• “Ogni giorno ci sono migranti respinti al confine dalla Francia. Spesso famiglie”. Viaggio in Valsusa nel rifugio costretto alle brandine in corridoio

    Il confine alpino tra l’Italia e la Francia passa in mezzo a un campo da golf. Non si vede ma c’è. Una pallina può attraversarlo, ma una bambina di un anno no. Viene fermata dalla polizia francese mentre insieme ai suoi genitori prova a passare la frontiera camminando sui sentieri a oltre 1700 metri d’altitudine. Vorrebbero chiedere asilo in Francia ma la polizia li intercetta nei boschi e li rispedisce indietro. Un destino che riguarda sempre più persone.

    Da qualche settimana il numero dei migranti lungo la rotta alpina che passa da Claviere è aumentato. “Siamo arrivati a contare anche 150 persone in una sola notte” racconta Elena, una delle operatrici del Rifugio Fraternità Massi di Oulx. Un “porto sicuro” nato nel dicembre 2021 grazie a tante realtà come Talitá kun, Rainbow4Africa, la diaconia valdese, On Borders, Medu, Croce Rossa e grazie a 170 volontari che si alternano per garantire un aiuto alle persone in transito. Nel solo mese di luglio più di mille migranti sono stati ospitati qui. Il 10 per cento sono minori stranieri non accompagnati che per il diritto europeo dovrebbero poter passare il confine, ma non gli viene consentito.

    “Rispetto agli anni scorsi, nel 2023 abbiamo visto che la maggior parte delle persone proviene non più dalla rotta balcanica ma direttamente da Lampedusa – spiega l’antropologo Piero Gorza di On Borders – non più afghani e iraniani, ma arrivano per lo più dall’Africa Subsahariana e sono sbarcati in Italia da poche settimane”. Un cambio che comporta delle nuove difficoltà per queste persone. “Non sono abituati a camminare in montagna sui sentieri di notte e per di più continua la ‘caccia all’uomo’ da parte della polizia di frontiera francese”. Il risultato è che la rotta alpina diventa sempre più difficile per i migranti che per evitare i gendarmi si spingono su sentieri sempre più in alto. E i rischi aumentano. “Siamo partiti in sei ma quando abbiamo visto la polizia siamo scappati sparpagliandoci tra i boschi – racconta un ragazzo che ha poco più di vent’anni e che proviene dalla Costa d’Avorio – mi sono perso, ero in mezzo alla neve e presto le mani mi si sono congelate. Non riuscivo più a camminare. Ho avuto paura di morire”. Ma è riuscito a chiamare la Croce Rossa che lo ha salvato riportandolo al rifugio.

    L’elenco di chi non ce l’ha fatta a salvarsi continua però ad allungarsi. Lunedì mattina il corpo di un migrante morto è stato trovato sui sentieri tra Monginevro e Briancon, sul lato francese. L’ennesima vittima che si aggiunge a quelle degli scorsi anni. “Non siamo di fronte ad un fatto tragico ed eccezionale, ma ad una concreta eventualità che si ripropone ogni giorno ad ogni respingimento”, spiega l’associazione On borders che ha contato dieci morti accertati negli ultimi anni. Persone a cui è difficile dare un volto e un nome. Nel 2018 Blessing è morta mentre scappava dalla polizia, nel 2022 Fahtallah è stato trovato morto nella diga vicino a Modane, nello stesso anno il 14enne Aullar è morto stritolato dal treno a Salbeltrand. “Non è la montagna che uccide ma il sistema di frontiera – scrive On Borders – i morti nel Mediterraneo, a Cutro, a Ventimiglia e sulle Alpi sono il risultato di una stessa pianificata politica dell’orrore”.

    Le attività di soccorso e accoglienza su questo confine non si fermano mai, neanche d’estate. E quando c’è bisogno di letti aggiuntivi perché il rifugio di Oulx è pieno, i corridoi del polo logistico Cri di Bussoleno si riempiono di brandine per ospitare le persone in transito. “In Valsusa viviamo il riflesso della situazione che sta vivendo l’Italia – racconta Michele Belmondo del Comitato della Croce Rossa di Susa facendo riferimento ai 2 mila sbarchi del mese di luglio – ma non si può parlare di emergenza perché quello della migrazione è ormai un fenomeno strutturale che va avanti da anni”. Piuttosto sul lato italiano si va “un pochino più in difficoltà quando la frontiera diventa impermeabile per le condizioni meteo avverse o per i maggiori controlli da parte della polizia di frontiera”. E i governi italiani che si sono succeduti continuano “a lavarsene le mani” come spiega Gorza. “I decreti Cutro, la legge 50 e gli accordi con la Tunisia finiranno solo con il rendere più pericoloso il cammino dei migranti – conclude l’antropologo – dunque il risultato sarà la clandestinizzazione di queste persone e l’arricchimento dei trafficanti oltre a un costo umano altissimo perché puoi bloccare un accesso, ma si apriranno nuove rotte più pericolose con più morti. La gente non può né tornare indietro né restare, l’unica possibilità per loro andare avanti”. La migrazione, del resto, come spiega il ragazzo ivoriano “è un fenomeno naturale e non si può fermare. Proprio per questo occorre cambiare le leggi”.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/08/09/ogni-giorno-ci-sono-migranti-respinti-al-confine-dalla-francia-spesso-famiglie-viaggio-in-valsusa-nel-rifugio-costretto-alle-brandine-in-corridoio/7254891

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  • Prédire les flux migratoires grâce à l’intelligence artificielle, le pari risqué de l’Union européenne
    https://disclose.ngo/fr/article/union-europeenne-veut-predire-les-flux-migratoires-grace-a-lintelligence-a

    Depuis plusieurs mois, l’Union européenne développe une intelligence artificielle censée prédire les flux migratoires afin d’améliorer l’accueil des migrants sur son sol. Or, selon plusieurs documents obtenus par Disclose, l’outil baptisé Itflows pourrait vite se transformer en une arme redoutable pour contrôler, discriminer et harceler les personnes cherchant refuge en Europe. Lire l’article

    • C’est un logiciel qui pourrait sa place dans une dystopie. Une intelligence artificielle capable de compiler des milliers de données afin de prédire des flux migratoires et identifier les risques de tensions liées à l’arrivée de réfugiés aux frontières de l’Europe. Son nom : Itflows, pour « outils et méthodes informatiques de gestion des flux migratoires ». Financé à hauteur de 5 millions d’euros par l’Union européenne et développé par un consortium composé d’instituts de recherche, d’une société privée (Terracom) et d’organisations caritatives, Itflows qui est en phase de test devrait rentrer en service à partir d’août 2023. Et ce, malgré des alertes répétées quant aux risques de détournement de ses capacités prédictives à des fins de contrôle et de restrictions des droits des réfugiés sur le sol européen.

      Encore méconnu, ce programme doit venir compléter un dispositif technologique destiné à la surveillance des frontières, notamment espagnoles, italiennes et grecques. Financé sur le budget d’« Horizon 2020 », le programme de recherche et d’innovation de l’Union européenne, Itflows s’ajoutera alors aux drones de surveillance autonome, aux détecteurs de mensonges dans les zones de passages ou à l’utilisation de logiciels d’extraction de données cellulaires.

      D’après notre enquête, les deux ONG contribuent à nourrir l’intelligence artificielle de Itflows en lui fournissant des informations précieuses. Des données directement issues d’entretiens réalisés dans des camps de réfugiés, auprès de Nigérians, de Maliens, d’Érythréens ou encore de Soudanais. Il pourra s’agir d’éléments liés à l’origine ethnique, l’orientation sexuelle ou encore la religion des personnes interrogées. Pour leur contribution, les branches italiennes de la Croix-Rouge et d’Oxfam ont respectivement reçu 167 000 euros et 116 000 euros de fonds publics européens.

      « Nous avons contribué à réaliser trente entretiens de migrants arrivés en Italie au cours des six dernières années », confirme la Croix rouge Italie, sollicitée par Disclose. Une fois analysées, puis rendues accessibles via une application baptisée EUMigraTool, ces informations serviront aux autorités italiennes dans leur analyse « des routes migratoires et des raisons qui poussent les gens à faire le voyage », ajoute l’association. Même son de cloche du côté de Oxfam Italie, qui salue l’intérêt pour « les responsables politiques des pays les plus exposés aux flux migratoires. » Les dirigeants pourront également s’appuyer sur l’analyse des risques politiques liés à l’arrivée de migrants sur leur sol. Le projet inclut en effet la possibilité d’étudier l’opinion publique dans certains pays européens vis-à-vis des migrants à travers une veille sur le réseau social Twitter.
      Des rapports internes alarmants

      En réalité, les risques de détournement du programme existent bel et bien. C’est ce que révèlent des rapports internes (https://www.documentcloud.org/projects/logiciel-itflows-208987) au consortium que Disclose a obtenu à la suite d’une demande d’accès à des documents administratifs. Lesdits rapports, datés de janvier et juin 2021, ont été rédigés par les membres du comité éthique du projet Itflows. Leurs conclusions sont alarmantes. Le premier document, une somme de 225 pages, révèle que « le consortium Itflows est pleinement conscient des risques et des impacts potentiels en matière de droits de l’homme, que les activités de recherche empirique sur les migrations (…) et les développements technologiques prévus dans le projet peuvent poser ». Plus loin, les auteurs enfoncent le clou. Selon eux, les informations fournies par l’algorithme pourraient servir, si elles devaient être utilisées « à mauvais escient », à « stigmatiser, discriminer, harceler ou intimider des personnes, en particulier celles qui sont vulnérables comme les migrants, les réfugiés et les demandeurs d’asile ».

      Cinq mois plus tard, le comité éthique rend un second rapport. Il détaille un peu plus le danger : « Les États membres pourraient utiliser les données fournies pour créer des ghettos de migrants » ; « risque d’identification physique des migrants » ; « discrimination sur la base de la race, du genre, de la religion, de l’orientation sexuelle, d’un handicap ou de l’âge » ; « risque que les migrants puissent être identifiés et sanctionnés pour irrégularités ». Et le régulateur d’alerter sur un autre péril : la poussée des « discours de haine » que pourrait induire une éventuelle diffusion des prédictions du logiciel dans « les zones où les habitants sont informés de déplacements » de populations.
      L’Europe fait la sourde oreille

      Des alertes qui ne semblent pas avoir été entendues. Comme en atteste un bilan dressé lors d’une réunion (https://www.documentcloud.org/documents/22120596-emt-symposium-agenda-16-sep-2021?responsive=1&title=1) en ligne le 16 septembre 2021 par la coordinatrice du comité éthique de Itflows, #Alexandra_Xanthaki, devant des responsables européens, dont #Zsuzsanna_Felkai_Janssen, rattachée à la direction générale des affaires intérieures de la Commission. « Nous avons passé six mois à travailler jour et nuit pour rédiger un rapport instaurant un cadre qui intègre les droits de l’homme », débute la responsable du comité éthique, selon un enregistrement que Disclose s’est procuré. Elle poursuit : « Il me semble pourtant que ce que disent les techniciens de l’équipe aujourd’hui c’est : nous n’en tenons pas compte ». Un manque de précaution qui inquiète jusqu’au sein du conseil d’administration d’Itflows. Joint par Disclose, Alexander Kjærum, analyste pour le conseil danois pour les réfugiés et membre du conseil de surveillance estime en effet qu’il existe « un risque important que des informations se retrouvent entre les mains d’États ou de gouvernements qui les utiliseront pour implanter davantage de barbelés le long des frontières. »

      Sollicitée, la coordinatrice du programme, #Cristina_Blasi_Casagran, assure que le logiciel « ne sera pas utilisé à mauvais escient ». Selon elle, Itflows « devrait même faciliter l’entrée des migrants [dans l’Union européenne] en permettant une meilleure affectation des ressources engagées dans l’#accueil ».

      #Frontex inquiète

      Un dernier point vient renforcer le risque d’un détournement du logiciel : l’intérêt de Frontex pour Iflows. D’après des documents internes, l’agence en charge de la surveillance des frontières de l’UE suit étroitement les avancées du programme. Jusqu’à y contribuer activement via la fourniture de données récoltées dans le cadre de ses missions. Or, depuis plusieurs années, l’agence européenne est régulièrement accusée d’expulsions illégales et de violations des droits de l’homme. Interrogée sur ce point, l’ONG Oxfam considère qu’il n’y a pas de risque de détournement du logiciel au profit de l’agence. La branche italienne de la Croix rouge déclare quant à elle que « la convention de subvention régissant la mise en œuvre du projet Itflows ne désigne pas Frontex comme utilisateur de l’outil, mais simplement comme source de données ouvertes ». En 2021, Frontex a élu l’interface Itflows parmi les projets d’Horizon 2020 au « potentiel opérationnel et innovant » le plus élevé.

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  • Services publics : quand dématérialisation rime avec marchandisation La gazette des communes
    https://www.lagazettedescommunes.com/787485/services-publics-quand-dematerialisation-rime-avec-marchandisa

    La dématérialisation des services publics ne pose pas seulement la question de l’exclusion numérique. Elle fait aussi émerger de nouveaux acteurs, privés, qui se posent en intermédiaires entre les usagers et les administrations. « La Gazette » vous propose une enquête en plusieurs volets pour décortiquer l’émergence de ces acteurs qui proposent aux usagers des services payants afin d’accéder aux aides sociales auxquelles ils sont éligibles. Ces pratiques, dont la légalité pourrait être discutée, questionnent la capacité des services publics à se rendre accessibles aux publics qui en ont le plus besoin.

    C’est une rente sur le dos des usagers ! » : l’alarme a été donnée via une volée de courriers envoyés le 9 janvier dernier. L’expéditeur, Joran Le Gall, président de l’Association nationale des assistants de service social (Anas), alerte sur une situation qu’il juge critique : un acteur privé qui propose des services payants pour permettre aux usagers d’accéder aux aides sociales auxquelles ils sont éligibles. Destinataires une ribambelle d’administrations, telles que la Cnaf, la Cnam, la Cnav mais aussi le ministre de la Santé, Olivier Véran, ainsi que Claire Hédon, la Défenseure des droits.

    « La Gazette » a enquêté sur l’apparition de ces intermédiaires d’un nouveau genre, qui s’immiscent au cœur du service public : parmi eux, on retrouve notamment le site « Mes-allocs », « Wizbii », « Toutes mes aides », ou encore l’application Fastoche développée par Payboost, filiale de Veolia, qui ne semble, toutefois, plus en activité.

    Leurs slogans se veulent très engageants et aidants :
    Comme la plupart des gens, vous ne connaissez peut-être pas toutes les aides auxquelles vous avez droit, et les démarches administratives vous découragent. Vous hésitez avant de vous lancer ? » (…)
    Découvrez vite les aides auxquelles vous pouvez prétendre !
    Fini de se perdre dans la jungle administrative, on s’occupe de trouver les aides auxquelles vous êtes éligible.

    « On ne devrait pas pouvoir faire de l’argent sur le dos des personnes pauvres et de la Sécurité sociale », se désole Joran Le Gall, selon qui ces pratiques « viennent pointer l’accès aux services publics et les difficultés que rencontrent les personnes dans l’accès aux droits ».
Un point qui avait aussi été dénoncé par plusieurs chercheurs à l’occasion d’un colloque sur les impacts de la dématérialisation sur les droits des usagers https://www.lagazettedescommunes.com/748478/quels-impacts-de-la-dematerialisation-sur-les-droits-des-usage , organisé par l’université de Lorraine en juin dernier. A ce stade, difficile de connaître le nombre d’usagers utilisant ces intermédiaires, et donc la largeur du trou dans la raquette des services publics.

    Simulateur gratuit, démarches payantes
    Concrètement, le mode opératoire de ces acteurs privés est sensiblement le même et se décline en deux temps : d’abord mettre à disposition un simulateur agrégeant des aides sociales, à l’utilisation gratuite, basé sur le logiciel « Open Fisca », une API mise à disposition par l’Etat depuis 2014 dans une logique d’ouverture des données et des codes sources publics. Elle permet de simuler des prestations sociales, afin de montrer à l’usager qu’il est potentiellement éligible à des aides.
Ensuite, deuxième étape, proposer de réaliser les démarches administratives à la place de l’usager afin de les lui faire percevoir, moyennant rétribution.
    Cette logique en deux temps est celle qu’applique le site « Mes-Allocs », qui s’est lancé en 2018 et propose un simulateur agrégeant 1 200 aides tant nationales, régionales, que locales.
L’utilisation du simulateur est gratuite, mais pour obtenir les aides en passant par l’accompagnement de Mes-Allocs, il en coûtera 29,90 euros de frais d’inscription, auxquels s’ajoute également un forfait de 29,90 euros par trimestre à compter du mois suivant (un forfait résiliable).
L’entreprise apparaît labellisée dans les start-up à impact dans la catégorie « inclusion et lien social », selon le classement de la BPI et France Digitale, lui-même présenté comme rassemblant les « Porte-étendards de la Tech for Good ».
    « Plus d’un million de personnes se renseignent sur notre site chaque mois, et 22 000 personnes sont passées par nos services d’accompagnement », détaille Joseph Terzikhan, fondateur du site, qui assure lutter contre le non-recours puisqu’en moyenne, un utilisateur de Mes-Allocs récupère 3 200 euros d’aides par an. Il précise également que si Mes-Allocs a démarré avec Open Fisca, désormais « au moins 99,5 % des aides sont calculées en interne sur nos serveurs ».
    Viser de nouveaux publics ?
    « L’accès à l’information sur les aides est gratuit. Je comprends que certains puissent avoir du mal à concevoir notre concept, qui est nouveau, mais il est possible de faire payer un service tout en ayant un impact concret sur la vie des utilisateurs. Sans nous, ils ne feraient rien. Ces publics ont des revenus, ils sont en situation intermédiaire et oubliés des aides sociales. Ce ne sont pas les mêmes que ceux qui viennent voir des assistantes sociales et qui sont en situation de grande précarité », assure-t-il, considérant que l’initiative est « complémentaire » des services publics. Ainsi, il indique à « La Gazette » que les aides les plus demandées par son intermédiaire sont celles liées au logement, au soutien familial, à la prime d’activité, et pas forcément le RSA.

    Un autre acteur privé fait lui aussi appel à cette stratégie en deux temps, mais a décidé de se spécialiser sur un segment bien spécifique : la jeunesse. Il s’agit de #Wizbii, entreprise grenobloise qui offre plusieurs services à destination des jeunes, dont Wizbii Money, lancé fin 2019, qui accompagne les jeunes dans leurs recherches d’aides financières.

    Depuis le lancement, 2 millions de jeunes ont utilisé le simulateur, qui se base lui aussi sur Open Fisca et recense près de 500 aides nationales, régionales et locales. 3 000 jeunes ont décidé de confier à Wizbii le soin de réaliser les démarches pour obtenir leurs aides, nous indique Roman Gentil, cofondateur de la société. Dans ce cas, ils doivent débourser un pourcentage fixe : 4 % des aides sociales perçues sont prélevées par Wizbii tous les mois, durant toute la durée de l’octroi de l’aide, « avec un plafonnement à 9 euros par mois maximum », précise Romain Gentil.

    « Dans 90 % des cas, on est en capacité de proposer au moins une aide. Et la moyenne des simulations s’établit entre 2 400 à 2 600 euros d’aides par an », détaille-t-il. « Les aides du #Crous, la prime d’activité, les #APL, ainsi que beaucoup d’aides régionales, départementales ou locales », sont celles qui reviennent le plus.

    « Je peux comprendre que cela questionne, mais le sujet devrait être pris dans l’autre sens : nous apportons une expertise pour toucher un maximum de jeunes sur le territoire, et notre job est de leur faciliter le recours à ces aides. Ils ont le choix de faire appel à nous pour un accompagnement poussé, comme ils peuvent les réaliser eux-mêmes. Il doit y avoir de la place pour tout le monde, on devrait tous avoir une logique collaborative », estime Romain Gentil.

    Des contrats en cours avec l’Etat et les collectivités
    L’entreprise mise déjà sur le #collaboratif puisqu’elle travaille pour le compte d’acteurs publics : elle a ainsi remporté à l’automne 2020 l’appel d’offres du gouvernement pour créer la plateforme vitrine du programme « 1 jeune, 1 solution ».
    
Elle souhaite également multiplier les partenariats auprès des collectivités, pour lesquelles elle propose, sous marque blanche, des plateformes recensant les services proposés à destination des jeunes. C’est chose faite avec Pau depuis mi-2021, ainsi que pour Garges-lès-Gonnesses depuis fin2021. « Dans ce cas, c’est la collectivité qui prend en charge toutes les dépenses d’accès aux services, et les usagers ont y accès gratuitement », indique Romain Gentil, qui espère multiplier ce type de partenariats.

    Autre acteur privé qui voulait également se rapprocher des collectivités : Fastoche, initiative lancée par la filiale de #Veolia, #Payboost. Cette initiative consistait en un « #coach budgétaire et social » qui indiquait notamment les aides sociales auxquelles l’utilisateur pouvait prétendre, pour un coût mensuel de 0,99 euro TTC/mois, à l’exception du premier mois gratuit. Malgré nos multiples sollicitations, il a été impossible d’obtenir un échange. L’application n’est aujourd’hui plus disponible sur les stores, et le site web n’est plus fonctionnel.

    Une « complémentarité » avec les services publics ?
    Mais l’histoire reste éclairante : eux aussi vantaient la collaboration et la complémentarité avec les services publics, et notamment avec les missions des travailleurs sociaux, comme l’indiquait Frédéric Dittmar, président de Payboost, dans un publicommuniqué de Fastoche https://www.unccas.org/fastoche-fr-une-appli-pour-gerer-son-budget-et-ses-droits paru sur le site de l’Union nationale des centres communaux et intercommunaux d’action sociale (Unccas) en septembre 2018 : « Fastoche est un outil de prévention pour toucher des publics qui ne viennent pas voir le CCAS, ou bien qui viennent le voir quand il est déjà trop tard et que la situation s’est détériorée. Et #Fastoche permet aussi de démultiplier l’action du travailleur social. On peut déléguer au numérique l’accompagnement quotidien des bénéficiaires, en complément des rencontres humaines avec le travailleur social qui ont lieu sur des temps plus espacés », expliquait-il.
    
Contactée, l’#Unccas n’a pas donné suite à nos propositions d’interview.

    La trajectoire d’une autre initiative, baptisée « Toutes mes aides », est, elle, un peu particulière : projet phare de la première saison de 21, l’accélérateur d’innovation de la #Croix-Rouge française, elle est aussi née d’une volonté de lutter contre le non-recours, mais a fait pivoter son modèle économique, comme toute #start_up qui se respecte, « afin que le coût de l’application ne repose que sur les établissements et les professionnels, et non pas sur les bénéficiaires », comme le précisait https://21-croix-rouge.fr/l-ia-une-solution-pour-r-duire-le-non-recours-aux-aides-de-l-etat-75f le fondateur Cyprien Geze, en avril 2020.

    Aujourd’hui, le site internet s’adresse aux entreprises et mentionne être employé par 43 000 utilisateurs : « chaque employé découvre en moyenne 110 euros d’aides par mois qu’il ne réclamait pas », précise le site, qui vante un moyen de « booster leur pouvoir d’achat » et de leur offrir un « complément de revenus », le tout au prix de 2 euros par mois par collaborateur, avec des tarifs dégressifs pour les structures de plus de 200 collaborateurs.

    « Une taxe sur l’accès aux droits »
    « Comment on en arrive là ? A un système social si complexe, si illisible, avec de moins en moins d’accompagnement et d’accueil des usagers, au point que des usagers abdiquent volontairement une partie de leurs droits sociaux pour y avoir accès ? », interroge Arnaud Bontemps, fonctionnaire et l’un des porte-parole du collectif Nos Services Publics, qui avait publié en avril dernier un rapport sur l’externalisation des services publics. https://www.lagazettedescommunes.com/742967/services-publics-un-collectif-dagents-publics-sonne-lalarme « En faisant payer ces services aux usagers, ces acteurs privés font de l’optimisation fiscale à l’envers : il ne s’agit pas d’aider les gens à échapper à la solidarité nationale, mais de prélever une taxe sur leur accès aux droits », dénonce-t-il.

    Le sujet est brûlant, puisque l’Etat a adopté depuis plusieurs années une stratégie de dématérialisation massive, dénoncée régulièrement par le Défenseur des droits comme étant source d’inégalités dans l’accès aux services publics https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf .

    Aujourd’hui, le gouvernement traduit cette volonté par la dématérialisation d’ici fin 2022 des 250 démarches administratives les plus utilisées par les Français, même s’il se défend d’une stratégie « tout numérique ». https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf Face aux 13 millions de personnes considérées aujourd’hui éloignées du numérique et qui peuvent être perdues dans leurs démarches administratives numérisées, il consacre 250 millions d’euros du plan de relance à l’inclusion, déploie 4 000 conseillers https://www.lagazettedescommunes.com/775257/inclusion-numerique-les-elus-locaux-reclament-la-perennisation et développe le maillage territorial en « France Services », héritières des Maisons de services au public. https://www.lagazettedescommunes.com/779918/que-vont-devenir-les-maisons-de-services-au-public-non-labelli Sollicités, ni les ministères de la Transformation et de la fonction publiques, ni celui de la Cohésion des territoires, n’ont donné suite à nos demandes d’entretiens.

    #Service_Public #Dématérialisation #droits #marchandisation #Numérique #Administration #Aides #usagers #services_publics #Travailleurs sociaux #Action_Sociale #Revenus #accès_aux_Droits #Système_Social #solidarité #externalisation #privatisation #Solidarité confisquée

  • A #Oulx un nuovo rifugio per i migranti « Più posti e più dignitosi in vista dell’inverno »

    Il ministero dell’Interno ha confermato la disponibilità a finanziarne il mantenimento, mentre la #Fondazione_Magnetto si occuperà dell’acquisto dell’immobile. #Don_Luigi_Chiampo: «Niente più container per gli ospiti»

    Ci sarà un nuovo rifugio per i migranti a Olux. Lo ha annunciato la prefettura di Torino al termine di un incontro a cui hanno partecipato il capo dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Ministero dell’Interno, Michele di Bari, l’arcivescovo Cesare Nosiglia, il prefetto di Torino, Claudio Palomba, i sindaci dei Comuni di Bardonecchia (capofila del progetto MigrAlps), Oulx e Claviere e le associazioni che da anni lavorano per assistere i migranti al confine alpino.

    Se da un lato il ministero ha confermato l’impegno economico per sostenere le spese di gestione del rifugio con un contributo di 240mila euro fino alla fine dell’anno, il nuovo spazio in cui potrebbe essere trasferito il #rifugio_Massi è il risultato dell’iniziativa privata della fondazione Magnetto che sta perfezionando l’acquisto della casa salesiana che sorge vicino al rifugio attuale, a due passi dalla stazione e dalla sede degli alpini.

    Se l’acquisto andrà in porto renderà immediatamente utilizzabili i nuovi spazi che offrono un’organizzazione migliore per la gestione del rifugio. «È una struttura più stabile e dignitosa», spiega don Luigi Chiampo dell’associazione #Talita-Kum che gestisce il rifugio Massi dove dal 2018 operano i medici di #Raimbow4Africa, la #Croce_Rossa e i volontari di #Valsusa_Oltre_Confine. L’aumento esponenziale dei passaggi sul confine alpino tra Italia e Francia e l’arrivo di tante famiglie sulla rotta balcanica ha costretto il rifugio Massi a trovare il sistema di ampliarsi con moduli e conteiner esterni. «Con i nuovi spazi useremo i container soltanto per allestire un ambulatorio medico esterno - spiega don Luigi - la casa salesiana ha una cucina industriale, un refettorio adeguato e stanze più piccole che garantiscono un’accoglienza migliore delle famiglie».

    Fin dall’inizio dell’estate Oulx vede un flusso di almeno 60 o 70 perdone a giorno, che gestisce con l’aiuto della Croce Rossa di Susa che ha messo a disposizione il suo spazio polivalente di Bussoleno. «Per risparmiare le forze in estate abbiamo ridotto gli orari - prosegue Don Chiampo - ma da ottobre riapriremo 24 ore al giorno. Ci aspettiamo un aumento ulteriore delle persone a partire dall’inverno. Sono molto soddisfatto dell’incontro di ieri. Fino ad ora siamo andati avanti con risorse private, ora sono arrivate promesse per un sostegno pubblico». La nuova struttura avrà a disposizione 70 posti.

    Soddisfatto anche il sindaco di Oulx Andrea Terzolo. «Sarà un aumento qualitativo del servizio - dice - Da inizio anno i numeri dei passaggi fanno spavento e l’intervento di Magnetto è stato provvidenziale. Siamo molto soddisfatti anche di come è stata gestita l’assistenza medica, sempre presente e sempre più importante. Il controllo stretto ci ha permesso di non avere nessun caso covid e di aiutare perso che da mesi avevano bisogno di assistenza. In prefettura abbiamo trovato istituzioni sensibili a questi temi».

    «I contributi finanziari garantiti dal Ministero dell’Interno, dalla Diocesi di Susa e dalla Fondazione Magnetto hanno reso possibile fornire assistenza ed accoglienza d’urgenza», spiega in una nota la prefettura. Al termine dell’incontro il Capo Dipartimento, nel ringraziare per il lavoro svolto, ha sottolineato come «la sinergia interistituzionale può rispondere efficacemente alle sfide che questo periodo storico, caratterizzato anche da flussi migratori, ci pone quotidianamente».

    https://torino.repubblica.it/cronaca/2021/09/17/news/a_oulx_un_nuovo_rifugio_per_i_migranti_piu_posti_e_piu_dignitosi_i

    #solidarité #refuge #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #Val_Susa #Val_di_Susa #Italie #France #Hautes-Alpes

    Pour rappel, le refuge autogéré #Chez_Jésoulx (#casa_cantoniera) avait été expulsé en mars 2021 :
    https://seenthis.net/messages/907802

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #Briançonnais :
    https://seenthis.net/messages/733721

    • pour les non-italophones la traduction automatique deepl donne :

      A #Oulx un nouvel abri pour les migrants « Plus de places et plus de dignité en vue de l’hiver ».

      Le ministère de l’intérieur a confirmé sa volonté de financer son entretien, tandis que la #Fondazione_Magnetto se chargera de l’achat du bâtiment. #Don_Luigi_Chiampo : « Plus de conteneurs pour les invités ».

      Il y aura un nouveau centre d’accueil pour les migrants à Oulx. C’est ce qu’a annoncé la préfecture de Turin à l’issue d’une réunion à laquelle ont participé le chef du département des libertés civiles et de l’immigration du ministère de l’Intérieur, Michele di Bari, l’archevêque Cesare Nosiglia, le préfet de Turin, Claudio Palomba, les maires des communes de Bardonecchia (chef de file du projet MigrAlps), Oulx et Claviere et les associations qui travaillent depuis des années pour aider les migrants à la frontière alpine.

      Alors que le ministère a confirmé son engagement financier pour soutenir les coûts de gestion du refuge avec une contribution de 240 000 euros jusqu’à la fin de l’année, le nouvel espace dans lequel le #refugio_Massi pourrait être déplacé est le résultat d’une initiative privée de la fondation Magnetto, qui est en train de finaliser l’achat de la maison salésienne qui se trouve près du refuge actuel, à deux pas de la gare et du quartier général des troupes alpines.

      Si l’achat se concrétise, les nouveaux locaux seront disponibles immédiatement, offrant une meilleure organisation pour le fonctionnement du refuge. « C’est une structure plus stable et plus digne », explique Don Luigi Chiampo de l’association #Talita-Kum, qui gère le refuge de Massi où travaillent depuis 2018 des médecins de #Raimbow4Africa, la #Croix-Rouge et des volontaires de #Valsusa_Oltre_Confine. L’augmentation exponentielle du nombre de passages à la frontière alpine entre l’Italie et la France et l’arrivée de tant de familles sur la route des Balkans ont obligé le refuge Massi à trouver un moyen de s’agrandir avec des modules et des conteurs externes. « Avec les nouveaux espaces, nous n’utiliserons les conteneurs que pour installer une clinique médicale externe », explique don Luigi, « la maison salésienne dispose d’une cuisine industrielle, d’un réfectoire adéquat et de pièces plus petites qui garantissent un meilleur accueil des familles ».

      Depuis le début de l’été, Oulx connaît un flux d’au moins 60 à 70 personnes par jour, qu’elle gère avec l’aide de la Croix-Rouge de Suse, qui a mis à disposition son espace polyvalent de Bussoleno. « Afin d’économiser de l’énergie en été, nous avons réduit les heures d’ouverture », poursuit Don Chiampo, « mais à partir d’octobre, nous serons de nouveau ouverts 24 heures sur 24. Nous prévoyons une nouvelle augmentation du nombre de personnes à partir de l’hiver. Je suis très satisfait de la réunion d’hier. Jusqu’à présent, nous avons avancé avec des ressources privées, maintenant les promesses de soutien public sont arrivées ». Le nouvel établissement disposera de 70 places.

      Le maire d’Oulx, Andrea Terzolo, est également satisfait. "Depuis le début de l’année, le nombre de passages a été effrayant et l’intervention de Magnetto a été providentielle. Nous sommes également très satisfaits de la manière dont a été gérée l’assistance médicale, toujours présente et de plus en plus importante. Ce contrôle rigoureux nous a permis de ne pas avoir de cas de covidie et d’aider des personnes qui avaient besoin d’aide depuis des mois. Dans la préfecture, nous avons trouvé des institutions sensibles à ces questions.

      « Les contributions financières garanties par le ministère de l’Intérieur, le diocèse de Suse et la Fondation Magnetto ont permis d’apporter une aide d’urgence et un accueil », explique la préfecture dans une note. À la fin de la réunion, le chef du département, en remerciant pour le travail accompli, a souligné comment « la synergie interinstitutionnelle peut répondre efficacement aux défis que cette période historique, également caractérisée par des flux migratoires, nous pose quotidiennement ».

      ...mais pourquoi du côté français (Briançon) les autorités continuent de faire comme si il n’y avait pas d’hébergement à assurer/financer ?

  • #Belgique : Des cadeaux pour les assurances, de l’eau pour les sinistrés Claude Semal
    https://www.asymptomatique.be/des-cadeaux-aux-assurances-de-leau-aux-sinistres/?shared=email&msg=fail

    _ Les inondations de la mi-juillet dans la région liégeoise et la vallée de la Vesdre ont mobilisé des milliers de bénévoles pour porter secours aux sinistrés. Parmi eux, des centaines de membres et de sympathisants du PTB. Un échevin du P.S. verviétois vient de lancer une sombre polémique dans la presse sur ce “délit de solidarité”.

    Alors que les responsabilités de cette catastrophe seront bientôt discutées en commission au Parlement, rencontre avec Raoul Hedebouw, un des porte-paroles nationaux du PTB.
     
Entre deux séances parlementaires, j’ai rendez-vous avec lui “entre l’heure du midi”, Place de la Liberté, à deux pas du Parlement. J’ai deux minutes de retard, car dans cette capitale en perpétuels travaux, “ma” ligne 92 a été provisoirement interrompue. Mais j’étais en avance, donc je suis presqu’à l’heure ;-).
    
Grand, souriant, cordial, Raoul Hedebouw a le tutoiement facile des Liégeois, la répartie directe des militants rodés à la polémique, et l’humour de ceux qui savent qu’on ne combat pas nécessairement la misère en se vautrant dans la morosité.


    Cet éco-biologiste de formation, dont le travail de fin d’étude portait sur le pourrissement des feuilles de sept espèces d’arbres en Wallonie, en connait aussi un brin en matière de décomposition / recomposition du champ politique.
Comme il revenait tout juste de l’Université d’Été de la France Insoumise, alias la nouvelle Union Populaire, j’en ai profité pour conclure l’interview sur le devenir de la “gauche de la gauche” européenne.
Scoop : je peux déjà vous dire que Raoul boit du café au lait, qu’il transmet bien le bonjour à Irène, et qu’il a une autre réunion dans une demi-heure. Vous pouvez également saupoudrer son interview d’un léger fond d’accent herstalien, cela fera plus vrai que nature.

    Claude  : Six semaines après les inondations, as-tu une idée du nombre de gens qui ont été touchés par la catastrophe, et de ceux qui restent encore sans logis aujourd’hui ?

    Raoul  : Les chiffres vont encore certainement beaucoup fluctuer, parce qu’on ne sait toujours pas combien de maisons seront définitivement déclassées. Il y a au moins quinze mille ménages qui sont en très grande précarité.
Mais comme les gens logent toujours dans leur famille, il est impossible à l’heure actuelle de faire un décompte précis. Ce qui fait aussi partie du problème.
    
J’ai reçu des témoignages de gens qui sont “officiellement” encore dans leur maison, mais comme la “déshumidification” ne se passe pas bien, ils ne peuvent pas retourner y loger. Tous les problèmes liés à cette “déshumidification” sont d’ailleurs un des gros enjeux actuels pour les sinistrés. Et là, je parle uniquement de la détresse immobilière.

    Claude  : Il a y aussi toute la question des assurances, puisque la plupart des contrats “habitation” ont un volet “incendie” et “inondation”. A ce sujet, on a appris qu’Elio Di Rupo avait conclu un “accord” avec les compagnies d’assurances. A quel titre, avec quelle casquette et quel était son mandat pour faire cela ?

    Raoul  : C’est assez grave, en fait, et assez illustratif de la proximité entre le monde de la politique et celui de la finance. D’une part, il s’agit ici d’un accord “secret”, selon les dires mêmes de Di Rupo, dont nous ne pouvons donc pas connaître le contenu. Dans les grandes lignes, il s’agit d’une “approbation” de la loi de 2014 qui “limite” la responsabilité des assureurs à 590 millions d’euros pour des coûts estimés, jusqu’à présent, à 1,7 milliard. Je parle uniquement ici de ceux couverts par une assurance. Ceux qui sont “non assurés” dépendent d’un autre budget, le “fonds des calamités”.
Donc, il y a une sorte de “ristourne” d’un milliard d’euros rétrocédée au secteur de la finance. On va me dire : “c’est en vertu des accords conclus en 2014 et 2007”. C’est vrai que le problème date de là. Mais on retrouvait déjà les mêmes aux postes de commande. Car qui dirigeait le gouvernement fédéral à cette époque ? Elio Di Rupo !
Donc, c’est un peu facile. Nous, on paye tous nos primes d’assurance “volle pot”, comme on dit, et puis après, on se retrouve avec des assurances qui ne prennent en charge qu’un tiers des coûts. Alors que selon le propre bilan d’Assuralia, qui représente le secteur des assureurs, ces sociétés ont fait quinze milliards de bénéfices cumulés ces huit dernières années !
Donc c’est à nouveau nous qui allons devoir payer, alors que ce milliard aurait pu être investi dans le logement public. Les quartiers détruits de Pepinster, Angleur, Trooz, Verviers, … ne vont pas pouvoir être reconstruits par la loi du marché. Or ce milliard va filer dans la poche des actionnaires. On a donc un très gros problème autour de ce “deal” secret avec des entreprises de la finance. Et je suis étonné à quel point, dans les médias, on parle assez peu de cette affaire-là.

    Claude  : Je suppose que c’est une des raisons pour laquelle vous demandez une Commission Parlementaire à ce sujet. Une autre raison étant évidemment les causes mêmes de ces catastrophes, comme les permis de bâtir en zones inondables.

    Raoul  : Tout ce qui concerne l’aménagement du territoire sera débattu au niveau wallon, ça c’est déjà acquis. Toute la question des barrages, des bassins d’orage, des logements. Et il y aura probablement une autre commission d’enquête au niveau fédéral.
Là, on parlera des conséquences de la réforme de la protection civile, imposée par le MR et la NVa, qui je le rappelle, ont quand même supprimé 800 des 1200 postes de la protection civile. C’est pas de l’austérité, c’est carrément du rouleau compresseur anti services publics. On a amputé les deux tiers de notre force de frappe en cas de catastrophe !
L’autre problème fédéral, c’est la réforme des zones de pompiers et leur manque criant de moyens. On a beaucoup de témoignages de pompiers qui nous disent : “Nos petits bateaux ne résistaient pas au courant”, etc, etc….
Et puis les problèmes qu’on a rencontré en Belgique au niveau de la coordination et de la gestion de la crise. On a déjà vécu la même chose avec le COVID.
On ne sait pas qui décide quoi. Régional, fédéral, communal, provincial, international,… il n’y a pas eu un centre de coordination unifié. A notre avis c’est au niveau fédéral qu’on aurait dû le faire, alors que tout le volet fédéral du plan a été stoppé dès le 26 juillet. Ce qui a conduit à une cacophonie totale sur le terrain.
Enfin, il y a évidemment le débat autour de la question climatique. Sur la responsabilité de ces sociétés consuméristes qui produisent tout ce CO2, tout ce carbone. Car une de ses conséquences statistique, c’est l’augmentation des phénomènes extrêmes. Comme les sécheresses et les incendies, d’un côté, comme on le voit en Grèce, aux Etats-Unis et au Canada, et puis dans d’autres pays, les inondations. On n’échappera pas à ce débat-là aussi.

    Claude  : Sur la question du relogement des sinistrés, un certain nombre d’entre eux étaient relogés à l’hôtel, et avec toute cette tartufferie autour des 24 heures de Francorchamps, ils ont été mis dehors pour loger les spectateurs qui, eux mêmes se sont fait avoir, parce qu’ils ont payé 150 boules pour voir les voitures faire trois petits tours dans l’eau. Tu es au courant de ce dossier-là ?

    Raoul  : Il y a deux choses. La principale raison pour laquelle beaucoup de sinistrés ont été éjectés des hôtels, c’est parce les assureurs commencent à refuser de payer. En gros, la plupart des assurances comptaient quelque chose comme 21 jours de relogement.
On a reçu plusieurs témoignages comme quoi les assureurs ne communiquent même pas avec les sinistrés, mais s’adressent directement à la direction des hôtels pour les prévenir de l’interruption de leur intervention. C’est la première des raisons, et à mon avis la plus grave. Vient se greffer là-dessus effectivement l’événement de Francorchamps, qui est assez ironique, puisqu’il a été annulé à nouveau à cause de pluies particulièrement fortes. Et là, on a effectivement fait passer le commercial avant la gestion des sinistrés.

    Claude  : Puisque Di Rupo veut absolument payer les deux tiers de la dette des assurances, est-ce qu’on ne peut pas lui demander de prendre le relais ? Ce serait assez logique, non.

    Raoul  : Bien sûr. C’est tout le débat sur la façon dont le politique se désarme lui-même et laisse tout le pouvoir, sur plein de dossiers, au monde du privé. Ce n’est pas une maxime marxiste, c’est quelque chose qu’on peut constater tous les jours.
Ici, quatre compagnies d’assurances contrôlent presque l’ensemble du marché. Le logement, par exemple, est complètement laissé aux mains du marché. Le pourcentage de logements sociaux diminue d’année en année, même s’il doit en principe atteindre 10% par commune. Dans une commune comme Liège, qui se dit pourtant socialiste, de gauche et tout et tout, on doit flirter avec du 7,5 %.
Ce qui est grave pour les sinistrés, et cela montre combien le capital est cynique, c’est qu’actuellement le prix des loyers flambe – puisqu’il y a soudain une forte demande que le marché ne peut assurer ! Ca c’est le capitalisme : plus tu as besoin de quelque chose, plus tu payes ! Plus tu as de la misère, plus les loyers augmentent !
La seule manière de contrer cela, c’est d’une part de bloquer les loyers, pour maîtriser un peu le secteur, mais aussi de développer un secteur de logement public. Or je constate, au delà du blabla, qu’on n’investi pas dans la construction de nouveaux logements sociaux. Or ici, certainement dans la vallée de la Vesdre, et à Liège, il va pourtant falloir un plan ambitieux de construction massive de nouveaux logements. Et cela, il n’y a que le secteur public qui peut le faire.
Utilisons le fameux milliard qui est donné aujourd’hui aux assurances pour financer des logements sociaux de qualité. Une ville comme Vienne, “Vienne-la-rouge”, comme on l’appelait à l’époque, elle le fait massivement. En Belgique, c’est plutôt la tradition “libérale” et “privée” qui prévaut partout.

    Claude  : Cela dépend quand même où. La social-démocratie a parfois eu une politique de logement. Dans ma commune de Saint-Gilles, par exemple, il y a une régie foncière communale assez développée, qui gère un millier de logements.

    Raoul  : Tout à fait, il y a quelques communes qui font ici et là exception.

    Claude  : Face aux manque de moyens des services publics, face à l’incurie locale de certaines autorités politiques, il y a eu par contre très rapidement une énorme mobilisation citoyenne, et de très nombreux actes de solidarité. Des militants et sympathisants du PTB y ont notamment participé. Un échevin PS de Verviers a lancé une sombre polémique dans la presse en parlant de “récupération politique sur la détresse des sinistrés”.

    Raoul  : C’est dégoûtant à plusieurs niveaux. D’abord, c’est un peu ironique d’avoir un échevin d’une Ville qui était aux abonnés absents pour gérer la crise à Verviers (je ne parle pas des fonctionnaires, mais des autorités politiques). Notamment, de ne pas avoir assez rapidement donné l’alerte d’évacuation, et d’avoir par contre très rapidement arrêté la récolte des déchets. Je trouve ça dingue, plutôt que d’aller regarder dans sa propre assiette, d’aller pointer du doigt un parti qui, justement, a essayé d’organiser la solidarité concrète.
    
C’est stratégique pour nous. On veut s’inspirer de ce qui avait été fait à l’époque en France avec le Secours Populaire (1). Cela fait deux ou trois ans qu’on réfléchit à de telles formes concrètes de solidarité. Pour les inondations, ce sont finalement plus de 2.000 bénévoles qui sont venus à l’appel du PTB, à côté des milliers d’autres qui ont spontanément donné un coup de main. Cette auto-organisation de la population, c’est aussi un fait politique très important. A Liège, des milliers de bénévoles sont venus des quatre coins du pays, dont de nombreux flamands, il y en a même qui ont pris trois ou quatre semaines de congés, et cela montre que la Belgique de la solidarité, cela existe vraiment.

    Pour revenir aux déclarations de cet échevin PS, politiquement, c’est donc complètement à côté de la plaque. Nous avons voulu poser des actes concrets de solidarité, et pas lancer des paroles en l’air.
Il nous a accusé d’avoir pris les coordonnées des gens. Mais c’est absurde. Comment veux-tu coordonner et dispatcher les équipes, et savoir où les envoyer, où vider les caves et charger les détritus, si tu n’as pas les contacts des volontaires et des sinistrés ? C’est pas en trois heures qu’on nettoie ces affaires-là. A l’Ecole Don Bosco, on a envoyé des dizaines de personnes pendant des dizaines de jours pour vider et nettoyer les locaux.
    
Je peux même ici te donner un scoop.
Pendant deux jours, le centre de crise de Verviers a même renvoyé les bénévoles qui arrivaient vers le centre de bénévoles du PTB, parce qu’on était les seuls à avoir mis sur pied ces outils de coordination. Je le dis ici : les 21 et 22 juillet, on était sur le terrain, et on a envoyé 350 bénévoles à Verviers. L’autorité publique était complètement dépassée.

    Claude  : Je te crois, et ce n’est pas moi qu’il faut convaincre (rires).
Tu as gentiment pris sur ton temps de midi pour participer à cette interview, entre deux séances au Parlement, et le temps nous est donc un peu compté. Mais j’ai vu que tu avais participé comme orateur invité à l’Université d’Été de la France Insoumise, à Valence. Tu peux nous dire un mot à ce sujet ?

    Raoul  : C’était très sympa. J’ai été étonné de voir combien les militants français étaient informés de ce qu’on faisait, via les réseaux sociaux. Cela me faisait du bien de me plonger un peu dans la réalité compliquée française, avec les présidentielles qui arrivent, un vrai danger avec une extrême-droite qui est aussi forte que chez nous en Flandre, mais à l’échelle de toute la nation française. C’était chouette d’aller faire un clin d’oeil là-bas, mais j’irai aussi à la fête de l’Huma la semaine prochaine, parce que la “gauche de gauche” française est ce qu’elle est, elle est plurielle, et ce n’est pas à nous d’aller nous mêler des “affaires intérieures” françaises (rire de Claude).
    
J’ai rencontré beaucoup de jeunes de la France Insoumise, avec beaucoup de questions stratégiques assez pareilles aux nôtres. Comme créer une hégémonie culturelle à gauche ? C’est quoi le marxisme au XXIème siècle ? Les liens entre les luttes sociales et la politique. Plein de questions passionnantes, et on se pose les mêmes en France, en Grèce, en Espagne et en Belgique. Trop longtemps, au PTB, on a cru qu’on allait régler ça à l’échelle belge, avec notre vérité à nous, et on n’avait pas trop de contacts avec les autres gauches plurielles, qui sont très différentes en Europe. Mais là, on a décidé de prendre plus de contacts, et c’était vraiment chouette d’être là.

    Claude  : Justement, par rapport à ces questions stratégiques, la France Insoumise vient de se transformer en “Union Populaire”, qui semble moins spécifiquement marquée “à gauche” que le Parti de Gauche ou la France Insoumise elle-même. Tu as pu discuter de ce tournant politique, ou tu as toi-même une opinion à ce sujet ?

    Raoul  : Je vais parler pour nous. Nous, on reste dans des marqueurs “de classe”. Je sais qu’il y a des débats qui traversent “la gauche de gauche” mais moi, je crois en une analyse marxiste de la société, dans l’existence des classes sociales, même si elles se diversifient et si le prolétariat d’aujourd’hui n’est pas forcément le même que celui d’hier. Mais que le monde du travail, en tant que classe, se retrouve opposé à une grande bourgeoisie nationale et internationale financière, cela reste pour moi un fait, et je reste dans cette grille d’analyse là. Donc, personnellement, je ne me revendique pas du “populisme de gauche”, qui met plutôt en avant une opposition entre “peuple” et “élite”.
    
C’est un débat que nous avons aussi avec nos camarades de la France Insoumise, mais ce qui compte, c’est aussi la pratique de terrain, et c’est important de pouvoir mener ce type de débats sans anathèmes et dans le respect l’un de l’autre et de nos réalités spécifiques. Nous on reste plutôt sur cette alliance ouvriers, employés, petits indépendants, paysans, ce “front de classe” anti-monopolistique, et cette analyse-là nous semble toujours pertinente.

    Claude  : En plus de ça, on ne sait pas encore vraiment quel sera le contenu précis de cette Union Populaire. Là, on est plutôt dans “l’effet d’annonce”.

    Raoul  : Exactement . Nous n’en dirons donc pas plus (rires).

    Claude  : Pour conclure peut-être,… (Raoul regarde sa montre, mais il reste très disponible : on est “dans les temps”) …les inondations et la crise climatique sont entrées chez nous en collision avec une autre crise nationale majeure, celle du COVID. Comment as-tu le sentiment que l’État fédéral et les régions gèrent ce problème chez nous, et le PTB a-t-il une position sur le sujet ?

    Raoul  : Moi, ce qui m’inquiète, c’est la stratégie du “tout au vaccin”, qui a complètement zappé la première ligne de soins, toute cette médecine de proximité qui existe trop peu en Belgique, avec un renvoi systématique vers les spécialistes et les hôpitaux. Je crois qu’on risque de se mettre le doigt dans l’oeil. Même chose pour la vaccination. Je ne crois pas qu’avec l’obligation vaccinale, la répression, on va y arriver. Il y a une vrai méfiance d’une partie de la population vis-à-vis des autorités publiques, mais aussi vis-à-vis des multinationales pharmaceutiques, qui se cristallise peut-être malheureusement autour de la question du vaccin, mais la seule façon de combler ce fossé, c’est de construire un réseau médical proche de la population, et tu sais que nous mettons en avant le modèle coopératif des “maisons médicales”, qui sont une alternative concrète à la “médecine libérale” et du chacun pour soi.
    
Et l’autre versant du débat, ce sont les conséquences économiques de cette crise. Pour le moment, on a maintenu, et tant mieux, un certain nombre d’aides pour maintenir un certain nombre d’acteurs économiques en activité. Mais on parle bientôt de retirer la prise, et cela va provoquer des dégâts terribles d’un point vue social. Et là, va se poser à nouveau la question : qui va payer les conséquences de la crise ? Or toujours sous le capitalisme, et Noémie Klein l’a bien expliqué dans son livre “la Stratégie du Choc”, au moment du “choc”, et la crise du COVID en est un fameux, les gros et puissants vont en profiter pour s’accaparer à nouveau des pans entiers de notre société. Ces grand groupes industriels, qui ont les reins très solides, sont déjà en train de relancer leur production, comme Ryanair qui vient de renouveler sa flotte de Boeing, et ce sont les petits, qui ont des fonds propres beaucoup plus faibles, qui vont mourir.

    Claude  : L’année passée, en France, les principale entreprises du CAC40 ont très sensiblement augmenté leurs bénéfices…

    Raoul  : Là, il y a aussi un vrai enjeu socio-économique : qui va payer les pots cassés de cette crise ? Et on revient alors sur des débats fiscaux comme un impôt sur la fortune, un impôt exceptionnel sur les bénéfices bancaires, sur la grande distribution qui a réalisé des surprofits,… Ce n’est pas qu’une question philosophique. C’est une question très pratique pour le budget 2022. Car on va voir qu’on va à nouveau nous proposer de serrer la ceinture, au nom des dogmes de l’austérité, au lieu d’aller chercher l’argent là où il se trouve.

    Claude  : … sans parler du secteur pharmaceutique, qui a lui-même fait des profits incroyables !

    Raoul  : C’est scandaleux. Ca, c’est un hold-up des Pfizer et Cie, quand on parle de 4 ou 5 milliards de bénéfices en plus. Et en plus, #Pfizer et #Moderna viennent encore d’augmenter le prix des vaccins, alors que le prix de revient est le même !
C’est pour ça qu’on vient de lancer une campagne européenne, avec d’ailleurs tous nos camarades de la gauche radicale européenne, “Pas de Profits sur la Pandémie”, qui est un appel à la signature d’une initiative citoyenne pour exiger de la Commission Européenne une transparence totale et une remise en cause de ces contrats.

    Claude  : Sans compter que de nombreux pays pauvres n’ont pas accès à ces vaccins, à cause de ce coût prohibitif protégé par des brevets, alors qu’une épidémie mondiale, par définition, doit se traiter mondialement. Car les virus ne connaissent pas de frontières, et il est impossible de s’en débarrasser dans un seul pays sans le faire aussi dans tous les autres.

    Raoul  : Cela, il faut le faire comprendre aussi au monde du travail : tant que les trois-quarts de l’humanité n’auront pas accès à ces soins, les virus continueront à muter, et on ne sera jamais tranquille. Donc réclamer la levée de ces brevets, ce n’est pas qu’une attitude altruiste internationale, c’est aussi pour nous-mêmes. Brevets dont je rappelle quand même qu’ils utilisent des technologies qui, dans leur grande majorité, ont été conçues dans des universités publiques ou avec l’aide massive de fonds publics. Le livre “L’État Entrepreneurial” démontre cela très bien. Beaucoup de ces innovations technologiques viennent de nos universités, viennent du travail de chercheurs altruistes, qui n’en ont tiré aucun profit. Moi je suis biologiste de formation, j’ai vu des gens passionnés bosser pour des salaires très modestes. Il faut arrêter de croire que ce qui fait marcher l’humanité, c’est la recherche du profit. Ce n’est pas vrai. Il est d’autant plus immoral que la privatisation de ces techniques et découvertes mettent aujourd’hui notre santé collective en danger.

    Propos recueillis par Claude Semal le 1er septembre 2021.
    (1) NDLR : Héritier du “Secours Rouge” proche du PCF (1923-1943), le Secours Populaire a été créé en 1945 par fusion avec l’Association Nationale des victimes du Nazisme. C’est aujourd’hui la troisième association française de solidarité, en terme de budget, derrière la #Croix-Rouge et le #Secours_Catholique, mais c’est la première en terme de réseau militant. En 2018, elle est venue en aide à plus de trois millions de personnes grâce à plus de 80.000 #bénévoles.

    #Raoul_Hedebouw #PTB #Marxisme #Claude_Semal #union_Populaire #Inondations #Catastrophe #Précarité #ps #Di_Rupo #Secours_Populaire #vaccins #luttes_sociales #inondations #crise_climatique #maisons_médicales #médecine #Santé #Ryanair #surprofits #austérité

  • Nansen, un passeport pour les apatrides

    Trente ans avant la Convention de Genève, le diplomate norvégien Fridtjof Nansen crée le 5 juillet 1922 un passeport auquel il donnera son nom qui, entre 1922 et 1945, protégera environ 500 000 hommes et femmes destitués de leur nationalité et devenus apatrides du fait des grands bouleversements occasionnés par la première guerre mondiale, le génocide arménien, la révolution russe.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/48212_1

    #film #film_documentaire #documentaire #déchéance_de_nationalité #histoire #apatridie #Nansen #Arméniens #réfugiés #Société_des_Nations #Russie #Croix-Rouge #Constantinople #statut_juridique #frontières #réfugiés_russes #passeport_Nansen #certificat_d'identité_Nansen #travail #Albert_Thomas #BIT #Paris #ILO #Renault #Citroën #comités_de_réfugiés_arméniens #resocialisation #génocide_arménien #Union_soviétique #Convention_de_Genève #déchéance_massive_et_collective_de_nationalité #Fridtjof_Nansen #asile

  • #Belgique : Les conséquences de la privatisation dans le centre d’accueil de demandeur·ses d’asile de #Jalhay (Spa)

    Article du collectif Migrations Libres : « Centre d’accueil de Jalhay : quand les demandeur·ses d’asile paient le prix de la #privatisation » (https://migrationslibres.be/svasta)

    - En octobre 2020, la gestion du centre d’accueil de Jalhay (Spa) est passée de la #Croix-Rouge à la coopérative Svasta.
    - Ce changement a entraîné une importante diminution du personnel et des dysfonctionnements graves : limitation de l’#accès_aux_soins, exploitation des résident·es au profit du gestionnaire privé, logements insalubres, #menaces, #intimidations et #chantage de la part de la direction sur les résident·es.
    - Enregistrée comme coopérative à finalité sociale, #Svasta est administrée par le groupe hôtelier de luxe #Corsendonk et gère les centres sur les sites de ce dernier.
    - Le cas du centre d’accueil de Jalhay illustre les nombreuses questions que pose la tendance à la privatisation des centres d’accueil en Belgique. Nous tentons de mettre en lumière les conditions plus structurelles (réglementations minimales, financement) qui autorisent malheureusement de nombreux dysfonctionnements.

    Article consultable ici et communiqué de presse en pièce jointe
    https://migrationslibres.be/svasta

    #asile #migrations #réfugiés #centres_pour_demandeurs_d'asile #hébergement #logement

    Reçu via la mailing-list Migreurop, le 19.04.2021

    –-
    ajouté à la métaliste #tourisme / #migrations :
    https://seenthis.net/messages/770799

    ping @isskein

  • "Si un migrant est dans la région de Vintimille, c’est qu’il veut partir"

    À la frontière italo-française, des dizaines de migrants venus de tous horizons sont refoulés chaque jour après avoir tenté de passer en France. Solution de repli pour les refoulés fatigués de ce jeu du chat et de la souris, la ville de Vintimille, située à 10 kilomètres, est devenue ces derniers mois un territoire sans pitié pour les migrants.

    « Comme un ballon de foot »

    Visage masqué et pieds nus, Mohamed Ahmed a les yeux tournés vers la mer. Depuis le muret en pierres sur lequel il est assis à l’ombre des pins, il a une vue imprenable, splendide. La Méditerranée scintillante. La côte vallonnée - italienne d’abord, puis française un peu plus loin. Et la ville de Menton, facilement reconnaissable de l’autre côté de la baie, première cité de l’Hexagone en venant de cette partie de l’Italie. Mais le jeune homme ne semble pas apprécier ce paysage digne d’une carte postale. Il le regarde sans le voir. Bien que proche, Menton, et donc la France, lui est inaccessible.

    Inaccessible car Mohamed Ahmed est un migrant, soudanais, âgé de 25 ans, originaire du Darfour. Il a passé une partie de la nuit à marcher, dans l’espoir de traverser illégalement la frontière. L’autre partie, il l’a passée dans un préfabriqué exigu et sans toit appartenant à la PAF (police aux frontières) de Menton. Le matin venu, il a été remis sur la route avec pour ordre de retourner en Italie à pieds. L’Italie ne veut pourtant pas plus que la France de Mohamed Ahmed. « Je me sens comme un ballon de football sur un terrain entre deux équipes. L’une c’est l’Italie, l’autre c’est la France », dit-il.

    Face aux « difficultés migratoires », les deux pays semblent pourtant faire front commun. Fin juillet, Rome et Paris ont même annoncé la création prochaine d’une brigade conjointe à leur frontière pour lutter contre les filières de passeurs. De quoi compliquer davantage les passages. « Si les gens sont ici, c’est qu’ils veulent partir, ils sont déterminés. La police ne fait que les ralentir et les pousse à prendre plus de risques », regrette Maurizio Marmo, responsable de l’ONG Caritas Vintimille qui vient en aide aux migrants dans cette région italienne. En moyenne, il faut cinq essais à une personne avant de parvenir à passer en France. Mohamed Ahmed est dans la moyenne haute : c’est sa septième tentative en cinq jours. Il y en aura d’autres.

    Depuis la fin du confinement, et la reprise des voyages de migrants qui s’en est suivie, des dizaines de personnes essaient chaque jour de franchir cette frontière dans la région de Vintimille. Les moyens sont divers pour ceux qui ne sont pas conduits dans des véhicules de passeurs : à pieds, il y a le long de la mer - chemin qui n’a ’’quasiment aucune chance’’ étant donné la surveillance policière, glisse le membre d’une association -, les voies de chemins de fer ou, plus risqué, la montagne via un sentier surnommé sans équivoque ’’le passage de la mort’’. Il y a également les trains et les risques d’électrocutions pour ceux qui s’aventurent dessus.

    Chaque jour, aussi, des dizaines de personnes sont interpellées par la police française et sont refoulées. Des « #push-backs » souvent considérés comme illégaux car menés au mépris de l’asile demandé par les intéressés. La PAF de #Menton est d’ailleurs bien connue pour son fonctionnement opaque. Déjà visée par une enquête sur de possibles infractions, cette police avait refusé, en octobre 2019, à une députée le droit de visiter les lieux où sont retenus les migrants.

    Ce jeudi, ils sont une cinquantaine, comme Mohamed Ahmed, à avoir été renvoyés par la police dès le matin, selon un registre tenu par les associations. Un chiffre constant.

    L’apprentissage de la #méfiance

    Sur le bord de la route qui ramène à Vintimille, ville de repli et de transit pour les migrants, des associations ont installé un poste de ravitaillement pour accueillir les refoulés sur le retour. Au frais sous les arbres, du pain, des biscuits, des fruits et des réchauds pour faire du café les attendent. Une infirmière italienne est aussi là pour examiner les éventuelles blessures. Exténués et en sueur après une longue montée, ceux qui arrivent devant cette tablée affichent de larges sourires, agréablement surpris de voir qu’ici, pour une fois, des gens les attendent pour les aider. ’’C’est gratuit, c’est gratuit’’, rassure l’un des participants, les enjoignant à se servir.

    Au soulagement qu’apporte ce réconfort cède toutefois rapidement l’inquiétude. Car beaucoup de ceux présents - pour la plupart très jeunes - semblent dans un état de confusion totale. Faut-il prendre le bus pour se reposer à Vintimille ou retenter sa chance tout de suite ? Quel chemin emprunter ? Est-ce vrai que des militaires se cachent dans les buissons sur le sentier ’’de la mort’’ pour attraper les migrants qui y marchent la nuit ? « Est-ce que je dois dire que je veux demander l’asile en France quand un policier m’interpelle ? Tu peux m’écrire sur un bout de papier comment on dit ça en français ? » Les questions et les regards perdus se bousculent. Le silence tombe aussi soudainement, parfois. Au jeu du chat et de la souris qui se déroule à cette frontière, les grands perdants sont ceux qui ne maîtrisent pas les règles.

    Au point de ravitaillement les migrants peuvent acheter des tickets de bus pour aller Vintimille Crdit InfoMigrants

    « On m’a volé mon sac à dos dans la PAF », lance Nabil Maouche, Algérien de 27 ans, l’air hagard. À l’intérieur se trouvait tout ce qu’il possédait : ses vêtements, 50 euros et, surtout, son téléphone et son chargeur. « Je ne peux plus appeler ma famille », lance le jeune homme qui a embarqué début août depuis les côtes africaines à bord d’un petit bateau de fortune ayant, assure-t-il, réussi à atteindre la Sardaigne. Selon Chiara, membre de l’association italienne Projetto 20k, les pertes d’objets personnels sont monnaie courante durant les nuits au poste : « Les affaires des migrants sont gardées dans un vestiaire dans la PAF, c’est une pièce dans laquelle il y a beaucoup de passage… »

    Binu Lama, Tibétaine de 22 ans, montre pour sa part des documents dont elle peine à comprendre la signification. Un « refus d’entrée » de la police française et un procès verbal des forces de l’ordre italiennes, qui lui ont été délivrés coup sur coup. Elle ne parle ni français, ni italien, ne sait pas ce qu’elle doit en faire. Mais elle jure que, si près du but, cette paperasse ne l’empêchera pas de retenter sa chance dans quelques heures seulement. Accompagnée de son mari et d’un groupe d’amis, elle veut « trouver du travail et envoyer de l’argent à [sa] famille » depuis la France, où elle croit savoir qu’elle pourra obtenir l’asile plus facilement qu’en Italie. « Je ne suis pas découragée et je n’ai pas peur. Je suis habituée maintenant à traverser les frontières », lance celle qui a déjà marché à travers la Turquie, la Grèce, l’Albanie, le Monténégro, la Bosnie, la Croatie et la Slovénie.

    Phénomène vieux de plusieurs années, ces tentatives de passages dans la région de Vintimille ont ceci de nouveau qu’elles rassemblent désormais des personnes aux profils et aux origines plus variés qu’avant. Des Tibétains, par exemple, Jacopo Colomba, représentant de l’ONG We World, n’en avait pas vus dans le coin depuis deux ans. Il y a par ailleurs davantage de migrants désillusionnés par l’Italie « qui veulent tenter leur chance ailleurs », affirme Maurizio Marmo, de Caritas Vintimille. Ils s’ajoutent aux primo-arrivants dans le pays, largement majoritaires parmi ceux qui tentent le passage. Venus de la route des Balkans ou de l’île de Lampedusa dans le but de rejoindre la France ou d’autres pays du nord de l’Europe, ils sont nombreux à expliquer leur désir de quitter la péninsule par le fait qu’ils ne parlent pas italien, qu’ils ne connaissent personne dans ce pays ou, tout simplement, par l’ordre qu’ils ont reçu d’en partir.

    Ce dernier cas de figure est celui de Mohamed Ahmed et de ses deux compagnons de voyage, eux aussi originaires du Darfour. L’un d’eux tchipe lorsqu’on lui demande son prénom, en signe de refus. Il ne le donnera pas. Il tchipe de plus belle, en guise de désapprobation, lorsque son ami accepte, lui, de donner le sien. Le parcours migratoire de ce trentenaire l’a rendu méfiant, sur la défensive. Il ne sait plus qui croire ni à quel sein se vouer. Comme beaucoup de migrants, il a appris la méfiance envers les autorités, envers les journalistes, la méfiance des uns envers les autres.

    Et pour cause : cet homme sans nom est allé de mauvaises surprises en désillusions. Comme Mohamed Ahmed, il a fui le Soudan en guerre pour aller travailler en Libye, pays qu’il croyait prospère alors qu’il est en proie au chaos et à la loi du plus fort depuis 2011. Il y restera bloqué deux ans. À leur arrivée à Lampedusa au terme d’une traversée en bateau, les comparses soudanais sont placés en quarantaine pour détecter d’éventuels cas de coronavirus. Cette période censée durer 14 jours sera renouvelée et doublée, sans qu’on leur fournisse la moindre explication. À leur sortie, les autorités italiennes leur ont donné sept jours pour quitter le territoire.

    « À Vintimille, il n’y a plus d’endroit pour les choses intimes »

    Une fois refoulés par les autorités françaises, les migrants n’ont guère d’autres choix que d’aller à Vintimille, cité balnéaire de 24 000 habitants, loin d’être accueillante mais qui a l’avantage de se trouver à seulement 10 kilomètres de la frontière. Dans les rues de la ville, ils sont désoeuvrés. Chaque nuit, les associations dénombrent entre 100 et 200 migrants qui dorment où ils peuvent, gare, plages, arrière des buissons, sans tente. « Regardez comment c’est ici », lance, écœuré, un jeune Tchadien, arrivé depuis seulement trois jours, en pointant le bitume jonché de déchets. « Moi je dors plus bas, près de la rivière. » Il n’est pas le seul : les berges de la rivière Roya, recouvertes de végétation, sont habitées par de nombreux sangliers imposants et peu farouches.

    Le nombre de migrants à la rue à Vintimille représente une situation inhabituelle ces dernières années. Elle résulte, en grande partie, de la fermeture fin juillet d’un camp humanitaire situé en périphérie de la ville et géré par la Croix-Rouge italienne. Cette fermeture décrétée par la préfecture d’Imperia a été un coup dur pour les migrants qui pouvaient, depuis 2016, y faire étape. Les différents bâtiments de ce camp de transit pouvaient accueillir quelque 300 personnes - mais en avait accueillis jusqu’à 750 au plus fort de la crise migratoire. Des sanitaires, des lits, un accès aux soins ainsi qu’à une aide juridique pour ceux qui souhaitaient déposer une demande d’asile en Italie : autant de services qui font désormais partie du passé.

    « On ne comprend pas », lâche simplement Maurizio Marmo. « Depuis deux ans, les choses s’étaient calmées dans la ville. Il n’y avait pas de polémique, pas de controverse. Personne ne réclamait la fermeture de ce camp. Maintenant, voilà le résultat. Tout le monde est perdant, la ville comme les migrants. »

    Alors, qu’est-ce qui explique cette fermeture ? La préfecture est restée silencieuse à nos questions. Selon des associations, les autorités en auraient eu assez du cadre juridique bancal sur lequel avait été ouvert ce camp, unique en son genre dans le nord de l’Italie. D’autres avancent que la tenue prochaine d’élections régionales, fin septembre, aurait motivé cette décision dans l’espoir de glaner les votes de l’électorat anti-migrants. Difficile à savoir. Début septembre, plus d’un mois après sa fermeture, les préfabriqués du « campo » n’étaient en tout cas toujours pas démantelés, permettant à certains de parier sur une réouverture future.

    Toujours est-il qu’en attendant, la vie des migrants s’organise désormais à l’intérieur même de la ville, autour de la Via Tenda. Sur un parking, entre le cimetière et une voie rapide, l’association Kesha Niya distribue de la nourriture et de l’eau les soirs. Les matins, des collations sont servies dans les locaux de Caritas Vintimille, à proximité. Entre les deux, plus grand chose.

    « Les mineurs et les familles n’ont aucun accueil, s’offusque Maurizio Marmo. Les mineurs restent dehors. » En solution d’urgence, l’église San Nicola a récemment accepté, sous l’impulsion de Caritas, d’ouvrir ses portes aux familles le temps de quelques nuits seulement.

    Mais les portes, en général, se ferment davantage qu’elles ne s’ouvrent. « Avant, on louait un local là, près de la rivière, dit Chiara de Projetto 20k. Les migrants pouvaient s’y reposer en sécurité, charger leur téléphone, passer du temps tranquilles pour les choses intimes… Ça marchait bien. Mais le propriétaire a voulu mettre fin à cette location en janvier 2019. Maintenant le lieu est fermé et il n’y a plus d’endroit sécurisé à Vintimille pour ce genre de choses. »

    Même des services aussi essentiels que les douches ne sont plus accessibles aux migrants dans la ville. Les salles de bains de l’association Caritas, seules options, sont fermées pendant la belle saison. « Les douches sont très compliquées à gérer, justifie Maurizio Marmo, alors, l’été, ils vont dans la mer. »

    Abdelkhair a choisi la rivière. Accroupi sous un pont, penché en avant, il lave un t-shirt dans le faible débit de la Roya, asséchée en cette fin d’été. Il en profite pour se mouiller le visage. Originaires du Bangladesh, lui et ses compagnons ne peuvent pas s’attarder ici. « C’est le coin des Somaliens », prévient un autre migrant, qui s’est levé à la hâte du matelas encrassé sur lequel il était allongé à la vue d’un visiteur. Des murmures et des frémissements nous font comprendre que d’autres hommes se cachent tout autour, dans les interstices du pont, d’où dépasse un pan de couette, et dans les buissons. Les sangliers, eux, gambadent en plein jour non loin de là.

    À la recherche des femmes

    Les passeurs, aussi, agissent à découvert dans Vintimille. Dans le centre-ville, il n’est pas rare que des groupes d’hommes, connus pour être là pour du business, rodent autour de la gare. « Quand on les voit se diriger vers les quais, c’est qu’ils ont été prévenus qu’un train arrivait », indique un membre d’une association qui préfère garder l’anonymat.

    Mohamed Sheraz, rencontré en dehors de la ville, est si à l’aise qu’il donne son nom. Âgé de 25 ans, ce réfugié pakistanais en France dit venir en Italie pour « aider ses frères » en parallèle de son travail dans le secteur du bâtiment. En l’occurrence, il « aide » cinq hommes, quatre Pakistanais et un Afghan, moyennant 150 euros par tête. La nuit dernière, les migrants n’en ont pas eu pour leur argent, ce fut un échec.

    Mais d’autres trafics, plus secrets, inquiètent davantage les associations. Parmi les migrants livrés à eux-mêmes, les femmes, particulièrement vulnérables, sont l’objet de plusieurs attentions. « Dans les deux derniers mois, on a pu entrer - brièvement - en contact avec trois femmes, dit Jacopo Colomba, de l’ONG We World. Elles semblaient être contraintes par quelque chose et cherchaient une manière de s’échapper mais des hommes ont interrompu notre conversation. Nous ne les avons pas revues. »

    Grâce à des maraudes hebdomadaires, Jacopo Colomba, qui a rejoint le projet « Hope this helps » financé par le département et la région Ligurie pour documenter ces trafics, estime qu’environ 50 femmes transitent tous les mois par Vintimille. Avant de disparaître, sitôt les pieds posés dans la ville.

    « C’est une dynamique facile à observer, détaille Jacopo Colomba. Des femmes, généralement ivoiriennes [la mafia nigériane, très active il y a quelques années dans la ville, a elle vu son activité baisser, NDLR] arrivent par train de Milan ou de Gêne et sont tout de suite accueillies par une personne de leur nationalité. Elles sont menées près du fleuve. D’autres personnes les attendent et un échange de papiers a lieu. Puis, elles sont conduites dans des maisons, nous ne savons pas où exactement. » L’humanitaire, qui précise avoir prévenu la police mais ne pas savoir si « le mot a circulé », assure que ces femmes sont par la suite intégrées à des réseaux de prostitution en France et notamment à Marseille.

    « Les femmes ne sont pas inexistantes à Vintimille mais elles sont invisibles », affirme pour sa part Adèle, membre de l’association Kesha Niya, durant une distribution de nourriture à laquelle participent uniquement des hommes. « C’est dur de savoir comment elles vont et où elles sont. »

    Auparavant le camp de la Croix-Rouge hébergeait plusieurs d’entre elles. En cela non plus, sa fermeture n’a pas été bénéfique.

    Loin des trafics et des luttes de pouvoir, il reste un lieu à Vintimille où le business est un vilain mot. Le café Hobbit, tenu par la charismatique Delia, engrange même si peu de recettes que le commerce peine à ne pas mettre la clé sous la porte. Car Delia sert boissons et focaccias gratuites aux personnes dans le besoin depuis plusieurs années. Cet élan de générosité, inspiré par l’afflux de migrants dans la ville, a fait fuir les locaux. Eux ne mettent plus les pieds dans « le café des migrants ». « Mon commerce est un désastre », dit Delia, sans songer une seconde à changer de stratégie. Pour la gérante, les passeurs, les migrants laissés à l’abandon, la frontière italo-française et ses contrôles incessants, tout cela s’inscrit dans une même logique, qu’elle refuse de suivre. « Tout dans ce monde est affaire d’argent et de profit. La seule chose qui ne rapporte rien, c’est sauver les êtres humains. »

    https://www.infomigrants.net/fr/webdoc/209/si-un-migrant-est-dans-la-region-de-vintimille-c-est-qu-il-veut-partir

    #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #Italie #frontières #France #Vintimille #refoulement #refoulements #push-back #café_Hobbit #femmes #SDF #sans-abri #camp_humanitaire #Croix-Rouge #fermeture #Delia

  • Ce jour-là à #Vintimille. Retour d’un lieu d’exil sans cesse confiné

    Chaque nuit, des dizaines de personnes en situation d’exil dorment dans les rues de Vintimille. Laissées à l’abandon par les pouvoirs publics depuis la fermeture du principal camp d’hébergement, elles sont repoussées du centre-ville par les forces de police. De retour de cette frontière, nous publions ce texte de témoignage afin d’alerter sur la mise en danger institutionnelle des personnes en migration.

    Chaque nuit, des dizaines de personnes en situation d’exil dorment dans les rues de Vintimille. Laissées à l’abandon par les pouvoirs publics depuis la fermeture du principal camp d’hébergement, elles sont repoussées du centre-ville par les forces de police alors que la municipalité prépare la reprise des activités touristiques au lendemain du confinement. De retour de cette frontière franco-italienne, nous publions ce texte de témoignage afin d’alerter sur la mise en danger institutionnelle des personnes en migration.

    Depuis la fin du confinement en Italie, on peut estimer que 200 personnes en migration sont quotidiennement livrées à elles-mêmes à Vintimille. La plupart sont originaires d’Afghanistan, d’Iran, du Pakistan, dans une moindre mesure de pays africains. Nous avons également rencontré une famille kurde accompagnant une femme enceinte. "Bonjour, ça va ?". Suivant les mots que nous adressons à leur rencontre, les discussions s’ouvrent sur les projets passés et présents. La principale destination évoquée à cette étape des parcours est la France. Marseille, Porte de la Chapelle... Certains ont passé plusieurs années dans le pays d’où nous venons, avant de se faire renvoyer vers l’Italie. "Ništa !" : au détour d’une conversation en Pachtoune, on reconnait une expression ramenée des routes balkaniques, qui signifie qu’il n’y a rien à trouver ici. "Racist", "police", "violent" sont d’autres mots transparents que nous glanons en parcourant les rues de Vintimille, ce jeudi 11 juin.

    Surimpressions

    À la veille de la reprise officielle de la saison touristique, plusieurs réalités se superposent. Les arrivées de touristes tant attendues par la municipalité coïncident avec celles de groupes considérés comme irréguliers. Les usagers des terrasses à nouveau animées côtoient les déambulations quotidiennes des personnes exilées pour trouver une stratégie de passage. Les camions de nettoyage sillonnent les rues ; les fourgons des marchands du célèbre marché de Vintimille reprennent place. Cette soudaine effervescence économique est traversée par le ballet des forces de l’ordre : militaires, police municipale, guardia di finanza et carabinieri quadrillent la ville. Nous nous étonnons de voir la police nationale française stationnée devant la gare. La stratégie des autorités italiennes semble moins correspondre à une logique de contrôle de l’immigration qu’à un impératif de tenir à l’écart du centre-ville les migrant-tes indésirables. C’est-à-dire celles et ceux qu’il ne faut pas voir dans ce paysage renaissant de la consommation.

    Ce jour-là, le 12 juin, alors que les interdictions liées aux rassemblements dans les centres commerciaux et lieux de restauration sont progressivement levées, le maire a explicitement interdit aux ONG présentes à la frontière de fournir toute aide matérielle aux personnes exilées.

    Invisibilisations

    Sur cette portion du territoire transalpin, le confinement décidé en mars 2020 a signifié l’arrêt des activités humanitaires, en raison de la fermeture officielle de la frontière et des interdictions de rassemblement en Italie. Les volontaires du collectif Kesha Niya et de Roya Citoyenne ont dû mettre fin aux distributions alimentaires groupées — une activité essentielle pour les personnes exilées en transit dans les rues de Vintimille, assurée quotidiennement depuis trois ans. Alors que de nouvelles arrivées ont été constatées depuis la fin du confinement, les distributions doivent s’effectuer en discrétion.

    Les paquets alimentaires, kits d’hygiène et masques sont fournis aléatoirement, en fonction du nombre de personnes exilées rencontrées au cours des maraudes. Cette situation délétère n’est pas sans rappeler le contexte de l’année 2016, alors qu’un arrêté municipal de la commune de Vintimille interdisait les distributions de repas pour cause de risques sanitaires[I]. Inique autant que cynique, l’argument de la salubrité publique est à nouveau le levier d’une mise en danger des personnes exilées. Bien que l’ONG Médecins du Monde ait constaté en juin des besoins médicaux auprès des personnes en errance dans la ville (tels que des problématiques respiratoires connues pour leur propension à entrainer une forme grave de COVID-19), aucun accès aux soins n’est organisé par les institutions locales ou nationales. Sur la seule après-midi du 18 juin 2020, deux patients ont été admis en hospitalisation d’urgence suite à des signalements de l’ONG (urgence obstétricale et détresse cardiaque).

    Cette nuit-là, le vent est levé. Venus pour assurer une distribution de sacs de couchage et de masques, mis en difficulté dans cet acte simple, nous ressentons l’hypocrisie d’une frontière qui crée ses propres marges. Avec quelques autres volontaires qui tentent d’assurer un relai social et médical, nous devons nous aussi nous cacher, nous rendre invisibles.

    Épuisements

    Il y a quelques semaines, le camp de la Croix-Rouge assurait encore la mise à l’abri d’individus sans papiers. Institué comme bras humanitaire de la Préfecture d’Imperia en 2016, cet établissement situé à 4 kilomètres du centre-ville centralisait l’hébergement des personnes en transit, autant que leur contrôle[II]. Depuis la détection d’un cas de coronavirus le 18 avril, le campo a été fermé aux nouvelles arrivées[III]. Seuls les petits-déjeuners et un service de douche délivrés par Caritas sont assurés aux personnes recalées, ainsi qu’une assistance juridique répartie entre plusieurs associations locales[IV].

    Désormais, pour celles et ceux qui arrivent sur ce territoire, les rares lieux de répit se situent à l’abri des regards, dans quelques marges urbaines tolérées. Corollaire du droit à la mobilité, le droit à la ville est mis à mal dans les interstices urbains de Vintimille. Ces rues sont le théâtre d’un nouveau « game », selon le nom donné dans les Balkans aux tentatives répétées de traversée des frontières, suivies de refoulements violents[V].

    À cette étape des parcours, la France demeure le seul horizon envisageable : tous et toutes parviennent finalement à passer, mais au prix d’épuisements multiples et de nouveaux dangers.

    Ce jour-là, sous le pont de Vintimille, une laie ballade ses marcassins à la recherche de nourriture, à proximité immédiate d’un lieu de campement régulièrement sujet aux déguerpissements policiers. Les voyages nous sont contés avec des mots et des blessures, souvent ramenées de la traversée des Balkans. À cette frontière intérieure de l’Europe, aucun moyen médical institutionnel n’est disponible pour les soigner.

    Des corps confinés

    Confiner, c’est aussi étymologiquement toucher une limite. Bloquées à la frontière italo-française, les personnes exilées se heurtent à des confins au cœur de l’espace Schengen dit « de libre circulation ». Seuls les chiffres de l’activité policière communiqués par la Préfecture des Alpes-Maritimes permettent d’évaluer numériquement l’évolution des arrivées ces derniers mois : alors que 107 refus d’entrée[VI] ont été enregistrés côté français entre le 15 mars et le 15 avril, ce sont environ cinquante personnes qui seraient refoulées chaque jour de la France vers l’Italie, depuis la fin du confinement officiel. Toutefois, ces statistiques n’intègrent ni les tentatives de traversées répétées par une même personne, ni les refoulements non enregistrés par la police française, en dépit des lois en vigueur[VII]. C’est pourquoi le regard d’acteurs non étatiques s’avère nécessaire dans cette phase de déconfinement. Salariée humanitaire, universitaire ou volontaire bénévole, notre présence à Vintimille tient à des raisons diverses, mais nos mots dessinent une même idée : « impératif de mise à l’abri », « inégalité des vies »[VIII], « acharnement dissuasif » …

    Ces deux derniers mois ont fourni l’opportunité de comprendre le caractère essentiel du droit à la mobilité — en particulier pour les personnes qui ont pu se confiner dans des conditions dignes et qui retrouvent depuis le mois de mai les délices de la liberté de circulation[IX]. Que reste-t-il de cette expérience collective ?

    La période post-confinement signale plutôt le renforcement des inégalités à la mobilité. Non seulement la « crise sanitaire » n’a pas amené de véritable réflexion sur la précarité des personnes bloquées aux frontières, mais elle a de plus permis la poursuite des activités de contrôle mortifères à l’écart de l’attention médiatique. C’est le cas en Libye et en Méditerranée[X], mais aussi au cœur de l’Union européenne, à cette frontière franco-italienne.

    Ce jour-là, le train de voyageurs internationaux Vintimille-Cannes fait à nouveau vibrer les rails, à côté du campement improvisé pour la nuit par les exilé-e-s. Le lendemain, nous rejoindrons le bivouac de notre choix sans le moindre contrôle, reconnus à nouveau aptes à circuler, contrairement à ces corps confinés.

    https://blogs.mediapart.fr/mdmonde/blog/240620/ce-jour-la-vintimille-retour-d-un-lieu-d-exil-sans-cesse-confine
    #campement #asile #migrations #réfugiés #frontières #Italie #France #frontière_sud-alpine #SDF #sans-abrisme #in/visibilité #invisibilisation #écart #solidarité #Kesha_Niya #Roya_Citoyenne #distributions_alimentaires #salubrité_publique #accès_aux_soins #hypocrisie #Croix-Rouge #camp #campement #mise_à_l'abri #hébergement #campo #marges #droit_à_l'abri #interstices_urbains #game #the_game #épuisement #droit_à_la_mobilité #libre_circulation #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation #post-covid-19 #post-confinement

  • COMMENT L’ÉTAT JETTE LES MINEURS ÉTRANGERS À LA RUE

    Enquête sur le #Demie, ce dispositif de la mairie de #Paris, géré par la #Croix-Rouge, dont le but est d’évaluer la #minorité des jeunes étrangers. Nous avons exposé comment fonctionne l’#évaluation, en y infiltrant un journaliste, et essayé de comprendre pourquoi autant de mineurs se retrouvent à la rue dans la capitale.

    https://www.youtube.com/watch?v=49Rn8s3YXk0&feature=youtu.be


    #âge #asile #migrations #réfugiés #France #SDF #sans-abris #MNA #mineurs_non_accompagnés #vidéo

    ping @isskein

  • La Croix-Rouge à la peine face aux #Violences_sexuelles
    https://www.mediapart.fr/journal/france/060819/la-croix-rouge-la-peine-face-aux-violences-sexuelles

    L’association, qui compte plus de 17 000 personnes salariées en France, a beau avoir mis en place un dispositif spécifique pour les situations de harcèlement sexuel, dans les faits, la pratique semble bien différente. Illustration avec le cas d’Émilie Hantzberg.

    #Croix-Rouge,_harcèlement_sexuel,_violences_sexuelles

  • Washington lance un ultimatum au Venezuela sous couvert du stratagème de « l’aide humanitaire » - World Socialist Web Site
    https://www.wsws.org/fr/articles/2019/02/08/vnzl-f08.html

    Il est absurde de prétendre que les camions de vivres et de médicaments amenés à la frontière entre la Colombie et le Venezuela résorberont la profonde crise économique et sociale qui sévit au Venezuela. L’aide, quand et si elle arrivera, est un #cheval_de_Troie classique, destiné non pas à alléger les souffrances du peuple vénézuélien, mais à provoquer soit un coup d’État militaire, soit une confrontation armée.

    La #Croix-Rouge et #Caritas, le groupe d’aide affilié à l’Église catholique, ont refusé de participer à toute opération impliquant le « corridor humanitaire » américain, invoquant leurs principes de neutralité et d’indépendance.

  • Réfugiés morts sur la route des Balkans

    En 2015, en Macédoine, un train a renversé plus de quatorze réfugiés. Parmi eux, #Mahdi_Mohebi, un jeune afghan âgé de 19 ans, qui a survécu à la catastrophe. Depuis l’accident, Mahdi n’a plus aucune nouvelle de son jeune frère Alireza. À Brême, il poursuit tant bien que mal son existence, dans une incertitude angoissante...

    D’autres familles qui ont perdu des proches dans ce drame sont en quête de réponses. Mais elles se heurtent au silence des autorités macédoniennes, peu enclines à collaborer. Leur dernier espoir : retourner sur la route des Balkans, afin de mener leur propre enquête.

    https://www.arte.tv/fr/videos/078229-004-A/arte-regards
    #migrations #asile #réfugiés #route_des_balkans #Balkans #Macédoine #accident #morts #mourir_dans_la_forteresse_européenne #cadavres #identification #attente #Croix-Rouge #mourir_sur_la_route_des_balkans

    –-> Dans le documentaire on dit que la tragédie du #23_avril_2015 a fait 14 morts.

    • Izbjeglice umiru na balkanskoj ruti

      Balkanska ruta se od 2016. godine smatra zatvorenom. Ali izbjeglice i dalje umiru pokušavajući da pređu granice - kao što je slučaj sa Ihsanudinom Gull Muhammadom.

      hsanudin Gull Muhammad stradao je u maju 2018. Njegovo tijelo su našli u rijeci Korani. Ta rijeka predstavlja granicu između Bosne i Hercegovine i članice EU - Hrvatske. Rasim Ruždić živi u blizini Korane. On ima terensko vozilo sa prikolicom, tako da ga policija uvijek pita za pomoć kada treba da se transportuje nešto sa teško pristupačnog terena. Tako je bilo i ovaj put. “Okrenuo sam auto i stavio beživotno tijelo u prikolicu. Držao sam ga za ruke. Koža mu se već počela guliti, što znači da je već nekoliko dana bio u vodi”, kaže Rasim.

      Ihsanudin Gull Mohammad imao je na sebi sivu majicu, traperice, tene, jednu bosansku marku i 30 centi gotovine, gumu za kosu i perle za molitvu safirne boje. Kada je Rasim Ruždić položio njegovo tijelo u prikolicu, vidio je da je u Ihsanudinovoj lijevoj šaci ostao tespih - čvrsto stegnut.

      Udavio se u bijegu od hrvatske granične policije?

      Okolnosti pod kojima je Ihsanudin umro nemoguće je razjasniti. Zna se da je bio u grupi i da je pokušao da pređe bosansko-hrvatsku granicu. Ruždić pretpostavlja da je grupu zaustavila hrvatska granična policija:

      “Onda su pobjegli natrag u Bosnu, ali jadni mladić se najvjerovatnije izgubio i nije znao kako da se vrati. Ušao je u duboku vodu, vjerojatno nije znao plivati i utopio se.”

      Bosna i Hercegovina godinama nije bila na takozvanoj „Balkanskoj ruti". Putevi ka zapadnoj Evropi vodili su kroz druge, susjedne zemlje. Tokom 2017. godine u BiH je došlo manje od 800 ljudi, dok je 2018. godine registrovano čak 25.000 takozvanih ilegalnih migranata. Ljudi se pokušavaju domoći neke od članica EU. Neki uspijevaju, druge hvata i vraća hrvatska granična policija.

      Migranti i izbjeglice uvijek iznova izvještavaju da im hrvatska policija ne daje šansu da podnesu zahtjev za azil, da ih ilegalno šalje nazad preko “zelene granice” i da koristi silu. Hrvatska konsekventno odbacuje ove navode. Rasim Ruždić ne vjeruje hrvatskim vlastima i ima o tome jasno mišljenje:

      “Ako želite da spriječite ljude da pređu granicu, trebali biste da ih zaustavite, ali ne morate ih ubiti.”

      Ihsanudin Gull Mohammad sahranjen je na muslimanskom groblju u Bihaću, na sjeverozapadu Bosne. Prije toga je njegovo tijelo držano mjesec dana u mrtvačnici. Bosanske vlasti nisu bile sigurne šta da rade sa lešom. Na kraju je sahranu organizovala Zemira Godinjac, koja se dobrovoljno brine o izbjeglicama u Bihaću. “Svako ljudsko biće zaslužuje minimum dostojanstva na kraju ovozemaljskog života, i ja sam, kao čovjek, u to duboko uvjerena”, kaže ova Bosanka.

      Zemira Godinjac je najprije pokušala dobiti informacije o nastradalom mladiću. Od jednog Ihsanudinovog pratioca saznaje da je mladić bio oženjen i da je imao dvoje djece. Nakon toga pokreće akciju da njegovo tijelo bude prebačeno u rodni Afganistan.

      Zemira Godinjac traži Ihsanudinove članove porodice

      To je teško, jer nema kontakta sa njegovom porodicom i jer joj nedostaju informacije o njegovom mjestu porijekla. Ali Zemira Godinjac ne odustaje i nada se da će neko već početi da traži Ihsanudina. Dodaje i da je imao jednu osobenost: šest prstiju na lijevoj ruci. Zato će, kaže, na sigurno pohraniti Ihsanudinov plavi tespih I njegovu gumu za kosu. “Sigurno je želio više od ovoga ostaviti svojoj porodici, ali tako vam je to. Njegova sudbina je bila da pronađe smiraj u Bosni. Ovo je njegov tespih a sa ovim je vjerovatno vezao kosu. Ostaviću te stvari kod sebe da ih jednoga dana mogu dati njegovoj porodici.”

      https://www.dw.com/bs/izbjeglice-umiru-na-balkanskoj-ruti/a-48052681

    • Die Story im Ersten: Tote auf der Balkanroute

      2015 überrollt ein Zug in Mazedonien 14 Flüchtlinge. In Europa ist dieses Unglück nicht einmal eine Randnotiz. Recherchen vor Ort zeigen: Die Ermittlungen wurden schnell eingestellt, nicht alle Augenzeugen befragt. Wie der 19-jährige Afghane Mahdi Mohebi aus Bremen. Er hat das Unglück überlebt. Von seinem Bruder jedoch fehlt jede Spur: Hat der Zug seinen 14-jährigen Bruder verletzt, getötet? Wenn ja, was ist mit seinen sterblichen Überresten geschehen?

      Statt aufzuklären und zu helfen, schob die mazedonische Polizei Mahdi Mahebi sofort zurück nach Griechenland: ein klarer Verstoß gegen die Europäische Menschenrechtskonvention, wie die Kritiker sagen. Informationen und Hinweise zur Identifizierung der unbekannten Toten werden von den mazedonischen Behörden bis heute zurückgehalten. Kein Einzelfall, doch kaum jemand traut sich, die Verantwortlichen anzuklagen.
      Entlang der Balkanroute sind Tote Alltag

      Anders die Eltern des sechsjährigen Mädchens Madina Hussiny. Sie starb an der kroatisch-serbischen Grenze in Folge eines „Pushbacks“, einer polizeilichen Sofort-Abschiebung. Ihre Eltern klagen an, ihre Tochter hätte nicht sterben müssen, wenn es Rechtsstaatlichkeit an der kroatischen EU-Außengrenze gegeben hätte. Die Eltern erleben dann einen weiteren Schock. Denn statt den Fall aufzuklären, versucht die Regierung in Zagreb, genau das Gegenteil zu erreichen.

      Fast überall entlang der Balkanroute sind Tote Alltag: Menschen, die erfrieren, die vor Erschöpfung zusammenbrechen, die Opfer von Gewaltverbrechen werden. Genaue Zahlen gibt es nicht, nirgendwo in Europa eine Stelle, die Zahlen fortlaufend zusammenträgt und jeden Fall prüft.
      Behörden und Politik fühlen sich nicht zuständig

      In Deutschland leben mehrere Flüchtlingsfamilien, die ihre Angehörigen vermissen und annehmen müssen, dass sie auf der Balkanroute ums Leben gekommen sind. Es sind Familien, die 2015 über diesen beschwerlichen Weg nach Deutschland gekommen sind. Nach ihrer Ankunft wenden sie sich an die deutsche Polizei, berichten dem BAMF, dass es von ihren Verwandten auf der Balkanroute kein Lebenszeichen mehr gibt. Hilfe jedoch bekommen sie nicht.

      Weder Behörden noch Politik in Deutschland fühlen sich zuständig. Der Suchdienst des Deutschen Roten Kreuzes ist zwar bereit zu helfen, ist jedoch auf eine Kooperation der Behörden im In- und Ausland angewiesen. Die aber gibt es nur selten. Ist die Notlage von in Deutschland lebenden Flüchtlingsfamilien also einfach egal?
      Leidvolles Bangen um das Schicksal von Angehörigen

      Der Film belegt: Es wird so gut wie gar nicht hingeschaut, wenn Flüchtlinge in Deutschland sich seit Jahren mit der Ungewissheit um den Verbleib ihrer Familienmitglieder quälen. Einige halten das leidvolle Warten nicht mehr aus: Sie wollen zurück auf die Balkanroute, um ihre Kinder und Geschwister zu finden.

      „Die Story im Ersten“ hat sie auf ihrer Spurensuche begleitet und die Behörden vor Ort konfrontiert. Werden die Angehörigen Antworten auf ihre drängendste Frage finden: Was geschah mit ihren Familienmitgliedern?

      Der Film zeigt auf, welchen Stellenwert Rechtsstaatlichkeit und Menschenwürde einnehmen, wenn es um den Umgang mit toten Geflüchteten und ihren Angehörigen geht.


      https://www.daserste.de/information/reportage-dokumentation/dokus/sendung/tote-auf-der-balkanroute-100.html

  • En Bosnie, l’#OIM se félicite d’avoir suffisamment de places d’hébergement pour tous les migrants

    L’organisation internationale des migrations (OIM) a déclaré fournir suffisamment de places d’accueil pour les migrants présents en Bosnie. La Croix-Rouge, pourtant, affirme qu’elle a besoin de davantage de moyens pour faire face aux besoins des migrants restés dans les camps de fortune, et exposés au froid glacial de l’hiver.

    Selon l’Organisation internationale des migrations (OIM), les milliers de migrants actuellement présents en Bosnie peuvent avoir accès à une place d’hébergement, et ainsi passer l’hiver au chaud. « Nous avons mis en place suffisamment de structures pour accueillir les personnes à la rue », a déclaré à InfoMigrants Peter Van der Auweraert, le responsable de l’OIM, en Bosnie, avec exemple à l’appui. « Les migrants de Velika Kledusha ont tous été relogés, ils ont été placés dans un centre humanitaire de 600 places », précise-t-il. Pendant des mois, la ville de #Velika_Kledusha, à quelques kilomètres seulement de la frontière croate, a abrité un campement sauvage de centaines de migrants. Les conditions de vie y étaient très précaires, exposant les migrants aux intempéries, à la boue, et au froid.

    À #Bihac, non loin de Velika Kledusha, le centre de #Borici, qui a abrité des centaines de migrants durant plusieurs mois, fait peau neuve et devrait être en capacité d’accueillir très prochainement des centaines de migrants. L’immeuble jusque là abandonné était particulièrement insalubre. « Le nouveau Borici devrait accueillir 500 personnes, principalement des familles de migrants. Et il devrait ouvrir d’ici les fêtes de fin d’année », précise Peter Van Auweraert.

    À #Sarajevo, aussi, près de 800 places supplémentaires ont été créées, précise l’OIM.

    « Nous avons en tout 5 000 places d’hébergement disponibles en Bosnie », affirme Peter Van der Auweraert. Le nombre de migrants présents en Bosnie oscille autour de 3 500 personnes. « Normalement, cet hiver, personne ne devrait mourir de froid », continue le responsable de l’OIM. "Il faut continuer à communiquer pour expliquer aux migrants que des structures existent".

    « La nuit, les températures descendent jusqu’à -15 degrés »

    En dépit du constat positif de l’OIM, la Croix-Rouge est inquiète. « La récente réinstallation des migrants dans des structures plus sûres et loin des camps sauvages est une évolution positive, mais nous pensons que la situation reste imprévisible », explique à InfoMigrants Elkhan Rahimov, un responsable de la Fédération internationale de Croix-Rouge (FICR). « La dynamique des arrivées peut varier. Nous restons vigilants quant au fait que des migrants peuvent quitter les centres d’hébergement et choisir de retourner à la rue. »

    Certaines personnes préfèrent en effet rester non loin de la frontière croate pour tenter de passer la nuit. « Mais le soir et la nuit, les températures descendent jusqu’à -15 degrés Celsius », rappelle Elkhan Rahimov. "Ces personnes ont besoin de couvertures, de vêtements chauds. Face à ce constat, la FICR de Bosnie a lancé lundi un appel de 3,3 millions de francs suisses (2,9 millions d’euros).

    « Par le biais de l’appel d’urgence, nous souhaitons attirer l’attention sur un problème humanitaire crucial qui ne disparaîtra pas dans les mois à venir », conclut-il.

    Auparavant évitée par les migrants, la Bosnie est confrontée depuis cette année à un afflux qu’elle peine à gérer. Depuis janvier, plus de 23 000 sont entrés dans ce pays.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/13870/en-bosnie-l-oim-se-felicite-d-avoir-suffisamment-de-places-d-hebergeme

    #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #IOM #Croix-Rouge #hébergement #logement #asile #migrations #réfugiés #externalisation

    • En février 2019...
      Violence et désespoir s’emparent des migrants oubliés en Bosnie-Herzégovine

      Vendredi soir, de très violents affrontements ont éclaté dans le camp de réfugiés de #Bira, à #Bihać, au nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine. Entre les squats de Sarajevo et les camps surpeuplés, des milliers de réfugiés sont toujours bloqués dans ce pays. Sans grand espoir de pouvoir passer dans l’Union européenne.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/040219/violence-et-desespoir-s-emparent-des-migrants-oublies-en-bosnie-herzegovin

    • #Bihać : Dove i corpi non si sfiorano

      Pubblichiamo il primo di due articoli dal confine tra Bosnia e Croazia, dove memorie di guerre e migrazioni del passato e del presente si incrociano. Il secondo articolo sarà di Gabriele Proglio, compagno di viaggio di Benedetta.

      Sono le 8 di mattina, e dopo una lunga giornata di viaggio e poche ore di sonno, Bihać ci sorprende nel tepore di una giornata inaspettatamente calda e soleggiata. La città bosniaca si circonda di montagne e colline, che ne tracciano fiere ed imponenti il confine che la separa dalla Croazia. Negli anni 90, queste cime sono state luogo di un assedio da parte dell’esercito serbo, fungendo da vera e propria prigione naturale. Oggi, invece, rappresentano, per migliaia di migranti in fuga da guerre, persecuzioni e povertà, l’unica speranza di giungere in Unione Europea.

      Il fascino delle terre di confine sta proprio nel loro essere allo stesso tempo luoghi di limite e superamento, di prigionia e di libertà, di antagonismo e di incontro. Inevitabilmente, questa eterna contraddizione li rende condanna e benedizione per i popoli che li abitano, e per quelli che vi passano.

      Io e Gabriele siamo arrivati fin qui con lo scopo di esplorare la sovrapposizione storica delle memorie di un popolo che ha visto la guerra, e che ora si ritrova ad essere luogo di passaggio di persone che dalla guerra stanno ancora scappando. Lo stimolo intellettuale di smascherare il confine, una conoscenza superficiale della storia del paese, ed un interesse accademico per la questione della crisi migratoria, sono i bagagli che ho con me. Sono ancora ignara dei fantasmi di questo posto, e degli scheletri che si porta dentro. In poco tempo il confine mi entrerà nella pelle, lo sentirò scorrere e spostarsi alterando le sicurezze che mi ero costruita attraverso lo studio minuzioso ma distaccato di questa realtà. Ma per ora, Bihać deve ancora svegliarsi e con lei, mi sveglierò anche io.

      Ad un primo sguardo, la città mi appare come un non luogo, dove l’apatia generale ha lentamente rimosso le ferite di una guerra fin troppo recente. Ma i resti sono evidenti. Monumenti ai caduti, cimiteri e colpi di mortaio che appaiono come cicatrici sui palazzi della città. Nella sua calma opprimente, Bihać ricorda molto la Seahaven di Truman Show. Una cittadina tranquilla dove non succede niente. Un posto come un altro dove mettere su famiglia e vivere una vita semplice. Come Seahaven, questa mattina Bihać si apre ai miei occhi come un palcoscenico pronto a mettere in scena uno spettacolo dell’inganno, che va avanti giorno dopo giorno da decenni, nel tentativo di legittimare la finzione di una serenità tanto desiderata quanto superficiale.

      Le strade sono pulite e silenziose e le comparse del grande spettacolo dell’inganno devono ancora apparire. Tutto è fermo. Tra poco si sparpaglieranno nei caffè del centro impersonando perfettamente il loro ruolo di cittadini annoiati e disillusi. Lo sguardo stanco dei cani randagi che si assopiscono all’ombra di alberi spogli, l’immagine stereotipata di ragazzi e anziani seduti ad un bar per riempire la giornata. Eccola Bihać nella sua stasi permanente e volontaria, nella sua apparente tranquillità che da due decenni tenta invano di smacchiarle l’anima dalle cicatrici di una guerra di cui non si parla e non si vuole parlare.

      È mezzogiorno. Improvvisamente noto che l’equilibrio che si è tanto faticato a costruire durante la mattinata si rompe. Appaiono degli estranei che spezzano l’atmosfera. Sono nuove comparse, che stonano con la scenografia e non conoscono il copione. La maggior parte sono uomini sui trenta, alcuni portano con loro zaini e sacchi a pelo. Sono le persone migranti giunte dopo mesi di viaggio per la rotta balcanica, arrivate fin qui per oltrepassare il confine e raggiungere la Croazia, l’Unione Europea. Alcuni vivono nei campi di Borici, Bira e Cedra. Ma da qualche settimana i campi sono pieni, e chi non può permettersi di pagare altissime somme di denaro per un affitto in città in nero, dorme per strada.

      Da circa un anno, a Bihać non si parla d’altro. Dall’estate scorsa, quando i flussi migratori si sono intensificati, i cittadini si sono trovati a dover gestire una situazione d’emergenza umanitaria, dove le uniche presenze di supporto sono la Croce Rossa, lo #IOM e poche ONG internazionali, come #IPSIA. Intanto gli abitanti della città cominciano ad innervosirsi.

      Ci hanno abbandonato’ mi dice Amir, riferendosi al governo centrale di Sarajevo, ‘non gli è mai importato di noi, nemmeno durante la guerra’. Amir vive a Bihać da tutta la vita, e come ogni bosniaco della sua generazione, ha visto la guerra e se la porta dentro e addosso, nella sua gestualità al limite del compulsivo e nell’azzurro glaciale del suo sguardo, che non si azzarda mai ad incrociare il mio, ma si focalizza sempre su zone limitrofe. ‘Non odio, ma sono arrabbiato’ mi confessa Amir mentre avvicina ripetutamente alle labbra la tazzina ormai vuota di caffè, come per rimarcare con quella pausa la scelta coraggiosa ed insolita di abbandonarsi al ricordo della guerra. Amir non se lo permette mai. ‘Non parliamo della guerra, non sono bei ricordi. Cerco di non stare solo. Quando sono solo, suono il piano. Questo è un altro modo per scappare. Lo faccio solo per me’. Amir ha combattuto sul fronte a Bihac e ‘probabilmente’, come tiene a sottolineare, ha ucciso qualcuno.

      Ma non lo vuole sapere, non ci vuole pensare. Un’altra pausa, un sospiro e di nuovo un finto sorso ad una tazzina ormai vuota da venti minuti. Mi trovo di fronte a questo signore di cinquant’anni a cui la guerra ne ha aggiunti almeno quindici in volto. Lo ascolto ed improvvisamente mi ritrovo a comprenderne la violenza, subita ed esercitata. D’un tratto, il confine tra bene e male che ho tracciato nella mia coscienza va a sgretolarsi nel dramma di un popolo che non comprende la ragione del proprio trauma, ma ne subisce ogni conseguenza.

      Nella costante rimozione di un passato scomodo e violento, la materializzazione della crisi migratoria risveglia la rabbia ed il senso di abbandono dei cittadini di Bihać. ‘Noi siamo un popolo aperto e tollerante, sappiamo cosa vuol dire dover scappare dalle proprie case. Ma io non so chi sono queste persone, e non mi sento al sicuro. Ho paura per mia figlia’ mi confessa Harun. ‘Queste persone non vogliono rimanere qui. Fosse per me, le condurrei io al confine. Questa situazione non va bene nemmeno per loro e sono le istituzioni che dovrebbero darci supporto.’

      ‘Il pisciatoio d’Europa’, cosi lo definisce Alessandra, italiana migrata a Bihać negli anni 90. Anche lei arrivata al limite della sopportazione nei confronti del fenomeno che ha sconvolto la realtà quotidiana di questa città. Dalle prime interviste agli abitanti di Bihać, mi appare chiara una cosa. Nessuno si azzarda a dire che il migrante è un problema in quanto tale. Tutti parlano di sicurezza, di identità. Il problema non è che so chi sei e per questo ti odio, il problema è che non so chi sei, e per questo ho paura. Ancora una volta, ‘non odio, ma sono arrabbiato’.

      Incontro gli abitanti di Bihać nei patii dell’Hotel Opal e Paviljon che si affacciano sulle due rive opposte del fiume Una. In mezzo, l’isolotto di verde che spezza il ceruleo del corso d’acqua si copre di ragazzi con zaini e sacchi a peli. Alcuni sono soli, altri in gruppo. Tutti hanno solo un obiettivo al momento: arrivare al confine. Invadono il paesaggio ma non le coscienze. Sono osservati costantemente, ma non vengono mai guardati. Tra di loro c’è Abdul, arrivato dall’Iraq dopo 9 mesi di viaggio attraverso la Turchia, la Grecia l’Albania e la Serbia. Domani tenterà di nuovo il game, nonostante non cammini ancora bene, dopo gli ultimi pestaggi della polizia croata. Il game, così lo chiamano, è il tentativo di valicare il confine, cercando di sfuggire alle violente deportazioni della polizia croata. Cosi nel grande spettacolo dell’inganno, la trama si infittisce di adrenalina e suspense. Migranti e forze dell’ordine croate si rincorrono e si combattono in un moderno guardia e ladri che avviene lassù, sulle montagne che separano il confine bosniaco da quello croato, lontano dagli occhi del mondo. Abdul mi dice che questo è il suo ottavo tentativo, ma che ha deciso che in caso venga respinto ancora, si sposterà a Velika Kladuša, altra città di confine, a pochi chilometri da Bihać. Abdul non mi parla di casa, non mi parla del futuro. Nei suoi occhi vedo solo il game. Eppure Abdul ha visto morire suo padre, ed è scappato lasciando una madre ed una sorella. Come Amir, ha la guerra negli occhi. Come Amir, non odia ma è arrabbiato. È arrabbiato con lo IOM che non lo ha fatto entrare nel campo di Bira. E’ arrabbiato con l’uomo della polizia croata che lo ha picchiato e gli ha rubato il cellulare. Ma Amir non odia, non ne vede il motivo. Vuole solo oltrepassare il confine, vuole solo una possibilità.

      In questa danza imbarazzata e goffa tra due storie di vite spezzate, presenti e passati di guerre e miseria, i corpi non si sfiorano. Accarezzano il lento scorrere del tempo tra la pesante presenza dei monumenti di guerra e lo sforzo collettivo di ignorali. Proprio come quei monumenti, i migranti sono altamente visibili, e sistematicamente ignorati. Proprio come quei monumenti, i cittadini portano addosso i marchi indelebili di una memoria sanguinolenta, che scorre attraverso le loro menti e le loro fisicità, ma viene anch’essa rimossa dalla coscienza.A Bihac oggi, coesistono due tragedie: quella di un passato macchiato di sangue e quella di un futuro incerto ed opprimente. Due linee parallele che non si toccano mai nella temporalità e nella geografia complesse di questo eterno enigma che è la Bosnia. Eppure, in qualche modo, queste due linee hanno entrambe attraversato i confini della mia soggettività, prima scontrandosi violentemente in uno scarabocchio emotivo che non riesce a dare senso a quello che prova e poi ridefinendo il perimetro curvo e fluido della mia certezza. Il confine si è spostato. Non ci sono più buoni o cattivi.

      A Bihać, per quanto lo si tenti di negare, si è tutti parte della stessa rabbia. E come in una tragedia greca, io, da spettatrice di questo spettacolo dell’inganno, ho vissuto la catarsi nel riscoprire che queste comparse stonate, nel loro essere fuori luogo, ignorate e non volute, sono in realtà parte integrante della trama. Lo sbaglio sta nel cercare il torto dove non c’è ragione, e nel cercare la ragione dove non c’è il torto. Quando si smette di farlo, Bihać non fa altro che rivelare le pieghe drammatiche della tragedia dell’essere umano nella sua costante ed insensata ricerca di un nemico a cui dare la colpa della propria sofferenza.

      http://www.lavoroculturale.org/bihac-dove-i-corpi-non-si-sfiorano
      #Croix-Rouge #OIM #frontières #Bosnie #Croatie #Balkans #route_des_Balkans

    • The City Council of Bihać unanimously made a decision (https://www.nezavisne.com/novosti/gradovi/Vucijak-nova-lokacija-za-izmjestanje-migranata/537203) to open a new accommodation facility for refugees - in #Vučijak, a suburb near #Plješevica, near the border with Croatia. There they found an object that meets the necessary conditions for refugee accommodation, and authorities have announced that this move will move refugees from the temporary center of Bira or the center of Bihać to the EU border. Although the new facility could provide better reception conditions for refugees in Bosnia, this move is an indication of how countries in the region share an ignorant integration policy.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 15.05.2019

    • New migrant reception center to be built in Bosnia

      Bosnian authorities have announced that a new migrant reception center will be built near Bihac. This center will replace two temporary reception centers.

      In Bosnia-Herzegovina, the Operating Unit for Migrants has decided to build a migrant and refugee center near Bihac, in the country’s northwest. The center will be built in Vucjak, eight kilometers from the Bihac city center, according to media sources.

      The new structure will take the place of two temporary reception centers: #Bira in Bihac and #Miral in #Velika_Kladusa, both near the Croatia border. In 2018, 25,000 migrants entered Bosnia illegally from Serbia and Montenegro. Since the start of this year, police have registered 8,930 arrivals.

      Bosnia is a transit country for many migrants who are trying to make it to Western Europe from Turkey or Greece. Bosnia is not a member of the European Union. But its neighbor Croatia is.


      Volunteers banned from providing aid

      Meanwhile, Bosnian authorities have banned the international aid group “#Aid_Brigade” from providing food to migrants and refugees at the main train station in Bosnia’s capital Sarajevo, according to the website Klix.ba.

      The volunteers reportedly also had to close the place where they were providing medical assistance to migrants. Since March 2018, Aid Brigade volunteers have prepared and distributed 120,000 meals to migrants and 600 jackets and sleeping bags.

      The volunteers are accused of violating public order and aiding migrants and refugees in violation of the law, as well as volunteering with a tourist visa.

      https://www.infomigrants.net/en/post/17270/new-migrant-reception-center-to-be-built-in-bosnia
      #accueil

    • Bosnie-Herzégovine : à Bihać, on transfère les réfugiés sur une ancienne #décharge

      16 juin -14h30 : Depuis samedi matin, quelque 500 migrants ont été déplacés de Bihać vers une ancienne décharge située sur localité de #Vučjak, tout près de la frontière croate. Les migrants s’opposent à ce transfert et en appellent à la communauté internationale. Des heurts ont éclaté lors des premières opérations de transfert, et quatre policiers ont été blessés selon les sources officielles.

      Des habitants de Bihać annoncent une grande manifestation ce dimanche pour dénoncer la dégradation de la situation en ville, due, selon eux, à la présence des migrants. Ils accusent les autorités locales, cantonales, fédérales et centrales de ne prendre aucune mesure.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/fil-info-refugies

      #Vucjak

    • A particularly worrying situation in the northwest of Bosnia and Herzegovina, in the Una-Sana Canton, is escalating. After the fire in the Miral camp and numerous conflicts between the refugees and the police, the situation seems to be unsustainable. Poor hygienic and living conditions led the refugees to despair. After the escalation of various forms of violence, local authorities decided to move all refugees outside the camps to an isolated area in Vučjak, at the same place where a waste landfill was once housed. The authorities de facto closed the camps, refusing refugees to enter or leave the building. Ironically, the UN and IOM, who have run camps in BiH, oppose this solution (http://ba.one.un.org/content/unct/bosnia_and_herzegovina/en/home/presscenter/un-country-team-in-bih--joint-statement-on-relocation-of-migrant.html. By using force, more than 600 people were transferred to that area, including searches and incursions into several private homes where nearly 300 people were accommodated. "Local police and local Red Cross teams are only present because international organizations do not support the idea and accommodation in Vučjak in the current circumstances. The Red Cross is allegedly only allowed to provide first aid, so there is no medical care for the people who are staying there. Also, food that is distributed is very basic and is not enough to feed people, "AYS reported.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 24.06.2019

    • The jungle camp #Vučjak in BIH exists in the last two weeks. There is no presence of medical staff in the camp which makes unacceptable hygienic and sanitary conditions even worse - especially due to reported skin infections among the people who are there. The only organization currently active in the camp is the Red Cross that provides food. The EU responded with additional approval of 14.8 million Euros (http://europa.ba/?p=64423 - of which 13 million are intended to support border management (June 21, signed by IOM), and 1.8 million for humanitarian aid. Thus, the EU has so far financially supported BiH with 24 million euros around the refugee situation. It is extremely worrying that the EU allocates 90% of its intended funds to migration management and a very small part to humanitarian support for people living in very poor conditions. This is a direct indication that the Commission is more concerned with border conservation than human life.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 03.07.2019

    • EU provides €14.8 million to assist refugees and migrants in BiH

      The European Union announced today €14.8 million to address the needs of migrants and refugees who remain present in Bosnia and Herzegovina. This includes €13 million of support to migration management – for which an implementation agreement was signed on 21 June with the International Organisation for Migration – and €1.8 million for humanitarian aid.

      This brings EU overall assistance to Bosnia and Herzegovina to cope with the increased migratory flow since 2018 to €24 million (€20.2 million from the Instrument for Pre-accession Assistance and €3.8 million of humanitarian aid). This is in addition to €24.6 million assistance the European Union has provided to Bosnia and Herzegovina in the area of asylum, migration and border management since 2007.

      Johannes Hahn, EU Commissioner for Neighbourhood Policy and Enlargement Negotiations, said: ‘As stated in the recent Commission Opinion, Bosnia and Herzegovina authorities need to ensure effective coordination, at all levels, of border management and migration management capacity, as well as the functioning of the asylum system. This is necessary for the country to take full advantage of the EU substantial assistance – in the interest of refugees and migrants and of the local communities.’

      Christos Stylianides, EU Commissioner for Humanitarian Aid and Crisis Management, said: ‘The EU is committed to help those most in need and cover the basic needs of refugees and migrants in Bosnia and Herzegovina, complementing national efforts. It is important that the well-being of the refugees and migrants is at the heart of decisions for the location and quality of accommodation centres.’

      Building on the results of the previous assistance, this funding will ensure accommodation for around 5,000 refugees, asylum seekers and migrants. It will provide access to health and protection assistance and outreach to people living outside of the reception facilities. Also, some items such as jackets, shoes and sleeping bags will be made available for people in need. The unhindered access of humanitarian partners to those in need is crucial in addressing these humanitarian needs.

      The EU funding will also strengthen the capacity of Bosnia and Herzegovina’s authorities in border management, as well as for identification, registration and referral to services for refugees, asylum-seekers and migrants. It will also support assisted voluntary returns.

      Background

      Since the beginning of the refugee crisis in Western Balkans the European Union has allocated more than €25 million in humanitarian aid to assist refugees and migrants in Serbia, and over €4 million to North Macedonia. EU humanitarian aid helps the most vulnerable refugees and migrants to meet basic needs and preserve their dignity. In addition to humanitarian assistance, the European Union has provided Western Balkans partners with significant financial support amounting to €98.2 million for activities related to migration and refugee crisis. This is done primarily through the Instrument for Pre-accession Assistance.

      Since 2007, the European Union has been providing assistance to Bosnia and Herzegovina worth amounting to € 44.8 million in the area of migration and border management through the Instrument for pre-accession assistance. The country has also benefited from the IPA regional programme ‘Support to Protection-Sensitive Migration Management’ worth up to €14.5 million. The emergency humanitarian assistance provided so far amounts to € 3.8 million.

      Over 33,300 refugees and migrants entered Bosnia and Herzegovina since January 2018, according to government estimates. Approximately 8,000 refugees and migrants in need of assistance are currently present in the country, mostly in the Una-Sana Canton. Approximately, 4,500 are accommodated in EU-funded temporary reception centres.

      As of Friday 14 June, local authorities proceeded with a forced relocation of 900-1000 refugees and migrants to a new location called Vučijak that has been deemed unsuitable by the European Union and UN. The above-mentioned venue, without the necessary infrastructure in terms of water, sanitation or electricity, surrounded by minefields, creates a clear danger for the life and health of migrants. Furthermore, the land is a former landfill and may still be toxic. The European Union is concerned about the well-being of the people moved there and has, together with its humanitarian partners, requested the authorities to stop forced relocations and provide dignified and secure shelter solutions. The European Union is also concerned about the authorities’ intention to take measures against humanitarian partners.

      The € 13 million is based on the Commission Decision C (2019) 3189 on supporting Bosnia and Herzegovina in managing the migration flows for 2019

      The €1.8 million announced today is based on the Commission Implementing Decision C(2019) 17 on the financing of humanitarian aid operational priorities from the 2019 general budget of the European Union ECHO/WWD/BUD/2019/01000.


      http://europa.ba/?p=64423

    • Rotta balcanica. Caritas: “Situazione a Bihac inaccettabile, Europa intervenga”

      “Mentre in Serbia la situazione è abbastanza buona, in Bosnia le condizioni dei migranti sono del tutto inaccettabili: hanno bisogno di tutto, alcuni si trovano in un centro informale, dove prima c’era una discarica. E’ inaccettabile che, a 4 ore di macchina dall’Italia, ci siano persone costrette a vivere così. Le istituzioni italiane ed europee devono iniziare a seguire in maniera seria la situazione”. A sottolinearlo è Oliviero Forti di Caritas italiana e Caritas Europa, di ritorno da una missione nei Balcani, nelle zone di confine con la Croazia. “Siamo stati prima in alcuni centri in Serbia: uno di questi era un ex ospedale psichiatrico e affaccia in territorio croato - . aggiunge Forti -. Ma devo dire che qui ci sono standard buoni, di qualità e non ci sono tantissime persone. Diversa è la situazione in Bosnia, lo stress psicologico delle persone è altissimo, i migranti provano costantemente a passare la frontiera ma vengono rimandati indietro. La violenza della polizia croata nei loro confronti sta diventando una vera emergenza”. Al confine, infatti, per i migranti (per lo più afgani, pakistani, iracheni e siriani) che provano il “game” (passaggio delle frontiere) a Bihac il trattamento è durissimo: secondo quanto testimoniato dagli stessi migranti gli abusi sono sistematici: vengono picchiati, i vestiti gli vengono tolti, così come i telefonini spesso distrutti. “A questa situazione va data una risposta diversa - aggiunge -. tra due mesi qui ci saranno due metri di neve, il gioco diventa molto rischioso. Inoltre c’è una difficoltà di integrazione evidente, le persone del luogo sono sempre più intolleranti e razziste nei loro confronti”. La Bosnia sta diventando così un buco nero, dove i migranti restano bloccati senza poter andare avanti né tornare indietro. “A breve la Serbia chiuderà l’accordo con Frontex per monitorare i confini - conclude Forti - anche questo rientra nella strategia di esternalizzazione delle frontiere, che ormai non vediamo più solo in mare ma anche via terra”.

      https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/rotta_balcanica_caritas_situazione_a_bihac_inaccettabile_europa_int

    • Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti

      Muri e migrazioni. A #Vucjak, in Bosnia, si sopravvive senza assistenza, tra rifiuti e mine anti-uomo: il campo si trova sopra una vecchia discarica, l’acqua non è potabile e la terra, mai bonificata, è intrisa di veleni. E chi tenta la fuga in Croazia trova la polizia e il suo «gioco»: cibo confiscato e zaini dati alle fiamme

      Nascosto tra le cime boscose del monte Plješevica e circondato da zone ancora minate delle guerre jugoslave, il campo rifugiati di Vucjak, nella Bosnia nord-occidentale, è una prova scioccante della crisi che si è abbattuta contro la porta di servizio dell’Unione europea. Le Nazioni unite hanno recentemente descritto questo campo, a pochi chilometri dal confine spinato croato, come del tutto inadeguato ad accogliere civili.

      UNICO CAMPO in cui non sono presenti le grandi organizzazioni non-governative internazionali, è ufficialmente gestito dalla municipalità della cittadina di Bihac. E sotto-affidata, non ufficialmente, ai volontari della Croce Rossa locale di Bihac.

      È sorto dopo che le autorità della Bosnia e i governi municipali del Cantone di Una-Sana, hanno deciso che i migranti non potevano più rimanere negli spazi pubblici o negli edifici abbandonati, entro i limiti della città.
      Plastica, vetro, vecchi vestiti ormai diventati stracci, copertoni di gomme usate giacciono sul terreno contaminato.

      Si tratta di resti tossici del passato. Il campo si trova sul sito di una vecchia discarica, in attività solo fino a qualche anno fa. Le condizioni sono terribilmente preoccupanti. La sopravvivenza è legata all’acqua non potabile, alla terra intrisa di anni di veleni, al solo lavoro dei volontari.

      ALMENO UN MIGLIAIO di migranti sono ammassati in questo inferno. Provengono da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan. L’accesso all’acqua è ridotto a dieci ore al giorno, non esiste un approvvigionamento idrico permanente.

      Vucjak fa eco all’inumanità del campo profughi di Calais in Francia del nord e all’abietta inazione dei governi europei. La mancanza di infrastrutture di base e servizi igienico-sanitari a Vucjak viola profondamente le norme minime stabilite dai canoni delle Nazioni unite.

      Nel bel mezzo del campo, un’enorme mappa mostra la posizione dei campi minati locali. Ogni giorno, più volte al giorno, camionette della polizia bosniaca riversano su Vucjak migranti che sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza temporanei, quelli dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni.

      Come cani randagi, vengono scaricati in mezzo al campo, dopo aver aperto il portellone posteriore del furgone, sigillato da uno sfolgorante lucchetto. È strettamente proibito riprendere queste scene, non ci sono fotografie, video o materiali propagandistici, ma è una pratica che va avanti indisturbatamente.

      Nonostante l’ingiustizia umanitaria, non sono le mine antiuomo, le condizioni precarie di salute o la mancanza di servizi igienico-sanitari che i migranti raccontano. Raccontano le violenze «passive» della polizia di confine. Nelle ultime settimane c’è un nuovo gioco che usa la polizia croata: rastrellare e bruciare cibo, vestiti, scarpe, zaini, telefoni dei ragazzi che tentano il game.

      Nella programmazione dell’attraversamento del confine croato-bosniaco, si spendono circa 100 marchi (poco più di 50 euro) in generi alimentari, per lo più pane e derivati. Spesso quei 100 marchi rappresentano i risparmi di mesi, così bruciare il cibo diventa un segnale di terribile spietatezza.

      Emad è fuggito dalla Siria, con la moglie e il figlioletto di appena due anni. Ha tentato il game ma l’hanno rispedito nel Borici temporary reception center della città di Bihac, derubandolo di tutto. Mentre lo staff medico dell’associazione italiana One Life Onlus visita il figlio, Emad ci porge una busta di plastica con un telefono all’interno. Ci chiede se lo vogliamo comprare, così con quei soldi può provare di nuovo ad attraversare il confine con la Croazia. È straziante. Non ci sono parole.

      DAL GENNAIO 2018, quasi 36mila migranti sono entrati in Bosnia, rimanendo intrappolati tra le politiche europee, progettate per ridurre gli attraversamenti irregolari, e la situazione di stallo politico in Bosnia, che di fatto impedisce alle autorità locali di fornire protezione.

      Dalla Turchia e dalla Grecia, sono due le principali vie di passaggio per la Bosnia: una attraversa la Macedonia del nord e la Serbia, l’altra attraversa l’Albania e il Montenegro.

      In piedi nel campo di Vucjak, tra una folla di corpi maltrattati e ossa rotte, ci si trova di fronte alle feroci conseguenze della geopolitica europea. Nel cinico sforzo del governo croato di dimostrare di avere le carte in regola per aderire all’area Schengen di libera circolazione, il Paese respinge i migranti senza seguire le adeguate procedure di asilo.

      IL VIAGGIO DI GULRAIZ inizia a Kunduz, in Afghanistan. Facciamo fatica a guadagnare la sua fiducia. La solitudine che accompagna i migranti è invalicabile. Sorridono, ma gli occhi sono vuoti. Mese dopo mese camminano senza alcun riposo e senza alcun appoggio. Si viaggia insieme ad amici di circostanza, a meri compagni di percorso.

      Per un marco ha ricaricato il suo prezioso e vecchio telefono a Vucjak. Dopo qualche racconto, ci mostra sul telefono la mappa che userà per tentare il game partendo dal monte Plješevica, addentrandosi nel fitto bosco bosniaco, passando per la cittadina bosniaca di Šturlic, fino ad arrivare agli anelati cartelli del granicni prelaz, il valico di frontiera. Un firmamento di punti rossi, di luoghi, di coordinate, di passi compaiono sulla funzione ‘satellite’ di Google Maps.

      Ci ferma un biondo poliziotto bosniaco. Camicia chiusa fino all’ultimo bottone, aria spavalda e bieche gambe di piombo. Ci prende i documenti. Cerca di intimorirci segnando i nostri nomi su un taccuino spiegazzato, senza darci alcuna spiegazione.

      Il favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha un confine sottile. Siamo costretti ad allontanarci. Lo facciamo con l’immagine negli occhi della mappa satellitare di Gulraiz, con le mani segnate da un viaggio inumano di Abdurahman che con ago e filo riparava il suo zaino, con gli occhi sgranati dall’incertezza dei ragazzi che non hanno un badge per il ’5 stelle’ dei centri di accoglienza temporanei.

      Lasciamo la Bosnia con l’immagine di Ibrahim, poco più di tre anni, che segue camminando il suo papà, imitandolo con le braccia piegate all’indietro.

      https://ilmanifesto.it/il-campo-tossico-dove-leuropa-scorda-i-migranti

    • ‘Absurdistan’ : Migrants face dangerous winter in Bosnia

      Political inaction leaves hundreds living on former dump amid snake-infested minefields

      “This is jungle life,” says Wasim, a Pakistani who is among hundreds of migrants staying in a makeshift camp in northwestern Bosnia, from where they strike out at night in small groups for nearby Croatia and the European Union.

      “We are all like animals here just trying to survive. It’s the worst sentence I could say, but unfortunately it’s true.”

      The political science graduate from near Lahore speaks eloquently about how a famous son of the city, Pakistani prime minister Imran Khan, could transform life for his nation of 208 million and the quarter of its people who live in poverty.

      Wasim (34) plans to return when times are better, but now he must hike again through the thickly wooded hills above the camp, try to slip past Croatian border guards who are accused of beating and robbing migrants, and find the hoped-for job somewhere in the EU that was his reason for leaving home last year.

      Danger is all around: the squalid Vucjak camp is built on a former rubbish dump that may hold high levels of methane gas – prompting the UN’s International Organisation for Migration (IOM) to declare it unfit for human habitation – while the hills are infested with snakes and dotted with landmines from Bosnia’s 1992-1995 war.

      There are no toilets for the more than 500 men who live here and washing facilities are rudimentary, increasing the risk of disease; fights are common, particularly after dark when police and local aid workers go home. A man was stabbed to death here last week during a fight between Pakistanis and Syrians.

      “No one feels safe,” Wasim explains, as men who have fled conflict and poverty from North Africa to Afghanistan line up in the dust to receive food from the Bosnian Red Cross.

      “Might is right here. Everyone pushes each other, everyone is desperate and wants to move on,” he says of this remote corner of Europe where he has been stuck for three months, having failed “four or five times” to enter the EU undetected.

      “Everyone knows where to go. Even if they are illiterate, even if they didn’t go to school at all, they know Croatian and Slovenian and Italian cities by name. Everyone talks about this. Maybe they can’t even tell the time, but they know how to find locations with a mobile phone.”

      The so-called Balkan route did not cross Bosnia in 2015, when more than one million refugees and migrants followed it from Turkey towards Germany and other EU states, where their arrival sent immigration to the top of the political agenda.
      Derelict buildings

      Even in 2017, Bosnia registered only 755 migrants but, as the route shifted to bypass tighter border controls elsewhere in the Balkans, that number soared to 25,000 in 2018 – and 20,000 migrants have entered the country so far this year.

      They keep coming this way because it works – only about 6,500 of those people are still in Bosnia – but as months of cold, wet and snowy weather approach, up to 2,000 people are living rough at Vucjak and in parks, woods and derelict buildings in the border towns of Bihac and Velika Kladusa.

      “We’ve been warning since January of the need to increase the number of official migrant centres or their capacity . . . but there was no political decision to expand accommodation, even though international funding is available,” says Peter Van der Auweraert, the IOM representative in Bosnia.

      “Winter is just around the corner and any new location takes time to establish. We now have about 4,200 beds for migrants around the country, but we need about 2,000 more,” he told The Irish Times.


      “Vucjak is a disaster and it would be a bigger disaster if it’s still open in winter . . . If we don’t act now we will have people sleeping outside in Vucjak and other totally unacceptable places and we will be facing a threat to human life.”

      Yet Bosnian political leaders at all levels are unwilling to take any steps that rivals could portray as an “invitation” to migrants, or which would acknowledge the fact that they are likely to keep coming to the country for the foreseeable future.

      The local authorities in Bihac transported people to Vucjak despite objections from international aid groups, moving them from the city’s streets and parks to the edge of the forest – “the jungle” to migrants – which leads to Croatia.

      National politics is meanwhile paralysed, not for the first time under Bosnia’s fiendishly complex post-war system, as parties representing its Bosniak Muslim, Serb and Croat communities have yet to form a government nearly a year after elections.

      “This is ‘Absurdistan’,” declares Ale Siljdedic, police spokesman for Una-Sana canton, in his office in Bihac.

      “The problem is that no one cares in this country. They don’t care for local people, never mind the migrants. What is 5,000 migrants for a whole country if everyone shares them around? It’s nothing. But for a city of 50,000 like Bihac it’s too much.”
      Mass brawls

      The Pakistani stabbed at Vucjak last week was the second man to die in fights between migrants in Bihac. There have been a couple of mass brawls, but most of the cases he sees relate to minor thefts, particularly of phones and clothes, and break-ins at empty houses near the border where migrants sleep and then move on.

      “If you don’t have something to eat and you’re hungry you will go inside somewhere and get it. If it’s freezing cold and you could be dead the next morning then you’ll go into a house or abandoned building to sleep,” Mr Siljdedic says.

      “Maybe we’ll find you dead with two friends as happened last year, when they made a fire and it spread everywhere and they were killed. We’ve had 20 dead migrants in the last two years: two murdered, six drowned, three burned, some car accidents and a train hit one guy. This is the life we have here – people are coming and going and some die.

      “Camp Vucjak is not good and it will be much worse in winter. When the rain and snow come – and it can be minus 20 with two metres of snow up there – what will happen to those guys? They’ll come to Bihac and come into contact with locals and make some shit. And then we’ll have to deal with them.”


      Many migrants see the next few weeks as their last chance to reach the EU this year, creating a likely increase in movement towards Croatia, where officials deny claims that border guards beat and rob people that they push back into Bosnia.

      “With winter coming [migrants] are increasingly on edge and they feel like it’s ‘now or never’ to get across the border. At the same, the border guards in Croatia seem to be pushing people back more aggressively than before,” says Nihal Osman, deputy field co-ordinator in Bosnia and Serbia for Médecins Sans Frontières.

      “There’s been a noticeable increase of alleged push-back injuries in the last week or so, including people with broken bones and dog bites.”

      Sitting in a wheelchair in an IOM-run camp near Bihac, Amir Ali Mohammad Labaf accuses Croatian border guards of dumping him in the forest near the frontier just days after he suffered back injuries when he fell down a roadside embankment.

      Labaf says he was persecuted in Iran as an activist from the Gonabadi dervish order, a major Sufi sect that is denounced by country’s Shia theocracy; news reports from 2008 say a court in Qom sentenced a member of the sect with the same name to five years in jail, 74 lashes and internal exile for “spreading lies”.

      “I was in hospital for a day in Croatia and asked for asylum. They said no and deported me to the jungle,” says Labaf (40), referring to the forest that spans the border. “I want to go to France, but I can only walk a little and with great pain.”

      At Vucjak, meanwhile, Wasim is ready for another round of what migrants call “the game”.

      “I don’t have money to pay smugglers so I will try by myself to cross the border. I have some knowledge of the stars so I can travel by night,” he says. “You just have to try and try and try. And when you succeed, then you know it was the right time.”

      https://www.irishtimes.com/news/world/europe/absurdistan-migrants-face-dangerous-winter-in-bosnia-1.4027923

    • Water cut to crowded migrant camp as Bosnian authorities feud, seek to downsize its population

      Local authorities in the Bosnian town of Bihac on Monday cut off a nearby migrant camp’s water supply, to pressure the government into reducing the population of the overcrowded site that international organizations have criticized as unsuitable.

      But aid workers said the move will just cause additional suffering for the #Vucjak tent camp’s 1,000 residents, many of whom walked out of the site with empty plastic bottles to beg water from Bosnians living in the vicinity.

      Officials in the northwestern town also announced a crisis meeting to discuss what to do with the camp, which hosts migrants stopped in the impoverished Balkan country while trying to reach Western Europe.

      “It is obvious that the situation must be brought to the verge of absurdity in order to be solved,” complained Bihac Mayor Suhret Fazlic.

      Both the United Nations and the European Union missions in Bosnia have urged authorities to relocate the migrants from Vucjak — which is situated on a former landfill and near minefields left over from the 1992-95 war.

      Camp resident Osman Ali, from Pakistan, described conditions as “bad, very bad.”

      “I think all people here are seeking a better situation, situation is very dirty here,” he told The Associated Press.

      Ali and other migrants were lining up Monday for a meal from the local Red Cross. Police last week rounded up hundreds of migrants from Bihac and brought them all to Vucjak, nearly doubling the camp population.

      Fazlic has warned that the city will also cut waste collection services to draw attention to the camp’s failings and force the government to share the burden and move some of the migrants to other parts of the country.

      Thousands of migrants are stuck in northwestern Bosnia, unable to continue their trek north through neighboring Croatia whose police have been accused of violently repulsing migrants caught trying to illegally cross the border.

      Selam Midzic, a Red Cross representative at Vucjak, said cutting the water supply would just raise tensions among the migrants, and consequently with aid workers and locals.

      “In the camp itself, migrants will put pressure on the Red Cross representatives, who work here and who have no protection at all, demanding to be provided with drinking water,” he warned.

      The U.N. last week warned of a possible “humanitarian emergency” if aid is cut for the camp, urging Bosnia’s government to urgently find a new location.

      In the dusty camp, some migrants used puddle water to wash. Lounging outdoors during a spell of unusually warm weather, others said they fear conditions will deteriorate once winter cold sets in.

      Ahmed, from Pakistan, said many migrants have been sick: “(We don’t) have water, (or) food, (they) only give one person two (slices of) bread,” he said and added, pointing to his feet and clothing: “No have shoes and no jacket!”

      Tens of thousands of people from Asia, the Middle East and Africa emigrate illegally to Europe every year, braving perilous sea journeys and closed borders in the hope of securing a better life in the continent’s more affluent countries.

      On Monday, Libya’s coast guard said it intercepted 126 Europe-bound migrants in a rubber boat off the country’s Mediterranean coast.

      In Malta, authorities said police arrested 107 people following overnight riots in the Hal Fa migrant detention center.

      The interior ministry said the trouble, involving about 300 migrants, started late Sunday when a migrant tried to enter the center while allegedly drunk. A police vehicle was damaged and three police officers slightly injured in the violence.

      The U.N. refugee agency expressed concern.


      https://www.japantimes.co.jp/news/2019/10/22/world/social-issues-world/water-cut-crowded-migrant-camp-bosnian-authorities-feud-seek-downsize-
      #eau #coupure #dissuasion

    • Inside Bosnia’s ’nightmare’ camp for migrants trying to enter the EU

      Aid agencies are warning of a humanitarian disaster in Bosnia, with people facing a winter without proper accommodation.

      Bosnia is now a major route into the EU – 45,000 migrants have arrived in the country since the start of 2018.

      The country’s official refugee camps are full and the government has not allocated new sites, despite being given £10m by the EU this summer to do so.

      https://www.bbc.com/news/av/world-europe-50132250/inside-bosnia-s-nightmare-camp-for-migrants-trying-to-enter-the-eu
      #vidéo #gale #hiver #campement

      On dit dans le reportage que la zone autour du camp est entourée de #mines_anti-personnel

    • Réponse de Simon Missiri à ma question sur l’argent récolté par la #Croix-Rouge pour faire face à la situation humanitaire en Bosnie, via twitter 25.10.2109 :


      « We were able to raise only CHF 1.3 mln despite all efforts. This financed food non-food support to 41,000 migrants this year. Much more is needed in this desperate situation. »
      https://twitter.com/SimonMissiri/status/1187679349685645312

      Le lien vers le rapport « Emergency Plan of Action Operations Update No .3, Bosnia and Herzegovina : Population Movement » du 25.10.2109


      https://t.co/WBFbWSf3c2?amp=1

    • Bosnian authorities have announced the closure of the ad-hoc “camp” in Vučjak, where terrible conditions prevail and refugees have no access to water, toilets, or medical assistance (https://apps.derstandard.at/privacywall/story/2000110464615/bosnisches-aufnahmezentrum-fuer-fluechtlinge-wird-geschlossen). The camp, which was built on a former garbage dump, has been repeatedly criticised by a number of international and regional organisations for its range of health threats and non-compliance or minimum standards for refugee reception. With the previously announced closure of the temporary reception centres Bira in Bihać and Miral in Velika Kladuša, the question of accommodating thousands of refugees in Bosnia and Herzegovina arises, especially given that the weather is rapidly getting worse and winter is coming soon.

      Reçu via Inicijativa dobrodosli, mail du 06.11.2019.

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      Bosnisches Aufnahmezentrum für Flüchtlinge wird geschlossen

      Ein neuer Standort soll gefunden werden, da das Lager nahe einer Mülldeponie und eines Minenfelds errichtet worden war.

      Bosniens Sicherheitsminister Dragan Mektić hat am Dienstag die Schließung des Flüchtlingszentrums Vučjak etwa zehn Kilometer von Bihać entfernt angekündigt. Dort halten sich laut dem Minister derzeit zwischen 800 und 1.000 Flüchtlinge und Migranten auf.

      Das Aufnahmezentrum war im Juni unweit einer Mülldeponie und eines Minenfelds errichtet worden. Mehrere internationale Organisationen hatten sogleich gewarnt, dass das Zentrum ein ernstes Gesundheits- und Sicherheitsrisiko darstelle und nicht den internationalen Normen entsprechend für die Unterbringung von Flüchtlingen ausgestattet sei.
      Keine ehemaligen Kasernen

      Föderationspremier Fadil Novalić hat Mektić zufolge dieser Tage einige Standorte für ein neues Aufnahmezentrum vorgeschlagen. Es würde sich um eine Investition von 1,5 bis zwei Millionen Euro handeln, berichtete der Minister. Die Kommunalbehörden sind weiterhin nicht bereit, den gesamtstaatlichen Behörden ehemalige Militärkasernen zur Aufnahme von Flüchtlingen zur Verfügung zu stellen.

      Die Behörden des Kantons Una-Sana hatten in der Vorwoche die Schließung von weiteren zwei Aufnahmezentren, Bira in Bihać und Miral in Velika Kladuša, angekündigt. In den beiden Zentren halten sich derzeit rund 2.000 Personen auf.

      Im Kanton Una-Sana befinden sich laut früheren Angaben der Regionalregierung etwa 5.000 Migranten und Flüchtlinge, heuer wurden bereits 36.000 registriert. (APA, 29.10.2019)

      https://apps.derstandard.at/privacywall/story/2000110464615/bosnisches-aufnahmezentrum-fuer-fluechtlinge-wird-geschlossen

    • Cold weather comes, no relief in sight for Bosnia’s migrants

      Despite the approach of harsh weather, hundreds of refugees and migrants are still stuck in northwest Bosnia in a makeshift camp described by international organizations as dangerous and inhumane.

      Desperate men, including many who have made several unsuccessful attempts to cross into neighboring European Union member Croatia, sleep in the ill-equipped Vucjak tent camp. It is located on a former landfill, not far from a minefield left over from Bosnia’s 1992-95 war.

      The men spend their days collecting wood from nearby forest to use for the small fires that are their only source of warmth during Bosnia’s chilly fall nights. They get only one meal per day, distributed by local Red Cross volunteers, and are forced to shower outside, with no privacy or even a semblance of comfort.

      The Vucjak camp, where they might end up spending the entire harsh Bosnian winter, was set up by local authorities to increase the pressure on the central government, which they have accused of not doing enough to distribute the migrant burden around the country.

      Bosnia has been overwhelmed by the arrival of migrants heading toward Europe along the Balkan route. Most migrants flock to its northwest region, which borders Croatia.

      This has led to tensions in the border area where most of the over 6,000 migrants now in the country are staying.

      https://apnews.com/c0c9dd7dcab444b791ce099feff6cb65

    • Bosnie : le projet d’ouverture de deux centres pour migrants stagne malgré l’urgence de l’hiver

      Entre travaux interminables et lenteurs administratives, l’ouverture de deux nouveaux centres d’hébergement pour faire face à l’afflux de migrants en Bosnie prend du retard. L’ONU appelle le gouvernement à débloquer la situation qui, en l’état, pourrait conduire à des décès de migrants sans abri au cours de l’hiver.

      À l’approche de l’hiver, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) s’est lancée dans une véritable course contre la montre pour mettre à l’abri les milliers de migrants qui survivent dans les bois ou dans le camp de Vucjak, dans le nord de la Bosnie, à la frontière avec la Croatie, membre de l’Union européenne (UE).

      Selon Peter Van Der Auweraert, représentant de l’OIM en Bosnie, quelque 2 500 migrants sont actuellement sans abri dans cette région : un millier d’entre eux vivent dans le camp de Vucjak, installés sur une ancienne décharge. Et 1 500 autres sont éparpillés dans les bois alentours, occupant souvent de vieilles bâtisses abandonnées et vétustes.

      Les deux centres d’hébergement de Bira à Bihać et Miral à Velika Kladuša tournent, eux, à pleine capacité avec 1 500 personnes dans le premier (principalement des hommes seuls) et 600 à 700 personnes dans le second (principalement des familles et des mineurs non-accompagnés).

      Chaque jour, de nombreux migrants continuent d’affluer dans le canton d’Una Sana avec l’espoir de réussir à franchir la frontière croate et ainsi entrer dans l’UE. Le ministère de la Sécurité évalue à au moins 50 000 le nombre de migrants ayant traversé le pays l’année dernière à destination de l’Europe.

      Les autorités locales du canton d’Una Sana peinent de plus en plus à faire face à l’afflux de migrants et se heurtent à la grogne des citoyens. Plusieurs centaines d’habitants de Bihac ont ainsi manifesté mi-novembre pour demander la fermeture des centres d’hébergement et du camp de Vucjak.

      Le gouvernement bosnien, de son côté, a approuvé début novembre deux nouveaux sites d’hébergement des migrants en dehors de la région d’Una Sana, l’un dans le canton de Tuzla et l’autre dans celui de Sarajevo. Après plusieurs jours d’attente, les équipes de l’OIM ont eu accès la semaine dernière aux bâtiments afin d’évaluer leur capacité et les travaux à faire.

      “Mauvaise nouvelle, le site de Tuzla est, pour l’instant, inutilisable. La protection civile nous a informés qu’il restait des mines anti-personnelles autour des anciens baraquements militaires qui devaient être convertis en centre d’hébergement”, indique Peter Van Der Auweraert de l’OIM Bosnie, joint par InfoMigrants. Selon lui, l’opération de déminage prendra plusieurs semaines. Le site ne devrait pas être disponible avant le printemps.
      "Le gouvernement n’a pas le sens de l’urgence"

      Le site du canton de Sarajevo, lui, est “utilisable”, poursuit Peter Van Der Auweraert. “Mais quatre semaines de travaux sont à prévoir car l’eau courante ne fonctionne pas, l’électricité n’est pas aux normes et il n’y a pas de raccordement aux égouts”, explique-t-il, estimant que ce site serait en mesure d’accueillir la quasi-totalité des migrants qui se trouvent dans les bois et dans le camp de Vucjak. Il vise une ouverture, au mieux, début 2020, à condition que le ministère de la Sécurité donne son feu vert rapidement. “Le problème c’est que le gouvernement central n’a absolument pas le sens de l’urgence, il n’y a pas de véritable volonté politique”, regrette-t-il.

      En attendant, l’OIM souhaiterait augmenter la capacité d’accueil du centre de Bira afin d’y transférer un maximum de migrants sans abri, mais les autorités cantonales font barrage. Elles ont même récemment menacé de mettre en place un blocus dans les centres de Bira et Miral empêchant la libre circulation des migrants.

      “La neige doit commencer à arriver la semaine prochaine, j’ai très peur que nous ayons rapidement des pertes de vies humaines à cause de l’inaction politique”, prévient Peter Van Der Auweraert, rappelant que que les conditions sanitaires dans lesquelles les migrants de Vucjak survivent sont, en outre, extrêmement précaires. “Ces personnes ont besoin d’une évaluation médicale avant même de pouvoir être transférés dans des centres. On estime, par exemple, que 70% des migrants de Vucjak ont la gale. Malgré l’urgence, on ne peut pas travailler car on dépend des décisions du gouvernement qui n’arrivent pas”, termine-t-il, appelant une nouvelle fois les autorités à réagir.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/21119/bosnie-le-projet-d-ouverture-de-deux-centres-pour-migrants-stagne-malg

    • Bosnie-Herzégovine : le Conseil de l’Europe demande la fermeture du camp de Vučjak

      « Ce camp devrait être fermé sans délai », a déclaré mardi la Commissaire aux droits humains du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatović, lors de sa visite à Vučjak. Sur le terrain, les ONG dénoncent un « cauchemar », alors que les migrants et réfugiés se sont lancés dans une grève de la faim pour protester contre les conditions de vie catastrophiques.

      « Des gens vont mourir », a déclaré mardi à la presse Dunja Mijatović, la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, lors de sa visite au camp de Vučjak. « Ce n’est pas un lieu pour des êtres humains. » Depuis trois jours, des migrants de ce campement informel situé à 8 km de la frontière croate et qui « accueille » environ 600 personnes, sont en grève de la faim, refusant la nourriture et les boissons chaudes que des bénévoles de la Croix-Rouge leur apportent une fois par jour. Ce qu’ils veulent, disent-ils, c’est poursuivre leur route vers l’Europe.

      Les photos dans la presse montrent des hommes blottis sous des couvertures, certains sans chaussures ni chaussettes, alors que la température a chuté en-dessous de zéro degré. « Nous ne sommes pas des criminels ni des terroristes », proteste un Pakistanais, cité par Radio Slobodna Evropa. « Pourquoi sommes-nous condamnés à vivre ainsi ? J’ai donné de nombreuses interviews pour alerter l’opinion, mais ça n’a rien changé. » Les ONG présentes sur le terrain dénoncent également une situation catastrophique. « Un cauchemar », selon Médecins sans frontières (MSF).

      « Les réfugiés et les migrants doivent être transférés dans un endroit chaud, où ils recevront un repas et où il sera possible de traiter leurs demandes de la façon la plus appropriée », a insisté Dunja Mijatović. Elle-même d’origine bosnienne, elle a reconnu qu’elle avait « honte qu’une chose pareille existe dans [son] pays ». « La solution est de fermer ce camp et de faire en sorte que ces gens survivent à l’hiver », a-t-elle plaidé. Dunja Mijatović a prévu de rencontrer vendredi des représentants des différents niveaux institutionnels en Bosnie-Herzégovine.

      Le ministre bosnien de la Sécurité, Dragan Mektić, a affirmé que les réfugiés et migrants seraient prochainement transférés dans un nouveau centre d’accueil temporaire à Blažuje, près de Sarajevo. « Les travaux de construction et de rénovation ont commencé et nous prévoyons que les premiers migrants y soient hébergés d’ici deux à trois semaines », a-t-il assuré. Selon le ministère de la Sécurité, la Bosnie-Herzégovine compte sept centres d’accueil officiels où se trouvent actuellement environ 4500 réfugiés et migrants.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-Herzegovine-le-Conseil-de-l-Europe-demande-la-fermeture-du

    • Bosnie-Herzégovine : les migrants du camp de Vučjak en #grève_de_la_faim

      Alors que la neige s’est mise à tomber en Bosnie-Herzégovine, les conditions dans le camp de Vučjak, déjà misérables, ont empiré. Depuis mardi, plusieurs migrants qui tentent de survivre dans le camp refusent de boire et de s’alimenter pour protester contre la situation. Un membre de l’équipe mobile de la Croix-Rouge de Bihac a déclaré à Klix.ba qu’ils avaient refusé d’avaler le repas chaud préparé mardi matin et de boire du thé.

      « Nous avons faim, nous mourons, mais nous n’irons nulle part ailleurs en Bosnie-Herzégovine. Nous exhortons l’UE à ouvrir ses frontières », a déclaré l’un des migrants. Outre la nourriture, ils refusent également de nouvelles tentes – sous le poids de la neige, plusieurs se sont déjà écroulées – et des couvertures.

      La Commissaire aux droits humains du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatović, a demandé mardi la fermeture immédiate du camp.
      Bosnie-Herzégovine : la neige est tombée sur le camp de Vučjak

      4 décembre - 8h30 : Les premières neiges sont tombées sur le camp de Vučjak, où survivent 800 à 1000 réfugiés, très mal vêtus, souvent sans chaussures. Plusieurs tentes fournies par le Croissant-Rouge turc se sont effondrées sous le poids de la neige.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/courrierdesbalkans-fr-fil-info-refugies-2019-novembre

    • Le camp de Vucjak évacué, mais le sort de ces migrants n’est en rien réglé

      Après des semaines de demandes d’ONG humanitaires et de pression de l’Union européenne sur les autorités de Bosnie-Herzégovine, le campement de Vucjak est en cours d’évacuation.


      https://fr.euronews.com/2019/12/09/le-camp-de-vucjak-evacue-mais-le-sort-de-ces-migrants-n-est-en-rien-reg
      #évacuation

    • Bosnia Puts Off Closing Makeshift Migrant Camp ’Until Further Notice’

      Bosnian authorities have indefinitely postponed the scheduled closing of a makeshift migrant tent camp in the northwest of the country.

      The closing of the Vucjak camp had been scheduled for December 9, following harsh international criticism of the improper conditions hundreds of people are being housed in. The camp is hosting some 600 migrants, according to the Red Cross.

      Rade Kovac, the director of the Bosnian Service for Foreigners’ Affairs, visited the camp on December 9 and said that the authorities had postponed closing the camp until further notice.

      Aid groups have repeatedly warned that the Vucjak camp is located on a former landfill and close to a mine field from Bosnia’s 1992-95 war, and has no running water or toilets. Living conditions worsened further after snow started falling last week.

      Kovac said the migrants will eventually be moved to one of the reception centers in the Sarajevo Canton. He gave no reason for the postponement, but media reports said the decision was prompted by a lack of proper accommodation at the reception centers.

      Bosnia-Herzegovina’s security minister, Dragan Mektic, last week announced that the occupants of the camp on the border with Croatia would be relocated to other camps outside the region.

      “It was agreed that migrants would be moved early next week from this locality to other reception centers...and that this makeshift camp would be closed,” Mektic said in a statement on December 6.

      The decision to close the camp came after Dunja Mijatovic, the Council of Europe commissioner for human rights, visited Vucjak last week and warned that deaths would be imminent if the camp were not closed at once. “If we don’t close the camp today, tomorrow people will start dying here,” she told reporters while visiting the snow-covered camp.

      On December 6, Mijatovic told a news conference in the Bosnian capital, Sarajevo, that it was now urgent to relocate the migrants and provide them with “decent accommodation.”

      "Many people lack adequate clothing and footwear,’’ she said. "It is inhumane and unacceptable to keep people in such conditions.’’

      However, some migrants said that despite snow and freezing weather, they will refuse to be moved farther away from the border. Most of the migrants flocked to the northwestern part of Bosnia because they want to continue their journey to Western Europe’s more prosperous countries by crossing the border into European Union member Croatia.

      On December 7, migrants at Vucjak resumed accepting food distributed by the Bihac branch of the Red Cross, after refusing it for several days in protest at the announced relocation of the camp.

      Bosnian authorities have struggled to accommodate thousands of people fleeing war and poverty in the Middle East, Africa, and Asia. Migrants enter Bosnia from neighboring Serbia or Montenegro.

      https://reliefweb.int/report/bosnia-and-herzegovina/bosnia-puts-closing-makeshift-migrant-camp-until-further-notice

    • Bosnia, “situazione insostenibile nel campo di Vucjak. Migranti al freddo senza acqua corrente e luce”. Ma la chiusura è rinviata

      Una situazione intollerabile, con tende coperte dalla neve e mancanza delle più elementari condizioni igieniche. È questo lo stato del campo profughi di Vucjak, nel Nord-Ovest della Bosnia-Erzegovina, vicino alla frontiera con la Croazia. Lunedì 9 dicembre le autorità ne hanno rinviato la chiusura, dopo averla annunciata nei giorni precedenti sotto la crescente pressione della comunità internazionale. I media locali, nel dare notizia del rinvio, non ne hanno chiarito i motivi. È possibile che le strutture indicate per l’accoglienza dei seicento profughi non siano ancora del tutto pronte.

      Il campo, aperto a giugno scorso vicino a Bihac, si trova su una ex discarica e vicino a terreni minati nella guerra degli anni novanta e non dispone delle infrastrutture più elementari, di acqua corrente o elettricità. I profughi, principalmente giovani uomini, vivono in tende non riscaldate, nonostante le temperature siano scese in questi giorni sotto lo zero.

      Era stata in particolare Dunja Mijatovic, commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa, a chiedere lo smantellamento del campo di Vucjak. La commissaria martedì 3 dicembre si era recata sul posto e aveva denunciato la passività delle autorità bosniache: “Se non si chiude questo campo oggi, domani le persone cominceranno a morire. Di chi sarà la responsabilità?”. Venerdì, davanti alla stampa, aveva di nuovo parlato di condizioni “molto difficili e vergognose”, dicendosi “scioccata” da ciò che aveva visto a Vucjak. Anche Medici senza Frontiere aveva segnalato la difficile situazione dei profughi, molti dei quali sprovvisti di vestiti adeguati ad affrontare il freddo. Le reazioni della comunità internazionale avevano spinto le autorità bosniache a decidere la chiusura immediata del campo all’inizio della settimana successiva, salvo poi tornare sui loro passi.

      L’obiettivo, dopo un passaggio temporaneo in vari centri di accoglienza, è accogliere i circa seicento profughi di Vucjak in una ex caserma nei pressi di Sarajevo. Non tutti i migranti sembrano però disposti ad accettare il trasferimento, che significa allontanarsi dalla frontiera con la Croazia, Paese membro dell’Unione europea nel quale intendono entrare per poi proseguire il viaggio verso l’Europa occidentale. Nei precedenti tentativi di trasferire i migranti nella capitale, infatti, i profughi avevano chiesto di tornare a Bihac per essere più vicini al confine.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/12/09/bosnia-situazione-insostenibile-nel-campo-di-vucjak-migranti-al-freddo-senza-acqua-corrente-e-luce-ma-chiusura-e-rinviata/5604973

    • En Bosnie-Herzégovine, l’un des pires camps de réfugiés d’Europe évacué

      L’évacuation du camp de migrants de Vucjak, en Bosnie-Herzégovine, a démarré mardi 10 décembre, après que la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe a demandé aux autorités de « fermer sans délai ». Il y a quelques semaines, Mediapart y avait constaté les conditions de vie honteuses. Reportage.

      Début décembre, en visite sur place dans la neige, la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe avait demandé aux autorités bosniennes de « fermer Vucjak sans délai ». Dans ce camp informel apparu en juin dernier à l’extrémité nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine, des réfugiés s’entassent dans des conditions honteuses, cherchant à rallier à pied la frontière croate, puis la Slovénie et l’Italie derrière. Elle-même bosnienne, Dunja Mijatovic avait formulé cette requête à la mi-octobre déjà, sans succès.

      Cette fois, l’évacuation a commencé, mardi 10 décembre, en début d’après-midi. « Pour des raisons de sécurité », les journalistes n’ont pas eu le droit d’accéder au site, contraints de suivre le déroulé des opérations loin de cette ancienne décharge, sur laquelle les autorités du canton d’Una-Sana avaient établi un camp, à quelques kilomètres seulement de la Croatie (membre de l’UE). Le week-end dernier, des migrants résidant là s’étaient mis en grève de la faim à l’annonce de leur relogement loin de la frontière.

      En 2019, en Bosnie-Herzégovine, davantage d’arrivées de migrants ont été enregistrées qu’en Espagne ou en Italie.

      Bosnie-Herzégovine, envoyés spéciaux. – Chacun s’est emmitouflé du mieux qu’il a pu. Certains ont des couvertures roulées sur les épaules, un homme brandit un étonnant parapluie vert, tous portent un gros sac sur le dos et un duvet en bandoulière. Les adieux sont brefs avec les compagnons qui restent au camp de Vu#jak, en Bosnie-Herzégovine. Cet après-midi brumeux, ils sont vingt-cinq à prendre la route de la frontière avec la Croatie, membre de l’Union européenne, située à moins d’une heure de marche. Vingt-cinq à s’engager dans le game, le « jeu » très risqué du passage de la frontière.

      « J’ai déjà essayé six fois de passer », raconte Muhammad, un jeune Pakistanais. « À chaque fois qu’ils nous arrêtent, les policiers croates nous ordonnent de poser devant nous nos téléphones portables et ils les cassent. On doit aussi donner tout notre argent. Ensuite ils brûlent nos sacs, nos vêtements chauds et nos chaussures. Puis ils nous reconduisent jusqu’à la frontière de la Bosnie- Herzégovine. » Malgré ces mauvais traitements répétés, le jeune homme recommencera le gamedès qu’il aura réussi à réunir un peu d’argent pour s’équiper à nouveau. Selon lui, il faut compter 300 euros pour avoir de quoi refaire les dix jours de route à pied, caché, jusqu’en Slovénie. Pas pour les passeurs, mais pour se payer un téléphone, de nouveaux vêtements chauds et de la nourriture.

      Le camp de Vucjak a été établi le 16 juin dernier sur le site très pollué (au méthane, notamment) d’une ancienne décharge, à une dizaine de kilomètres de Biha#, dans le nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine. La frontière croate se franchit dans la montagne. Durant la guerre des années 1990, la zone a été âprement disputée et les abords du camp restent truffés de mines.

      Tout l’été, le terrain était infesté de serpents. Cet automne, ce sont les sangliers qui, chaque nuit, viennent chercher de la nourriture jusque dans les tentes fournies par la Croix-Rouge turque. Ils sont 800 à 1 000 à dormir dans ce cloaque, au milieu des immondices. Des hommes seuls, à qui l’on refuse l’entrée dans les camps, surpeuplés, de Biha# et de Velika Kladuša, gérés par l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), qui n’acceptent plus que les mineurs et les familles.

      Selon Nihal Osman, coordinatrice locale de Médecins sans frontières (MSF), 7 à 8 000 migrants se trouvent aujourd’hui présents dans le canton de Biha# : 3 200 dans les camps de Bira, Miral, Sedra et Borici, plus de 4 000 dans les squats établis dans des maisons vides ou des usines abandonnées, ou bien sous les tentes de Vucjak. À l’intérieur du camp, le tableau sanitaire est affolant.

      De nombreux réfugiés reviennent blessés du game, à cause des sévices infligés par la police croate. Presque tous souffrent de diarrhée et de maladies de peau, dont de nombreux cas de gale. La mairie de Biha# livre chaque jour 20 000 litres d’eau, mais les douches en plein air sont jonchées d’immondices. Les résidents doivent faire leurs besoins dehors : les sanitaires sont depuis longtemps hors d’usage. Avec les brumes humides de l’automne, la température tombe déjà en dessous de zéro certains soirs, beaucoup souffrent de la grippe, tandis que MSF recense de nombreux cas de tuberculose et de sida.

      « Si ces personnes restent à l’extérieur, comme c’est le cas aujourd’hui, il y en a qui vont mourir cet hiver, prévient Nihal Osman. Ici, les températures peuvent descendre sous les – 20 °C et les feux de branchage ne suffiront pas. » L’ONG n’intervient pas à l’intérieur du camp de Vu#jak, refusant de cautionner son existence. Pour assurer malgré tout sa mission humanitaire, son personnel opère dans une petite clinique établie dans le village voisin, malgré l’hostilité des riverains. « On est obligé de se faire discrets. On ferme à 15 heures, avant que les gens reviennent du travail », explique Nihal Osman.

      Seule la Croix-Rouge locale délivre un repas par jour – ce lundi, c’était une louche de riz, un peu de sauce à la viande, quelques fines tranches de pain et un litre de soda. Depuis l’été, les organisations internationales pressent les autorités bosniennes de trouver un autre emplacement, mais celles-ci font la sourde oreille. « Tout le monde se focalise sur le scandale humanitaire de Vu#jak, nuance Nihal Osman, mais le problème est européen. De plus en plus de gens s’engagent sur la route des Balkans, et le canton de Biha# en est le débouché naturel. »

      De fait, Bihac, à l’extrémité nord-ouest de la Bosnie- Herzégovine, constitue le point le plus proche de la Slovénie et de l’Italie, l’objectif que veulent gagner tous ceux qui se massent ici. Pour y demander l’asile et poursuivre leur route plus sereinement vers les pays de l’ouest et du nord de l’Union européenne. Pour la Bosnie-Herzégovine, en 2019, 28 327 arrivées ont été officiellement enregistrées, en hausse de presque 5 000 par rapport à 2018 et presque 30 fois plus qu’en 2017. En Europe, seule la Grèce a enregistré plus d’arrivées. La Bosnie-Herzégovine dépasse désormais l’Espagne et l’Italie.

      Se souvenant de leur expérience personnelle pendant la guerre de 1992-1995, les habitants du canton d’Una Sana ont longtemps regardé avec bienveillance et solidarité les exilés bloqués dans cette impasse de la route des Balkans. Mais aujourd’hui, c’est un sentiment de lassitude et d’exaspération qui domine. Plusieurs manifestations anti-migrants ont eu lieu à Biha# ces dernières semaines, et les autorités locales mettent des bâtons dans les roues des rares humanitaires présents sur le terrain, comme Médecins sans frontières. En fait, les réfugiés paient au prix fort les sombres calculs politiques qui opposent les autorités locales à celles de la capitale, Sarajevo.

      Une longue odyssée balkanique

      Le contrôle des frontières et la gestion des migrations relèvent théoriquement de l’État central de Bosnie- Herzégovine et de son ministère de la sécurité, mais le canton d’Una Sana, qui possède son propre ministère de l’intérieur, relève de la Fédération de Bosnie- Herzégovine, l’une des deux « entités » de ce pays toujours divisé. Or, les autorités du canton estiment qu’elles sont abandonnées par les autorités fédérales et qu’elles doivent faire face seules à la crise. Leur politique vise à donc à rendre les conditions de vie des migrants les plus difficiles possibles afin de les dissuader de rester sur leur territoire. Depuis deux semaines, elles interdisent même la circulation des réfugiés. Ceux qui sont raflés dans la rue par la police sont immédiatement envoyés à Vucjak.

      Pour sa part, l’OIM, qui gère l’ensemble des camps de Bosnie-Herzégovine, par délégation des compétences normalement dévolues à l’État, cherche aussi à délocaliser les migrants en insistant pour l’ouverture d’autres camps officiels à l’intérieur du pays, vers Tuzla ou Sarajevo. Une politique qui a peu de chances d’être suivie d’effet, Biha# restant la « porte d’accès » à la Croatie. De surcroît, bien peu de migrants osent s’aventurer dans le nord de la Bosnie, qui dépend de la Republika Srpska, l’autre « entité » du pays, dont les autorités prônent une fermeté absolue et refusent l’ouverture de centres d’accueil.

      Dans les camps officiels, l’OIM multiplie les campagnes en faveur du retour volontaire. Beaucoup de travailleurs humanitaires estiment que l’organisation se préoccupe moins d’apporter une réponse humanitaire que de contribuer à la « gestion des migrations » – c’est-à-dire aux politiques visant à dissuader les exilés de tenter de gagner l’Union européenne. Et ils s’étonnent de l’absence quasi totale du Haut-Commissariat aux réfugiés (UNHCR), qui semble avoir délégué ses compétences à l’OIM. Même le Comité international de la Croix-Rouge (CICR) n’est pas présent. Seules quelques sections nationales de la Croix-Rouge ont envoyé des équipes.

      « Les autorités locales voudraient que ces gens aillent ailleurs, considérant qu’elles ont trop de migrants à gérer sur leur territoire, souligne Hannu Pekka Laiho, en mission d’observation pour la Croix-Rouge finlandaise. Le problème, c’est que chacun des acteurs impliqués dans cette crise se renvoie la balle : les Bosniens, mais aussi l’OIM et l’Union européenne. » Appuyé sur sa canne, le vieil homme s’émeut du sort réservé aux malheureux qui échouent ici. « Tout le monde veut se débarrasser de Vu#jak. En attendant, ces gens sont tout bonnement livrés à eux-mêmes. La tension est palpable, mais je m’étonne que ce ne soit pas pire encore vu les conditions dans lesquelles doivent vivre ces hommes. Tous les jours, ils m’interrogent pour savoir si de nouveaux camps vont ouvrir, en Bosnie, ou en Croatie. Je n’ai rien à leur répondre de concret. »

      ______________________________________________________________________________

      Deux nationalités dominent à Vucjak, les Afghans et les Pakistanais, qui se regardent en chiens de faïence, chacun occupant sa zone. Les Maghrébins, mal vus, n’osent pas y rester et se réfugient dans les squats. Cet été, un Palestinien a été tué d’un coup de couteau. On trouve pourtant aussi quelques Indiens, et même trois Sénégalais, qui ont trouvé refuge dans le secteur afghan. Djallo, 33 ans, est originaire de Kédougou, à la frontière de la Guinée et du Mali. Il a d’abord rejoint la Turquie, puis il est passé en Grèce, où il a travaillé deux ans dans des fermes. Il s’est ensuite engagé sur la route des Balkans, après avoir économisé suffisamment d’argent, pensait-il, pour rejoindre un pays riche de l’UE.

      Djallo détaille les étapes de sa longue odyssée balkanique. Il a franchi clandestinement les frontières de la Macédoine du Nord puis de la Serbie, versant à chaque fois plusieurs centaines d’euros aux passeurs. À Preševo, dans le sud de la Serbie, des Pakistanais lui ont vendu dix euros un faux récépissé de demande d’asile en Serbie, un document pourtant accessible gratuitement. Il a ensuite payé 150 euros le passage

      en barque de la Drina, la rivière qui sépare la Serbie et la Bosnie-Herzégovine, puis il a gagné la région de Biha# en bus et se trouve depuis un mois à Vu#jak.

      « Dans le nord de la Macédoine, je suis resté bloqué dans un village où ils gardent les gens, tant que les familles n’envoient pas l’argent », raconte-t-il, grelottant dans son manteau élimé, des claquettes en plastique dépareillées aux pieds. Deux jours plus tôt, Djallo a été rapatrié dans le camp, après avoir été violemment renvoyé de Croatie. « Cela faisait dix jours que nous marchions avec un groupe de Pakistanais et d’Afghans. On nous a arrêtés près de la Slovénie et on nous a ramenés jusqu’ici... Je n’ai opposé aucune résistance, mais les policiers m’ont tout pris. » Désespéré, sans un sou, Djallo envisage désormais de repartir en arrière. A minima jusqu’en Grèce, « parce que là-bas, au moins, on peut travailler et gagner un peu d’argent ». Les violences de la police croate visent à dissuader les gens de tenter le voyage. Zagreb a d’ailleurs été félicitée par ses partenaires européens pour sa « bonne gestion » des frontières et pourrait même être appelée prochainement à rejoindre l’espace Schengen.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/101219/en-bosnie-herzegovine-l-un-des-pires-camps-de-refugies-d-europe-evacue

    • After 179 days (5 months and 26 days) the Vucjak jungle was evacuated and its structures and tents destroyed with the excavator. 7 buses transported migrants to the Usivak camp in Hadzici, outside Sarajevo, managed by IOM. On 10 December, the eviction of the Vučjak area started. Volunteers from the region report that the authorities in Una Sana Canton and IOM announced that from this day on, Vucjak jungle will not exist. During the press conference on Monday, Bihac authorities announced that no media can be present at Vucjak during the eviction which is a serious issue restricting the work of the media, but also the right of the public to know what is happening.

      Volunteers and activists on the field denounce that “media freedoms are at serious risk at the moment in Bosnia and Herzegovina in many ways. The authorities and international organizations are doing everything they can in order to restrict the media from accessing the places where refugees are, being camps run by the IOM or places like Vucjak during the eviction. Additionally, all parties involved are investing a lot of effort in spearing propaganda of different types, including hate propaganda. Local volunteers strictly condemn that international organizations are still not doing enough: “volunteers in Sarajevo are noticing more and more people in the streets, sleeping rough, among them many minors, with no care at all. The only help provided comes from the citizens, while DRC, Red Cross, cantonal authorities, IOM, UN agencies are staying aside and ignoring this fact.” Updates come also from another city of Bosnia and Herzegovina: In Tuzla, over 100 people are staying outside. People are still arriving from Serbia, daily, even though much less than during previous months. As well as in Sarajevo, many people are hosted by the locals.

      If you want to keep updated on some border points like Lesbos, Patras, Athens, Šid and Velika Kladuša, you can listen the podcast that independent volunteers and volunteers working for small organizations in Greece and some of the EU’s external borders report weekly on their daily work and the dire conditions in which refugees and migrants are living. The audios are in Spanish and, time permitting, subtitles are also provided in Serbo-Croatian and English. Here the youtube channel (https://www.youtube.com/watch?v=2HjVrr5IF3Q

      ) where you can follow the weekly updates. Overall, they report a worsening situation at all these points. And not only because of the arrival of cold days, but above all because of the deliberate, and more and more systematic, violation of the rights of people on the move. Constant harassment and police violence, horrific and degrading living conditions, racist and inhumane treatment and much more, along with anti-immigration laws that are becoming more restrictive in all countries every day, all of this makes the lives of thousands of people destroyed on daily bases.

      Reçu via Inicijativa dobrodosli, mail du 17.12.2019.

  • « Prisonniers du passage » : une ethnographie de la #détention_frontalière en #France

    A partir des années 1980, les conditions d’entrée dans les pays européens deviennent plus restrictives. Amorçant ce qui est désormais devenu la norme en Europe quels que soient les gouvernements, les politiques publiques migratoires se caractérisent par l’arrêt de l’immigration de travail, le durcissement des critères d’attribution de l’asile politique, l’expulsion des étrangers irréguliers ou ayant reçu une condamnation pénale et les modifications du code de la nationalité. Par ailleurs, dans le processus de construction européenne, la gestion des circulations s’organise à travers un régime double et différentiel, de libre circulation des personnes à l’intérieur de l’espace européen, et de construction renforcée des frontières extérieures. Ce cadre européen met en place un espace stratifié et complexe qui saisit les acteurs de la circulation dans un quadrillage de pratiques et de normes. Cet espace est fait de superpositions, de différences nationales, selon la culture et l’histoire de chaque pays européen, et d’homogénéisations – notamment à travers les accords de Schengen en 1985 et 1990 et le règlement de Dublin1 dont la troisième mouture est en vigueur, la quatrième en préparation.
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    Dans ce contexte, le contrôle des voyageurs et des migrants passe couramment par leur enfermement dans des espaces plus ou moins pénitentiaires. En France, la zone d’attente est une zone extraterritoriale de détention où les étrangers refusés à la frontière sont maintenus en attente de leur admission ou de leur « refoulement » pour une période allant jusqu’à vingt jours. Les zones d’attente sont situées dans ou à proximité des zones internationales aéroportuaires, portuaires, routières ou ferroviaires. En tant qu’assistante juridique pour l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), j’ai eu accès à l’intérieur de la zone d’attente, où j’ai mené une observation de 2004 à 20082 . Cette ethnographie d’une forme particulière de contrôle s’offre comme point de départ pour réfléchir sur le régime mis en place en Europe depuis quelques décennies en partant des différents espaces par lesquels ce régime procède.
    « Une frontière, c’est quoi ? Juste une ligne, rien de plus »
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    Comment se retrouve-t-on détenu « à la » frontière ? Que s’y passe-t-il ? Comment en sort-on ? Et qu’y a-t-il de l’autre côté ? La mise au ban dont témoignent les centres fermés aux frontières est une réalité difficile à saisir : les barrières instituées de l’illégalité, les enjeux de clandestinité, d’anonymat, d’identification font qu’en pratique, ce parcours ne se raconte pas et se dérobe face à l’observation empirique. En s’appuyant sur les expériences vécues d’enfermement et de circulation qui se tissent autour du maintien en zone d’attente, il s’agit d’approcher cette réalité en sondant les lieux par où les individus transitent et les techniques qui mettent en branle leur circulation faite de passages, d’immobilisations et de retours. Cette « errance individuelle »3 , dans la rugosité de ses parcours improbables, nous renseigne en retour sur l’évolution de l’espace public, du rapport au temps et au (non-)lieu qui fondent une modalité inédite de l’inclusion dans l’organisation politique étatique. Imaginons donc un parcours fait de multitude de parcours : un collage d’expériences qui fait surgir les nœuds du voyage et trace les possibles, suit les bifurcations, pointe les tensions. Entrons dans le dispositif.

    Kadiatou Fassi est née à Conakry en Guinée il y a seize ans. Son père était venu d’un village pour étudier dans la capitale, qu’il n’a plus quittée. Sa mère a rejoint son mari en ville après le mariage, mais « elle n’a pas duré » : elle est morte un peu après la naissance de sa fille. Le père de Kadiatou tenait un commerce, et la situation n’était pas mauvaise. Lors des grèves de 20074 , alors qu’on avait déclaré l’état de siège et le couvre-feu – Kadiatou préparait le dîner dans la cour – Monsieur Fassi est blessé par balle lors d’une émeute dans la rue commerçante où se trouve sa boutique. Il meurt.
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    Après l’enterrement de son père, Kadiatou rencontre un de ses anciens clients, qui lui propose de l’aider à partir du pays. Kadiatou sait qu’une cousine maternelle est en France, et elle rêve de s’appuyer sur cette cousine pour venir en France elle aussi. Elle explique son projet, pour lequel elle dispose de l’héritage laissé par son père. L’homme répond que cela tombe bien : il doit aussi se rendre en France. Il lui demande où est sa cousine. Elle ne le sait pas, mais elle a son numéro de téléphone. Kadiatou possède cinq millions de francs (CFA). Le client lui demande trois millions et fait fabriquer un passeport pour Kadiatou : il va devoir changer sa date de naissance pour qu’elle apparaisse comme majeure. Kadiatou accepte. Le client vient ensuite chercher le reste de l’argent : 2 millions. Kadiatou Fassi prend l’avion avec le client de son père, qui s’est occupé de ses papiers d’identité, de son billet d’avion, pour lequel il faut présenter un passeport et un visa, et de leur passage aux comptoirs de vérification à l’aéroport de Conakry.
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    Ils débarquent dans un pays dont elle n’a jamais entendu parler : l’Ukraine. Elle ne connaît personne et ne comprend pas la langue ; elle demande au client de l’emmener chez sa cousine. Il lui demande d’attendre. Il la loge à Kiev, à l’arrière d’un restaurant. Il vient la voir parfois. Deux semaines passent : Kadiatou redemande au client de l’emmener chez sa cousine, comme c’était prévu. Les visites du client s’espacent. Puis il revient, accompagné d’autres hommes. Il déclare à Kadiatou qu’elle doit payer le reste de son voyage. Un jour, il lui rend son passeport, le billet de retour et lui annonce qu’elle rentrera seule le mardi suivant. Elle lui répond qu’elle ne sait pas prendre l’avion. L’homme la fait monter dans un taxi et l’accompagne à l’aéroport : il écrit le nom de la compagnie aérienne, avec lequel Kadiatou Fassi embarque sans encombre pour le voyage du retour : Kiev-Conakri avec une escale à Paris5 .

    Jana Fadhil, son mari Iman et son fils de quatre ans sont arrivés de Damas où ils s’étaient installés après leur départ de Bagdad. Celui qui a organisé leur voyage leur demande de l’attendre à la descente de l’avion, le temps d’emmener leurs passeports et leurs formulaires de douane auprès de ses « connaissances » parmi les policiers, pour les faire tamponner. Leur voyage a coûté 13 000 euros, payables en deux fois. Ils ont avec eux 5 000 euros, la deuxième partie de la somme, qu’ils remettent comme convenu à leur accompagnateur dès leur arrivée à Roissy, et quelques centaines d’euros pour leur séjour. Au bout de quelques heures, voyant que l’homme ne revient pas, Iman part le chercher de-ci, de-là dans le terminal : perdus dans l’aéroport, ils tournent en rond et marchent. Ils restent à attendre dans le hall du terminal avant les douanes jusqu’au soir. Jana Fadhil est enceinte de sept mois. Elle et son fils s’allongent sur le sol ; son mari dort sur une chaise. Ils se nourrissent au comptoir snack du terminal : une bouteille d’eau coûte 4,5 euros, un gâteau, 1,5 euro. Le jour suivant, ils ont déjà dépensé 260 euros en nourriture et téléphone et commencent à être à court d’argent. Dans l’après-midi suivant, Jana fait un malaise et prend peur de perdre son bébé : ils se dirigent vers les postes de douane. Ils restent deux heures devant un poste en essayant de capter l’attention des officiers qui vont et viennent. Finalement, l’un d’eux se tourne vers eux ; Iman lui dit en anglais :

    - Un homme nous a laissés ici.

    - Venez avec nous.

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    En escale à Paris, Kadiatou Fassi ne prend pas la correspondance pour Conakry. La police l’intercepte dans le terminal : elle est emmenée au poste pour un interrogatoire. Les policiers la questionnent sur son accompagnateur, lui demandent où il se trouve à présent. Dans l’après-midi, ils la conduisent au prochain vol vers Conakry. Kadiatou refuse de monter dans l’avion : elle dit à la police qu’elle ne sait plus comment vivre chez elle : comme elle a donné son argent pour venir, elle a été délogée de sa maison. Les policiers lui demandent à nouveau de monter dans l’avion, en la menaçant de lui mettre des menottes s’il elle ne le fait pas. Elle a peur et se met à pleurer. Ils la reconduisent dans le poste de police. Kadiatou attend dans une cellule fermée à clé, une vitre donne sur le couloir du poste. Il y a un banc en ciment et un téléphone au mur qui ne marche pas. Sans trop savoir de quoi il s’agit, Kadiatou Fassi se souvient qu’en Guinée, certains disaient qu’« il y a l’asile qu’on demande pour ne pas qu’on te retourne ». Un policier ouvre la porte quelques heures plus tard : elle lui demande de « l’aider à demander l’asile ». Au comptoir du poste, un policier imprime une série de documents, lui demande d’en signer certains et lui tend la pile de ses « papiers de police ». Trois agents la conduisent, en compagnie de plusieurs autres hommes, femmes et enfants, dans le centre de Zapi 3. Une employée de la Croix-Rouge les accueille à l’étage : elle leur donne à chacun des draps et une serviette, et leur montre leur chambre. Kadiatou Fassi a une chambre seule, dans la partie réservée aux « #mineurs_isolés ».

    Djibril Ba attend dans le couloir, assis sur le rebord d’une cabine de douche. En fin de matinée, une voix lui demande en anglais de descendre avec ses papiers de police. Il se rend au bureau de la Croix-Rouge qui se trouve à quelques mètres en disant qu’il vient d’être appelé. Une médiatrice lui dit qu’il doit descendre et sonner à l’interphone dans le hall, la police lui ouvrira. En bas, un policier lui ouvre : « police papers », puis l’accompagne le long d’un couloir au plafond immense jusqu’à une double porte électrifiée qu’il ouvre à l’aide de cartes magnétiques. Il se trouve dans un hall d’attente, dans lequel la lumière du jour entre par une porte vitrée qui donne sur une deuxième salle d’attente, à l’entrée du centre. Deux policiers sont assis à une petite table et discutent entre eux. Le hall donne sur plusieurs pièces : certaines sont réservées aux visites entre les maintenus et leur famille ou leur avocat ; d’autre aux entretiens de demande d’asile avec un agent de la division asile à la frontière. Djibril Ba attend sur les chaises alignées du hall, il est seul avec les deux policiers assis devant le petit bureau. Une porte s’ouvre au fond du couloir, un des policiers appelle Djibril et le fait entrer dans le bureau de l’agent de l’Ofpra. L’homme d’une trentaine d’années est assis derrière un ordinateur, dans un bureau très clair garni d’une grande fenêtre à poignées qui donne sur des haies d’arbustes. L’agent de l’Ofpra laisse d’abord Djibril parler, puis il lui pose quelques questions factuelles. Il fait des photocopies de sa carte de militant et de photos que Djibril Ba a emmenés avec lui. L’entretien dure une heure, puis Djibril est reconduit à travers les sas et les couloirs vers le centre d’hébergement à l’étage. Dans l’après-midi, Djibril Ba entend à nouveau son nom au haut-parleur : on lui demande de descendre avec ses papiers de police. Un policier le reconduit vers les bureaux de l’Ofpra, où l’attend le même agent :

    - Avez-vous un dernier mot à ajouter ?

    - Non, tout ce que je voulais dire, je l’ai dit. Je veux avoir l‘asile, car j’ai des problèmes dans mon pays.

    - Ok. Je photocopie tous vos documents et je les mets dans votre dossier pour le ministère de l’Intérieur. Mon avis est consultatif, mais ce sont eux qui prennent les décisions.6

    Djibril Ba remonte dans sa chambre. Dix minutes plus tard, il est appelé à descendre et il est reçu encore une fois dans le bureau par l’agent qui est accompagné cette fois d’un autre officier. On lui pose de nouvelles questions : Pourquoi a-t-il fui le Mali mais est-il arrivé par la Côte d’Ivoire ? Pourquoi est-il entré dans la rébellion ? À la fin de l’entretien, on lui redemande pourquoi il demande l’asile. Il l’explique à nouveau. Les deux hommes s’interrogent du regard et le second opine : « Ce sera tout merci ». L’entretien dure quelques minutes.

    Le lendemain de son entretien, James est appelé en bas avec ses papiers de police et ses bagages. Il a peur. Il ne veut pas descendre. Il me demande plusieurs fois pourquoi il doit descendre avec son sac. James est petit et coquet, un béret beige sur la tête, des bottines en crocodiles, une valise rigide grise métallisée. Il sent la crème hydratante. Il était syndicaliste à Lagos, au Nigeria. Il a demandé l’asile et attend une réponse. Il a retranscrit son récit d’asile sur quatre feuilles qui traînent sur sa table de nuit. Très peu de Nigérians obtiennent l’asile politique : le Nigeria fait partie des « principales nationalités des déboutés » de l’asile en France entre 2003 et 20077 . Il fait calmement, minutieusement son sac. Il me demande de l’attendre : il va aller aux toilettes. Après cinq bonnes minutes, il finit de boucler sa valise, plie les feuilles et les met dans sa poche. On descend ensemble. Je veux vérifier que sa notification de refus de demande d’asile ne lui sera pas remise au moment où ils vont l’emmener pour un embarquement forcé. Si c’est le cas, il faudra se plaindre à la police, car la notification doit avoir lieu avant l’embarquement. Mais ça ne changera rien pour James. Le problème est que je ne connais pas le nom de famille de James : ça sera difficile de déposer une plainte sans pouvoir donner le nom de famille du maintenu. Je n’ai pas le temps de demander le nom de James ; on est arrivé dans le hall du rez-de-chaussée, James a sonné, un policier a ouvert et lui a demandé ses papiers de police :

    - Oui c’est bon, veuillez me suivre.

    - Excu…

    J’essaie de placer un mot, mais la porte s’est déjà refermée sur moi. Je le laisse partir, je ne peux rien dire. Légalement, il n’y a rien d’anormal à ce qui vient de se passer. Louis, un demandeur d’asile nigérian que j’ai rencontré tout à l’heure nous a suivi dans le hall :

    - Qu’est-ce qui est arrivé à mon collègue ?

    - Je ne sais pas.

    Il me le demande plusieurs fois. Un policier en tenue d’escorte8 passe devant nous. Je lui demande s’il sait « où est parti le Nigérian ». « Quel Nigérian ? Quel est son nom ? Vous avez son numéro de MZA9 ? » Il ne peut pas m’aider s’il ne connait pas son nom ; mais il sait qu’un Nigérian a eu l’asile politique aujourd’hui. C’est rare. Je me demande si c’est James. Plus tard, depuis la fenêtre du bureau, je vois James mettre sa valise grise dans une voiture de la Croix-Rouge. Elle va le conduire au kiosque d’orientation de l’aéroport de Roissy pour ceux qui ont été admis à demander l’asile en France.
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    Au Terminal 1 de l’aéroport, au niveau des arrivées, derrière la porte à deux battants nº 24, accessible par les escaliers réservés au personnel technique, se trouve le bureau de la Croix-Rouge où Halima Seyum a été conduite après avoir été admise à sortir de zone d’attente au titre de l’asile. Une employée de la Croix-Rouge lui a remis une feuille listant les numéros de téléphone utiles pour son parcours d’asile : France terre d’asile, pour la domiciliation, la préfecture de la Seine Saint-Denis, pour le dépôt de sa demande, la Cimade, ouverte tous les mardis matins à partir de 8 h (prévoir d’être sur place une heure avant), si elle a besoin de conseil juridique. L’employée explique à Halima que la police lui a remis un « récépissé » de demande d’asile. Elle doit absolument se présenter à la préfecture d’ici huit jours pour enregistrer sa demande (l’examen en zone d’attente est une présélection qui l’a uniquement admise à présenter sa demande d’asile : la procédure reste entièrement à faire). Elle doit d’abord disposer d’une adresse. À ce sujet, elle devra se présenter à l’association France terre d’asile, qui la domiciliera : elle passera tous les deux jours vérifier le courrier administratif qui lui sera dès lors envoyé à cette adresse. Mais il reste à trouver un hébergement. Je reçois l’appel d’une assistante sociale de la Croix-Rouge à Roissy, de la part d’Halima Seyum. En effet, oui, je la connais : je l’ai aidée à préparer son entretien de demande d’asile (je l’ai « briefée ») et je lui ai laissé mes coordonnées. Halima ne sait pas où dormir ce soir : ils n’ont pas de place pour elle, est-ce que je pourrais l’accueillir ? Je dis que c’est impossible (je loge moi-même chez un ami).

    C’est bien ce que je pensais… On va essayer de lui trouver une place à l’Aftam 93, les foyers pour demandeurs d’asile ; mais tout est plein en ce moment. Au pire, on lui trouvera une chambre d’hôtel pour ce soir.

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    À 6 h du matin, un groupe de maintenus est conduit de la zone d’attente vers le Tribunal de grande instance. En début d’après-midi, les maintenus sont accompagnés par une dizaine de policiers dans la salle des audiences du 35 quater, où un juge des libertés et de la détention examine la légalité de leur procédure de détention, et se prononce sur le prolongement de leur maintien en zone d’attente. Jana Fadhil a été hospitalisée le lendemain de son transfert en zone d’attente ; l’avocat commis d’office présente au juge le certificat médical établi à l’hôpital en insistant sur les problèmes de santé de Jana, enceinte, et d’Iman, diabétique. Le juge décide de ne pas prolonger le maintien de la famille. À la sortie de l’audience, Jana, Iman et leur fils se font indiquer la direction du métro vers Paris.

    La cousine de Kadiatou Fassi est venue à l’audience du 35 quater avec les documents que l’avocat lui a demandé d’apporter : un certificat de naissance pour attester de ses liens de famille avec Kadiatou ; un avis d’imposition qui prouve qu’elle a des ressources suffisantes pour s’en porter garante. Mais Kadiatou n’est pas présentée au juge ce jour-là. Sa cousine appelle la zone d’attente, où un officier lui explique que Kadiatou Fassi a « bien été réacheminée » vers Conakry la veille.

    Djibril Ba a contacté un avocat avec l’aide d’un cousin en France dont il avait les coordonnées. Celui-ci lui a demandé 900 euros d’honoraires et a exigé l’intégralité de la somme d’avance. Durant l’audience, il soulève quelques points de procédure ; le juge décide cependant de maintenir Djibril Ba (comme toutes les autres personnes qui lui sont présentées ce jour-là) en zone d’attente, « attendu que l’intéressé a formé une demande d’asile [qui] est en cours d’examen ».
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    Quatre jours après avoir eu un entretien d’asile, Abdi Hossein est appelé par la police. L’officier qui lui ouvre le fait entrer et l’accompagne jusqu’à un bureau. Un agent imprime deux feuilles, et lui demande de signer en bas de la seconde. Puis on le raccompagne dans le hall.

    Considérant que X… se disant M. Abdi Hossein déclare qu’il serait de nationalité somalienne, qu’il serait né et résiderait à Afgoy, qu’il serait cultivateur, qu’il serait membre du clan minoritaire Sheikhal et du sous-clan Djazira, que le clan Habar Guidir serait majoritaire à Afgoy, que par crainte pour sa sécurité il ne serait pas beaucoup sorti de son domicile, qu’en décembre 2006, son père aurait été assassiné par balle en sa présence, devant la porte de sa boutique, par un groupe armé appartenant au clan Habar Guidir qui voulait extorquer son argent ; que ces miliciens connaîtraient ce quartier, viendraient enlever des personnes et les déposséder de leur bien, que suite à cet événement et en raison de la guerre civile, il aurait décidé de quitter son pays ; qu’un ami de son père lui aurait conseillé de se rendre en France afin d’y solliciter l’asile et aurait organisé son voyage via le Kenya ;

    Considérant toutefois que le récit de l’intéressé qui prétend être de nationalité somalienne et fuir son pays afin de sauvegarder sa sécurité n’emporte pas la conviction, que ses déclarations revêtent un caractère convenu, imprécis et dénué de spontanéité, notamment en ce qui concerne les circonstances dans lesquelles son père aurait été assassiné, en sa présence, en décembre 2006, par des personnes armées appartenant au clan de Habar Guidir, que de plus il reste très évasif à propos de la politique récente à Afgoy où il affirme pourtant avoir toujours résidé et de cette zone géographique – il ignore jusqu’aux noms des principaux quartiers de sa ville, que de surcroît il n’est guère plus explicite s’agissant des conditions dans lesquelles il aurait quitté son pays, qu’enfin il n’apport aucune explication sur son départ du Kenya et se borne à indiquer qu’il aurait suivi le conseil d’un ami de son père lui recommandant de solliciter l’asile en France, que l’ensemble de ces éléments incite à penser que contrairement à ce qu’il affirme, il n’est pas originaire de Somalie, que dès lors, sa demande ne saurait aboutir ;

    Qu’en conséquence, la demande d’accès au territoire français formulée au titre de l’asile par X… se disant M. Abdi Hossein doit être regardée comme manifestement infondée.

    Considérant qu’il y a lieu en application de l’article L.213-4 du Code d’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, de prescrire son réacheminement vers le territoire de la Somalie ou, le cas échéant, vers tout territoire où il sera légalement admissible.

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    Abdi Hossein se rend au bureau de la Croix-Rouge pour comprendre ce qu’il y a écrit sur le document que la police vient de lui remettre. Un employé de la Croix-Rouge lui conseille d’aller au bureau de l’Anafé, au fond du couloir. Lise Blasco, bénévole à l’Anafé, reçoit Abdi et lui explique son rejet de demande d’asile, avec l’aide d’un traducteur bénévole en somali, contacté par téléphone. Elle décide de présenter un recours juridique devant le Tribunal administratif pour contester le rejet de la demande d’asile d’Abdi. À nouveau, elle interroge longuement Abdi Hossein avec l’aide de l’interprète. Puis elle l’accompagne à l’infirmerie du centre, afin que le médecin de garde lui établisse un certificat médical attestant des impacts de balle qu’Abdi dit avoir reçu dans chaque jambe. Ensuite, Lise Blasco ferme la porte du bureau à clé et se met à rédiger le référé qu’elle faxe aux greffes du Tribunal administratif en début de soirée. Quelques heures plus tard, Abdi Hossein est appelé à descendre avec ses bagages.
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    Amadou Mporé arrive ému dans le bureau. Il s’assoit devant moi et sort de sa poche une boule de tissu, un débardeur déchiré, en sang, qu’il pose sur la table.

    À 10 h du matin, je suis appelé en bas avec mes bagages. Je descends avec mon sac et je sonne à l’interphone. Le policier me fait entrer dans une salle d’attente et me demande de patienter. Je reste assis deux heures. À l’appel du repas de midi, le policier me dit d’aller manger en laissant mon sac ici et me demande de revenir sonner après le repas. Il me raccompagne dans le hall où je rejoins les autres qui vont au réfectoire. À table, des gens me demandent ce que je faisais avec la police, où j’étais et pourquoi. Je ne parle pas : je ne les connais pas, et puis un policier surveille le réfectoire. Je reviens dans la salle d’attente vers 12 h 30. Deux policiers en uniforme bleu-marine, avec des Rangers aux pieds, des gants en cuir noir, une matraque à la ceinture, entrent peu après. Il me disent qu’ils vont m’emmener à l’aéroport : ‘Tout se passera bien si tu te tiens tranquille, mais si tu fais des difficultés, on va t’attacher’. Je crie, je ne veux pas qu’on m’attache. Les policiers se dirigent vers moi, ils sont au nombre de six. Ils ont été rejoints par leurs collègues en chemise bleu ciel et képi, qui étaient assis dans la salle d’attente. Ils ont commencé à m’attacher avec des bandes. Je criais : ‘Laissez-moi ! Laissez-moi !’ J’ai pleuré. J’ai enlevé ma chemise, je me suis trouvé en débardeur. Les policiers m’ont pris par le cou et m’ont renversé en avant. Je suis tombé le visage à terre, je me suis ouvert la lèvre. Ils se sont mis à frapper : ils ont piétiné ma jambe avec leurs chaussures, le tibia, le genou gauche, le pied droit. L’un d’entre eux a mis son genou sur ma joue, il a plaqué mon visage contre le sol. La bagarre a duré entre dix et vingt minutes peut-être. Une camionnette de police est venue se garer devant la porte de sortie qui relie le poste de police au parking, mais on ne m’y a pas emmené. Je suis allé m’asseoir. Certains policiers en tenue d’escorte et d’autres en chemise bleue claire ont voulu me donner un verre d’eau. J’ai dit : ‘Non, je ne veux pas d’eau’. J’ai pleuré, pleuré. Le jeune policier qui m’a donné l’eau m’a conseillé :

    - Prends un avocat.

    - Si j’avais volé, vous pouviez me faire ça. Mais je n’ai pas volé. Vous ne pouvez pas me faire ça. Je vais prendre un avocat. Je vais prendre un avocat.

    Les policiers me disent d’attendre. Je leur dis que je veux me laver. Un policier en bleu marine (un métis, costaud) m’a accompagné chez le médecin. Lui n’était pas là en même temps que les autres, il est venu plus tard avec la camionnette ; lui ne m’a pas touché. Dans le cabinet médical, une infirmière prend ma tension, un médecin m’ausculte, il me demande où j’ai mal. Il me donne un comprimé contre la douleur. Non, il ne me donne pas de certificat médical : ce qu’il a écrit, il l’a gardé pour lui. Puis je suis monté directement chez toi ici.

    Six jours après son arrivée en zone d’attente, Djibril Ba est appelé à descendre avec ses bagages. Il est menotté et escorté par trois agents de l’Unité nationale d’escorte, de soutien et d’intervention (UNESI) vers Bamako, où il est remis aux mains des officiers de la police locale.
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    À 23 h 15, Abdi Hossein est placé en garde à vue. Il comparaît deux jours plus tard devant la 17e chambre du Tribunal correctionnel pour « infraction d’entrée ou séjour irrégulier et soustraction à l’exécution d’une mesure de refus d’entrée en France ». Il est condamné à un mois de prison ferme et transféré à la prison de V.
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    Halima Seyum me rappelle depuis un foyer Emmaüs dans le 14e arrondissement de Paris. Elle y est logée pour une nuit seulement, car c’est un foyer d’urgence pour les gens sans domicile. Elle attend d’être placée dans un foyer Aftam 93. Je vais la voir dans son foyer vers 16 h. Il ressemble à une vieille école, un bâtiment qui date du début du vingtième siècle, une esthétique de lieux publique des années 1960 : linoléum gris, meubles en bois véritable dépareillés, chaises d’école aux barreaux gris vert métallisés, odeur de gras. Nous allons boire un café dans le réfectoire, sur des tables longues couvertes de nappes en plastique. Tout est propre et patiné, pas encore aligné sur les matières plastiques et les formes rondes grossières que l’on trouve partout dans le neuf aujourd’hui, et aussi en zone d’attente. Son récépissé de huit jours, dans le délai desquels elle doit faire une demande d’asile à la préfecture, expire le lendemain. Le responsable du centre dit qu’ils enverront d’ici là sa demande d’asile à la préfecture, le cachet de la poste faisant foi.
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    Quelques jours plus tard, le téléphone sonne. C’est un employé de l’hôtel « Première Classe » à D. qui m’appelle à la demande de Halima Seyum. Elle n’a pas eu de place au foyer Aftam, mais elle a désormais une chambre jusqu’au 30 avril dans cet l’hôtel, où l’Aftam a logé, sur le même étage, d’autres demandeurs d’asile n’ayant pas pu être hébergés en foyer. Situé à une sortie du périphérique extérieur, l’hôtel ressemble à un « Formule 1 » de luxe, avec des orchidées sur le comptoir, une salle à manger propre et avenante, des distributeurs de café, de gâteaux et toutes les commodités nécessaires à un service sans personnel. Des cars de touristes sont alignés sur le parking. Halima est inquiète pour la nourriture. À l’Aftam, on lui a donné vingt euros pour la semaine, et la semaine prochaine, on lui donnera encore vingt euros. Ce n’est pas beaucoup. Quand elle est revenue de l’Aftam, elle avait très faim, elle se sentait mal. Alors elle a acheté une part de pizza dans la rue, mais elle a dépensé quatre euros sur les vingt qu’elle possède pour la semaine ! Elle voudrait partir en Angleterre : elle parle l’anglais, mais pas un mot de français, et sa compagne de chambre lui a dit qu’on pouvait travailler là-bas. Demandeuse d’asile renvoyée de Belgique sous le règlement « Dublin II », cette dernière est en Europe depuis quelques années déjà, et connait la ville.
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    Il faut bien réfléchir à cette question de départ vers l’Angleterre. Halima a été admise à la frontière comme demandeuse d’asile, ce qui indique qu’elle a de bonnes chances d’obtenir l’asile – l’examen aux frontières est paradoxalement réputé plus difficile que l’examen de fond de la demande d’asile par l’Ofpra. Nous avons pris du café, nous sommes montées dans sa chambre, nous nous sommes assises sur son lit, dans une belle lumière de fin d’après-midi :

    La guerre entre l’Érythrée et la Somalie a fait beaucoup de morts. La guerre est bête. Nous vivons ici, eux vivent là-bas, et l’on décrète qu’il y a une frontière, là, et pour cette frontière, juste pour une ligne, on va s’entretuer, on va faire la guerre et tuer des milliers de gens. Pour cette ligne. Une frontière, c’est quoi ? Juste une ligne, rien de plus. La Somalie et l’Érythrée se sont disputées pour cette ligne, ils ont envoyé beaucoup de monde à la guerre, beaucoup de gens sont morts. Mes deux frères ont été envoyés à la guerre. Les deux : d’abord un, et puis ils sont venus chercher d’autres jeunes et ils ont pris le deuxième. Mes frères et sœurs avaient peur. On n’a eu aucune nouvelle. On ne savait pas où ils étaient : personne ne disait rien et les nouvelles non plus ne disaient rien. Il y a eu beaucoup de morts. Un jour, un train est arrivé, tout le monde est allé à la gare et l’on attendait les noms : ils lisaient une liste, et ceux qui étaient sur la liste, on savait qu’ils étaient morts. J’avais peur. J’ai attendu dans la peur et quand j’ai entendu le nom de mon frère, j’ai pleuré. Et je restais encore devant la liste. Et puis ils ont dit le nom de mon deuxième frère et je me suis évanouie. Les voisins m’ont ramenée à la maison. Mon père était très malade déjà à ce moment-là… Ah, ce ne sont pas des choses gaies. Excuse-moi, je t’ennuie en te racontant ces choses. Toi tu es ennuyée, mais moi ça me fait du bien, ça me soulage le cœur.

    On s’est dit au revoir en début de soirée. On s’est rappelées plus tard : je partais quelques semaines au Canada. Halima m’a souhaité bon voyage et m’a dit que si l’on ne se revoyait pas d’ici mon départ, elle me disait au revoir. Je suis passée à l’hôtel avant de partir, mais elle m’avait prévenue qu’elle ne serait sans doute pas là, parce qu’elles allaient, avec sa compagne de chambre, à l’Armée du salut pour chercher de la nourriture. Pas encore rentrée ? Déjà partie ? À mon retour du Canada en mai, j’ai appelé Pierre Gilles, du foyer Emmaüs, qui m’a amicalement donné le contact de la personne qui s’occupait de Halima à l’Aftam. Je l’ai appelé pour avoir des nouvelles ; il m’a dit un peu sèchement : « elle a disparu dans la nature ».

    #Confinement et #subjectivation

    Comment le contrôle frontalier fonctionne-t-il au quotidien ? Quelles fonctions garde-t-il dans une perspective à plus long terme de parcours dans le pays d’accueil ? Comment les gestions institutionnelles de la circulation produisent-elles de nouvelles façons de gouverner les non-nationaux, aussi bien « étrangers » qu’« apatrides » : ceux dont le lien à l’État et à la Nation est de fait suspendu ? Voici quelques questions qui se posent au regard des parcours esquissés. Chacun bien sûr entre dans ces apnées administratives avec son bagage : ses connaissances, ses résistances, ses références, ses ressources, ses peurs. Fereydoun Kian mesure deux mètres pour une centaine de kilos : il sera directement placé en garde à vue sans subir de tentative de renvoi sous escorte. Sylvie Kamanzi s’en tient fermement aux connaissances administratives qu’elle a développées au cours de dix ans d’exils successifs entre le Rwanda et la République Démocratique du Congo (RDC) : d’abord, ne pas laisser savoir que l’on est rwandaise ; ensuite, face aux extorsions et aux violences de la police, toujours refuser de se rendre à un interrogatoire et garder le silence. Ces leçons tirées de l’expérience la mèneront très vite à un malentendu indénouable avec l’administration et à son refoulement dans le premier avion du retour.
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    Si les personnes placées dans des centres de rétention administrative (CRA) pour les sans-papiers arrêtés sur le territoire français ont toutes fait l’expérience, quoique différente, d’une vie en France et souvent d’un parcours administratif10 , ceux qui débarquent des avions ne partagent aucune expérience commune. Il n’existe pas de seuil, même minimal, de connaissance partagée de la culture administrative nationale, de la culture matérielle globale qui prévaut dans les aéroports et les nouveaux centres aseptisés11 , des codes moraux et humanitaires de la démocratie occidentale12 ; pas de continent commun, de langue commune ni de formation politique identique. Comment comprendre l’expérience intime du maintien en zone d’attente en s’attachant à des situations et des trajets si variés, dont le vécu s’inscrit dans des grammaires culturelles, un univers symbolique, des savoirs pratiques différents ? Est-ce que le même mot de « maintenus » est suffisant pour conférer une situation commune à ce kaléidoscope d’expériences qui se croisent dans le temps court de la détention frontalière ?

    https://www.politika.io/fr/notice/prisonniers-du-passage-ethnographie-detention-frontaliere-france
    #frontières #rétention #détention_administrative #zone_d'attente #MNA #mineurs_non_accompagnés #disparitions #Guinée_Conakry #aéroport #Zapi_3 #Ofpra #asile #migrations #réfugiés #Croix-Rouge #Aftam_93 #police #violences_policières #Unité_nationale_d'escorte_de_soutien_et_d'intervention #UNESI #hébergement #logement #CRA #débouté #sans-papiers

  • Croix-Rouge suisse | Service de conseil en matière de visa humanitaire : évolution depuis 2013
    https://asile.ch/2017/05/04/croix-rouge-suisse-service-de-conseil-matiere-de-visa-humanitaire-evolution-20

    https://asile.ch/wp/wp-content/uploads/2017/05/humanitaere_visa_drei_jahre_fr.jpeg

    Depuis fin 2013, le Service de conseil en matière de visa humanitaire assiste principalement des ressortissants syriens dont la vie ainsi que l’intégrité corporelle sont menacées et qui souhaitent entrer légalement en Suisse. Depuis la suppression de la possibilité de déposer une demande d’asile auprès d’une ambassade, ces personnes n’ont d’autre choix que de solliciter […]

  • « #Panama_papers » : Mossack Fonseca abuse du nom de la #Croix-Rouge pour cacher de l’argent sale
    http://www.lemonde.fr/panama-papers/article/2016/04/10/panama-papers-mossack-fonseca-abuse-du-nom-de-la-croix-rouge-pour-cacher-de-

    « Comme les banques et les instituts financiers sont aujourd’hui tenus d’obtenir des informations sur les bénéficiaires économiques finaux, il est devenu difficile pour nous de ne pas divulguer l’identité de ceux de la Faith Foundation. C’est pourquoi nous avons mis en place cette structure désignant l’International Red Cross. Comme ça, c’est plus simple. »

    http://fr.wikipedia.org/wiki/Panama_Papers

  • @cdb_77 @unagi
    Ou les torchons & les serviettes !
    La suisse est aseptisée comme ses coffres forts et Jean-Henri Dunant.
    http://www.monde-diplomatique.fr/mav/119

    [...]

    Vendredi matin donc, ce sont des centaines de flics, certains cagoulés et armés jusqu’au dents, des agents de la mairie de Paris, de la préfecture, de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides, de l’Office Français de l’Immigration et de l’Intégration, d’Emmaüs, de la Croix-rouge , qui ont investit le lycée sur les coups de 5h du matin. Des bus étaient là pour emmener les habitant-es vers des centres d’hébergements, mais sans aucunes garanties sur leur emplacement, sur le suivit des démarches administratives, sur les conditions d’accueil.

    [...]
    http://lignesdeforce.wordpress.com/2015/10/25/lutte-des-refugiees-dernieres-nouvelles
    http://cqfd-journal.org/Lo-Nid-Biarnes#nh3
    #croix-rouge #p'tits-suisses #humanitaire #sans-domicile

  • Quelle #aide_humanitaire apporte l’Europe à la #Syrie ? - Bruxelles2
    http://www.bruxelles2.eu/2016/03/02/aide-humanitaire-apporte-lue-a-syrie

    L’arrivée de l’aide humanitaire dans les villes assiégées et ailleurs en Syrie est un des points clés de l’accord de Münich, avec la cessation des hostilités. Et l’aide humanitaire européenne (#ECHO) est sans doute ce qu’il y a de plus rôdé et de plus efficace dans le système européen.

    Combien l’Europe a offert à la Syrie ?

    L’#Union_européenne a décidé de mettre la main à la poche. L’Europe (le budget de l’Union européenne + celui des Etats membres) est le premier donateur en Syrie. Lors de la dernière conférence, à Londres le 4 février, les Européens se sont engagés ainsi à fournir plus de 3 milliards d’euros, multipliant par trois l’aide déjà proposée lors de la troisième conférence des donateurs, au Koweit le 31 mars 2015.

    De son seul budget, l’Union a décidé de débloquer 2,4 milliards d’euros sur deux ans : 1,1 milliard d’euros en 2016 et 1.3 en 2017. Un montant qui ira aux organisations humanitaires présentes sur place : agences des Nations Unies telles que le #PAM et l’#UNOCHA, ainsi que le Mouvement de la #Croix-rouge (Croissant-rouge syrien, etc.) et les #ONG.

  • La #Croix-Rouge internationale à court de liquidités | France info
    http://www.franceinfo.fr/actu/monde/article/la-croix-rouge-internationale-court-de-liquidites-729511

    C’est le président du CICR qui l’affirme : malgré les contributions records des Etats l’an dernier, le CICR connaît « le plus haut #déficit de son histoire ». Les besoins - et donc les dépenses - explosent, à cause des nombreux théâtres d’opérations...

    #humanitaire

  • La légende allemande du « retour heureux » des requérants d’asile

    La Croix-Rouge bavaroise publie sur son site une brochure imaginant le bonheur de rentrer au pays pour les enfants de requérants. Face à une pluie de critiques, la brochure est retirée.

    http://www.lacite.info/letrange-legende-allemande-du-retour-heureux-des-requerants-dasile

    #shameless_auto-promo... car je ne pouvais pas me taire !!

    #Croix-Rouge_bavaroise #brochure #asile #réfugiés #retour #renvoi #expulsion #Afghanistan #Allemagne #migration

    cc @reka