L’Italia cede alla Libia altre 14 navi veloci per intercettare le persone. Il ruolo di Invitalia
La commessa è stata aggiudicata definitivamente per 6,65 milioni di euro. A curare la gara è stata l’agenzia del ministero dell’Economia che dovrebbe in realtà occuparsi di “attrazione degli investimenti e sviluppo d’impresa”. Intanto 40 Ong danno appuntamento a Roma il 26 ottobre per opporsi al rinnovo dell’accordo con Tripoli
L’Italia fornirà altre 14 imbarcazioni alle milizie libiche per intercettare e respingere le persone in fuga nel Mediterraneo. La commessa è stata aggiudicata definitivamente nella primavera di quest’anno per 6,65 milioni di euro nell’ambito di una procedura curata da Invitalia, l’agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia che sulla carta dovrebbe occuparsi dell’”attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa” e che invece dall’agosto 2019 ha stipulato una convenzione con il ministero dell’Interno per garantire “supporto” tecnico anche sul fronte libico. La copertura finanziaria dei nuovi “battelli” è garantita, così come tante altre, dalla “prima fase” del progetto “Support to integrated Border and migration management in Libya” (Sibmmil) datato dicembre 2017, cofinanziato dall’Unione europea, implementato dal Viminale e inserito nel quadro del Fondo fiduciario per l’Africa (Eutf).
Si tratta in questa occasione di 14 mezzi “pneumatici con carena rigida in vetroresina” da 12 metri -come si legge nel capitolato di gara-, in grado di andare a una velocità di crociera di almeno 30 nodi, con un’autonomia di 200 miglia nautiche, omologati al trasporto di 12 persone e destinati a “svolgere i compiti istituzionali delle autorità libiche” (è la seconda tranche di una procedura attivata oltre tre anni fa). Quali non si poteva specificarlo. Anche sull’identità dei beneficiari libici c’è scarsa chiarezza da parte di Invitalia, il cui amministratore delegato è Bernardo Mattarella. Negli atti non si fa riferimento infatti né all’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) né alla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che opera sotto il ministero dell’Interno libico, quanto a una generica “polizia libica”.
Chi si è assicurato la commessa, con un ribasso del 5% sulla base d’asta, è stata la società B-Shiver Srl con sede a Roma. B-Shiver è la ragione sociale del marchio Novamarine, nato a Olbia nel 1983 e poi acquisito negli anni dal gruppo Sno. “È uno dei must a livello mondiale perché ha fatto una rivoluzione nel campo dei gommoni, con il binomio carena vetroresina e tubolare”, spiega in un video aziendale l’amministratore delegato Francesco Pirro.
B-Shiver non si occupa soltanto della costruzione dei 14 mezzi veloci ma è incaricata anche di “erogare un corso di familiarizzazione sulla conduzione dei battelli a favore del personale libico”: 30 ore distribuite su cinque giorni.
Nell’ultima versione del capitolato sembrerebbe sparita la possibilità di predisporre in ogni cabina di pilotaggio dei “gavoni metallici idonei alla custodia di armi”, come invece aveva ipotizzato il Centro nautico della polizia di Stato nelle prime fasi della procedura di gara.
Le forniture italiane alla Libia per rafforzare il meccanismo di respingimenti delegati continuano, dunque, a oltre cinque anni dal memorandum tra Roma e Tripoli in fase di imminente rinnovo. Un accordo che ha prodotto “abusi, sfruttamento, detenzione arbitraria e torture”, come denunciano oltre 40 organizzazioni per i diritti umani italiane promotrici il 26 ottobre di una conferenza stampa e una manifestazione in Piazza dell’Esquilino a Roma per “chiedere all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e non rinnovare gli accordi con la Libia” (dall’Arci all’Asgi, da Msf a Emergency, dalla Fondazione Migrantes a Intersos, da Sea-Watch ad Amnesty International Italia).
“Se entro il 2 novembre il governo italiano non deciderà per la sua revoca -ricordano le Ong-, il memorandum Italia–Libia verrà automaticamente rinnovato per altri tre anni. Si tratta di un accordo che da ormai cinque anni ha conseguenze drammatiche sulla vita di migliaia di donne, uomini e bambini migranti e rifugiati”. Dal 2016 all’ottobre 2022 sono infatti oltre 120mila le persone intercettate in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia (fonte Oim). “Un Paese che non può essere considerato sicuro”.
I contorni dell’abisso libico li ha descritti più volte, tra gli altri, la Missione indipendente sulla Libia delle Nazioni Unite che a fine giugno 2022 ha presentato una (ennesima) relazione sul punto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. “Diversi migranti intervistati dalla Missione hanno raccontato di aver subito violenze sessuali per mano di trafficanti e contrabbandieri, spesso con lo scopo di estorcere denaro alle famiglie, nonché di funzionari statali nei centri di detenzione, datori di lavoro o altri migranti -si legge-. Il rischio di violenza sessuale in Libia è tale e così noto che alcune donne e ragazze migranti assumono contraccettivi prima di partire proprio per evitare gravidanze indesiderate dovute a tali violenze”. È una violenza istituzionale. “Il carattere continuo, sistematico e diffuso di queste pratiche da parte della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim) e di altri attori coinvolti riflette la partecipazione di funzionari di medio e alto livello al ciclo della violenza sui migranti”.
La brutalità non scompone i promotori della strategia di respingimento per procura, condotta nella totale mancanza di trasparenza sull’utilizzo complessivo dei fondi. Ad esempio quelli del Fondo di rotazione ex legge 183/1987, nel quale è previsto anche un “subcapitolo” dedicato alle spese per iniziative progettuali “a favore dello Stato della Libia”.
Quando quest’estate abbiamo chiesto all’Ispettorato generale per i rapporti finanziari con l’Unione europea (Igrue) del ministero dell’Economia l’elenco dei pagamenti liquidati, dei beneficiari, delle causali di pagamento e degli estremi e del contenuto della voce di spesa in Libia, quest’ultimo ha rinviato al Viminale, sostenendo che la trasparenza fosse in capo a quell’amministrazione, “titolare del programma”. Il ministero dell’Interno ha però negato l’accesso perché “l’estrapolazione delle voci richieste comporterebbe un carico di lavoro tale da aggravare l’ordinaria attività dell’amministrazione”. La tipica cortina fumogena replicata anche per la convenzione del 2019 tra Invitalia e il Viminale, di cui ci è stato trasmesso il testo con cancellazioni sopra gli importi finanziari e orfano degli allegati, cioè della sostanza.
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En #Libye, les oubliés
#Michaël_Neuman a passé une dizaine de jours en Libye, auprès des équipes de Médecins Sans Frontières qui travaillent notamment dans des #centres_de_détention pour migrants. De son séjour, il ramène les impressions suivantes qui illustrent le caractère lugubre de la situation des personnes qui y sont retenues, pour des mois, des années, et celle plus difficile encore de toutes celles sujets aux #enlèvements et aux #tortures.
La saison est aux départs. Les embarcations de fortune prennent la mer à un rythme soutenu transportant à leur bord hommes, femmes et enfants. Depuis le début de l’année, 2300 personnes sont parvenues en Europe, plus de 2000 ont été interceptées et ramenées en Libye, par les garde-côtes, formés et financés par les Européens. Les uns avaient dès leur départ le projet de rejoindre l’Europe, les autres ont fait ce choix après avoir échoué dans les réseaux de trafic d’êtres humains, soumis aux tortures et privations. Les trajectoires se mêlent, les raisons des départs des pays d’origine ne sont souvent pas univoques. En ce mois de février 2020, ils sont nombreux à tenter leur chance. Ils partent de Tripoli, de Khoms, de Sabrata… villes où se mêlent conflits, intérêts d’affaires, tribaux, semblants d’Etat faisant mine de fonctionner, corruption. Les Libyens ne sont pas épargnés par le désordre ou les épisodes de guerre. Pourtant, ce sont les apparences de vie normale qui frappent le visiteur. Les marchés de fruits et légumes, comme les bouchons qui encombrent les rues de Tripoli en témoignent : la ville a gonflé au rythme des arrivées de déplacés originaires des quartiers touchés par la guerre d’attrition dont le pays est le théâtre entre le gouvernement intérimaire libyen qui règne encore sur Tripoli et une partie du littoral ouest et le LNA, du Maréchal Haftar, qui contrôle une grande partie du pays. Puissances internationales – Italie, France, Russie, Turquie, Emirats Arabes Unis – sont rentrées progressivement dans le jeu, transformant la Libye en poudrière dont chaque coup de semonce de l’un des belligérants semble annoncer une prochaine déflagration d’ampleur. Erdogan et Poutine se faisant face, le pouls du conflit se prend aujourd’hui autant à Idlib en Syrie qu’à Tripoli.
C’est dans ce pays en guerre que l’Union européenne déploie sa politique de soutien aux interceptions et aux retours des ‘migrants’. Tout y passe : financement et formation des gardes côtes-libyens, délégation du sauvetage aux navires commerciaux, intimidation des bateaux de sauvetage des ONG, suspension de l’Opération Sophia. Mais rien n’y fait : ni les bombardements sur le port et l’aéroport de Tripoli, ni les tirs de roquettes sur des centres de détention situés à proximité d’installation militaire, pas davantage que les témoignages produits sur les exécrables conditions de vie qui prévalent dans les centres de détention, les détournements de financements internationaux, ou sur la précarité extrême des migrants résidant en ville n’ébranlent les certitudes européennes. L’hypocrisie règne : l’Union européenne affirme être contre la détention tout en la nourrissant par l’entretien du dispositif libyen d’interception ; le Haut-Commissariat des Nations unies pour les Réfugiés condamne les interceptions sans jamais évoquer la responsabilité des Européens.
Onze centres de détention sont placés sous la responsabilité de la Direction chargée de l’immigration irrégulière libyenne (la DCIM). La liste évolue régulièrement sans que l’on sache toujours pourquoi, ni si la disparition d’un centre signifie véritablement qu’il a été vidé de ses détenus, ou qu’ils y résident encore sous un régime informel et sans doute plus violent encore. Une fois dans ces centres, les détenus ne savent jamais quand ils pourront en sortir : certains s’en échappent, d’autres parviennent à acheter leur sortie, beaucoup y pourrissent des mois voire des années. L’attente y est physiquement et psychologiquement dévastatrice. C’est ainsi le lot des détenus de Dar El Jebel, près de Zintan, au cœur des montagnes Nafusa, loin et oubliés de tous : la plupart, des Erythréens, y sont depuis deux ans, parfois plus.
La nourriture est insuffisante, les cellules, d’où les migrants ne sortent parfois que très peu, sont sombres et très froides ou très chaudes. Les journées sont parfois rythmées par les cliquetis des serrures et des barreaux. Dans la nuit du samedi 29 février au dimanche 1er mars 2020, une dizaine de jours après mon retour, un incendie sans doute accidentel à l’intérieur du centre de détention de Dar El Jebel a coûté la vie à un jeune homme érythréen.
Nous pouvons certes témoigner que le travail entamé dans ces centres, l’attention portée à l’amélioration des conditions de vie, les consultations médicales, l’apport de compléments alimentaires, mais aussi et peut-être surtout la présence physique, visible, régulière ont contribué à les humaniser, voire à y limiter la violence qui s’y déploie. Pour autant, nous savons que tout gain est précaire, susceptible d’être mis à mal par un changement d’équilibre local, la rotation des gardes, la confiance qui se gagne et se perd, les services que nous rendons. Il n’est pas rare que les directeurs de centre expliquent que femmes et enfants n’ont rien à faire dans ces endroits, pas rare non plus qu’ils infligent des punitions sévères à ceux qui auraient tenté de s’échapper ; certains affament leurs détenus, d’autres les libèrent lorsque la compagnie chargée de fournir les repas interrompt ses services faute de voir ses factures réglées. Il est probable que si les portes de certains centres de détention venaient à s’ouvrir, nombreux sont des détenus qui décideraient d’y rester, préférant à l’incertitude de l’extérieur leur précarité connue. Cela, beaucoup le disent à nos équipes. Dans ce pays fragmenté, les dynamiques et enjeux politiques locaux l’emportent. Ce qu’on apprend vite, en Libye, c’est l’impossibilité de généraliser les situations.
Nous savons aussi que nous n’avons aucune vocation à devenir le service de santé d’un système de détention arbitraire : il faut que ces gens sortent. Des hommes le plus souvent, mais aussi des femmes et des enfants, parfois tout petits, parfois nés en détention, parfois nés de viols. L’exposition à la violence, la perméabilité aux milices, aux trafiquants, la possibilité pour les détenus de travailler et de gagner un peu d’argent varient considérablement d’un centre à l’autre. Il en est aussi de leur accès pour les organisations humanitaires.
Mais nous savons surtout que les centres de détention officiels n’abritent que 2000, 3000 des migrants en danger présents en Libye. Et les autres alors ? Beaucoup travaillent, et assument une précarité qui est le lot, bien sûr à des degrés divers, de nombreux immigrés dans le monde, de Dubaï à Paris, de Khartoum à Bogota. Mais quelques dizaines de milliers d’autres, soit par malchance, soit parce qu’ils n’ont aucun projet de vie en Libye et recourent massivement aux services peu fiables de trafiquants risquent gros : les enlèvements bien sûr, kidnappings contre rançons qui s’accompagnent de tortures et de sévices. Certains de ces « migrants », entre 45 000 et 50 000, sont reconnus « réfugiés ou des demandeurs d’asiles » par le Haut-Commissariat pour les réfugiés : ils sont Erythréens, Soudanais, Somaliens pour la plupart. De très nombreux autres, migrants économiques dit-on, sont Nigérians, Maliens, Marocains, Guinéens, Bangladeshis, etc. Ils sont plus seuls encore.
Pour les premiers, un maigre espoir de relocalisation subsiste : l’année dernière, le HCR fut en mesure d’organiser le départ de 2400 personnes vers le Niger et le Rwanda, où elles ont été placées encore quelques mois en situation d’attente avant qu’un pays, le plus souvent européen, les accepte. A ce rythme donc, il faudrait 20 ans pour les évacuer en totalité – et c’est sans compter les arrivées nouvelles. D’autant plus que le programme de ‘réinstallation’ cible en priorité les personnes identifiées comme vulnérables, à savoir femmes, enfants, malades. Les hommes adultes, seuls – la grande majorité des Erythréens par exemple – ont peu de chance de faire partie des rares personnes sélectionnées. Or très lourdement endettés et craignant légitimement pour leur sécurité dans leur pays d’origine, ils ne rentreront en aucun cas ; ayant perdu l’espoir que le Haut-Commissariat pour les réfugiés les fassent sortir de là, leur seule perspective réside dans une dangereuse et improbable traversée de la Méditerranée.
Faute de lieux protégés, lorsqu’ils sont extraits des centres de détention par le HCR, ils sont envoyés en ville, à Tripoli surtout, devenant des ‘réfugiés urbains’ bénéficiant d’un paquet d’aide minimal, délivré en une fois et dont on peine à voir la protection qu’il garantit à qui que ce soit. Dans ces lieux, les migrants restent à la merci des trafiquants et des violences, comme ce fut le cas pour deux Erythréens en janvier dernier. Ceux-là avaient pourtant et pour un temps, été placés sous la protection du HCR au sein du Gathering and Departure Facility. Fin 2018, le HCR avait obtenu l’ouverture à Tripoli de ce centre cogéré avec les autorités libyennes et initialement destiné à faciliter l’évacuation des demandeurs d’asiles vers des pays tiers. Prévu à l’origine pour accueillir 1000 personnes, il n’aura pas résisté plus d’un an au conflit qui a embrasé la capitale en avril 2019 et à la proximité de milices combattantes.
D’ailleurs, certains d’entre eux préfèrent la certitude de la précarité des centres de détention à l’incertitude plus inquiétante encore de la résidence en milieu ouvert : c’est ainsi qu’à intervalles réguliers, nous sommes témoins de ces retours. En janvier, quatre femmes somalies, sommées de libérer le GDF en janvier, ont fait le choix de rejoindre en taxi leurs maris détenus à Dar El Jebel, dont elles avaient été séparées par le HCR qui ne reconnaissaient pas la légalité des couples. Les promesses d’évacuation étant virtuelles, elles sont en plus confrontées à une absurdité supplémentaire : une personne enregistrée par le HCR ne pourra bénéficier du système de rapatriement volontaire de l’Organisation Internationale des Migrations quand bien même elle le souhaiterait.
Pour les seconds, non protégés par le HCR, l’horizon n’est pas plus lumineux : d’accès à l’Europe, il ne peut en être question qu’au prix, là encore, d’une dangereuse traversée. L’alternative est le retour au pays, promue et organisée par l’Organisation internationale des Migrations et vécue comme une défaite souvent indépassable. De tels retours, l’OIM en a organisé plus de 40 000 depuis 2016. En 2020, ils seront probablement environ 10 000 à saisir l’occasion d’un « départ volontaire », dont on mesure à chaque instant l’absurdité de la qualification. Au moins, ceux-là auront-ils mis leur expérience libyenne derrière eux.
La situation des migrants en Libye est à la fois banale et exceptionnelle. Exceptionnelle en raison de l’intense violence à laquelle ils sont souvent confrontés, du moins pour un grand nombre d’entre eux - la violence des trafiquants et des ravisseurs, la violence du risque de mourir en mer, la violence de la guerre. Mais elle est aussi banale, de manière terrifiante : la différence entre un Érythréen vivant parmi des rats sous le périphérique parisien ou dans un centre de détention à Khoms n’est pas si grande. Leur expérience de la migration est incroyablement violente, leur situation précaire et dangereuse. La situation du Darfouri à Agadez n’est pas bien meilleure, ni celle d’un Afghan de Samos, en Grèce. Il est difficile de ne pas voir cette population, incapable de bouger dans le monde de la mobilité, comme la plus indésirable parmi les indésirables. Ce sont les oubliés.
▻https://www.msf-crash.org/index.php/fr/blog/camps-refugies-deplaces/en-libye-les-oublies
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Migrants en Libye, les oubliés de l’exil
Venus le plus souvent d’Érythrée, les migrants sont détenus dans des conditions lamentables, et souvent les victimes de milices qui les torturent et les rançonnent. Les Nations unies et l’Union européenne préfèrent détourner le regard. Témoignages.
L’odeur d’excréments s’accentue à mesure que nous approchons de l’entrepôt qui constitue le bâtiment principal du centre de détention de #Dhar-El-Djebel, dans les montagnes du #djebel_Nefoussa. Un problème de plomberie, précise le directeur, confus.
Il ouvre le portail métallique du hangar en béton, qui abrite environ 500 détenus, presque tous érythréens. Les demandeurs d’asile reposent sur des matelas gris à même le sol. Au bout d’une allée ouverte entre les matelas, des hommes font la queue pour uriner dans l’un des onze seaux prévus à cet effet.
Personne dans cette pièce, m’avait expliqué un détenu lors de ma première visite en mai 2019, n’a vu la lumière du jour depuis septembre 2018, quand un millier de migrants détenus à Tripoli ont été évacués ici. #Zintan, la ville la plus proche, est éloignée des combats de la capitale libyenne, mais aussi des yeux des agences internationales. Les migrants disent avoir été oubliés.
En Libye, quelque 5 000 migrants sont toujours détenus pour une durée indéterminée dans une dizaine de #centres_de_détention principaux, officiellement gérés par la #Direction_pour_combattre_la_migration_illégale (#Directorate_for_Combatting_Illegal_Migration, #DCIM) du gouvernement d’entente nationale (#GEN) reconnu internationalement. En réalité, depuis la chute de Mouammar Kadhafi en 2011, la Libye ne dispose pas d’un gouvernement stable, et ces centres sont souvent contrôlés par des #milices. En l’absence d’un gouvernement fonctionnel, les migrants en Libye sont régulièrement kidnappés, réduits en esclavage et torturés contre rançon.
L’Europe finance les garde-côtes
Depuis 2017, l’Union européenne (UE) finance les #garde-côtes_libyens pour empêcher les migrants d’atteindre les côtes européennes. Des forces libyennes, certaines équipées et entraînées par l’UE, capturent et enferment ainsi des migrants dans des centres de détention, dont certains se trouvent dans des zones de guerre, ou sont gardés par des milices connues pour vendre les migrants à des trafiquants.
Contrairement à d’autres centres de détention que j’ai visités en Libye, celui de Dhar-El-Djebel ne ressemble pas à une prison. Avant 2011, cet ensemble de bâtiments en pleine campagne était, selon les termes officiels, un centre d’entraînement pour « les bourgeons, les lionceaux et les avant-bras du Grand Libérateur » — les enfants à qui l’on enseignait le Livre vert de Kadhafi. Quand le GEN, basé à Tripoli, a été formé en 2016, le centre a été placé sous l’autorité du DCIM.
En avril, Médecins sans frontières (MSF) pour lequel je travaillais a commencé à faire des consultations à Dhar-El-Djebel. Le centre retenait alors 700 migrants. La plupart étaient enregistrés comme demandeurs d’asile par l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés (UNHCR), mais selon la loi libyenne, ce sont des migrants « illégaux » et ils peuvent être détenus pour une durée indéterminée.
N’ayant que peu d’espoir de sortir, plusieurs ont tenté de se suicider au contact de fils électriques. D’autres avaient placé leur foi en Dieu, mais aussi dans les réseaux sociaux et leurs talents de bricoleurs. La plupart des détenus érythréens sont chrétiens : sur le mur face à la porte, ils ont construit une église orthodoxe abyssine au moyen de cartons colorés de nourriture et de matelas verts du HCR, avec des croix en cire de bougie. Sur d’autres matelas, ils ont écrit, avec du concentré de tomates et du piment rouge, des slogans tels que « Nous sommes victimes du HCR en Libye ». Avec leurs smartphones, ils ont posté des photos sur les réseaux sociaux, posant avec les bras croisés pour montrer qu’ils étaient prisonniers.
Leurs efforts avaient attiré l’attention. Le 3 juin, le HCR évacuait 96 demandeurs d’asile à Tripoli. Une semaine plus tard, l’entrepôt bondé dans lequel j’avais d’abord rencontré les migrants était enfin vidé. Mais 450 Érythréens restaient enfermés dans le centre, entassés dans d’autres bâtiments, à plus de vingt dans une vingtaine de cellules, bien que de nombreux détenus préfèrent dormir dans les cours, sous des tentes de fortune faites de couvertures.
« Ils nous appellent Dollars et Euros »
La plupart des Érythréens de Dhar-El-Djebel racontent une histoire proche : avant d’être piégés dans le système de détention libyen, ils ont fui la dictature érythréenne, où le service militaire est obligatoire et tout aussi arbitraire. En 2017, Gebray, âgé d’un peu plus de 30 ans, a laissé sa femme et son fils dans un camp de réfugiés en Éthiopie et payé des passeurs 1 600 dollars (1 443 euros) pour traverser le désert soudanais vers la Libye avec des dizaines d’autres migrants. Mais les passeurs les ont vendus à des trafiquants libyens qui les ont détenus et torturés à l’électricité jusqu’à ce qu’ils téléphonent à leurs proches pour leur demander une #rançon. Après 10 mois en prison, la famille de Gebray avait envoyé près de 10 000 dollars (9 000 euros) pour sa libération : « Ma mère et mes sœurs ont dû vendre leurs bijoux. Je dois maintenant les rembourser. C’est très dur de parler de ça ».
Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.
Après avoir survécu à la #torture, beaucoup comme Gebray ont de nouveau payé pour traverser la mer, mais ont été interceptés par les garde-côtes libyens et enfermés en centre de détention. Certains compagnons de cellule de Gebray ont été détenus depuis plus de deux ans dans cinq centres successifs. Alors que la traversée de la Méditerranée devenait plus risquée, certains se sont rendus d’eux-mêmes dans des centres de détention dans l’espoir d’y être enregistrés par le HCR.
Les ravages de la tuberculose
Dans l’entrepôt de Dhar-El-Djebel, Gebray a retrouvé un ancien camarade d’école, Habtom, qui est devenu dentiste. Grâce à ses connaissances médicales, Habtom s’est rendu compte qu’il avait la tuberculose. Après quatre mois à tousser, il a été transféré de l’entrepôt dans un plus petit bâtiment pour les Érythréens les plus malades. Gebray, qui explique qu’à ce moment-là, il ne pouvait « plus marcher, même pour aller aux toilettes », l’y a rapidement suivi. Quand j’ai visité la « maison des malades », quelque 90 Érythréens, la plupart suspectés d’avoir la tuberculose, y étaient confinés et ne recevaient aucun traitement adapté.
Autrefois peu répandue en Libye, la tuberculose s’est rapidement propagée parmi les migrants dans les prisons bondées. Tandis que je parlais à Gebray, il m’a conseillé de mettre un masque : « J’ai dormi et mangé avec des tuberculeux, y compris Habtom ».
Habtom est mort en décembre 2018. « Si j’ai la chance d’arriver en Europe, j’aiderai sa famille, c’est mon devoir », promet Gebray. De septembre 2018 à mai 2019, au moins 22 détenus de Dhar-El-Djebel sont morts, principalement de la tuberculose. Des médecins étaient pourtant présents dans le centre de détention, certains de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), et d’autres d’#International_Medical_Corps (#IMC), une ONG américaine financée par le HCR et l’UE. Selon un responsable libyen, « nous les avons suppliés d’envoyer des détenus à l’hôpital, mais ils ont dit qu’ils n’avaient pas de budget pour ça ». Les transferts à l’hôpital ont été rares. En revanche, une quarantaine des détenus les plus malades, la plupart chrétiens, ont été transférés dans un autre centre de détention à Gharyan, plus proche d’un cimetière chrétien. « Ils ont été envoyés à Gharyan pour mourir », explique Gebray. Huit d’entre eux sont morts entre janvier et mai.
Contrairement à Dhar-El-Djebel, #Gharyan ressemble à un centre de détention : une série de containers entourés de hauts grillages métalliques. Yemane a été transféré ici en janvier : « Le directeur de Dhar-El-Djebel et le personnel d’IMC nous ont dit qu’ils allaient nous conduire à l’hôpital à Tripoli. Ils n’ont pas parlé de Gharyan... Quand on est arrivés, on a été immédiatement enfermés dans un container ».
Des migrants vendus et torturés
Selon Yemane, une femme a tenté de se pendre quand elle a compris qu’elle était à Gharyan, et non dans un hôpital, comme le leur avaient promis les médecins d’IMC. Beaucoup gardaient de mauvais souvenirs de Gharyan : en 2018, des hommes armés masqués y ont kidnappé quelque 150 migrants détenus dans le centre et les ont vendus à des centres de torture. Le centre a alors brièvement fermé, puis rouvert, avec à sa tête un nouveau directeur, qui m’a expliqué que des trafiquants l’appelaient régulièrement pour tenter de lui acheter des migrants détenus.
En avril 2019, des forces de Khalifa Haftar, l’homme fort de l’est de la Libye, ont lancé une offensive contre les forces pro-GEN à Tripoli et se sont emparées de Gharyan. Les troupes d’Haftar se sont installées à proximité du centre de détention et les avions du GEN ont régulièrement bombardé la zone. Effrayés par les frappes aériennes autant que par les migrants tuberculeux, les gardes ont déserté. Chaque fois que je me suis rendu sur place, nous sommes allés chercher le directeur dans sa maison en ville, puis l’avons conduit jusqu’au portail du centre, où il appelait un migrant pour qu’il lui ouvre. Les détenus lui avaient demandé un cadenas pour pouvoir s’enfermer et se protéger des incursions. De fait, des forces pro-Haftar venaient demander aux migrants de travailler pour eux. Yemane indique qu’un jour, ils ont enlevé quinze hommes, dont on est sans nouvelles.
MSF a demandé au HCR d’évacuer les détenus de Gharyan. L’agence de l’ONU a d’abord nié que Gharyan était en zone de guerre, avant de l’admettre et de suggérer le transfert des détenus au centre de détention #Al-Nasr, à #Zawiya, à l’ouest de Tripoli. Pourtant, le Conseil de sécurité de l’ONU a accusé les forces qui contrôlent ce centre de trafic de migrants, et placé deux de leurs dirigeants sous sanctions.
« Si vous êtes malades, vous devez mourir ! »
Les détenus étaient toujours à Gharyan quand, le 26 juin, les forces du GEN ont repris la zone. Le jour suivant, ils ont forcé le portail du centre de détention avec une voiture et demandé aux migrants de se battre à leurs côtés. Les détenus effrayés ont montré leurs médicaments contre la tuberculose en répétant des mots d’arabe que des employés du HCR leur avaient appris − kaha (#toux) et darn (#tuberculose). Les miliciens sont repartis, l’un d’eux lançant aux migrants : « Si vous êtes malades, on reviendra vous tuer. Vous devez mourir ! ».
Le 4 juillet, le HCR a enfin évacué les détenus restants vers Tripoli. L’agence a donné à chacun d’eux 450 dinars (100 euros) pour qu’ils subvenir à leurs besoins dans une ville qu’ils ne connaissaient pas. L’abri où ils étaient censés loger s’avérant trop coûteux, ils ont déménagé vers un endroit moins cher, jadis une bergerie. « Le HCR dit qu’on sera en sécurité dans cette ville, mais pour nous, la Libye n’offre ni liberté ni sécurité », explique Yemane.
La plupart des 29 migrants évacués de Gharyan sont maintenant bloqués, et en danger, dans les rues de Tripoli, mais espèrent toujours obtenir l’asile en dehors de Libye. Les combats se poursuivant à Tripoli, des miliciens ont proposé à Yemane de s’enrôler pour 1 000 dollars (901 euros) par mois. « J’ai vu beaucoup de migrants qui ont été recrutés ainsi, puis blessés », m’a-t-il raconté récemment sur WhatsApp. Deux de ses colocataires ont été à nouveau emprisonnés par des milices, qui leur ont demandé 200 dollars (180 euros) chacun.
Les migrants de Gharyan ont si peur dans les rues de Tripoli qu’ils ont demandé à retourner en détention ; l’un d’entre eux est même parvenu à entrer dans le centre de détention d’Abou Salim. Nombre d’entre eux ont la tuberculose. Fin octobre, Yemane lui-même a découvert qu’il en était porteur, mais n’a pas encore de traitement.
« Ils nous ont donné de faux espoirs »
Contrairement à Gharyan, Dhar-El-Djebel est loin des combats. Mais depuis avril, des migrants détenus à Tripoli refusent d’y être transférés car ils craignent d’être oubliés dans le djebel Nefoussa. Selon un responsable de la zone, « notre seul problème ici, c’est que le HCR ne fait pas son travail. Cela fait deux ans qu’ils font de fausses promesses à ces gens ». La plupart des détenus de Dhar-El-Djebel ont été enregistrés comme demandeurs d’asile par le HCR, et espèrent donc être relocalisés dans des pays d’accueil sûr. Gebray a été enregistré en octobre 2018 à Dhar-El-Djebel : « Depuis, je n’ai pas vu le HCR. Ils nous ont donné de faux espoirs en nous disant qu’ils allaient revenir bientôt pour nous interviewer et nous évacuer de Libye ».
Les 96 Érythréens et Somaliens transférés en juin de Dhar-El-Djebel au « centre de rassemblement et de départ » du HCR à Tripoli étaient convaincus qu’ils feraient partie des chanceux prioritaires pour une évacuation vers l’Europe ou l’Amérique du Nord. Mais en octobre, le HCR aurait rejeté une soixantaine d’entre eux, dont 23 femmes et 6 enfants. Ils n’ont plus d’autre choix que de tenter de survivre dans les rues de Tripoli ou d’accepter un « retour volontaire » vers les pays dont ils ont fui la violence.
Le rapport de la visite de l’ONU à Dhar-El-Djebel en juin, durant ce même transfert, avait prévenu que « le nombre de personnes que le HCR sera en mesure d’évacuer sera très faible par rapport à la population restante [à Dhar-El-Djebel] en raison du nombre de places limité offert la communauté internationale ».
De fait, le HCR a enregistré près de 60 000 demandeurs d’asile en Libye, mais n’a pu en évacuer qu’environ 2 000 par an. La capacité de l’agence à évacuer des demandeurs d’asile de Libye dépend des offres des pays d’accueil, principalement européens. Les plus ouverts n’accueillent chaque année que quelques centaines des réfugiés bloqués en Libye. Les détenus de Dhar-El-Djebel le savent. Lors d’une de leurs manifestations, leurs slogans écrits à la sauce tomate visaient directement l’Europe : « Nous condamnons la politique de l’UE envers les réfugiés innocents détenus en Libye ».
« L’Europe dit qu’elle nous renvoie en Libye pour notre propre sécurité, explique Gebray. Pourquoi ne nous laissent-ils pas mourir en mer, sans souffrance ? Cela vaut mieux que de nous laisser dépérir ici ».
▻https://orientxxi.info/magazine/migrants-en-libye-les-oublies-de-l-exil,3460
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Et pour la liste de @sinehebdo, deux nouveaux #mots : #Dollars et #Euros
Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.
Detainees Evacuated out of Libya but Resettlement Capacity Remains Inadequate
According to the United Nations Refugee Agency (#UNHCR) 262 migrants detained in Libya were evacuated to Niger on November 12- the largest evacuation from Libya carried out to date. In addition to a successful airlift of 135 people in October this year, this brings the total number of people evacuated to more than 2000 since December 2017. However Amnesty International describes the resettlement process from Niger as slow and the number of pledges inadequate.
The evacuations in October and November were the first since June when the Emergency Transit Mechanism (ETM) centre in Niger reached its full capacity of 1,536 people, which according to Amnesty was a result of a large number of people “still waiting for their permanent resettlement to a third country.”
57,483 refugees and asylum seekers are registered by UNHCR in Libya; as of October 2018 14,349 had agreed to Voluntary Humanitarian Return. Currently 3,886 resettlement pledges have been made by 12 states, but only 1,140 have been resettled.
14,595 people have been intercepted by the Libyan coast guard and taken back to Libya, however it has been well documented that their return is being met by detention, abuse, violence and torture. UNHCR recently declared Libya unsafe for returns amid increased violence in the capital, while Amnesty International has said that “thousands of men, women and children are trapped in Libya facing horrific abuses with no way out”.
In this context, refugees and migrants are currently refusing to disembark in Misrata after being rescued by a cargo ship on November 12, reportedly saying “they would rather die than be returned to land”. Reuters cited one Sudanese teenager on board who stated “We agree to go to any place but not Libya.”
UNHCR estimates that 5,413 refugees and migrants remain detained in #Directorate_for_Combatting_Illegal_Migration (#DCIM) centres and the UN Refugee Agency have repetedly called for additional resettlement opportunities for vulnerable persons of concern in Libya.
▻https://www.ecre.org/detainees-evacuated-out-of-libya-but-resettlement-capacity-remains-inadequate
#réinstallation #Niger #Libye #évacuation #asile #migrations #réfugiés #HCR #détention #centres_de_détention #Emergency_Transit_Mechanism (#ETM)
Fuir une dictature et mourir de faim en Italie, après avoir traversé la Méditerranée et passé des mois dans des centres en Libye.
10 personnes à ses funérailles.
Et l’Europe n’a pas honte.
Ragusa, il funerale dell’eritreo morto di fame dopo la traversata verso l’Italia
Il parroco di Modica: «Di lui sappiamo solo che è un nostro fratello»
Torture, rape and slavery in Libya: why migrants must be able to leave this hell
Rape, torture and slave labour are among the horrendous daily realities for people stuck in Libya who are desperately trying to escape war, persecution and poverty in African countries, according to a new report by Oxfam and Italian partners MEDU and Borderline Sicilia.
The report features harrowing testimonies, gathered by Oxfam and its partners, from women and men who arrived in Sicily having made the dangerous crossing from Libya. Some revealed how gangs imprisoned them in underground cells, before calling their families to demand a ransom for their release. A teenager from Senegal told how he was kept in a cell which was full of dead bodies, before managing to escape. Others spoke of being regularly beaten and starved for months on end.
Oxfam and its partners are calling on Italy and other European member states to stop pursuing migration policies that prevent people leaving Libya and the abuse they are suffering.
158 testimonies, of 31 women and 127 men, gathered by Oxfam and MEDU in Sicily, paint a shocking picture of the conditions they endured in Libya:
All but one woman said they had suffered from sexual violence
74% of the refugees and other migrants said they had witnessed the murder and /or torture of a travelling companion
84% said they had suffered inhuman or degrading treatment, extreme violence or torture in Libya
80% said they had been regularly denied food and water during their stay in Libya
70% said they had been tied up
►https://www.oxfam.org/en/pressroom/pressreleases/2017-08-09/torture-rape-and-slavery-libya-why-migrants-must-be-able-leave
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