de progression identique à tous les élèves alors même que, dès l’âge de 2 ans, les inégalités socio-économiques différencient sensiblement leurs compétences langagières.

    De surcroît, la décision de réformer au plus vite le « socle commun » [de connaissances, de compétences et de culture] signifie que l’expérience des #professeurs, les plus avertis des difficultés des élèves, ne sera pas prise en compte. Gabriel Attal veut renforcer leur autorité et, dans le même temps, a déjà décidé d’une modification des programmes sans même les consulter. Un bel exemple de déni de leurs compétences. Pourquoi, aussi, faut-il changer d’urgence des #programmes déjà réécrits par Jean-Michel Blanquer ? Sont-ils à ce point médiocres ? Et pourquoi la nouvelle équipe ministérielle ferait-elle mieux que l’ancienne ?

    Effets délétères

    Dernier exemple, bien que les résultats de #PISA 2022 montrent une baisse des compétences des élèves en #mathématiques, le ministre a décidé la création, à la fin des classes de premières générales et technologiques, d’une nouvelle épreuve anticipée du bac consacrée aux mathématiques et à la culture scientifique. Le ministre se targue de provoquer un choc des savoirs tout en supprimant une année entière d’enseignement scientifique ! Un projet paradoxal dont la genèse tient à l’absence d’une réelle réflexion sur un problème incontournable : la #crise_de_recrutement des professeurs, particulièrement en mathématiques.

    La réforme Blanquer, en reportant le concours d’accès au professorat de la fin du master 1 à celle du master 2, a réduit l’attractivité déjà insuffisante du métier d’enseignant. Certes, Gabriel Attal souhaite revenir sur cette réforme désastreuse, mais son projet est controversé. Au mieux, une réforme ne s’appliquera qu’à la rentrée 2025. En attendant, le ministre se contente d’expédients tels que le recrutement de #contractuels non formés, choix incompatible avec l’élévation du niveau scolaire des élèves.

    L’analyse du projet ministériel montre les effets délétères des mesures envisagées. Groupes de niveau, #redoublement, fin du collège « uniforme », énième réforme des programmes, renforcement de l’autorité du professeur… ne sont que les poncifs éculés de la pensée conservatrice. Ils ne répondent en rien à la crise de l’école française. En revanche, électoralistes et populistes, ces mesures sont susceptibles de servir l’ambition présidentielle de l’actuel ministre de l’éducation.

    Pierre Merle est sociologue, spécialiste des questions scolaires et des politiques éducatives, et il a notamment publié « Parlons école en 30 questions » (La Documentation française, 2021).

    https://seenthis.net/messages/1031680

    #élitisme #obscurantisme #autorité #école #éducation_nationale #élèves #éducation #groupes_de_niveau #ségrégation #Gabriel_Attal #hétérogénéité #coopération

  • Mine games

    Rare earths are to the 21st century what coal was to the 19th and oil to the 20th. Our everyday electronics - and Europe’s climate goals - depend on them. But China controls almost all supply chains. Can Europe free itself from this dependence?

    Your mobile has them. Your laptop as well. They are likely in the toothbrush you used this morning. E-scooters are full of them. So are electric cars.

    Rare earths and other minerals are essential for wind and solar power installations, defence, and for the gadgets that we now rely upon in our daily lives. The demand for critical raw materials is going to skyrocket in the years ahead, far beyond current supply.

    There is no “climate neutrality” ahead without them. This implies more mining than ever before. “We, eight billion of us, will use more metal than the 108 billion people who lived before us,” according to Guillaume Pitrón, author of the book Rare Metals War.

    The political headache is that Europe depends heavily on imports of these critical raw materials, primarily from China.

    China controls EU supply of critical raw materials
    The trade in rare earths and other materials is controlled by the Chinese. Russia and Chile are significant suppliers as are some European nations.

    European dependency on Russian gas was a wake-up call last year, when Russia invaded Ukraine. Now the EU urgently wants to reduce the similar dependency on Chinese supplies of rare earth elements, lithium, bismuth, magnesium and a series of other critical minerals.

    European consumers have for decades not had to be much concerned with the environmental destruction and pollution that often comes with mining. Now, governments haste to revive mining across the continent – and to fast-track processes that otherwise may take a decade or more.

    https://www.youtube.com/watch?v=qzw9-1G9Sok

    Investigate Europe reporters have unearthed what lies beneath these “green mining” ambitions. We have broken into a mountain of dilemmas, challenges and questions that come with Europe’s pressing need for minerals.

    To what extent will Europe be practically able to revive a mining industry that it has long abandoned? How can governments secure social acceptance for new mines if they are to fast-track permit processes? What kind of autonomy can come in an industry dominated by global companies?

    https://www.investigate-europe.eu/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe
    #minières #mines #extractivisme #Europe #Chine #dépendance #indépendance #terres_rares #neutralité_climatique #transition_énergétique #importation #lithium #bismuth #magnésium #green_mining #industrie_minière #autonomie

    disponible en plusieurs langues, français notamment :
    https://www.investigate-europe.eu/fr/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe

    • Écocides et #paradis_fiscaux : révélations sur les dérives du soutien européen à l’industrie minière

      Pour développer l’industrie des #batteries_électriques ou des éoliennes, l’Union européenne finance des entreprises minières au travers du programme #Horizon. Une partie de ces fonds soutient des sociétés impliquées dans des catastrophes environnementales, voire, pour l’une d’entre elles, domiciliée dans un paradis fiscal.

      C’est une immense tâche blanche, un entrelacs de tuyaux et de cuves, au milieu d’un écrin vert-bleu, à l’embouchure du fleuve Amazone, au #Brésil. Ici, l’usine de la société minière française #Imerys a laissé un souvenir amer aux communautés autochtones. En 2007, plusieurs dizaines de familles ont été contraintes à l’exil lorsque le leader mondial de la production de minéraux industriels a déversé 200 000 m3 de #déchets_toxiques dans les rivières alentour. #Cadmium, #baryum et autres #métaux_lourds cancérigènes se sont déposés au fond des cours d’eau dans lesquels puisent les populations, aux confins de la plus grande forêt pluviale du monde.

      De l’autre côté du globe, dans le #désert_de_Gobi, en #Mongolie, #Orano, (ex-#Areva), exploite des gisements d’#uranium. Cette fois, le géant français du combustible nucléaire est suspecté d’avoir injecté dans le sol « d’énormes quantités d’#acide_sulfurique », contaminant les #eaux_souterraines au #strontium — mortel à très haute dose — et à l’#arsenic, selon une enquête judiciaire mongole. « Moutons, chèvres, chevaux qui naissent handicapés, eau souterraine polluée, femmes qui font des fausses couches… » : l’association locale #Eviin_huch_eh_nutgiin_toloo, interrogée récemment par Reporterre, énumère les conséquences sanitaires potentiellement désastreuses de l’exploitation d’Orano.

      Plus loin au sud, près de l’équateur, l’île d’#Halmahera, en #Indonésie, fait face aux effets dévastateurs de l’exploitation récente de #nickel, à #Weda_Bay, en partie détenue par le groupe métallurgique et minier français, #Eramet. Là aussi, les terres sont détruites, et les populations autochtones déplacées. Sa filiale calédonienne, la société #Le_Nickel, est à l’origine d’une importante #pollution au #fuel constatée en avril 2023. Environ 6 000 litres de combustible se seraient échappés d’une conduite percée.

      Ces trois sociétés françaises n’ont pas pour seul point commun d’être impliquées dans des scandales environnementaux : elles bénéficient des largesses du programme européen Horizon. D’après notre enquête, la société française Eramet a touché 1,9 million d’euros, entre 2019 et 2022. Quant à Orano et Imerys, elles ont reçu respectivement 2,3 millions d’euros et 312 637 euros du programme européen. Parmi les prérequis indispensables à l’obtention de ces #subventions, figurait celui de « ne pas nuire à l’un des six objectifs environnementaux » présent au cœur du “#green_deal” européen, le #pacte_vert, en français. À commencer par la prévention contre les #risques_de_pollution ou la protection des écosystèmes. Sollicitée, la Commission européenne se contente de déclarer qu’elle accorde « une attention approfondie » aux enjeux environnementaux.

      Quinze sociétés impliquées dans des crimes environnementaux

      Doté d’un budget de 95 milliards d’euros sur sept ans (2021-2027), le programme européen Horizon, initié en 2014, et financé en grande partie sur fonds publics, a pour mission de soutenir la #recherche et l’innovation au sein de l’Union européenne. Avec l’émergence des besoins en batteries électriques, en #éoliennes et autres industries liées au secteur de la #transition_énergétique, ce soutien se dirige en grande partie vers le secteur minier, d’après notre analyse des données mises en ligne par l’UE. Avec une nette accélération ces dernières années : sur les 667 millions d’euros réservés à ce type de projets, entre 2014 et 2023, près de la moitié ont été attribués à partir de 2020.

      Projets financés par le programme de l’UE Horizon, en lien avec la loi sur les #matières_premières_critiques

      Depuis 2014, Horizon a financé 95 projets de ce type. Ceux-ci ont reçu 667 millions d’euros distribués entre 1 043 organisations. Les 67 présentés dans le graphique ont reçu plus de 2 millions d’euros.

      En plus des trois entreprises françaises ayant bénéficié du fonds Horizon malgré leur lien avec des pollutions environnementales, Disclose et Investigate Europe ont identifié douze autres sociétés problématiques. À chaque fois, celles-ci ont été impliquées dans des catastrophes environnementales. Leurs liens avec lesdites catastrophes sont accessibles en quelques clics sur Internet.

      Un exemple : l’entreprise minière suédoise #Boliden. Elle a perçu près de 2,7 millions d’euros dans le cadre de huit appels à projets Horizon. La dernière fois, c’était en novembre 2019. Or, cette société spécialisée dans la production de #zinc et de #cuivre a un lourd passif en matière de dégradation des écosystèmes. En 1998, près de Séville, en Espagne, le barrage d’un bassin de décantation d’une mine de #pyrite lui appartenant s’est rompu, déversant des eaux polluées sur plus de 40 km de terres agricoles. Dans les années 1980, Boliden a également été épinglé pour avoir exporté des milliers de tonnes de #déchets_miniers depuis la Suède vers #Arica, au nord du #Chili. Les #boues_toxiques d’arsenic liées au stockage sont pointées par des locaux pour être vraisemblablement à l’origine de #cancers et #maladies chez des milliers de résidents, lui valant d’être un cas d’étude dans un document du Parlement européen.

      Défaillances en chaîne

      Les données analysées réservent d’autres surprises. Alors que l’Union européenne ne cesse de défendre la nécessité de réduire sa dépendance vis-à-vis de la Chine et de la Russie, surtout depuis la pandémie et le conflit russo-ukrainien, le #programme_Horizon semble souffrir de quelques défaillances. Et pour cause, selon l’examen détaillé des entreprises bénéficiaires, il est arrivé à au moins trois reprises que les fonds versés par l’UE terminent soit sur le compte en banque d’un acteur étatique chinois, soit sur celui d’oligarques russes.

      Dans le premier cas, il s’agit du dossier déposé par la #Soil_Machine_Dynamics, une entreprise britannique leader dans le domaine de la robotique sous-marine. Celle-ci a reçu 3,53 millions d’euros du budget d’Horizon pour un projet baptisé #Vamos. Il visait à développer une technique permettant d’extraire des minéraux à des profondeurs jusque-là inaccessibles. Le projet a démarré le 1er février 2015. Mais, cinq jours plus tard, le fonds d’investissement privé Inflexion a cédé l’entreprise à #Zhuzhou_CSR_Times_Electric, dont l’actionnaire majoritaire est l’État chinois. Le projet Vamos, passé sous pavillon chinois, est resté actif jusqu’au 31 janvier 2019.

      Le second cas fait référence à la société #Aughinish_Alumina. L’entreprise basée en Irlande raffine la #bauxite, la roche dont est extraite l’#alumine utilisée pour produire l’#aluminium. En 2018, elle a reçu 563 500 euros en provenance de l’Union européenne pour sa participation à un projet visant à étudier la réutilisation des résidus de bauxite. Or, cette entreprise minière appartient depuis 2007 à #Rusal, un groupe russe qui domine le secteur et dont l’un des principaux actionnaires n’est autre qu’#Oleg_Deripaska. Réputé proche de Vladimir Poutine, ce dernier figure sur la liste des oligarques russes sanctionnés par le Royaume-Uni et les États-Unis… et l’Europe.

      Des fonds publics européens atterrissent dans un paradis fiscal

      Un autre cas intrigue, celui de la société #Lancaster_Exploration_Limited, spécialisée dans l’exploration de terres rares. L’entreprise a participé à un projet Horizon qui promettait de développer de nouveaux « modèles d’exploration pour les provinces alcalines et de carbonatite » destinés à l’industrie européenne de haute technologie. Pour ce projet, elle a perçu plus de 168 000 euros de la part de l’Europe, alors que son siège social est situé dans les #îles_Vierges britanniques, paradis fiscal notoirement connu. Interrogé sur ce cas précis, un porte-parole de la Commission européenne explique que l’institution peut mettre fin à un contrat la liant avec une société qui se serait rendue coupable d’infractions avec ses « obligations fiscales » ou qui aurait été « créé sous une juridiction différente, avec l’intention de contourner les obligations fiscales, sociales ou autres obligations légales dans le pays d’origine. »

      Reste à savoir si l’Union européenne prendra des mesures contre des sociétés ne respectant manifestement pas leurs obligations. D’autant plus que l’acquisition d’une souveraineté dans le secteur des #matières_premières critiques et des terres rares est l’une des priorités affichées par l’exécutif européen. La Commission a d’ailleurs présenté, en mars dernier, le #Critical_Raw_Materials_Act, consistant à relancer l’activité minière sur le continent. Grâce, notamment, aux centaines de millions d’euros que le programme Horizon destine aux professionnels du secteur.

      https://www.investigate-europe.eu/fr/posts/eu-horizon-scheme-millions-funding-mining-companies-environmental
      #paradis_fiscal #fisc #évasion_fiscale #écocide

  • La France augmente d’un tiers sa contribution à l’agence de l’ONU pour les réfugiés
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/13/la-france-augmente-d-un-tiers-sa-contribution-a-l-agence-de-l-onu-pour-les-r

    La France augmente d’un tiers sa contribution à l’agence de l’ONU pour les réfugiés
    Le Monde avec AFP
    La France va augmenter d’un tiers cette année sa contribution au Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) pour la porter à 120 millions d’euros, a rapporté la cheffe de la diplomatie française, Catherine Colonna, à Genève. La France « s’efforcera de la maintenir à ce niveau en 2024 », a-t-elle déclaré à l’ouverture du Forum de l’ONU sur les réfugiés, que la France coparraine avec la Colombie, le Japon, la Jordanie et l’Ouganda. « La France continuera donc à soutenir le HCR, et elle a décidé de tripler, en trois ans, sa contribution financière, comme elle s’y était engagée », a insisté la ministre française.En 2022, cette contribution était de 91,6 millions d’euros, et d’environ 30 millions d’euros il y a trois ans, selon des chiffres du ministère. A l’ouverture du forum, le haut-commissaire de l’ONU pour les réfugiés, Filippo Grandi, avait rappelé que son agence avait encore besoin de 400 millions de dollars (371 millions d’euros) d’ici la fin de l’année.
    (...) Alors que les crises et les conflits se multiplient, plus de 114 millions de personnes étaient déplacées à la fin septembre dans le monde, un nombre record, selon le HCR. La population mondiale de réfugiés a doublé au cours des sept dernières années, atteignant 36,4 millions de personnes à la mi-2023, un autre record. Cela représente une augmentation de 3 % par rapport à la fin de 2022.
    « Alors que s’achève la COP28 avec un consensus appelant à une sortie des énergies fossiles, afin de permettre d’arriver au “net zéro” en 2050 comme c’est indispensable – ambition qu’il va maintenant falloir concrétiser –, je tiens aussi à rappeler que le dérèglement climatique a des conséquences très lourdes sur les mouvements migratoires », a développé Mme Colonna.
    Elle a par ailleurs appelé la communauté internationale « à lutter résolument contre les réseaux criminels » et « à nous mobiliser davantage collectivement pour éliminer la traite des êtres humains par des poursuites judiciaires, par des sanctions sévères et par le tarissement des financements de ces trafics ». La ministre a également appelé à « soutenir les pays limitrophes des zones de conflit armé, qui sont les premiers pays d’accueil ». Et « nous devons contribuer à alléger la pression qui s’exerce sur les pays d’accueil », a-t-elle dit. La ministre française a expliqué que la France « accueille 3 000 réfugiés par an dans le cadre du programme de réinstallation du HCR, et [qu’]elle maintiendra cet engagement en 2024 et 2025 ». Le programme de réinstallation du HCR permet aux réfugiés ayant trouvé refuge dans un premier pays de s’installer dans un autre pays qui a accepté de leur assurer une protection internationale et, à terme, une résidence permanente.
    Catherine Colonna a également annoncé que la France « s’engage à réinstaller en France [par le biais du] dispositif “Femmes en danger” des femmes réfugiées isolées et particulièrement vulnérables, notamment les victimes de violences, d’exploitation ou de traite des êtres humains ».

    #Covid-19#migrant#migration# france#HCR#refugie#traite#femme#crise#conflit

  • #FADA collective

    FADA is a Collective founded in 2020 by a group of Italian freelance reporters working across media and borders.

    We REPORT - We are an independent newsroom producing multimedia, deeply reported public interest stories. We partner with international media to publish our stories.

    We CONNECT - We train young journalists, we promote collaboration and we build a community for the next generation of media makers.

    We IMPACT - We engage with local communities, civil society and policy makers to open up spaces for dialogue around civic participation and journalism, beyond the traditional media, with the aim to trigger change.

    We dig into the climate crisis, border policies, food systems, social movements and the lack of accountability by State and private actors.

    https://www.fadacollective.com
    #journalisme #enquêtes #journalisme_d'enquête #frontières #migrations #climat #crise_climatique #alimentation #système_alimentaire #mouvements_sociaux

  • Faire date autrement, Catherine Hass (10 novembre 2023), via @parpaing
    https://lundi.am/Faire-date-autrement

    ... cette guerre qui détruit avec elle toute possibilité qu’il en soit autrement en détruisant toute politique, anéantirait la possibilité même d’une pensée de la politique. (...) Demeure l’injonction comminatoire à dire son camp même si ce dernier n’existe pas dans les termes de l’injonction.

    [...] C’est donc par un geste purement criminel que la #Palestine fit retour – si l’on considère que ce programme de cruauté à l’endroit des civils caractérise d’ordinaire la besogne des fascistes de tous bords. Rappelons que, historiquement, le faire politique des luttes, loin d’être indifférent, a toujours été crucial pour ces dernières. Ainsi, de quelle émancipation, de quelle figure d’égalité ou de libération, un tel geste peut-il être porteur ? Que pouvait-il fonder outre la dévastation à laquelle nous assistons ?

    [...] Si l’hypothèse selon laquelle « la guerre anéantit aujourd’hui toute possibilité qu’il en soit autrement en détruisant toute politique » [Derrida] est juste, les diverses qualifications du 7 octobre – « terroristes » versus « résistance » – n’engagèrent le plus souvent que des conceptions de la #guerre distinctes selon le « spectre large de ceux qui n’aiment les Arabes que morts ou réduits à l’état de pions qu’ils bougent sur l’échiquier de leurs chimères (...) ». Dit autrement, en France, l’on opposa à la guerre contre le terrorisme, boussole insane des guerres extérieures et de la politique intérieure depuis plus de vingt ans, un logiciel marxiste anti-impérialiste et étatiste périmé identifiant rage politique et criminelle et validant voire glorifiant le meurtre. Les hautes figures de la lutte : le Hamas, le Hezbollah et l’Iran soit la photo de famille – tronquée car il y manque la Russie – de ceux qui donnèrent à el-Assad les troupes et les armes nécessaires pour venir à bout de la révolution syrienne au prix d’une guerre qui fit 600 000 morts. « On a beau s’indigner devant la violence, on a beau déplorer sincèrement [...] le nombre de morts, on ne fera croire à personne que c’est de cela au fond qu’il s’agit. » Faire date autrement et sortir de l’impasse signifierait quitter cet espace comme effondré puisqu’il ne propose qu’une polarisation essentialiste faisant fond sur des catégories idéologiques vides de politique.

    [...] Le déséquilibre du rapport de force entre les deux n’interdit pas l’identité de leur principe : « Je te tue car tu n’as pas à être là, tu ne dois pas être là, quand bien même tu y es, tu y vis, tu es dans ton pays ». Or, rappelons que ce qui caractérisa nombre de luttes populaires passées, armées ou pas, c’était précisément la rupture avec les principes de la politique ennemie. L’État d’#Israël et le Hamas sont donc ici des jumeaux politiques et criminels : la politique de l’un arme celle de l’autre, et vice-versa, chacun échange, tour à tour, le rôle de maître d’ouvrage et de maître d’œuvre dans l’espoir de s’en trouver renforcé politiquement. C’est même de leur négation réciproque qu’est née l’alliance Netanyahou-Hamas comme la nomme le quotidien Haaretz. Haine du possible, concurrence et corruption de l’idée même de politique dès lors qu’elle est entièrement reversée dans la guerre et le crime et se confond avec eux, dès lors qu’elle fait des civils la matière première de la guerre (...)

    [...] la guerre contre le terrorisme n’est pas l’apanage des États occidentaux puisque c’est ce paradigme que el-Assad mobilise dès 2012 pour détruire la révolution syrienne –aidés par des djihadistes revenus d’Irak libérés de prison, du Hezbollah libanais et des Pasdaran iraniens. En rupture avec le droit de la guerre et le droit international humanitaire existant, l’une des caractéristiques de cette guerre est de dénier tout statut aux civils, à moins qu’ils ne soient « innocents » ; l’argument selon lequel les différentes entités combattues ne sont pas assignables à des armées régulières emporte avec lui la possibilité même de leur protection. Ainsi, la densité de la population à Gaza, la dissémination des structures du Hamas en son sein, ne constituent pas un argument à même de proscrire toute intervention militaire car la guerre contre le terrorisme a normalisé ce faire criminalo-guerrier. La guerre ainsi conçue ne peut être qu’une somme de #crimes_de_guerre, à Gaza comme à Idlib. L’armée israélienne ne s’excepte pas de cette norme qui interdit par principe à n’importe quelle armée d’être « morale » puisqu’elle lui en ôte la possibilité même.

    #évènement #politique #pensée #guerre_contre_le_terrorisme #guerre_pour_le_terrorisme #géopolitique #politique

    • Les hautes figures de la lutte : le Hamas, le Hezbollah et l’Iran soit la photo de famille – tronquée car il y manque la Russie – de ceux qui donnèrent à el-Assad les troupes et les armes nécessaires pour venir à bout de la révolution syrienne au prix d’une guerre qui fit 600 000 morts.

      Le Hamas n’était pas dans le camp d’Assad pendant la guerre en Syrie.
      https://orientxxi.info/magazine/quand-le-hamas-retrouve-son-chemin-de-damas,6053

      Sur le plan politique, les deux principaux chefs du Hamas avaient clairement exprimé leur opposition à Assad. Ainsi, Ismaïl Haniyeh avait déclaré lors d’une prière du vendredi à la mosquée Al-Azhar en février 2012 : « Je salue tous les pays du printemps arabe, et je salue le peuple syrien héroïque qui milite pour la liberté, la démocratie et la réforme ». Quant à Khaled Mechaal, il avait brandi le drapeau de la révolution syrienne lors des célébrations du 25e anniversaire de la fondation du mouvement Hamas en décembre 2012 à Gaza, en déclarant : « Nous ne soutenons la politique d’aucun État ni d’aucun régime qui mène une bataille sanglante contre son propre peuple ». Ces positions ont été adoptées après que les leaders du Hamas ont quitté Damas pour s’installer au Qatar.

    • oui, effectivement, et c’était pas sans conséquences, provisoires, sur les alliances du Hamas.

      edit : Hass ne répète pas son erreur sur Hamas/Assad par la suite

      la plupart des actions armées ont vocation à tirer des enseignements de celles qui les ont précédées. dire Idlib/ Gaza c’est aussi concevoir que Israël s’inspire du siège et des bombardements d’Idlib (comme précédent et comme « victoire »), sous la contrainte d’un autre jeu géopolitique qui limite (relativement, bien trop relativement) son action davantage que ne le fut celle du régime syrien.

      #Israel-Palestine

    • Sauf que là non plus les « actions armées » en Syrie ne sont pas directement comparables. Les chiffres varient, mais si on prend ceux de l’Observatoire syrien des droits de l’homme (notoirement pro-opposition), en Syrie le nombre de civils tués a été équivalent au nombre de combattants pro-régime tués. Même en attribuant tous les civils syriens tués au régime d’Assad (facilité à laquelle on assiste depuis le début du conflit), ça fait un ratio très différent du massacre actuel de Gaza (il ne semble pas y avoir 20 à 30 000 soldats israéliens morts en deux mois à Gaza) :
      https://www.la-croix.com/Pres-500-000-morts-recenses-Syrie-decennie-guerre-selon-ONG-2021-06-01-130

      L’Observatoire syrien des droits de l’Homme a fait état mardi 1er juin de 494 438 morts depuis le début de la guerre, dont 159 774 civils – principalement tués par les attaques du régime syrien et de milices alliées – et 168 000 combattants prorégime.

      Et donc un troisième tiers constitué de rebelles et de djihadistes.

      C’est-à-dire qu’en Syrie, on a un mort civil pour un pro-régime tué et un anti-régime tué. C’est certes un massacre épouvantable (et depuis le début, attribuer la responsabilité de tous ces morts au seul régime relève aussi d’une forme de « campisme »), mais les Israéliens sont dans des performances qui sont, pardon, d’une tout autre nature

      Et ne pas oublier Falloujah en 2004, si on veut avoir une référence sur les méthodes de guerre et le déséquilibre absolu des pertes.

    • Circonscrire l’antagonisme, défaire la confusion – D’une alternative entre la guerre et la guerre / Catherine Hass (11 décembre 2023)

      https://lundi.am/Circonscrire-l-antagonisme-defaire-la-confusion

      Ce texte est la version remaniée et annotée de l’intervention de Catherine Hass lors de la rencontre du 2 Décembre 2023 au Consulat, à Paris. Avant le 11 septembre 2001, le « terrorisme » n’est pas assigné par les États à l’espace de la guerre. Il le deviendra par la suite. Alors que lesdits « terroristes » se proclamaient ennemis politiques en guerre contre l’État et son monde ; les États leur adressaient une fin de non-recevoir en les ravalant au rang de simples criminels de droit commun. Après le 11 septembre, une opération inverse a lieu qui vient bouleverser ces anciens régimes de pensée. Désormais, les terroristes ne sont plus des criminels, ils ne sont plus non plus de simples ennemis de l’État - les voilà devenus ennemis d’un mode de vie. Or, à cela, les États répondent par la guerre. La guerre contre la terreur n’a pas toujours existé. Elle n’existera pas toujours. Dans ce laps où s’effondrent les catégories politiques, l’alternative qu’on nous propose devient : la guerre ou bien la guerre.

  • Israël force les Gazaouis à un nouvel exode vers Rafah : « Où veulent-ils qu’on aille ? »
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/07/israel-force-les-gazaouis-a-un-nouvel-exode-vers-rafah-ou-veulent-ils-qu-on-

    Israël force les Gazaouis à un nouvel exode vers Rafah : « Où veulent-ils qu’on aille ? »
    Des abris de fortune ont été érigés non loin de la frontière égyptienne. La majorité de ceux qui fuient ont déjà été déplacés plusieurs fois depuis le début de la guerre.
    Par Clothilde Mraffko(Jérusalem, correspondance)
    Une voix de synthèse masculine, au timbre métallique, égrène des numéros en arabe au bout du fil. Chacun correspond à une zone précise dans la bande de Gaza, désignée pour être évacuée. Ces derniers jours, plusieurs habitants ont reçu ces appels « d’avertissement de l’armée israélienne », écrit Afaf Ahmed, étudiante en littérature anglaise de 21 ans, en publiant sur Instagram une vidéo du coup de téléphone qui lui est parvenu le 2 décembre. La veille, juste après la fin de la trêve, des avions de chasse israéliens avaient largué des tracts munis d’un QR code. Ce dernier ouvrait l’accès à une carte de la bande de Gaza divisée en centaines de petits cantons, tous identifiés par des numéros.
    « Ils vous appellent tard le soir quand vous dormez et vous demandent de partir. Soit vous mourez à la maison sous les bombes, soit vous êtes tués en tentant d’échapper aux bombes, soit vous succombez de froid et de faim, dehors, avec vos proches. OÙ veulent-ils qu’on aille ! ? », ajoutait Afaf Ahmed. La jeune femme a fui sa maison dans la ville de Gaza au début de la guerre. Elle a quitté Khan Younès, la grande ville du sud où elle s’était réfugiée, après cet appel de l’armée. Contactée par Le Monde, elle s’excuse : elle n’a plus « l’énergie pour répondre à des interviews ».
    Selon l’Organisation des Nations unies, plus de 80 % des Gazaouis ont été déplacés de force depuis le début de la guerre, bloqués au sein de l’enclave assiégée par Israël. Certains ont fait des allers-retours dans leur quartier, au gré des bombardements. Dès le 13 octobre, l’armée israélienne a ordonné aux habitants du nord de l’enclave d’aller vers le centre et le sud, entraînant un exode sur fond de chaos humanitaire. Depuis début décembre, les militaires ont demandé une nouvelle évacuation de larges zones dans le centre et à Khan Younès – soit quelque 22 % du territoire. Des dizaines de milliers de Gazaouis ont alors repris la route, direction Rafah cette fois, à la frontière égyptienne. Des vidéos montraient de longues colonnes de familles à pied, avec des sacs à dos ou de petites valises, avançant, sous la pluie, le long d’une chaussée où circulaient aussi quelques charrettes surchargées de matelas et de rares voitures. L’exode devrait encore s’intensifier dans les prochains jours, alors que l’armée israélienne progresse à Khan Younès.
    Dans un message vocal envoyé sur WhatsApp, Rahaf Shamaly, une artiste de 20 ans, fait l’inventaire, la voix fatiguée. D’abord, elle a fui sa maison, à Al-Rimal, dans la ville de Gaza, pour se réfugier à l’hôpital. Ce dernier a été évacué et la famille a atterri dans le grenier d’amis, à Qarara, un quartier de Khan Younès. Début décembre, l’armée israélienne a ordonné l’évacuation de la zone. « Au début, je n’y ai pas cru. Puis nous avons vécu une nuit terrible de bombardements. Au petit matin, de 4 heures à 5 h 30, nous étions sous une ceinture de feu : des missiles, qui frappaient partout, les uns après les autres, en continu. » La famille prend ses affaires et s’en va dans la panique, sans savoir où. En chemin, les bombes pleuvent toujours. Elle débarque à Rafah et pendant deux nuits dort à même le sol, dans un abri de fortune. Rahaf a depuis réussi à dénicher un appartement « au loyer exorbitant ». « Où ira-t-on ensuite ? Hier, on plaisantait en famille et d’un coup, j’ai éclaté en sanglots. Je veux retrouver mon lit, mes draps. Ma vie me manque. »
    Ahmad Masri, professeur de français à l’université Al-Aqsa, s’est isolé dans sa voiture pour répondre au téléphone : dans l’école de Rafah où il s’est installé avec ses proches, « c’est très bruyant ». Femmes et enfants s’entassent à soixante dans les salles de classe, les hommes dorment dans la cour. L’air est saturé de fumée noire ; faute de gaz dans l’enclave sous siège, les déplacés cuisinent sur le feu qu’ils alimentent avec ce qu’ils trouvent, papier, Nylon… « Beaucoup de choses manquent, il n’y a ni sucre ni sel », note-t-il. L’aide, largement insuffisante, passe encore à Rafah. Mais elle atteint difficilement Khan Younès et le centre de l’enclave. Le nord est inaccessible depuis le 1er décembre. Environ 800 000 personnes y seraient toujours basées, selon le gouvernement du Hamas. Ahmad, dont l’appartement dans la ville de Gaza a été bombardé, a fui de Khan Younès juste après la fin de la trêve. « Les rues principales étaient ciblées, nous sommes passés par des axes secondaires. Je prends les menaces de l’armée israélienne très au sérieux. Si je restais, ils allaient me considérer comme une cible », explique-t-il. Ceux qui sont arrivés après lui s’installent dans la rue, faute de place dans l’école.
    Depuis son bureau à Rafah, Adnan Abou Hasna bascule en appel vidéo et montre l’alignement d’abris – des piliers de bois surmontés de bouts de Nylon – que les déplacés ont érigés à la hâte juste sous ses fenêtres. « Il commence à faire froid. C’est horrible. Je ne sais pas comment ils font avec la pluie », explique ce porte-parole de l’UNRWA. L’agence onusienne des réfugiés palestiniens qui a ouvert ses écoles et bâtiments à près de 1,2 million de déplacés ne peut absorber ce nouvel exode. Deux camps, érigés par les déplacés eux-mêmes, sont sortis de terre ces derniers jours le long de la frontière avec l’Egypte, sur des étendues de sable sans accès à l’eau potable, à la nourriture ou à des toilettes. Les images sont inédites à Gaza où avant la guerre, malgré un blocus israélien de seize ans, tout le monde avait un toit. Dans la psyché palestinienne, elles réveillent les souvenirs des camps érigés par le Comité international de la Croix-Rouge au moment de la Nakba, l’exode de plus de 700 000 Palestiniens à la création de l’Etat d’Israël en 1948.
    Israël prétend que ces évacuations sont humanitaires – son allié américain insiste sur la nécessité de protéger davantage les civils à Gaza. Le ministère de la santé local a recensé plus de 16 200 Gazaouis tués, à 70 % des femmes et des enfants – sans compter les milliers de corps encore sous les décombres. L’ONU et des ONG multiplient les alertes, alors que l’Etat hébreu détruit les institutions et infrastructures permettant la survie des habitants.L’armée israélienne a désigné une « zone sûre » à Al-Mawasi, à l’ouest de Khan Younès, où étaient installées des colonies avant le retrait de l’Etat hébreu de Gaza en 2005. La bande sablonneuse de 6,5 km2 ressemble à une décharge. « Vous ne pouvez pas déclarer une zone sûre sans consulter personne ! Les Nations unies ont été claires : elles s’y opposent », souligne Adnan Abu Hasna. Le bureau de la coordination des affaires humanitaires de l’ONU rappelle, de son côté, qu’en droit international « les civils qui choisissent de rester dans les zones désignées pour une évacuation ne perdent pas leur protection ».
    Beaucoup ne peuvent pas partir, insiste Azmi Keshawi. Son fils a été blessé dans le sud de la bande de Gaza qu’Israël avait pourtant désigné comme plus « sûr ». La famille a été déplacée quatre fois. « Depuis la fin de la trêve, Israël a commis tant de massacres, entraînant les habitants toujours plus au sud. Ils poussent vers une direction, puis ferment la route, poussent une autre zone, referment derrière…, analyse ce chercheur pour l’International Crisis Group. On ne comprend pas leur tactique. Les gens voient ça comme un moyen de réaliser ce dont personne ne veut : la déportation des Gazaouis en Egypte. » Le Caire a massé des tanks à la frontière et mis plusieurs fois en garde Israël contre un tel scénario. Les Gazaouis redoutent que tout exil soit sans retour, comme lors de la Nakba. « Beaucoup craignent qu’Israël frappe et ouvre des brèches dans le mur [à la frontière], poussant les gens hors de Gaza. Comment réagiraient alors les Egyptiens ? Personne ne sait ce qui peut se passer. Ce n’est pas entre les mains des Palestiniens. La communauté internationale doit être ferme sur le sujet. Elle voit ce qui se passe aujourd’hui, mais elle ne fait rien. »

    #Covid-19#migration#migrant#gaza#israel#guerre#crise#deportation#exil#egypte#nakba#deplacement#mortalite#frontiere

  • "« Quand on tue dix fois plus de personnes que sa cible volontairement, on est dans une guerre contre les palestiniens, et non plus contre le Hamas » par Guillaume Ancel, ancien officier de l’armée, écrivain La suite :
    ➡️ https://t.co/IJNgl1FO9n
    🎧en podcast https://t.co/iA4QuHBys9
    https://t.co/HUG8yIxtF5" / X
    https://twitter.com/Ccesoir/status/1732165702772044256

    ❝« Quand on tue dix fois plus de personnes que sa cible volontairement, on est dans une guerre contre les palestiniens, et non plus contre le Hamas »
    « Nous les analystes militaires, on pense qu’on en est à entre 20 et 30 000 morts à ce stade. Et il faut ajouter que dans ce type de bombardement on fait 4 fois plus de blessés. Ça veut dire qu’on a largement dépassé les 120 000 blessés ou tués. Pardon, mais c’est un carnage » https://twitter.com/MrPropagande/status/1732347902851235860
    @guillaume_ancel

    #massacre #crime_de_masse

  • Beyond borders, beyond boundaries. A Critical Analysis of EU Financial Support for Border Control in Tunisia and Libya

    In recent years, the European Union (EU) and its Member States have intensified their effort to prevent migrants and asylum seekers from reaching their borders. One strategy to reach this goal consists of funding programs for third countries’ coast guards and border police, as currently happens in Libya and Tunisia.

    These programs - funded by the #EUTF_for_Africa and the #NDICI-Global_Europe - allocate funding to train and equip authorities, including the delivery and maintenance of assets. NGOs, activists, and International Organizations have amassed substantial evidence implicating Libyan and Tunisian authorities in severe human rights violations.

    The Greens/EFA in the European Parliament commissioned a study carried out by Profundo, ARCI, EuroMed Rights and Action Aid, on how EU funding is linked to human rights violations in neighbouring countries, such as Tunisia and Libya.

    The study answers the following questions:

    - What is the state of EU funding for programs aimed at enhancing border control capacities in Libya and Tunisia?
    - What is the human rights impact of these initiatives?
    - What is the framework for human rights compliance?
    - How do the NDICI-Global Europe decision-making processes work?

    The report highlights that the shortcomings in human rights compliance within border control programs, coupled with the lack of proper transparency clearly contradicts EU and international law. Moreover, this results in the insufficient consideration of the risk of human rights violations when allocating funding for both ongoing and new programs.

    This is particularly concerning in the cases of Tunisia and Libya, where this report collects evidence that the ongoing strategies, regardless of achieving or not the questionable goals of reducing migration flows, have a very severe human rights impact on migrants, asylum seekers and refugees.

    Pour télécharger l’étude:
    https://www.greens-efa.eu/fr/article/study/beyond-borders-beyond-boundaries

    https://www.greens-efa.eu/fr/article/study/beyond-borders-beyond-boundaries

    #Libye #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Tunisie #aide_financières #contrôles_frontaliers #frontières #rapport #trust_fund #profundo #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument #droits_humains #gestion_des_frontières #EU #UE #Union_européenne #fonds_fiduciaire #IVCDCI #IVCDCI-EM #gardes-côtes #gardes-côtes_libyens #gardes-côtes_tunisiens #EUTFA #coût #violence #crimes_contre_l'humanité #impunité #Méditerranée #mer_Méditerranée #naufrages

  • Privés de visas, les étudiants sahéliens victimes collatérales des tensions entre la France et les régimes putschistes
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/12/05/prives-de-visas-les-etudiants-saheliens-victimes-collaterales-des-tensions-e

    Privés de visas, les étudiants sahéliens victimes collatérales des tensions entre la France et les régimes putschistes
    Malgré une inscription dans une université française, de nombreux Burkinabés, Maliens et Nigériens ont dû renoncer. Paris se défend de toute une mesure de rétorsion.
    Par Coumba Kane
    « Pour nous, cette année, c’est fini la France », souffle Fodé*. Admis à l’université d’Angers en licence économie et gestion, le jeune Burkinabé n’ira pas étudier dans l’Hexagone. Jusqu’au 30 septembre, date butoir pour rejoindre la faculté angevine, Fodé a espéré partir. Mais, à l’instar de centaines d’autres étudiants du Burkina Faso, mais aussi du Niger et du Mali, également inscrits dans des établissements français, il n’a pas pu déposer sa demande de visa. Depuis cet été, les services consulaires français sont fermés dans ces pays dirigés par des juntes, « pour des raisons de sécurité », justifie-t-on au ministère des affaires étrangères.
    La mesure a été annoncée en septembre en pleine crise diplomatique entre la France et le Niger. Après la prise de pouvoir par les militaires fin juillet, Paris a refusé de reconnaître les nouvelles autorités, qui maintiennent toujours le président Mohamed Bazoum captif. Les tensions ont abouti au départ précipité des troupes françaises et de l’ambassadeur de France.
    Pris au piège de ces dissensions politiques, les étudiants des Etats concernés oscillent entre désespoir et incompréhension. La sélection est si rude que Fodé pensait avoir fait « le plus dur » en réussissant à obtenir une admission via Campus France, l’agence française de promotion à l’étranger de l’enseignement supérieur français et de l’accueil des étudiants étrangers en France. (...)
    Côté français, on confirme le statu quo tout en se défendant d’avoir pris une mesure de rétorsion contre des régimes militaires qui affichent leur hostilité à la France. « Il ne faut pas inverser les responsabilités, ce sont les juntes qui portent atteinte à nos relations. Nous souhaitons préserver les liens avec les forces vives de ces sociétés, notamment les étudiants », réagit-on au Quai d’Orsay. Le ministère affirme ne pas avoir « de visibilité sur la suite », mais assure réévaluer « les conditions sécuritaires dans ces pays, de façon à ajuster au mieux la mesure ». Signe d’une légère accalmie, les services de Campus France ont rouvert le 1er octobre au Mali et au Burkina Faso. Les étudiants de ces pays peuvent à nouveau tenter une admission en France pour la prochaine année universitaire… sans garantie d’obtenir un visa. Reste à savoir si ceux qui avaient déjà été admis, devront reprendre la fastidieuse procédure à zéro. « Nous n’avons pas d’information sur ce point », répond-on à Campus France.
    Au Niger, où la plateforme demeure fermée « pour des raisons de sécurité », l’horizon apparaît plus incertain. Chaque fois qu’il passe devant le consulat français à Niamey, Houzaifa Hamma Issaka a le « cœur qui se serre ». L’étudiant nigérien titulaire d’une licence en droit avait obtenu une inscription à l’université de Nice. Il se préparait à déposer sa demande de visa quand le coup d’Etat s’est produit. « Mes démarches administratives m’ont coûté 150 000 francs CFA (228 euros), soit cinq fois le salaire moyen. Rien ne m’a été remboursé et je me retrouve sans perspectives d’études », se désole l’étudiant qui visait un master en droits humains.
    Comme lui, près d’une centaine de Nigériens admis dans des établissements publics et privés français a perdu une année universitaire. Désemparés, certains ont tenté, en vain, de déposer leur demande de visa au Bénin voisin. « J’ai fait 1 000 km pour tenter ma chance. Mais l’agent a refusé, car je n’ai pas de certificat de résidence. Pourquoi ne pas numériser les demandes ? », s’interroge Ibrahim Maiga. « L’option dématérialisée pour le dépôt d’un visa n’est pas possible ni au Sahel ni ailleurs, répond le ministère des affaires étrangères qui argue d’une procédure immuable. Lors du dépôt du dossier, les données biométriques des demandeurs sont prises, le passeport récupéré afin qu’on y accole une vignette. »Certains étudiants sahéliens, bénéficiaires d’une bourse française, ont néanmoins eu plus de chance. Visés par la mise à l’arrêt de la mobilité internationale fin août suite à la « suspension de l’aide au développement », ils avaient appris quelques jours avant leur départ pour la France l’annulation de leur séjour de recherche. Puis, début octobre, la mesure, dénoncée dans les milieux académiques, avait été levée pour leur permettre de se rendre en France.Koffi, étudiant en géographie à l’université de Ouagadougou, était attendu le 1er septembre à Paris-1 La Sorbonne. Mais deux jours avant, il a reçu un mail lapidaire. « En quelques lignes, on m’a expliqué que mon séjour d’études était annulé. Pourtant j’avais un visa, un logement. Ça a été un choc. » Le 1er novembre, il a finalement pu s’envoler pour Paris avec son visa initial de six mois. « Je vais pouvoir étudier jusqu’à fin janvier. Je suis bien loti car certains boursiers ont perdu beaucoup de temps avec ces restrictions. » En effet, malgré le déblocage de la situation, les durées de visa n’ont pas été allongées.
    Doctorant en géographie et titulaire d’une bourse octroyée par l’ambassade de France, Hamidou Zougouri bénéficiait d’un visa courant de septembre à décembre. Mais il n’a pu se rendre à Paris que début octobre. « J’ai perdu un mois de recherche » explique-t-il par téléphone, à peine rentré de France. « J’ai tout de même travaillé au mieux grâce à l’investissement de mon directeur de thèse », se réjouit l’étudiant rattaché au CNRS. « Mais il aurait fallu nous informer de cette décision des semaines à l’avance pour qu’on s’organise. On a eu l’impression que la France nous abandonnait en plein vol. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#niger#mali#burkina#sahel#etudiant#visas#politiquemigratoire#crise

    • 17:10

      (Le film Le consentement ) j’ai été choquée par la violence de ses images, il y a un effet coup de poing qui empêche le spectateur de réfléchir … et qui fait appel aux instincts les plus basiques et les moins conscientisés. Il faut aborder cette affaire là avec intelligence et en faisant un travail d’analyse historique, en essayant de reconstituer ce qui s’est passé ce n’est pas juste un huis clos entre un homme de 50 ans et une adolescente de 14/15/16 ans. C’est comme une sorte de toile d’araignée qui à l’époque s’étendait sur une partie de l’intelligentsia française.

      (…) On était encore dans le sillage de mai 68, à cette époque, le discours dominant était celui de la liberté, du droit de choisir (…) tout ce qui semblait restreindre la liberté de choix des individus avait très mauvaise presse, mais là, ça concernait des enfants.

      (…)

      C’est un microcosme autour de Matzneff …
      … avec l’affaire Springora, immédiatement ses quatre éditeurs ont fait disparaitre les 15 tomes de son journal, où il raconte toute sa vie, avec qui il déjeune, avec qui il part en vacances en tunisie, philippines, algérie, les compliments des uns et des autres. Il donne une image de son réseau qu’on a fait disparaitre.

      Sinon, pas beaucoup d’infos, c’est confus, elle mélange sa morale (sexuelle) avec la révolution de mai 68 et les viols d’enfants. J’espère qu’elle arrivera à se libérer l’esprit et sa vie de cette emprise qui à l’air de se perpétrer, elle appelle certains protagonistes par leurs prénoms :/

      Ce qui m’intéresse, c’est comment historiquement par qui et par quel biais s’est mis en place ce droit de violer des enfants et d’en faire la promotion publique.

    • @touti
      J’ai trouvé génant la manière rigolarde dont elle parle de tout cela et aussi qu’elle soit si dure avec Springora et l’adaptation du livre en film. Elle fait la promo de son livre et n’as pas besoin de dénigré le travail des autres. Le fait que la pédocriminalité suicite des émotions, est, il me semble assez comprehensible, que ca n’en provoque pas chez elle montre un souci de PTSD pas soigné plus qu’autre chose (enfin dans le meilleur des cas...). Je n’ai pas vu le film sur Le Consentement mais sans le livre de Springora, elle n’aurais jamais sorti le sien et Madzneff serait en thailand au frais du contribuable a violer des petits enfants.

      Sinon j’ai réalisé (enfin !) hier que Jack Lang était le président de l’institut du monde arabe .... ca me semble d’un tel cynisme, d’une telle cruauté d’avoir mis cet homme là à ce poste là ! Quel est le gros sac à merde qui a choisi Lang pour ce post ? Qui désigne la présidence de l’institut du monde arabe ?

      Edit :

      En 2013, le Président de la République François Hollande le nomme à la présidence de l’Institut du monde arabe.

      https://www.imarabe.org/fr/missions-fonctionnement/presidence
      Hollande ne peu pas ignoré quelle est la nature de la contribution de Lang au monde arabe....

    • Je n’ai vu que la bande annonce, et j’avoue ne pas y avoir trouver la représentation des personnages convaincante. La stratégie d’emprise est un jeu pervers et le prédateur pédocriminel sait très bien comment choisir ses proies sans se faire remarquer et manipuler l’entourage en sa faveur. Il est plus sûr vis-à-vis de la société (parents ou médias) de se faire passer pour un noble séducteur, un érudit ou un esthète plutôt que de dévoiler le piège immonde par son attitude.
      Mais peut-être cela s’explique par la majorité de la production cinématographique où la prise d’otage des émotions du spectateur l’oblige à ingérer comme normes des attitudes ou des personnages infects (mais beaux ou drôles) sans permettre de distinguer si une situation doit être considérée comme comique, divertissante ou ignoble. A preuve, le nombre de fois ou je me suis retrouvée interdite de voir la salle s’esclaffée de rire sur un viol ou son récit. On sait tout·es la portée de cette production sur nos modes de pensée et de vie, l’acceptation et l’habitude s’immisçant si facilement construisant ce qui est nommé culture du viol, l’invisible état d’un monde de pouvoirs ultras violents. Peut-être cela explique qu’il ait fallut forcer le trait et le casting de ce film pour indiquer au spectateur d’éprouver du dégoût.
      On peut considérer que Matzneff, introduit dans son cercle par Montherlant, était le porte parole des pratiques sexuelles criminelles de ces intellectuels et politiques haut placés dont l’exercice du pouvoir est sans fin et s’exerce en toute impunité.
      Donc bien sûr, Pierre Bergé en premier lieu, grand souteneur de Matzneff. Et tout ceux qui ont voulu l’imiter comme Frédéric Mitterand neveu de François, écrivant La Mauvaise Vie violeur d’enfants, soutien de Ben Ali jusqu’au bout et qui a continué à avoir des postes de responsabilité élevés.

      Cela pour faire écho à ce que tu écris sur Lang (toujours au premier rang des invités surtout quand Macron parle de langue française en péril)

    • Christian Giudicelli est mort en mai 2022
      https://actualitte.com/article/106059/auteurs/prix-renaudot-et-proche-de-matzneff-christian-giudicelli-est-mort
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2022/05/16/l-ecrivain-christian-giudicelli-est-mort_6126360_3382.html

      Christian #Giudicelli, adepte des séjours aux Philippines avec M. Ami et éditeur de Matzneff chez Gallimard, juré du prix Renaudot depuis 1993.
      Matzneff et Giudicelli se désignent dans leurs livres sous les N° de leurs chambres à l’hôtel Tropicana à Manille aux Philippines : Matzneff 804 (Eight o four) et Giudicelli 811 (Eight one one).

    • 2013
      https://www.elmundo.es/elmundo/2013/08/04/espana/1375646351.html

      Los abusos sexuales contra niños en Marruecos ya eran un tema explosivo antes de conocerse este caso. La ONG ’Touche pas à mon enfant’ (’No toques a mi niño’) estima que 26.000 niños son violados al año en el reino hachemita, es decir 71 por día. Y una parte importante de estos delitos es responsabilidad de redes de pedófilos bien organizadas que se mueven en el ambiente de la jet set de Marrakech.

  • Scholars Who Study the Middle East Are Afraid to Speak Out
    https://www.chronicle.com/article/scholars-who-study-the-middle-east-are-afraid-to-speak-out

    American college campuses have been at the center of charged political disputes in the weeks since Hamas attacked Israel on October 7, and the subsequent attacks by Israel on Gaza. These heated debates have focused on the pressures on university presidents to take a stand, the behavior of student groups, allegations of antisemitism, and the censorship of pro-Palestinian speech. But less attention has been paid to one group directly affected by the controversies: the scholars who work on and teach about the Middle East, who every day concentrate professionally on issues related to the Israeli-Palestinian dispute.

    #états-unis #démocratie #nos_valeurs #censure #liberté_d’expression #criminel

  • Le grand décrochage de la productivité en France
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/12/05/le-grand-decrochage-de-la-productivite-en-france_6203940_3234.html

    (...) « Compte tenu du ralentissement de la croissance enregistrée depuis 2019, si la productivité n’avait pas baissé, l’économie française aurait dû non pas créer 1,2 million d’emplois, mais en détruire 180 000, explique l’économiste Eric Heyer, directeur du département analyse et prévision à l’Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE). C’est comme si on avait désormais environ 1,3 million de salariés “de trop”. »

    [...]

    La productivité du travail a fortement ralenti au cours des quatre dernières décennies dans la plupart des économies avancées, passant d’une croissance annuelle de 3 % à 5 % dans les années 1970 à environ 1 %, indique le rapport du Conseil national de productivité publié en octobre. La crise liée au Covid-19, qui a mis les économies à l’arrêt, à fait naturellement plonger la productivité. Mais depuis, et c’est là sa spécificité, la France peine à redresser la barre. « Elle connaît la moins bonne performance de toute l’Union européenne [UE] », s’inquiète Eric Dor, directeur des études de l’Iéseg School of Management.

    Le calcul effectué sur la base des données Eurostat est éloquent : entre le deuxième trimestre de 2019 et celui de 2023, la productivité en France a baissé de 3,75 %. Deux autres pays de l’UE seulement connaissent un repli, mais bien plus limité : l’Estonie (– 0,8 %) et le Danemark (– 0,6 %). Elle est repartie à la hausse en Allemagne (+ 0,3 %), en Italie (+ 1 %), aux Pays-Bas (+ 2,4 % )…
    Aux Etats-Unis ou au Canada, les observateurs soulignent un phénomène inverse. Dans ces pays, la productivité est fortement repartie après la #crise_sanitaire. Cela s’explique par un traitement économique de la pandémie très différent de l’option française. Outre-Atlantique, des dizaines de millions de personnes ont alors perdu leur #emploi. En France, la mise en place du « quoi qu’il en coûte », avec notamment le financement du chômage partiel et la distribution de 123 milliards d’euros de prêts garantis par l’Etat, a permis d’éviter une forte hausse du chômage et une cascade de faillites.
    La chute de la productivité est donc « aussi le reflet de nos préférences collectives », soulignait Jean-Luc Tavernier, directeur général de l’Insee, à l’occasion d’un débat, le 15 novembre, à Lyon. Un choix pertinent, selon l’économiste Jézabel Couppey-Soubeyran, maîtresse de conférences à Paris-I-Panthéon-Sorbonne. « A-t-on besoin de rechercher à tout prix un modèle productiviste ?, s’interroge-t-elle. Je n’en suis pas sûre. Si la cause de la baisse de la productivité est que l’on a davantage de personnes employées et que l’on produit moins, est-ce grave si, en contrepartie, on produit dans de bonnes conditions, que l’on rémunère bien les gens et que l’on respecte les limites planétaires ? » [en voilà une qui hallucine, ndc]

    (...) « Quand on mesure la productivité en France par rapport à la main-d’œuvre disponible sur le marché du travail, et non plus par tête ou par heure travaillée, on parvient à un résultat qui est dans la moyenne des autres économies avancées », explique Thomas Zuber

    (...) Le taux d’absence des salariés est passé de 3,8 %, en 2011, à 5,5 %, en 2019, pour culminer à 6,9 %, en 2020, et peine aujourd’hui à redescendre. Ce phénomène est particulièrement marqué dans les services.

    (...) Au rang des explications à la chute de la productivité française, les économistes soulignent aussi le rôle de l’#apprentissage, qui a pris un essor considérable depuis la réforme de 2018. On compte désormais près de 900 000 jeunes dans ce dispositif, trois fois plus qu’avant la crise.

    (...) « Les équipes calent complètement, les gens sont fatigués, il y a deux fois et demi plus de burn-out qu’avant. Quand le collectif ne fonctionne plus, la productivité marche moins bien… »

    https://archive.is/BukXt

    on distribue du #salaire (de merde et chacun pour sa gueule) là où on squeeze les revenus du chômage et de la retraite, de là à dire que les conditions de travail s’améliorent où que les raisons de produire s’en trouvent modifiées...
    on a un « halo du chômage » dont une part est constitué d’arrêt de travail qui ne sont pas des grèves.

    #travail #chômage#absentéisme #productivité #emplois_vieux #emploi #salaire

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • Miguel Amorós, Généalogie de la pensée molle, 2015

    La première grande difficulté de la #critique_radicale est de trouver un sujet capable de rétablir ladite distance, c’est-à-dire capable de penser, car les communautés de combat nées des conflits ne sont presque jamais assez fortes et stables. Elles ne sont guère enclines au débat avec une volonté de conclure. La présence des #classes_moyennes les transforme en « communautés de carnaval » ou en « communautés garde-robes », selon l’expression de Zygmunt Bauman, c’est-à-dire en masses réunies dans des spectacles sans intérêts communs mais partageant une illusion de courte durée, une identité momentanée, politique ou sociale, qui sert à canaliser la tension accumulée lors des journées routinières. Dans ce type de pseudo-communauté, dès la fin des protestations festivalières, tout reste en l’état. L’effet le plus néfaste des spectacles contestataires des derniers temps est qu’en dispersant l’énergie des conflits sociaux véritables dans des salves cérémonielles, ils avortent les véritables communautés combattantes. L’invasion par l’affectivité insatisfaite annule toute tentative de communication rationnelle, et c’est pourquoi les assemblées évitent les débats décisifs et lâchent leurs émotions, attirant une pléthore de personnages névrotiques et caractériels. Il est évident que si les crises ne sont pas suffisamment profondes pour générer des antagonismes irréconciliables et menacer sérieusement la survie d’une des parties, la peste émotionnelle désactivera toujours les conflits réels et les fragments postmodernes contamineront toute réflexion bien intentionnée. La tâche immédiate de la critique consistera alors à dénoncer les mécanismes psycho-politiques de contention et la mentalité bourgeoise conformiste où ils sont ancrés.

    Il est nécessaire d’expliquer les symptômes de la crise sociale historique sans jamais abdiquer la Raison qui est, comme le dit Horkheimer, « la catégorie fondamentale de la pensée philosophique, la seule capable de l’unir au destin de l’humanité ». À ce stade, il s’agit d’être #conservateur car il est nécessaire de préserver une pensée qui doit servir à transformer radicalement le monde . En définitive, il faut continuer l’utopie qui n’est rien d’autre qu’une raison sui generis, une raison imaginative.

    https://sniadecki.wordpress.com/2023/11/03/amoros-molle-fr

    #Miguel_Amoros #postmodernisme (plus pertinent que woke ?) #utopie

  • #Mafias et #banques

    Retour sur l’histoire d’une saga méconnue : l’alliance que vont tisser groupes criminels organisés et #institutions_financières, des années 1920 à nos jours à l’échelle de la planète. Cette série documentaire en trois épisodes, sous forme d’enquête, plonge dans les eaux troubles de la mafia. De #Michele_Sindona, le banquier du Vatican, au cartel de #Pablo_Escobar en passant par la City et les Bahamas.

    https://www.arte.tv/fr/videos/RC-024485/mafias-et-banques
    #mafia #crimalité_organisée #finance
    #documentaire #film_documentaire

  • L’Ain va suspendre quelques mois la prise en charge des mineurs isolés étrangers
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/11/30/l-ain-va-suspendre-quelques-mois-la-prise-en-charge-des-mineurs-isoles-etran

    L’Ain va suspendre quelques mois la prise en charge des mineurs isolés étrangers
    Après avoir lancé une « première alerte » en septembre, le conseil départemental dit ne plus avoir de « solutions » pour accueillir de nouveaux jeunes migrants.
    Le Monde avec AFP
    Le conseil départemental de l’Ain a annoncé la suspension, au début de décembre, « pour une période d’au moins trois mois », de la prise en charge des nouveaux mineurs étrangers non accompagnés (MNA), faute de « capacités d’accueil et d’encadrement ». « Arrivées directes, réorientations, contestation de majorité devant le juge des enfants, maintien des jeunes majeurs dans le dispositif faute d’hébergement de droit commun, le dispositif explose », justifie dans un communiqué daté de mercredi le département, après « une première alerte » en septembre.
    « Malgré l’ouverture de plus de 150 places d’hébergement en 2023, le département ne dispose plus de solutions, ni temporaires, ni pérennes » pour les nouveaux jeunes migrants, écrit-il, le territoire étant « confronté depuis des mois à une augmentation massive d’arrivées » et à la « difficulté croissante » pour ses partenaires « de recruter des encadrants éducatifs formés » dans les structures de prise en charge. Depuis janvier, 252 arrivées directes ont été enregistrées (contre 131 pour l’ensemble de l’année 2022), et « une accélération flagrante » s’est opérée depuis septembre, le nombre d’arrivées ayant depuis lors presque doublé, selon la collectivité. L’accueil des arrivées directes sera donc suspendu « à partir du 1er décembre 2023 et pour une période d’au moins trois mois », a décidé le président, Jean Deguerry (Les Républicains), cité dans le communiqué, qui espère, « toutefois, continuer à faire face aux réorientations de la cellule nationale du ministère de la justice ». « Le département a consacré un budget de 5,6 millions d’euros aux mineurs non accompagnés en 2022. Les dépenses pour 2023 vont atteindre 7,7 millions d’euros et les projections pour le budget prévisionnel 2024 s’établissent à 8,7 millions d’euros », a ajouté l’élu, qui demande « solennellement au gouvernement de lui donner les moyens d’agir » au regard « de cette situation humainement intenable ».
    En effet, pour M. Deguerry, c’est aussi « toute la protection de l’enfance qui est impactée », en particulier pour « penser et développer des projets pour les familles et les enfants aindinois ». Contactée par l’Agence France-Presse, la préfecture de l’Ain n’a pas souhaité faire de commentaires.
    Depuis 2013, dans le cadre de leur mission de protection de l’enfance, les départements ont la responsabilité de l’accueil, de l’évaluation, de l’hébergement et de la prise en charge des MNA. Le mouvement migratoire, constaté en Italie par exemple, provoque un afflux en France de mineurs isolés. Avant l’été, plusieurs autres départements, également confrontés à un afflux de mineurs isolés étrangers, avaient déjà sonné l’alarme sur la situation, qu’ils qualifiaient d’« intenable ». En octobre, le conseil départemental du Territoire de Belfort, qui dit être confronté à une « saturation » de ses dispositifs de protection de l’enfance, avait annoncé qu’il allait plafonner la prise en charge des MNA.

    #Covid-19#migrant#migration#france#ain#mineurisole#etranger#mna#priseencharge#accueil#hebergement#crise

  • Karim Khan, procureur de la Cour pénale internationale, en visite en Israël - The Times of Israël
    https://fr.timesofisrael.com/liveblog_entry/karim-khan-procureur-de-la-cour-penale-internationale-en-visite-en

    Karim Khan, procureur de la Cour pénale internationale, est en visite en Israël « à la demande et à l’invitation des survivants et des familles des victimes des attentats du 7 octobre », a indiqué la cour dans un tweet.

    Khan se rendra également à Ramallah pour rencontrer de hauts responsables palestiniens.

    #bouffon #sans_vergogne #complicité #criminel