• [Talk From Homografía] #talk From Homografía #24
    https://www.radiopanik.org/emissions/talk-from-homografia/talk-from-homografia-24

    Nous discuterons de la question et de bien d’autres avec Hugo Mega, l’initiateur de Liminal qui a animé un workshop au dernier festival Homografía. Invité unique de cet épisode, Hugo est aussi le fondateur de Male Identities, un projet dédié à l’animation de conversations et d’ateliers autour de la #déconstruction du patriarcat, du conditionnement personnel et de la conscience incarnée.

    Hugo Mega, coach et thérapeute, Liminal

    Host, #musique : Prinzessin

    Réalisation, musique : Suzy Q

    #transformation #masculinité.s #coaching #musique,talk,déconstruction,transformation,masculinité.s,coaching
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/talk-from-homografia/talk-from-homografia-24_16599__1.mp3

  • #Search-and-rescue in the Central Mediterranean Route does not induce migration : Predictive modeling to answer causal queries in migration research

    State- and private-led search-and-rescue are hypothesized to foster irregular migration (and thereby migrant fatalities) by altering the decision calculus associated with the journey. We here investigate this ‘pull factor’ claim by focusing on the Central Mediterranean route, the most frequented and deadly irregular migration route towards Europe during the past decade. Based on three intervention periods—(1) state-led Mare Nostrum, (2) private-led search-and-rescue, and (3) coordinated pushbacks by the Libyan Coast Guard—which correspond to substantial changes in laws, policies, and practices of search-and-rescue in the Mediterranean, we are able to test the ‘pull factor’ claim by employing an innovative machine learning method in combination with causal inference. We employ a Bayesian structural time-series model to estimate the effects of these three intervention periods on the migration flow as measured by crossing attempts (i.e., time-series aggregate counts of arrivals, pushbacks, and deaths), adjusting for various known drivers of irregular migration. We combine multiple sources of traditional and non-traditional data to build a synthetic, predicted counterfactual flow. Results show that our predictive modeling approach accurately captures the behavior of the target time-series during the various pre-intervention periods of interest. A comparison of the observed and predicted counterfactual time-series in the post-intervention periods suggest that pushback policies did affect the migration flow, but that the search-and-rescue periods did not yield a discernible difference between the observed and the predicted counterfactual number of crossing attempts. Hence we do not find support for search-and-rescue as a driver of irregular migration. In general, this modeling approach lends itself to forecasting migration flows with the goal of answering causal queries in migration research.

    https://www.nature.com/articles/s41598-023-38119-4

    #appel_d'air #migrations #réfugiés #frontières #sauvetage #pull-factor #facteur_pull #chiffres #statistiques #rhétorique #afflux #invasion #sauvetage_en_mer #démonstration #déconstruction #fact-checking

    –—

    ajouté à la métaliste qui réunit des fils de discussion pour démanteler la rhétorique de l’#appel_d'air en lien avec les #sauvetages en #Méditerranée :
    https://seenthis.net/messages/1012135

    • Sur les #données et le #code qui ont servi à l’étude :

      We document the various data sources used in Table S1 in Supplementary Materials. Though most data sources
      are publicly available—with the exception of the Sabre data on air traffic, we are unable to upload our data set
      to a repository due to data-usage requirements and proprietary restrictions. The data that support the findings
      of this study are available from various sources documented in Table S1 in Supplementary Materials but restrictions
      apply to the availability of these data, which were used under license for the current study, and so are not
      publicly available. Data are however available from the authors upon reasonable request and with permission of
      the various third party owners of the data. The code to construct the data set and perform the various statistical
      analyses is available at https://github.com/xlejx-rodsxn/sar_migration

      https://www.nature.com/articles/s41598-023-38119-4.pdf

    • Migranti, il pull factor non esiste. La prova del nove in uno studio scientifico

      Attraverso l’uso di tecniche statistiche avanzatissime e del machine learning quattro ricercatori hanno incrociato migliaia di dati relativi al decennio 2011-2020 dimostrando che le attività di ricerca e soccorso, istituzionali o delle Ong, non fanno aumentare le partenze dai paesi nordafricani. Come sostenuto per anni dalle destre e non solo.

      Le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale non costituiscono un fattore di attrazione per i migranti, cioè non li spingono a partire. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports, dello stesso gruppo editoriale di Nature sebbene non si tratti della più nota e importante collega. Per la prima volta allo scopo di verificare l’esistenza di questo presunto pull factor sono state utilizzate tecniche statistiche particolarmente avanzate e sistemi di machine learning capaci di far interagire molte banche dati.

      I ricercatori Alejandra Rodríguez Sánchez, Julian Wucherpfennig, Ramona Rischke e Stefano Maria Iacus hanno raccolto informazioni sul decennio 2011-2020 provenienti da diversi ambiti – tassi di cambio, prezzi internazionali delle merci, livelli di disoccupazione, conflitti, condizioni climatiche – e le hanno usate per identificare i fattori che meglio prevedono le variazioni numeriche delle partenze da Tunisia e Libia. La loro attenzione si è concentrata su tre fasi che riflettono cambiamenti sostanziali di natura politica, legale e operativa del fenomeno analizzato: la vasta operazione di salvataggio messa in campo dall’Italia tra il 18 ottobre 2013 e il 31 ottobre dell’anno seguente, cioè Mare Nostrum; l’arrivo delle navi umanitarie delle Ong, a partire dal 26 agosto 2014; l’istituzione della zona Sar (search and rescue) libica e la collaborazione tra Tripoli e Unione Europea, dal 2017, in funzione anti-migranti.

      «Abbiamo comparato il fenomeno delle partenze prima e dopo l’inizio delle attività di ricerca e soccorso, il nostro modello predittivo dice che sarebbe andata allo stesso modo anche se le seconde non fossero intervenute», spiega Rodríguez Sánchez. Il modello è di tipo contro-fattuale: mostra cosa sarebbe successo modificando un certo fattore. In questo caso le operazioni Sar, che dunque non fanno aumentare le traversate.

      La forza del metodo statistico usato è di permettere di investigare non soltanto il terreno della correlazione tra due fenomeni, ma anche quello della presunta causalità di uno rispetto all’altro. La conclusione è che le navi di soccorso non sono il motivo delle traversate, o anche solo del loro aumento, ma esattamente l’opposto: costituiscono una risposta a esse. Sono altri i fattori che spingono le persone a migrare e rischiare la vita nel Mediterraneo, sono estremamente variegati e complessi, riguardano la povertà, la disoccupazione, le persecuzioni politiche, gli effetti del cambiamento climatico.

      Lo studio ha poi rilevato un altro elemento: la cooperazione Libia-Ue ha effettivamente ridotto le traversate, che dal 2017 sono state meno di quelle che si sarebbero dovute verificare secondo il modello predittivo. I ricercatori però avvertono che questo ha avuto un altissimo costo umano e che, in ogni caso, le politiche di esternalizzazione «non incidono sui fattori strutturali che influenzano un certo flusso e potrebbero forzare i potenziali migranti a seguire rotte ancora più pericolose». Se anche producono dei risultati in termini di deterrenza, insomma, ciò avviene esclusivamente a stretto giro, spostando il problema solo un po’ più in là.

      «Questa importante ricerca mostra a livello strutturale che le politiche di salvataggio, anche le più grandi e organizzate, non sembrano far aumentare le traversate. Noi stiamo indagando l’effetto puntuale: cioè se la presenza di singole navi Ong davanti alle coste libiche incida sulle persone che partono», commenta Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Villa nel 2019 ha pubblicato il primo studio scientifico che smentiva la tesi delle navi Ong come fattore di attrazione. Tra qualche mese uscirà un aggiornamento con una base dati molto più ampia. «Conferma quanto avevamo osservato quattro anni fa – anticipa Villa al manifesto – L’unica correlazione che abbiamo trovato riguarda i mesi più freddi: tra dicembre, gennaio e febbraio ci sono più partenze se le Ong sono in missione. Ma parliamo di numeri irrilevanti: lo scorso anno 300 persone sulle 50mila arrivate dalla Libia».

      La tesi del pull factor è nata nel 2014 quando l’allora direttore di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, Gil Arias-Fernández iniziò a sostenere pubblicamente che le navi di Mare Nostrum stavano facendo aumentare i flussi dal Nord Africa. In una Risk Analysis della stessa agenzia relativa al 2016 l’accusa è stata spostata sulle Ong, intervenute nel frattempo a colmare il vuoto lasciato dalla chiusura dell’operazione italiana. Da allora questa teoria è stata un cavallo di battaglia delle destre ed è tornata in voga dopo l’insediamento del governo Meloni. Lo scorso autunno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello degli Esteri Antonio Tajani, tra gli altri, hanno più volte citato un misterioso rapporto di Frontex che avrebbe ribadito lo stesso assunto per il 2021.

      Di quel rapporto non si è mai saputo nulla, ma ora abbiamo uno studio scientifico che smentisce il pull factor per l’ennesima volta. Intanto questa retorica ha influenzato le scelte dell’attuale esecutivo e anni di politiche migratorie basate sulla criminalizzazione delle Ong e sul disimpegno istituzionale dalla ricerca e dal soccorso davanti alle coste libiche. C’è da sperare che nuove ricercje facciano luce su quante vittime hanno causato simili norme e prassi, slegate da qualsiasi rapporto con la realtà e basate soltanto sulla propaganda.

      https://ilmanifesto.it/il-pull-factor-non-esiste-la-prova-del-nove-in-uno-studio-scientifico

      #propagande

    • Sea rescue operations do not promote migration, study finds

      Rescue operations do not incentivise migrants try to cross the Mediterranean, a recent study has found. Instead conflicts, economic hardship, natural and climate disasters, and the weather are reportedly key drivers of migration.

      Irregular migrant departures from the coasts of North Africa to Europe are not encouraged by search and rescue missions in the Central Mediterranean, a recent study has found. Instead, factors such as conflicts, economic hardship, natural disasters, and weather conditions drive migration.
      Rescue operations are not a ’pull factor’

      The study was published in Scientific Reports by an international research group led by Alejanda Rodríguez Sánchez from the University of Potsdam (Germany). The scientists looked at the number of attempts to cross the Central Mediterranean between 2011 and 2020.

      Through various simulations, the researchers tried to identify factors that can best predict changes in the number of sea crossings. The factors that they looked at included the number of search and rescue missions — both by state authorities and NGOs, as well as the currency exchange rates, the cost of international raw materials, unemployment rates, conflicts, violence, the rates of flight travel between Africa, the Middle East and Europe and meteorological conditions.
      Libya: Pushbacks reduced migration, increased human rights violations

      The study also looked at the increased activities of the Libyan coast guard since 2017, intercepting migrant boats and returning migrants to Libya. Researchers found that this had caused a reduction in the number of departure attempts and might have discouraged migration.

      The authors pointed out that, however, this has coincided with the reports of a worsening of human rights for migrants in Libya — particularly in the detention centers where migrants are being held after being stopped at sea.

      The researchers looked at migration on an “aggregate-level” and did not look at “micro-motives of migrants and smugglers”, they pointed out in the study. They recommended that future studies should do an in-depth analysis of the impact of search and rescue missions at sea on the decisions of individual migrants and human traffickers.

      https://www.infomigrants.net/en/post/50875/sea-rescue-operations-do-not-promote-migration-study-finds

  • Philippe Descola, Bruno Latour et Ramsès II - La Hutte des Classes
    http://www.lahuttedesclasses.net/2022/11/philippe-descola-bruno-latour-et-ramses.html

    (...) j’avais souligné à quel point les positions philosophiques de l’anthropologue Philippe Descola, tout en se gardant de l’assumer trop clairement, ouvraient la porte à un relativisme dévastateur. Et je tentais de montrer que la manière dont il abordait sa classification des «  ontologies  » (le terme lui-même est tout sauf innocent) suggérerait qu’il n’est pas de représentation du monde plus juste, ou plus fidèle, qu’une autre. Il suffit d’un peu de logique pour comprendre que cette position revient à affirmer que la réalité elle-même n’existe pas indépendamment de l’idée qu’on s’en fait – même si, une fois encore, P. Descola se gardait bien de tirer cette conclusion explicitement.

    Or, ce pas avait été franchi sans ambages par son collègue et ami Bruno Latour, qui vient de décéder et qui était considéré depuis longtemps comme un intellectuel majeur par de nombreux chercheurs en sciences sociales (je crois nos collègues des sciences expérimentales globalement beaucoup moins sensibles à sa rhétorique, pour des raisons assez évidentes).

    Parmi les nombreux écrits de B. Latour, il en est un qui possède le mérite d’être bref, relativement simple, et de permettre à tout un chacun de juger des fruits que porte son arbre. Il s’agit d’un article paru en 1998 dans La Recherche, sous le titre «  Jusqu’où faut-il mener l’histoire des découvertes scientifiques  ?  », où l’auteur explique en substance que Ramsès II n’a pas pu mourir de la tuberculose étant donné que le bacille n’a été découvert par Koch qu’au 19e siècle. Je renvoie tous ceux, incrédules, qui pensent que j’invente, que je caricature ou que je déforme ses propos, à l’article en question, en y relevant notamment ce passage  :

    Avant Koch, le bacille n’a pas de réelle existence. Avant Pasteur, la bière ne fermente pas encore grâce à la Saccharomyces cerevisiae. (...) Affirmer, sans autre forme de procès, que Pharaon est mort de la tuberculose découverte en 1882, revient à commettre le péché cardinal de l’historien, celui de l’anachronisme .

    (...) on peut, et on doit, tout autant s’interroger sur les raisons qui font que des positions aussi manifestement absurdes exercent une fascination sur une large fraction du monde intellectuel. Tout comme pour la religion, la persistance (ou la résurgence) d’idées aberrantes ou réfutées depuis longtemps ne peut s’expliquer que par des causes étrangères à leur force de conviction propre  : ces idées satisfont un besoin, et possèdent une fonction sociale.

    #Philippe_Descola #Bruno_Latour #relativisme_généralisé #idéalisme_philosophique

    • Citons le texte de Latour, qui, de mon point de vue, ne dit rien de bien méchant.

      Jusqu’où faut-il mener l’histoire des découvertes scientifiques ?
      https://books.openedition.org/pressesmines/170

      On peut croire que Ramsès II crachait déjà des bacilles de Koch en postillonnant contre Moïse ; on ne peut le savoir avec certitude qu’en le faisant venir au Val de Grâce.

      C’est ce que le journaliste de Paris-Match a si bien compris : 3 000 ans plus tard, « nos savants » rendent enfin Ramsès II malade et mort d’une maladie découverte en 1882 et diagnostiquée en 1976.

      L’an – 1000 se compose, par exemple, d’un Pharaon mort de cause inconnue, et, à partir de l’année 1976, d’un Pharaon mort de cause parfaitement connue. Toutes les années – 1000 produites « à partir » de 1976 vont comporter ce trait nouveau : un Ramsès II dont la bouche était remplie de bacilles de Koch.

      L’an – 1000, solidement ancré, grâce au Val de Grâce, dans la médecine moderne, comprend dorénavant et jusqu’à preuve du contraire, un bacille qui causa la mort de son plus célèbre Pharaon.

    • Je crois qu’elle sert – et là est la clé de son succès – précisément à ne servir à rien. Son utilité consiste à permettre à qui l’endosse de se perdre dans les infinies circonvolutions et dans les faux-semblants d’une prétendue profondeur, sans jamais l’engager à quelque confrontation que ce soit avec le réel. Elle sert, par essence, à prendre des poses.

    • Ramsès II à Paris :

      Sa momie, gravement endommagée par des parasites, avait besoin d’une sérieuse restauration. Les savants français ont été choisis pour en être les maîtres d’œuvre.

      Où l’on voit que « Bruno » ne voyait que ce qu’il voulait voir, puisque ce n’est pas la tuberculose qui amenait le pharaon à Paris mais une exposition et des parasites.

      Donc @lyco, tout comme il fait dire à James des choses qu’il ne dit pas, Nono le sacro-saint, fait dire à Paris Match des choses qu’il ne dit pas et tous les graphiques du monde n’y changeront rien, dans le passé ou le présent, quel que soit le moment de la découverte (ou redécouverte donc) de ses raccourcis expéditifs ravageurs.

      Ce ne serait pas bien méchant, si certains milieux, notamment artistiques et culturels, ne lisaient pas de travers en plus, ses idées ou leurs succédanés pour achever une dépolitisation encore plus grande de ces espaces sociaux, et finir par mettre sur le même plan des chamans et des laboratoires d’analyses médicales. Ou dire que les virus ne sont qu’une question de point de vue.

      https://www.lhistoire.fr/rams%C3%A8s-ii-%C3%A0-paris

    • mais aussi sans doute @supergeante qu’il a récemment remis en cause son relativisme généralisé en raison d’un contexte de catastrophe écologique. en venir, par exemple, à évoquer Schmitt pour ne défendre la nécessité de ne pas rester neutre dans un polythéisme des valeurs où le climatonégationnisme (comme le déni de la pandémie) aurait non seulement une existence mais une légitimité.

      le souci, pour s’en tenir à un pragmatisme des effets, c’est que la réception fait l’oeuvre (d’où l’utilité du papier de Jeanpierre), et que des artistes aux académiques, des journalistes aux révolutionnaires (LM et d’autres), ça baigne dans un brouet de confusion qui crée des conflits superflus et nuisibles au lieu d’orienter une écologie politique consistante (cf. encore, le déni de la pandémie, entre autres).

    • Y’a beaucoup de choses à redire sur Latour, c’est dommage d’aller l’asticoter sur Ramses (j’étais sûr que c’était déjà sorti sur ST, mais j’ai dû rêver). Pour moi ça se résume à : Un événement datant de -1000 a été écrit de plusieurs façons depuis ; en 1976 on a fait une découverte importante sur cet événement qui ne nous fera plus l’écrire de la même façon ; cette découverte ne doit pas pour autant justifier de tout réécrire rétrospectivement, au risque d’aplatir l’histoire et d’en faire perdre la dimension sédimentaire. Ca me semble assez banal comme propos.

      Quand il dit : Grâce à la science moderne on sait maintenant avec certitude que Ramsès 2 est mort de la tuberculose, le gars conclut : Latour ne tient aucun compte des faits, il se fout de la réalité. Je comprends pas…

      Alors y’a cette phrase citée qui vient du début du texte de Latour :

      Affirmer, sans autre forme de procès, que Pharaon est mort de la tuberculose découverte en 1882, revient à commettre le péché cardinal de l’historien, celui de l’anachronisme.

      L’important là-dedans c’est « sans autre forme de procès ». Bien sûr que les petits gènes du bacille de Koch n’ont pas attendu Koch pour avoir une existence matérielle. Ce serait en effet stupide de dire le contraire (et c’est pour ça que personne ne dit le contraire – vaut toujours mieux partir du principe que personne n’est stupide). Mais Latour rejette cette idée que l’action des scientifiques ne consiste qu’à lever le voile sur une réalité déjà là à côté de nous. Pas parce qu’il n’y a rien à côté de nous, mais parce que les scientifiques ne lèvent pas de voile – ils produisent des faits. Et c’est bien plus compliqué. (C’est d’ailleurs parce qu’il sait que c’est plus compliqué qu’il met en valeur la découverte scientifique faite au val de grâce - c’est aussi pour ça qu’il ne discute pas les faits scientifiques, qu’il fait confiance à l’institution et qu’il prône le recours positif à l’argument d’autorité, etc.) Et ces faits ont une histoire, etc.

      Bref, je vois pas où ça peut se résumer à « tout se vaut » ou « tout n’est qu’une question de point de vue ».

      Par contre je sais que sur seenthis y’a plein de critiques intéressantes de Latour (le Latour écolo dernière période), par exemple ce très bon texte de LM (j’arrange pas mon cas) : https://seenthis.net/messages/699971

      ... où d’autres, de Frédéric Neyrat ou Andréas Malm :
      https://seenthis.net/messages/492604
      https://seenthis.net/messages/772354

    • De même qu’il n’y a de visible qu’indexé à un point de vue, il n’y a de vrai qu’ancré dans des épreuves et dans les réseaux qui le soutiennent : il n’y a de vérité que conjonctive.

      Nous touchons ici au cœur du malentendu que Bruno Latour a suscité au cours de sa carrière, à savoir son « relativisme ». On le lui a reproché au point de le faire passer pour un mystificateur. Pourtant, loin de s’en défendre, il revendiquait ce relativisme – « le contraire est l’absolutisme », avait-il pour habitude de rétorquer. Le quiproquo était parfait : lui et ses détracteurs ne s’accordaient pas même sur la signification du terme « relativisme ».

      #Dominique_Linhardt, « No Sociology ! »
      https://revuepragmata.wordpress.com/les-numeros/6-2023

  • L’invention du Sahel, par Jean-Loup Amselle - Histoire coloniale et postcoloniale
    https://histoirecoloniale.net/L-invention-du-Sahel-par-Jean-Loup-Amselle.html

    Le #Sahel est une catégorie, comme toutes les catégories qui s’appliquent à l’#Afrique, ethniques et géographiques entre autres, qui semble aller de soi. Evoquant les famines et les sécheresses des années 1970, les révoltes et insurrections qui se produisent dans toute cette zone depuis des décennies, le Sahel est vu avant tout comme une terre dangereuse. Peut-être en va-t-il ainsi parce qu’il s’agit d’une catégorie instable, hybride, intermédiaire entre le désert et la savane, entre le nomadisme et la sédentarité, entre des populations « blanches » (Touaregs, Maures), des populations « rouges » (Peuls) et des populations « noires », entre l’animisme et l’islam. Impossible donc de définir de façon stricte ce qu’il en est du Sahel, de ses limites, de ce qui le caractérise en propre. Il s’agit d’une notion totalement arbitraire qui ne doit son existence qu’à la consolidation que lui ont fait subir un certain nombre de savants coloniaux et dans la foulée des écrivains et des cinéastes africains dont le plus célèbre d’entre eux est Mohamed Mbougar Sarr, lauréat du prix Goncourt 2021 pour son roman La plus secrète histoire des hommes. L’hypothèse de ce livre est donc que les problèmes de ce qui forme aujourd’hui le Sahel (en particulier la défaite de l’armée française) sont en grande partie le résultat d’une représentation figée de cette région géographique d’Afrique de l’ouest.

    #livre #colonisation

  • Janvier 2022, un "colloque" (soi-disant) est organisé par l’#Observatoire_du_décolonialisme et le #Collège_de_philosophie.
    Sont entre autres présents à ce "colloque" #Jean-Michel_Blanquer et #Thierry_Coulhon (patron de l’HCERES)...

    Titre du colloque « Après la #déconstruction : reconstruire les sciences et la culture »
    https://decolonialisme.fr/?p=6333

    Ci-dessous un fil de discussion à son propos.

    #Université : « L’#universalisme_républicain ne se décrète pas, il se construit »

    Dans une tribune au « Monde », soixante-quatorze universitaires expliquent pourquoi le colloque organisé par l’Observatoire du décolonialisme, les 7 et 8 janvier à la Sorbonne, constitue une caricature de son objet, car il conduit à observer pour ne rien voir !

    Tribune :

    L’#Observatoire_du_décolonialisme et le #Collège_de_philosophie organisent les 7 et 8 janvier, avec l’aval de #Jean-Michel_Blanquer, un #colloque à la #Sorbonne, intitulé « Après la #déconstruction : reconstruire les #sciences et la #culture » dont l’objectif affiché est de dénoncer l’« #ordre_moral » que la « “pensée” décoloniale », également nommée « #woke » ou « #cancel_culture », introduit dans le domaine éducatif en contradiction avec « l’#esprit_d’ouverture, de #pluralisme et de #laïcité qui en constitue l’essence ».

    Il s’agit, est-il précisé, de « favoriser la construction, chez les élèves et les étudiants, des #repères_culturels fondamentaux » et de « faire un état des lieux, aussi nuancé que possible ». Cette recommandation laisse perplexe lorsque l’on constate que les animateurs des tables rondes sont les intervenants et vice-versa, et la quasi-totalité d’entre eux membres de l’Observatoire. Il serait vain dès lors d’attendre #débat_contradictoire ou mise en perspective.

    On pourrait s’étonner de la participation annoncée du président de l’agence gouvernementale chargée d’évaluer la recherche dans l’enseignement supérieur, le Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES), dont dépend l’avenir des laboratoires de sciences humaines et sociales. On sait toutefois que la dénonciation du #wokisme, ou d’autres chimères comme l’« #islamo-gauchisme », est un cheval de bataille du ministre de l’éducation nationale comme de la ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche.

    Une #police_de_la pensée

    La caution quasi officielle apportée par le président du #HCERES à l’Observatoire du décolonialisme laisse-t-elle présager l’apparition d’une police de la pensée qui sanctionnerait toute recherche suspectée d’être contaminée par le prétendu wokisme ? Admettons, bien qu’il soit infondé, le postulat de réduction du #décolonialisme à l’idéologie woke et à la cancel culture.

    De quoi est-il donc question ? On sait que l’expression « #being_woke » s’est popularisée aux Etats-Unis dans la communauté afro-américaine tout au long du XXe siècle pour désigner une nécessité : celle d’être éveillé aux #injustices, principalement alors de nature socio-économique. Le slogan, repris par le mouvement #Black_Lives_Matter (« les vies noires comptent »), gagne en popularité avant d’être récupéré par les conservateurs américains pour le dénigrer et disqualifier ceux qui en font usage.

    C’est ainsi que s’impose #wokisme, lequel suggère l’existence d’un mouvement politique homogène chargé de propager l’#idéologie_woke. Il est d’ailleurs assez cocasse que la dénonciation de l’américanisation du débat s’accommode de l’importation (fautive) de mots américains.

    Les nouveaux inquisiteurs

    Désormais, le wokisme désigne péjorativement ceux qui sont engagés dans les luttes antiracistes, féministes, LGBT, etc. Sous couvert d’alerter sur le nouveau danger qui menacerait l’école républicaine, il s’agit de réprouver ceux qui dénoncent les #discriminations fondées sur la couleur et qui font un lien entre celles-ci et notre passé colonial et/ou esclavagiste.

    Dans la rhétorique réactionnaire des nouveaux inquisiteurs, on pratique une stratégie d’#éradication_lexicale visant à éliminer du vocabulaire des #sciences_sociales des termes tels que #racisme_systémique, #privilège_blanc, #racisation, #intersectionnalité, #décolonialisme, termes prétendument dénués de toute rationalité. A de nombreux égards, la querelle ressemble à celle de la #political_correctness (le #politiquement_correct) du début des années 1990.

    En effet, cette dernière fut avant tout, aux Etats-Unis, l’occasion d’une offensive des conservateurs et de l’extrême droite contre le pouvoir supposé des #minorités. En France, le terme désigne, dans la méconnaissance du contexte américain, un ensemble hétérogène composé de marxistes, de multiculturalistes, de féministes, de postmodernistes, etc., tous accusés, entre autres vices, de #puritanisme, de #censure, de #dictature_des_minorités.

    Le #cyberharcèlement moralisateur

    A l’inverse, celui qui se veut politiquement incorrect fonde ses jugements sur la #liberté_de_penser, la #rationalité, le #courage_intellectuel. Qui ne s’en réclamerait ? Quelle est donc la valeur d’une position qui rassemble tout le monde et chasse des fantômes ? La « #wokeness » doit en réalité être comprise comme une dynamique inhérente à la #démocratie et, au-delà, l’indice des manquements de celle-ci à ses principes fondamentaux.

    Le sort réservé à la cancel culture (#culture_de_l’annulation) illustre ce point de vue. Comme le wokisme, il s’agit essentiellement d’un terme polémique, lequel a servi, d’abord à la droite américaine puis aux néoconservateurs français, à disqualifier toute interpellation progressiste. Ses adversaires pensent que son invocation relève du tribunal populaire et s’accompagne nécessairement de #cyberharcèlement_moralisateur.

    Il convient plutôt de l’interpréter comme une modalité de la protestation à l’usage de ceux qui disposent du seul pouvoir de marquer leur indignation en dénonçant certains dysfonctionnements dont la société s’accommode si souvent. Peut-on réellement penser que la cancel culture exprime, comme l’écrivent sans vergogne l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, la tentation de faire « table rase du passé, de l’histoire, de l’art, de la littérature, et de l’ensemble de l’héritage civilisationnel occidental » ? Nuance, disent-ils ?

    Les choses commencent à changer

    Plutôt que des effets de la cancel culture, ne faudrait-il pas s’inquiéter de la culture de l’#impunité, laquelle préfère la #disqualification à la dispute argumentée ? Que les choses commencent à changer, nous ne pouvons que nous en réjouir et non redouter la « dictature des minorités ». C’est, au contraire, des droits de ces dernières que nous devrions nous soucier si nous voulons combattre la dérive droitière à laquelle les organisateurs, en invitant #Mathieu_Bock-Côté à s’exprimer, sont coupablement inattentifs.

    L’#universalisme_républicain ne se décrète pas, il se construit. Cela passe par la lutte contre les discriminations de classe, sexistes, homophobes ou ethnoraciales, comme contre les #préjugés racistes, antisémites et islamophobes, aujourd’hui de nouveau en vogue dans les espaces publics. Nier leur existence, c’est nuire gravement à l’idéal républicain.

    Les signataires de cette tribune sont : Nicolas Bancel, professeur ordinaire, université de Lausanne ; Gilles Bastin, professeur, Sciences Po Grenoble ; Hourya Bentouhami, maîtresse de conférences, université Toulouse-II-Jean-Jaurès ; Magali Bessone, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Pascal Blanchard, chercheur associé, CRHIM/UNIL Lausanne ; Philippe Blanchet, professeur, université Rennes-II ; Fabienne Bock, professeure émérite, Paris-XIII ; Gilles Boëtsch, directeur de recherche émérite, INEE-CNRS ; Olivier Borraz, directeur de recherche, IEP Paris ; Ahmed Boubeker, professeur, université de Saint-Etienne ; Michel Cahen, directeur de recherche émérite, IEP Bordeaux ; François Calori, maître de conférences, Rennes-I ; Philippe Chanial, professeur, université de Caen ; Sébastien Chauvin, professeur associé, université de Lausanne ; Christiane Chauviré, professeure émérite, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Catherine Coquio, professeure, Université de Paris ; Philippe Corcuff, maître de conférences, IEP Lyon ; James Costa, maître de conférences, université Sorbonne-Nouvelle ; Bruno Cousin, professeur assistant, IEP Paris ; Pierre Crétois, maître de conférences, université Bordeaux-Montaigne ; Martine de Gaudemar, professeure émérite, université Paris-Nanterre ; Thierry Deshayes, chercheur postdoctoral, université de Neuchâtel ; Stéphane Dufoix, professeur, membre senior de l’IUF, université Paris-Nanterre ; Estelle Ferrarese, professeure de philosophie, université de Picardie Jules-Verne ; Franck Fischbach, professeur, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Vincent Foucher, chargé de recherche, IEP Bordeaux ; Jean-Louis Fournel, professeur, université Paris-VIII ; Pierre François, directeur de recherche, IEP Paris ; Claude Gautier, professeur, ENS Lyon ; Jean-Christophe Goddard, professeur, université de Toulouse-II Jean-Jaurès ; Sophie Guérard de Latour, professeure, ENS Lyon ; Jacques Haiech, professeur honoraire, université de Strasbourg ; Abdelhafid Hammouche, professeur, université de Lille ; Stéphanie Hennette-Vauchez, professeure, Paris-Nanterre ; François Héran, professeur, Collège de France ; Philippe Huneman, directeur de recherche, IHPST ; Chantal Jaquet, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Nadia Yala Kisukidi, maîtresse de conférences, université Paris-VIII ; Stefan Kristensen, professeur, université de Strasbourg ; Sandra Laugier, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Jeanne Lazarus, directrice du département de sociologie, IEP Paris ; Olivier Le Cour Grandmaison, professeur, université d’Evry ; Patrick Le Galès, directeur de recherche, IEP Paris ; Claire Lemercier, directrice de recherche, IEP Paris ; Françoise Lorcerie, directrice de recherche émérite, université d’Aix-Marseille ; Pascal Maillard, professeur agrégé, université de Strasbourg ; Philippe Marlière, professeur, University College London ; Nonna Mayer, directrice de recherche émérite, IEP Paris ; Catherine Miller, directrice de recherche, université d’Aix-Marseille ; Yann Moulier-Boutang, professeur émérite, UTC-Alliance Sorbonne-Université ; Laure Murat, professeure, université de Californie à Los Angeles (UCLA) ; Christine Musselin, directrice de recherche, IEP Paris ; Etienne Nouguez, chargé de recherche, IEP Paris ; Janie Pélabay, chargée de recherche, IEP Paris ; Roland Pfefferkorn, professeur émérite, université de Strasbourg ; Alain Policar, chercheur associé, IEP Paris ; Clotilde Policar, professeure, ENS Paris ; Jean-Yves Pranchère, professeur, ULB Bruxelles ; Alain Renaut, professeur émérite, Sorbonne-Université ; Jacob Rogozinski, professeur, université de Strasbourg ; Diane Roman, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Laurence Rosier, professeure, ULB Bruxelles ; Emma Rubio-Milet, professeure agrégée, université Sorbonne-Nouvelle ; Haoues Seniguer, maître de conférences, IEP Lyon ; Réjane Sénac, directrice de recherche, IEP Paris ; Vincent Tiberj, professeur associé, IEP Bordeaux ; Julien Talpin, Chargé de recherche, université de Lille ; Fabrice Virgili, directeur de recherche, UMR Sirice/CNRS ; Tommaso Vitale, professeur associé, IEP Paris ; Albin Wagener, maître de conférences, université Rennes-II ; Patrick Werly, maître de conférences HDR, université de Strasbourg ; Aline Wiame, maîtresse de conférences, université Toulouse-II Jean-Jaurès ; Charles Wolfe, professeur, université de Toulouse Jean-Jaurès ; Geneviève Zoïa, professeure, université de Montpellier ; Valentine Zuber, directrice d’études, EPHE.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/05/universite-l-universalisme-republicain-ne-se-decrete-pas-il-se-construit_610

    #Blanquer #Thierry_Culhon

    –-
    ajouté à ce fil de discussion :

    Projet de #loi sur les #principes_républicains : le niveau des eaux continue de monter
    https://seenthis.net/messages/908798

    • Un vrai-faux colloque à la Sorbonne pour mener le procès du « wokisme »

      Vendredi 7 et samedi 8 janvier s’est tenu à la Sorbonne un #colloque éloigné des canons du genre, mais patronné par d’illustres visiteurs, dont le ministre de l’éducation nationale, qui a par ailleurs aidé à financer l’événement. « Épidémie de #transgenres », « soleil noir des minorités » : les formules ont fleuri pour qualifier la manière dont le #décolonialisme et les #études_intersectionnelles martyriseraient l’université française.

      Vendredi 7 janvier, il est à peine neuf heures, deux mondes s’affrontent aux portes de la Sorbonne. Dehors, étudiants et enseignants-chercheurs (soutenus par plusieurs syndicats, dont Solidaires, la CGT et l’Unef, ainsi que par le Nouveau Parti anticapitaliste) moquent « les paniques identitaires » et dénoncent un événement « réactionnaire ». Dedans, on se presse pour prendre place dans le prestigieux amphithéâtre Liard, pour deux jours de colloque sur la « déconstruction » et le « wokisme », afin de « reconstruire les sciences et la culture ». Plus de 1 300 personne se sont inscrites pour assister aux débats, la plupart suivront la discussion jusqu’à samedi en ligne, en raison du contexte sanitaire.

      En plus des agents de la Sorbonne, légèrement sur les dents, des jeunes du très droitier syndicat UNI (Union nationale universitaire) font le contrôle des passes sanitaires et des identités, sweat-shirts floqués à leurs couleurs sur le dos. Ce sont d’ailleurs quasiment les seuls étudiants présents, les cheveux blancs étant plutôt dominant dans l’assistance. Deux jeunes gens s’en plaignent auprès de l’un des intervenants : « Les étudiants ont eu peur de venir, c’est sûr, mais nous vous soutenons ! »

      Dans les travées, avant l’ouverture des travaux sur « la pensée décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », les discussions donnent un peu le ton : « Maintenant, si tu as un fils qui veut mettre une jupe, tu vas devoir lui dire “oui, peut-être”, se plaint un participant. Alors qu’il y a 30 ans, ça ne se faisait pas, et puis c’est tout. Aujourd’hui, tu es homme hétérosexuel le lundi, femme le mardi et tu te fais opérer le mercredi… » L’eurodéputé Les Républicains (LR) #François-Xavier_Bellamy tweete depuis la salle ses remerciements pour cette initiative « salutaire ».

      #Élisabeth_Lévy, éditorialiste vedette du magazine Causeur, distribue les saluts sonores, une journaliste prend des notes pour l’Incorrect. D’autres spectateurs ont tout annulé pour entendre en vrai de vrai #Mathieu_Bock-Côté, chroniqueur choisi par Europe 1 et CNews en remplacement de Zemmour. « Je l’adore, il est génial, non ? »

      Ils seront servis. Nombre des intervenants sont des chouchous de CNews et de FigaroVox, effrayés par la « dictature des minorités » : l’essayiste #Pascal_Bruckner, figure médiatique de ce courant néoconservateur qui a récemment publié Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc (Grasset, 2020) ; le dessinateur #Xavier_Gorce, qui a récemment quitté Le Monde après la « censure » de dessins jugés insultants ; #Pierre-André_Taguieff, qui a imposé le terme d’« islamo-gauchisme » dans le débat public et dont Nicolas Lebourg rappelait récemment dans Mediapart le rôle essentiel joué dans la dénonciation de l’#antiracisme comme « #nouveau_totalitarisme » ; ou encore le linguiste #François_Rastier, connu pour ses croisades contre l’#écriture_inclusive et les recherches sur le genre.

      Mais pour l’heure, la star du jour s’appelle Jean-Michel Blanquer, présent à la tribune en ouverture des travaux. Le ministre de l’éducation nationale remercie les organisateurs pour ce colloque sur un thème « si essentiel », « pour avoir eu le courage et la persévérance de l’organiser », et s’excuse par avance de la brièveté de son passage, « en raison de la crise sanitaire », mais il « devait être là, en Sorbonne ». Le ministre a même financé l’événement sur un fonds réservé. « Quand l’université ne soutient pas les universitaires, il faut bien qu’ils aillent chercher du soutien ailleurs », nous a répondu la professeure de littérature #Emmanuelle_Hénin, cheville ouvrière de l’opération.

      Un tel patronage n’a rien d’évident. Co-organisé par deux associations extra-universitaires controversées, l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, l’événement ressemble plus à une discussion savante – mais très politique – qu’à un colloque selon les canons du genre.

      Contactée par Mediapart, Sorbonne-Université a d’ailleurs tenu à préciser qu’elle n’avait rien à voir avec l’organisation, nous renvoyant vers la chancellerie des universités. Celle-ci, sous le patronage du recteur de Paris, propose en effet différentes salles du prestigieux bâtiment à la location pour des entreprises, des associations, autonomie des universités oblige…

      L’Observatoire du décolonialisme, fondé l’an dernier pour « mettre un terme à l’embrigadement de la recherche et de la transmission des savoirs » par « l’idéologie décoloniale », réunit des universitaires et des chercheurs, pour certains éminents dans leur spécialité, mais qui ont tous pour point commun de ne pas avoir de compétence particulière sur les sujets de sciences sociales dont ils parlent.

      Dans une tribune publiée le 5 janvier dans Le Monde, 74 chercheurs mettaient en garde contre une telle « caricature » : « Il s’agit, est-il précisé [dans ce colloque – ndlr], de “favoriser la construction, chez les élèves et les étudiants, des repères culturels fondamentaux” et de “ faire un état des lieux, aussi nuancé que possible”. Cette recommandation laisse perplexe lorsque l’on constate que les animateurs des tables rondes sont les intervenants, et vice versa, et la quasi-totalité d’entre eux membres de l’Observatoire. Il serait vain dès lors d’attendre débat contradictoire ou mise en perspective. »

      Enfin le Collège de philosophie, association loi 1901 pour le moins confidentielle, peut induire en erreur tant son nom est proche du Collège international de philosophie, une institution au rayonnement scientifique international, créée notamment par Jacques Derrida, le penseur de la déconstruction. Des intellectuels tels que Giorgio Agamben, Barbara Cassin, Jacques Rancière, Alain Badiou en ont assuré la renommée.

      Et alors qu’il sera tout au long de la première journée beaucoup question de #Derrida, pas un seul spécialiste connu de l’intellectuel n’est présent. « On parle de la #déconstruction, qui n’est pas la propriété de Derrida, justement pour montrer que c’est un concept dynamique, pas figé, qui est aujourd’hui réinterprété », justifie Emmanuelle Hénin. Certes, mais quand l’anthropologue #Albert_Doja saute en quelques minutes de la dispute intellectuelle opposant Jacques Derrida et Claude Lévi-Strauss sur la « leçon d’écriture » du célèbre ouvrage Tristes tropiques à… l’écriture inclusive, on s’interroge sur le choix du panel.

      Parmi les intervenants, mêmes approximations et parfois tromperies sur l’étiquette. #Sami_Biasoni, présenté comme philosophe, est un ancien trader en matières premières à la Société générale, ancien candidat aux municipales sur une liste dissidente de LR dans le VIIIe arrondissement de Paris, docteur en philosophie. Mais on ne lui connaît aucune publication scientifique. #Pierre_Valentin, également présenté comme philosophe, est en réalité « journaliste en formation », salarié depuis un an par FigaroVox. Il est l’auteur d’une note sur le « phémonène woke » pour la #Fondapol, « en deux volumes ». L’agrégé de lettres classiques et adjoint à l’urbanisme à la mairie de Pecq, #Raphaël_Doan, devient, dans cette présentation, « historien » et intervient sur la « cancel culture ».

      « Ce n’est pas un colloque scientifique, c’est une #réunion_politique, cingle Caroline Ibos, sociologue au département Études de genre à l’université Paris VIII-Vincennes-Saint-Denis. Ce n’est pas un problème d’ailleurs, encore faut-il le dire... C’est d’autant plus gênant que ces gens se drapent dans la neutralité axiologique et ne cessent de dénoncer les chercheurs qui confondraient la science et le militantisme. Le plus gros souci dans tout cela est la présence de Blanquer. »

      Le ministre de l’éducation nationale semble n’avoir cure de cette critique, vantant dans sa prise de parole « un événement intellectuel, scientifique » sur un sujet qui a « de grandes conséquences sociales, sociétales, civiques ». « Les Lumières font peur, il y a comme une haine de soi qui doit être identifiée, poursuit le ministre, avant d’appeler à « l’offensive » pour sauver « l’#universalisme pris en tenaille entre #revendications_identitaires de l’extrême gauche comme de l’extrême droite ». Il est vivement applaudi.

      « Ceci n’est pas un colloque », s’amuse le philosophe Pierre-Henri Tavoillot, co-organisateur, citant le peintre Magritte, alors que le ministre s’échappe, sous les huées du dehors. Pour présenter la première table ronde, consacrée aux « trois âges » de la pensée déconstructionniste, dont le « wokisme » et l’intersectionnalité seraient les enfants, il invite à réfléchir sur une période où « tout serait oppression, unique clé de lecture du monde contemporain ». L’historien #Pierre_Vermeren, spécialiste du monde arabe et auteur d’un livre récent sur la métropolisation du monde, estime que tout est sur la table depuis 60 ans, un seul « mot d’ordre intellectuel et politique » : retourner la #civilisation_européenne contre elle-même, le « verbe français contre lui-même ».

      Au fil des tables rondes et de la critique de l’intersectionnalité (concept visant, dans l’analyse sociologique et politique, à croiser les discriminations de classe, de genre ou encore de race au sens de construction sociale), l’ouvrier, le prolétaire, est régulièrement convoqué face au « soleil noir que sont devenues les minorités » (comprendre les femmes, les racisé·es, les personnes LGBTQ+), souvent par des personnalités pourtant peu connues pour leurs sympathies marxistes.

      #Pascal_Perrineau, politologue à Sciences-Po Paris, habitué des plateaux télévisés, critique ainsi une idéologie qui vise à déconstruire « toutes les catégories du réel et la démocratie représentative », et parle d’une « obscure oppression généralisée, par les hommes blancs hétérosexuels, qu’il faudrait déconstruire avec d’autant plus de vigueur qu’elle n’a pas l’évidence de l’oppression économique ».

      Il tacle au passage des membres du Centre de recherches politiques de Sciences-Po (#Cevipof), et notamment #Réjane_Sénac pour son livre L’Égalité sans condition. Osons nous imaginer et être semblables (Rue de l’Échiquier, 2019), avant de glisser, sous l’œil complice de l’assistance : « Vous voyez pourquoi je ne suis plus directeur… », après quand même 21 années passées à la tête du Cevipof.

      La prétendue mainmise des tenants de l’intersectionnalité, du décolonialisme ou des « #genderistes » sur l’université française, sous influence-nord américaine, est au cœur des discussions. Y compris sur les sciences dites dures, comme la physique ou les mathématiques. Le programme pour la mobilisation des #savoirs_autochtones dans l’étude de la physique, développé par l’université Concordia au Canada, provoque l’effroi (« Ils veulent décoloniser la lumière », moque #Bruno_Chaouat, spécialiste de littérature), alors que le mathématicien de Princeton Sergiu Klainerman dénonce dans une vidéo le débat autour du manque de diversité dans l’enseignement des mathématiques et d’un #biais_raciste.

      « Deux et deux ne font plus quatre », déclare t-on à la tribune. « Cela rappelle le moment Lyssenko, quand la science prolétaire devait remplacer la science bourgeoise, ou le moment Goebbels, quand la science devenait plus sensible à la race », ose Bruno Chaouat.

      Ces propos trouvent un écho bien au-delà du cénacle de l’amphithéâtre Liard. En juin 2020, Emmanuel Macron disait en privé que les universitaires sont coupables d’« ethnicisation de la question sociale » » et « cassent la République en deux », des propos proches des théories des mouvements du Printemps républicain et de Vigilance université, dont nombre d’intervenants du colloque sont proches ou membres.

      Jean-Michel Blanquer lui-même a parlé, visant à nouveau les universitaires, de « complicités » après l’attentat contre Samuel Paty en octobre 2020. Il y a un, an Frédérique Vidal déclenchait à son tour la consternation dans la communauté scientifique en annonçant vouloir diligenter une enquête sur « l’islamo-gauchisme » à l’université.

      Le CNRS, auquel cette embarrassante mission aurait été confiée, avait immédiatement répondu par voie de communiqué que la notion n’était qu’un « slogan politique » ne correspondant « à aucune réalité scientifique ». L’organisme avait par ailleurs mis en garde contre toute « instrumentalisation de la science », en précisant qu’il condamnait « les tentatives de délégitimation de différents champs de la recherche, comme les études postcoloniales, les études intersectionnelles ou les travaux sur le terme de “race”, ou tout autre champ de la connaissance ».

      Certains débats du colloque tentent de sortir de l’acrimonie, notamment sur la question de la place de l’étude de l’islam à l’université, avec les interventions moins directement polémistes du sociologue #Bernard_Rougier (lire ici son portrait dans Le Crieur) et du politologue #Arnaud_Lacheret, basé au Bahreïn.

      Mais les outrances l’emportent le plus souvent, dont celles de Pierre-André Taguieff, qui n’hésite pas à faire du « wokisme » un « #ethnocide de grande ampleur », ou de la sociologue de l’art #Nathalie_Heinich, qui parle « d’#abus_sur_enfant » en donnant les coordonnées d’une association luttant contre ce qu’elle nomme une « #épidémie_de_transgenres » favorisée par les enseignants de l’Éducation nationale.

      Le mélange des registres n’arrange rien puisque chacun y va de son histoire personnelle, de la journaliste #Claire_Koç au politologue #Vincent_Tournier, enseignant à l’Institut d’études politiques de Grenoble, où les polémiques s’enchaînent depuis neuf mois. Ce dernier, dans une table ronde intitulée « Il faut sauver Blanche-Neige ! Totems et tabous de la cancel culture », n’y est pas allé avec le dos de la cuillère.

      Relevant sous forme de blague la non-parité à la tribune (norme du colloque d’après nos observations), il disserte sur la censure dans le cinéma et fait rire en regrettant qu’une photo d’actrice nue soit peu visible sur le grand écran de la Sorbonne. « Vous ratez, messieurs, la meilleure partie du film ! » Puis, à propos de Blanche-Neige, il se demande benoîtement si le dessin animé n’est pas totalement « woke-compatible », puisqu’il met en scène des nains, et même le « quota handicapé, grâce à Simplet ».

      Aucune expression réellement discordante n’a eu voix au chapitre. « Nous avons essayé d’en inviter mais ils ne sont pas venus, par peur des réactions, explique Emmanuelle Hénin. Et d’ailleurs, quand il y a des colloques sur le colonialisme, ils ne nous invitent pas ! » Au moins trois chercheurs, dont le professeur de droit Olivier Beaud et le professeur de littérature Jean-Yves Masson, ont effectivement fini par décliner l’invitation devant l’absence de légitimité académique de certains des intervenants.

      « Quand l’Observatoire du décolonialisme a lancé son appel lors de sa création, ils ont été 77 à répondre, 30 professeurs émérites, donc des retraités, et 60 hommes, c’est un premier élément d’explication, remarque Caroline Ibos. Ce sont des gens qui ont été puissants, très puissants, et qui se trouvent confrontés à une perte de pouvoir car oui, l’université change, et les sciences sociales aussi. Nous, on fait notre travail de chercheurs, on dirige des thèses, on gère un laboratoire, on travaille beaucoup. Nous n’avons pas le temps pour ces bêtises. »

      Se poursuivant samedi 8 janvier, le colloque devait se clore par l’intervention de #Gilbert_Abergel, président du #Comité_laïcité_République, et plus surprenant, de Thierry Coulhon, président du très officiel Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES). Interrogé sur la critique concernant le manque de rigueur scientifique des intitulés et la composition des panels, ce dernier reconnaît « des formulations un peu flottantes et peu rigoureuses ».

      Pas de quoi faire renoncer Thierry Coulhon, ancien conseiller d’Emmanuel Macron sur l’enseignement supérieur : « Je ne suis pas là pour apporter une caution ou pour me faire instrumentaliser mais je trouve dangereux d’aller à des débats où l’on est d’accord avec tout le monde. Dans le milieu universitaire, on a intérêt à se parler. » Quitte à monologuer.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/080122/un-vrai-faux-colloque-la-sorbonne-pour-mener-le-proces-du-wokisme

    • Avec le hashtag #colloquedelahonte, Olivier Compagnon a fait un très bon live twitter :

      Voici le résumé du 1er jour du « colloque » :

      Colloque de la honte « Après la déconstruction », premier constat à 9h09 : les organisateurs n’ont pas encore déconstruit leur rapport au numérique puisqu’ils ne savent manifestement pas se servir de zoom.

      9h16 : il semble que ces collègues n’ont pas fait beaucoup d’enseignement à distance ou d’hybride pendant le confinement. Le zoom est désormais coupé.

      9h21, ça ne s’arrange pas. Le colloque de la reprise en main de l’enseignement supérieur et de la recherche est mal parti

      9h35, je renonce à ma rééducation intellectuelle puisque le zoom du #colloquedelahonte ne fonctionne pas. On ne dira pas que je n’ai pas essayé. Tout cela me laisse du temps pour lire

      Bon, je dois dire que je viens d’écouter 10 mn d’une introduction ânonnée. C’est nul et réac comme on pouvait s’y attendre, mais le pire est le niveau des commentaires sur le zoom. Un exemple : quand sont évoqués les risques pesant sur le latin, un gars écrit « le latin.e »...

      Si l’on entend bien les remerciements, le ministère de l’Education nationale a contribué au financement de ce #colloquedelahonte.

      Ah merde, tout est de la faute de la « pensée 68 » et un hommage est rendu à Luc Ferry pour ses analyses libératrices

      « Quelle est la domination la pire ? C’est ma domination, c’est pas la tienne ».

      Un peu de nostalgie avec Pierre Vermeren : tout ce bordel commence en 1962, avec l’indépendance de l’Algérie, qui met un terme à un grand projet d’expansion civilisationnel français et européen. Les origines de l’"effondrement politique et moral" contemporain

      Ah, il balance sur Hélène Cixous, c’est la transition vers la prochaine présentation sur « l’imposture Derrida ». Finalement, tout cela ne serait pas arrivé si on avait su garder l’Algérie.

      Bon, c’est dégueulasse, ça suffit.

      Ce #colloquedelahonte est addictif : j’y reviens après pris l’air. On parle d’hétéronormativité, de retour à une conception du savoir du XVIe siècle, ça n’a pas l’air de s’arranger.

      Là, ils font la pause, ils doivent être crevés après des débats d’un tel niveau. Surtout quand il s’est agi de comparer le « déconstructionnisme » à l’apparition de chaires sur la magie dans l’université.

      La bonne nouvelle, c’est qu’ils ne savent toujours se servir de zoom (11h59) et que le public zoom n’a rien entendu à la vidéo de Taguieff.

      La parole est désormais à Helen Pluckrose, cette journaliste britannique qui a envoyé à des revues scientifiques de faux articles sur la culture du viol chez les chiens. Quel casting !

      Comme c’est en anglais, le public zoom échange sur la qualité du son de sa vidéo. #colloquedelahonte

      On passe à « l’état des sciences humaines aux Etats-Unis ». Le mec dénonce « l’essentialisme stratégique » et n’aime pas trop les trans apparemment. Il lance aussi un parallèle entre « déconstructionnisme » et nazisme en s’appuyant sur Heidegger. Les digues sautent

      « Terrorisme intellectuel » : le mot est lâché, enfin ! Blanquer doit être content là. Le mec a dit « étudiantes femelles » aussi, mais s’est repris quand même

      La parole est désormais à un spécialiste d’équations différentielles. Beaucoup de mecs dans le casting, quand même, ce matin, non ? Le gars y va fort d’emblée : enjeu civilisationnel, avenir de l’humanité, etc.

      Un petit coup d’oeil aux commentaires du public zoom, ça détend.

      Le matheux, c’est un suprémaciste blanc. Applaudissements nourris, commentaire du modérateur parlant de totalitarisme.

      On parle désormais des « Science and Technology Studies ». La déconstruction, c’est « l’anti-science », c’est « la recherche d’un monde sans tragique ». Est mal à l’aise avec « science participative » et « science citoyenne » qui rappellent la « physique aryenne »

      Conclut sur la « soi-disant discrimination entre hommes et femmes ». C’est génial, ce #colloquedelahonte

      La parole à Christophe de Voogd, « normalien » (surtout de l’Institut Montaigne en fait), sur les usages du passé. Mépris pour les étudiants qui ne connaissent plus Marc Bloch. A dix minutes de parole, mais prend le temps de rappeler qu’il est agrégé

      « Si on oublie le puritanisme, on ne comprend rien au wokisme ». Tout se barre et en France on ne sait plus l’histoire, la sociologie est devenue dominante (celle de ce sale Bourdieu alors qu’on a oublié Boudon) « ah pardon chère Nathalie Heinich ».

      30 minutes de retard, ça n’en finit pas. Edward Said, cette peste. New York Times collabo. Séparer le grain de l’ivraie. Terrible défi. En gros, son idée de base est que les « déconstructionnistes » sont ignorants, ne connaissent pas les faits. Faiblard

      Ouf, ils vont manger. Sans doute un bourguignon plutôt que des tacos.

      J’ai fini mon poulet tikka (hommage à Dipesh Chakrabarty évidemment) et je piaffe en attendant la table ronde sur « Le retour de la race ».

      Gros programme cet aprem : race / islam / gender / cancel. Je vais me contenter de la race avec une table ronde composée de « témoins » et d’"experts". Ah, petit lapsus historique / hystérique en intro, très bon.

      « Vous me pardonnerez mes raccourcis ». Ben non...

      Bruckner explique (depuis les témoignages de J. Baker ou Baldwin) que, dans la France des années 40-50, les afro-descendants ou les gays ne subissaient aucune discrimination, aucune stigmatisation.

      « Le wokisme est une religion ». Les wokes infantilisent la communauté noire et, dans le même temps, reconstituent un nouveau racisme (anti-blanc). Le vrai problème aux US, c’est « la violence interne à la communauté noire » (sic).

      Si je comprends bien, les Noirs n’ont qu’à s’en prendre à eux-mêmes. Bien, Bruckner, bien. Personne n’a encore dit que la race était une construction sociale (ce qu’on commence à dire aux étudiants à tous les niveaux, non ?)

      Ah, belle conclusion : Tahar Bouhafs = nazi (dit moins brutalement, mais c’est ce qu’il a dit).

      Claire Koç prend la parole et a le mérite de préciser que son témoignage n’a pas valeur de généralisation. Etre français, c’est le vouloir, le prénom est fondamental. Bon c’est du Zemmour. Eloge de l’assimilation, on se croirait au milieu du XXe siècle

      « Je ne porte pas mes origines en bandoulière ». Métaphore mal maîtrisée ?

      « Français de souche »

      Voici le Québécois de CNEWS, qui va essayer de décrire « l’univers mental » du wokisme.

      n gros, il n’y a pas de privilège blanc mais le wokisme conduit à un racisme anti-blanc. Je trouve que ça tourne un peu en rond (sans compter que l’administration de la preuve c’est pas leur truc aux grands témoins)

      Gros niveau parmi le public zoom

      « L’éternelle question des révolutionnaires totalitaires », pas mal. « Je vais me tourner vers mes amis racisés pour me rééduquer dans une sorte de vigilance permanente de ma conscience » (éclats de rire dans la salle).

      « Le wokisme est une logique totalitaire ». Déjà dit ce matin, tu préparais ton émission de CNEWS, t’as pas pu assister ?

      La faute politique, c’est d’avoir dénationaliser comme dans le « woke Canada ». Le woke est un discours désormais dominant dans les universités, chez Microsoft, tout le monde s’est soumis. Il faut combattre le wokisme comme certains ont combattu le marxisme

      Eloge de la nation et des nationalismes donc, t’as bien choisi en allant chez CNEWS mec.

      Commence le débat. Bruckner dit que c’est la faute à la gauche et balance sur FI, le NPA, les Verts, etc. On ne peut pas continuer à soumettre le monde occidental à la vindicte ("l’Europe n’a pas inventé l’esclavage, mais l’abolition")

      il passe à la guerre d’Algérie : « Bouteklika a balancé sur la France génocidaire, il aurait mieux fait de s’en prendre à l’Empire ottoman ». Traduction : notre colonisation fut si douce, si civilisée

      « Exister en tant que Blanc, ce n’est plus qu’expier ». Bon, il a écrit le Sanglot de l’homme blanc en 1983 et le bégaye depuis. Vieillir est un naufrage, ça se confirme.
      Ah, de nouveau une attaque contre le New York Times

      « Le wokisme, c’est l’alliance d’une idéologie majoritaire dans les élites et le grand capitalisme ». Assia Traoré est ainsi l’émissaire de grandes marques. Hum, j’ai du mal à suivre la pensée là

      « Tous les Blancs ne sont pas interchangeables » : une pensée puissante du mec de CNEWS pour conclure la table. Applaudissements enthousiastes.

      La salle est à fond après cette table ronde

      e m’arrête là pour aujourd’hui. Y’a pas trop de quoi s’inquiéter tellement c’est faible, c’est une simple litanie depuis 9h du mat’. Faut juste éviter que ces gens-là ne gagnent définitivement la bataille médiatique. Celle des idées, ils ne risquent pas.

      Je ne me suis pas déconnecté assez vite, j’ai entendu l’intro sur l’islam par #Vincent_Tournier : « j’annonçais depuis longtemps les attentats et je remercie les frères Kouachi d’avoir en fait validé mon cours auprès de la direction de l’IEP ». BEURK

      https://twitter.com/CompagnonO/status/1479364600776859649

    • A la Sorbonne, un colloque pour « cancel » la « culture woke »

      Les deux journées de débats des 7 et 8 janvier s’inscrivent dans un conflit délétère qui dure depuis près de trois ans entre les chercheurs favorables aux études de genre ou dites « décoloniales » et ceux qui n’y voient que l’expression d’un repli « identitaire ». Le ministre de l’Education nationale, Jean-Michel Blanquer, pourrait y prendre part.

      Une table ronde sur les « dérives du déconstructionnisme ». Une autre sur « racialisme et néoracisme ». Mais aussi sur « le néoféminisme » ou la « cancel culture ». Tel est, en partie, le programme d’un colloque proposé les 7 et 8 janvier par le Collège de philosophie et qui se tiendra dans un amphithéâtre de la Sorbonne (1). Intitulés « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture », les deux jours de débat réuniront aussi bien des chercheurs en sociologie, en musicologie ou en linguistique que des polémistes conservateurs, comme le remplaçant d’Eric Zemmour sur CNews Mathieu Bock-Côté, des romanciers comme Pascal Bruckner et Boualem Sansal ou encore l’éditorialiste à Marianne Jacques Julliard et le dessinateur démissionnaire du Monde Xavier Gorce.

      L’événement promet de s’attaquer à « la ‘‘pensée’’ décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », « importée pour une bonne part des Etats-Unis » et qui « monte en puissance dans tous les secteurs de la société ». A vocation scientifique, les tables rondes prévues ne sont pas dépourvues d’enjeux politiques. La présence de Jean-Michel Blanquer est en effet annoncée au colloque. Le ministre de l’Education nationale « prononcera à cette occasion un mot d’ouverture », précise l’Observatoire du décolonialisme sur son site. Façon de donner l’assentiment du gouvernement aux débats qui s’y tiendront ? Contacté par Libération, le cabinet du ministre explique toutefois ne pas être en mesure de confirmer sa présence ce vendredi 7 janvier à la Sorbonne.

      Reste que l’intitulé des thématiques débattues durant ces deux jours converge assez nettement avec les obsessions du ministre de l’Education nationale, son « laboratoire de la République » pour lutter contre le « wokisme », et celles de sa collègue à l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal. Cette dernière a d’ailleurs tenu une nouvelle fois des propos polémiques le 15 décembre au Sénat en déclarant que des chercheurs étaient « empêchés dans leurs travaux ». Allusion à la prétendue « idéologie woke » et à la « cancel culture » qui séviraient, selon elle, dans les facs et les laboratoires français. Des suspicions qui peuvent apparaître en décalage avec la précarité étudiante, le manque chronique de financement de la recherche publique ou l’effondrement du nombre de doctorats en France.

      En conclusion de ces journées de discussions, une autre présence ne laisse pas d’interpeller la communauté scientifique. Celle de Thierry Coulhon, président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (Hcéres), nommé en octobre 2020 par Emmanuel Macron malgré une « apparence de conflits d’intérêts » selon le collège de déontologie de l’enseignement supérieur et de la recherche, et la contestation d’une large partie de ses pairs. « J’y vais car il est question de liberté académique, je n’ai pas l’intention d’être instrumentalisé et je ne partage pas les opinions de tous les intervenants, balaie le mathématicien de formation et ex-conseiller de Valérie Pécresse auprès de Libération. L’Hcéres n’est pas là pour dire si tel ou tel domaine de recherche est digne d’intérêt. » Et d’ajouter : « La frontière entre militantisme et science est très difficile à déterminer. La liberté académique, ce n’est pas l’opinion. »
      « Pluralisme éclairé »

      « Le principe de ce colloque, peut-on lire dans l’annonce mise en ligne, est de faire un état des lieux, aussi nuancé que possible, et d’envisager comment conserver au sein du monde scolaire et universitaire, les conditions d’un pluralisme éclairé. » A l’origine du raout entre universitaires et polémistes, des membres de l’Observatoire du décolonialisme, comme le maître de conférences en philosophie à la Sorbonne Paris-IV Pierre-Henri Tavoillot ou le maître de conférences en linguistique à l’université Paris-13 Xavier-Laurent Salvador. Nous les avons joints mais faute d’être tombés d’accord sur les termes d’un entretien portant sur le fond de ce colloque et les conditions du débat d’idées en général, ces derniers n’ont pas souhaité répondre aux questions de Libération dans le cadre d’un article. « Le but de ce colloque est d’ouvrir le débat ; pas de le clore », assure néanmoins Pierre-Henri Tavoillot au Figaro. « Si nous ne faisons rien, nous nous exposons à voir des textes expurgés ou censurés et, à moyen terme, des champs disciplinaires entiers remplacés par les “études culturelles” transversales qui ne reposent pas sur un savoir validé mais sur des préjugés militants », ajoute, toujours dans le Figaro, Emmanuelle Hénin, professeure de littérature française et coorganisatrice.

      Cette nouvelle séquence s’inscrit dans un conflit délétère qui dure depuis près de trois ans entre les chercheurs favorables aux études de genre ou dites décoloniales et ceux qui n’y voient qu’un dévoiement militant de la science, voire l’expres

      sion d’un repli « identitaire ». Depuis 2018, un nombre considérable de tribunes parues dans la presse n’ont cessé de mettre en garde contre « une stratégie hégémonique » du « décolonialisme » qui « infiltre les universités » et « menace » la République. S’il est indéniable que les recherches sur les minorités raciales ou sexuelles ont progressé ces dernières années, leur degré d’institutionnalisation demeure très faible. En France, il n’existe ni départements, ni laboratoires, ni doctorats d’études « décoloniaux » ou même « postcoloniaux ». Cela signifie qu’aucun poste n’est « fléché » comme tel, ce qui est pourtant le nerf de la guerre. Seuls quelques masters portent les mentions « études postcoloniales » ou « études sur le genre ». De même, les labos consacrés au genre sont rares, comme le Laboratoire d’études de genre et de sexualité en France, le Legs (CNRS), ou le Département d’études de genre, à Paris-8, décernant des doctorats.

      « Tous ces champs de savoir sont en réalité marginaux, menacés, minoritaires, sans cesse sommés de se justifier, avance Caroline Ibos, sociologue à la tête du Legs, auprès de Libération. Et les déclarations successives des ministres les fragilisent plus encore. » Quand ce n’est pas celles du président de la République en personne, lequel avait estimé en juin 2020 dans le Monde que les discours tenus par les universitaires reviennent « à casser la République en deux ». « Cette opposition schématique qui consiste à s’unir dans un ‘‘patriotisme républicain’’ ou n’être qu’un ‘‘séparatiste’’ est une manière brutale de disqualifier le travail des chercheurs en sciences sociales, selon l’historienne Michelle Zancarini-Fournel et le philosophe Claude Gautier, qui publient « De la défense des savoirs critiques. Quand le pouvoir s’en prend à l’autonomie de la recherche » (La Découverte). Rendre visibles les facteurs d’inégalité et de discrimination, ce n’est pas être idéologue. »
      Une intrusion du politique inhabituelle

      Cette bataille autour de l’objectivité d’une recherche aspirant à décrire une certaine réalité du monde social et son enseignement n’est pas sans répercussion au-delà des cénacles académiques et des réseaux sociaux. En jeu, le contrôle de la production scientifique et les menaces pesant sur la liberté académique. Comme cette décision, le 20 décembre dernier, du président de la région Auvergne-Rhône-Alpes Laurent Wauquiez, qui fut ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche de juin 2011 à mai 2012, de suspendre tout soutien financier à Sciences-Po Grenoble au prétexte d’« une dérive idéologique et communautariste ». Une intrusion du politique dans la procédure interne d’un établissement de recherche tout à fait inhabituelle. Ou cette tentative de la droite sénatoriale d’amender la loi de programmation de la recherche (LPR), votée en novembre 2020, afin de conditionner les travaux scientifiques au « respect des valeurs de la République ». Qualifié d’« ignoble » et d’« instrument de musellement du monde académique », par la rédaction d’Academia, composée d’universitaires, l’amendement en question sera modifié.

      Après la LRU en 2007, prévoyant que toutes les universités accèdent à l’autonomie budgétaire et de gestion de leurs ressources humaines, la LPR reste massivement décriée par la communauté scientifique. En cause, sa tendance à favoriser les thématiques financées par le secteur privé et à gommer les spécificités de la recherche française en promouvant un alignement sur les standards internationaux. « D’un côté, on justifie depuis la fin des années 90 des réformes au nom d’une autonomie et d’une internationalisation toujours plus poussée, relèvent Michelle Zancarini-Fournel et Claude Gautier. De l’autre, des membres du gouvernement, qui conduisent ces politiques, mobilisent des termes issus du débat états-unien et jamais bien définis (wokisme, cancel culture…), en étant soutenus par un certain nombre de polémistes, pour dénoncer une « américanisation » des universités au motif que leurs travaux seraient contraires à la tradition républicaine. »
      « Dérive civilisationniste »

      C’est ainsi au nom de la défense des principes républicains que Frédérique Vidal intentait, en février 2020, un long et médiatique procès en islamo-gauchisme à l’encontre de l’université en annonçant sur le plateau de CNews son souhait de commander une enquête au CNRS sur « ce qui relève de la science et du militantisme ». Le projet, condamné par le CNRS, n’a jamais vu le jour. Un mois après, l’Observatoire du décolonialisme fustigeait avec virulence la candidature de la politologue Nonna Mayer à la tête de la Fondation nationale des sciences politiques (FNSP). Un article non signé publié sur son site reprochait à la chercheuse spécialiste de l’antisémitisme, du racisme et du vote FN – qui verra sa candidature rejetée –, d’avoir contribué à « donner une caution scientifique à la notion d’‘‘islamophobie’’ ». En revanche, le texte apportait son soutien au candidat du « camp républicain », le politologue Pascal Perrineau, également présent lors du colloque sur l’« Après déconstruction… » à la Sorbonne.

      Au fil des mois et des montées en tension, l’attention se porte sur l’Observatoire du décolonialisme. Lancé fin 2020 et émanant d’un regroupement d’universitaires plus ancien appelé Vigilance universités, le collectif s’illustre par des publications au ton grinçant (« trans-LGBTQ + phobie des chimiothérapies anticancéreuses », « utérus-expertes », « ressource pédagogique branlante »…). On y trouve aussi, par exemple, un article consacré à l’« islamo-gauchisme » faisant référence dans une note – sans ironie cette fois – au pamphlet Eurabia (Jean-Cyrille Godefroy, 2006) de l’essayiste britannique Bat Ye’or, dont la thèse sur l’« islamisation de l’Europe » (un complot suggérant la soumission des pays européens de leur plein gré à l’islam) rencontre un fort écho à l’extrême droite. Une variante du « grand remplacement » de Renaud Camus qui a notamment inspiré le tueur norvégien Anders Breivik, auteur des attentats d’Oslo et d’Utoya en juillet 2011 ayant fait 77 morts.

      Une tournure qui a conduit la chercheuse et essayiste Isabelle Barbéris, elle aussi très critique à l’endroit des théories décoloniales, à prendre ses distances avec l’Observatoire. La maître de conférences en lettres et arts pointe auprès de Libération la « dérive civilisationniste » de la direction de ce qui s’apparente davantage à un « lobby médiatique » qu’à un groupe de travail. « La caricature des positions me semble discréditer une critique à laquelle doit être soumis n’importe quel champ de savoir, en particulier, quand ils commencent, comme les études de genre et le « décolonialisme », à connaître un écho médiatique important », souligne-t-elle. « On fait dans le pamphlet et dans l’ironie. Si on est réduits à sortir un observatoire qui a ce ton, c’est bien parce qu’on n’arrive pas à mener ce débat », se défendait dans le Monde le cofondateur de l’Observatoire du décolonialisme, Xavier-Laurent Salvador.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-un-colloque-contre-la-pensee-woke-et-la-cancel-culture-2022

    • Si ce n’est pas un colloque universitaire, qu’est-ce donc ?

      À propos d’un article paru dans

      Libération

      (voir ci-dessus) :

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-un-colloque-contre-la-pensee-woke-et-la-cancel-culture-2022

      Avec le temps, le journaliste Simon Blin est devenu un fin connaisseur des dissensus initiés il y a plus d’un an par le Manifeste des 100. Ce qui est devenu avec le temps le “danger du wokisme” a d’abord bénéficié d’une large couverture médiatique sous le nom de “islamo-gauchisme” et de “cancel culture” grâce à un accès inouï aux médias d’orientation (extrême-)droitière, comme Le Point ou CNews.
      Un nouvel épisode des relations entre le gouvernement avec l’université

      CNews a d’ailleurs accueilli Frédérique Vidal pour son chiffon rouge islamogauchiste, au moment où la Ministre était conspuée pour sa gestion de la crise alimentaire étudiante. Présenté comme un débat au sein du monde universitaire, c’est pourtant un phénomène initié par des responsables politiques : le Ministre de l’Éducation nationale en octobre dernier, à des fins de diversion de la calamiteuse gestion de son administration qui a conduit à l’assassinat de Samuel Paty, plusieurs mois après un ballon d’essai dans l’Express en décembre 2019 co-signé, entre autres, par le fondateur du Printemps républicain — feu Laurent Bouvet — et une ancienne membre du Conseil constitutionnel et actuelle présidente du Conseil des sages de la laïcité du Ministère de l’Éducation nationale — Dominique Schnapper1 . Le colloque « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture » organisé aujourd’hui et demain à Paris sous l’égide de trois associations — l’obscur Collège de philosophie2” :, l’Observatoire du décolonialisme et le Comité Laïcité République — officiellement à l’initiative de la professeure des universités Emmanuelle Hénin et les maîtres de conférences Pierre-Henri Tavoillot et Xavier-Laurent Salvador — représente ainsi une nouvelle étape dans une série de “déclarations successives des ministres [qui] fragilisent plus encore les [études de genre et les études postcoloniales] » (Caroline Ibos) quand il ne s’agit pas de celles du “président de la République en personne, lequel avait estimé en juin 2020 dans le Monde que les discours tenus par les universitaires reviennent « à casser la République en deux »,

      contrefeu incendié quelques jours après la magistrale démonstration de force des partisans et partisanes de la justice pour Adama Traoré, devant le Tribunal judiciaire de Paris.Le “colloque”, selon le nom donné par les organisateurs, représente ainsi un pourrait représenter le point d’orgue — nous dirons, optimistes, le chant du cygne — dans une attaque politique d’ampleur inégalée contre les universités.

      L’instrumentalisation des libertés académiques

      C’est bien un nouvel épisode des relations du gouvernement avec l’université qui va se dérouler les 7 et 8 janvier 2021. Le journaliste commente sujets et particpant·es de ce que nous appelerons, pour notre part, une manifestation.

      À vocation scientifique, les tables rondes prévues ne sont pas dépourvues d’enjeux politiques. La présence de Jean-Michel Blanquer est en effet annoncée au colloque. Le ministre de l’Éducation nationale « prononcera à cette occasion un mot d’ouverture », précise l’Observatoire du décolonialisme sur son site. Façon de donner l’assentiment du gouvernement aux débats qui s’y tiendront ? Contacté par Libération, le cabinet du ministre explique toutefois ne pas être en mesure de confirmer sa présence ce vendredi 7 janvier à la Sorbonne.

      Au programme, la présence de deux très hauts responsables non-élus interroge. Celle de Jean-Michel Blanquer 3, d’abord, pose question. Alors que le chaos règne dans les écoles comme jamais depuis le début de la crise sanitaire, et tandis que des centaines de milliers d’élèves passent des heures devant les pharmacies à attendre qu’on veuille bien les tester pour pouvoir retourner en classe, l’actuel Ministre de l’Éducation nationale préfère donc prendre de son temps précieux pour se rendre à un colloque polémique qu’aucun laboratoire de recherche ne cautionne.”. Il n’en faut pas douter : des liens peu académiques justifient l’invitation du Ministre, à moins que cela ne soit le Ministre lui-même qui en soit commanditaire. La tenue de la manifestation dans l’amphithéâtre Liard en est un indice supplémentaire4 : on ne dit pas suffisamment que cet amphithéâtre de la Sorbonne n’est pas un espace géré par une université, mais par une administration d’État, et plus précisément par la chancellerie de Paris, à la tête de laquelle a été nommée Christophe Kerrero — connu pour ne pas disposer du titre universitaire, et partant de la légitimité nécessaire pour accéder à ce poste —, un très proche collaborateur de Jean-Michel Blanquer depuis 2008.

      Simon Blin questionne également la présence du décrié président du Haut Conseil de l’évaluation de l’enseignement supérieur et de la recherche (Hcéres) Thierry Coulhon, qui s’est déclaré prêt à conclure le colloque dès décembre 2021. C’est le président du Hcéres — et non le “parent d’élève” qu’il prétend être parfois5 — qui répond à Simon Blin :

      « J’y vais car il est question de liberté académique, je n’ai pas l’intention d’être instrumentalisé et je ne partage pas les opinions de tous les intervenants, balaie le mathématicien de formation et ex-conseiller de Valérie Pécresse auprès de Libération. L’Hcéres n’est pas là pour dire si tel ou tel domaine de recherche est digne d’intérêt. » Et d’ajouter : « La frontière entre militantisme et science est très difficile à déterminer. La liberté académique, ce n’est pas l’opinion. »

      Thierry Coulhon n’a peut-être “pas l’intention d’être instrumentalisé” ; mais il est sûr, en revanche, qu’il instrumentalise l’autorité publique indépendante à la tête de laquelle il se trouve, et qu’il engage toute entière dans ce colloque en en prononçant les conclusions ès-qualités. Libre à Thierry Coulhon d’adhérer à titre personnel au projet politique d’associations comme le “Printemps républicain” ; mais doit-il pour cela emporter dans sa chute l’institution qu’il préside, et l’indépendance même de celle-ci ? Doit-il alors aussi associer le Hcéres aux méthodes de harcèlement qui caractérise cette petite communauté militante ?”6 ?
      Fermer les débats

      De fait, comme le suggère Simon Blin, l’objet n’est pas — contrairement à ce que le co-organisateur Pierre-Henri Tavoillot indique au Figaro — “d’ouvrir le débat”.

      À l’origine du raout entre universitaires et polémistes, des membres de l’Observatoire du décolonialisme, comme le maître de conférences en philosophie à la Sorbonne Paris-IV Pierre-Henri Tavoillot ou le maître de conférences en linguistique à l’université Paris-13 Xavier-Laurent Salvador. Nous les avons joints mais faute d’être tombés d’accord sur les termes d’un entretien portant sur le fond de ce colloque et les conditions du débat d’idées en général, ces derniers n’ont pas souhaité répondre aux questions de Libération dans le cadre d’un article. (Nous soulignons)

      Car Simon Blin n’est pas dupe. Selon le journaliste, est

      en jeu, le contrôle de la production scientifique et les menaces pesant sur la liberté académique. Comme cette décision, le 20 décembre dernier, du président de la région Auvergne-Rhône-Alpes Laurent Wauquiez, qui fut
      ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche de juin 2011 à mai 2012, de suspendre tout soutien financier à Sciences-Po Grenoble au prétexte d’« une dérive idéologique et communautariste ». Une intrusion du politique dans la procédure interne d’un établissement de recherche tout à
      fait inhabituelle. Ou cette tentative de la droite sénatoriale d’amender la loi de programmation de la recherche (LPR), votée en novembre 2020, afin de conditionner les travaux scientifiques au « respect des valeurs de la République ». Qualifié d’« ignoble » et d’« instrument de musellement du monde académique », par la rédaction d’Academia, composée d’universitaires, l’amendement en question sera modifié.

      C’est donc, si l’on suit le journaliste, une vraie continuité politique qui apparaît à la lecture du programme du “colloque” : celle, initiée par Valérie Pécresse — et son conseiller d’alors, Thierry Coulhon – avec la loi LRU, qui vise7 à mettre l’enseignement supérieur au pas, en commençant par réduire les budgets et en affaiblissant le statut protecteur de l’emploi universitaire. C’est sûr, le comité d’organisation du colloque d’aujourd’hui et demain relève moins d’un “groupe de travail” que d’un “lobby médiatique” (Isabelle Barbéris). Il s’agit ici de donner une nouvelle fraîcheur à une politique initiée en 2007, que peut-être certains souhaiteraient continuer sous la présidence à venir, aux relents islamophobes ou “laïques”8.

      On peut remercier Simon Blin de sa profondeur de vue et d’enquête. Elle répond en partie à la question posée par syndicats CGT et Sud de Sorbonne Université : ce colloque est-il universitaire ? De fait, la manifestation se place résolument hors du champ de la recherche : accueillie hors du territoire de l’université9, sans la caution scientifique de laboratoire de recherche — puisque la manifestation est organisée par trois associations —, l’événement réunit quelques universitaires peut-être, mais aussi des personnalités médiatiques, et notamment des membres éminent·es non élu·es de l’État, pour débattre de ce qui représente désormais une ligne politique bien identifiée10.

      S’il ne s’agit pas d’un colloque universitaire, de quoi s’agit-il donc ? D’un meeting dont la fonction est de peser sur une campagne présidentielle déjà nauséabonde.

      https://academia.hypotheses.org/33627

    • Sorbonne : ministre et intellectuels déconstruisent le « woke » lors d’un premier jour de colloque univoque

      Racialisme, nouveau féminisme, « cancel culture »… La première journée du colloque sur la question de la déconstruction, auquel participait Jean-Michel Blanquer, s’est déroulée dans une salle acquise aux orateurs et sans contradiction.

      « Un événement intellectuel. » Installé en Sorbonne, sous les plafonds dorés de l’amphithéâtre Liard où apparaissent les noms de Descartes et Pascal mais aussi le monogramme de la République française, c’est ainsi que Jean-Michel Blanquer a introduit ce vendredi matin les deux jours de colloque « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture ». Ces rencontres, qui ont suscité beaucoup de débats ces derniers jours, ont été présentées par leurs organisateurs – le Collège de philosophie, l’Observatoire du décolonialisme, le Comité laïcité république – comme un rendez-vous scientifique nécessaire pour clarifier l’affrontement entre eux (les universalistes) et les autres (les intersectionnels). A en croire Emmanuelle Hénin, professeure de littérature et coorganisatrice, le moment est marqué par l’« urgence de restaurer un espace de dialogue et de controverse scientifique ».

      Comme sur les murs de l’amphi, la science et la politique se rejoignent vite, dès l’ouverture des discussions. Son discours à peine entamé, Jean-Michel Blanquer revient à l’une de ses idées chères : en matière d’écologie, de féminisme, de lutte contre les discriminations, « il y a une vision “woke” de l’écologie et une vision républicaine. Lorsque nous lisons Elisabeth Badinter, nous ne lisons pas d’autres auteurs de moindre qualité. » Le ministre de l’Education nationale déclare même faire front commun avec les chercheurs réunis : « C’est sur un grand vide que les théories dont nous ne voulons pas ont pu avancer. » Pour le combler, il appelle à défendre l’universalisme, la raison et l’humanisme. « Face à tant de relativisme qui consiste à dire que tout se vaut, le bien, le vrai, le beau doivent en permanence être repensés. »

      Le relativisme ? Voilà l’ennemi ! Au cours de la journée, celui-ci prend plus d’un nom : « pensée “woke” », « enfermement “woke” », « religion qui distingue les élus des damnés ». Sans oublier le racialisme, l’antiracisme, le nouveau féminisme ou l’intersectionnalité. Pour embrasser les mille visages de ces menaces académiques, les intervenants préfèrent souvent le mot « déconstruction » – « pédanterie à la portée de tous », affirme l’historien des idées Pierre-André Taguieff – dont il s’agit d’abord de faire la généalogie.
      Etude des apories du déconstructionnisme

      Le philosophe et coorganisateur Pierre-Henri Tavoillot fait naître la déconstruction avec la philosophie moderne. Elle se révèle vraiment problématique avec « la pensée 68, où la déconstruction devient un processus sans fin ». Comprendre : où tout est toujours à déconstruire, sans débouché… constructif. Pour lui, le fonctionnement actuel de la déconstruction suit cinq étapes : tout est domination (1), l’Occident représente l’apothéose de cette domination (2). La décolonisation n’a en fait pas eu lieu (3) : il faut donc se réveiller (« woke »), sortir de l’illusion que tout va mieux (4). Resterait à passer de la théorie à la pratique : une fois éveillé, il faut annuler (« cancel culture », 5). Parmi les intervenants, l’hypothèse est volontiers acceptée.

      La matinée poursuit l’étude des apories du déconstructionnisme. Le professeur de sciences politiques Pascal Perrineau déplore une conception où « le lieu politique serait un lieu de projection de dominations en tous genres. A la figure du prolétaire ont succédé d’autres figures de victimes : femmes, immigrés, racisés, minorités homosexuelles », oubliant les vertus de la démocratie représentative (développées un peu plus tard par le philosophe Pierre Manent). « Dans le combat politique et culturel, le “wokisme” donne un avantage à l’accumulation du capital victimaire par les mouvements intellectuels et politiques. » La référence au vocabulaire marxiste n’est pas anodine : les chercheurs présents insistent sur les liens avec le communisme et ses échecs au cours du XXe siècle, comme la romancière et enseignante Véronique Taquin, ou le philosophe Pierre-André Taguieff : « Le “wokisme” est la dernière version en date de la grande illusion communiste », dit-il. Alors que la révolution prolétarienne se proposait de détruire la société capitaliste pour réaliser universellement l’égalité, le « wokisme » se fixerait désormais rien de moins que l’objectif de « détruire la civilisation occidentale en commençant par criminaliser son passé tout entier ».

      Après cette vue d’ensemble, les tables rondes suivantes passent en revue les « domaines d’application du “wokisme” » : la race, l’islam, le genre et la « cancel culture ». L’occasion pour l’essayiste Pascal Bruckner d’affirmer que « le “wokisme” constitue un nouveau racisme » par sa propension à ramener les individus à leur couleur de peau : « Plus on assimile les gens à leur épiderme, plus on les enferme dans une idéologie qui n’est pas sans ressembler beaucoup à l’idéologie coloniale. » Lors de ce passage en revue alternent de façon pas toujours claire des exposés de chercheurs (Bernard Rougier, Thibault Tellier…), et des interventions plus proches du témoignage comme celle du politologue Vincent Tournier, professeur à Sciences-Po Grenoble, qui a vu son nom affiché sur les murs de l’école l’an passé, au moment d’une polémique liée à l’emploi du terme « islamophobie » dans l’intitulé d’un colloque.

      Absence de moments de questions

      Evidemment, une parole manque aux échanges : celle des « wokistes déconstructeurs » dont les approches sont critiquées à longueur d’interventions. Dans la salle, on reconnaît quelques visages de chercheurs qui pourraient s’en réclamer : l’absence de moments de questions ne leur permettra pas de tenter la controverse, dans une salle bien remplie et de toute façon visiblement acquise aux orateurs. « Cancel culture » appliquée aux “woke” ? Presque. Très en verve, le sociologue et chroniqueur à CNews Mathieu Bock-Côté entre dans la tête d’un « woke » : « un voyage en folie » pour expliquer « comment, pour les woke, l’universalisme est le vrai racisme ». Il y explique que pour eux, la suprématie blanche serait dissimulée derrière la référence à l’universalisme, qu’il faudrait donc combattre pour faire ressortir les mécanismes de domination. Conclusion : « Pour nous [les blancs], exister, c’est expier ad vitam aeternam. » Rires et applaudissements fournis.

      https://www.liberation.fr/resizer/OQVJ9QPoDLjG2pg3SZUZrY863xI=/1440x0/filters:format(jpg):quality(70)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/6CB7GIEQ7JAI3HWG6EY52MMLJE.jpg

      Aux abords de la salle, la présence d’une caméra de télévision suscite un moment de confrontation entre des étudiants (de divers collectifs, dont l’Unef et Solidaires) qui ont déployé une banderole « Combattons la banalisation de l’islamophobie », et d’autres qui portent des sweats du syndicat de droite UNI. C’est là qu’a lieu la controverse, et pas dans l’amphi Liard, où la déconstruction du déconstructionnisme s’opère en un long sermon… au pied un immense tableau de Richelieu, lui aussi présent sous les lambris dorés.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-ministre-et-intellectuels-deconstruisent-le-wokisme-2022010

    • Live twitter du J2 du #colloquedelahonte, par Olivier Compagnon :

      1/ #colloquedelahonte, J2, ou comment flinguer son samedi. Journée consacrée à la « reconstruction ». Des moments forts sont attendus comme on attend la finale du 100m aux JO : ainsi le dialogue Anceau/Heinich vers 10h30 ou les conclusions du Grand Timonier de l’@Hceres_ vers 16h30

      2/ Mais ne sous-estimons pas certaines tables rondes qui pourraient sembler plus anodines comme celle de 14h30 intitulée « Des noires, des blanches, des rondes : la musique pour tous ». J’imagine d’ici les rires gras quand ils ont trouvé le titre.

      3/ 9h31, un peu de retard, mais on comprend, c’est toujours dur de bosser le samedi matin

      4/ C’est parti, mon kiki. « Première belle journée de travail ». « Nous sommes présents en Sorbonne ». « Nous étions hier 600, 200 dans l’amphi et 400 par zoom », mais un peu déçus par le public du matin (80 dans l’amphi)

      5/ Anceau sera un président de séance « intransigeant », tu m’étonnes... La parole est à D. Schnapper, qui célèbre l’excellente qualité de la journée d’hier. « Dévoiement des SHS et de la démocratie », le ver était dans le fruit avant 68 à cause des Soviétiques

      6/ On a trop oublié Weber (pas les barbecues, le sociologue). Dans la pensée woke, le vote et les institutions n’ont plus de sens, tout ça va finir comme le nazisme et le communisme. Hommage à Laurent Bouvet, dénonciation de la gauche bien pensante

      7/ Rémi Pellet (juriste) prend la parole, dénonce la mollesse de Vidal et milite pour des sanctions contre les universitaires islamogauchistes. Là ça se durcit nettement

      8/ Je me demande s’il ne confond pas reconstruction et épuration, là.

      9/ Revient sur « l’affaire de Grenoble ». « Notre ami PRAG de Grenoble » injustement attaqué et mal protégé par l’institution. Balance sur Vidal, lâche, et « attend sereinement sa mise à pied ». Balance sur FI et célèbre Blanquer.

      10/ « Même François Hollande n’a pas pu tenir une conférence à Lille en 2019 ». Une impunité inacceptable. Dénonce les jurys de thèse et d’HDR qui deviennent wokistes comme ils furent marxistes-léninistes. Termine par un hommage à l’ami de Grenoble.

      11/ Adrien Louis, philosophe. Plaide pour la remise en circulation d’une vieille notion, celle d’amitié civique. Délitement du vivre ensemble, séparatisme, offensive islamiste, nécessité d’une défense de l’identité nationale. Pffffffffff

      12/ Le public a du mal à démarrer

      13/ Célèbre Blanquer sur les femmes voilées dans les sorties scolaires. « Notre souhait que le dissemblable soit un peu plus semblable à nous ».

      14/ Tarik Yildiz maintenant, auteur d’un essai sur le racisme anti-blanc. Le niveau baisse car on adapte le niveau d’exigence à son auditoire, à l’école notamment.
      Déplore la critique permanente et systémique de ce qui fait notre pays. Bon...

      15/ « On n’impose plus de cadres clairs à l’école ». Les profs sont clairement des acteurs-clés de la décadence dans son esprit, mais le ministre actuel travaille à corriger le tir. Parle du fromage « Caprice des Dieux », je ne suis plus du tout là...

      16/ Parle des grossesses et des carottes très bonnes pour le foetus, je décroche complètement... « Pour conclure, il est essentiel de faire réfléchir ». « Un universitaire, ce n’est pas la même chose qu’un élève en 6e, enfin j’espère ». Pas bien réveillé, le gars

      17/ Anne-Marie Le Pourhiet, juriste. Reprend en gros la perspective du juriste d’avant : tous les outils juridiques existent pour réprimer les dérives, mais les pouvoirs publics sont lâches et ne les utilisent pas. Hum, ça craint...

      18/ La liberté académique comprend autant de devoirs que de droits. En gros, l’ESR doit diffuser « le savoir et la vérité ». Or les wokistes n’entrent manifestement pas dans le champ du savoir et de la vérité, comprend-on.

      19/ Il résulte de tout le corpus normatif existant que les universités ont les moyens de réprimer ceux qui érigent des contre-vérités en dogmes. Les instances de validation et de recrutement ne sont pas à la hauteur. Voilà voilà.

      20/ Il se confirme donc que la reconstruction commence par l’épuration. Exemple d’une thèse sur le privilège blanc dans les crèmes solaires, superbe ! Le CNU est complice, l’Europe aussi d’ailleurs.

      21/ « Il ne s’agit pas pour nous de censurer ». Ah bon, j’avais compris le contraire. La puissance publique est largement complice. Scandalisée par le fait que la loi dise que l’ESR contribue à la construction d’une société inclusive...

      22/ Cite avec dépit article 2 de loi Taubira sur traité négrière et esclavage, le législateur est complice des décoloniaux, il s’égare et se contredit. Ce sont des lois liberticides.

      23/ « Cheval de Troie intersectionnel particulièrement liberticide ». Balance sur les référents égalité dans les labos qu’elle appelle (je crois, elle parle vite) des « commissaires à la genritude ».

      24/ Balance aussi sur l’écriture inclusive que les autorités publiques ne se donnent pas les moyens de prohiber. Regrette dans sa fac de droit « des recrutements qui n’auraient pas dû être ». Ah, elle célèbre le Québécois de CNEWS

      25/ « Fake science » en conclusion, applaudissements pour cette présentation « à la fois vigoureuse et rigoureuse ».

      26/ Le débat commence. « Eviter la victimisation permanente », « les musulmans ont fait plus de victimes par l’esclavage que les Européens ». « Convergence des luttes entre nos islamogauchistes et l’islam, mais nos amis LGBT que deviendraient-ils s’ils traversaient la Méditerranée ? »

      27/ « Moi des droits des femmes c’est pas mon truc ». Il va falloir faire une compilation des meilleures punchlines

      28/ « Lavage de cerveau » intersectionnel à l’Université Laval du Québec à partir d’une petite anecdote sur une thèse, ça rigole dans la salle, « je dirige une thèse, pas un tract ».

      29/ Y’a une pause apparemment, ça fait du bien. Je ne vais évidemment pas tenir toute la journée.

      30/ Un public hétérogène

      31/ C’est parti pour la table ronde très attendue. « Histoire pâte à modeler », ça démarre bien. Un oubli sur la table précédente : « on ne va pas commencer à dénoncer nos collègues qui regardent les étudiantes au physique agréable » (en gros)

      Nathalie Heinich. Attaque directement sur la nécessité d’une nouvelle instance de contrôle de la production scientifique, mais se défend d’être maccarthyste. « On ne doit pas pouvoir professer que la terre est plate ou qu’il y a un racisme d’Etat ». Elle est en forme

      33/ @EHESS_fr, nid de gauchistes où l’on invite des indigénistes. C’est pas moi qui dis, évidemment, c’est Heinich. Ah ah

      34/ Déplore confusion entre liberté académique et liberté d’expression. Pour éviter les dérives, « l’arène académique devrait rester imperméable à la société civile ». Pas de professionnels, pas de militants, pas d’artistes à l’université

      35/ Ni Dieudonné ni R. Diallo dans les universités. Exclure aussi les étudiants de l’orbite de la liberté académique car, en gros, sont déb. Nécessaire durcissement des évaluations, se réjouit d’ailleurs de la présence de Coulhon en conclusion du colloque.

      36/ Je fais Anceau et j’arrête ensuite. Il a publié 26 livres, je ne sais pas comment il fait perso...

      37/ « La société patriarcale, européenne bien sûr, a opprimé les femmes, colonisé les peuples, etc... » Très en forme également. La déconstruction fait de la morale et refuse l’objectivité du savoir. wokisme = stalinisme. On invente des personnages, on en efface d’autres

      38/ « Il n’y a pas d’éternisation du passé », il faut contextualiser, la cancel culture écarte les sources gênantes. Encore les arabo-musulmans et l’esclavage, ça devient lourd

      39/ Déboulonnage des statues, vandalisme, effacement de Jefferson du hall de la mairie de NY, tralalalalalalala. Je rappelle que ce gars qui ne veut pas confondre militantisme et université a longtemps léché les pieds de Dupont-Aignan

      40/ « L’historien qui se veut objectif ». Conclut « confiance et vigilance ». Faut-il renoncer à Auguste Comte parce qu’il était misogyne ?

      41/ Un gros problème technique avec la vidéo de François Rastier, c’est con.

      42/ Je suis un peu perdu dans le casting, mais cette comparaison entre le mouvement woke et l’heroic fantasy en intro me semble très porteuse. Univers imaginaire, monde parallèle. Comme tous les autres, il dénonce le woke mais on ne sait jamais qui, quoi, etc

      43/ Venons-en à l’islamophobie. « Les tenants de... », mais qui ? Personne ne source son propos. C’est vague, c’est flou, c’est fantasmatique, c’est nul. Allez PAUSE

      44/ Encore une demi-journée pénible qui se profile avec le #colloquedelahonte, mais elle sera conclue en apothéose par Thierry Coulhon vers 16h30. Pour supporter cela, je concède avoir ouvert une bouteille de vin. Quelle autre solution pour supporter le tragique de l’existence ?

      45/ C’est un Carmenere chilien, en hommage à #gabrielboricpresidente qui a démontré que d’autres voies étaient possibles dans un pays qui fut le berceau du néolibéralisme autoritaire.

      46/ Je n’aurais pas dû ouvrir cette bouteille, je commence à penser à ce que peuvent bien écouter comme musique Éric Anceau ou Pierre Vermeren quand ils rentrent chez eux le soir.

      47/ C’est parti avec un peu de retard, on commence avec la table ronde « Des noires, des blanches, des rondes : la musique pour tous ». Remerciements pour « le jeune technicien très compétent » et son sens de l’improvisation, c’est sympa

      48/ La question structurante de la table : pourquoi les études musicologiques et la musique sont aussi touchées par le wokisme ? On commence avec Catherine Kinzler, qui a notamment bossé sur théâtre et opéra à l’âge classique.

      49/ Va parler de la culture de l’expiation dans les études musicologiques. « Jusqu’à la notation musicale est soupçonnée de racisme ». Est désormais à l’oeuvre « une épuration culturelle ».

      50/ Part d’une anecdote concernant une société musicale US qui favorise l’inclusion de groupes minoritaires et promeut un « décentrement de la blancheur ». Procédé d’"épuration culturelle" (bis) qui repose sur une « culpabilisation » selon notre intervenante

      51/ « Inquisiteur », « procureur extra-lucide », « rééducation », « sommations sans appel », « nombrilisme pleurnichard » : il y a une grammaire de la réaction intellectuelle. Ah, Staline le retour

      52/ « Se figer dans un rôle de victime ou celui d’un coupable plein de contrition », etc : c’est toujours la même chanson (si je peux me permettre)

      53/ Dania Tchalik, pianiste né en URSS, prend la parole et va parler « du wokisme avant le wokisme » (mon fils de 18 ans vient d’entendre cette phrase en passant, on a un fou rire)

      54/ Tiens, Jack Lang en prend pour son grade : avec lui, l’action publique culturelle devient consommation de masse, symbole de la Fête de la Musique. Référence à ce grand progressiste que fut Marc Fumaroli.

      55/ « Vulgate bourdieusienne fossilisée », « anti-intellectualisme », on n’enseigne plus le solfège ma bonne dame. N’a pas l’air d’aimer la gauche, dit le mot avec dégoût. Il est spécialement gratiné, lui

      56/ (La technique zoom n’est pas encore complètement maîtrisée). Il n’y a plus de professeur de musique ni d’enseignement, on veut tout faire venir de l’apprenant. « De ce pédagogisme découle un sociologisme ».

      57/ La musique classique n’est plus honorée car vue comme une musique de riches, « de mâles blancs pourrait-on dire ». « On en est pleine idéologie totalitaire ».
      Typiquement woke, nous dit-il encore, la réduction de l’oeuvre à la biographie de son auteur.

      58/ OK, on a compris : on dirait Bolsonaro parlant de la guerre culturelle. Lui, il me fait vraiment peur là...

      59/ « Que faire ? » se demande-t-il alors ? Rompre avec l’idéologie relativiste, que les pouvoirs publics décident que l’art doit être transmis, que le ministère redevienne celui de la culture et non de la communication

      60/ Veut un nouveau Ferry : Jules ou Luc ? Il développe, mais je ne comprends pas. Tonnerre d’applaudissements

      61/ Nicolas Meeùs, musicologue de Sorbonne Univ. Parle des attaques woke contre Heinrich Schenker (1868-1935), fondateur de l’analyse musicale moderne. C’est technique et je n’y connais rien, je touche mes limites et vais fumer une clope

      62/ Pendant ce temps-là, le public

      63/ Bruno Moysan prend la parole et avoue d’emblée qu’il n’y connaît rien. Commence par raconter qu’il s’est fait insulter au Canada par une doctorante aux cheveux rouge vif et treillis militaire après une intervention qu’il avait faite sur J. Butler

      64/ Il raconte fièrement comment il a cloué le bec à cette inquisitrice. Pour l’instant, il n’a rien dit mais semble aimer parler de lui

      65/ Va parler de Ouverture féministe : musique, genre, sexualité de Suzanne McClary. Se dit nostalgique des années 1968, là il est dissonant, et sous cet angle il a aimé le livre.

      66/ Mais là il va quand même flinguer. Trop d’idéologie dans le livre (alors que lui non, hein !). C’est toujours pénible, les gens qui lisent très vite un papier trop long.

      67/ Je ressens un ennui profond. Ah, le débat. « Le rap et les musiques populaires produisent cet effet d’aller vers des publics qui n’auraient pas la capacité de s’élever ». En gros, les woke privent les enfants de la musique classique qui les deterritorialiserait.

      68/ « Quand on dénonce le virilisme de Beethoven, on m’empêche de jouir de sa musique. » (en gros)

      69/ « Essayons de définir un quatuor à cordes de gay ? C’est compliqué, je ne plaisante pas ». Bruno Moysan, le retour

      70/ Discussion sur le dernier accord de la 9e Symph. de Beethoven vu par Suzanne MacClary comme un viol. Petites blagues dans la salle. « Sans doute que j’ai mes propres résistances à l’éveil ». Cela dit, cette table assez nulle est la plus modérée de toutes

      71/ Je commence à être inquiet pour le public.

      72/ Dernière table ronde sur les arts et les humanités, animée par Yana Grinshpun qui assimile d’emblée wokisme et totalitarisme soviétique sans la moindre explication.

      73/ Hubert Heckmann commence en lisant le sonnet 20 des Amours de Ronsard qui, mis au programme de l’agrég, a provoqué des polémiques avec des militants y voyant une apologie du viol. Lui va défendre le canon littéraire.

      74/ « Je voudroy bien richement jaunissant
      En pluye d’or goute à goute descendre
      Dans le giron de ma belle Cassandre,
      Lors qu’en ses yeux le somne va glissant. »

      75/ Cite Robert Faurisson lisant Rimbaud en 1961 et voit dans le féminisme actuel un parallèle avec le parangon du négationnisme.

      76/ Le wokisme réduit le sens des oeuvres à leur contenu sexuel. Rires gras dans la salle quand il évoque, au travers d’une citation, le pénis. On dirait une classe d’ados prépubères.

      77/ « Ethnocentrisme woke » qui fuit le risque de l’altérité, celle du passé, celle de la littérature des siècles anciens. Conclut sur le wokisme qui empêche toute quête du plaisir et du savoir, ce qui est un peu border après avoir ouvert sur le sonnet 20. Non ?

      78/ Jerôme Delaplanche, historien de l’art (et obsédé sur son twitter par #saccageparis). Revient sur toute la polémique autour de la Villa Médicis, je ne vous raconte pas, il répète cette tribune parue en nov. 2021
      https://www.latribunedelart.com/la-cancel-culture-infiltre-la-villa-medicis

      79/ Il a dit « épicerie » à la place de « tapisserie ». Rien d’autre à signaler. Ah, si, petite vanne sur la « souffrance des animaux » qui n’a pas été mobilisée pour faire décrocher les tapisseries en question.

      80/ « Le wokistan a étendu son champ de nuisance jusqu’à la Villa Médicis ». Il a dû passer la nuit à trouver cette formule.

      81/ Ce qui est fascinant, c’est le sentiment obsidional qui traverse toutes les interventions.

      82/ Il propose 4 niveaux de « résistance », c’est le Jean Moulin de l’histoire de l’art. Les wokistes (je ne sais toujours pas qui ils sont) sont des incultes, des fainéants aussi un peu. « Complaisance doloriste »

      83/ Encore un intervenant, Alexandre Gady, histoire de l’art... « Patrick Devedjian qu’on regrette tous » : merci Yana Grinsphun !!!!!!!!!!

      83/ Balance sur Bénédicte Savoy qui s’en est prise à la statue de Champollion dans le jardin du collège de France.

      85/ « On a déjà beaucoup parlé de sexe, je ne voudrais pas passer pour... »

      86/ « L’auteur, l’autrice excusez-moi ». Rires gras dans la salle.

      87/ Evocation de la mort de George Floyd. Rires gras dans la salle

      88/ Champollion n’en finit pas. Je ne connais pas l’université française qu’ils décrivent. J’aurais (sérieusement) aimé les entendre discuter les décoloniaux latinoam. (Quijano, Mignolo, etc.) qui sont d’ailleurs authentiquement discutables. Mais là rien. Du vide, du fantasme

      89/ Le temps des conclusions est arrivé. « Quel affreux colloque, quelles horreurs n’aurons-nous pas entendu pendant ces deux jours ! » Ben, je vais te les résumer un peu plus tard les horreurs (et je ne suis même pas « décolonial » en plus)

      90/ Nous sommes en Sorbonne, « nous ne lâcherons pas ces lieux, ILS le savent ».
      Ce n’est pas encore Thierry Coulhon, mais la présentation du Comité Laïcité-République

      91/ Se défendent d’être fascistes. Le wokisme est une croyance, nous prenons des risques en résistant, refus de perdre la bataille.

      92/ Creil 1989 : l’offensive de la pensée dogmatique et totalitaire. On commence à avoir une chrono : 1962 et la perte de l’Algérie, la pensée 1968 évidemment, 1989.

      93/ Wokisme et décolonialisme = « fantasme messianique de table rase » qui débouche toujours sur un totalitarisme, qui sévit déjà dans certaines universités et ambitionne aujourd’hui de gangréner toute la société

      94/ « On a perdu une partie de notre jeunesse » (en gros les banlieues) : lls sont murs pour soutenir la remigration

      95/ « Mr le Président Thierry Coulhon ». Ne va pas conclure car n’a pas suivi le colloque. Commence par une remarque de citoyen : ne pensait pas qu’il vivrait une époque où D. Schnapper et J. Julliard seraient considérés comme des personnalités suspectes

      96/ Retour sur liberté académique / liberté d’expression. Le HCERES n’est pas là pour décider des sujets de recherche légitimes ou non, mais il doit clarifier la frontière entre discours académique et discours militant

      97/ HCERES doit placer la limite entre médiocrité et excellence. On ne laissera pas dire que la terre est plate, mais on n’empêchera pas Paxton de... (encore heureux...). Annonce un colloque sur évaluation et SHS au printemps prochain

      98/ Rien d’autre. Mais c’est sa seule présence qui est problématique.

      99/ Conclusion de la conclusion : impérieuse nécessité de faire émerger des clés de lecture des sociétés qui aillent au-delà du rapport dominants / dominés. Il y a aussi des liens d’amour, d’amitié (je verse une larme) qui doivent aussi être examinés. Niais

      100/ Ce fil méritera une petite synthèse, mais ce sera pour plus tard.

      https://twitter.com/CompagnonO/status/1479727962845032448

    • Le « wokisme » sur le banc des accusés lors d’un colloque à la Sorbonne

      Après une introduction du ministre de l’éducation nationale, Jean-Michel Blanquer, un parterre d’universitaires a dénoncé durant deux jours « les dégâts de l’idéologie » de la déconstruction et de la « cancel culture », selon eux nouvel « ordre moral » à l’université.

      « Reconstruire les sciences et la culture » : c’est le chantier que s’est attribué un parterre d’une cinquantaine d’universitaires, essayistes et éditorialistes lors d’un colloque à la Sorbonne, les 7 et 8 janvier, sous la houlette de l’Observatoire du décolonialisme – qui fêtait pour l’occasion son premier anniversaire – et du Collège de philosophie.

      Adoubé par le ministre de l’éducation nationale, Jean-Michel Blanquer, qui en a fait l’introduction, l’événement a réuni jusqu’à 600 personnes, dont les deux tiers ont assisté à distance aux débats. Son objet : passer au crible, avec un prisme hostile, la « pensée décoloniale », la « théorie du genre » et la « cancel culture » (culture de l’effacement), des concepts en partie importés d’Amérique du Nord et plus largement désignés par les intervenants sous le vocable de « wokisme » (l’éveil à toute forme de discrimination), une pensée devenue épouvantail à droite, en même temps que l’« islamo-gauchisme ».

      Invité en clôture, Thierry Coulhon, président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur, est apparu peu à l’aise, expliquant qu’il n’était pas là « pour approuver ou non les prises de position ». Il a annoncé la tenue, au mois de mai, d’un colloque international sur les sciences sociales. Une « réponse », selon lui, à un autre « débat assez mal engagé » en février 2021 sur « l’islamo-gauchisme » par la ministre de l’enseignement supérieur, Frédérique Vidal. Elle avait appelé le CNRS à mener une enquête pour distinguer recherche et militantisme. Il sera notamment question de « penser les interactions entre les sciences humaines et le reste du savoir », a précisé M. Coulhon.

      « Déconstruire la déconstruction »

      Jean-Michel Blanquer a revendiqué, en introduction, d’adopter une posture « offensive sur le plan intellectuel » contre le wokisme, au moment où « il y a une prise de conscience que nous devons “déconstruire la déconstruction” et arriver à de nouvelles approches ».

      Pierre-Henri Tavoillot, président du Collège de philosophie, a posé « la déconstruction » comme « un vaste mouvement philosophique » qui a connu trois âges : la critique kantienne de la métaphysique ; la critique des idées humaines, portée en particulier par Nietzsche ; enfin « la pensée 68 », où la déconstruction devient une technique qui ne vise qu’elle-même, selon M. Tavoillot. « On en arrive à la déconstruction intersectionnelle », fondée sur l’idée que tout est domination, que la colonisation occidentale en représente « l’apothéose » (domination Nord/Sud, raison/émotion, homme/femme, technique/nature…) et que la décolonisation camoufle une exploitation toujours en cours, exercée par « le mâle blanc ».

      Armés de la seule notion de « domination » et de la dénonciation du patrimoine vu à l’aune des critères du présent, les « wokistes », enseignants-chercheurs en sciences humaines et sociales, feraient œuvre de « dévoiement de la rationalité », affirme la sociologue Dominique Schnapper. Leurs « néologismes ont valeur de dogmes », et les préfixes, anglicismes et métaphores auxquels ils recourent donnent l’illusion d’une « tradition savante », complète le linguiste Jean Szlamowicz, citant les mots « transphobe », « micro-agression », « appropriation » ou encore « inclusif ». « On invente une injustice pour la dénoncer » car « ces mots s’imposent de manière déclarative, sans données réelles », soutient-il, évoquant « une bouillie entre poésie et militance ».

      Pour le politologue Pascal Perrineau, la pensée déconstructiviste a prolongé un combat que le marxisme structuraliste et la sociologie de Pierre Bourdieu ont engagé, « mais elle va beaucoup plus loin pour dénoncer une obscure oppression généralisée légitimée par le pouvoir dominant qu’il soit hétérosexuel, du genre masculin, de la race blanche ». « Seules les minorités sauraient ce que parler veut dire, poursuit-il, regrettant que parmi les sujets de thèse, à Sciences Po, le thème du vote n’intéresse plus personne. »

      Peser sur la campagne présidentielle

      Le wokisme signerait le retour de l’idée qu’il n’existe pas de science objective, sur le modèle de la dénonciation de « la science bourgeoise » par l’ingénieur soviétique Trofim Lyssenko. « Il faut mettre en avant une physique ethnique contre l’épistémicide que livrerait l’Occident sur les autres cultures », avance l’écrivain Pierre Jourde. Il cite un groupe de recherche canadien qui travaille à « décoloniser la lumière, c’est-à-dire repérer dans la physique le colonialisme ».

      Au Canada, cette idéologie « structure » l’administration universitaire, affirme Mathieu Bock-Côté, éditorialiste sur la chaîne CNews. « Je suis né blanc donc je suis raciste et je dois me rééduquer mais voudrais-je rompre avec le racisme que je n’y arriverais pas », résume-t-il, déplorant que, selon lui, les subventions « dépendent du fait qu’on se soumette à cette idéologie dans la définition des objets de recherche ».

      En Europe, « l’islamisme transnational » des Frères musulmans fait de l’entrisme dans les universités « depuis trente ans », générant « un noyautage des départements en sciences sociales », soutient l’anthropologue Florence Bergeaud-Blackler. Elle cite des « pressions sur les enseignants au début et à la fin des cours, des [personnes] qui gênent la recherche de terrain ou encore des influenceurs qui agissent comme une machine à orienter la recherche », particulièrement au niveau des financements européens.

      La sociologue Nathalie Heinich réclame « un meilleur contrôle scientifique des productions fortement politisées pour qu’un enseignant ne puisse proférer que la Terre est plate ou qu’il existe un racisme d’Etat ». Elle ajoute que « l’arène académique devrait rester imperméable à la société civile » et qu’il faut « s’abstenir d’inviter des professionnels, des militants, des artistes dans les cours et séminaires universitaires », en vue de les « protéger de l’envahissement idéologique ».

      Sur les réseaux sociaux, mais aussi dans des échanges en direct sur la plate-forme du colloque en ligne, certaines interventions ont suscité l’étonnement du public alors que la teneur des échanges – sous couvert de respect des valeurs républicaines – semblait relever du militantisme, pourtant dénoncé quand il provient de la nébuleuse « wokiste ». « C’est une simple litanie depuis 9 heures du matin, écrit l’historien Olivier Compagnon sur Twitter. Il faut juste éviter que ces gens-là ne gagnent définitivement la bataille médiatique. » Dans un article, le collectif universitaire Academia s’interroge tout haut : « S’il ne s’agit pas d’un colloque universitaire, de quoi s’agit-il donc ? D’un meeting dont la fonction est de peser sur une campagne présidentielle déjà nauséabonde. » Une accusation raillée par plusieurs participants, contents d’avoir occupé la scène durant deux jours.

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/01/08/le-wokisme-sur-le-banc-des-accuses-lors-d-un-colloque-a-la-sorbonne_6108719_

    • Pour des études noires sans compromis

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.

      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      ’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1 ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2] » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3 ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4] . » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5], ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6] . » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7] . Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8] . » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9] ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]. » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11].

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.
      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12] ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13] » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]. Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15] » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      Pour des études noires sans compromis

      Norman Ajari
      paru dans lundimatin#321, le 10 janvier 2022
      Appel à dons

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.
      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      C’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1]

      [1] Russell Vought, « M-20-34 », 2020, www.whitehouse....
       ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2]

      [2] Center For Renewing America, www.americarenewing....
       » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3]

      [3] Presidential Documents, « Combatting Sex and Race...
       ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4]

      [4] Stéphanie Le Bars, « La “critical race theory”, nouvel...
      . » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5]

      [5] Arnold Kling, « The decentralized totalitarianism of...
      , ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6]

      [6] Daniel Trilling, « Why is the UK government suddenly...
      . » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7]

      [7] Paul Warmington, « “A tradition in ceaseless motion” :...
      . Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8]

      [8] Anne-Sophie Nogaret, « La hallalisation des esprits »,...
      . » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9]

      [9] Irène Ahmadi, « Macron juge le “monde universitaire...
       ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]

      [10] Propos rapportés dans : Chris Moody, « How Critical...
      . » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11]

      [11] Tommy J. Curry, « Racism and the equality delusion :...
      .

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.
      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12]

      [12] Nathalie Heinich, Ce que le militantisme fait à la...
       ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13]

      [13] Lewis R. Gordon, Disciplinary decadence. Living...
       » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]

      [14] Heinich s’alarme que l’université française finance...
      . Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15]

      [15] Nathalie Heinich, Ce que le militantisme fait à la...
       » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      L’absence des études noires en France et l’assurance avec laquelle Nathalie Heinich déploie son argumentaire erroné sont deux symptômes d’un mal plus profond : le retrait de la perspective issue des théories critiques, c’est-à-dire le primat de la méthode sur la légitimité des valeurs mobilisées pour évaluer le monde aussi bien que la théorie. Le véritable défaut des « studies » à la française, que Heinich attaque sans relâche dans son opuscule, est précisément de demeurer trop tributaires de la sclérose des sciences sociales françaises et de n’avoir pas franchement embrassé une méthode critique. Dans un texte fameux 1937, le philosophe allemand Max Horkheimer opposait ce qu’il nommait la théorie traditionnelle à la théorie critique d’inspiration marxiste dont il entendait poser les bases. La théorie traditionnelle se pense neutre, détachée des enjeux sociaux et politiques, des prises de parti et des jugements quant à l’ordre du monde. Mais c’est oublier que, comme le souligne Horkheimer, « le fait que […] des opinions nouvelles parviennent à s’imposer s’inscrit toujours dans le contexte d’une situation historique concrète, même si le savant n’est personnellement déterminé que par des motivations scientifiques [17]. » La posture non-militante revendiquée par certains chercheurs présuppose une approbation des conditions sociales de production de la recherche et de ses buts. Considérer que dans la recherche en sciences humaines et sociales, « une fois franchi le seuil des amphithéâtres, une fois soumis à une revue scientifique à expertise par les pairs, un enseignement ou un article devrait s’affranchir de toute visée politique ou morale au profit de la seule visée épistémique [18] », revient à tenir le contexte social de production de ces travaux pour pleinement satisfaisant. Dans son concept même, la « neutralité » de la théorie « non-militante » ou traditionnelle est un militantisme radical en faveur de l’ordre du monde actuel. C’est pourquoi la méthodologie, foncièrement inoffensive pour l’ordre du monde, a remplacé la théorie. Dans un texte classique du mouvement, le théoricien critique de la race et professeur de droit Richard Delgado arrivait à des conclusions similaires à l’occasion d’une réflexion sur la marginalisation des auteurs noirs au sein de la recherche nord-américaine sur les droits civiques : "Il pourrait être avancé que les auteurs issus des minorités qui écrivent sur la question raciale ne sont pas objectifs et que la passion et la colère les rendent inaptes à la raison ou à une expression claire, alors que les auteurs blancs sont au-dessus des intérêts personnels et se rendent ainsi capables de penser et d’écrire objectivement. Cela n’est cependant pas crédible, car cela présuppose que les auteurs blancs n’ont aucun intérêt au maintien du statu quo [19]."

      Dans le débat français, le rapport entre pratique universitaire et militantisme est surtout défini comme néfaste lorsqu’il est le fait des théoriciens critiques de la race ou des « décoloniaux ». Le fameux « appel des 80 intellectuels » mentionné plus haut est emblématique de ce biais. Il combine deux lignes argumentatives. D’une part, la dénonciation de chercheurs militants qui tentent de « faire passer leur idéologie pour vérité scientifique », et le rappel à l’ordre des universitaires : « Les critères élémentaires de scientificité doivent être respectés. »

      Mais, dans le même temps, les 80 dénoncent des intellectuels décoloniaux qui « attaquent frontalement l’universalisme républicain » et affirment que les « autorités et les institutions […] ne doivent plus être utilisées contre la République [20] ». Le problème auquel nous sommes confrontés est que ce bizarre attelage, où une critique prétendument intransigeante des idéologies se combine à une défense enamourée de l’idéologie républicaine n’est pas un paradoxe. Il procède moins d’une faute d’inattention quelque part au milieu d’une tribune rédigée à la hâte que de la structure même du champ intellectuel français. L’historien Claude Nicolet fait remonter cette attitude à la fin du XVIIIe siècle, avec le philosophe Antoine Destutt de Tracy et sa Société des Idéologues, pour lesquels « la pensée républicaine française se présente aussi comme une philosophie de la connaissance [21] ». En d’autres termes, il n’y a dans l’esprit des intellectuels français pas de contradiction entre l’exaltation de la République et une prétention scientifique héritée du positivisme d’Auguste Comte. Bien au contraire : le républicanisme est redéfini, non plus comme une forme institutionnelle parmi d’autres, mais comme la condition de possibilité même de la rationalité et de la science positive.

      Les sociologues, critiques littéraires, politistes, philosophes ou linguistes qui répondent aux assauts conservateurs en arguant de leur rigueur méthodologique et de l’autonomie de leur discipline se méprennent donc : aux yeux de ces adversaires, leur scientificité ne sera avérée que lorsqu’ils feront leur une apologie sans nuance de la République française, conçue comme l’unique paradis possible pour la recherche de la vérité. Revendiquer la fondation d’études noires dans ce contexte revient à interrompre cette perpétuelle glorification de la République au profit d’un véritable pluralisme, décliné en deux conditions sine qua non. Premièrement, un pluralisme des usages de la raison, qui ne sauraient se limiter à la neutralité prônée par Nathalie Heinich et ses semblables. Des théories critiques fondées sur des usages dialectiques, discursifs, et non simplement « scientifiques » de la raison sont indispensables au renouvellement méthodologique d’un système universitaire encore guidé par les idéaux positivistes du XIXe siècle qui se sont heurtés au mur de l’histoire sans que leur échec ne trouble la routine de tous les chercheurs français. Deuxièmement, il faudra encourager un pluralisme des normes éthiques et des idéaux sociaux à partir desquels nous évaluons la réalité. Dans les démocraties libérales même les plus hostiles aux minorités, les universités ont souvent ménagé quelques lieux d’expression de la dissension. Si elle se veut fidèle à sa promesse millénaire, elle doit être l’un des lieux où envisager un idéal politique non républicain, fondé sur une autre trajectoire historique et une autre normativité politique.

      Du fait de son traditionalisme épistémologique, mais surtout de son opposition au mariage gay [22], Nathalie Heinich est généralement considérée comme une intellectuelle conservatrice. Toutefois, la méfiance vis-à-vis d’une possible émergence en France des études sur la race ou des études noires est disciplinaire au moins autant qu’elle est politique. Ainsi un sociologue se revendiquant pour sa part d’une gauche sans adjuvant, Philippe Corcuff, diagnostique-t-il lui aussi une sorte de déviation militante – et ce plus précisément au sein de mon propre travail. Contrairement à Heinich, il ne s’attaque pas au militantisme universitaire « en soi », mais plutôt à une façon spécifique de l’interpréter. Ainsi déplore-t-il la convergence de « l’arrogance philosophique vis-à-vis de sciences sociales rapetissées » et du « désir du militant [23] » dont mon premier livre, La Dignité ou la Mort, offrirait le désolant spectacle. Or il me semble au contraire regrettable que cette convergence ne soit pas réalisée de façon plus systématique. L’alliance de la synthèse philosophique et de l’analyse stratégique militante telle qu’elle s’est largement scellée au cours des XIXe et XXe siècle chez Marx, Lénine, Antonio Gramsci, Mao, Kwame Nkrumah, Frantz Fanon, Angela Davis, parmi beaucoup d’autres, a produit des effets qui ont changé la face du monde. Chacun à sa façon a milité en philosophe et philosophé en militant. Au-delà de leurs considérables différences, ces auteurs partagent au moins un point commun significatif : sinon une même vision de l’histoire, une même notion de l’histoire, aujourd’hui délaissée par les sciences sociales et la théorie politique constructivistes dont Corcuff se fait le porte-parole.

      Les « philosophes-militants » ont longtemps défini l’histoire comme un massif dense et solide, une trajectoire apparemment inébranlable, face à laquelle il fallait rassembler tous les efforts stratégiques et organisationnels possibles. Face à un ordre du monde analysé comme une totalité hostile contre laquelle, pour reprendre une formule de Herbert Marcuse, ils durent recourir à « une faculté mentale en danger de disparition : le pouvoir de la pensée négative [24] ». Mais, sous l’influence conjuguée de Foucault, de la sociologie critique et du poststructuralisme [25], la pensée négative a été décrédibilisée et le concept d’histoire en est venu à signifier tout l’inverse. Ce qui est historique n’est plus le produit de forces expropriatrices, oppressives ou civilisationnelles puissantes et anciennes ; c’est au contraire ce qui aurait pu être absolument différent, le contingent. L’historicité d’une chose est devenue son caractère révocable, fluide, dénué de substance [26].

      Pour des études noires sans compromis

      Norman Ajari
      paru dans lundimatin#321, le 10 janvier 2022
      Appel à dons

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.

      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      C’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1] ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2] » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3] ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4]. » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5], ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6]. » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7]. Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8]. » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9] ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]. » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11]. .

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.

      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12] ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13] » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]. Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15] » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      L’absence des études noires en France et l’assurance avec laquelle Nathalie Heinich déploie son argumentaire erroné sont deux symptômes d’un mal plus profond : le retrait de la perspective issue des théories critiques, c’est-à-dire le primat de la méthode sur la légitimité des valeurs mobilisées pour évaluer le monde aussi bien que la théorie. Le véritable défaut des « studies » à la française, que Heinich attaque sans relâche dans son opuscule, est précisément de demeurer trop tributaires de la sclérose des sciences sociales françaises et de n’avoir pas franchement embrassé une méthode critique. Dans un texte fameux 1937, le philosophe allemand Max Horkheimer opposait ce qu’il nommait la théorie traditionnelle à la théorie critique d’inspiration marxiste dont il entendait poser les bases. La théorie traditionnelle se pense neutre, détachée des enjeux sociaux et politiques, des prises de parti et des jugements quant à l’ordre du monde. Mais c’est oublier que, comme le souligne Horkheimer, « le fait que […] des opinions nouvelles parviennent à s’imposer s’inscrit toujours dans le contexte d’une situation historique concrète, même si le savant n’est personnellement déterminé que par des motivations scientifiques [17] ». La posture non-militante revendiquée par certains chercheurs présuppose une approbation des conditions sociales de production de la recherche et de ses buts. Considérer que dans la recherche en sciences humaines et sociales, « une fois franchi le seuil des amphithéâtres, une fois soumis à une revue scientifique à expertise par les pairs, un enseignement ou un article devrait s’affranchir de toute visée politique ou morale au profit de la seule visée épistémique [18] », revient à tenir le contexte social de production de ces travaux pour pleinement satisfaisant. Dans son concept même, la « neutralité » de la théorie « non-militante » ou traditionnelle est un militantisme radical en faveur de l’ordre du monde actuel. C’est pourquoi la méthodologie, foncièrement inoffensive pour l’ordre du monde, a remplacé la théorie. Dans un texte classique du mouvement, le théoricien critique de la race et professeur de droit Richard Delgado arrivait à des conclusions similaires à l’occasion d’une réflexion sur la marginalisation des auteurs noirs au sein de la recherche nord-américaine sur les droits civiques :

      Il pourrait être avancé que les auteurs issus des minorités qui écrivent sur la question raciale ne sont pas objectifs et que la passion et la colère les rendent inaptes à la raison ou à une expression claire, alors que les auteurs blancs sont au-dessus des intérêts personnels et se rendent ainsi capables de penser et d’écrire objectivement. Cela n’est cependant pas crédible, car cela présuppose que les auteurs blancs n’ont aucun intérêt au maintien du statu quo [19].

      Dans le débat français, le rapport entre pratique universitaire et militantisme est surtout défini comme néfaste lorsqu’il est le fait des théoriciens critiques de la race ou des « décoloniaux ». Le fameux « appel des 80 intellectuels » mentionné plus haut est emblématique de ce biais. Il combine deux lignes argumentatives. D’une part, la dénonciation de chercheurs militants qui tentent de « faire passer leur idéologie pour vérité scientifique », et le rappel à l’ordre des universitaires : « Les critères élémentaires de scientificité doivent être respectés. »

      Mais, dans le même temps, les 80 dénoncent des intellectuels décoloniaux qui « attaquent frontalement l’universalisme républicain » et affirment que les « autorités et les institutions […] ne doivent plus être utilisées contre la République [20] ». Le problème auquel nous sommes confrontés est que ce bizarre attelage, où une critique prétendument intransigeante des idéologies se combine à une défense enamourée de l’idéologie républicaine n’est pas un paradoxe. Il procède moins d’une faute d’inattention quelque part au milieu d’une tribune rédigée à la hâte que de la structure même du champ intellectuel français. L’historien Claude Nicolet fait remonter cette attitude à la fin du XVIIIe siècle, avec le philosophe Antoine Destutt de Tracy et sa Société des Idéologues, pour lesquels « la pensée républicaine française se présente aussi comme une philosophie de la connaissance [21] ». En d’autres termes, il n’y a dans l’esprit des intellectuels français pas de contradiction entre l’exaltation de la République et une prétention scientifique héritée du positivisme d’Auguste Comte. Bien au contraire : le républicanisme est redéfini, non plus comme une forme institutionnelle parmi d’autres, mais comme la condition de possibilité même de la rationalité et de la science positive.

      Les sociologues, critiques littéraires, politistes, philosophes ou linguistes qui répondent aux assauts conservateurs en arguant de leur rigueur méthodologique et de l’autonomie de leur discipline se méprennent donc : aux yeux de ces adversaires, leur scientificité ne sera avérée que lorsqu’ils feront leur une apologie sans nuance de la République française, conçue comme l’unique paradis possible pour la recherche de la vérité. Revendiquer la fondation d’études noires dans ce contexte revient à interrompre cette perpétuelle glorification de la République au profit d’un véritable pluralisme, décliné en deux conditions sine qua non. Premièrement, un pluralisme des usages de la raison, qui ne sauraient se limiter à la neutralité prônée par Nathalie Heinich et ses semblables. Des théories critiques fondées sur des usages dialectiques, discursifs, et non simplement « scientifiques » de la raison sont indispensables au renouvellement méthodologique d’un système universitaire encore guidé par les idéaux positivistes du XIXe siècle qui se sont heurtés au mur de l’histoire sans que leur échec ne trouble la routine de tous les chercheurs français. Deuxièmement, il faudra encourager un pluralisme des normes éthiques et des idéaux sociaux à partir desquels nous évaluons la réalité. Dans les démocraties libérales même les plus hostiles aux minorités, les universités ont souvent ménagé quelques lieux d’expression de la dissension. Si elle se veut fidèle à sa promesse millénaire, elle doit être l’un des lieux où envisager un idéal politique non républicain, fondé sur une autre trajectoire historique et une autre normativité politique.

      Du fait de son traditionalisme épistémologique, mais surtout de son opposition au mariage gay [22], Nathalie Heinich est généralement considérée comme une intellectuelle conservatrice. Toutefois, la méfiance vis-à-vis d’une possible émergence en France des études sur la race ou des études noires est disciplinaire au moins autant qu’elle est politique. Ainsi un sociologue se revendiquant pour sa part d’une gauche sans adjuvant, Philippe Corcuff, diagnostique-t-il lui aussi une sorte de déviation militante – et ce plus précisément au sein de mon propre travail. Contrairement à Heinich, il ne s’attaque pas au militantisme universitaire « en soi », mais plutôt à une façon spécifique de l’interpréter. Ainsi déplore-t-il la convergence de « l’arrogance philosophique vis-à-vis de sciences sociales rapetissées » et du « désir du militant [23] » dont mon premier livre, La Dignité ou la Mort, offrirait le désolant spectacle. Or il me semble au contraire regrettable que cette convergence ne soit pas réalisée de façon plus systématique. L’alliance de la synthèse philosophique et de l’analyse stratégique militante telle qu’elle s’est largement scellée au cours des XIXe et XXe siècle chez Marx, Lénine, Antonio Gramsci, Mao, Kwame Nkrumah, Frantz Fanon, Angela Davis, parmi beaucoup d’autres, a produit des effets qui ont changé la face du monde. Chacun à sa façon a milité en philosophe et philosophé en militant. Au-delà de leurs considérables différences, ces auteurs partagent au moins un point commun significatif : sinon une même vision de l’histoire, une même notion de l’histoire, aujourd’hui délaissée par les sciences sociales et la théorie politique constructivistes dont Corcuff se fait le porte-parole.

      Les « philosophes-militants » ont longtemps défini l’histoire comme un massif dense et solide, une trajectoire apparemment inébranlable, face à laquelle il fallait rassembler tous les efforts stratégiques et organisationnels possibles. Face à un ordre du monde analysé comme une totalité hostile contre laquelle, pour reprendre une formule de Herbert Marcuse, ils durent recourir à « une faculté mentale en danger de disparition : le pouvoir de la pensée négative [24] ». Mais, sous l’influence conjuguée de Foucault, de la sociologie critique et du poststructuralisme [25], la pensée négative a été décrédibilisée et le concept d’histoire en est venu à signifier tout l’inverse. Ce qui est historique n’est plus le produit de forces expropriatrices, oppressives ou civilisationnelles puissantes et anciennes ; c’est au contraire ce qui aurait pu être absolument différent, le contingent. L’historicité d’une chose est devenue son caractère révocable, fluide, dénué de substance. Ce que les effets de la performativité, des jeux de langage ou la sagacité analytique peuvent suffire à renverser. Entretenir l’idée d’une fluidité ou d’une hybridité de la condition noire a certes une pertinence sur le plan culturel. Mais sur le plan des questions de vie et de mort, de déshumanisation et de dignité, une approche centrée sur l’hybridité ou le caractère « socialement construit » de la noirceur n’est qu’une autre façon de conjurer la menace du pessimisme et de reconstruire, sans aucune justification que le besoin de (se) rassurer, un grand récit trompeur du progrès.

      Le point d’orgue de l’étude de mon travail par Corcuff consiste à diagnostiquer, entre mon livre et la pensée de l’intellectuel d’extrême-droite Alain Finkielkraut, « sous des modalités différentes, des adhésions identitaristes en phase avec de larges tendances idéologiques du moment [27] ». Juxtaposer nos œuvres au seul prétexte qu’elles seraient toutes deux « identitaristes » est pertinent dans l’exacte mesure où il est pertinent d’assimiler une tortue de mer à un escargot de Bourgogne au prétexte que les deux animaux possèdent une carapace. Ce fait est incontestable, cependant, non seulement les carapaces ne sont pas les mêmes mais, entre le reptile et le gastéropode, tout le reste diffère. Même en admettant que je tienne la condition noire pour relevant de l’identité, ce qui n’est nullement le cas [28], non seulement ma théorie n’a rien à voir avec celle de Finkielkraut, mais encore ses positions sont à l’opposé de celles que je défends à propos de l’État, du capitalisme, de la géopolitique, de la police, des religions, c’est-à-dire toutes les questions décisives. Dans la plupart des contextes, une analogie fondée sur une unique et mince similarité paraîtrait immédiatement irrecevable à quiconque sait voir, non seulement sous la carapace, mais est capable d’en jauger le poids, la taille, la couleur et la texture. Or de nombreux universitaires français progressistes semblent déterminés à ne pas se donner cette peine et voient désormais le monde comme séparé entre les animaux qui ont une carapace et ceux qui n’en ont pas – c’est-à-dire entre les « identitaristes » et ceux qui ne le sont pas. Paradoxalement, ce sont souvent les mêmes sociologues qui s’alarment que l’extrême-droite cherche à reconstruire la frontière politique, non plus à partir du clivage de la droite et de la gauche, mais sur la base d’une chimérique division des « patriotes » et des « mondialistes ». Cet aveuglement leur appartient ; il n’est pas celui des penseurs de la condition noire.

      L’émergence d’études noires est un moment important pour crédibiliser l’autonomie, la consistance et la cohérence des traditions de pensée noires – et ce avant tout aux yeux des afrodescendants eux-mêmes. Les auteurs progressistes tiennent compte de l’histoire des pensées « de la gauche » ou « de l’émancipation », et considèrent que les penseurs noirs n’en proposent que des déclinaisons. Ils n’envisagent pas le radicalisme noir comme une tradition spécifique, répondant aux enjeux de populations particulières, et qui a développé ses propres valeurs et sa propre vision, dont la CRT n’est que l’un des effets contemporains. Bien que la tradition radicale noire s’enracine dans la confrontation à l’esclavagisme, la théorie de gauche perçoit toujours ses revendications et son expression militante centrées sur les intérêts des Noirs comme une déviation par rapport à la norme inamovible du mouvement ouvrier, désormais enrichie de nuances postcoloniales et féministes. Si bien que lorsqu’un universitaire noir développe, reprend ou déploie des thèmes travaillés, discutés, débattus depuis 400 ans dans l’abolitionnisme, le radicalisme ou le nationalisme noirs, il est souvent jugé déviant ou traitre à une tradition qui n’a pourtant jamais été la sienne. Il n’y aura pas d’études noires dignes de ce nom dans l’espace francophone tant que les pensées de la diaspora et de l’Afrique seront envisagées comme des excroissances des Lumières européennes, du féminisme, du marxisme et de toutes ces traditions d’ascendance européenne qui se sont cru à même d’expliquer la totalité du réel.

      ÉTUDES NOIRES ET PESSIMISME

      Les études de genre, les études féminines et féministes ont ouvert la voie à une réception francophone des études noires nord-américaines, comme à la formulation de travaux qui marquent notamment un renouvellement de la philosophie française [29]. Des maisons d’édition françaises, québécoises ou suisses ont rendu accessible de rigoureuses traductions de nombreux classiques du féminisme noir, telles que des œuvres d’Audre Lorde, de Patricia Hill Collins, de bell hooks ou d’Angela Davis. En revanche, d’autres courants des Black Studies n’ont pas bénéficié du même accueil. Certainement parce qu’il est tenu pour raciste, comme l’a noté Maboula Soumahoro, le nationalisme noir n’est pas envisagé en France comme un interlocuteur, ni même comme un objet de recherche crédible [30]. De l’œuvre pléthorique de l’influent théoricien de l’afrocentricité et fondateur, à Temple University, du premier programme doctoral en études noires des États-Unis, Molefi Kete Asante, quasiment rien n’est accessible au lecteur francophone. En revanche, un essai consacré à la critique de ses thèses a été traduit en français peu de temps après sa parution originale [31]. Les études noires francophones sont le seul champ d’études où l’on offre préventivement aux lecteurs la critique d’idées auxquelles ils n’ont jamais eu accès. Les livres du principal fondateur de la Critical Race Theory, Derrick Bell, ne sont pas non plus disponibles, pas davantage que ceux de ses plus fidèles continuateurs, Jean Stefancic et Richard Delgado. Heureusement, est récemment parue une anthologie reprenant quelques articles classiques de la CRT [32].

      Au XXIe siècle, c’est par la porte des études de genre et des études féministes que les études noires ont fait leur entrée dans l’université française, ce qui orienta la recherche. Les textes les plus spécifiquement ancrés dans une trajectoire abolitionniste, anticoloniale, nationaliste noire ou panafricaine, aussi influents soient-ils dans les Amériques, sont généralement écartés et tenus pour sans pertinence. Naturellement, les féministes francophones ont privilégié les travaux des femmes noires les plus en accord ou en résonance avec leur propre vision du monde et leur propre agenda. Il s’agissait de l’enrichir de voix nouvelles, mais consonantes. Une telle sélection ne reflète pas l’intégralité des débats et laisse de côté plusieurs options théoriques. Il en va ainsi de l’Africana Womanism, fondé au début des années 1990 par la théoricienne africaine-américaine Clenora Hudson-Weems, qui part de l’idée que « la véritable histoire du féminisme, ses origines et ses participantes, révèle un fond raciste flagrant, ce qui atteste de son incompatibilité avec les femmes afrodescendantes [33] ». Le mouvement des femmes états-unien s’étant structuré à l’imitation de l’abolitionnisme, elle raille les femmes noires qui embrassent la cause féministe en prétendant l’adapter à leurs expériences et leurs besoins comme « imitant une imitation [34] » au lieu de revenir à la source vive du mouvement noir lui-même. Elle conçoit son œuvre comme héritière du militantisme de libération africain-américain, dont elle juge les principes incompatibles avec ceux du féminisme. « Historiquement, les femmes afrodescendantes ont combattu les discriminations sexuelles, les discriminations raciales et de classe. Elles ont défié le machisme des hommes afrodescendants, mais sans aller jusqu’à les supprimer comme alliés dans la lutte pour la libération et la famille [35]. » Une telle perspective recoupe celle du psychologue et penseur panafricain Amos Wilson [36], entre autres universitaires africains-américains méconnus des francophones.

      Certes, en Amérique du Nord également, le féminisme noir, et plus spécifiquement la théorie de l’intersectionnalité, sont aujourd’hui le paradigme le plus prisé au sein des Black Studies. Souvent caricaturées comme passéistes, chauvines, misogynes ou réactionnaires, les théories inspirées du nationalisme noir, du panafricanisme ou du radicalisme noir de la conjoncture des années 1970 ont peu à peu perdu du terrain face à des discours plus libéraux et plus proches des tendances qui dominent les sciences humaines majoritairement blanches. Toutefois, les intuitions, les affects et les orientations générales de ces grands courants de la pensée noire du XXe siècle semblent aujourd’hui resurgir sous une nouvelle forme. Le thème du pessimisme, autrefois basse continue du radicalisme noir, s’est avancé au premier plan. Il n’a jamais porté sur les Noirs, leurs qualités ou leur courage, mais sur la capacité de la société blanche à dépasser sa propre négrophobie – d’où le recours, tout au long du XXe siècle, à des projets tels que, entre autres, le rapatriement en Afrique ou l’établissement d’une nation noire en Amérique du Nord. Or, selon le philosophe Cornel West, « le pessimisme sur lequel se fonde le nationalisme noir ne s’est jamais complètement imposé sur le plan organisationnel. Les Noirs maintiennent en général la possibilité d’une coalition multiraciale en vue d’approfondir la démocratie en Amérique. Je pense que l’Église noire a historiquement coupé l’herbe sous le pied du nationalisme noir. Elle met en avant la spécificité culturelle noire mais, bien qu’elle encourage la cohésion du groupe, son message est universaliste [37] ». Autrement dit, cet optimisme politique capture les aspirations à l’autodétermination et au pouvoir noires pour les réorienter vers une combinaison de distinction culturelle et d’investissement dans le projet démocratique occidental.

      Certes, l’histoire de nationalisme noir et de l’Église noire ne sont pas distinctes. L’évêque Henry M. Turner, de l’African Methodist Episcopal Church, fut l’un des plus ardents militants de la solution du retour en Afrique au tournant du XXe siècle [38] ; mais il fit peu d’émules. Malgré certaines tentatives contemporaines de radicalisation de son discours, à la façon de la théologie de la libération noire des années 1960, l’Église noire est en grande partie devenue un puissant instrument du statu quo. Sa promotion de la théologie de la prospérité qui sanctifie l’enrichissement personnel et le luxe, son conservatisme social et sa connivence avec la politique institutionnelle y tiennent souvent lieu de message universaliste. Si des ambitions politiques telles que celles de l’évêque Turner ne sont plus d’actualité dans les débats contemporains, l’absence de confiance en les institutions demeure vive et la croyance en les supposés bénéfices d’une coalition multiraciale s’érode.

      Dans le contexte africain-américain, la distinction entre optimisme et pessimisme se fonde généralement sur l’enthousiasme ou le scepticisme à l’égard des projets d’assimilation à la société blanche majoritaire. Souvent, les premiers sont qualifiés de libéraux et les seconds de radicaux. Autrement dit, les optimistes croient en une possibilité pour les Noirs de voir leur humanité pleinement reconnue, là où les pessimistes jugent la négrophobie indépassable sans un renversement gigantesque de l’ordre du monde présent ; d’où l’urgence de construire une pensée et une organisation noires sur des bases inédites. Le tournant pessimiste des études noires contemporaines n’est pas l’injection de nouveaux thèmes ou de nouvelles idées, mais bien davantage l’expression d’un retour du refoulé. Ce pessimisme, point de départ de toutes les tendances de la tradition radicale noire, du nationalisme noir au Black Power en passant par le panafricanisme, fut un temps muselé par des tendances plus libérales, telles que le féminisme intersectionnel ou le poststructuralisme. Noirceur, comme une tentative d’histoire immédiate des idées, se veut un témoignage de cet inévitable retour du pessimisme dans le moment théorique contemporain, nourri de la longue séquence de consolidations, de radicalisations et de récupérations du mouvement pour les vies noires (Black Lives Matter), de l’amertume laissée par le passage à la Maison Blanche de Barack Obama, et d’une consternation au spectacle des arlequinades racistes de Donald Trump.

      En anglais, le terme Blackness va de soi : il désigne tout à la fois et tour à tour le fait d’être noir, l’expérience noire, l’assignation raciale, la culture afro ou la condition noire. Toujours un piège pour les traducteurs, il est parfois rendu par le néologisme inventé par Aimé Césaire, Léopold Senghor et Léon Damas : négritude. Mais généraliser ce terme lourd d’une histoire riche, marqué par l’effort athlétique engagé par ces penseurs au début du XXe siècle, revient à effacer la singularité de leur intervention et de leurs créations théoriques et littéraires. On interprète bien volontiers l’invention de la négritude comme un « retournement du stigmate », une façon d’embrasser le Nègre devenu synonyme d’abjection et d’inhumanité dans le monde post-esclavagiste. Mais cette stratégie s’est doublée d’une autre, plus discrète. Ressusciter le Nègre de chair et de sang, poétiser les nations nègres de l’Afrique et de la Caraïbe, c’était contourner le Noir. Le nom Nègre incarne, le nom Noir abîme. La négritude porte aussi le refus de l’abysse, de la surface où la lumière ne se reflète pas, qui guide irrésistiblement l’imagination en direction de l’obscur, du sinistre, du négatif. Cette métaphorique traverse l’histoire de la condition noire et a toujours lourdement contribué à l’assimilation des Africains à des forces démoniaques, inhumaines, monstrueuses et irrémédiables. J’ai traduit Blackness par noirceur, avec tous ses dérivés (anti-Blackness, peu ou prou synonyme de négrophobie, devenant ainsi anti-noirceur), car j’ai jugé nécessaire d’embrasser ce champ sémantique. Les penseurs de la noirceur auquel cet ouvrage est consacré acceptent le séjour auprès du négatif que l’anglais Blackness connote aussi bien que le français noirceur.

      L’ambition de Noirceur est triple. Premièrement, cet ouvrage se veut une introduction à deux champs de réflexion théorique qui se développent actuellement dans le monde universitaire africain-américain : l’afropessimisme et les Black male studies (études sur les hommes noirs). Cela implique également de présenter les sources et les inspirateurs de ces mouvements. Deuxièmement, il se propose de mettre à l’épreuve les outils élaborés par ces courants de pensée en les mobilisant pour questionner d’autres textes et d’autres lieux, notamment au sein de l’espace francophone. Enfin, troisièmement, dans la continuité de La Dignité ou la Mort, il entend accélérer l’émergence d’un discours théorique noir en langue française, en encourageant l’étude des afrodescendants par les afrodescendants eux-mêmes. Ultimement, je souhaiterais que ce livre, qui porte presque exclusivement sur la condition noire dans le Nord global, rencontre quelque intérêt auprès du lectorat d’Afrique francophone, des Caraïbes, du Brésil, du monde hispanique et au-delà, comme avant lui La Dignité ou la Mort. Le dialogue, le débat et la traduction entre les perspectives théoriques des différentes diasporas et des différentes régions du Continent est indubitablement le défi le plus vital pour l’avenir de la pensée noire – peut-être le seul qui vaille.

      https://lundi.am/Pour-des-etudes-noires-sans-compromis

    • Gouvernement. Blanquer en pleine croisade délirante contre le « wokisme »

      Vendredi et samedi, le ministre de l’Éducation a inauguré et financé un colloque obsessionnel et réactionnaire ciblant les féministes, les antiracistes et les anticapitalistes.

      Jean-Michel Blanquer n’a pas que le Covid à combattre. Les établissements scolaires subissent de plein fouet la crise sanitaire ? Ils ne sont toujours pas équipés en masques FFP2 et en purificateurs d’air ? Qu’importe. Le ministre de l’Éducation nationale a un autre ennemi à pourfendre, semble-t-il, tout aussi invisible et omniprésent que le coronavirus, comme flottant dans l’air : le wokisme.

      Un colloque sur la question s’est tenu vendredi et samedi à la Sorbonne. Jean-Michel Blanquer, dont le ministère a financé l’événement à travers un fonds réservé, a lui-même ouvert les travaux. Le ton grave, il s’alarme : « Il y a des personnes à qui les idées des Lumières font peur. » Qui sont ces personnes ? Celles qui nourrissent « la pensée décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », affirment les organisateurs. Il s’agit pourtant de trois choses différentes. Les études décoloniales visent à critiquer le système économique néolibéral et à décoloniser les rapports humains. Le terme « woke », venu des États-Unis, désigne ceux qui « s’éveillent » devant les inégalités sociales et les discriminations sexistes et racistes. Enfin, la « cancel culture », ou « culture de l’effacement », vise à mettre au ban un personnage historique en fonction de ses actions, ou une oeuvre, suivant son contenu.

      Pierre Bourdieu et la « pensée 68 » décriés

      Trois choses très différentes, donc. Lier les trois termes comme s’ils ne faisaient qu’un est loin d’être anodin et montre le véritable projet de ce colloque : faire croire que tous les universitaires, intellectuels, militants et citoyens qui réfléchissent aux dominations économiques, sociales, racistes et patriarcales ne sont en réalité que de dangereux « wokistes » ou « islamogauchistes ». À les entendre, la gauche serait carrément sous le contrôle de quelques extrémistes essentialistes. Nombre des intervenants et participants à ces deux journées, qui ont rassemblé 600 personnes (dont les deux tiers en ligne), sont allés dans ce sens, notamment sur la messagerie du débat, qui a souvent servi d’exutoire réactionnaire.

      En introduction, Jean-Michel Blanquer appelle d’emblée à « déconstruire la déconstruction », d’autant plus si elle est intersectionnelle, c’est-à-dire qu’elle croise les dominations Nord-Sud, hommes-femmes, blancs-racisés, riches-pauvres. « Je suis né blanc, donc je suis raciste et je dois me rééduquer, mais voudrais-je rompre avec le racisme que je n’y arriverais pas », s’émeut le polémiste Mathieu Bock-Côté, qui a remplacé Éric Zemmour sur CNews, et place sans cesse le « Blanc » comme étant au centre des discriminations, sans doute pour mieux nier les autres. La sociologue Nathalie Heinich prend d’ailleurs la parole pour réclamer « un meilleur contrôle scientifique » afin « qu’un enseignant ne puisse proférer que la Terre est plate ou qu’il existe un racisme d’État ». Dire qu’il existe une forme de racisme institutionnel, étatisé, notamment à travers les contrôles au faciès, serait donc aussi ridicule et scientifiquement faux que d’affirmer que la Terre est plate ? La même sociologue se plaint ensuite d’une « épidémie de transgenres » causée par l’éducation nationale.

      Le reste est à l’avenant. L’assistance pouffe devant l’écriture inclusive, quand elle n’y voit pas une menace civilisationnelle. La loi Taubira reconnaissant l’esclavage et la traite en tant que crimes contre l’humanité est raillée. « L’Europe n’a pas inventé l’esclavage, mais l’abolition », ose Pascal Bruckner, comme si cela la dédouanait d’avoir massivement pratiqué la traite. « Stop à la victimisation permanente », au « nombrilisme pleurnichard », à la « vulgate bourdieusienne fossilisée » et à la « pensée 68 », entend-on ou lit-on ici et là.

      Le temps de l’Algérie française est regretté

      Selon l’historien Olivier Compagnon, qui a suivi l’intégralité des débats, l’Algérie française est même regrettée, des rires gras fusent au sujet de George Floyd, et le chercheur en science politique Vincent Tournier lance : « J’annonçais depuis longtemps les attentats et je remercie les frères Kouachi d’avoir en fait validé mon cours. » « Le wokisme, c’est l’Inquisition espagnole, le stalinisme et le nazisme », lit-on encore, quand ce n’est pas le « soleil noir des minorités » qui est dénoncé. Coorganisé par l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, ce colloque visait à tordre le cou à l’idée que « l’oppression serait l’unique clé de lecture du monde contemporain », selon le philosophe Pierre-Henri Tavoillot. À la fin du colloque, on peut se demander si ce n’est pas le concept même d’oppression qui était visé. Pour mieux en nier les ravages hier et aujourd’hui.

      https://www.humanite.fr/politique/jean-michel-blanquer/gouvernement-blanquer-en-pleine-croisade-delirante-contre-le-wokisme

    • « Le colloque organisé à La Sorbonne contre le “wokisme” relève d’un #maccarthysme_soft »

      Intitulé « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture », l’événément qui s’est tenu au sein de l’université parisienne les 7 et 8 janvier, n’a servi à rien d’autre qu’à fabriquer un ennemi de l’intérieur, estime le sociologue #François_Dubet, dans une tribune au « Monde ».

      Tribune. On peut être agacé, inquiet, voire hostile à la pensée dite « woke », aux théories du genre appliquées à toutes les sauces, au déconstructivisme radical… On peut préférer les arguments scientifiques à la seule force des indignations. On peut refuser d’être réduit à une identité de dominant de la même manière que l’on refuse de réduire autrui à une identité dominée. On peut penser que l’intersectionnalité est un truisme sociologique érigé en pensée critique nouvelle. On peut penser que la critique de l’islam n’est pas plus nécessairement raciste que l’est celle du catholicisme.

      Bref, on peut avoir de bonnes raisons scientifiques et morales de ne pas adhérer à tout un ensemble de théories et d’idéologies, sans faire pour autant comme si cet ensemble-là était un bloc cohérent, homogène et caricatural, uni par la cancel culture, l’islamo-gauchisme, le décolonialisme ou le « wokisme »…

      Mais quand un colloque officiel est tenu en Sorbonne les 7 et 8 janvier sous l’égide de l’Observatoire du décolonialisme, ouvert par [le ministre de l’éducation nationale] Jean-Michel Blanquer et clos par le président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur, Thierry Coulhon, il y a de quoi s’inquiéter. Il s’agit, ni plus ni moins, de fabriquer un ennemi intérieur, un ennemi disparate, masqué mais cohérent, qui viserait à détruire, à la fois, la raison et les valeurs républicaines.

      Faute déontologique et erreur politique

      C’est là un maccarthysme soft visant à désigner les ennemis de l’intérieur, leurs complices, leurs compagnons de route et leurs victimes. Ce colloque, tout ce qu’il y a d’officiel, a mobilisé des collègues honorablement connus et souvent reconnus pour la qualité de leur œuvre, auxquels se sont mêlés des intervenants comme Mathieu Bock-Côté, dont les diatribes à la limite du racisme inondent chaque jour CNews et les réseaux de l’extrême droite. Gageons que si Eric Zemmour n’avait pas été pris par la présidentielle, il aurait été de la fête au nom de son œuvre d’historien !

      Comment un président de la République annoncé comme libéral peut-il encourager cette mise en scène maccarthyste ? Comment penser que c’est à l’Etat de dire quels sont les courants de pensée acceptables et ceux qui ne le seraient pas ? Comment ne pas faire suffisamment confiance au monde académique et scientifique pour laisser un ministre de l’éducation conduire un procès à charge contre les idées et recherches qui le dérangent ?

      Ce maccarthysme soft n’est pas seulement condamnable et inquiétant ; il est aussi stupide. Selon la vieille loi de la prédiction créatrice, ce procès fait advenir l’adversaire qu’il combat. Il transforme une nébuleuse hétéroclite de courants de pensées et de travaux disparates en complot plus ou moins organisé contre la science et contre la République.

      Il conduira celles et ceux qui tiennent aux libertés académiques à défendre le droit d’exister d’idées, de travaux et de recherches qu’ils ne soutiendraient certainement pas dans un monde scientifique et intellectuel organisé par les règles du débat et de la critique. Ce colloque est à la fois une faute déontologique et une erreur politique. Il clive plus encore une société qui n’en a certainement pas besoin.

      François Dubet est sociologue, professeur émérite à l’université de Bordeaux, directeur d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS). Il est l’auteur, avec Marie Duru-Bellat, de L’école peut-elle sauver la démocratie ? (Seuil, 2020).

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/10/francois-dubet-le-colloque-organise-a-la-sorbonne-contre-le-wokisme-releve-d

    • Les « #anti-woke » et le virus de la bêtise

      Comme Jean-Michel Blanquer, ils sont nombreux à voir dans #Foucault, #Deleuze et #Derrida l’origine de la « cancel culture » qu’ils déplorent. Les détracteurs de la #French_theory ont-ils seulement lu les auteurs qu’ils critiquent ?

      Voilà maintenant un moment qu’on nous rabâche les oreilles avec les méfaits de la pensée « woke » et de la « cancel culture ». Au point d’y consacrer en Sorbonne un colloque, où le ministre de l’éducation nationale n’hésita pas à utiliser une métaphore douteuse : « D’une certaine façon, c’est nous qui avons inoculé le #virus avec ce qu’on appelle parfois la French theory. Maintenant, nous devons, après avoir fourni le virus, fournir le #vaccin. » On la dit vouloir effacer toute une histoire, s’en prendre aux piliers de l’identité française et européenne, répandre la haine là où régnait l’harmonie, mettre de l’huile (racialiste et genriste) sur la flamme républicaine. On s’en prend volontiers à l’Amérique, à ses campus et ses idéologues. Et il n’est pas difficile de montrer que de ce côté-là souffle aussi parfois un vent de bêtise, voire des positions intransigeantes aux allures de révolution culturelle (on brûle des livres, en interdit d’autres, renverse des statues).

      Ce qui est intéressant dans l’anti-wokisme, surtout celui qui émane de la bouche de nos intellectuels, c’est que notre complexe de supériorité morale et intellectuelle, notre mépris et notre ignorance de la réalité américaine sont tels qu’on pense les Américains incapables de concevoir les outils de leur propre lutte. Ils sont tombés dans le ruisseau, c’est la faute à Foucault ; le nez dans la beuse, c’est la faute à Deleuze.

      Une vieille et bien bête critique

      On prétend donc que les vrais coupables se situent de ce côté-ci de l’Atlantique, et notamment en France. Les noms de Foucault, Derrida et Deleuze sont systématiquement invoqués. Ayant passé les trente dernières années de ma vie à lire ces très grands (j’insiste) penseurs et lecteurs, je peux avec confiance dire que leurs détracteurs ne s’en sont pas donné la peine. C’est une preuve de paresse intellectuelle, voire de #malhonnêteté.

      #Malhonnêteté_morale qui consiste à faire porter le chapeau à ceux qui ne sont plus parmi nous pour se défendre, à faire d’un pan entier de la pensée française un bouc émissaire. #Malhonnêteté_intellectuelle qui consiste à réduire des pensées complexes, nuancées et entre elles bien différentes à des #slogans vides. Malhonnêteté intellectuelle que de prétendre que ces penseurs prônent le « #relativisme », soit que « tout se vaut ». C’est une vieille et bien bête critique. En réalité, chacun de ces philosophes met au point une nouvelle méthode et de nouveaux outils conceptuels, qui révèlent de nouveaux objets ou portent sur d’autres un regard différent.

      Ainsi l’#empirisme_transcendental de Deleuze permet de penser la phénoménalité du monde sur fond de réalité virtuelle, dont elle serait comme la solution ou cristallisation, mais que jamais elle n’épuiserait. Cela donne des pages époustouflantes sur la littérature, la peinture, le cinéma, mais aussi la physique, la biologie, les mathématiques et, bien entendu, l’histoire de la philosophie. On ne peut dire à l’avance les forces et virtualités qui nous habitent et les puissances de transformation qui hantent le monde. Vivre, vivre pleinement, c’est s’y engager, les saisir, en faire quelque chose.

      Ainsi l’archéologie et la généalogie de Foucault visent à nous rendre étrangers à nous-mêmes, et par conséquent à considérer comme des constructions aux conditions historiques bien précises, des comportements, des institutions, des hiérarchies, des systèmes d’inclusion et d’exclusion que nous estimions jusque-là parfaitement naturels et nécessaires, inamovibles.

      Ainsi la fameuse #déconstruction de Derrida démontre à son tour l’instabilité de nos schèmes métaphysiques, des distinctions, divisions et hiérarchies qui les constituent et les défont en même temps.

      La critique de ce que nous sommes

      Toujours il s’agit de se demander : comment faire la différence – entre la servitude et la liberté, le pouvoir et la multitude, l’éthique et la politique, la pensée et la bêtise, la raison et la folie, la parole et l’écriture, la joie et la tristesse ? Toujours il s’agit de se demander : peut-on vivre autrement, c’est-à-dire plus librement, d’une façon plus lucide, moins bête, plus humaine ? Toujours il s’agit de comprendre les nouveaux visages du pouvoir. Toujours il s’agit de combattre les nouvelles formes d’assujettissement, irréductibles à la seule coercition, sans se voiler derrière l’illusion que « nous vivons après tout en démocratie », « allez voir comment ça se passe en Chine ou au Kazakhstan ». Comme s’il y avait d’un côté le camp de l’humanisme, du droit, de la liberté, de la démocratie, de l’universel ; et de l’autre le camp de tout ce qui s’y oppose. Comme si les choses n’étaient pas plus compliquées que cela, et que l’on n’avait plus le droit de revendiquer la complexité, la critique de ce que nous sommes, au nom de ce que nous pouvons être.

      Foucault disait : on ne gagne rien à s’emparer de notions générales, qu’on peut mettre à toutes les sauces. Prenons l’humanisme : une fois qu’on l’a clamé sur les toits, on est bien avancé. Le libéralisme se réclame de l’humanisme. Mais le communisme s’en réclamait aussi (et peut-être encore). Le fascisme aussi. Prenons le débat actuel, qui bat son plein en cette période électorale. Déclin ou Progrès ? Fin de la Civilisation ou Tournant ? Grand Remplacement ou Grand Redressement ? Degringolada ou Remontada ? Haine ou Amour de soi (et de la France) ? Autant de pièges à cons, de fausses alternatives, de pôles si généraux qu’ils sont vides de tout sens. C’est cela qui est triste à pleurer, et non le souffle, la vie, le chavirement qui traversent les pensées de Deleuze, Derrida et Foucault. La philosophie se méfie des schémas simples et des notions générales. Seul l’intéresse le sur-mesure.
      La bêtise de l’apothicaire

      Ouvrez Proust et les signes ou Différence et répétition de Deleuze et vous verrez ce qu’il y est dit des capacités inouïes et encore insoupçonnées de notre faculté de connaissance et de raisonnement à épouser notre imagination, nos sensations, notre mémoire, à produire du sens, des valeurs, des savoirs, le tout dans une folle gaîté.

      Lisez L’autre cap de Derrida, et vous y verrez un plaidoyer pour une Europe de la rationalité, des Lumières, de l’héritage judéo-chrétien, et en même temps de l’ouverture à la différence, de l’accueil, de l’hospitalité. Vous y verrez une raison qui s’interroge elle-même, se déconstruit, mais toujours dans le but de plus d’humanité.

      Foucault, lui, répétait qu’il ne souhaitait pas prouver que les sciences humaines étaient, dans leur conception de l’Homme, dans l’erreur, mais qu’elles étaient inévitablement amenées, au nom de la Science et de l’Homme, à faire de certains hommes et de certaines femmes – et, oui, de ceux qui ne tombent ni dans un camp ni dans l’autre – des « vies infâmes » (des anormaux, des monstres, des moins qu’hommes). Ne faut-il pas se réjouir des outils qu’il nous fournit afin de rendre ces groupes plus visibles et plus humains, afin d’engager des luttes pour leurs droits et leur dignité ?

      On est loin du « tout se vaut ».

      La philosophie sert à une chose, disait Nietzsche : nuire à la bêtise. A quoi reconnaît-on la bêtise ? A l’incapacité de distinguer les problèmes et les poser correctement. La bêtise pose les mauvaises questions et entraîne donc les solutions qu’elle mérite. La bêtise de Charles Bovary, comme celle de sa femme, sont inoffensives. Mais la vraie bêtise, dangereuse, c’est celle de Homais l’apothicaire. C’est la bêtise savante et conquérante, mue par la peur et le ressentiment, qui a soif de pouvoir et s’y accroche. Homais défendait les Lumières et attaquait l’Eglise, mais comme un imbécile. Le woke et la cancel culture sont le nouveau clergé à abattre. Vive l’Universel, la Raison, l’Homme, la France ! On se croirait aux comices agricoles ou dans la grande campagne parallèle de l’Homme sans qualité.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/les-anti-woke-et-le-virus-de-la-betise-20220115_SUKIWMXWMVHL3GYAVYR6Q7R3H

  • Pour le pire

    En France, en 2019, 146 femmes ont été tuées par leur conjoint ou leur ex-compagnon. Au travers de trois affaires, une mise en lumière glaçante des mécanismes du féminicide, symptôme d’un dysfonctionnement de la société.

    En France, 84 % des victimes des 173 homicides conjugaux commis en 2019 étaient des femmes. Mais quelle réalité se cache derrière ces chiffres effrayants, que les collectifs féministes contribuent à rendre visibles ? Qui sont ces femmes dont on ne connaît souvent que le prénom, l’âge et les circonstances du décès ? Sindy, 34 ans et enceinte, a été abattue en septembre 2017 sur le quai de la gare de Noyon, avec deux de ses enfants, par son conjoint policier, à qui elle venait d’annoncer sa décision de le quitter. À Corbas, en juillet 2017, les gendarmes ont découvert dans leur appartement les corps en état de décomposition avancée de Michèle, 44 ans, et de sa fille de 18 ans, poignardées par Laurent, le père de famille, chômeur alcoolique qui menait une double vie. La même année, à Toulon, Dorothée a succombé aux coups de couteau portés par son mari au cours du déjeuner de Noël, malgré la tentative d’interposition de leurs enfants.

    Défaillances
    Pour tenter de saisir la mécanique des féminicides, qui surviennent souvent au moment d’une rupture, Aurélia Braud s’est plongée dans des affaires datant de 2017, qu’elle reconstitue au travers des témoignages d’amis et voisins des trois couples, de gendarmes, d’avocats, d’un journaliste ou d’une responsable associative. Alors que 40 % des femmes tuées par leur conjoint ont subi des violences physiques ou psychologiques avant le drame, dans la majorité des cas, l’entourage et la société tout entière n’ont pas su ou pu déceler les signaux d’alerte. Une immersion glaçante dans la violence de ces drames à huis clos, symptômes d’un dysfonctionnement de la société, dont les enfants constituent les victimes collatérales invisibles.

    https://www.arte.tv/fr/videos/090005-000-A/pour-le-pire
    #film #film_documentaire #documentaire

    #féminicide #féminicides #femmes #violences_conjugales #violences_domestiques #France #stéréotypes_de_genre #impunité #rapports_de_domination #domination #discrétion #silence #peur #terrorisme_intra-familial #terrorisme_infra-familial #emprise #isolement #empathie #éducation #déconstruction_du_passage_à_l'acte

  • Vers des #sables alternatifs issus de la déconstruction des bâtiments : le projet de recherche SAND

    Le sable est la 3e ressource consommée dans le monde. Il existe de forts enjeux à développer l’#économie_circulaire de cette ressource non renouvelable : c’est l’objet du #projet_de_recherche #SAND destiné à valoriser du sable issu de la #déconstruction des bâtiments et des #boues_de_bétons dans les mortiers, et à mettre en place une filière de recyclage.

    Le projet de recherche SAND, financé par l’#Ademe et coordonné par l’entreprise #PAREX / #SIKA, est mené en synergie avec #Clamens et le Cerema. Il a pour objectif de produire du sable issu du recyclage de #matériaux_du_bâtiment et des boues de bétons afin d’économiser la #matière_première.

    En effet, le sable est la 3e ressource la plus consommée au monde après l’air et l’eau et son extraction a un fort impact environnemental, et est devenue un enjeu stratégique car sa raréfaction est de plus en plus critique.

    Du #sable_recyclé pour du mortier à usage du bâtiment

    La #dépendance mondiale du sable induit une forte tension au niveau de l’#approvisionnement et une hausse de prix. L’usage d’un #sable_de_substitution pour le bâtiment qui en est le principal consommateur et la création d’une filière de recyclage des #déchets_locaux_inertes du #BTP, dans une démarche d’économie circulaire, répondraient à ces problématiques en développant des emplois locaux.

    Par ailleurs, un procédé de production de sables alternatifs sera mis au point. Ce procédé, économe en énergie, permettrait de produire un gisement homogène et ayant les propriétés requises pour être intégré dans des #mortiers colles ou des mortiers d’enduits.

    Le projet, qui bénéficie d’un financement du #Programme_d’investissement_d’avenir et s’étendra sur quatre ans, sera mené en trois grandes étapes pratiques :

    - Définir les propriétés des sables recyclés qui pourront être incorporés dans des mortiers colles ou des mortiers d’enduits. Différentes propriétés des sables vont être analysées afin de garantir un flux homogène malgré la diversité des sources.
    - Mettre en place des formules adaptées selon le taux d’incorporation des sables recyclés. Les formules seront caractérisées selon les normes en vigueur, notamment d’un point de vue durabilité.
    – Mettre en place un démonstrateur industriel qui pour produire un sable homogène avec un procédé éconologique (économiquement viable et dont l’impact environnemental serait réduit). L’objectif est de s’assurer de la viabilité technique du procédé et de sa reproductibilité pour permettre le développement d’une filière des mortiers recyclés destinés au bâtiment. Ce démonstrateur permettra à terme de traiter 100.000 tonnes de sable par an.

    L’expertise du Cerema en caractérisation des matériaux mobilisée

    L’équipe de recherche DIMA (Durabilité, Innovation et valorisation des Matériaux Alternatifs) du Cerema sera plus particulièrement impliqué dans deux volets qu’il pilotera : l’évaluation des scénarii logistiques et des voies de valorisation des sables, et l’évaluation des impacts environnementaux, économiques et sociétaux des mortiers fabriqués. Des essais en laboratoire seront menés par le Cerema d’Ile-de-France afin de valider les mélanges proposés par le partenaire industriel. Une attention particulière sera portée à la durabilité des mortiers mis en œuvre.

    Dans une seconde phase, les mortiers à base de sables recyclés seront testés avec la pose de carrelages et d’enduits à l’aide de ce mortier sur des bâtiments existants.

    L’objectif final est de permettre la diffusion et la mise en oeuvre du procédé partout où il eut être utile aux filières.

    https://www.cerema.fr/fr/actualites/sables-alternatifs-issus-deconstruction-batiments-projet
    #sable #construction #recyclage #alternative

    et un nouveau mot : #éconologie

    ping @albertocampiphoto

  • Irantzu Varela, #ElTornillo y las fronteras

    La España que quiere seguir siendo rica, blanca, paya y católica necesita fronteras para que no llegue gente buscando una vida mejor. Que no te engañen: esas barreras no están para protegerte, están para proteger a los que llevan siglos beneficiándose del sistema.

    https://www.youtube.com/watch?v=3-ymDvM5DV8

    #frontières #déconstruction #invention #identité #nationalisme #conquête #Espagne #génocide #exploitation #esclavage #violence #colonisation #richesse #migrations #vidéo

    • L’articulation féminin/fécondité est au cœur de ce raisonnement : une femme « normale » serait ainsi une femme féconde. Enfin, le vieillissement est confronté à des représentations hiérarchisées socialement entre les femmes et les hommes. Susan Sontag évoque ainsi un double standard : d’un côté un vieillissement féminin marqué par la ménopause, ancré du côté de la pathologie et de la déficience, perçu comme disqualifiant, et à l’opposé, un vieillissement masculin synonyme de maturité, d’expérience et valorisé.

      #médicalisation
      #idées_reçues
      #gynécologie_masculiniste
      #genre
      #disqualification_sociale

      Et à cela, tu peux ajouter l’#ignorance colportée et entretenue autour du corps des femmes. Notamment l’idée que je ne vois jamais étudié sur la ménopause qui ferait que les femmes ménopausées n’ont plus de sexualité ni de désir, que le vagin devient sec et douloureux. Et que la femme ménopausée soumis au regard masculin qui décide de l’ordre du monde devient donc indésirable dans le pieu mais aussi dans la vie sociale par son propre corps.

      A mes sœurs non ménopausées, n’allez pas croire que cela est vrai, aussi sous ces prétextes dégueulassasses et misogynes ne vous faites pas prescrire sans votre demande expresse des saloperies pour mouiller comme il se doit ou de quelconques hormones qui risquent de déclencher des dysfonctionnements cellulaires.

      #jouir
      #vieillir

  • L’enfant interdit - Comment la pédophilie est devenue scandaleuse | Pierre #Verdrager
    https://www.armand-colin.com/lenfant-interdit-comment-la-pedophilie-est-devenue-scandaleuse-9782200

    « (...) dans certaines sociétés, ce que nous appellerions des actes pédophile sont acceptés comme des actes naturels de la vie sociale » in Tom o’caroll paedophilia, p.38. Les sciences sociales dans leur ensemble n’ont cessé d’encourager ce type de raisonnement. Le schéma inférentiel qui sous-tend cette analyse est le même que celui des analyses de la sociologie critique qui tentent de rendre fragile l’état des choses en faisant référence à d’autres cieux, reprenant par là des arguments relativistes qui sont formulés depuis des siècles, lesquels déduisent de la variation des normes leur arbitraire. La démarche des sciences sociales critiques, qui font rimer variation et arbitraire et souhaitent mettre en évidence le caractère contingent d’éléments qui ne seraient que « naturalisés » parce que préalablement « intériorisés », fut donc fortement mise à contribution [pour défendre la pédophilie]. (...) Les défenseurs de la pédophilie furent des gens qui culturalisaient à tout bout de champ comme le font les professionnels (...) dans Gai Pied , on développe une passion pour les peuples primitifs (...) « près des Asmats, vivent les Marins Anim dont parle Van Baal dans son livre intitulé Dema (...) ils croient à la sodomie comme étant la seule voie possible pour l’enfant de devenir un homme. (...) » [ et Verdrager de donner d’autres exemples de ce « relativisme pédophile »].
    En indexant la variation des attitudes sur celle des latitudes, l’utilisation de l’argument anthropologique visait à rendre contingent et arbitraire le rejet de la pédophilie ayant cours en Occident. Et comme toujours, rendre contingent et arbitraire une pratique sur le plan sémantique aboutit à la rendre vulnérable à la déconstruction sur le plan pragmatique : la dynamique appelle la dynamite.

    (p56-57)

    #pédophilie #relativisme #argumentaire_pédophile

    • même type d’argumentaire là :

      L’enfance est une invention récente.

      Les caractéristiques qu’on lui attribue (innocence, vulnérabilité, dépendance, etc.) sont le produit d’une construction sociale. Les attentions spéciales, la « protection », le « respect » dont les enfants sont l’objet, ainsi que les institutions créées pour eux (l’école en particulier) servent avant tout à les tenir sous tutelle, à les priver de tout pouvoir sur leur vie, à les enfermer dans leur rôle, à les... infantiliser.

      En réexhumant ce texte qui, pour la première fois sans doute, étendait aux enfants l’analyse des mécanismes de domination, nous espérons bien contribuer à donner des outils de lutte à tous ceux, toutes celles -et particulièrement aux mineur-es- qui jugent que la « condition de l’enfance » est inaceptable.

      http://www.tahin-party.org/firestone.html

      peut-être avec de nouvelles visées émancipatrices qui m’échappent, où le sexe avec des enfants est estimé à sa juste dangerosité...

      Je n’ai jamais réussi à lire la domination adulte , notamment parce l’auteur repartait de schérer, comme s’il n’y avait que les penseurs pédophiles pour nous mettre sur la voie de... je ne sais pas trop quoi à vrai dire... parce que pour moi les enfants, depuis 50 ans, ont gagné énormément d’espace, de liberté, de respect... Je ne dirais pas que c’est la teuf, mais ces mouvements qui n’en finissent plus de reprendre l’argumentaire pédophile, en citant duvert, schérer et hocquenghem, comme encore une fois l’ultime libération... alors que les types ont causé des dégâts colossaux...

      L’enfant, en tant que catégorie socialement construite, (...)

      http://www.trounoir.org/?Lire-Hocquenghem-II-L-Education-antisexuelle

      #constructivisme #fabrique #fabrication #déconstruction

    • Toujours dans le chapitre sur la rationalisation de la pédophilie, sa tentative de légitimation par les sciences :

      #Réné_Schérer se référa à la biologie pour défendre l’idée que la puberté démarrait non pas à l’âge de quinze ans mais bien plus tôt, à six ans. Et si Schérer préférait défendre la pédophilie en affirmant la rareté de la pénétration, à Homophonies on a fait appel à des médecins pour certifier que la sodomie des enfants n’était pas un problème.

    • épistémologie bachelardienne va comme un gant à l’argumentaire pédophile (...) être favorable à la pédophilie c’est être du côté de la raison raisonnable et non de la pulsion incontrolée, du côté du petit nombre qui comprend et non de la grande masse qui s’égare, du côté de ceux qui pensent et non de ceux qui sont pensés.

    • La psychanalyse était puissante à un point qu’on a du mal à imaginer aujourd’hui. Omniprésente. Offrit un cadre d’analyse inespéré et réputé scientifique : si la société rejetait la pédophilie c’était qu’elle « résistait » à la sexualité infantile et parce qu’elle était mue par des « tabous ».

    • #élisabeth_badinter, dans son livre L’amour en plus : vise à #dénaturaliser l’amour maternel. En observant les variations du sentiment maternel à travers les âges, elle en conclut au caractère contingent de celui-ci. La conséquence pragmatique d’un tel constat consistait à libérer les femmes d’un amour auquel elles ne sentaient pas nécessairement vouées. Gérard Bach-Ignasse rapportait ainsi que dans dans sa plaidoirie pour la défense de Claude Sigala dans l’affaire du #Coral, son avocat fit référence à Badinter pour considérer des attouchements sexuels comme étant parfaitement anodins (...) chez #gai_pied et au #petit_gredin, cette référence fut également sollicitée : si l’amour maternel était historique et socialement contingent, alors il était arbitraire et n’était pas inévitable. Mutatis mutandis , on appliqua le même raisonnement à la pédophilie (...) cette inférence pouvait être facilitée par le fait que l’auteure défendait un sens très extensif de la pédophilie, puisqu’elle la voyait en toute mère : "je suis vraiment convaincue, affirmait-elle en 1993, qu’il y en a chez toute mère et cela me semble parfaitement naturel. Dans une publicité pour couche culottes, on voit cette images d’une extrême sensualité qui montre un petit bébé sur le ventre et s’approchant de ses fesses, une superbe bouche de femme avec du rouge à lèvres. Il me semble aberrant de hurler à la perversion lorsqu’il y a semblable situation entre un père et ses enfants.

    • Autre grande référence #Philipe_Ariès, l’enfant et la vie familiale sous l’ancien Régime , (...) qui visait à mettre en évidence une triple variation de la notion d’enfance.
      La première, ontologique. Selon l’auteur le « sentiment de l’enfance » (notion reprise par #Vigarello dans son travail sur le viol) n’a pas toujours existé. Il varie avec le temps. le moyen âge ne connaissaient pas ce sentiment. L’enfance aurait donc fait l’objet d’une découverte (...) Il y avait une symétrie,et non un hiatus, entre enfants et adulte.
      Deuxième variation axiologique : la haute valeur de l’enfance serait tardive elle aussi. Il citait Montaigne, qui affirmait avoir perdu « deux ou trois enfants » (...) Troisième variation : sexuelle. L’idée de l’enfant comme être sexué : c’est la psychanalyse qui l’apporterait. Elle aurait été inconnue avant. C’est la raison pour laquelle les adultes n’hésitaient pas à jouer avec le sexe des enfants (...) Paradoxalement, ce qui permettait ces jeux sexuels, était la putative asexualité infantile (...)
      Les théories constructionnistes dans le domaine du sentiment connaissaient un considérable succès dans les années 1980. La thèse de George Duby selon laquelle l’amour était une invention de l’Europe du XIIé siècle rencontrait un large écho et était relayée par la presse gaie. (...)
      Le propos d’Ariès fut tout à fait stratégiques pour les défenseurs de la pédophilie et c’est la raison pour laquelle il fut parfois mobilisé pour dénoncer le caractère réactionnaire, puritain ou rétrograde des normes de conduite proscrivant tout contact sexuel entre adultes et enfants. (...)

    • #Schérer : a soutenu le combat pédophile toute sa vie (...) Incursions dans l’histoire du droit (...) âge de la majorité sexuelle n’est pas éternel et a effectivement varié (...) Reprend argument de #Jean-Jacques_Passay, qui avait retracé l’histoire du droit des mineurs relativement au sexe dans le numéro « #fou_d'enfance » de la revue #Recherches, ou de #Jacques_Girard : l’apparition et le déplacement du seuil s’expliquaient par l’essor de la bourgeoisie puritaine, mouvement que devait amplifier le régime de Vichy. L’apparition et les variations de cet âge de consentement manifestait selon lui l’arbitraire de ce seuil. D’où sa dénonciation sur un mode historico-constructionniste qui fait dériver de la variation des normes leur aberration : sa sémantique historique était une pragmatique politique. S’il faisait l’histoire du droit, c’était pour tenter de conquérir le droit de faire ou plutôt de défaire, l’histoire.

      Autre argument : variation de l’âge de la puberté, selon les personnes et selon les époques (...)

      Rejetait la pédérastie pédagogique, car vectrice d’asymétrie. Pour lui « le pédophile (...) traite l’enfant qu’il désire ou qu’il aime (...) comme un véritable partenaire sexuel ». Schérer considérait que la famille était un lieu clos qui avait besoin d’un tiers. Elle contribuaient à la « fétichisation » de l’enfance. Par cette « mise en croyance », il désignait pragmatiquement deux groupes : ceux qui « croient » au fétiche, qui fait d’eux des croyants crédules, et ceux qui « savent » que l’enfant n’est pas sacré (...) Pour lui, la violence liée à la pédophilie était largement imputable aux peurs des représailles et non à la pédophilie en elle-même. Elle était non pas substantielle mais relationnelle. (...)

    • #Michel_Foucault : 1978 « la loi de la pudeur » Michel Foucault : « aller supposer que du moment qu’il est un enfant, on ne peut pas expliquer ce qu’il en est, que du moment qu’il est un enfant, il ne peut pas être consentant, il y a là deux abus qui sont intolérables, inacceptables ».

      La menace pesant sur la pédophilie lui paraissait viser la société tout entière : « autrefois les lois interdisaient un certain nombre d’actes (...) on condamnait des formes de conduite. Maintenant, ce qu’on est en train de définir, et ce qui, par conséquent, va se trouver fondé par l’intervention et de la loi et du juge et du médecin, ce sont des individus dangereux. On va avoir une société de dangers, avec d’un côté ceux qui sont mis en danger, et d’un autre côté ceux qui sont porteurs de danger. Et la sexualité ne sera plus une conduite avec certaines interdictions précises ; mais la sexualité, ça va devenir cette menace dans toutes les relations sociales, dans tous les rapports d’âges, dans tous les rapports des individus. C’est là sur cette ombre, sur ce fantôme, sur cette peur que le pouvoir essaiera d’avoir prise par une législation apparement généreuse et en tout cas générale » (in la loi de la pudeur ).

      Si Foucault propulsait son discours à de si hauts niveaux de généralité (...) ce n’est pas seulement parce qu’il jugeait les grands problèmes comme seuls véritablement dignes de lui, mais c’était aussi parce qu’il s’agissait d’enrôler un maximum d’acteurs dans la cause pédophile. Si la pédophilie ne concernait pas seulement les pédophiles mais tout un chacun, alors il convenait d’adopter un style prophétique impressionnant où « tout le monde » pouvait se sentir concerné.

    • Une partie de la gauche libertaire considère que l’abolition du statut de mineur permettrait de répondre aux violences sexuelles âgistes. Le raisonnement un peu résumé consiste à dire que sans catégorisation adulte-enfant, non seulement on facilite la « puissance d’agir » des jeunes mais en plus on expulse la notion de pédophilie et d’inceste, pour encourager la liberté dans les rapports amoureux et sexuels contre la morale puritaine, familialiste, âgiste. Qu’en pensez-vous ?

      D.D. – C’est un raisonnement qu’il est très difficile de contrer, les pro-pédophiles contestant tous les arguments en brandissant la responsabilité délétère de la morale sociale opposée à la libéralisation de la sexualité avec des enfants. Ce discours pro-pédophilie a coûté la vie à des tas d’adultes, anciens enfants ‘partenaires’ sexuels de pédophiles et qui n’ont pas supporté l’expérience dépersonnalisante et déshumanisante d’être un objet sexuel. Il faut être très clair à ce sujet : ni en France, ni ailleurs, je n’ai jamais lu, jamais entendu, jamais rencontré quelqu’un qui pouvait témoigner que la sexualité qu’il avait vécu enfant était sans conséquence néfaste sur sa vie adulte. Les bibliothèques sont pleines de témoignages allant dans le sens radicalement contraire. Même les enfants ayant grandi dans les années soixante-dix dans des milieux sociaux libertaires et intellectuellement favorables à la pédophilie témoignent de l’horreur rétrospective d’être le « partenaire » sexuel d’un adulte. Les pro-pédophiles sont de mauvaise foi et mentent ; il faut garder cela en tête.

      https://christinedelphy.wordpress.com/2021/01/11/viol-incestueux-et-on-ose-encore-dire-que-nous-ne-savions

    • bon on dira que je n’ai pas de vie, mais je vous explique le projet vite fait : j’ai lu ce livre et j’en recopie des passages pour m’en, peut-être, servir plus tard. Me dis que ça peut aussi être utile à d’autres (et c’est cool de savoir que je suis pas seul à lire ces merdes ha !)

      Donc la suite :

      DE LA PÉDOPHILIE CONSIDÉRÉE COMME UN DES BEAUX-ARTS

      Je la fait courte, d’aucuns font du chantage à l’avenir (ne pas louper l’art qui sera considéré important demain).

      Fameuse Pétition de matzneff

      ("si une fille de 13 ans à droit à la pilule, c’est pour quoi faire ?")

      Soit dit en passant, violence dans le ton qui me rappelle celle de ginsberg revendiquant son droit aux petits garçons. cf : https://seenthis.net/messages/885607]

      Tony Duvert fut très à la mode et constituait même l’incarnation de ce qui, alors, était dans le vent. Son nom apparu dans La Distinction de Bourdieu dans les propos d’un « jeune cadre qui sait vivre » comme symbole même des livres « un peu stimulants ». (...)

      Alors ça, je paye une bouteille à celle ou celui qui la retrouve :

      La brochure destinée à la jeunesse éditée en 1982 par le ministère de la Jeunesse et des Sports intitulé J’aime, je m’informe qui recommandait la lecture du Bon Sexe illustré, [de Tony duvert] texte vantant les mérites de la pédophilie et argumentant en sa faveur.

      Ce #pedoland_total.

    • LA POLITISATION DE LA PÉDOPHILIE

      Les mouvement pédophiles visaient la collectivisation de leur cause, d’une part en agrégeant les pédophiles entre eux et , d’autre part, en s’adressant au reste de la société, tant sur le plan national qu’international. (...) Ceux qui formèrent des collectifs pédophiles savaient bien que, pour compter, il fallait d’abord se compter car dans ce domaine, le qualitatif - que peut-on faire ?- était fortement lié au quantitatif - combien sommes nous ?

    • En France, c’est le GRED, qui, à partir de 1979 tenta d’imposer l’idée que la question de la défense de la pédophilie relevait de la politique. Ce groupe succéda aux éphémères FLIP, le Front de libération des pédophiles et FRED, le front d’action de recherche pour une enfance différente, mouvement qui ont vu le jour en 1977 pour s’éteindre aussitôt.
      (...)

    • Les difficultés étaient essentiellement liées à la redéfinition du pédophile non plus en tant que coupable d’abus, mais en tant que victime d’une législation « rétrograde ». La victimisation du pédophile se heurta à d’importantes difficultés car la place de la victime dans la relation pédophile était déjà occupée par l’enfant. La victimisation du pédophile, pour réussir, devait donc opérer une redéfinition de la place de l’enfant au sein de cette relation. Cela n’était pas une mince affaire, mais parut « jouable » aux acteurs de l’époque.
      Dans un tel cadre, les publications eurent un rôle très important (...) l’écrit donne du pouvoir (...)
      Au cours des années 1970 et 1980, toute une série publications appartenant peu ou prou à la mouvance pédophile fit son apparition. Backside vit le jour en 1981, pour quelques numéros. Revue de poésie dirigé par #Harold_Giroux qui avait pour sous-titre « écritures-sexualités » elle était pour l’essentiel consacré à des textes érotique illustrés de photo d’enfant nus (...)
      #Bernard_Alapetite fit paraître Beach boy (...) #Jean_Manuel_Vuillaume fonda quant à lui Palestra , (...)il publia de 1984 à 1990 une revue érotique Jean’s (...) qui comportait très peu de textes. Lorsque texte il y avait, il s’agissait le plus souvent de topos d’allure savant, que pouvait réhausser, ça et là, des allusions à Nietzsche, Derrida ou #Barthes, lequel avait été le directeur de thèse de #Vuillaume. La revue qui parle toujours d’"adolescents", faisait une grande place aux enfant prépubères dénudés (...) Vuillaume publia également la revue P’tit Loup entre 1985 et 1990 (...) spécialisée dans les tout jeunes enfants - presque tous impubères, entre cinq et dix ans pour la plupart - et comportait de nombreuse photos de nus. Les photos était parfois assorties de l’expression « bon appétit ». (...)

    • SYMÉTRISATION ADULTES/ENFANTS

      Ceux qui ont tenté d’établir la légitimité de la relation pédophile ont fréquemment fait reposer leur argumentation sur une exigence de symétrie visant à combler l’écart entre l’enfant et l’adulte. C’est la résorption des différentiels entre adulte et enfants qui semblait, pour certains, être la manoeuvre la plus à même de rendre la pédophilie acceptable (...)

    • (...) blocage du sujet au stade infantile se projetant dans l’objet infantile (...) rapprocher l’enfant de l’adulte (...) hypothèse : tout être possède toujours son âme d’enfant. Cette diminution du caractère adulte de l’adulte avait pour viser de le rapprocher de l’enfant.(...)

    • #Symétrisation cognitive : #Tony_Duvert a « fait l’amour avec des gamins parce qu’ils le voulaient bien ; ça ne les embêtait pas » (...) on sollicitait la parole de l’enfant en exigeant qu’on la prenne au sérieux. Symétrisation ontologique : référence à la notion de « personne ». L’#enfant, tout comme l’#adulte était une personne et devait à ce titre (...) avoir « droit » à la sexualité. (...) C’est la raison pour laquelle certains ont considéré que le pédophile était d’un intérêt supérieur au père de famille. Il était le seul à savoir considérer l’enfant comme « embryon de citoyen » et non comme un subordonné. Symétrisation actantielle : il arrive en effet que ce soient les enfants et non les adultes qui prennent une initiative de type sexuel car, selon Tony Duvert « les #gamins aiment faire l’amour comme on se mouche » (...) Pour les #pédophiles il s’agissait non pas de condamner ce « #consentement », mais de le « prendre au sérieux ». #Dominique_Fernandez, tout en estimant qu’il aurait pu « très bien être pédophile », regrettait qu’il y ait « cette erreur de ne pas vouloir savoir que l’enfant a une #sexualité très débordante, folle ». #André_Baudry, de même, défendait l’idée que les « #adolescents » étaient bien souvent à l’initiative des relation sexuelles avec des adultes (...) #Frits_Bernard, quant à lui, considérait que son roman pédophile Costa Brava présentait de l’intérêt dans la mesure où il fournissait le récit d’une telle symétrisation : l’enfant et non l’adulte, était le moteur dans la relation érotique. [pareil pour ] #Tom_O'Caroll.

      Cette thèse fut défendue par certains médecins au cours des années 80. En 1985, #Michèle_Eilstein, dans sa thèse de doctorat de médecine :

      "le mouvement de détournement qu’implique la séduction se retrouve (...) au sein de la relation pédophilique (...) on parle alors de « détournement de mineur ». Mais ne peut-on pas retourner la proposition dans l’autre sens (...) Est-ce que (...) l’enfant ne peut pas devenir celui qui détourne l’adulte de sa sexualité d’adulte ?" (...) Si l’enfant se soumet effectivement à la règle de cette relation duelle, il n’en reste pas moins vrai qu’il conserve la maîtrise du jeu et ce pour deux raison essentielles. La première est en rapport avec l’interdit, l’enfant sait qu’il ne risque rien, alors que l’adulte a tout à perdre dans cette relation. Ainsi, fort de sa parfaite #innocence l’enfant garde la liberté d’interrompre le jeu selon son désir. La deuxième raison tient à la différence de sexualité qui existe entre l’enfant et l’adulte. En effet, ici l’adulte joue avec sa sexualité d’adulte dans laquelle réside une ascension du désir qu’il ne peut arrêter quand il veut. L’enfant, qui lui ne ressent pas ce désir croissant de l’autre mais est simplement satisfait par l’idée même du jeu, possède donc là encore une #emprise sur l’adulte."(...) dans notre société l’enfant (...) a une place privilégiée de « victime innocente » (...) d’autre part les dénonciation calomnieuses faites par des enfants ne sont pas rares (..) il faut savoir se poser la difficile question des limites de son innocence et de sa pureté, venant constituer une véritable forteresse imprenable".

      allez #victime_innocente comme scandale par rapport à la bonne vieille #victime_coupable, on est pas à ça près hein...

    • Ces gestes de symétrisation était encouragés dans les années 70 par les mouvements de #fugues_de_mineurs qui faisaient l’objet d’une importante couverture médiatique (...) on parlait désormais de « #mineurs_en_lutte » dans la presse. Certains furent accueillis à #Vincennes ; Ces enfants affirmaient vouloir « disposer de leur corps et de leur tête ». On parla même à Marseille d’un « mouvement de libération des enfants » par des enfants eux-mêmes (...)

      Symétrisation amoureuse (...) défendue jusqu’en 1997, par exemple dans la revue de #Phillipe_Solers, où l’on publia plusieurs textes qui défendirent l’idée d’une possible symétrie dans ce domaine, comme ceux de #Bertrand_Boulin ou de #René_de_Ceccatty.

    • Pour Je m’aime, je m’informe :
      • un article de Robert Salé, du Monde du 18/06/1984 où, juste avant le #paywall :
      « J’aime, je m’informe »
      https://www.lemonde.fr/archives/article/1984/06/18/j-aime-je-m-informe_3025363_1819218.html

      À la fin de la brochure, le lecteur était renvoyé à neuf ouvrages, parmi lesquels le Bon Sexe illustré, de Tony Duvert et l’Amour, c’est pas triste, de Jane Cousins. Ce n’est pas le genre de livres qu’on conseille généralement aux fiancés catholiques. Toutes les formes de relations sexuelles y sont plus ou moins justifiées, y compris l’inceste et la pédophilie.

      • sinon, aux milieux de beaucoup d’autres documents, la brochure a été déposée le 9 octobre 1985 aux Archives Nationales à Pierrefitte-sur-Seine par le cabinet du Ministre de la Jeunesse et des Sports …
      https://www.siv.archives-nationales.culture.gouv.fr/siv/rechercheconsultation/consultation/ir/pdfIR.action?irId=FRAN_IR_014364

    • #paywall de l’article du monde signalé par @simplicissimus
      C’est intéressant de voir que les références ont certainement été ajoutées infine. Du coup, le travail du Planning familial sur la contraception et les termes clairs pour son usage sont anéantis. De ce que j’observe et lis c’est tout à fait la façon d’agir des pro-viols d’enfants et des pédocriminels, parasiter le discours de libération de la sexualité.
      #stratégie_de_perversion

    • Tout son univers [de Matzneff] respire pourtant la droite extrême depuis ses auteurs admirés (de #Montherlant (...) à #Julius_Evola) ses fréquentations ou ses amis (#Alain_de_Benoist (...) mais aussi #Pierre_Boutang, #Ghislain_de_Diesbach, Pierre #Gripari, #François_d'Orcival, #Roger_Peyrefitte, #Lucien_Rebatet, #Michel_de_Saint_Pierre, ¨#Phillipe_de_Saint_Robert etc.) jusqu’à sa pensée dans laquelle les valeurs aristocratiques, que manifeste le vif rejet de la gauche ou la récurrence des injures adressées aux gens ordinaires, la misogynie ou l’admiration des chefs, ont une place centrale.

    • si les relations asymétrique plaisent aux pédophiles d’extrême droite, c’est avant tout parce que , dans cet univers, on y prise sans doute comme nulle part ailleurs l’autorité, les rapports de domination clairs, les structures hiérarchiques incontestées, comme dans l’armée, où se distribue nettement petits et grands , dominés et dominants, esclaves et maîtres, serviteurs et chefs, masses et élites (...)

    • Les uns [d’extrême droite] et les autres [pédophiles] adoptaient un vocabulaire qui accorde à la singularité une large place : ils se revendiquaient « non conformiste », « dérangeants », et « politiquement incorrects » (...)

    • EXPLICATION DES REJETS DE LA PÉDOPHILIE

      Sociologisation

      Le rejet de la pédophilie s’expliquerait non pas parce qu’elle serait intrinsèquement mauvaise mais parce qu’elle serait l’objet d’un rejet inadéquat (...) les pédophiles n’ont pas eut leur pareil pour sociologiser le rejet dont ils ont fait l’objet. Ainsi au Petit Gredin , on fit référence à une citation du #Marquis_de_Sade qui affirmait que « ce n’est point [sa] façon de penser qui fait [son]malheur, c’est celle des autres ». (...)

      Le psychologue et militant pédophile #Fritz_Bernard considérait que lorsqu’on interroge les enfants qui ont été en contact sexuel avec des adultes, « aucun ne parle d’expérience traumatisante, c’est plutôt le contraire. Ce ne sont pas les actes en eux-mêmes, généralement caresses et masturbation, qui engendrent des problèmes ou des conflits, mais plutôt (...) l’attitude négative de la société qui engendre le traumatisme chez l’enfant »

      (...) #Claude_Sigala (...) « le problème ne vient pas de l’individu [mais] de la norme, du social ». (...) #Sociologisation du rejet fut une ressource cardinale (...)

    • Discréditation et pathologisation

      (..) Profonde « crédulité » de la société s’exprimerait dans la « croyance » en ces « personnages » ou « figures » de fiction que sont le « pédophile monstre » ou « l’enfant pur » (...) L’écrivain #Michel_Tournier regrettait (...) que l’enfant soit depuis Victor Hugo assimilé à un saint. « L’enfant c’est #sacré » se désolait-on de même à #Gai_Pied (...) on ricanait dans la revue de #Phillipe_Solers de l’enfant contemporain, vu comme un « petit jésus mâtiné de litte Bouddha ».

    • Dans les années 70 et 80, on s’affrontait de façon vive afin de répondre à la question suviante : qui est malade ? était-ce les pédophiles qui avaient une sexualité aussi pathologique que pathogène, ou bien « la société » qui, en les pourchassant, manifestait une attitude pathologique ? (...)

      Est-ce que c’étaient les pédophiles qui devaient entamer une psychothérapie pour admettre, par exemple, leur immaturité psycho-sexuelle ou bien était-ce la société qui devait douter de son « #hystérie » et de sa « panique ». On le voit la référence à la #panique est un acte de guerre. Dire de l’autre qu’il ne se maîtrise pas - qu’il est « hystérique » ou « en panique »- a pour effet en retour de laisser penser que celui qui énonce un tel diagnostic contrôle, lui, ses émotions et donc, la situation. (...) Bref, il s’est agi de répondre à la question suivante : qui donc devait aller consulter ?

    • les défenseurs de la pédophilie ont fait l’hypothèse d’une « phobie » antipédophile, d’une « pédophobie »(...) cette hystérie faisait par exemple qu’on n’était jamais sensible à la dimension positive que pourrait avoir la prostitution infantile.
      (...)

    • #Edward_Brongersma opéra ce double mouvement de pathologisation du normal et de normalisation du pathologique en prenant appui sur l’expertise du docteur #Sigusch, professeur de #sexologie, lequel considérait "les adultes qui seraient dépourvus du désir d’avoir des relations sexuelles avec un enfant comme des « figures problématiques ». (...)

      dans la revue Recherches de #Felix_Guattari, on est même allé jusqu’à affirmer qu’il « n’y a pas un homme de quarante ans, qui n’aurait envie, en voyant nu un garçon de quatorze ans, de l’enculer ». Or comme notre société serait « pathologiquement meurtrière », elle opprimerait ce mouvement naturel.

      On s’attendait donc à une dépathologisation de la pédophilie. De même que l’homosexualité avait été sortie en 1973 du (...) #DSM.

    • Mauvaise presse

      Le fait que TF1 — la chaîne de télévision la plus regardée de France qui cristallise tout ce qu’un penseur digne de ce nom peut mépriser — s’empare à ce point de l’affaire Dutroux ne suffisait-il pas à prouver qu’il s’agissait d’une bien mauvaise cause, et ce d’autant plus qu’elle laissait de côté les petits africains en privilégiant les enfants blanc d’Occident ? ( #Annie_Ernaux in L’infini , p62)

    • Pédagogisation

      [Non pas manque de contrôle sexuel des pédophiles mais manque d’information du grand public.]

      La réduction au cognitif était une arme redoutable en ce sens qu’elle plongeait simultanément celui qu’elle visait dans les abîmes de la subjectivité à mesure qu’elle hissait celui qui l’opérait dans les hauteurs de l’objectivité. Les problèmes était donc liés non pas à l’essence de la pédophilie mais à méconnaissance.

      (...)

      Comme « les lois des pays occidentaux montrent une variation incroyable dans la fixation de l’âge du consentement » affirmait le sénateur hollandais pro-pédophile #Edward_Brongersma, cela était censé fournir la « preuve évidente de la maladresse et de l’arbitraire des législateurs confrontés avec un sujet dont ils ne savaient rien ».

      (...)

      Dans un tel contexte, caractérisé, selon #Roger_Peyrefitte, « à la fois [par] un manque d’intelligence et un manque de culture » les associations pédophiles pouvaient prétendre (...) à un rôle important d’information et de démystification.

      (...)

      L’usage du terme « #tabou » (...) rappelle que ce ne sont pas de simples instruments de description classificatoire mais bien des armes pragmatiques dont le but est de transformer le monde. Le « tabou » ce n’est pas seulement l’interdit, c’est l’interdit du « sauvage » dont parlent les anthropologues, c’est dont l’interdit qui transforme celui qui s’y soumet en sauvage.

      (...)

      Le combat pédophile se solda par un fiasco complet.

    • me semble hyper important ça (en gras) :

      3 LA DEROUTE PEDOPHILE

      Les arguments des pédophiles sont devenus des termes, dûment identitifés dans les manuels de psychiatrie, qui servent à établir le diagnostic de ce dont ils sont atteints.

      (...)

      Comme le rapporte Catherine Dolto, « le nombre d’adultes, hommes et femmes, qui racontent avoir été abusés pendant leur enfance est proprement stupéfiant. Ce qui l’est plus encore, c’est qu’ils sont très nombreux à dire que, s’ils en ont parlé dans leur famille, on leur conseillé de se taire. Ceux qui ont consulté des thérapeutes à l’époque sont nombreux à ne leur avoir rien dit ».

      (...)

      Le pédophile n’est plus cet être honteux qui hante le privé et dont on ne dit rien car « on ne parle pas de ces choses-là ». Il est désormais un monstre ignoble à l’identité stabilisée et dont les méfaits doivent désormais être mis « en pleine lumière ».

      Chaque acteur du système de la pédophilie connaît une telle dynamique identitaire. La victime, par exemple, se définit peu à peu comme telle. Avant le milieu des années 1990, le statut du mineur victime d’abus sexuel n’est pas tout à fait clair, s’il on admet qu’une victime pour l’être pleinement doit être considéré comme telle par tout le monde. C’est ce qui explique que des personnes qui, alors qu’elles étaient enfants, ont subi des relations avec des adultes, se sont senties progressivement devenir des « victimes » à mesure que les pédophiles devenaient des « coupables ». L’activité d’un rapport sexuel entre adulte et enfant n’implique pas nécessairement la conscience d’être victime pour celui ou celle qui subit ce que fait l’adulte. L’éditeur #George_Kempf s’est senti être une « victime » de son « agresseur » trente ans après les faits. On peut devenir une victime longtemps après ce qu’on a subi car, comme souvent, il n’y a pas nécessairement coïncidence entre l’activité — être violé— et l’identité —être victime. Dans une autre affaire, un plaignant accuse Monseigneur Di Falco de viol. L’argumentaire de son avocat est le suivant : bien que les faits aient censé avoir eut lieu entre 1972 et 1975, son client n’a compris qu’en 1995 qu’il aurait été victime d’une relation non consentie du fait de la médiatisation des affaires de pédophilie. On peut donc « prendre conscience » d’une identité de victime en découvrant qu’elle est justiciable par d’autres d’une telle « prise de conscience ». D’où ce statut de victime à retardement. Les psys y verraient une manifestation du mécanisme de « refoulement ». Mais cette analyse est largement rétrospective. Pour qu’une personne se sente victime, il faut que tout le circuit du système de la pédophilie soit actif, institutions, associations, coupables, médias. Qu’un acteur, voire plusieurs, viennent à manquer et c’est le court-circuit : plus rien ne se passe, l’identité de victime devient moins stable, plus « subjective ». L’identité de victime est profondément relationnelle, elle suppose l’activité continuée de la collectivité des acteurs participant au système de la pédophilie : son objectivité est la forme réifiée et stabilisée que rend possible tout le système. Plus l’identité de coupable se solidifie et plus l’identité de victime risque de prendre de plus en plus de place dans l’identité de la personne, voire prendre toute la place, au point que certains font l’hypothèse qu’on peut « rester prisonnier toute [la] vie de cet attentat », qu’on peut devenir comme un « mort-vivant » (in Marie-Ondine, pédophilie, une histoire vraie).

      (...)

    • Deux causes permettent de comprendre pourquoi les #féministes ont été hostiles à la cause pédophile. La première fut statistique : l’attrait pédophile semblant bien moins fréquent chez les femmes que chez les hommes (...) il était logique qu’elle n’aient pas été en première ligne pour défendre cette cause, tout au contraire. La seconde était historique : la division sexuelle du travail domestique assignant aux femmes traditionnellement un rôle de protection des enfants, celle-ci ont été sensibles bien plus que les hommes à cette dimension protectrice.

    • DÉPOLITISATION DE LA PÉDOPHILIE

      Les acteurs pédophiles n’ont pas été reconnus comme des acteurs « militants » : tout ce petit monde est entré en #clandestinité.
      (...)

      Accès des femmes aux postes à responsabilité politique, médiatique, judiciaire ou associative, a été déterminant dans la dépolitisation du combat pédophile et la politisation de la lutte contre la pédophilie

      (...)

      C’est là l’ironie de l’histoire : cantonnées, par les hommes, à des postes qu’ils considéraient comme subalternes, elles en ont fait des postes clés, voire des plaques tournantes de toute la vie publique.

      (...)

      En 1980, en pleine vague pro-pédophile, c’est un magazine féminin qui publia un grand papier qui lui était hostile. De 1997 à 2002, c’est une femme, #Ségolène_Royal qui a été le fer de lance de la lutte contre « l’enfance maltraitée » : rapports, missions, circulaires, Royal multiplia les initiatives dans ce domaine. Elle contribua à renforcer l’insertion de la question pédophile dans celle, plus large, de la maltraitance infantile.

      (...)

      Ségolène Royal = bête noire de Matzneff ("la quarkeresse")

      (...)

      sympathie pédo des franges néopaïennes d’extrême droite

      (...)

      rejet de la pédophilie a désormais force de loi.

    • Pierre Verdrager, le sociologue qui a vu un « grand renversement » au sujet de la pédophilie

      https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2021/02/26/pierre-verdrager-le-sociologue-qui-a-vu-un-grand-renversement-au-sujet-de-la

      Armand Colin lui demande de préparer une version courte et actualisée de L’Enfant interdit – celle qui est publiée aujourd’hui sous le titre Le Grand Renversement – et de travailler à une nouvelle version enrichie, prévue pour l’automne.

      [...]

      Il sait qu’il peut être accusé de faire le jeu de l’amalgame entre homosexualité masculine et pédophilie, que les gays ne cessent de combattre. « Je n’ai jamais caché mon homosexualité, précise-t-il. En tant que gay, j’ai plus de facilité à aborder ce sujet et personne ne peut me soupçonner d’être homophobe. »

      [...]

      Il raconte aussi que les féministes ont joué un rôle important dans la défaite de la pédophilie. « La libéralisation de la pédophilie annonçait pour certains gays une victoire de la liberté, écrit-il, alors qu’elle signifiait pour de nombreuses féministes une victoire de la domination masculine. »

    • A sa petite échelle, Pierre Verdrager, 50 ans, a, lui aussi, vécu un grand renversement. La première fois que M le contacte, début décembre 2019, sa réponse est claire et nette : la pédocriminalité et les œuvres de Gabriel Matzneff, c’est fini, il ne s’exprime plus sur ces questions. Il a donné, publié L’Enfant interdit (Armand Colin, 2013) et recueilli d’ailleurs peu d’échos : zéro article de presse, une critique dans une revue spécialisée, deux passages radio et une poignée de colloques. Il termine la traduction d’un livre de l’anthropologue britannique Jack Goody et se dit « peu disponible ».

      [...]

      Pierre Verdrager s’affiche comme un « électron libre » dans le monde de la recherche

      [...]

      « C’est un grand sociologue, avec d’autant plus de mérite qu’il n’est inséré dans aucun cadre institutionnel », admire sa consœur Martine Gross, spécialiste de l’homoparentalité. En 2007, Pierre Verdrager publie L’Homosexualité dans tous ses états (Les Empêcheurs de penser en rond), réalisé à partir d’entretiens. « C’est en lisant les journaux gay comme Gai Pied et en découvrant les articles de défense de la pédophilie que je me suis dit qu’il fallait que je creuse », se souvient-il.

    • merci @ktche j’ai pas fini encore de recopier, il me reste notamment un passage sur les chiffres et l’effet grossissant de l’observation, qui est très clair et très bien dit. C’est un peu sa force je trouve, comme ça par exemple :

      La victime, par exemple, se définit peu à peu comme telle. Avant le milieu des années 1990, le statut du mineur victime d’abus sexuel n’est pas tout à fait clair, s’il on admet qu’une victime pour l’être pleinement doit être considéré comme telle par tout le monde. C’est ce qui explique que des personnes qui, alors qu’elles étaient enfants, ont subi des relations avec des adultes, se sont senties progressivement devenir des « victimes » à mesure que les pédophiles devenaient des « coupables ». L’activité d’un rapport sexuel entre adulte et enfant n’implique pas nécessairement la conscience d’être victime pour celui ou celle qui subit ce que fait l’adulte. L’éditeur #George_Kempf s’est senti être une « victime » de son « agresseur » trente ans après les faits. On peut devenir une victime longtemps après ce qu’on a subi car, comme souvent, il n’y a pas nécessairement coïncidence entre l’activité — être violé— et l’identité —être victime.

      qui est très réel.

    • Merci de partager ta lecture. J’entends ce qu’il dit sur le « devenir victime » mais il y a quelque chose qui cloche tout de même car le déni ou le refoulement sont très puissants et actifs avant que ne puisse intervenir cette prise de conscience « socialisée/judiciarisable » et se caractérise malheureusement par des pathologies et des comportements à risques (voir Salmona qui parle de comment reconnaitre ses signes pour mieux aider).
      J’en viens à penser que cette souffrance indicible ne tient pas que de l’évolution sociale et justement quand elle peut se dire c’est aussi un chemin libératoire pour refuser tous rapports de domination, voire se questionner politiquement. Cela peut soulager la victime et non pas comme il est écrit la poursuivre toute sa vie et la personne victime peut aider à libérer d’autres victimes, ce qui est une grande joie merde quoi quand même, vive la bienveillance.

    • pour moi c’est une explication parallèle, ou complémentaire, au « délai d’apparition » des victimes (je ne sais pas comment dire mieux) délai que l’amnésie traumatique de Salmona explique aussi très justement et pour un grand nombre de personnes, mais qui, pour encore ramener mon nombril dans la place, ne me concerne pas... j’ai jamais rien oublié, mais j’ai mis du temps à interpréter et surtout à accepter ce statut d’ancienne victime. C’est bête mais une émission de Mireille Dumas sur le sujet m’a bp aidé... Je comprends pas trop ce que tu dis sur « poursuivit toute la vie » ...

      tu parle de ça ?

      On peut devenir une victime longtemps après ce qu’on a subi car, comme souvent, il n’y a pas nécessairement coïncidence entre l’activité — être violé— et l’identité —être victime.

    • Je cite le passage plus haut

      Plus l’identité de coupable se solidifie et plus l’identité de victime risque de prendre de plus en plus de place dans l’identité de la personne, voire prendre toute la place, au point que certains font l’hypothèse qu’on peut « rester prisonnier toute [la] vie de cet attentat », qu’on peut devenir comme un « mort-vivant » (in Marie-Ondine, pédophilie, une histoire vraie).

    • la pédocriminalité et les œuvres de Gabriel Matzneff, c’est fini, il ne s’exprime plus sur ces questions. Il a donné, publié L’Enfant interdit (Armand Colin, 2013) et recueilli d’ailleurs peu d’échos : zéro article de presse, une critique dans une revue spécialisée, deux passages radio et une poignée de colloques.

      En 2014, Matzneff à eu le prix Renaudot, du coup ce que dit Pierre Verdrager est faux. Il percevait d’autre part un logement de la ville de Paris et des aides financières de l’etat. Gallimard publiait toujours son journal de pédovioleur et c’est seulement à la sortie du livre de Springora que l’éditeur a découvert ce qu’il éditait et à cessé la diffusion de cet auteur. C’est aussi d’autant plus faux que Matzneff publie encore en 2021 grace aux crowdfounding et qu’il insulte toujours librement ses victimes depuis l’autre coté des alpes.

    • LA PEDOPHILIE PARTOUT

      L’amélioration de l’#observabilité des cas de pédophilie, qui entraîna immanquablement l’augmentation des cas observés, suscita donc une vive inquiétude. Cette inquiétude a été engendrée par l’énonciation de #statistiques toutes plus alarmantes les unes que les autres « une jeune fille sur trois est victime d’une agression sexuelle avant l’adolescence » (...) L’accumulation de #chiffres de ce genre crée une peur diffuse. Ces statistiques peuvent parfois donner lieu à des hypothèses sur l’effondrement de la morale. En 2001, un #sondage fit de la pédophilie la préoccupation n°1 des Français en matière de politique de l’enfance — celle-ci justifiant un renforcement des moyens de lutte contre la pédophilie, qui lui-même augmenta l’observabilité du phénomène pédophile : le phénomène est circulaire.

      (...)

      S’il y a clairement une circularité entre l’amélioration de l’observation et la multiplication des « cas » de pédophilie, je ne souhaite pas la traiter avec ironie ou l’envisager avec le dédain de l’expert s’indignant de l’usage naïf des statistiques : elle appartient aux acteurs eux-mêmes. (...) Pour ce qui me concerne, je me borne à constater cette circularité, laquelle est un phénomène bien connu des sciences sociales et des acteurs de terrain comme les magistrats ou les travailleurs sociaux. Plus on se donne les moyens de voir quelque chose et plus ce quelque chose risque d’apparaître avec netteté et en grand nombre et ceci de façon croissante dans le temps. À la manière de la prophétie auto-réalisatrice, le dispositif d’observation a eu tendance à contribuer à produire les preuves de la pertinence de son existence : il était performatif. #Ian_Hacking fut très certainement fondé à affirmer que « nous ne savons guère si des nombres plus importants sont à mettre sur le compte de l’augmentation de la maltraitance ou d’une meilleure détection de celle-ci, ou encore de l’extension de ce qui est jugé comme telle ». (...) C’est là le paradoxe de ce genre de statistiques : plus elles sont précises, fiables, nombreuses et moins nous savons exactement ce qu’elles mesurent.

      (...)

      Ceux qui se sont penchés sur les statistiques savent cependant qu’il est impossible d’avoir une idée fiable et consensuelle du nombre de pédophiles en France : cela est bien fait pour renforcer l’inquiétude. (...) La répression doit être d’autant plus sévère que l’omerta a été générale. D’où cette demande réitérée de peines toujours plus lourdes, le nombre des années d’emprisonnement semblant à même de compenser les années de retard dans la « prise de conscience ».

    • L’AFFAIBLISSEMENT DES THÈSES #CONSTRUCTIONNISTES SUR L’ENFANCE

      Dans ses derniers livres, le grand anthropologue #Jack_Goody (...) a donné un coup de frein au #constructionnisme intégral dans certains domaines (...) il constate en effet que « pour l’immense majorité de l’humanité, [...] les soins à donner aux enfants sont une choses essentielle » et ceci à toutes les époques. Au-delà, des flottements de seuils, il n’y a pas de variations aussi tranchée qu’on le prétend parfois de la notion d’enfance d’une civilisation à l’autre et faire naître l’enfance en Occident à l’époque moderne relève, selon lui, de l’ethnocentrisme le plus étroit. (...) Pour [Goody] il existe un lien entre l’hyperconstructionnisme historiciste et l’ethnocentrisme.

      (...)

      La notion de « construction sociale », si elle a pu fournir un levier extraordinaire à la lutte militante, car ce qui est construit peut être déconstruit et changé, a aussi freiné la réflexion (...) Ian Hacking considère que certains des emplois de la notion de « construction sociale » sont intellectuellement paresseux (...) il constate par exemple que lorsqu’Aristote parle du plus pur exemple d’amour, il cite le cas de celui qu’une mère porte à son enfant, remarque qui fragilise les thèses constructionnistes soutenues avec vigueur dans ce domaine, de Philipe Ariès à Elisabeth Badinter

      (...)

      le sol constructionniste des défenseurs de la pédophilie s’ouvre chaque jour un peu plus sous leur pieds.

    • FRAGILITÉ DU MOUVEMENT PÉDOPHILE

      #André_Baudry avait bien essayé d’organiser les choses à #Arcadie [une des premières assos gay en France ndgwyneth] (...) pour autant il s’était rapidement heurté à des déconvenues : « il y a de nombreuses années, écrivit-il en 1982, nous avions constitué un groupe de réflexion rassemblant des pédophiles. Ils se réunissaient par dix ou vingt. Je leur avait demandé d’étudier ensemble le problème pédophile, de rassembler des documents divers et irréfutables, de faire parler l’Histoire, la morale, la psychologie, la sociologie, la littérature, en un mot de rassembler toutes ces données afin de publier un manifeste honnête sur ce terrible problème. Les réunions, malgré la bonne volonté de leur animateur, devinrent vite des réunions de voyeurs, d’exhibitionnistes, de rêveurs... une agence pour pédophiles. On se racontait ses bonnes, ses mauvaises, ses infructueuses rencontres de la semaine, en faisant circuler des revues qui, à l’époque, arrivaient de Scandinavie, voire même des photos récentes prises sur le vif entre tel participant et un adolescent (le pédophile la manie de l’appareil photo ! (cc @touti). On organisait un voyage vers le Maroc, la Tunisie, les Philipines... On vivait la pédophilie comme chacun aurait bien voulu la réaliser, mais on était loin de ce travail de recherche honnête, seul capable de faire progresser les choses à cette époque. Je n’eus pas à intervenir, le groupe cessa de vivre ».

    • 4. Du point de vue pédophile

      SUBCULTURE ?

      (...) il existe bien deux journées mondiales qui sont programmées chaque année afin de défendre la cause pédophile. Il s’agit de la Alice’s day (25 avril) et de la journée Boy Love (21 juin) [mais] pour l’essentiel, les pédophiles s’exprimant à visage découvert appartiennent au passé.

      (...)

      Un langage codé prolifère sur internet. L’enfant y devient un « Jigé », forme lexicalisé de l’abréviation « JG », signifiant « Jeune Garçon » qui est lui-même un euphémisme d’enfant de sexe masculin. Le pédophile, quant à lui, y est désigné comme un « boy lover », qui s’abrège en « BL ». Sur certains sites pédophiles, on a coutume de mettre en capitales les lettres B et L dans les mots qui comprennent ces deux lettres dans cette ordre. Par exemple on écrira « sensiBiLité » ou « biBLiothèque »

      (...)

      #Internet va comme un gant au monde pédophile. C’est un univers où l’on peut se renseigner sur les risques encourus, se plaindre des épreuves traversées, deviser avec des inconnus, évoquer les « Jigés » croisés, voir presque sans être vu, et rêvasser sans relâche à un monde jugé « meilleur », c’est-à-dire plus clément vis-à-vis des amours pédophiles. De nombreuses conversations sont le lieu d’une intense critique de « la société ». (...) les pédophiles (...) sont également présent sur un site essentiel du Web 2.0 : #Wikipédia. D’une manière générale, les articles qui font référence à la pédophilie, s’ils proposent des informations ou des références bibliographiques tout à fait intéressantes (...) manquent de neutralité. Ils ont tendance à présenter la pédophilie d’une manière extrêmement favorable . Les pages wikipédia sont particulièrement stratégiques car elles sont généralement bien positionnées dans les résultats des principaux moteurs de recherche, comme Google. La guerre de la pédophilie a donc désormais lieu sur la Toile.

    • Pour finir...

      LE SYNDROME DES #FAUX_SOUVENIRS­

      Au cours des années 80, on assista au états-unis à une explosion de plaintes de personnes déclarant, longtemps après les avoir oubliés, des abus sexuels pendant l’enfance. (…) Une psychologue, #Elizabeth_Loftus, tenta d’élucider cette explosion de cas avec sa théorie des « faux souvenirs ». Ces faux souvenirs seraient une création pure de la #thérapie qui suggère que ces abus ont eu lieu. Ses travaux furent controversés. Certaines féministes lui reprochèrent de mettre en cause la parole des femmes et par conséquent d’être une alliée objective des pédophiles. Certains #psychanalystes, parce qu’elle critiquait la notion de refoulement, qui pour elle était sans bases objectives, lui reprochèrent de saper les fondements mêmes de la psychanalyse.(...) La question demeure, encore aujourd’hui, hautement controversée car les intérêts en présence sont considérables.

      Quel était l’argument d’Elizabeth Loftus ? Selon elle, un des éléments qui permettait d’expliquer la multiplication d’abus sexuels sur enfants fut la vogue, dans les années 80, notamment aux états-unis, des thérapies dites de la "#mémoire retrouvée. Ces thérapies défendaient l’idée que certaines #troubles psychiques pouvaient s’expliquer par l’enfouissement de souvenirs d’événements oubliés. La guérison requérait de déterrer ces souvenirs. S’inspirant des théories de #Freud, ces thérapies faisaient le pari que les troubles psychiques d’aujourd’hui pouvait être imputable au refoulement des abus sexuels subis pendant l’enfance : à force de regarder les nuages de leur passé, les patients finissaient toujours par y découvrir des abus sexuels. Les faux souvenirs étaient congruents avec l’épidémie de pédophilie et, en même temps, la généraient : ils créaient des situations de conflits innombrables et détruisit des familles où les enfants accusaient à tort les parents de les avoir abusés sexuellement. Les dégâts furent si considérables que des institutions prenant la défense des familles injustement accusées se mirent en place (…) Ces faux souvenirs étaient pour l’essentiel, produit par la théorie qui les conceptualisait. Les thérapeutes, en induisant le fait que le traumatisme présent était le produit d’abus sexuels passés, engendraient les faux souvenirs de patients qui, localisant une cause, se sentaient soudain bien mieux. Le fait que les patients refusaient parfois de se rendre à cette thèse confirmait la théorie : le « déni » était une preuve supplémentaire qu’il y avait bien eu abus. La théorie devenait irréfutable : si les patients trouvaient des souvenirs d’abus, c’est parce que des abus avaient eu lieu, s’ils n’en trouvaient pas, c’est aussi parce qu’ils avaient eu lieu, chose que les patients « refoulaient » : la réalité ne régulait plus rien, la théorie était, quoiqu’il advînt, vraie. Freud , lui même, pourtant, avait abandonné la théorie de la séduction, théorie qui faisait le lien entre un traumatisme et un abus sexuel subi dans l’enfance. Il s’était rendu compte que les patients inventaient de toute pièces des abus qu’il avait lui-même suggérés. Il se retrouvait avec un trop grand nombre de cas d’abus (…)

      Lorsque Freud constata l’échec de la théorie de la séduction, il passa à la théorie de l’OEdipe qui laissait une large place à l’aspect « fantasmatique » des choses. La nouvelle théorie permettait de se passer des abus sexuels réels pour basculer sur le plan du fantasme. Le problème est que cette théorie compliqua considérablement la vie des personnes qui avaient été réellement victimes d’abus pendant leur enfance puisque le soupçon pesait désormais sur eux que ce qu’il rapportaient était « fantasmatique » et n’était donc arrivé que dans leur imagination. C’est la « pulsion de mort » inhérente à la triangulation oedipienne. Ce déni psychanalytique encouragea le mouvement féministe à adopter des thérapies alternatives. Un mouvement des thérapies de la mémoire retrouvée ( recovered memory movement ) se mit même en place, de nombreux livres de témoignages de victimes d’abus sexuels dans l’enfance furent alors publiés. Et c’est alors que commencèrent à déferler les faux souvenirs. Pourtant la théorie du refoulement prêtait à la critique. En effet, les enfants traumatisés par des abus sexuels se souviennent d’ordinaire parfaitement bien des traumatismes qu’ils ont subis. Nul besoin n’était d’aller les débusquer dans les tréfonds de l’esprit de souvenirs enfouis. Car le problème des événement traumatisants ne réside pas dans leur enfouissement ou leur refoulement mais bien, tout au contraire, dans leur incapacité à se faire oublier.
      (…)
      caractère #iatrogène -produit par la thérapie-

      (…)

      En France, c’est essentiellement par le biais de la lutte contre les sectes que la question des faux souvenirs a été abordée. (…) l’#AFSI (association Alerte aux Faux Souvenirs Induits) constata que certaines sectes manipulaient leurs adeptes en leur faisant se souvenir d’abus sexuels qui ne s’étaient jamais produits (…) Mais déjà, le danger guette : l’association a conscience d’être elle-même vulnérable à la récupération par d’authentiques pédophiles qui tenteraient de se faire dédouaner par son biais. (…) Ces fausses accusations font de singulier dégâts sur les victimes : maladies, dépressions, suicides. La mission recommande ainsi un meilleur encadrement des psychothérapies et en appelle à la formation des personnels – policiers, magistrats— susceptible d’être confrontés à ce type de réalité. Tout le monde a peur que l’explosion des signalements de cas de pédophilie, incestueuse ou non, ayant eu lieu dans les années 1980 ne se reproduise en France...

  • Chronique d’une communication cartographique ratée. Déconstruction critique des cartes du gouvernement français pendant la crise de la COVID-19 au printemps 2020

    Le gouvernement français[1] a montré 40 cartes différentes concernant les enjeux sanitaires de la crise liée à l’#épidémie de COVID-19 entre mars et juin 2020[2]. Le Premier ministre Édouard Philippe, son ministre de la Santé Olivier Véran et le directeur général de la santé, Jérôme Salomon, ont tour à tour présenté lors de leurs conférences de presse régulières des #cartes représentant les transferts de patients en #réanimation [3], le #taux_d’occupation des services de réanimation [4], les rapatriements [5], les passages aux urgences dus à des suspicions de COVID-19 [6], la couverture des besoins en #tests_virologiques [7], la positivité de ces tests, l’évolution du R-effectif [8], et des synthèses de certaines de ces différentes informations [9]. La quasi-totalité des cartes (93 %) représente l’un de ces #indicateurs à l’échelle de la France métropolitaine et des Départements et Régions d’Outre-Mer (DROM), selon les mailles départementales (59 % des cartes) ou régionales (37 %).

    Il y a trente ans, les travaux de John Brian Harley sur la #déconstruction des cartes (Harley, 1989), de Dennis Woods sur leur pouvoir (Woods, 1992), ou encore de Mark Monmonier sur les mensonges dont elles peuvent être porteuses (Monmonier, 1991), avertissaient de l’intrication du #pouvoir et des #techniques_cartographiques, du caractère construit et discursif des cartes, et donc de la nécessité d’un #décodage_critique de ces images et des #croyances_positivistes qui y sont associées. Il est aujourd’hui encore nécessaire d’adopter cette démarche critique pour comprendre le statut et la portée des quarante cartes gouvernementales du Coronavirus. Ainsi peut-on mettre en lumière que ces cartes ne sont pas dissociables des #discours qui les accompagnent (ou qu’elles accompagnent) et qu’ensemble ils servent finalement moins à l’exposition de faits scientifiques, qu’à la gestion d’une #crise_politique.

    http://www.jssj.org/article/chronique-dune-communication-cartographique-ratee-deconstruction-critique-des-

    #cartographie #cartes_gouvernementales #France #visualisation #confinement #covid-19 #coronavirus #vert #rouge

    On avait parlé de ces cartes sur seenthis... mais je ne retrouve pas le fil de discussion...

    via @reka
    ping @simplicissimus @visionscarto

  • #Greve5decembre ou #GreveGenerale ?
    "L’art de la lutte c’est de transformer même le pire en idée progressiste" - Les multiples éclairs et punchlines de Bernard Friot sont un régal dans une époque confusionniste .
    https://www.flickr.com/photos/valkphotos/49143028597

    Flickr

    ValK. a posté une #photo :
    Plus d’infos sur la soirée et la caisse de solidarité de greve de la CNT : https://nantes.indymedia.org/events/47466
    .
    #travail #retraite #tromperie #capitalisme #deconstruction
    .
    📷 #photo (cc-nc-sa) ValK.
    👀 + de photos : https://frama.link/valk
    ℹ infos, liens et soutien : https://liberapay.com/ValK

    • Pas sûre que j’aie le courage de faire un compte-rendu de la soirée : presque 3h de conf c’est beaucoup trop long et passées les premières minutes fort sympathiques il a de plus en plus fait la promo du communisme, seul apte à nous sauver, c’était très lourd... sans parler de paroles et attitudes capacitistes ou gênantes pour certain-e-s catégories (bras d’honneurs, cris du cœur pour que tout le monde travaille jusqu’au bout de sa vie afin de « mourir sans age »)... mais super ambiance et caisse de solidarité bien remplie : c’est le principal.
      Je vais mettre d’autres photos dans la journée je pense...

      Concernant l’extrait vidéo où il dit son amitié pour Chouard et renvoie dos à dos fachos et antifas, puisque ça a été évoqué ça et là, il a reconnu son erreur et son emportement et s’en explique ici :

      J’ai toujours dit également – et le 5 février comme à d’autres occasions- ce qui me sépare d’Etienne Chouard, dont le travail m’a alerté, et je lui en suis reconnaissant, sur le caractère antidémocratique de la logique représentative /.../ Je considère que le complotisme est aussi dangereux que démobilisateur. Que la liberté d’expression a et doit avoir des limites légales, entre autres en matière de lutte contre l’antisémitisme. Que « lutter contre la doxa » ne fait pas de la personne un « résistant », surtout quand la « doxa » à laquelle on « résiste » est l’existence des chambres à gaz. Et que vouloir s’adresser aux électeurs du RN ne passe en aucun cas par la prise au sérieux de ceux qu’ils prennent au sérieux, sauf à risquer d’être une passerelle vers la nébuleuse floue de groupes d’extrême-droite très présents sur les réseaux sociaux.

      source : https://gauchedecombat.net/2019/08/25/antifas-droit-de-reponse-du-reseau-salariat-et-de-bernard-friot

  • L’invenzione della nazione: storia di un’idea sempre attuale

    La Nazione - così come concetto - è una costruzione di natura storica, ma, a ben vedere, è anche la nostra casa, il luogo dove ci rifugiamo e dove possiamo invitare o meno ospiti e amici, chiudere o aprire porte e finestre, cambiare i mobili, ristrutturare il soggiorno. Lo facciamo - da sempre - a seconda di come leggiamo la sua Storia: chiudiamo tutto se pensiamo che la Nazione sia sempre esistita e sia legata a un popolo solo, immutabile nella sua composizione. La apriamo e la modifichiamo volentieri, invece, se pensiamo che sia l’inevitabile prodotto di incroci, scambi, creazioni e, perché no, anche di invenzioni.

    http://www.historycast.org/podcast/024.htm

    #nationalisme #nation #Etat-nation #audio #ressources_pédagogiques #histoire #déconstruction

  • Cartographier les migrations #1 : Un monde de cartes

    Verbatim

    Cela fait longtemps que l’Humanité produit différents types de cartes. Cartes polynésiennes, table de #Peutinger, portulans, etc., nombre d’entre elles étaient notamment conçues pour le repérage et l’organisation des déplacements humains sur terre ou en mer.

    L’histoire de la cartographie est aussi l’histoire de la représentation du Monde. Si la première carte du monde connu date de l’époque babylonienne (vers 600 avant notre ère), ce sont les grecs qui ont posé les fondements de la cartographie scientifique : mesure de la rotondité de la terre (Ératosthène), systèmes de projection, découpages en zones, etc.

    Les premières représentations de données sous la forme de graphiques sont également très anciennes : elles datent du XIVe siècle et sont signées Nicolas Oresme, un intellectuel né en Allemagne, ancien évêque de Lisieux à qui sont attribués les premiers histogrammes de l’Histoire.

    En 1826, une conjonction graphique qui mêle ces histoires de la mise en graphique et de la cartographie s’ouvre avec les travaux du français #Charles_Dupin. Nait alors la première carte (#choroplèthe) représentant des données statistiques localisées invisibles à l’œil nu, une carte de l’instruction populaire en France. Comme l’indique #Gilles_Palsky, on a effectivement d’abord appris à représenter le temps sous la forme de diagramme, puis l’espace sous la forme de carte.

    Et puis, il y a #Charles_Joseph_Minard, ingénieur civil français qui entreprend, à l’heure de la retraite, un travail considérable de cartographie statistique fondé sur « un calcul par l’œil ». Sa carte figurative sur la Campagne de Russie de 1812-1813 est d’ailleurs considérée aujourd’hui comme le « Gold Standard » de la dataviz.

    Minard produira nombre de cartes et graphiques descriptifs de mouvements de transports, avant d’étudier également ceux de populations humaines. Sa mise au point de plusieurs variables visuelles posera les fondements d’une école française de la sémiologie cartographique.

    La publication illustrée des Lois de la migration à la fin du XIXe siècle par #Ernst_Georg_Ravenstein, cartographe allemand installé à Londres, ouvre la voie vers un changement de paradigme théorique : les approches monographiques, purement descriptives, sont progressivement complétées par une vision idiographique qui donnera lieu à un renouvellement progressif des méthodes et des cartographies correspondantes.

    Le tournant spatial de la fin des années 1960 entraînera dans son sillage un renouvellement de la figure de la carte statistique liée à un double mouvement. D’une part, les principes de sémiologie acquis au cours du temps sont formalisés par Jacques Bertin, dans le registre de la cartographie générale ; ils incluent à la marge des considérations liées aux déplacements. D’autre part, le développement d’une algorithmie spécifique au traitement et à l’analyse de données localisées va devenir une pratique courante avec les travaux de #Waldo_Rudolf_Tobler, géographe américain qui publiera, notamment, les premiers scripts autorisant le dessin automatique sur une carte, décrivant en particulier des interactions territoriales par des flux ; plus généralement l’émergence de nouveaux outils, les Systèmes d’information géographique.

    La production cartographique actuelle sur les déplacements, forte des acquis théoriques et méthodologiques du passé, est soutenue ces dernières années par le développement de l’informatique graphique et un engouement général pour la cartographie. Sa fabrique connaît en effet un renouvellement profond dans le contexte de la cartographie 2.0, une évolution en même temps qu’une ouverture des outils et des pratiques qui s’inscrit dans un contexte de permanence de questionnements anciens (figurer des routes, des directions majeures, montrer des zones d’accumulation, …).

    https://neocarto.hypotheses.org/5807

    #vidéo #migrations #cartographie #visualisation #Nicolas_Lambert et #Françoise_Bahoken (@fbahoken) #mobilité #flux #histoire_de_la_cartographie #histoire

    https://www.youtube.com/watch?v=j-QeXDiK1Iw

    #ressources_pédagogiques
    ping @karine4

    • Cartographier les migrations #2 : enjeux théoriques et méthodologiques

      Verbatim

      Les images cartographiques produites au cours du temps sur des mouvements et déplacements apparaissent diverses dans leur forme, dans leur fond et dans leur mise en œuvre. Dans la mesure où elles peuvent être (perçues comme) complexes, il devient intéressant de les examiner de plus près.

      Pour cela, il convient d’adopter une posture critique dé-constructive de ces images pour essayer d’identifier les éléments qui les composent, leur structure élémentaire et plus loin leur fondement théorique. Quel est le processus mis en œuvre pour réaliser cette carte de migrations ? Dans quel cadre théorique (approche réseau, approche gravitaire, approche visuelle) s’inscrit-elle ? Quel phénomène y est symbolisé ? A l’aide de quels procédés ?

      Cette seconde partie du séminaire met en œuvre une approche compréhensive à visée pédagogique, pour présenter les enjeux théoriques et méthodologiques d’une cartographie de migrations. Le rappel des notions mobilisées concernant la mesure de l’information est mis en perspective avec la symbolisation cartographique qui peut être réalisée en lien avec une difficulté spécifique qui se pose d’emblée pour les migrations.

      L’usage de la #flèche génère une erreur qui conduit généralement à interpréter son dessin sur une carte comme une généralisation de comportements individuels, alors qu’elle symbolise plutôt le comportement d’un agrégat – et non celui d’un groupe ou d’un individu. Son examen conduit à arbitrer sur le choix du niveau de chacune des composantes (sociale, spatiale, temporelle …) mobilisée dans l’analyse cartographique des déplacements, en général.

      La prise en compte de ces choix théoriques dans la symbolisation graphique des migrations n’est donc pas sans conséquences sur le type d’images réalisée, sur leur signification. On montre enfin qu’il existe en réalité trois modalités cartographiques de ces déplacements qui diffèrent fondamentalement sur les plan graphique et théorique.

      https://www.youtube.com/watch?v=Xy5M-Irpom0


      https://neocarto.hypotheses.org/5809
      #flèches

    • Cartographier les migrations #3 : enjeux rhétoriques
      Verbatim

      La carte est l’instrument fondamental du géographe. Elle permet de faire émerger des hypothèses, de tester une intuition, de valider un raisonnement, de spatialiser le regard. En sciences, la carte peut d’ailleurs valoir de preuve. L’élaboration d’une carte à la fin d’un processus de recherche permet aussi d’expliquer par l’image le résultat d’un raisonnement donnant toujours lieu à une #représentation donnée du Monde, située. Le fait qu’il y ait 1000 et 1 manières de mettre le Monde en cartes suggère autant de discours envisageables. La carte illustre en réalité, par l’intermédiaire d’un langage graphique plus ou moins formel, un ensemble d’arguments dont la présentation n’est pas dénuée de techniques de rhétorique.

      Certaines cartes de l’agence #Frontex en sont l’exemple frappant. En représentant des migrations sud-nord par de grosses flèches rouges pointant de façon menaçante vers les pays de l’Union européenne, leurs cartes font plus que mettre, simplement, des chiffres en images. Elles racontent un phénomène inscrit dans un espace géographique, de son point de vue : celui d’une autorité qui considère qu’il faut « protéger » les frontières européennes de l’arrivée de migrants jugés trop nombreux. Le mode de représentation traduit un parti pris cartographique indéniable pour soutenir leur position. Et pourtant, d’autres choix étaient possibles : en jouant sur l’#échelle du rendu ou sur les #figurés graphiques eux-mêmes, ou sur les questionnements sous-jacents. Qu’y a-t-il derrière ces grosses flèches rouges ? Quid des histoires individuelles de ces hommes, de ces femmes et enfants en migration ?

      Faire une carte, ce n’est pas mettre en image le réel, c’est en représenter une facette. C’est porter un regard sur le Monde, donner une représentation nécessairement tronquée et simplifiée de la réalité. La réalisation d’une carte résultant de choix pris dans un éventail de possibles, elle n’est ni totalement objective, ni complètement neutre ; elle se doit donc d’être conçue avec honnêteté.

      Les cartes servent aussi à dénoncer, à alerter. C’est l’objectif de celles qui sont réalisées depuis 2003 sur les morts et portés disparus aux frontières de l’Europe. En montrant les logiques spatiales et leurs évolutions à travers le temps, ces cartes permettent de mettre directement en cause les politiques de durcissement des frontières extérieures de l’Union européenne et leurs conséquences. Chaque fois qu’un point de passage est fermé (détroit de Gibraltar, Iles Canaries, Lampedusa,  etc.), les #flux_migratoires sont déviés mais non stoppés. En d’autres termes, chaque fermeture conduit à des morts… La carte réalisée dans ce contexte joue alors un rôle de contestation qui n’est pas sans rappeler la démarche du géographe américain #Wiliam_Bunge.

      Enfin, l’exemple de la cartographie des migrants syriens permet de montrer à quel point les images cartographiques peuvent être sujettes à caution. En changeant les mots, les couleurs, la taille des symboles, l’emprise de la vue, il est possible de faire tout dire à une carte, et son contraire ! À travers cet exercice de #déconstruction, l’esprit critique est de mise. Cette mise en garde permet de démontrer qu’aucune carte n’est innocente ; que derrière chacune d’elles se cachent des choix et des intentions qu’il faut savoir débusquer pour bien comprendre son message.

      https://neocarto.hypotheses.org/5811
      #rouge #préjugés #invasion #afflux

  • IL «PULL FACTOR» NON ESISTE. Con #SeaWatch3 da 12 giorni al largo di #Lampedusa, terzo aggiornamento. Tra l’1 maggio e il 21 giugno dalla #Libia sono partite almeno 3.926 persone. Con Ong al largo, 62 partenze al giorno. Senza Ong, 76 partenze.

    Se ci limitiamo ai soli giorni di giugno, il dato è ancora più eclatante. Con #SeaWatch3 al largo, dalla #Libia sono partite 52 persone al giorno. Senza Ong, 94 partenze.

    Tra l’1 maggio e il 21 giugno dalla #Libia sono partite almeno 3.962 persone. 431 partite quando le Ong erano al largo delle coste libiche. 3.495 partite senza nessun assetto europeo (pubblicamente) in mare a fare ricerca e soccorso.


    NB: non è che senza Ong in mare si parta di più — sarebbe un pull factor all’incontrario. La differenza tra le partenze al giorno dalla Libia, con o senza Ong, non è significativa. Semplicemente, non c’è alcuna correlazione tra attività Ong in mare e partenze.

    https://twitter.com/emmevilla/status/1142685495526395906

    #Matteo_Villa #pull-factor #facteur_pull #appel_d'air #statistiques #chiffres #fact-checking #2019 #Méditerranée #ONG #asile #migrations #réfugiés #frontières #démonstration #déconstruction #Libye #départs

    ping @isskein

    • "Lampedusa ha superato da tempo la sua capacità d’accoglienza: sull’isola ci sono già i 42 passeggeri della Sea-Watch 3, sbarcati dopo 17 giorni di attraversata, e altri cento arrivati senza creare scalpore. Su di loro il ministro dell’interno Matteo Salvini non ha speso nemmeno una parola. Però quando la Sea-Watch 3 ha fatto rotta verso la costa italiana Salvini ha scatenato il putiferio.
      (...)
      In effetti in Italia continuano ad arrivare i migranti: mille a giugno, più di 2500 all’inizio dell’anno. Certo, sono molti meno rispetto a un paio di anni fa, ma comunque troppi rispetto alle promesse fatte da Salvini agli elettori. Come deve presentare questi numeri? C’è sempre un’invasione da combattere, o si tratta di una cifra relativamente piccola e tollerabile? Nel primo caso avrebbe fallito, nel secondo caso il tema diventerebbe secondario. E forse per Salvini la seconda opzione è perfino peggiore della prima.
      (...)
      Il leader della Lega, infatti, deve assolutamente mantenere il tema dei migranti al centro del dibattito politico italiano, è il suo terreno di battaglia preferito, soprattutto in vista di eventuali elezioni anticipate a settembre. Salvini spera che la Lega si affermi come primo partito d’Italia e aspira a diventare presidente del consiglio. Fino ad allora deve tenere in vita l’immagine dell’uomo che sa imporsi, altrimenti le sue speranze di vittoria sono perdute. Un nuovo nemico, deve aver pensato Salvini, lo farebbe uscire dal vicolo cieco. E quale miglior nemico degli ’aiutanti dei trafficanti’, come spesso ha definito le navi gestite da volontari che salvano i naufraghi in mare? Grazie a loro arriva in Italia un numero irrilevante di profughi, ma sono la controparte perfetta per la sua messinscena. Per questo ha alzato il livello dello scontro con la Sea-Watch 3.

      Source: Hans-Jürgen Schlamp, «Una nemica perfetta», in Internazionale, n°1314, juillet 2019 (original: Der Spiegel), pp.19-20.
      https://www.internazionale.it/sommario/1314
      #Salvini #Carola_Rackete #Rackete #Matteo_Salvini

    • Con #OpenArms ancora al largo e #OceanViking che ha fatto un salvataggio, RECAP.

      Tra l’1 gennaio e il 9 agosto dalla #Libia sono partite almeno 8.551 persone.

      Con Ong al largo, 31 partenze al giorno.
      Senza Ong, 41 partenze al giorno.


      1.624 partite quando le Ong erano al largo delle coste libiche.
      6.927 partite senza nessun assetto europeo a fare ricerca e soccorso.

      https://twitter.com/emmevilla/status/1159814415950241792

    • Sea rescue NGOs : a pull factor of irregular migration?

      The argument that maritime Search and Rescue (SAR) operations act as a ‘pull factor’ of irregular seaborne migration has become commonplace during the Mediterranean ‘refugee crisis’. This claim has frequently been used to criticize humanitarian non-governmental organizations (NGOs) conducting SAR off the coast of Libya, which are considered to provide “an incentive for human smugglers to arrange departures” (Italian Senate 2017: 9). In this policy brief, we scrutinise this argument by examining monthly migratory flows from Libya to Italy between 2014 and October 2019. We find no relationship between the presence of NGOs at sea and the number of migrants leaving Libyan shores. Although more data and further research are needed, the results of our analysis call into question the claim that non-governmental SAR operations are a pull factor of irregular migration across the Mediterranean sea.

      https://cadmus.eui.eu/handle/1814/65024

    • Migrants from Libya not driven by hope of being rescued at sea – study

      No link found between number of Mediterranean crossings and level of NGO rescue ship activity.

      No valid statistical link exists between the likelihood that migrants will be rescued at sea and the number of attempted Mediterranean crossings, a study has found. The findings challenge the widespread claim in Europe that NGO search and rescue activity has been a pull factor for migrants.

      Fear that the NGOs’ missions attract immigrants has been the basis for measures restricting humanitarian ships including requiring them to sign up to codes of conduct or simply blocking them from leaving port.

      It is the first detailed study of NGOs’ proactive search and rescue activity between 2014 and October 2019, but the findings focus most closely on the first nine months of this year, a period when Europe had withdrawn from all search and rescue activity leaving only NGOs or the Libyan guard. The research was undertaken by two Italian researchers, Eugenio Cusumano and Matteo Villa, from the European University Institute (https://cadmus.eui.eu/handle/1814/65024).

      Drawing on official statistics and examining three-day averages, the study showed the numbers rescued depend on the numbers leaving. It found a stronger link this year between the number of migrant crossings and either political stability in Libya or the weather, rather than NGO ships at sea.

      The study found that in 2015, the total number of departures from Libya slightly decreased relative to 2014 even though migrants rescued by NGOs increased from 0.8 to 13% of the total number of people rescued at sea. After July 2017, the number of migrants departing from Libya plummeted even though NGOs had become far and away the largest provider of search and rescue by far.

      It also found that in the 85 days in which the NGOs were present in the search and rescue mission there were no more departures than the 225 days in which there were Libyan patrol boats.

      Instead, the study showed the big decline in crossings in 2017 was linked to the deal struck between the Italian government and various Libyan militia to keep migrants from attempting sea crossings.

      The study looks at figures from the International Organisation for Migration, the UN refugee agency UNHCR and the Italian coastguard.

      Over the five years the humanitarian ships have rescued a total of 115,000 migrants out of 650,000 with an average of 18%. In 2019 alone, at least 1,078 migrants have died or gone missing, according to the UN, while trying to reach safety in Europe.

      While the EU recognises the Libyan coastguard and is also funding and training its work, there is no overall agreement about how asylum seekers should be dealt with in an equitable and EU-wide manner.

      https://www.theguardian.com/world/2019/nov/18/migrants-from-libya-not-driven-by-hope-of-being-rescued-at-sea-study

    • ONG en Méditerranée : les secours en mer ne créent pas d’« appel d’air »

      Deux chercheurs italiens contestent, dans une étude parue lundi, la corrélation parfois suggérée par les politiques entre présence des ONG en mer Méditerranée et nombre de départs de bateaux clandestins des côtes libyennes.

      Marine Le Pen, députée française, le 12 juin 2018 : « Derrière le vernis humanitaire, les ONG ont un rôle objectif de complices des mafias de passeurs. […] Accepter que les bateaux de migrants accostent crée un appel d’air irresponsable ! » Christophe Castaner, ministre de l’Intérieur français, le 5 avril 2019 : « Les ONG ont pu se faire complices [des passeurs]. » Matteo Salvini, alors ministre de l’Intérieur italien, le 7 juillet 2019 : « Je n’autorise aucun débarquement à ceux qui se moquent totalement des lois italiennes et aident les passeurs. » Cette rengaine selon laquelle en menant des opérations de recherches et de sauvetages (SAR) en mer Méditerranée les organisations non gouvernementales provoqueraient des départs massifs d’immigrés clandestins vers l’Europe, a la vie dure.

      De SOS Méditerranée à Proactiva Open Arms en passant par SeaWatch, les ONG contestent ce lien – surtout fait par des politiques de droite et d’extrême droite – mais rien ne permettait jusqu’ici de trancher la question d’une éventuelle relation de cause à effet entre présence des ONG en mer et nombre de départs des côtes libyennes. Deux chercheurs ont rendu publique ce lundi une étude, réalisée pour l’European University Institute de Florence (Italie), qui étudie ce phénomène. La conclusion de Matteo Villa et Eugenio Cusumano, qui précisent que les données sont peu nombreuses, est claire : « Notre analyse suggère que les opérations de SAR non gouvernementales n’ont pas de corrélation avec le nombre de migrants quittant la Libye par la mer. »

      En 2015, le nombre de départs de Libye a même un peu baissé par rapport à 2014, alors que la part des ONG dans le nombre total de sauvetages a augmenté, passant de 0,8% des opérations à 13%. Entre janvier et octobre 2019, le nombre de départs par jour était, lui, légèrement supérieur lorsqu’il n’y avait sur la zone pas d’ONG – lesquelles sont soumises à des pressions gouvernementales et peinent à être autorisées à débarquer les rescapés en Europe. « Par contraste, une grosse corrélation existe entre les départs de migrants et les conditions météorologiques sur la côte libyenne, autant qu’avec la très forte instabilité politique en Libye depuis avril 2019 », indiquent les chercheurs.

      https://www.liberation.fr/amphtml/planete/2019/11/18/ong-en-mediterranee-les-secours-en-mer-ne-creent-pas-d-appel-d-air_176409

    • "Non è vero che la presenza delle Ong in mare fa aumentare le partenze dei migranti dalla Libia"

      Due ricercatori italiani firmano per lo European University Institute la prima analisi sui soccorsi in mare dal 2014 al 2019. Il crollo dei viaggi provocato dagli accordi con Tripoli.

      Il «pull factor delle Ong» sui flussi migratori dalla Libia non esiste. L’affermazione che, da tre anni a questa parte è alla base dei provvedimenti che hanno ormai messo all’angolo le navi umanitarie, buona parte delle quali sotto sequestro da mesi, è una favola. A provarlo è il primo studio sistemico, su dati ufficiali dalle agenzie delle Nazioni unite ma anche dalle guardie costiere italiana e libica, firmato da due ricercatori italiani, Eugenio Cusumano e Matteo Villa, per lo European University Institute. La ricerca, che prende in esame, mensilmente, cinque anni di sbarchi in Italia (da ottobre 2014 a ottobre 2019) dimostra che non vi è alcuna relazione tra la presenza nel Mediterraneo delle navi umanitarie e il numero delle partenze dalle coste libiche.

      In questi cinque anni, le navi umanitarie hanno soccorso complessivamente 115.000 migranti su 650.000, con una media del 18 per cento, la più parte nel 2016 e nel 2017 dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum. Poi il codice di condotta voluto da Marco Minniti nell’estate 2017 e il decreto sicurezza di Matteo Salvini hanno condizionato pesantemente l’attività delle Ong.

      Il lavoro dei due ricercatori italiani smonta l’assunto secondo il quale più alto è il numero delle persone salvate, più alto è il numero di quelle che partono. Cusumano e Villa rovesciano l’approccio e dimostrano che il numero dei salvati dipende dal numero di coloro che partono. E a sostegno dell’analisi portano due dati: nel 2015, l’anno in cui le Ong dispiegano la flotta in mare aumentando i loro soccorsi dallo 0,8 al 13 per cento, il numero complessivo delle partenze risulta in calo rispetto all’anno precedente. E ancora, nella seconda metà del 2017, nonostante le tante navi umanitarie presenti, il numero degli sbarchi crolla.

      Dunque, è la conclusione della ricerca, ad avere un forte impatto sulle partenze sono stati gli accordi tra Italia e Libia che hanno decisamente portato ad un abbattimento del numero delle imbarcazioni messe in mare. E ancora nel 2019, quando sparite le navi militari, il peso dei soccorsi è rimasto solo sulle navi umanitarie, i due ricercatori hanno rilevato giorno per giorno partenze e salvataggi senza trovare alcune evidenza che negli 85 giorni in cui erano presenti le Ong in zona Sar ci siano state più partenze rispetto ai 225 giorni in cui c’erano solo le motovedette libiche. E con tutta evidenza i giorni con più partenze sono stati quelli di bel tempo o ad aprile in coincidenza con gli attacchi del generale Haftar.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2019/11/18/news/migranti_i_dati_di_uno_studio_confermano_non_e_vero_che_la_presenza_delle

    • Das Märchen von den Rettern und vom «Pull-Faktor»

      Die Studie zweier italienischer Migrationsforscher widerlegt das beliebteste Argument rechter NGO-Kritiker.

      Kein anderer Vorwurf wird gegenüber privaten Seenotrettern auf der zentralen Mittelmeerroute häufiger erhoben als jener, sie seien ein «Pull-Faktor». Dass NGO-Schiffe wie die Sea-Watch oder die Open Arms vor der libyschen Küste Migranten aus Gummibooten retten und nach Italien bringen, so die Anschuldigung, verleite Flüchtlinge erst recht zum Aufbruch und trage deshalb dazu bei, die Zahl der Überfahrten zu steigern – und dadurch auch die Zahl der Ertrunkenen.

      Das Argument hat eine unbestreitbare intuitive Plausibilität: Je sicherer jemand sein kann, aus einer riskanten Situation befreit zu werden, desto grösser dürfte seine Bereitschaft sein, das Risiko einzugehen. 2017 schrieb die europäische Küstenwache Frontex, Rettungsaktionen von NGOs trügen dazu bei, dass Schlepperbanden «ihr Ziel mit minimalem Aufwand erreichen», was das «Business-Modell» der Kriminellen stärke.

      Zwei englische Studien aus dem Jahr 2017 kamen indessen zum Schluss, dass es keinen Zusammenhang zwischen der Präsenz von Rettungsschiffen vor der libyschen Küste und der Zahl der Überfahrten gebe. Beide Untersuchungen beruhten jedoch auf geringem Datenmaterial.

      Das Wetter spielt eine Rolle, Rettungsschiffe nicht

      Eine neue Studie gelangt nun zum selben Ergebnis: Der Pull-Faktor ist, um einen Modeausdruck zu verwenden, Fake News. Die italienischen Migrationsforscher Eugenio Cusumano und Matteo Villa haben für das in Fiesole beheimatete Europäische Hochschulinstitut sämtliche verfügbaren internationalen und italienischen Daten zwischen Oktober 2014 und Oktober 2019 auf einen Pull-Effekt untersucht, mit negativem Resultat.

      Laut der italienischen Zeitung «Repubblica» gab es bisher keine so umfassende und systematische Auswertung. Besonders genau untersuchten die Forscher den Zeitraum vom 1. Januar bis zum 27. Oktober 2019. Sie überprüften Tag für Tag, ob private Rettungsschiffe vor den libyschen Küsten unterwegs waren und wie viele Flüchtlingsboote jeweils die Überfahrt versuchten. Auch hier wieder: Keine Korrelation zwischen NGO-Schiffen und angestrebten Überfahrten. Kein Pull-Faktor. Stark sei hingegen die Korrelation mit dem Wetter.

      Obwohl die Autoren weitere Untersuchungen anmahnen, fordern sie, die Seenotretter nicht mehr zu behindern.

      Die Denkschablone vom «Gutmenschen»

      Das dürfte sich als Illusion erweisen, passt doch die Pull-Faktor-These in eine der beliebtesten rechten Denkschablonen: jene vom «Gutmenschentum». Gutmenschen sind demnach Moralisten, die in ihrer Naivität das Gute wollen, nämlich, im Falle der Seenotretter, Menschen vor dem Ertrinken zu bewahren. Die aber das Schlechte bewirken, weil ihretwegen die Zahl der Toten steige. Das Argument lässt sich scheinbar auf das Wertesystem der Kritisierten ein, um sie genau dadurch an ihrer empfindlichsten Stelle zu treffen. Es verkehrt das angeblich Gute in sein Gegenteil, und je intensiver die Gutmenschen nach dieser Logik ihre Ziele verfolgen, desto verheerender das Resultat.

      Um die Anschuldigung zu verschärfen, braucht man bloss den Anteil des angeblich «Gutgemeinten» zu verringern und jenen der kriminellen Energie zu erhöhen. Diese verleite Seenotretter im Namen einer höheren Moral dazu, das Gesetz zu brechen, indem sie etwa widerrechtlich in einen Hafen einlaufen. Oder – eine weitere Verschärfung des Vorwurfs – indem sie direkt mit den Schlepperbanden zusammenarbeiten, womöglich sogar aus finanziellen Interessen.

      Keine Komplizenschaft mit Schleppern

      Trotz intensiver Ermittlungen ist es der italienischen Staatsanwaltschaft bisher nicht gelungen, Beweise für die angebliche Komplizenschaft zwischen NGOs und libyschen Schlepperbanden zu finden. Und noch nie hat die italienische Justiz Seenotretter verurteilt. Stattdessen ist sie – etwa im Fall der Cap Anamur vor zehn Jahren oder diesen Sommer bei der deutschen Kapitänin Carola Rackete – zu Freisprüchen gelangt, aufgrund des internationalen Seerechts, der Genfer Flüchtlingskonventionen sowie verfassungsrechtlicher Bestimmungen. Oder sie hat die Verfahren eingestellt.

      Zwar gibt es noch laufende Prozesse. Schon jetzt aber lässt sich sagen, dass es verlogen ist, wenn NGO-Kritiker auf Recht und Gesetz pochen, um dann unter krasser Missachtung der Unschuldsvermutung und bisheriger Gerichtsurteile sowie aufgrund herbeifantasierter Pull-Effekte irgendwelche haltlosen Anschuldigungen in die Welt zu setzen.

      https://www.tagesanzeiger.ch/ausland/europa/das-maerchen-von-den-rettern-und-vom-pullfaktor/story/10027861

    • New Research Demonstrates that Search and Rescue is Not a Pull Factor

      New research published by the European University Institute suggests that Search and Rescue (SAR) activities in the Mediterranean, especially those carried out by NGOs, are not incentivizing departures of boats from Libyan shores.

      Combining data from UNHCR, IOM and the Italian Coast Guard, the report finds that there is no significant relationship between NGO’s SAR activity and the departures from the Libyan coast between 2014 and 2018. A closer analysis on presence of NGO ships in the first ten months of 2019, where NGOs remained the only actor conducting SAR, similarly concludes that there is no evidence to suggest that departures increased when NGO ships were at sea during the period considered. Instead, the research finds that the agreement between Italy and the Libyan militias from July 2017, weather conditions and violent conflict in Libya in April 2019 had an impact on departures from Libya.

      The research contributes to the critical analysis of the ‘pull factor’ argument used by European governments as a justification to curb SAR efforts. As defined by the authors, the pull factor hypothesis holds that, all else equal, the higher the likelihood that migrants will be rescued at sea and disembarked in Europe, the higher will be the number of attempted crossings.

      The authors call on the need for more data and further research on this issue. They recommend reconsidering government policies disincentivising SAR operations and restoring EU-led missions combining SAR and border enforcement, like Mare Nostrum. They call for effective, lawful and ethically defensible migration governance across the Central Mediterranean.

      https://www.ecre.org/new-research-demonstrates-that-search-and-rescue-is-not-a-pull-factor

    • Lunedì scorso abbiamo pubblicato un paper (https://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/65024/PB_2019_22_MPC.pdf?sequence=5&isAllowed=y) che dimostra che la presenza delle navi Ong non spinge i migranti a partire di più dalla Libia.

      Poi sono arrivate tre Ong, e sono partiti in centinaia.

      «Pull factor»? No.

      Un thread.

      Una cosa vera: negli ultimi giorni dalla Libia sono partiti in tanti, tantissimi.

      Era dal 2 novembre che non si registrava alcuna partenza dalle coste libiche.

      Poi, tra il 19 e il 23 novembre, sono partite quasi 1.200 persone.

      Come vi ho già raccontato, la ripresa delle partenze era nuovamente collegata a un miglioramento delle condizioni atmosferiche.

      Però la presenza delle Ong permette di mettere alla prova il nostro modello.

      Cosa che ho fatto.

      Cosa ho scoperto?

      Primo: le condizioni atmosferiche restano fondamentali.

      Come potete vedere dalle curve qui sotto, conta più il vento della temperatura.

      Messe insieme, le due variabili sono ancora più forti: con tanto vento e temperature in discesa, non parte nessuno.

      Secondo: le Ong continuano a non essere «pull factor».

      L’effetto della presenza in mare delle Ong resta non significativo.

      Inoltre, il risultato non si discosta per nulla dai risultati ottenuti con i dati del nostro paper, che si fermavano a fine ottobre.

      Terzo: ma quindi con il governo Conte II riprendono le partenze?

      Pare di no.

      A parità di altri fattori, meteo incluso, le partenze dalla Libia dopo il cambio di governo sono (a oggi) statisticamente indistinguibili dal periodo del Conte I.

      CONCLUSIONE.

      Quando qualcuno vi mostra una piccola fetta di realtà (alte partenze di migranti con Ong in mare), sta oscurando tutto ciò che succede quando non guardate.

      Per questo i dati e i modelli sono così importanti: rimettono in riga il nostro sguardo strabico.

      https://twitter.com/emmevilla/status/1198935231857909760

    • Policy Brief (EUI) | Les secours en mer des ONG constituent-ils un facteur attractif pour les migrations irrégulières ?

      L’argument selon lequel les ONG qui pratiquent les sauvetages en mer Méditerranée constitueraient un facteur attractif pour les migrations irrégulières fait partie depuis 2015 d’une rhétorique communément admise. Elle a servi à délégitimer les missions de secours en mer au large de la Libye qui soi-disant encourageraient les passeurs à organiser des départs. Pour cet article, les auteurs ont étudié les flux migratoires entre la Libye et l’Italie entre 2014 et octobre 2019. Aucun lien de cause a effet n’a pu être identifié entre les départs de la côte libyenne et la présence de navires de sauvetage des ONG. Bien que d’autres recherches doivent être encore menées, cette étude remet en question le fait que la présence de bateau de sauvetage puisse constituer un facteur attractif.

      La recherche menée par Eugenio Cusumano (Migration Policy Center, EUI) et Matteo Villa (Instituto per gli Studi di Politica Internazionale, ISPI) intitulée ” Sea Rescue NGOs : a Pull Factor of Irregular Migration” a été publiée en anglais en novembre 2019. Elle est entièrement disponible sur le site de l’institut European University Institute (EUI) ou en cliquant sur l’image ci-dessus.

      Le journal Libération du 18 novembre 2019 lui a consacré un article ” ONG en Méditerannée : les secours en mer ne créent pas d’”appel d’air”” rédigé par Kim Hulot-Guiot.

      Nous proposons ci-dessous un bref résumé des principales conclusions des deux chercheurs :

      En 2013, en réponse aux nombreuses disparitions lors des traversées de la mer Méditerranée, l’Union européenne avait mis en place l’opération Mare Nostrum habilitant ainsi des garde-côtes à sauver des personnes migrantes dans la zone internationale au large des côtes libyennes. Une année plus tard cette opération fut suspendue par crainte que cela ait contribué à augmenter le nombre de tentatives de traversée de la Méditerranée centrale. Les missions suivante Triton, Themis ou Eunafovor n’ont presque plus effectué de sauvetage en mer. Ce manque a été comblé par des navires d’ONG qui ont assisté plus de 115’000 migrants entre 2014 et octobre 2019.

      Ce tableau issu de l’article montre l’évolution du nombre enregistré de personnes disparues en Méditerranée (centrale, est et ouest) entre 2014-2019 :

      En 2017, l’Italie a développé une nouvelle approche de cette question. Elle a conclu un accord avec les garde-côtes libyens pour qu’ils réduisent le nombre de départ depuis leurs côtes. De plus, l’Italie a progressivement fermé ses ports aux navires de sauvetage des ONG et entrepris la confiscation progressive de navires qui auraient enfreint ses interdictions. Ce procédé a eu comme conséquence de faire diminuer le nombre de navire de sauvetage d’ONG en mer Méditerranée. Le nouveau gouvernement italien n’a pas infléchi les règles et la rencontre européenne de Valletta en septembre 2019 suggérait encore entre les lignes que la présence des navires de sauvetage des ONG pourrait être responsable des départs continus de personnes migrantes depuis la Libye.

      En réalité, peu de recherches empiriques détaillent ce lien. Cette étude est une volonté d’y pallier. Elle utilise des indices statistiques qui permettent de mettre en corrélation les départs non-contrôlés des côtes libyennes et les activités de sauvetage au large de ces côtes par les ONG. Elle conclue à un manque de lien significatif entre ces deux facteurs :

      En 2015, le nombre total de départ depuis la Libye a légèrement baissé en comparaison à 2014 bien que les nombre de personnes sauvées par des ONG ait augmenté de 0.8 à 13% du nombre total de personnes sauvées dans cette zone ; après juillet 2017, le nombre de migrants quittant la Libye a diminué même si les ONG sont devenues les plus importantes actrices des sauvetages en mer. Cela suggère que l’accord passé entre les milices libyennes et l’Italie conclut en juillet 2017 a un impact beaucoup plus grand pour réduire les départs que les activités menées par les bateaux des ONG.

      Vu le manque de données disponibles, de telles recherches devraient continuer d’être entreprises. Néanmoins les premiers résultats significatifs servent à éclairer le débat politique. En ce sens, les auteurs suggèrent des recommandations :

      Le fait que la présence des ONG constitue un facteur attractif pour le départ des migrants à partir des côtes libyennes pour se rendre en Italie est ici infirmé. Par conséquent, les restrictions législatives portées aux opérations de sauvetage en mer par ces ONG a conduit à une augmentation des morts lors de ces traversées sans réduire significativement les départs. Ces décisions devraient donc être reconsidérées.
      Le retrait de cette zone des forces armées européennes en secours aux migrants a été décidé sur des présupposés hasardeux. S’il est clair que les ONG ne constituent par un attrait aux départs irréguliers des côtes libyennes, les navires militaires européens ne le constitueraient pas non plus, mais pourraient bien au contraire sauver des vies et détecter des arrivées non détectées. Il serait donc important de redéployer ces forces en Méditerranée.
      Les mesures visant à empêcher les migrations dans les pays de transit ou de départ ont un impact beaucoup plus grand sur les processus migratoires que la présence des navires de sauvetages en mer des ONG. Néanmoins, ce processus d’externalisation de la gestion des migrations est très problématique vu les conditions de vie et détention dont souffrent les personnes migrantes en Libye. Il faudrait donc réussir à combattre le trafique d’être humains sur la terre tout en réduisant les facteurs attractifs d’immigration et en améliorant les conditions de vie et les possibilités de protection en Libye.

      https://asile.ch/2019/11/25/policy-brief-eui-les-secours-en-mer-des-ong-constituent-ils-un-facteur-attract

    • Ammiraglio #Giuseppe_De_Giorgi:

      “Il dato più interessante, sottolinea De Giorgi, è che con la chiusura di Mare Nostrum gli sbarchi non sono affatto diminuiti, anzi sono aumentati. E di molto. Basta un dato a smontare le accuse mosse dai teorici dell’equazione ‘più soccorsi uguale più sbarchi’. Nel novembre del 2013, in piena Mare Nostrum, erano arrivati in Italia 1883 migranti. Nel novembre dell’anno successivo, cioè subito dopo la conclusione dell’operazione, sono stati registrati 9134 arrivi, con un aumento netto del 485 per cento.
      ‘Di questi,’ continua l’ammiraglio, ‘3810 migranti sono stati soccorsi dalla Marina e sottoposti a controllo sanitario prima dello sbarco. I restanti 5324 sono arrivati direttamente sul territorio nazionale senza controllo sanitario. Di questi ultimi, infatti, 1534 sono stati intercettati e soccorsi dalla Capitaneria di porto e 2273 da mercantili commerciali non attrezzati per quel tipo di attività, ma obbligati dal diritto del mare a intervenire.’
      Insomma, gli sbarchi continuano, ma in maniera più caotica e disordinata. La frontiera è di nuovo arretrata: da acquatica è tornata a essere terrestre e a coincidere con le coste italiane.”

      (Alessandro Leogrande, La frontiera, 2017 : pp. 186-187)

  • I «90.000 irregolari in Italia», spiegati bene. Riascoltando la conferenza stampa, e ammesso che i calcoli siano corretti, Salvini dice una cosa corretta: «90.000 è il massimo stimabile di immigrati irregolari di questi ultimi quattro anni e mezzo». La chiave sta lì.

    Quello che probabilmente voleva dire Salvini è che, dal 1 gennaio 2015 a oggi, delle persone sbarcate in Italia ne sono rimaste solo tot. Ma prima del 1 gennaio 2015 c’era tutto lo stock pregresso da prendere in considerazione.

    Tornando ai 90.000, il calcolo è sbagliato. Due tra gli errori più macroscopici: (1) parte dal 2015, ma gli sbarchi aumentano da fine 2013. Nel 2014, 170.100 sbarcati. Non li consideri? (2) non si arriva soltanto via mare. E i c.d. visa overstayers dove sono?

    NOTA BENE: l’errore nasce dal fatto che spesso si pensa che la stima di 500.000 - 600.000 irregolari presenti in Italia si riferisca agli oltre 700.000 sbarcati dal 2013.

    Invece i due numeri sono simili, generano confusione, ma non c’entrano nulla l’uno con l’altro.

    https://twitter.com/emmevilla/status/1121303245606006784

    #statistiques #chiffres #sans-papiers #Salvini #déconstruction #estimation #Italie #fact-checking

  • Je suis furax. #Thinkerview a invité #Laurent_Obertone... et lui permet de dérouler sa pensée (il se présente comme #libertarien) avec très, trop peu de contradiction. Le nombre d’assertions fausses et des approximations est énorme, les glissements et sous entendus aussi. Le #factchecking de #CaptainFact n’y suffira pas et bien peu iront voir la vidéo sur ce support : https://captainfact.io/videos/gKE3
    https://s14-eu5.startpage.com/cgi-bin/serveimage?url=https:%2F%2Fpbs.twimg.com%2Fmedia%2FDrYlU1oX4AED6d
    La plupart du public ira seulement sur youtube et passera à côté de toutes les #fakenews. Pire, le côté gentil débat montre un mec sympa qui papote peinard et se marre avec un autre mec qui lui pose autant de questions promotionnelles (parler de son boulot, de ses précédents bouquins) que de questions tranquilles, et bien peu de contradictions.
    Selon sa présentation, Thinkerview a pour objectifs :
    – Mettre à l’épreuve les idées/discours en décelant leurs failles, leurs limites.
    (bah là c’est loupé)
    – Écouter les points de vue peu médiatisés afin d’élargir nos prismes de lecture.
    (peu médiatisé, c’est vite dit vu l’activité de la faschospère sur le web)
    – Appréhender toute la complexité des enjeux actuels et futurs de notre monde.
    (à force d’amalgames douteux ?)
    C’était la deuxième interview fleuve de l’après-midi pour thinkerview, le journaliste est fatigué, il fait même une pause pipi en pleine interview et porte ensuite, enfin, un peu plus de la contradiction, mais essentiellement à coup de « quelles sont vos sources ? ». Tout sourire, Obertone déroule tranquillement son rejet de la migration et de l’intégration sous couvert des « faits historiques », de « chiffres scientifiques » et surtout, très fier, de « sources bien placées » (il insistera dessus plusieurs fois).
    Obertone peinait à promouvoir son livre. L’interviewer n’explique même pas leur choix... C’est une cata....
    J’explique ça ici parce que sur twitter c’est essentiellement la fachosphere qui fait la promo de l’émission. Et ça marche quand même : déjà 81k de vues contre 37k pour « Terrorisme ou Légitime défense ? » avec Thibault de Montbrial, enregistrée elle aussi en direct quelques heures plus tôt.
    C’est la honte de laisser ça en ligne comme ça, de ne pas prendre ses responsabilités au vu de ce qui est affirmé, la théorie du #grand_remplacement et de la disparition de la « race blanche »...
    Ouaip, je suis furax !

    #migration #immigration #confusionnisme #nationalisme #protectionnisme #souverainisme #racisme

    • Bigre ! ThinkerView doit être dans les parages puisque ce matin j’ai découvert qu’ils m’avaient bloquée sur twitter ! C’est ballot, je comptais pas en parler sur les réseaux sociaux pour ne pas faire de pub à l’autre mais là... #Groumph

    • Pour qu’on ne me fasse pas dire ce que je ne dis pas : ça ne me gêne pas que Obertone, Chouard et autres soient invités, ça ne me gêne pas d’entendre des opinions différentes des miennes. Je suis pour la liberté de s’exprimer quand bien même je tente de déconstruire la #kyriarchie (je viens de découvrir ce mot/concept et le trouve très pratique !) Ce qui me gène c’est que la chaine se présente comme capable de « Mettre à l’épreuve les idées/discours en décelant leurs failles, leurs limites » et qu’elle ne le fasse pas. Et ici c’est très grave. Sans cette #déconstruction et l’indication claire de toutes les #manipulations (je crois qu’il détient le record chez @Captainfact), j’estime que laisser s’exprimer de telles idées, c’est collaborer à leurs progressions.

    • La solution pour rendre ça acceptable (même si personnellement, je pense qu’un mec de cet acabit qu’on voit partout à la télé et qui distille le même discours que Zemmour n’a pas besoin qu’on lui serve de nouveau la soupe sur une émission un peu underground du net) c’est que thinkerview devrait faire une video debrief en présentant les principales failles relevées sur captain fact. Et puis l’interviewer devrait faire un peu moins le malin et mieux préparer les interviews plutôt que de tout laisser reposer sur du « fact checking » a posteriori, qu’effectivement peu de monde va regarder.

    • devrait faire un peu moins le malin et mieux préparer les interviews plutôt que de tout laisser reposer sur du « fact checking » a posteriori, qu’effectivement peu de monde va regarder

      Oui c’est ça le problème principal, genre « je le fais parler longtemps et ensuite on va tout décortiquer », sauf que la majorité des gens ne vont regarder que l’interview.

    • Tsss tsss @alexcorp ! C’est pas bien de me donner envie de retourner voir une de leurs vidéos !
      Ceci dit, ce billet coup de gueule me permet de prendre acte d’une vraie modification de l’impact des réseaux virtuels : publié initialement ici, il aurait eut, je crois, peu d’impact si Thinkerview ne m’avait pas bloquée sur twitter et ainsi mise en colère au point de le diffuser sur les #réseaux_sociaux, ce que je n’avais pas initialement prévu de faire. Je l’ai donc fait à la fois sur #facebook, #twitter et #mastodon. Et bien c’est sur mastodon qu’il a eut le plus d’impact, le plus de commentaires... Vient en second twitter puis, très loin derrière, facebook (où j’ai dû le publier en mode privé, mais ça n’aurait pas changé grand chose je crois).
      C’est aussi sur Mastodon qu’il a été évoqué une piste de réponse hyper intéressante, faisant justement référence à #Arrêt_sur_image et la technique de « la ligne jaune » de #Guy_Birendaum : https://mamot.fr/@sossalemaire/101040373765679230
      Et comme toujours c’est sur Seenthis que se prolonge le plus la réflexion <3
      Ceci dit ça continue de m’intriguer de savoir que c’est suite à ma publication ici que j’ai été bloquée par Thinkerview sur twitter... seraient-ils dans les parages ?

    • @whilelm : Non !!! J’ai été bloquée avant de le faire, j’ai même dû le faire à l’aveugle, ensuite. Mais en recherchant l’historique de mes interactions avec eux, je me dis que je les ai peut-être vexés le 24 septembre dernier : https://twitter.com/search?f=tweets&q=valkphotos%20(thinkerview%20OR%20thinker_view)&src=typd ;)

      @ninachani : je n’ai aucune envie de partir sur un autre débat ici et maintenant. Mettre les deux noms ensemble ne signifie pas forcément que j’estime qu’ils ont les mêmes pensées, mais surement que ce sont des noms qui entrainent souvent des polémiques autour du fait de leur donner la parole. Si tu veux en savoir plus, n’hésite pas à aller voir les nombreux articles sur #Chouard ou #Etienne_Chouard.

    • J’ai vu avec Schneidermann, et effectivement, c’est flagrant comment tu sens le journaliste chevronné, peu importe si on est d’accord avec lui ou pas, mais qui a la tradition de bosser ses sujets avant, etc. Et l’autre qui a 3/4 de questions très générales, enfin ça fait pas très travaillé, que ce soit amateur/bénévole n’étant pas vraiment une raison à partir du moment où le but affiché est plus haut que ça.

    • @val_k ben non j’ai pas envie d’aller voir des articles SUR chouard. Je cherche des trucs problématiques (vu ce que tu dis) qu’il aurait dit ou écrit pas ce que des gens disent de lui : du 1ère main en quelque sorte. Comme j’ai écouté beaucoup d’audios/vidéos de lui sans que rien ne me pose problème, au contraire, j’aimerais savoir sur quoi se fonde le fait que par exemple tu le cites comme quelqu’un à qui il ne faudrait pas donner la parole. Et je dis ça sans aucune intention de polémiquer mais peut-être de changer d’avis sur quelqu’un dont je trouve la pensée pertinente, mais quelque chose aurait pu m’échapper.
      Je viens de regarder vite fait ton lien hashtag sur seenthis et je vois qu’il y a eu des discussions à n’en plus finir avec une réprobation générale. Et pourtant impossible de savoir ce qui fait qu’il est classé dans l’extrême-droite. Ça serait pas un phénomène un peu « moutonnesque » cette histoire s’il n’y a personne qui peut dire ce qui le gêne concrètement dans ses propos ? Je suis perplexe ! Les vidéos en lien soit ne répondent pas à mon interrogation, soit ne sont plus visibles.

      Quant à Thinkerview, moi j’ai toujours trouvé le gars qui interview totalement insupportable. Et le fait qu’ils te bloquent à la première critique, qui est quand même argumentée et plutôt constructive, ça me laisse sur le cul ! En fait c’est le moment où on comprend qu’ils sont juste dans la posture et rien de plus profond. Leurs vidéos sont intéressantes quand l’invité a de la matière sinon ils sont vides !

    • Ah c’est exactement ça

      Leurs vidéos sont intéressantes quand l’invité a de la matière sinon ils sont vides !

      et

      le gars qui interview totalement insupportable

      à couper l’interviewé au milieu d’une réponse construite avec une question débile ou une private joke quand il connaît personnellement l’invité...

    • C’est assez amusant au final parce que ce qui est reproché à Thinkerview est de la même famille que ce qui est reproché à Chouard : donner une tribune sans suffisamment souligner les problèmes que posent certaines assertions ou certains choix.
      Je vais donc faire un énorme effort, @ninachani , (si, si, je t’assure, mon niveau d’épuisement à ce sujet est total, et ton insistance me rappelle à quel point les « Gentils Virus » ont failli tuer plein demodérateur-ices quand iels ont débarqué).
      Voici donc une vidéo qui exprime pas mal ma pensée, elle est nuancée, étayée et provient en plus d’une personne qui apprécie beaucoup Chouard dans un premier temps, elle est donc d’autant plus audible : Usul / mes chers concitoyens : https://youtu.be/QVFTC7MngDI


      Mais je vais être très claire : si ensuite tu reviens ici pour parler de Chouard plutôt que de Thinkerview, ma fatigue extrême m’obligera à te bloquer, non pour t’empêcher de parler, tu le pourras toujours, mais pour ne pas relancer la charge mentale de la modératrice / administratrice de réseaux que je suis dans l’ombre (plusieurs comptes twitter et facebook) : je ne verrai ainsi plus tes publications.
      En tout cas ton analyse finale en une phrase assassine de Thinkerview m’a bien fait rire : merci !

    • @ninachani je sais que c’est un lien vers un article (qui date un peu) mais cette discussion Ruffin/Chouard donne un aperçu des limites du bonhomme (faut descendre de 50/60 lignes pour trouver le passage utile) : http://www.fakirpresse.info/L-air-du-soupcon.html
      Mon opinion : Chouard n’est pas « facho » mais il est assez peu critique de l’extrême droite et leur donne parfois de la visibilité (en étant méchant, on pourrait appeler ça un idiot utile à l’extrême droite).

    • @val_k

      si ensuite tu reviens ici pour parler de Chouard plutôt que de Thinkerview, ma fatigue extrême m’obligera à te bloquer

      étant donné que c’est toi qui a cité Chouard dans ce fil de conversation, je trouve ça assez gonflé de me dire ça. Pourquoi tu lui donnes de la visibilité en le citant alors ?
      Je préfère m’arrêter maintenant, je déteste les menaces et ce n’est certainement pas avec ce genre d’échange que je reverrai mon jugement. Bye bye et bonne continuation.
      @alexcorp merci pour le lien. Le problème c’est que le racisme de Ruffin s’est clairement exprimé dans sa prise de parole en public quand on lui a demandé de s’engager pour défendre Adama Traoré. Par conséquent si c’est Ruffin qui est censé donner la leçon ou servir d’exemple de bonnes pratiques contre l’extrême droite, ça va pas le faire !

    • Une personne capable de nier les limites et les souffrances de l’autre autant que des explications étayées en inversant les rôles agressif/agressée, tout ça afin de protéger ses croyances, c’est plutôt, hélas, assez courant. Je sais, désormais, qu’il n’y a pas grand chose à faire face à la #dissonance_cognitive...

    • Qui se cache derrière Thinkerview, la chaîne YouTube qui surfe sur le mouvement des « gilets jaunes » ?
      https://www.francetvinfo.fr/economie/transports/gilets-jaunes/qui-se-cache-derriere-thinkerview-la-chaine-youtube-qui-surfe-sur-le-mo

      Un fond noir, un simple fauteuil et un invité qui répond aux questions d’un mystérieux intervieweur pendant une à deux heures, voire plus. La recette de Thinkerview paraît minimaliste, mais le succès est au rendez-vous. Lancé avec peu de moyens il y a plus de six ans, le concept de ces longs entretiens, diffusés en direct et relayés sur les réseaux sociaux, a trouvé son public.

      .

      Les invités viennent d’horizons divers avec une petite préférence pour les intellectuels iconoclastes et les contestataires de tous bords, de l’ancien ministre grec Yanis Varoufakis à l’historien et essayiste Emmanuel Todd, en passant par les journalistes Natacha Polony et Laurent Obertone ou encore la coqueluche des « gilets jaunes » Etienne Chouard. « On est au milieu de toutes les communautés qui s’écharpent sur internet, de l’extrême droite à l’extrême gauche, explique Sky. On cherche à créer un terrain neutre pour que tout le monde puisse échanger. »

    • La France est une aubaine pour QAnon

      À leur arrivée en France, les théories de #QAnon ont également pu compter sur le savoir-faire et le public de Léonard Sojli. Le jeune homme d’origine albanaise a pris son élan sur Internet en 2011 en lançant J’ai un doute, un site d’agrégation de documentaires mainstream (Cash Investigation, Les Nouveaux chiens de garde…) dont le but était de « poser des questions » et « développer l’esprit critique » des internautes. Il affirme aussi avoir co-fondé ThinkerView, une chaîne YouTube de débat accusée de tendances complotistes ou de sympathies d’extrême droite par certains observateurs, et présidé l’association dont elle dépendait pendant trois ans.

      Léonard Sojli croit que son implication dans J’ai un doute et ThinkerView lui a coûté la nationalité française. « Ils trouvaient ça louche, explique-t-il sans plus de précisions. Un péquin lambda avec un diplôme de mécanicien automobile qui finit par interviewer l’ancien patron de la DGSE… Ça m’a posé beaucoup de problèmes. [...] Je me suis dit, pays des droits de l’Homme de mon cul. Si tu n’es pas d’accord avec ceux du haut, on te coupe les bras. Du coup, j’ai tout arrêté. »

      https://www.vice.com/fr/article/4aykwb/la-france-est-une-aubaine-pour-qanon

  • Déconstruction des mythes fondateurs de la grandeur française René Naba - /oumma.com
    https://oumma.com/deconstruction-des-mythes-fondateurs-de-la-grandeur-francaiseune-lecture-frac
    http://www.les7duquebec.com/7-au-front/deconstruction-des-mythes-fondateurs-de-la-grandeur-francaise

    Une lecture fractale de l’Histoire de France : Réponse à Bruno Gollnisch, Philippe Val, Philippe Douste Blazy et Nicolas Sarkozy

    La scène se passait en juin 1998, il n’y a pas si longtemps, huit ans environ à peine, un mois avant la grande communion multicolore du Mondial, la première victoire de la France bariolée dans le championnat du Monde de Football : Bruno Gollnisch, le successeur potentiel du dirigeant du Front National Jean Marie Le Pen, exhibait, au terme d’une conférence de presse, un attaché-case, dont il révélait le code secret de verrouillage comme un trophée de guerre (1).

    Le code secret par définition doit demeurer secret. Il se conserve comme une sainte relique. Pour M.Gollnisch, cela n’est évidemment pas le cas : le secret est public surtout lorsqu’il s’agit de stigmatiser, surtout lorsqu’il s’agit de glaner un succès à bon compte. Chacun a les satisfactions intellectuelles de son niveau d’éducation.

    Ménageant ses effets, il déclame en public sa combinaison magique de trois chiffres, l’égrenant lentement 7-3-2 dans un mouvement jouissif libérateur. 732. l’effet est assuré. 732, #Poitiers. La victoire controversée de #Charles_Martel sur les troupes arabes d’Abdel Rahman.

    Cela se passait donc en 1998 et #Gollnisch prenait pour référence un événement datant de 1266 ans. 1266 ans de rumination historique. Sans doute la marque manifeste du zèle d’un néophyte. 1266 ans de rumination pour ce Français de la troisième génération, comme l’on désigne en France les petits fils d’immigrés, en l’occurrence un petit fils d’immigrés allemands.


    Correspondant de guerre sur les théâtres d’opérations extérieurs du territoire métropolitain, l’exhibition impudique de Bruno Gollnisch, la passivité des #journalistes présents devant sa vaine et vaniteuse démonstration ont opéré comme un déclic en moi me propulsant dans une navigation sidérante dans le tréfonds de la conscience française, dont je souhaite vous livrer les conclusions sans appétence polémique particulière, dans le droit fil de la thématique de ce colloque « D’une rive à l’autre, Ecrire l’Histoire, Décoloniser les Esprits ».

    L’exercice ne relève ni de la démagogie, ni d’un populisme de bon aloi, de bonne guerre il est vrai, dans ce genre de démonstration. Il vise à apporter une contribution à la clarification sémantique et psychologique du débat post-colonial par le pistage des non-dits de la conscience nationale à travers un voyage dans les méandres de l’imaginaire français.

    Ni populisme, ni démagogie, ni dénigrement non plus. Mais l’application de l’analyse de contenu à de constats qui s’ils sont lapidaires ne sont nullement sommaires ni rudimentaires.

    Une thérapie par électrochocs en somme. Un voyage révélateur des présupposés d’un peuple, des ressorts psychologiques d’une nation et de la complexion mentale de ses dirigeants.

    Embarquons nous donc pour ce voyage de #déconstruction des mythes fondateurs de la #grandeur_française avec un grand merci pour Bruno Gollnisch d’en avoir été, involontairement, l’élément déclencheur.
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    Le Panache français ou le mythe de la grandeur
    Le propos n’est pas anodin. Il correspond à une réalité indéniable : la dernière grande victoire militaire française remonte à deux siècles. Oui deux siècles exactement. #Austerlitz. Certes il y eut #Valmy et le Pont d’Arcole. Puis Austerlitz. Le panache français en somme. Puis. Plus rien….drôle de panache. Ce fut ensuite Waterloo (1815), face aux Anglais, Sedan (1870), face aux Allemands, Fachoda (1898), qui brisa net l’accès de la France aux sources du Nil, au Soudan. Soit près d‘un siècle de désastres militaires ininterrompus, compensés, il est vrai, par les conquêtes coloniales notamment l’#Algérie. A croire que les expéditions coloniales sont d’utiles palliatifs aux désastres nationaux et par transposition au débat contemporain, les immigrés d’indispensables dérivatifs aux difficultés internes.

    #VERDUN 1916 et Rethondes I (l’armistice du 11 novembre 1918), cent ans après Waterloo refermeront la parenthèse néfaste. Mais là, les Français ne sont pas seuls. Ils ne peuvent plus revendiquer la victoire à leur bénéfice exclusif. C’est une « victoire alliée » qu’ils devront partager avec leurs alliés britanniques et américains mais aussi avec les nouveaux venus de la scène internationale : les #Basanés. 550.449 soldats de l’Outre mer dont 173.000 Algériens, soit 20 pour cent des effectifs et 10 pour cent de la population du pays participeront à l’effort de guerre de la France. 78.116 #ultramarins tomberont sur le champ d’honneur, soit l’équivalent de la totalité de la population de #Vitrolles et d’#Orange prises ensemble, les deux fiefs de l‘extrême droite française contemporaine.

    La pensée peut paraître sacrilège mais elle correspond, là aussi, à la réalité : Verdun est à ce titre autant une victoire française qu’une victoire arabe et africaine. Certes la « chair à canon » était présentée comme étant de peu de valeur face à la qualité des stratèges du Haut commandement. Mais le fait est là aussi démontré : Après Verdun beaucoup avaient cru naïvement que la France s’était réconciliée avec la victoire. Et bien non. 1940 et #Rethondes Bis (la capitulation de #Montoire du 21 juin 1940) apporteront la preuve du contraire. #Monte_Cassino (1944) lavera l’honneur français mais la plus grande victoire française de la Deuxième Guerre mondiale est une victoire mixte : Cent mille (100.000) soldats alliés, contre 60.000 Allemands, ainsi que 4000 ressortissants du #Maghreb auront payé de leur vie cette victoire. 4.000 originaires du Maghreb sur 6.300 tués dans les rangs français, soit les 2/3 des effectifs. Monte Cassino est donc tout autant une victoire alliée, qu’une victoire française, arabe et africaine.

    Le schéma est identique en ce qui concerne le domaine naval. Le dernier fait d’armes français -controversé tout de même- remonte à #Aboukir (1799). Puis ce fut au tour de Trafalgar (1805), Toulon (1942), le Charles de Gaulle et son hélice manquante durant la guerre d’Afghanistan (2001), la première guerre du XXI me siècle, enfin les pérégrinations de l’ancien joyau de la flotte française, le Clemenceau, en 2005. On aurait rêvé meilleur traitement à De Gaulle et à Clemenceau, tout de même deux personnages considérables de l’Histoire de France.

    Victorieuse avec ses anciens colonisés, la France retrouvera le chemin de la défaite lorsqu’elle se dressera contre eux. Carbonisée à #Dien_Bien_Phu (1954) contre le Vietnam, première victoire d’un pays du tiers monde sur un pays occidental, ainsi qu’en Algérie (1954-1962).
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    Le tryptique républicain (#Liberté, #Egalité, #Fraternité), le mythe fondateur de l’exception française.
    A) La liberté : 
La Colonisation est la négation de la Liberté. La #Colonisation n’est pas, loin s’en faut, « la mise en valeur des richesses d’un pays transformé en #colonie » selon la plus récente définition du dictionnaire « Le Petit Robert » Edition -2007

    La liberté et La colonisation sont proprement antinomiques. Car la colonisation est l’exploitation d’un pays, la spoliation de ses richesses, l’asservissement de sa population au bénéfice d’une #Métropole dont elle est, en fait, un marché captif, le réservoir de ses matières premières et le déversoir de son surplus démographique, de sa main d’œuvre et de sa surpopulation, le volant régulateur du chômage et de l’inflation dans les sociétés occidentales.

    Contraire aux idéaux de Liberté, d’Egalité et de fraternité, les principes fondateurs de la Révolution Française, la colonisation est le fossoyeur de l’#idéal_républicain. Elle l’aura été quand bien même d’illustres figures françaises, telles Léon Blum, la conscience morale du socialisme, auront voulu – déjà- en célébrer les bienfaits comme un devoir de faire accéder à la civilisation les peuples primitifs (2).

    Par transposition au débat contemporain, la rhétorique de #Léon_Blum est comparable à celle de la nouvelle conscience de la nouvelle gauche française, le philosophe #André_Glucksman, présentant l’invasion américaine de l’Irak en 2003 comme une contribution occidentale à l’instauration de la démocratie en terre arabe et non comme la mainmise américaine sur les gisements pétroliers de ce pays. « Le fardeau de l’homme blanc », théorisé par l’anglais Kipling, est un alibi commode, le thème récurrent à toutes les équipées prédatrices du monde occidental.
    B ) L’Egalité : 
L’exception française est une singularité : Premier pays à avoir institutionnalisé la terreur comme mode de gouvernement, avec Maximilien de Robespierre, sous la Révolution française (1794), la France sera aussi le premier pays à inaugurer la #piraterie_aérienne, en 1955, avec le déroutement de l’avion des chefs historiques du mouvement indépendantiste algérien Ahmad Ben Bella, Mohamad Khider, Mohamad Boudiaf et Krim Belkacem), donnant ainsi l’exemple aux militants du tiers-monde en lutte pour leur indépendance.

    La récidive dans la singularité est aussi un trait de l’exception française : En effet, ce pays jacobin, égalisateur et égalitaire se singularisera, aussi, en étant le seul pays au monde à avoir officialisé le « #gobino-darwinisme juridique », à avoir codifié en Droit « la théorie de l’inégalité des #races », une codification opérée sans discernement, pour promouvoir non l’égalité, mais la #ségrégation.

    La « Patrie des Droits de L’Homme » et des compilations juridiques modernes -le code civil et le code pénal- est aussi le pays de la codification discriminatoire, le pays de la codification de l’abomination : le pays du« #Code_Noir » de l’esclavage, sous la Monarchie, du « Code de l’#indigénat » en Algérie, sous la République, qu’il mettra en pratique avec les « expositions ethnologiques », ces « #zoos_humains » (3) dressés pour ancrer dans l’imaginaire collectif des peuples du tiers monde l’idée d’une infériorité durable des « peuples de couleur », et, par contrecoup, la supériorité de la race blanche comme si le blanc n’était pas une couleur, même si elle est immaculée, ce qui est loin d’être le cas.

    Un chiffre suffit à démontrer l’inanité de ce principe d’égalité : Trois membres du dernier gouvernement de l’ère chiraquienne présidé par Dominique De #Villepin (2005) ont été affectés à la mise en œuvre de ce principe dans ses diverses déclinaisons : la cohésion sociale (Jean Louis Borloo), la promotion de l’égalité des chances entre Français de souche et Français naturalisés (Azouz Begag) enfin la parité Hommes-femmes (Catherine Vautrin).

    Ce principe d’égalité est pourtant l’un des principes fondateurs de la République, entériné comme bien commun de la nation depuis deux siècles. Que n’a-t-on songé à le mettre en œuvre auparavant ? A croire que la laïcité ce concept unique au monde ne s’est forgé que pour servir de cache-misère à un #chauvinisme récurrent de la société française.

    Les hochets offerts épisodiquement non aux plus méritants mais aux plus dociles, en guise de lot de consolation, loin d’atténuer cette politique discriminatoire, en soulignent la parfaite contradiction avec le message universaliste de la France. Ils l’exposent à de douloureux retours de bâtons.

    C) Fraternité : Le #Bougnoule, la marque de stigmatisation absolue, le symbole de l’ingratitude absolue.
    La fraternisation sur les champs de bataille a bien eu lieu mais la fraternité jamais. Jamais pays au monde n’a autant été redevable de sa liberté aux peuples basanés et pourtant jamais pays au monde n’a autant compulsivement réprimé ses alliés coloniaux, dont il a été lourdement redevable de sa survie en tant que grande nation. De Fraternité point, mais en guise de substitut, la stigmatisation, la #discrimination et la #répression à profusion.

    Par deux fois en un même siècle, phénomène rarissime dans l’histoire, ces soldats de l’avant, les avant-gardes de la mort et de la victoire auront été embrigadés dans des conflits qui leur étaient, étymologiquement, totalement étrangers, dans une « querelle de blancs », avant d’être rejetés, dans une sorte de catharsis, dans les ténèbres de l’infériorité, renvoyés à leur condition subalterne, sérieusement réprimés aussitôt leur devoir accompli, comme ce fut le cas d’une manière suffisamment répétitive pour ne pas être un hasard, à #Sétif (Algérie), en 1945, cruellement le jour de la victoire alliée de la seconde Guerre Mondiale, au camp de #Thiaroye (Sénégal) en 1946, et, à #Madagascar, en 1947, sans doute à titre de rétribution pour leur concours à l’effort de guerre français.

    ((A noter qu’en Grande Bretagne, contrairement à la France, la contribution ultramarine à l’effort de guerre anglais a été de nature paritaire, le groupe des pays anglo-saxons relevant de la population #Wasp (White Anglo Saxon Protestant), -#Canada, #Australie, #Nouvelle Zélande, a fourni des effectifs sensiblement égaux aux peuples basanés de l’empire britannique (indiens, pakistanais etc.). Il s’en est suivi la proclamation de l’Indépendance de l’#Inde et du #Pakistan en 1948, au sortir de la guerre, contrairement, là aussi, à la France qui s’engagera dans dix ans de ruineuses guerres coloniales (#Indochine, Algérie).

    « Bougnoule » tire ainsi son origine de l’expression argotique de cette supplique ante-mortem.
    La revendication ultime préludant au sacrifice suprême -« Aboul Gnoul, apporte l’#alcool »- le breuvage galvanisateur de l’assaut des lignes ennemies, finira par constituer, par un dévoiement de la pensée, la marque d’une stigmatisation absolue de ceux qui auront massivement contribué, à deux reprises, au péril de leur vie, à vaincre, paradoxalement, les oppresseurs de leurs propres oppresseurs.

    Dans les ouvrages français, le calvaire de leur dépersonnalisation et leur combat pour la restauration de leur identité et de leur dignité se résumeront à cette définition laconique : « Le bougnoule, nom masculin apparu en 1890, signifie noir en langue Wolof (dialecte du Sénégal). Donné familièrement par des blancs du Sénégal aux noirs autochtones, ce nom deviendra au XXme siècle une appellation injurieuse donnée par les Européens d’Afrique du Nord aux #Nord-Africains. Synonyme de #bicot et de #raton » (4). Un glissement sémantique du terme bougnoule s’opérera au fil du temps pour englober, bien au delà de l’Afrique du Nord, l’ensemble de la France, tous les « mélanodermes », #arabo-berbères et #négro-africains, pour finir par s’ancrer dans le tréfonds de la conscience comme la marque indélébile d’un dédain absolu, alors que parallèlement, par extension du terme raton qui lui est synonyme, le langage courant désignait par « #ratonnade » une technique de répression policière sanctionnant le délit de faciès.

    Bougnoule finira par confondre dans la même infamie tous les métèques de l’Empire, piétaille de la République, promus au rang de défenseurs occasionnels de la Patrie, qui étaient en fait les défenseurs essentiels d’une patrie qui s’est toujours voulue distincte dans le concert des nations, qui se distinguera souvent d’une façon lumineuse, d’une façon hideuse parfois, traînant tel un boulet, Vichy, l’Algérie, la collaboration, la délation, la déportation et la torture, les pages honteuses de son histoire, peinant des décennies durant à expurger son passé, et, pour avoir tardé à purger son passif, en paiera le prix en termes de magistère moral…….Une revanche posthume du bougnoule, en quelque sorte.
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    La France du triptyque républicain : une vision ethniciste face au phénomène exogène.
    L’affirmation peut paraître péremptoire, n’y voyons aucune malice, mais correspond néanmoins à la réalité historique : Le clivage communautaire a préexisté en France dans l’esprit des autorités et des citoyens du pays d’accueil bien avant qu’il ne prenne corps dans l’esprit des migrants.

    Par transposition du schéma colonial à l’espace métropolitain, l’immigré en France a longtemps été perçu comme un indigène, ce qui faisait paradoxalement de l’immigré, l’indigène de celui qui est étymologiquement l’indigène (5), une main-d’oeuvre relevant de la #domesticité de convenance, dont l’expatriation assurait sa subsistance et l’obligeait par voie de conséquence à un devoir de gratitude envers le pays hôte.

    D’extraction modeste, affecté à des taches subalternes et pénibles de surcroît non valorisantes, l’immigré, parqué en marge des villes, était par définition et par destination un être en marge de la société, un élément #marginal et non une composante de la société française. Il n’avait de ce fait ni droit de cité, ni droit de regard, ni a fortiori droit de parole.

    L’immigré a été d’autant plus occulté qu’il deviendra durant les années 1950-1970 responsable de tous les maux diplomatiques et économiques français : du désastre de Dien Bien Phu, en 1954, à la Guerre d’Algérie, à l’expédition franco-britannique de Suez contre le symbole du nationalisme arabe Nasser, en 1956, à l’affrontement de Bizerte et la décolonisation de l’Afrique, en 1960, à la 3ème guerre israélo-arabe de juin 1967, à la première crise pétrolière, en 1973, autant d’événements qui ont fini par diaboliser l’immigré notamment “#arabo-musulman” dans le regard du français.

    Dans le domaine de l’imaginaire et le champ de la production intellectuelle, l’arabe représentait alors par compensation “le mal absolu” identifié dans le langage courant par cette rodomontade musculatoire : “le bougnoule à qui l’on doit faire suer le burnous”.

    Par un faux effet d’optique, la France se donnera l’illusion de venger ses avatars d’Algérie et, par un philosémitisme actif, l’illusion de sa rédemption, substituant une arabophobie à une judéophobie, en somme une injustice à une autre injustice, feignant par là même d’ignorer que l’injustice ne se combat pas par une autre #injustice.

    Symptomatique de cet état de fait, le #harki, celui-là même qui dans le schéma mental français devait représenter le bon arabe ou le bon immigré puisqu’il s’était rangé de son côté, c’est à dire du bon côté, sera gommé de la conscience nationale et dissimulé dans les recoins arides du pays, dans une démarche symbolique destinée à refouler ce « déchet du colonialisme » dans le tréfonds de la conscience.

    La crispation identitaire française remonte, en fait, sur le plan national, aux premières vagues d’immigration de l’ensemble arabo-musulman, principalement du Maghreb, le ponant du monde arabe, plus précisément à la Première Guerre Mondiale (1914-1918). Avec 1,4 millions de morts, 900 000 invalides, la France déplorera la perte de 11 pour cent de sa population active du fait du premier conflit mondial, à laquelle il conviendrait d’ajouter les dégâts économiques : 4,2 millions d’hectares ravagés, 295 000 maisons détruites, 500 000 endommagés, 4.800 km de voies ferrées et 58.000 km de routes à restaurer et 22 900 usines à reconstruire et 330 millions de m3 de tranchées à combler.

    Les premiers travailleurs immigrés, des #Kabyles, arriveront en France dès 1904 par petits groupes, mais la Première Guerre Mondiale provoquera un effet d’accélérateur entraînant un recours massif aux « travailleurs coloniaux » auxquels se superposeront les renforts des champs de bataille comptabilisés sous une autre rubrique.

    L’indigène lointain cède la place à l’immigré de proximité. De curiosité exotique que l’on exhibe dans les zoos humains pour glorifier l’action coloniale française, le mélanoderme deviendra progressivement une donnée permanente du paysage humain de la vie quotidienne métropolitaine, sa présence vécue comme une contrainte, exacerbée par la différenciation des modes de vie entre immigrés et métropolitains, les fluctuations économiques et les incertitudes politiques du pays d’accueil

    Paradoxalement, dans la période de l’entre-deux guerres (1918-1938), la France va favoriser la mise en place d’une « République Xénophobe » (6), matrice de l’idéologie vichyste et de la « préférence nationale », alors que son besoin en main d’oeuvre est criant. Bien que contribuant à sortir la France de son champ de ruine, les travailleurs immigrés seront tenus en suspicion, pistés au sein d’un grand « fichier central ».

    Soumis pour l’obtention de la carte de séjour à une taxation équivalant parfois à un demi mois de salaire, source de revenus complémentaire pour l’Etat français, ils seront de surcroît perçus comme porteurs d’un triple péril : péril économique pour leurs concurrents français, péril sanitaire pour la population française dans la mesure où l’étranger particulièrement les Asiatiques, les Africains et les Maghrébins étaient présumés porteurs de maladies, péril sécuritaire pour l’Etat français.

    Près de deux cent mille « #travailleurs_coloniaux » (200 000) seront ainsi importés d’Afrique du Nord et du continent noir par de véritables corporations négrières, telle la « Société générale de l’immigration » (#SGI), afin de pallier la main d’oeuvre française principalement dans le bâtiment et l’industrie textile en remplacement des soldats français partis au front. Dans la cohorte de travailleurs immigrés, venus d’abord principalement d’Italie et de Pologne, les Maghrébins feront l’objet d’une attention spéciale de la part des pouvoirs publics.

    Un « Bureau de surveillance et de protection des indigènes nord-africains chargé de la répression des crimes et des délits » est constitué le 31 mars 1925. Un bureau spécial rien que pour les Maghrébins, précurseur du « service des #questions_juives » que le pouvoir vichyste mettra en place en 1940 pour la surveillance des nationaux français de « race ou de confession juive » durant la Seconde Guerre mondiale.
    ((NDLR Citation de l’article de la juriste Danièle Lochak « La race, une catégorie juridique ? »
    (http://www.anti-rev.org/textes/Lochak92a ) :
    « la loi du 3 octobre 1940 portant statut des Juifs dispose : “Est regardé comme juif pour l’application de la présente loi toute personne issue de trois grands parents de race juive ou de deux grands parents de la même race, si son conjoint lui-même est juif”. Cette définition, qui laisse en suspens la question de savoir comment sera déterminée l’appartenance des grands-parents à la race juive, sera remplacée, dans la loi du 2 juin 1941, par une définition plus explicite : “Est regardé comme juif :

    1° celui ou celle appartenant ou non à une confession quelconque, qui est issu d’au moins trois grands-parents de #race juive, ou de deux seulement si son conjoint est lui-même issu de deux grands-parents de race juive. Est regardé comme étant de race juive le grand-parent ayant appartenu à la religion juive ;

    2° celui ou celle qui appartient à la religion juive et qui est issu de deux grands-parents de race juive”. »

    L’intitulé de l’office en dit long quant à l’opinion du gouvernement français et de ses intention à l’égard des « indigènes » d’Afrique du Nord. Le phénomène ira en s’amplifiant avec la Deuxième Guerre Mondiale et les trente glorieuses années de l’après-guerre (1945-1975) qui suivirent la reconstruction de l’Europe, où le besoin de « chairs à canon » et d’une main d’oeuvre abondante à bas prix provoqueront un nouveau flux migratoire égal en importance au précédent.

    Luxe de raffinement, le recrutement s’opérait selon des critères d’affinités géographiques au point de constituer de véritables couples migratoires en particulier entre Renault et l’embauche kabyle, charbonnages de France et les travailleurs du sud marocain, de même qu’en Allemagne, Wolkswagen et les immigrés turcs.

    A l’instar d’une cotation boursière sur un marché de bétail, les travailleurs coloniaux faisaient même l’objet d’une #notation en fonction de leur nationalité et de leur race (7) avec de subtiles distinctions selon leur lieu de provenance notamment au sein des Algériens où les Kabyles bénéficiaient d’un préjugé plus favorable que les autres composantes de la population algérienne. Le Kabyle était invariablement noté 5/20, l’arabe 4/20 et l’Indochinois 3/20. Ho Chi Minh témoin de cette humiliante notation ethnique lors de son séjour parisien, se vengera trente ans plus tard en infligeant à son ancien maître l’une des plus humiliantes défaites militaires du monde occidental, la défaite de Dien Bien Phu en 1954.

    Muettes, les blessures de l’histoire ne cicatrisent jamais.
    La France s’affiche volontiers révolutionnaire mais se révèle, en fait, profondément conservatrice. La France du triptyque républicain a eu un comportement liberticide avec la colonisation, ethniciste dans sa politique migratoire, un comportement sociocide dans sa structuration socio-culturelle et démographique.
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    Le mythe de la politique arabe de la France
    Philipe Val, le directeur conformiste de l’hebdomadaire faussement anarchiste Charlie Hebdo, impute la collaboration vichyste anti-juive à « la politique arabe de la France ». Ce mémorialiste des temps modernes qui se vit en rival contemporain du cardinal de RETZ, s’imagine, par ce raccourci non pas audacieux mais hasardeux, exonérer la France de l’#antisémitisme récurrent de la société française.

    Sauf à prêter aux Arabes une capacité d’anticipation d’une hardiesse rare confinant à un machiavélisme suprême, en vue de soudoyer l’Etat-Major français pour le conduire à faire condamner pour « haute trahison » un officier français de confession juive, le Capitaine Alfred Dreyfus, ou encore à gangrener le haut commandement politico-militaire français en vue de savourer le désastre de 1940, l’antisémitisme en France a préexisté à la présence arabe et musulmane en France.

    Le plus grand déferlement d’Arabes et de Musulmans en France est survenu à l’occasion de la Deuxième Guerre Mondiale, non pour l’appât du gain -« pour manger le pain des Français »-, mais bien pour libérer avec d’autres le pays du joug nazi, pour aider à la défense d’un pays que ses habitants n’ont pas su, pas pu ou pas voulu défendre… C’est-à-dire près de cinquante ans après l’affaire Dreyfus et dans la foulée de la capitulation de Montoire.

    Et, que je sache, le « Bureau des affaires juives », a eu pour précurseur immédiat « le Bureau de surveillance et de protection des indigènes nord-africains » dont la création, en 1925, n’a pas suscité la moindre protestation des Français sans doute trop occupés à l’époque à magnifier leur supériorité dans l’admiration des « zoos humains »

    La thèse de Philipe Val ne résiste pas à une analyse un tant soit peu sérieuse. Mais qui a jamais soutenu que Philippe Val était un analyste ? Sérieux de surcroît ? Elle participe néanmoins d’une falsification de l’Histoire, d’un sournois travail de révisionnisme anti-arabe.

    Une politique se juge sur la durée. A l’épreuve des faits, la politique arabe de la France, dogme sacré s’il en est, se révèle être, par moments, une vaste mystification, un argument de vente du complexe militaro-industriel français. Qu’on en juge. L’histoire en est témoin.

    La contribution des Arabes à l’effort de guerre français en 1914-1918 pour la reconquête de l’Alsace-Lorraine a été franche et massive. Sans contrepartie. La France, en retour, vingt ans après cette contribution, a témoigné de sa gratitude à sa façon…… en amputant la #Syrie du district d’Alexandrette (1939) pour le céder à la Turquie, son ennemi de la Première guerre mondiale.

    Dans la foulée de la Deuxième Guerre mondiale, la France, récidiviste, carbonisera la première manifestation autonomiste des Algériens, à Sétif, le jour même de la victoire alliée, le 9 mai 1945, une répression qui apparaîtra rétrospectivement comme une aberration de l’esprit sans doute unique dans l’histoire du monde, dont les effets se font encore sentir de nos jours.

    Dix ans plus tard, en 1956, de concert avec Israël et la Grande Bretagne, la France se livre à une « expédition punitive » contre le chef de file du nationalisme arabe, Nasser, coupable d’avoir voulu récupérer son unique richesse nationale « le Canal de Suez ». Curieux attelage que cette « équipée de Suez » entre les rescapés du génocide hitlérien (les Israéliens) et l’un de leur ancien bourreau, la France, qui fut sous Vichy l’anti-chambre des camps de la mort.

    Curieux attelage pour quel combat ? Contre qui ? Des Arabes, ceux-là mêmes qui furent abondamment sollicités durant la deuxième guerre mondiale pour vaincre le régime nazi, c’est-à-dire l’occupant des Français et le bourreau des Israéliens. A moins qu’il ne s’agisse d’une forme élaborée de l’exception française, on aurait rêvé meilleure expression de la gratitude.

    Très concrètement, la politique arabe de la France a consisté, historiquement, en une opération de restauration de la souveraineté nationale dans les centres de décision du pouvoir politique français, après la guerre de juin 1967, par la rupture de la relation fusionnelle qui existait qui, au mépris de l’intérêt national, entre services français et israéliens.

    Bon nombre d’entre vous se rappellent peut-être le chef de la mission d’achat militaire israélienne en France disposait, à l’époque, non pas à l’ambassade israélienne, mais au sein même du ministère français des armées, d’un bureau jouxtant celui du directeur de cabinet du ministre, une proximité sans précédent même dans les pays colonisés.

    Bon nombre d’entre vous gardent peut être présent à l’esprit l’implication des services israéliens et français dans l’enlèvement du chef charismatique de l’opposition marocaine #Mehdi_Ben_Barka, en 1965, en plein jour, en plein Paris, ou encore le vol des cinq vedettes de Cherbourg par les Israéliens (Décembre 1969), la plus concrète manifestation sinon de la connivence du moins de la passivité des services français à l’égard des coups de main israéliens.

    L’ouverture de la France vers les pays arabes, en 1967, au terme d’une rupture de onze ans consécutive à l’expédition de Suez, lui a valu un regain de prestige après deux décennies de déboires militaires en Indochine et en Algérie, la conquête des marchés pétroliers, notamment l’#Irak, l’ancienne chasse gardée des Anglais, la percée majeure de la diplomatie gaulliste de la seconde moitié du XXme siècle, ainsi que de fabuleux contrats militaires de l’ordre de plusieurs centaines de millions de dollars, notamment avec l’Irak, la Libye et l’Arabie saoudite,

    L’illustration patente de la disparité de traitement entre Français et Arabes est la première crise de l’#énergie en 1973. A cette date, la France est officiellement le partenaire privilégié du Monde arabe, officiellement épargnée par le boycottage pétrolier anti-occidental, le principal bénéficiaire du boom pétrolier, le principal bénéficiaire des contrats pétro-monarchiques, mais les Français se cramponnent à une xénophobie lancinante, crispés sur un comportement guidé par une psychorigidité nourrie d’une nostalgie de grandeur.

    Tout le monde garde présent à l’esprit les traits d’humour d’une époque où les Français exultaient de compenser leur absence de ressources naturelles par une prétendue supériorité intellectuelle, affichant leur fierté de ne “pas avoir de pétrole mais des idées”, formule qui peut se décrypter de la façon suivante : “pas d’essence, mais la quintessence de l’esprit”, humour que sous-tendait une #arabophobie ambiante dans une période où les arabo-musulmans étaient cloués au pilori pour avoir osé frigorifier les Français avec leur crise de l’énergie.

    Le renchérissement du coût du pétrole était vécu comme un crime de lèse-majesté, alors qu’il s’agissait d’un problème de rajustement des prix du brut, longtemps outrageusement favorables aux économies occidentales.

    La contradiction entre l’ouverture pan-arabe de la diplomatie française et la crispation identitaire de l’opinion française posait déjà à l’époque le problème de la mise en cohérence de la politique française à l’égard du fait arabo-musulman.

    L’universalisme français a pratiqué à destination du monde arabo-musulman une « politique des minorités », contraire à ses principes fondateurs, institutionnalisant et instrumentalisant le confessionalisme et le communautarisme, se servant des Maronites (au Levant) et des Kabyles (au Ponant) comme levier à une re-christianisation de la rive méridionale de la Méditerranée, interdisant aux Algériens sur le sol même de leur patrie, l’usage de leur langue nationale, infligeant à ce pays un dégât plus important que les ravages de 130 ans de la colonisation, le dommage de l’esprit,— l’acculturation—, dont les effets corrosifs et pernicieux se font encore sentir de nos jours et qui expliquent pour une large part les crises cycliques entre les deux pays.

    La politique arabe de la France c’est cela aussi. Muettes et douloureuses, les blessures de la mémoire ne cicatrisent jamais.
    .
    La France : Aimez- là ou quittez-là ou le mythe de l’excellence française
    Ce mot d’ordre n’a même pas le mérite de l’originalité. IL a été emprunté à #Ronald_Reagan, le président Rambo des Etats-Unis de la décennie 1980 (1980-1988) qui entendait par cette formule neutraliser les critiques contre l’aventurisme américain dans la période post Vietnam (1975-1980).

    Empruntée à Reagan en vue de son application électoraliste en France par le dirigeant de la droite traditionaliste #Philippe_de_Villiers, reprise et amplifiée par…#Nicolas_Sarkozy, ce « Français de la deuxième génération » selon la dénomination en vigueur en France pour les citoyens originaires du tiers monde.

    Le clonage de l’Amérique n’est pas la marque de l’originalité.

    Les basanés de France sont là et bien là. Durablement ancrés dans le paysage politique et social français. Eux dont « le rôle positif » n’a jamais été célébré avec solennité, sinon que d’une manière, incidente quand il n’a pas été plus simplement nié ou controversé.

    En France, non pas leur pays d’accueil, mais leur pays d’élection.

    Déterminés à défendre la haute idée que la France veut donner d’elle-même au Monde.

    A combattre tous ceux qui fragilisent l’économie par une gestion hasardeuse, tous ceux qui discréditent la politique par une connivence sulfureuse,

    Tous ceux qui polluent l’image de la France, à coups d’emplois fictifs et de responsabilité fictive, de rétro-commissions et de frais de bouche, de délits d’initiés et d’abus de biens sociaux

    Ces messieurs des frégates de Taiwan et de Clearstream,
    Du Crédit Lyonnais et de la Compagnie Générale des Eaux,
    D’Elf Aquitaine et d’EADS,
    D’Executive Life et de Pechiney American-Can
    Des marchés d’Ile de France et de HLM de Paris, de la MNEF et d’Urba-Gracco,
    Ceux qui dévalorisent leur justice à coups d’affaires d’#Outreaux, d’écoutes téléphoniques illégales, de tri sélectif et de « #charters de la honte »
    Qui dévalorisent leurs nationaux à coups de bougnoule et de ratonnades, de racaille et de Karcher.

    Contre la « France d’en bas » qui gouverne le pays, la France des basses manoeuvres et des bas calculs, des « zones de non droit et de passe-droits », des nominations de complaisance et des appartements de fonction, la France qui refuse de donner un coup de pouce au SMIC, qui « cristallise », c’est-à-dire, fige à sa portion congrue, les retraites des anciens combattants « basanés » de l’armée française, mais qui relève de 70 pour cent le salaires des ministres nantis, qui gorge de « stock options et de parachutes dorés » les gérants en déconfiture, tels ceux de Vinci et de Carrefour, qui recycle la forfaiture dans l’honorabilité, propulsant au Conseil d’Etat, le temple de la vertu républicaine, en guise de rétribution pour services rendus dans la diversion de la justice, tel ministre de la justice, passé dans l’histoire comme le plus célèbre intercepteur d’hélicoptères des annales judiciaires internationales.

    En un mot contre cette posture du mépris et de l’irresponsabilité la singulière théorie du fusible à la française » qui exonère le responsable de toute responsabilité par une sorte de privilège anti-démocratique tirant sa justification dans une idéologie protofasciste inhérente à un pan de la culture française.

    Contre la criminalisation du politique, cet état de fait symptomatique de la France contemporaine illustré particulièrement par la présidence Chirac, dont la double mandature (1995-2000), douze ans, aura été polluée par de retentissants scandales politico-financiers en rapport avec l’argent illicite, sans pour autant que soit discrédité le chef de l’état français -le parangon de la « fracture sociale », de « l’état modeste » et d’un « siècle de l’Ethique », réélu en dépit des dérives autoritaro-mercantiles de son magistère.

    Le président Chirac précisément et non son prédécesseur François Mitterrand, en application de l’aveu d’un spécialiste du brigandage politique, Jean Montaldo, un chiraquien désabusé qui soutient, paroles d’expert, que « de Mitterrand à Chirac nous sommes passés du stade artisanal au stade industriel », dans le domaine de la corruption (8).

    N’y voyez aucune interférence électoraliste ou partisane : L’histoire d’aujourd’hui est la mémoire de demain et il importe d’être vigoureux dans la dénonciation des dérives contemporaines pour prévenir de douloureuses réminiscences de la mémoire future.

    « Le casier judiciaire de la République » présente ainsi l’édifiant bilan suivant : Neuf cent (900) élus mis en examen soit pour #délinquance financière, soit pour atteintes aux biens et aux personnes y compris les crimes sexuels. Ce bilan porte sur la décennie 1990-2000. Gageons que le bilan de la présente décennie est en passe d’être identique.

    La « #tolérance_zéro » à l’égard de la criminalité en col blanc se devrait d’être pourtant un impératif catégorique de l’ordre républicain en vertu du principe de l’exemplarité de l’Etat.

    La capitulation de Sedan face à l’Allemagne en 1870-71 a donné naissance à la III me République, la capitulation de Montoire (9) face à Hitler en 1940 à la IV me République (1946), celle de Dien Bien Phu et d’Algérie en 1955, à la V me République (1958), avec leurs cortèges de grandes institutions : Sedan à la création de « sciences po », l’Institut des Etudes Politiques de Paris et Montoire à la fondation de l’ENA, l’Ecole Nationale d’Administration (1945). Le pays des « Grandes Ecoles », des concours pépinières des élites, des scribes et des clercs, -cinq millions de fonctionnaires en France en l’an 2.000, le plus fort contingent de l’Union européenne, soit 20 pour cent de la population active- ne tolère pas de retour sur son passé. Il ne conçoit que les perspectives d’avenir. Jamais de rétrospectives, ni d’introspection. toujours des prospectives. Une fuite en avant ?

    Loin de participer d’une hypermnésie culpabilisante, le débat s’impose tant sur la contribution des « peuples basanés » à la libération du sol français, que sur leur apport au rayonnement de leur pays d’accueil, en guise de mesure de prophylaxie sociale sur les malfaisances coloniales dont l’occultation pourrait éclairer les dérives répétitives de la France, telles que -simple hypothèse d’école ?- la correspondance entre l’amnésie sur les « crimes de bureau » de 1940-44 et l’impunité régalienne de la classe politico administrative sur les scandales financiers de la fin du XX me siècle, ou la corrélation entre la déroute de l’élite bureaucratique de 1940 et la déconfiture de l’énarchie contemporaine.

    Cette dérive a été sanctionnée d’ailleurs lors de la première consultation populaire à l’échelon national du XXI me siècle. « Une des plus grandes bévues démocratiques de l’histoire contemporaine de la France », selon l’expression de l’écrivain indo britannique Salman Rushdie, la présidentielle de 2002 qui avait mis aux prises un « superfacho » et un « supermenteur », -selon la formule en vigueur à l’époque-, révélera aux Français et au Monde médusés, le délitement moral d’un pays volontiers sentencieux et le discrédit de son élite non moins volontairement obséquieusement arrogante, incapable d’assumer au terme d’un pouvoir monopolisé par les élites depuis la fin de la Deuxième Guerre Mondiale (1945), au niveau économique, la mutation postindustrielle de la société française, au niveau sociologique, sa mutation #postcoloniale, au niveau de son opinion nationale, sa mutation psychologique, signe de l’échec patent de la politique d’intégration de sa composante afro musulmane. Cinq siècles de colonisation intensive à travers le monde auraient dû pourtant banaliser la présence des « basanés » sur le sol français, de même que treize siècles de présence continue matérialisée par cinq vagues d’émigration conférer à l’Islam

    le statut de religion autochtone en France où le débat, depuis un demi siècle, porte sur la compatibilité de l’#Islam et de la République, comme pour conjurer l’idée d’une agrégation inéluctable aux peuples de France de ce groupement ethnico-identitaire, le premier d’une telle importance sédimenté hors de la sphère européo-centriste et judéo-chrétienne.

    Premier pays européen par l’importance de sa communauté musulmane, la France est aussi, proportionnellement à sa superficie et à sa population, le plus important foyer musulman du monde occidental. Elle compte davantage de musulmans que pas moins de huit pays membres de la Ligue arabe (Liban, Koweït, Qatar, Bahreïn, Emirats Arabes Unis, Palestine, Iles Comores et Djibouti). Elle pourrait, à ce titre, justifier d’une adhésion à l’Organisation de la #Conférence_Islamique (OCI), le forum politique panislamique regroupant cinquante deux Etats de divers continents ou à tout le moins disposer d’un siège d’observateur.

    L’intégration présuppose une conjonction d’apports et non une amputation de la matrice identitaire de base. La troisième génération issue de l’immigration est certes extrêmement sensible à son environnement international comme en témoignent les flambées de violence à caractère confessionnel en rapport avec l’intifada palestinienne, la guerre du Golfe (1990-91) ou encore la guerre d’Afghanistan (2001-2002), la guerre d’Irak et la guerre du Liban (2006).

    Elle n’en demeure pas moins porteuse d’une dynamique interculturelle en raison de ses origines, de son profil culturel et de ses croyances religieuses.
    Facteur d’intermédiation socioculturelle, les bougnoules des temps anciens, #sauvageons des temps modernes, paraissent devoir tenir leur revanche dans leur vocation à devenir de véritables « passeurs de la #Francophonie », l’avant-garde de « l’arabofrancophonie culturelle » (10) que la France s’ingénie tant à mettre sur pied afin de faire pièce à l’hégémonie anglo-américaine et de favoriser le dialogue des cultures par le dépassement de son passé colonial.

    A l’entame du IIIème millénaire, la « patrie de la mémoire courte » souffre d’évidence d’un blocage culturel et psychologique marqué par l’absence de fluidité sociale. Reflet d’une grave crise d’identité, ce blocage est, paradoxalement, en contradiction avec la configuration pluriethnique de la population française, en contradiction avec l’apport culturel de l’immigration, en contradiction avec les besoins démographiques de la France, en contradiction enfin avec l’ambition de la France de faire de la Francophonie, l’élément fédérateur d’une constellation pluriculturelle ayant vocation à faire contrepoids à l’hégémonie planétaire anglo-saxonne, le gage de son influence future dans le monde.
    .
    Conclusion
    Cinq ans après la bourrasque lepéniste aux présidentielles françaises de 2002, alors que la France s’apprête, en 2007, à se choisir un nouveau président, il m’a paru salutaire de pointer les incohérences françaises. De démystifier le discours politique officiel, et, au delà du clivage droite-gauche de la classe politique française, de recentrer le débat sur le fait migratoire en mettant l’imaginaire français à l’épreuve des faits historiques et de la réalité quotidienne nationale en vue d’apporter ma contribution à la mutation post-coloniale de la France.

    L’exception française si hautement revendiquée d’une nation qui se réclame de la grandeur est antinomique d’une culture de l’#impunité et de l’#amnésie, une culture érigée en un #dogme de gouvernement et, à ce titre, incompatible avec la déontologie du commandement et les impératifs de l’exemplarité.

    Mes remerciements renouvelés vont donc en premier lieu à Bruno Gollnisch, Philippe Val, le ministre des Affaires étrangères Philippe Douste Blazy, initiateur, en tant que député de Toulouse, du projet de loi controversé sur le « rôle positif » de la colonisation, ainsi que naturellement à Nicolas Sarkozy, pour leur inestimable contribution à la remise en ordre de ma formation universitaire, un exercice qui m’a permis de prendre conscience du « rôle positif » de la colonisation….. des Colonies par rapport à la Métropole et des colonisés à l’égard de leurs colonisateurs-oppresseurs.

    Merci aussi aux organisateurs de ce colloque qui m’ont donné la possibilité devant un auditoire savant, patient ( et indulgent à mon égard ), de procéder à une « déconstruction des mythes fondateurs de la grandeur française », pour le plus grand bénéfice du débat public contradictoire et de la recherche universitaire.

    Notes
    1) Contribution de l’auteur au colloque de SEPTEMES-LES-VALLONS 6- 7 OCTOBRE 2006, organisé par Festival TransMediterranée (fmed@wanadoo.fr) sur le thème « D’UNE RIVE A L’AUTRE, ECRIRE L’HISTOIRE, DECOLONISER LES MEMOIRES »
    2 Léon Blum invoquera son « trop d’amour » pour son pays « pour désavouer l’expansion de la pensée et de la civilisation française ». « Nous admettons le droit et même le devoir des races supérieures d’attirer à elles celles qui ne sont pas parvenues au même degré de culture », écrira-t-il dans le journal « Le Populaire » en date du 17 juillet 1925) cf « Quand Tocqueville légitimait les boucheries » par Olivier le Cour Grandmaison et « une histoire coloniale refoulée » par Pascal Blanchard, Sandrine Lemaire et Nicolas Bancel- Dossier général sous le thème « Les impasses du débat sur la torture en Algérie »-Le Monde Diplomatique juin 2001. Alexis de Tocqueville légitimera les boucheries considérant « le fait de s’emparer des hommes sans armes, des femmes et des enfants, comme des nécessités fâcheuses auxquelles tout peuple qui voudra faire la guerre aux Arabes sera obligé de se soumettre ». De son côté, Jules Ferry soutiendra dans un discours au Palais Bourbon le 29 juillet 1895 qu’ « il y a pour les races supérieures un droit par ce qu’il y a un devoir pour elle. Elles ont le devoir de civiliser les races inférieures ».
    3) « Zoos humains, de la Vénus Hottentote aux Reality Show » Ed. La Découverte Mars 2002, ouvrage réalisé sous la direction d’un collectif d’historiens et d’anthropologues membres de l’Association connaissance de l’Afrique contemporaine (Achac-Paris),Nicolas Bancel (historien, Université Paris XI), Pascal Blanchard (historien, chercheur CNRS), Gilles Boetsch (anthropologue, Directeur de recherche au CNRS), Eric Deroo (cinéaste, chercheur associé au CNRS) et Sandrine Lemaire (historienne, Institut européen de Florence). De 1877 à 1912, trente spectacles ethnologiques seront donnés au jardin d’acclimatation à Paris, puis aux expositions universelles de Paris de 1878 et de 1889 dont le clou pour celle de 1889 étaient aussi bien l’inauguration de la Tour Eiffel que la visite d’un « village nègre ». Suivront les expositions de Lyon (1894), les deux expositions coloniales de Marseille (1906 et 1922), enfin les grandes expositions de Paris de 1900 (diorama sur Madagascar, 50 millions de spectateurs) et de 1931 dont le commissaire général n’était autre que le Maréchal Lyautey. cf. « Le spectacle ordinaire des zoos humains » et « 1931. Tous à l’Expo » par Pascal Blanchard, Nicolas Bancel et Sandrine Lemaire, Manière de voir N°58 Juillet Août 2001, op cité.
    4 Dictionnaire Le Petit Robert 1996.
    5 « Du Bougnoule au sauvageon, voyage dans l’imaginaire français » René Naba-Editons l’Harmattan-2002
    6 « La République Xénophobe, 1917-1939 de la machine d’Etat au « crime de bureau », les révélations des archives » de Jean Pierre Deschodt et François Huguenin Editions JC Lattès septembre 2001.
    7 « Une théorie raciale des valeurs ? Démobilisation des travailleurs immigrés et mobilisation des stéréotypes en France à la fin de la grande guerre » par Mary Lewis, enseignante à la New York University, in « L’invention des populations », ouvrage collectif sous la direction d’Hervé Le Bras (Editions Odile Jacob).
    8 Jean Montaldo, auteur de deux ouvrages sur la corruption présidentielle : « Chirac et les 40 menteurs » Albin Michel 2006, « Mitterrand et les 40 voleurs » Albin Michel.
    9 l’armistice a été signé le 22 juin 1940 symboliquement à Rethondes au même endroit, dans le même wagon, que l’armistice du 11 novembre 1918. Toutefois l’entrevue de Montoire du 24 octobre 1940 entre Pétain et Hitler a scellé la collaboration entre la France et l’Allemagne nazie. Si l’armistice constituait une cessation des hostilités, la rencontre de Montoire a représenté dans l’ordre symbolique le voyage à Canossa de Pétain et constitué en fait une capitulation dans la mesure où Pétain a cautionné la collaboration avec le régime nazi quand bien même l’Allemagne reniant ses promesses avait annexé l’Alsace-lorraine, août 1940.
    10 « Arabo-francophonie culturelle : l’expression a été forgée en 1995-1996 par Stellio Farangis, ancien secrétaire général du Haut Conseil de la Francophonie.

  • MIKE CAMPAU « ANTISOCIAL DIGITAL ART »
    https://laspirale.org/graphisme-553-mike-campau- antisocial-digital-art.html

    MIKE CAMPAU « ANTISOCIAL DIGITAL ART »Nouvelle tendance, l’art numérique entre en dissidence et se montre de plus en plus critique de notre meilleur des mondes numériques.

    Mike Campau vit au nord des USA, dans l’État du Michigan. Infographiste et photographe de profession, il conçoit des images pour de grandes marques, telles que Chevrolet, WWE, Budweiser, Ford, Pepsi ou Sony, lorsqu’il ne produit pas de visuels rebelles.

    Tirées de trois séries intitulées Antisocial, Deconstruction of America et Generation Gap, les images de ce portfolio s’attaquent à l’omnipotence des réseaux sociaux et aux problèmes de la société américaine, avant de se conclure par une évocation nostalgique des années (...)

    #laspirale #GAFA #déconstruction


    https://spacemountaineer.tumblr.com
    #facebook_land #twittoland

    • @raspa C’est en effet super intéressant :

      Etre déconstruit devient donc une façon de se démarquer de la masse « construite », et d’effectuer un travail personnel pour minimiser les coercitions que l’on peut exercer sur autrui. Comme pour le mouvement Colibri, il s’agit d’adopter des gestes, des habitudes, des comportements moins coercitifs et plus respectueux des dominés. Le « safe », langage inclusif, la bienveillance, le respect du ressenti, la non-contradiction de la parole d’un premier concerné etc. Bref, une multitude de codes que chacun doit respecter. L’antiracisme ne devient ainsi plus une lutte politique, mais un changement personnel, un style de vie. Il y a des gens qui mangent bio pour « sauver la planète », et d’autres qui « check leurs privilèges » pour lutter contre le racisme.

      Ma question c’est : comment on articule les deux, càd combat politique collectif et pratiques individuelles ? Comment on fait prendre conscience aux colibristes de l’importance de la lutte politique ? Ok, c’est incohérent de lutter pour sauver la planète ou abolir le racisme en continuant de rouler en 4x4 en ville ou en faisant des blagues racistes. Mais dans mon esprit, ces actions doivent être l’application à l’échelle individuelle d’un engagement politique et militant ("je milite dans une organisation anti-raciste, ça me paraît cohérent de réfléchir à mon humour et de faire évoluer celui-ci"), participant d’une recherche de cohérence. Et je parle bien d’une recherche, et pas de cohérence totale, qui serait invivable socialement.

      Malheureusement, comme le décrit très bien l’article, les comportements individuels deviennent les seuls actes d’engagement en faveur d’une cause. Ce qui est d’autant plus dommage que l’aller-retour entre les deux est super intéressant pour nourrir la lutte politique : si d’un côté tu milites contre le changement climatique, par exemple en soutenant des campagnes de désinvestissement des énergies fossiles, que de l’autre tu te dis « ah tiens ça serait bien que ma propre épargne ne finance pas non plus ces projets », et que tu te rends compte que c’est galère de trouver un compte d’épargne fossilfree, dans l’idéal ça devient aussi une revendication politique. Demander aux banques qu’elles n’investissent plus dans les fossiles, mais aussi qu’elles garantissent à leurs clients des produits d’épargne (quel affreux mot !) qui n’y investissent pas non plus. Je crois aussi que les actes individuels peuvent être un bon point de départ à l’élaboration d’une pensée (puis, on l’espère, d’une action) politique. C’est la méthode de conscientisation de Paolo Freire : je suis un paysan pauvre analphabète du Chili ; je me rends compte que mes voisins sont aussi des paysans pauvres analphabètes (prise de conscience qu’on n’est pas seul) ; on se pose ensemble la question de pourquoi on est tous des paysans pauvres analphabètes ; et on finit par devenir de dangereux gauchistes révolutionnaires qui savent lire :-D (ok, c’est une description extrêmement caricaturale de Freire, qui doit se retourner dans sa tombe, le pauvre. En même temps, si ses écrits étaient plus accessibles, je le lirai pour de vrai...).

      Car le vrai problème de la déconstruction c’est qu’elle est tout aussi impossible à réaliser totalement (sur soi) qu’inefficace (contre le pouvoir blanc). Elle exige des individus une chose inconcevable : lutter contre sa socialisation, se dépouiller de toutes les normes incorporées jusqu’ici, se défaire de tout ce qui a fait son identité, et intégrer de nouvelles valeurs, qui sont à contre-courant des institutions. Autrement dit, on demande à l’individu d’être plus fort que les institutions, que la société, d’être au dessus de tous les déterminismes sociaux. Un tel surhumain n’existe pas.

      Autant de questions auxquelles il n’est pas possible de répondre car ce concept de « déconstruction » n’est qu’une idéologie et non un outil théorique, un concept scientifique. Mais plus que cela, c’est une idéologie inopérante.

      Ces passages sont fabuleux, et super justes. On retrouve vraiment la question de la si désastreuse pureté militante (cf « cohérence » versus « recherche de cohérence »). Il m’évoque les plus belles heures de « Fais ton autocritique camarade » (c’est la punchline d’un des résistants communistes d’Un village français, le plus borné).

      Je note d’autres passages pour les garder sous le coude :

      Je rajouterais, dans notre cas, qu’il ne faut pas attendre d’eux qu’ils aient la capacité sur-humaine de se dépouiller de la totalité de leurs déterminismes sociaux, qu’ils soient déjà tous libérés de l’idéologie de la Modernité occidentale, car personne ne l’est. Il ne faut pas mettre la charrue avant les bœufs, il ne faut pas attendre les résultats de nos combats, avant même de les mener et de les gagner.

      Le racisme est une question de pouvoir, de rapport de force, pas de bonne volonté, ni de position morale. C’est ce que soulignait Kwamé Turé (Stokely Carmichael), lorsqu’il disait « Si un homme blanc veut me lyncher c’est son problème. S’il a le pouvoir de me lyncher, c’est mon problème. Le racisme n’est pas une question d’attitude, c’est une question de pouvoir ».

      Ce passage-là rejoint parfaitement la vidéo qu’on a diffusé l’autre jour sur l’action non-violente. Il y a dans mon souvenir un passage sur la lutte anti-apartheid en Afrique du Sud, avec un boycott de magasins blancs. Le mouvement a obtenu ce qu’il voulait, à savoir rallier les commerçants à l’opposition au gouvernement pro-apartheid pour demander une évolution de la loi. Il n’exige pas que ces commerçants deviennent anti-racistes magiquement, du jour au lendemain. Il y a un côté pragmatique à garder en tête je trouve.

    • @raspa (et je t’avais envoyé ça par mail il y a quelques mois aussi : https://pr0z3.wordpress.com/2017/06/07/a-propos-de-la-deconstruction
      Le texte parle pas mal de pureté militante et de l’usage du « bon vocabulaire » :

      Je remarque aussi que la déconstruction est souvent bien plus une affaire de « bon vocabulaire » que de « bonnes idées ». On ne réfléchit plus aux usages des termes, aux contextes dans lesquels on les utilise, à l’histoire des luttes ou à l’évolution des idées.

      Pour citer quelques exemples, qui me frappent par leur absurdité : il ne faut plus dire « couple de même sexe » mais « couple de même genre », parce que le sexe ce serait « les organes génitaux ». [...]. Si tu es trans et que tu utilises le terme « transsexuel-le », tu es obligatoirement dans l’erreur, voire tu es transphobe toi-même, et ceci indépendamment du fait que le terme était en vigueur dans les milieux LGBT jusqu’à il n’y a pas si longtemps. Il y aurait en soi des mots « oppressifs » et des mots « inclusifs ». [...] On pose convention après convention, sans les interroger, et on ignore sciemment la polysémie de nombre de termes qu’on emploie. [...] On ne laisse pas le bénéfice du doute. Dès lors qu’un « mauvais mot » est utilisé, on ne cherchera pas à savoir quelles sont les idées qui sont placées derrière.

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  • Démolition | Le Club de Mediapart
    https://blogs.mediapart.fr/johanna-simeant/blog/060118/demolition

    Alors elle se disait il faut se préparer. Où on se rassemble le jour où telle institution tombera ? Le jour où le nouvel attentat qui se produira, parce qu’il se produira, justifiera un nouveau recul des libertés ? Comment communiquer de façon un peu discrète ? Comment vivre plus frugalement ? Comment s’enfuir si jamais ? Comment résister si besoin ? Est-ce qu’on fait des économies pour le jour où tomberont des interdictions professionnelles qui auront juste l’air d’un plan de dégraissage de mammouths tous préalablement mis en crise ? Et puis comment on arrivera à être à nouveau ensemble un jour, dans un monde à moitié ravagé, et qu’il faudra remettre sur pieds ?