• CARTOGRAPHIE DES VIOLATIONS SUBIES PAR LES PERSONNES EN DEPLACEMENT EN TUNISIE

    L’#OMCT publie aujourd’hui un rapport, « Les routes de la torture : Cartographie des violations subies par les personnes en déplacement en Tunisie » qui met en lumière l’ampleur et la nature des violations des #droits_humains commises en Tunisie entre juillet et octobre 2023 à l’encontre de migrant-e-s, réfugié-e-s et demandeurs d’asile.

    Depuis octobre 2022, la Tunisie a connu une intensification progressive des violations à l’encontre des personnes en déplacement essentiellement d’origine subsaharienne, sur fond de #discrimination_raciale. Le discours présidentiel du 21 février 2023 les a rendues encore plus vulnérables, et le mois de juillet 2023 a représenté un tournant dans l’échelle et le type des violations des #droits_humains commises, avec une recrudescence des #arrestations et des #détentions_arbitraires, des #déplacements_arbitraire et forcés, ayant donné lieu à des #mauvais_traitement, des #tortures, des #disparitions et, dans plusieurs cas, des #décès. Ce cycle d’#abus commence avec une situation d’irrégularité qui accroît leur #vulnérabilité et qui les expose au risque de violations supplémentaires.

    Cependant, malgré l’ampleur des violations infligées, celles-ci ont été très largement passées sous silence, invisibilisant encore davantage une population déjà marginalisée. A traves les voix de victimes directes de violations ayant voulu partager leurs souffrances avec l’OMCT, ce rapport veut contribuer à contrer cette dynamique d’#invisibilisation des migrant-e-s, refugié-e-s et demandeurs d’asile résidant en Tunisie, qui favorise la perpétuation des violations et un climat d’#impunité.

    Le rapport s’appuie notamment sur plus de 30 entretiens avec des représentant-e-s d’organisations partenaires et activistes travaillant sur tout le territoire tunisien et une vingtaine de témoignages directes de victimes de violence documentés par l’OMCT et ses partenaires. Il dresse une cartographie des violations infligées aux migrants, parmi lesquelles les expulsions forcées des logements, les #violences physiques et psychologiques exercées aussi bien par des citoyens que par des agents sécuritaires, le déni d’#accès_aux_soins, les arrestations et détentions arbitraires, les déplacements arbitraires et forcés sur le territoire tunisien, notamment vers les zones frontalières et les #déportations vers l’Algérie et la Libye. Les interactions avec les forces de l’ordre sont généralement assorties de torture et mauvais traitements tandis que les victimes sont privées, dans les faits, du droit d’exercer un recours contre ce qu’elles subissent.

    Cette #violence institutionnelle touche indistinctement les personnes en déplacement, indépendamment de leur statut, qu’elles soient en situation régulière ou non, y compris les réfugié-e-s et demandeurs d’asile. Les victimes, hommes, femmes, enfants, se comptent aujourd’hui par milliers. A la date de publication de ce rapport, les violations se poursuivent avec une intensité et une gravité croissante, sous couvert de lutte contre l’immigration clandestine et les réseaux criminels de trafic d’êtres humains. La Tunisie, en conséquence, ne peut être considérée comme un pays sûr pour les personnes en déplacement.

    Ce rapport souhaite informer les politiques migratoires des décideurs tunisiens, européens et africains vers une prise en compte décisive de l’impact humain dramatique et contre-productif des politiques actuelles.

    https://omct-tunisie.org/2023/12/18/les-routes-de-la-torture

    #migrations #asile #réfugiés #Tunisie #rapport

    ping @_kg_

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • Migrants : enquête sur le rôle de l’Europe dans le piège libyen

    Des données de vol obtenues par « Le Monde » révèlent comment l’agence européenne #Frontex encourage les #rapatriements de migrants vers la Libye, malgré les exactions qui y sont régulièrement dénoncées par l’ONU.

    300 kilomètres séparent la Libye de l’île de Lampedusa et de l’Europe. Une traversée de la #Méditerranée périlleuse, que des dizaines de milliers de migrants tentent chaque année. Depuis 2017, lorsqu’ils sont repérés en mer, une partie d’entre eux est rapatriée en Libye, où ils peuvent subir #tortures, #viols et #détentions_illégales. Des #exactions régulièrement dénoncées par les Nations unies.

    L’Union européenne a délégué à la Libye la responsabilité des #sauvetages_en_mer dans une large zone en Méditerranée, et apporte à Tripoli un #soutien_financier et opérationnel. Selon les images et documents collectés par Le Monde, cela n’empêche pas les garde-côtes libyens d’enfreindre régulièrement des règles élémentaires du #droit_international, voire de se rendre coupables de #violences graves.

    Surtout, l’enquête #vidéo du Monde révèle que, malgré son discours officiel, l’agence européenne de gardes-frontières Frontex semble encourager les #rapatriements de migrants en Libye, plutôt que sur les côtes européennes. Les données de vol du drone de Frontex montrent comment l’activité de l’agence européenne se concentre sur la zone où les migrants, une fois détectés, sont rapatriés en Libye. Entre le 1er juin et le 31 juillet 2021, le drone de Frontex a passé 86 % de son temps de vol opérationnel dans cette zone. Sur la même période, à peine plus de la moitié des situations de détresse localisées par l’ONG Alarm Phone y étaient enregistrées.

    https://www.lemonde.fr/international/video/2021/10/31/migrants-enquete-sur-le-role-de-l-europe-dans-le-piege-libyen_6100475_3210.h
    #responsabilité #Europe #UE #EU #Union_européenne #Libye #migrations #asile #réfugiés #pull-backs #pullbacks #push-backs #refoulements #frontières #gardes-côtes_libyens

    déjà signalé sur seenthis par @colporteur
    https://seenthis.net/messages/934958

  • La prolongation des #détentions_provisoires interdite pendant l’#état_d’urgence | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/politique/la-prolongation-des-detentions-provisoires-interdite-pendant-l-etat-d-ur

    Presque un an après son entrée en vigueur, les Sages de la rue Montpensier viennent censurer définitivement l’article 15 d’une ordonnance du 25 mars 2020, prise sur le fondement de la loi d’habilitation de l’état d’urgence du 23 mars 2020. Ce texte autorisait la prolongation de toutes les mesures de détention provisoire ou d’#assignation_à_résidence sous surveillance électronique, sans passer par le contrôle d’un #juge.

    […] L’ordonnance du 25 mars prolongeait « de plein droit » de 2 à 6 mois, selon la gravité de l’infraction, l’ensemble des détentions provisoires. En application de l’article 15 de cette même ordonnance les prolongations de détention provisoire décidées pendant la période de l’état d’urgence sanitaire continuaient à s’appliquer malgré la fin de celui-ci.

    Saisi en référé le 3 avril, le #Conseil_d’État, qui n’avait pas pris la peine de tenir audience, avait jugé que l’ordonnance garantissait les droits et libertés des personnes en détention provisoire ».

    […] Avant même la décision du #Conseil_Constitutionnel, les sénateurs pointaient la constitutionnalité « incertaine » de l’ordonnance. « La prolongation de plein droit sans intervention explicite du juge des libertés et de la détention était une atteinte disproportionnée aux libertés, dont les conséquences pratiques semblent heureusement circonscrites » écrivaient-ils. De même, le rapport du Sénat rappelait la position de la chambre criminelle de la #Cour_de_Cassation qui s’appuyait sur l’article 5.3 de la #Convention_européenne_des_droits_de_l’homme, selon lequel toute personne « arrêtée ou détenue [notamment celles placées en détention provisoire] doit être aussitôt traduite devant un juge […] et a le droit d’être jugée dans un délai raisonnable, ou libéré pendant la procédure ». « Une interprétation apparemment inverse de celle du Conseil d’État » relevaient sobrement les élus.

  • Au #Japon, l’enfer des centres de détention des demandeurs d’asile

    Près de 1 500 personnes sont actuellement dans ces structures. Sans limite claire et particulièrement dures, les conditions d’enfermement sont un moyen de pression sur les réfugiés.

    LETTRE DE TOKYO

    L’Ethiopien Yonas Kinde a terminé 100e du marathon de Tokyo couru dimanche 1er mars, avec un temps de 2 h 24 min et 34 secondes. Loin du vainqueur, Birhanu Legese, lui aussi Ethiopien. Yonas Kinde n’est pas un coureur comme les autres. Réfugié depuis 2013 au Luxembourg pour des raisons politiques, il a participé aux Jeux olympiques (JO) de Rio de Janeiro de 2016, non pas sous la bannière de son pays natal mais sous celle de l’équipe olympique des réfugiés. Il compte le faire à nouveau lors des JO de Tokyo cet été.

    Outre sa carrière sportive, il se bat pour la cause des demandeurs d’asile et a profité de son passage dans l’Archipel pour rappeler que « n’importe qui peut devenir un réfugié, à n’importe quel moment » et que « la vie de réfugié était pleine de défis, [que ce soit] pour se déplacer ou encore trouver du travail ».

    Un pays hostile à l’immigration

    Son message a une résonance particulière au Japon, pays parmi les plus réticents à accepter des demandeurs d’asile. En 2018 (derniers chiffres disponibles), seules quarante-deux demandes ont été acceptées, sur 10 493 déposées.

    Hostile à toute immigration malgré l’entrée en vigueur d’une loi en avril 2019 devant faciliter la venue de travailleurs étrangers, le Japon fait tout pour limiter l’arrivée de réfugiés. Citée par le quotidien Mainichi, une note administrative du 16 novembre 2018, diffusée à l’aéroport de Narita, près de Tokyo, et émanant du bureau régional de l’immigration de la capitale, évoquait l’augmentation du nombre de réfugiés du Sri Lanka. Elle expliquait qu’il fallait « de toute urgence réduire le nombre de demandes d’asile » et exigeait de faire signer aux ressortissants sri-lankais entrant au Japon une déclaration précisant qu’ils repartiraient dans leur pays « avant l’expiration de leur visa ».

    Les critiques du Japon en matière de demande d’asile portent également sur les conditions de détention des personnes dont les requêtes ont été rejetées ou de celles ayant commis des infractions à la législation sur l’immigration. La majorité des détenus sont en attente d’une expulsion qu’ils contestent.

    « Nous sommes obligés d’expulser », déclarait en 2019 le chef du bureau de l’immigration au sein du ministère de la justice, Shoko Sasaki, à la presse étrangère. « Nous ne voulons pas, dans notre pays, de ces personnes qui sont en détention. » Le ministère se défend par ailleurs de tout abus.

    Détentions arbitraires

    Sans limite claire et particulièrement dures, les détentions dans les centres d’immigration seraient un moyen de pression sur les réfugiés, considérés comme des délinquants. Elles sont régulièrement la cible des instances internationales.

    Le 20 janvier, l’ONG Human Rights Now rappelait que « les #détentions_arbitraires au Japon dans les centres d’immigration entraînent de graves #violations des #droits_humains. Malgré les appels d’organisations de la société civile exhortant le gouvernement à mettre fin à ces pratiques, la situation ne s’est pas améliorée ». L’ONG appelait Tokyo à accepter une enquête du groupe de travail des Nations unies sur la détention arbitraire. En 2018, le Comité des Nations unies pour l’élimination de la discrimination raciale (CERD) avait recommandé à l’Archipel d’établir une période maximale de détention des migrants.

    Près de 1 500 personnes, originaires en majorité d’Asie du Sud-Est, d’Afrique et du Moyen-Orient, sont actuellement détenues dans les centres d’immigration au Japon. Selon une enquête réalisée en 2019 par l’ONG Ushiku no kai en réponse à un questionnaire du Haut-Commissariat des Nations unies pour les droits de l’homme, 77 % des détenus étaient emprisonnés depuis plus d’un an ; 36 % l’étaient depuis plus de deux ans, 80 % avaient vu leur demande d’asile rejetée au moins trois fois. « Ces détentions longues ne sont rien d’autre qu’une violation des droits de l’homme », déplore Kimiko Tanaka, porte-parole de l’ONG.

    Elles sont d’autant plus difficiles à vivre que les moyens de communication avec l’extérieur sont limités par le coût des appels téléphoniques et par la durée, fixée à trente minutes maximum, des visites.

    Ces conditions s’accompagnent d’un profond sentiment d’#injustice. Mehmet Colak, un Kurde de 38 ans originaire de Turquie, a passé un an et demi en détention. « Ce n’est pas comme si j’avais commis un crime. Tout ce que j’ai fait, c’est de venir au Japon parce que je redoutais des persécutions et y demander le statut de réfugié », insiste-t-il.

    #Grève_de_la_faim

    Arrivé dans l’Archipel en 2004, il a vu sa demande d’asile refusée à plusieurs reprises. Sa famille et lui ont même été condamnés à être expulsés. Arrêté et incarcéré en janvier 2018, il est tombé malade en mars 2019. Par deux fois, les autorités d’immigration auraient refusé l’ambulance que sa famille avait envoyée. Fait rare, l’incident a été évoqué au Parlement et il a suscité des protestations des avocats du Japon.

    M. Colak a finalement été libéré à titre provisoire en juin 2019 et il milite depuis pour une amélioration de l’accès aux soins et des conditions des prisonniers. Il plaide notamment pour plus de libérations provisoires et un cadre plus souple après la fin de la détention. Les personnes qui en bénéficient ne peuvent pas travailler, ouvrir un compte bancaire, avoir un téléphone ou déménager sans autorisation. Des contraintes qui poussent à commettre des infractions et entraînent un retour en détention.

    Pour les détenus en attente d’une libération, l’unique moyen d’exprimer leur détresse et d’attirer l’attention de l’extérieur est la grève de la faim. En 2019, cent quatre-vingt-dix-huit d’entre eux en ont entamé une. Un ressortissant nigérian en est mort en juin, au centre de Nagasaki, dans le sud-ouest du pays. Il s’agissait du quinzième décès depuis 2006 dans les centres nippons.

    https://www.lemonde.fr/international/article/2020/03/04/au-japon-l-enfer-des-centres-de-detention-des-demandeurs-d-asile_6031722_321
    #asile #migrations #réfugiés #détention_administrative #rétention

    voir aussi cet article de 2016 :
    Inmates on hunger strike at Japanese immigration detention centre
    https://seenthis.net/messages/510477

  • Des hôpitaux nigérians emprisonnent les femmes incapables de payer leurs frais de maternité | Slate.fr
    http://www.slate.fr/story/175338/hopitaux-nigerians-emprisonnent-femmes-frais-maternite

    Car il ne s’agit pas d’un cas isolé. Au #Nigeria, ces #détentions_illégales sont difficiles à chiffrer sans données officielles, mais Onyema Afulukwe, représentante du Centre des droits reproductifs (CRR), les estime à plusieurs milliers de cas par an. La #détention_hospitalière est d’ailleurs un phénomène global qui touche particulièrement les pays en voie de développement comme certains pays asiatiques ou subsahariens.

    Comme l’expliquent Emma Bryce et Wana Udobang, détenir les malades précaires est un moyen pour des hôpitaux sans budget de récupérer les frais avancés en forçant les proches de la personne détenue à venir payer la note en échange de sa libération. Une pratique qui concerne particulièrement les femmes enceintes puisque l’accouchement peut engendrer plusieurs complications graves comme une césarienne ou une hémorragie post-partum.

  • "La justice des « gilets jaunes » en chiffres" [encore un titre délirant où on écrit "des gilets" au lieu de "contre les gilets"]
    http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2019/03/21/01016-20190321ARTFIG00061-la-justice-des-gilets-jaunes-en-chiffres.php

    Les mandats de dépôt représentent près d’un quart des comparutions immédiates et 5% des gardes à vue.

    Comment la justice traite-t-elle les dérives violentes de certains « #gilets_jaunes » ? Nous dévoilons les chiffres de la Chancellerie :
    Depuis le 17 novembre dernier, les autorités policières ont procédé à 8645 #gardes_à_vues. Certes, toutes ne se sont pas traduites par des #comparutions_immédiates. Ces dernières se sont élevées, sur la France entière, à 1665. Elles ont débouché sur 388 mandats de dépôt exactement, c’est-à-dire à de l’emprisonnement immédiat après l’annonce du jugement. Cela représente très exactement 23,3% des condamnations, soit près d’un quart.

    En tout, 1800 affaires sont en attente de jugement. Un chiffre en constante évolution qui grossit samedi après samedi, au fil des exactions. Au nombre de ces dernières, les convocations ultérieures devant les chambres correctionnelles, au nombre de 1655, certains auteurs présumés étant sous #contrôle_judiciaire.

    Actuellement, on compte 111 informations judiciaires - des affaires dont la complexité exige l’enquête longue de juges d’#instruction -. C’est notamment le cas pour le saccage de l’Arc de Triomphe et les destructions du week-end dernier qui ont donné lieu à plusieurs interpellations. Mais l’on ignore le nombre de #détentions_provisoires.
    Sur ces près de 9000 gardes à vues, il faut retrancher le cas particulier des mineurs : pas moins de 349 d’entre eux ont été présentés à un juge pour enfants.

    Par ailleurs, la justice a classé sans suite, souvent faute de preuves suffisantes, 1725 dossiers. Elle a déjà infligé 1796 mesures alternatives aux poursuites, soit près de 20% des gardes à vues, et a déclenché 518 comparutions sur reconnaissance préalable de culpabilité, qui n’ont pas vocation à déboucher sur des incarcérations.

    On notera l’us et l’abus des "mesures alternatives aux poursuites soit des #rappel_à_la_loi, une reconnaissance de culpabilité extorquée sous la menace de procès voire d’emprisonnement (élision radicale du "contradictoire", supposé régir le droit)..

    #justice #prison #répression

    • Vol au Fouquet’s : les deux Gilets Jaunes tourangeaux en comparution immédiate samedi Info Tours.fr l’actualité de Info Tours.fr
      http://www.info-tours.fr/articles/tours/2019/03/23/10738/vol-au-fouquet-s-les-deux-gilets-jaunes-tourangeaux-en-comparution-immedi

      Après leur arrestation jeudi.

      Une semaine après les dégradations du célèbre restaurant parisien le Fouquet’s sur les Champs-Elysées, deux personnes se retrouvent devant la #justice ce samedi 23 mars : un couple de Gilets Jaunes tourangeau (Ambre et Franck). Ils sont accusés d’avoir volé des éléments de l’établissement. Arrêtés jeudi matin à leur domicile, ils ont été identifiés par la gendarmerie suite à la publication de photos sur #Facebook, la jeune femme posant avec un tabouret ramené de Paris après l’Acte XVIII du mouvement. Des proches avaient pourtant conseillé de retirer rapidement les clichés.

      Prévenus par la gendarmerie, les policiers parisiens sont venus interpeller la jeune femme avec son compagnon jeudi matin dès 8h aux portes de l’agglomération tourangelle, avant de ramener les deux jeunes gens dans la capitale pour des interrogatoires dans les locaux du commissariat du Ier arrondissement.

      La garde à vue a été prolongée pour la journée de vendredi, et on apprend ce samedi que les deux militants très impliqués depuis le 17 novembre (où on les décrit comme pacifistes et modérateurs) sont convoqués devant le tribunal dès ce week-end. Ils devront s’expliquer sur la présence du tabouret mais aussi de couverts à leur domicile. Selon leurs proches, ils n’auraient pas participé aux violences et ne se seraient pas non plus rendus coupables de vol, ils pourraient même avoir reçu un accord tacite d’un membre du personnel du Fouquet’s pour emporter les objets.

      Depuis la révélation de l’arrestation, de nombreux messages de soutien ont été publiés sur les réseaux sociaux. Notons que le couple a la possibilité de demander un délai pour affiner sa défense.

      On rappellera également que la jeune femme a été placée en garde à vue 10h mercredi pour une action [tentative de blocage du centre de stockage pétrolier de La Sotrapid] à La-Ville-aux-Dames, une interpellation qui avait déjà entraîné bon nombre de commentaires hostiles aux forces de l’ordre. Néanmoins, les deux affaires n’auraient pas de lien entre elles.

      #gilets-jaunes

    • « Gilets jaunes » : près de 2 000 condamnations depuis le début des manifestations
      Environ 40 % des jugements ont abouti à une peine de prison ferme
      https://www.lemonde.fr/police-justice/article/2019/03/24/2-000-condamnations-en-justice-depuis-le-debut-du-mouvement-des-gilets-jaune

      (...) la garde des sceaux a précisé que « 390 mandats de dépôt [avaient été] prononcés », représentant le nombre de personnes à être effectivement allées en prison, soit dans le cadre d’une condamnation, soit dans le cadre d’une détention provisoire dans l’attente d’un procès.
      Lors d’une condamnation à de la prison ferme sans mandat de dépôt, la personne concernée est laissée libre avant d’être convoquée à une rencontre avec le juge des libertés et de la détention, qui est chargé d’examiner les modalités de la peine et de possibles aménagements (placement sous bracelet électronique par exemple).

      1 800 personnes en attente d’être jugées

      Les quantums de peine prononcés sont très variés et s’étalent entre un mois et trois ans de prison, parfois avec une partie assortie d’une mise à l’épreuve, selon les données de la chancellerie :
      « Il peut par ailleurs être observé que la peine d’#interdiction_de_séjour, notamment à Paris, est fréquemment prononcée à titre complémentaire, notamment dans le cadre des comparutions immédiates. »
      « Près de 1 800 » personnes interpellées lors des manifestations, qui se tiennent tous les samedis depuis plus de quatre mois en France, doivent encore être jugées, selon la ministre, (...)

      #incarcération #détenus #interdits_de_séjour

  • #Tunisie. Les violations des #droits_humains commises au nom de la sécurité menacent les réformes

    Le recours par les forces de sécurité tunisiennes aux méthodes brutales du passé, notamment la #torture, les #arrestations_arbitraires, les #détentions et la restriction des déplacements des suspects, ainsi que le #harcèlement de leurs proches, menace l’avancée de la Tunisie sur la voie de la réforme, écrit Amnesty International dans le nouveau #rapport qu’elle publie le 13 février 2017.


    https://www.amnesty.org/fr/latest/news/2017/02/tunisia-abuses-in-the-name-of-security-threatening-reforms
    #état_d'urgence

  • De plus en plus d’enfants centraméricains arrêtés au Mexique
    http://www.rfi.fr/ameriques/20150624-plus-plus-enfants-centramericains-arretes-mexique

    Près de 12 000 centraméricains arrêtés au sud du Mexique depuis le début de l’année. C’est 50% de plus que l’an passé durant la même période. Parmi ces jeunes migrants, 6 000 voyageaient seuls ou avec un passeur, sans être accompagnés par un membre de leur famille. Plus grave encore : 4 000 d’entre eux avaient moins de 11 ans.

    Cette augmentation du nombre des #détentions au Mexique s’explique par la mise en place, depuis juillet dernier, du « Programme frontière sud ». Une initiative prise par le gouvernement mexicain en réponse à la pression des #Etats-Unis. Car Washington veut à tout prix éviter une nouvelle crise comme celle de l’an passé, provoquée par le déferlement sur son territoire de quelque 60 000 jeunes centraméricains. En conséquence de quoi, le #Mexique a militarisé sa zone frontière avec le #Guatemala pour empêcher un nouvel afflux de migrants vers les Etats-Unis.

    Mais on peut aussi voir dans cette augmentation des détentions les prémices d’une nouvelle vague migratoire des Centraméricains, et notamment des #enfants. Car les conditions de #pauvreté et de #violence qui les poussent à quitter leur pays n’ont pas changé. Elles ont même empiré, comme c’est le cas au #Salvador.

    @reka @cdb_77

  • L’#accueil des #migrants est toujours aussi problématique en #Grèce

    Deux rapports mettent en évidence les #détentions_abusives et mauvais traitements dont les migrants sont victimes en Grèce. Ce n’est pas une nouveauté, mais l’avertissement vient cette fois-ci du Conseil de l’Europe et de la Cour européenne des droits de l’homme, laquelle met également en cause l’#Italie.

    http://www.mediapart.fr/journal/international/241014/laccueil-des-migrants-est-toujours-aussi-problematique-en-grece

    #migration #asile #réfugiés