• Radio sauveur : vers une santé mentale émancipée
    https://radioparleur.net/2024/04/18/radio-sauveur-vers-une-sante-mentale-emancipee

    Arracher la santé aux spécialistes et aux institutions médicales c’est le point de départ de ce qu’on appel la santé communautaire. Prendre soin ensemble, finalement, pour faire face au système de santé et à la santé du système. Pour cette émission en direct du Saint-sauveur on conjugue santé mentale et santé communautaire avec Josep Rafanell […] L’article Radio sauveur : vers une santé mentale émancipée est apparu en premier sur Radio Parleur.

    #Au_fil_des_luttes #Débats_et_conférences #Toujours_en_lutte #Une_second_bandeau

  • #Mayotte : pour une déconstruction de l’association #bidonville – illégalité – délinquance
    https://metropolitiques.eu/Mayotte-pour-une-deconstruction-de-l-association-bidonville-illegali

    Avec l’opération « Mayotte place nette », les habitants des quartiers précaires, accusés d’être en situation irrégulière, sont dans la ligne de mire du gouvernement français. Pourtant, ce qui les caractérise est moins l’illégalité de leurs statuts administratifs et résidentiels qu’une marginalité construite socialement, dans un contexte postcolonial singulier. Le 10 février 2024, dans une vidéo publiée sur le réseau social X, le ministre de l’Intérieur français, G. Darmanin, annonce le déploiement imminent #Débats

    / Mayotte, bidonville, #habitat_précaire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_aussedat.pdf

  • I dati che raccontano la guerra ai soccorsi nell’anno nero della strage di Cutro

    Nel 2023 le autorità italiane hanno classificato come operazioni di polizia e non Sar oltre mille sbarchi, per un totale di quasi 40mila persone, un quarto degli arrivi via mare. Dati inediti del Viminale descrivono la “strategia” contro le Ong e l’intento di creare l’emergenza a Lampedusa concentrando lì oltre i due terzi degli approdi.

    Nell’anno della strage di Cutro (26 febbraio 2023) le autorità italiane hanno classificato come operazioni di polizia oltre 1.000 sbarchi, per un totale di quasi 40mila persone, poco più di un quarto di tutti gli arrivi via mare. Questo nonostante gli effetti funesti che la confusione tra “law enforcement” e ricerca e soccorso ha prodotto proprio in occasione del naufragio di fine febbraio dell’anno scorso a pochi metri dalle coste calabresi, quando morirono più di 90 persone, e sulla quale sta indagando la Procura di Crotone.

    Quello degli eventi strumentalmente classificati come di natura poliziesca in luogo del soccorso, anche dopo i fatti di Cutro, è solo uno dei dati attraverso i quali si può leggere come è andata lo scorso anno nel Mediterraneo. È possibile farlo dopo aver ottenuto dati inediti dal ministero dell’Interno, che rispetto al passato ha fortemente ridotto qualità e quantità degli elementi pubblicati nel cruscotto statistico giornaliero e nella sua rielaborazione di fine anno.

    Prima però partiamo dai dati noti. Nel 2023 sono sbarcate sulle coste italiane 157.651 persone (il Viminale talvolta ne riporta 157.652, ma la sostanza è identica). Il dato è il più alto dal 2017 ma inferiore al 2016, quando furono 181.436. Le prime cinque nazionalità dichiarate al momento dello sbarco, che rappresentano quasi il 50% degli arrivi, sono di cittadini della Guinea, Tunisia, Costa d’Avorio, Bangladesh, Egitto. I minori soli sono stati 17.319.

    E qui veniamo ai dati che ci ha trasmesso il Viminale a seguito di un’istanza di accesso civico generalizzato. La stragrande maggioranza delle persone sbarcate è partita nel 2023 dalla Tunisia: oltre 97mila persone sulle 157mila totali. Segue a distanza la Libia, con 52mila partenze, quasi doppiata, e poi più dietro la Turchia (7.150), Algeria, Libano e finanche Cipro.

    Come mostrano le elaborazioni grafiche dei dati governativi, ci sono stati mesi in cui dalla Tunisia sono sbarcate anche oltre 20mila persone. Una tendenza che ha conosciuto una brusca interruzione a partire dal mese di ottobre 2023, quando gli sbarchi in quota Tunisia, al netto delle condizioni meteo marine, sono crollati a poco meno di 1.900, attestandosi poco sotto i 5mila nei due mesi successivi.

    Tradotto: l’ultimo trimestre dello scorso anno ha visto una forte diminuzione degli sbarchi provenienti dalla Tunisia, Paese con il quale Unione europea e Italia hanno stretto il “solito” accordo che prevede soldi e forniture in cambio di “contrasto ai flussi”, ovvero contrasto ai diritti umani. È lo schema libico, con le differenze del caso. Il ministro Matteo Piantedosi il 31 dicembre 2023, intervistato da La Stampa, ha rivendicato la bontà della strategia parlando di “121.883 persone” (dando l’idea di un conteggio analitico e quotidiano) “bloccate” grazie alla “collaborazione con le autorità tunisine e libiche”.

    Un altro dato utilissimo per capire come “funziona” la macchina mediatica della presunta “emergenza immigrazione” è quello dei porti di sbarco. Il primo e incontrastato porto sul quale lo scorso anno è stata scaricata la stragrande maggioranza degli sbarchi è Lampedusa, con quasi 110mila arrivi (di cui “solo” 7.400 autonomi) contro i 5.500 di Augusta, Roccella Jonica, i 4.800 di Pantelleria e i 3.800 di Catania. In passato non è sempre stato così. Ma Lampedusa è troppo importante per due ragioni: dare in pasto all’opinione pubblica l’idea di una situazione esplosiva e ingestibile, bloccando i trasferimenti verso la terraferma (vedasi l’estate 2023), e contemporaneamente convogliare quanti più richiedenti asilo potenziali possibile nella macchina del trattenimento dell’hotspot.

    Benché in Italia si sia convinti che a soccorrere le persone in mare siano solo le acerrime nemiche Ong, i dati, ancora una volta, confermano il loro ruolo ridotto a marginale dopo anni di campagne diffamatorie, criminalizzazione penale e vera e propria persecuzione amministrativa. Nel 2023, infatti, gli assetti delle Organizzazioni non governative hanno salvato e sbarcato in Italia neanche 9mila persone. Poco più del 5% del totale. Anche nei mesi più intensi degli arrivi la quota delle Ong è stata limitata.

    Come noto, le poche navi umanitarie intervenute sono state deliberatamente indirizzate verso porti lontani. Il primo per numero di persone sbarcate è stato Brindisi (quasi 1.400 sbarcati su 9mila), ovvero 285 miglia in più rispetto al Sud-Ovest della Sicilia. Segue Lampedusa con 980, vero, ma poi ci sono Carrara (535 miglia di distanza in più dalla Sicilia), Trapani, Salerno, Bari, Civitavecchia, Ortona.

    Non è facile dire quanti giorni di navigazione in più questa “strategia” brutale abbia esattamente determinato. Un esperto operatore di ricerca e soccorso in mare aiuta a fare due conti a spanne: “Le navi normalmente viaggiano a meno di dieci nodi, calcolando una velocità di sette nodi andare a Brindisi implica circa 41 ore in più rispetto ai porti più vicini del Sud della Sicilia, come ad esempio Pozzallo. E per arrivare a Pozzallo dalla cosiddetta ‘SAR 1’, a Ovest di Tripoli, partendo da una distanza dalla costa libica di circa 35 miglia, tra Zuara e Zawiya, ci vogliono circa 24 ore”.

    Una recente analisi di Sos Humanity -ripresa dal Guardian a metà febbraio- ha stimato che questo modus operandi delle autorità italiane possa aver complessivamente fatto perdere alle navi delle Ong 374 giorni di operatività. Nell’anno in cui sono morte annegate ufficialmente almeno 2.500 persone e intercettate dalle milizie libiche e riportate indietro, sempre ufficialmente, quasi 17.200 (con l’ancora una volta dimostrata complicità dell’Agenzia europea Frontex). Ma sono tempi così oscuri che ostacolare le “ambulanze” è divenuto un vanto.

    https://altreconomia.it/i-dati-che-raccontano-la-guerra-ai-soccorsi-nellanno-nero-della-strage-

    #statistiques #débarquement #Italie #migrations #réfugiés #chiffres #sauvetage #ONG #SAR #search-and-rescue #Méditerranée #Lampedusa #law_enforcement #2023 #Tunisie #Libye #externalisation #accord #urgence #hotspot

  • Quand le #comité_d’éthique du #CNRS se penche sur l’#engagement_public des chercheurs et chercheuses

    #Neutralité ? #Intégrité ? #Transparence ?

    Le Comité d’éthique du CNRS rappelle qu’il n’y a pas d’#incompatibilité de principe, plaide pour un « guide pratique de l’engagement » et place la direction de l’institution scientifique devant les mêmes obligations que les chercheurs.

    Avec la crise climatique, la pandémie de covid-19, l’accroissement des inégalités, le développement de l’intelligence artificielle ou les technologies de surveillance, la question de l’#engagement public des chercheurs est d’autant plus visible que les réseaux sociaux leur permettent une communication directe.

    Cette question dans les débats de société n’est pas nouvelle. De l’appel d’#Albert_Einstein, en novembre 1945, à la création d’un « #gouvernement_du_monde » pour réagir aux dangers de la #bombe_atomique à l’alerte lancée par #Irène_Frachon concernant le #Médiator, en passant par celle lancée sur les dangers des grands modèles de langage par #Timnit_Gebru et ses collègues, les chercheurs et chercheuses s’engagent régulièrement et créent même des sujets de #débats_publics.

    Une question renouvelée dans un monde incertain

    Le #comité_d'éthique_du_CNRS (#COMETS) ne fait pas semblant de le découvrir. Mais, selon lui, « face aux nombreux défis auxquels notre société est confrontée, la question de l’engagement public des chercheurs s’est renouvelée ». Il s’est donc auto-saisi pour « fournir aux chercheurs des clés de compréhension et des repères éthiques concernant l’engagement public » et vient de publier son #rapport sur le sujet [PDF].

    Il faut dire que les deux premières années du Covid-19 ont laissé des traces dans la communauté scientifique sur ces questions de prises de paroles des chercheurs. Le COMETS avait d’ailleurs publié en mai 2021 un avis accusant Didier Raoult alors que la direction du Centre avait rappelé tardivement à l’ordre, en août de la même année, et sans le nommer, le sociologue et directeur de recherche au CNRS Laurent Mucchielli, qui appelait notamment à suspendre la campagne de vaccination.

    Le COMETS relève que les chercheurs s’engagent selon des modalités variées, « de la signature de tribunes à la contribution aux travaux d’ONG ou de think tanks en passant par le soutien à des actions en justice ou l’écriture de billets de blog ». Il souligne aussi que les #réseaux_sociaux ont « sensiblement renforcé l’exposition publique des chercheurs engagés ».

    La présidente du comité d’éthique, Christine Noiville, égrène sur le site du CNRS, les « interrogations profondes » que ces engagements soulèvent :

    « S’engager publiquement, n’est-ce pas contraire à l’exigence d’#objectivité de la recherche ? N’est-ce pas risquer de la « politiser » ou de l’« idéologiser » ? S’engager ne risque-t-il pas de fragiliser la #crédibilité du chercheur, de mettre à mal sa réputation, sa carrière ? Est-on en droit de s’engager ? Pourrait-il même s’agir d’un devoir, comme certains collègues ou journalistes pourraient le laisser entendre ? »

    Pas d’incompatibilité de principe

    Le comité d’éthique aborde les inquiétudes que suscite cet engagement public des chercheurs et pose franchement la question de savoir s’il serait « une atteinte à la #neutralité_scientifique ? ». Faudrait-il laisser de côté ses opinions et valeurs pour « faire de la « bonne » science et produire des connaissances objectives » ?

    Le COMETS explique, en s’appuyant sur les travaux de l’anthropologue #Sarah_Carvallo, que ce concept de neutralité est « devenu central au XXe siècle, pour les sciences de la nature mais également pour les sciences sociales », notamment avec les philosophes des sciences #Hans_Reichenbach et #Karl_Popper, ainsi que le sociologue #Max_Weber dont le concept de « #neutralité_axiologique » – c’est-à-dire une neutralité comme valeur fondamentale – voudrait que le « savant » « tienne ses #convictions_politiques à distance de son enseignement et ne les impose pas subrepticement ».

    Mais le comité explique aussi, que depuis Reichenbach, Popper et Weber, la recherche a avancé. Citant le livre d’#Hilary_Putnam, « The Collapse of the Fact/Value Dichotomy and Other Essays », le COMETS explique que les chercheurs ont montré que « toute #science s’inscrit dans un #contexte_social et se nourrit donc de #valeurs multiples ».

    Le comité explique que le monde de la recherche est actuellement traversé de valeurs (citant le respect de la dignité humaine, le devoir envers les animaux, la préservation de l’environnement, la science ouverte) et que le chercheur « porte lui aussi nécessairement des valeurs sociales et culturelles dont il lui est impossible de se débarrasser totalement dans son travail de recherche ».

    Le COMETS préfère donc insister sur les « notions de #fiabilité, de #quête_d’objectivité, d’#intégrité et de #rigueur de la #démarche_scientifique, et de transparence sur les valeurs » que sur celle de la neutralité. « Dans le respect de ces conditions, il n’y a aucune incompatibilité avec l’engagement public du chercheur », assure-t-il.

    Liberté de s’engager... ou non

    Il rappelle aussi que les chercheurs ont une large #liberté_d'expression assurée par le code de l’éducation tout en n’étant pas exemptés des limites de droit commun (diffamation, racisme, sexisme, injure ...). Mais cette liberté doit s’appliquer à double sens : le chercheur est libre de s’engager ou non. Elle est aussi à prendre à titre individuel, insiste le COMETS : la démarche collective via les laboratoires, sociétés savantes et autres n’est pas la seule possible, même si donner une assise collective « présente de nombreux avantages (réflexion partagée, portée du message délivré, moindre exposition du chercheur, etc.) ».

    Le comité insiste par contre sur le fait que, lorsque le chercheur s’engage, il doit « prendre conscience qu’il met en jeu sa #responsabilité, non seulement juridique mais aussi morale, en raison du crédit que lui confère son statut et le savoir approfondi qu’il implique ».

    Il appuie aussi sur le fait que sa position privilégiée « crédite sa parole d’un poids particulier. Il doit mettre ce crédit au service de la collectivité et ne pas en abuser ».

    Des #devoirs lors de la #prise_de_parole

    Outre le respect de la loi, le COMETS considère, dans ce cadre, que les chercheurs et chercheuses ont des devoirs vis-à-vis du public. Notamment, ils doivent s’efforcer de mettre en contexte le cadre dans lequel ils parlent. S’agit-il d’une prise de parole en nom propre ? Le thème est-il dans le domaine de compétence du chercheur ? Est-il spécialiste ? A-t-il des liens d’intérêts ? Quelles valeurs sous-tendent son propos ? Le #degré_de_certitude doit aussi être abordé. Le Comité exprime néanmoins sa compréhension de la difficulté pratique que cela implique, vu les limites de temps de paroles dans les médias.

    Une autre obligation qui devrait s’appliquer à tout engagement de chercheurs selon le COMETS, et pas des moindres, est de l’asseoir sur des savoirs « robustes » et le faire « reposer sur une démarche scientifique rigoureuse ».

    Proposition de co-construction d’un guide

    Le COMETS recommande, dans ce cadre, au CNRS d’ « élaborer avec les personnels de la recherche un guide de l’engagement public » ainsi que des formations. Il propose aussi d’envisager que ce guide soit élaboré avec d’autres organismes de recherche.

    La direction du CNRS à sa place

    Le Comité d’éthique considère en revanche que « le CNRS ne devrait ni inciter, ni condamner a priori l’engagement des chercheurs, ni opérer une quelconque police des engagements », que ce soit dans l’évaluation des travaux de recherche ou dans d’éventuelles controverses provoquées par un engagement public.

    « La direction du CNRS n’a pas vocation à s’immiscer dans ces questions qui relèvent au premier chef du débat scientifique entre pairs », affirme-t-il. La place du CNRS est d’intervenir en cas de problème d’#intégrité_scientifique ou de #déontologie, mais aussi de #soutien aux chercheurs engagés « qui font l’objet d’#attaques personnelles ou de #procès_bâillons », selon lui.

    Le comité aborde aussi le cas dans lequel un chercheur mènerait des actions de #désobéissance_civile, sujet pour le moins d’actualité. Il considère que le CNRS ne doit ni « se substituer aux institutions de police et de justice », ni condamner par avance ce mode d’engagement, « ni le sanctionner en lieu et place de l’institution judiciaire ». Une #sanction_disciplinaire peut, par contre, être envisagée « éventuellement », « en cas de décision pénale définitive à l’encontre d’un chercheur ».

    Enfin, le Comité place la direction du CNRS devant les mêmes droits et obligations que les chercheurs dans son engagement vis-à-vis du public. Si le CNRS « prenait publiquement des positions normatives sur des sujets de société, le COMETS considère qu’il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent, etc. Cette prise de position de l’institution devrait pouvoir être discutée sur la base d’un débat contradictoire au sein de l’institution ».

    https://next.ink/985/quand-comite-dethique-cnrs-se-penche-sur-engagement-public-chercheurs-et-cherc

    • Avis du COMETS « Entre liberté et responsabilité : l’engagement public des chercheurs et chercheuses »

      Que des personnels de recherche s’engagent publiquement en prenant position dans la sphère publique sur divers enjeux moraux, politiques ou sociaux ne constitue pas une réalité nouvelle. Aujourd’hui toutefois, face aux nombreux défis auxquels notre société est confrontée, la question de l’engagement public des chercheurs s’est renouvelée. Nombre d’entre eux s’investissent pour soutenir des causes ou prendre position sur des enjeux de société – lutte contre les pandémies, dégradation de l’environnement, essor des technologies de surveillance, etc. – selon des modalités variées, de la signature de tribunes à la contribution aux travaux d’ONG ou de think tanks en passant par le soutien à des actions en justice ou l’écriture de billets de blog. Par ailleurs, le développement des médias et des réseaux sociaux a sensiblement renforcé l’exposition publique des chercheurs engagés.

      Dans le même temps, de forts questionnements s’expriment dans le monde de la recherche. Nombreux sont ceux qui s’interrogent sur les modalités de l’engagement public, son opportunité et son principe même. Ils se demandent si et comment s’engager publiquement sans mettre en risque leur réputation et les valeurs partagées par leurs communautés de recherche, sans déroger à la neutralité traditionnellement attendue des chercheurs, sans perdre en impartialité et en crédibilité. Ce débat, qui anime de longue date les sciences sociales, irrigue désormais l’ensemble de la communauté scientifique.

      C’est dans ce contexte que s’inscrit le présent avis. Fruit d’une auto-saisine du COMETS, il entend fournir aux chercheurs des clés de compréhension et des repères éthiques concernant l’engagement public.

      Le COMETS rappelle d’abord qu’il n’y a pas d’incompatibilité de principe entre, d’un côté, l’engagement public du chercheur et, de l’autre, les normes attribuées ou effectivement applicables à l’activité de recherche. C’est notamment le cas de la notion de « neutralité » de la science, souvent considérée comme une condition indispensable de production de connaissances objectives et fiables. Si on ne peut qu’adhérer au souci de distinguer les faits scientifiques des opinions, il est illusoire de penser que le chercheur puisse se débarrasser totalement de ses valeurs : toute science est une entreprise humaine, inscrite dans un contexte social et, ce faisant, nourrie de valeurs. L’enjeu premier n’est donc pas d’attendre du chercheur qu’il en soit dépourvu mais qu’il les explicite et qu’il respecte les exigences d’intégrité et de rigueur qui doivent caractériser la démarche scientifique.

      Si diverses normes applicables à la recherche publique affirment une obligation de neutralité à la charge du chercheur, cette obligation ne fait en réalité pas obstacle, sur le principe, à la liberté et à l’esprit critique indissociables du travail de recherche, ni à l’implication du chercheur dans des débats de société auxquels, en tant que détenteur d’un savoir spécialisé, il a potentiellement une contribution utile à apporter.

      Le COMETS estime que l’engagement public doit être compris comme une liberté individuelle et ce, dans un double sens :

      -- d’une part, chaque chercheur doit rester libre de s’engager ou non ; qu’il choisisse de ne pas prendre position dans la sphère publique ne constitue en rien un manquement à une obligation professionnelle ou morale qui lui incomberait ;

      -- d’autre part, le chercheur qui s’engage n’a pas nécessairement à solliciter le soutien de communautés plus larges (laboratoire, société savante, etc.), même si le COMETS considère que donner une assise collective à une démarche d’engagement présente de nombreux avantages (réflexion partagée, portée du message délivré, moindre exposition du chercheur, etc.).

      S’il constitue une liberté, l’engagement nécessite également pour le chercheur de prendre conscience qu’il met en jeu sa responsabilité, non seulement juridique mais aussi morale, en raison du crédit que lui confère son statut et le savoir approfondi qu’il implique. En effet, en s’engageant publiquement, le chercheur met potentiellement en jeu non seulement sa réputation académique et sa carrière, mais aussi l’image de son institution, celle de la recherche et, plus généralement, la qualité du débat public auquel il contribue ou qu’il entend susciter. Le chercheur dispose d’une position privilégiée qui crédite sa parole d’un poids particulier. Il doit mettre ce crédit au service de la collectivité et ne pas en abuser. Le COMETS rappelle dès lors que tout engagement public doit se faire dans le respect de devoirs.

      Ces devoirs concernent en premier lieu la manière dont le chercheur s’exprime publiquement. Dans le sillage de son avis 42 rendu à l’occasion de la crise du COVID-19, le COMETS rappelle que le chercheur doit s’exprimer non seulement en respectant les règles de droit (lois mémorielles, lois condamnant la diffamation, l’injure, etc.) mais aussi en offrant à son auditoire la possibilité de mettre son discours en contexte, au minimum pour ne pas être induit en erreur. A cet effet, le chercheur doit prendre soin de :

      situer son propos : parle-t-il en son nom propre, au nom de sa communauté de recherche, de son organisme de rattachement ? Quel est son domaine de compétence ? Est-il spécialiste de la question sur laquelle il prend position ? Quels sont ses éventuels liens d’intérêts (avec telle entreprise, association, etc.) ? Quelles valeurs sous-tendent son propos ? ;
      mettre son propos en perspective : quel est le statut des résultats scientifiques sur lesquels il s’appuie ? Des incertitudes demeurent-elles ? Existe-t-il des controverses ?

      Le COMETS a conscience de la difficulté pratique à mettre en œuvre certaines de ces normes (temps de parole limité dans les médias, espace réduit des tribunes écrites, etc.). Leur respect constitue toutefois un objectif vers lequel le chercheur doit systématiquement tendre. Ce dernier doit également réfléchir, avant de s’exprimer publiquement, à ce qui fonde sa légitimité à le faire.

      En second lieu, les savoirs sur lesquels le chercheur assoit son engagement doivent être robustes et reposer sur une démarche scientifique rigoureuse. Engagé ou non, il doit obéir aux exigences classiques d’intégrité et de rigueur applicables à la production de connaissances fiables – description du protocole de recherche, référencement des sources, mise à disposition des résultats bruts, révision par les pairs, etc. Le COMETS rappelle que ces devoirs sont le corollaire nécessaire de la liberté de la recherche, qui est une liberté professionnelle, et que rien, pas même la défense d’une cause, aussi noble soit-elle, ne justifie de transiger avec ces règles et de s’accommoder de savoirs fragiles. Loin d’empêcher le chercheur d’affirmer une thèse avec force dans l’espace public, ces devoirs constituent au contraire un soutien indispensable à l’engagement public auquel, sinon, il peut lui être facilement reproché d’être militant.

      Afin de munir ceux qui souhaitent s’engager de repères et d’outils concrets, le COMETS invite le CNRS à élaborer avec les personnels de la recherche un guide de l’engagement public. Si de nombreux textes existent d’ores et déjà qui énoncent les droits et devoirs des chercheurs – statut du chercheur, chartes de déontologie, avis du COMETS, etc. –, ils sont éparpillés, parfois difficiles à interpréter (sur l’obligation de neutralité notamment) ou complexes à mettre en œuvre (déclaration des liens d’intérêt dans les médias, etc.). Un guide de l’engagement public devrait permettre de donner un contenu lisible, concret et réaliste à ces normes apparemment simples mais en réalité difficiles à comprendre ou à appliquer.

      Le COMETS recommande au CNRS d’envisager l’élaboration d’un tel guide avec d’autres organismes de recherche qui réfléchissent actuellement à la question. Le guide devrait par ailleurs être accompagné d’actions sensibilisant les chercheurs aux enjeux et techniques de l’engagement public (dont des formations à la prise de parole dans les médias).

      Le COMETS s’est enfin interrogé sur le positionnement plus général du CNRS à l’égard de l’engagement public.

      Le COMETS considère que de manière générale, le CNRS ne devrait ni inciter, ni condamner a priori l’engagement des chercheurs, ni opérer une quelconque police des engagements. En pratique :

      – dans l’évaluation de leurs travaux de recherche, les chercheurs ne devraient pas pâtir de leur engagement public. L’évaluation de l’activité de recherche d’un chercheur ne devrait porter que sur ses travaux de recherche et pas sur ses engagements publics éventuels ;

      – lorsque l’engagement public conduit à des controverses, la direction du CNRS n’a pas vocation à s’immiscer dans ces questions qui relèvent au premier chef du débat scientifique entre pairs ;

      – le CNRS doit en revanche intervenir au cas où un chercheur contreviendrait à l’intégrité ou à la déontologie (au minimum, les référents concernés devraient alors être saisis) ou en cas de violation des limites légales à la liberté d’expression (lois mémorielles, lois réprimant la diffamation, etc.) ; de même, l’institution devrait intervenir pour soutenir les chercheurs engagés qui font l’objet d’attaques personnelles ou de procès bâillons.

      – au cas où un chercheur mènerait des actions de désobéissance civile, le CNRS ne devrait pas se substituer aux institutions de police et de justice. Il ne devrait pas condamner ex ante ce mode d’engagement, ni le sanctionner en lieu et place de l’institution judiciaire. A posteriori, en cas de décision pénale définitive à l’encontre d’un chercheur, le CNRS peut éventuellement considérer que son intervention est requise et prendre une sanction.

      Plus généralement, le COMETS encourage le CNRS à protéger et à favoriser la liberté d’expression de son personnel. Il est en effet de la responsabilité des institutions et des communautés de recherche de soutenir la confrontation constructive des idées, fondée sur la liberté d’expression.

      Si le CNRS venait à décider de s’engager en tant qu’institution, c’est-à-dire s’il prenait publiquement des positions normatives sur des sujets de société, le COMETS considère qu’il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent, etc. Cette prise de position de l’institution devrait pouvoir être discutée sur la base d’un débat contradictoire au sein de l’institution.

      Pour télécharger l’avis :
      https://comite-ethique.cnrs.fr/wp-content/uploads/2023/09/AVIS-2023-44.pdf

      https://comite-ethique.cnrs.fr/avis-du-comets-entre-liberte-et-responsabilite-engagement-public

      #avis

  • « Sur l’environnement, le divorce entre la Macronie et la communauté scientifique est désormais consommé », Stéphane Foucart
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/18/sur-l-environnement-le-divorce-entre-la-macronie-et-la-communaute-scientifiq

    Que le pouvoir en place bloque la publication d’un rapport d’expertise n’est jamais anodin. En des temps pas si reculés, cette rupture d’une forme de pacte démocratique entre la #science et l’expertise, d’une part, et les responsables aux affaires, de l’autre, apparaissait même comme une transgression majeure et inacceptable, au point d’alimenter l’indignation des revues scientifiques internationales. A l’automne 1997, on se souvient que Nature avait consacré une couverture sans concession aux tentatives de Claude Allègre, alors ministre de la recherche, de bloquer la publication du rapport d’expertise de l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (Inserm) sur l’amiante.

    Un quart de siècle s’est écoulé, et les mêmes manœuvres apparaissent désormais si normales et bénignes que leurs auteurs présumés ne prennent même plus la peine de les démentir. Le ministre de l’agriculture, Marc ["tu as vu, j’ai dit du bien des pesticides"] Fesneau, est ainsi, depuis mi-janvier, en possession d’un rapport de l’Agence nationale de sécurité sanitaire de l’#alimentation, de l’#environnement et du travail (#Anses) sur les plantes issues des nouvelles techniques génomiques, autrement appelées « nouveaux OGM ».

    De longue date, l’Anses avait annoncé la publication de cette expertise pour début février, c’est-à-dire avant que les députés européens ne se prononcent sur les conditions d’un assouplissement réglementaire de ces nouvelles cultures (ce qu’ils ont fait le 7 février).

    Multiplication de tribunes

    Sur cette question controversée, des lettres ouvertes signées par des centaines de scientifiques circulent et s’opposent, certaines favorables, d’autres hostiles à la dérégulation des nouvelles techniques génomiques. Dès lors, donner accès à une expertise en bonne et due forme sur le sujet aurait été nécessaire à un vote éclairé des eurodéputés. Cela n’a pas été le cas. Selon nos informations, ce rapport de l’Anses a été bloqué sur pression politique et, à l’heure où ces lignes sont écrites, il n’est toujours pas public. On ignore ce qu’il contient, mais il est fort probable qu’il ne soit pas aussi enthousiaste que l’aurait désiré le gouvernement, favorable au déploiement de ces « nouveaux #OGM ». Interrogé le 8 février par Le Monde, le cabinet de M. Fesneau n’a pas démenti le blocage du rapport de l’Anses, se bornant à répondre, deux relances et quarante-huit heures plus tard : « Pas de commentaires pour nous pour l’instant. »

    C’est un autre signe que, sur l’environnement, le divorce entre la Macronie et la communauté scientifique est désormais consommé. Il suffit de parcourir les pages « Débats » des journaux pour réaliser l’étendue de ce désamour. Le 7 février, dans Le Monde, près de 80 chercheurs des organismes publics (CNRS, Inrae, Inserm…), spécialistes des impacts des #pesticides sur l’environnement et la #santé, dénonçaient « une mise au placard des connaissances scientifiques » sur leurs sujets d’expertise.

    La veille, dans L’Obs, plus de 500 chercheurs estimaient que les décisions du gouvernement pour sortir du conflit avec les #agriculteurs contournent les questions structurelles posées par le mouvement et ne font que « préparer la prochaine crise » du secteur. Deux jours plus tard, dans La Croix, 140 autres contestaient la mise à l’arrêt du plan national de réduction des pesticides, expliquant que « l’impact délétère [de ceux-ci] sur la santé et sur l’environnement n’est pas une opinion mais un fait scientifique ». Un peu plus tôt, près de 1 600 scientifiques demandaient, dans une lettre ouverte, l’abandon du chantier de l’A69, l’autoroute entre Toulouse et Castres (Tarn). D’autres prises de position collectives, sur la gestion de l’eau notamment, ne devraient pas tarder.

    Pilule amère pour les chercheurs

    Pour les chercheurs qui constatent que des années d’efforts et de travail, de publications scientifiques et de rapports d’expertise ne servent, en définitive, à rien d’autre qu’à alimenter les indices bibliométriques de leurs organismes, la pilule est amère. Au point que la direction scientifique d’un organisme comme l’Inrae a pris sa plus belle plume pour adresser à tous ses chercheurs engagés dans le programme « Cultiver et protéger autrement » un mot « de soutien, et d’encouragement à continuer nos recherches ».

    Un message d’une nature inédite, qui en dit long sur le moral des troupes. Le directeur scientifique pour l’agriculture de l’Inrae, Christian Huyghe, leur rappelle l’utilité et la nécessité de leurs travaux. « La recherche publique est au bon endroit en pensant loin », leur écrit-il, citant quelques résultats récents montrant l’insoutenabilité du #modèle_agricole dominant actuel. M. Huyghe cite en particulier une étude publiée à l’été 2023 indiquant une chute de 95 % de la biomasse d’insectes au cours des vingt-quatre dernières années, dans les zones de grandes cultures allemandes. Des résultats inquiétants, même s’il est plus terrifiant encore de penser que ceux qui décident aujourd’hui de l’agriculture de demain n’en ont aucune connaissance, n’en comprennent manifestement pas la gravité ou, peut-être, s’en moquent complètement.

    A la seule évolution de son rapport aux sciences de l’environnement, on mesure toute l’amplitude de la trajectoire du macronisme le long du spectre politique. On s’en souvient : en 2017, l’un des gestes forts du premier quinquennat d’Emmanuel Macron fut d’opposer au MAGA (« Make America great again ») de Donald Trump, le Mopga (« Make our planet great again ») du chef de l’Etat français – programme dont le but premier était d’accueillir en France des scientifiques brimés aux Etats-Unis, parce que travaillant sur le climat ou sur la biodiversité. En moins de dix ans, le renversement aura donc été total. Le Mopga, glisse un chercheur désabusé pastichant les codes du marketing politique de la Macronie, est devenu une sorte de Mopdaa (« Make our planet dead after all », « Faire mourir notre planète finalement »).

    #écologie

    • Comment une partie du CNRS a relayé une campagne d’influence en faveur des « nouveaux OGM »
      https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/02/09/comment-une-partie-du-cnrs-a-relaye-une-campagne-d-influence-en-faveur-des-n


      Des membres de l’Institut de biologie moléculaire des plantes (IBMP) de Strasbourg posent avec un message en faveur des nouvelles techniques génomiques. Photo postée le 5 février 2023 sur X par le compte de l’IBMP. @CNRS_IBMP / X

      Le vote des eurodéputés sur la législation encadrant les nouvelles #techniques_génomiques, le 7 février, a donné lieu à une opération de communication impliquant des instances de l’organisation scientifique. Au grand dam de nombre de ses chercheurs.
      Par Stéphane Foucart, le 09 février 2024

      Le recours à l’#autorité_scientifique est un levier politique puissant. En amont du vote des eurodéputés, mercredi 7 février, sur les conditions d’autorisation en Europe des « nouveaux OGM » (organismes génétiquement modifiés), l’organisation WePlanet a orchestré sur les réseaux sociaux une campagne d’influence fondée sur la mise en avant de chercheurs favorables à la dérégulation de la diffusion de ces plantes, issues des nouvelles techniques génomiques (#NGT pour New Genomic Techniques). L’organisation, qui se présente comme une « ONG éco-moderniste » et milite pour le nucléaire, les OGM et le développement de l’alimentation cellulaire, a bénéficié d’un appui appréciable en France : celui d’une partie du Centre national de la recherche scientifique (#CNRS).

      Deux jours avant le vote, de hautes instances du vaisseau amiral de la recherche française ont, selon les informations du Monde, invité les chercheurs de l’#institut_de_biologie, l’un des dix départements principaux du CNRS, à participer à la campagne de WePlanet, en leur transmettant les éléments de communication concoctés par l’organisation : hashtags, tweets prérédigés, consignes d’interpellation des parlementaires, etc.
      Daté du 5 février, le courriel est adressé par le secrétariat de l’institut de biologie du CNRS à une quinzaine de directeurs d’unités. Sa fuite, dans des listes de diffusion de chercheurs d’universités et d’organismes publics, alimente de nombreux commentaires. Interrogée, la direction de la communication du CNRS assure que la décision de relayer la campagne de WePlanet relève d’une décision de son institut de biologie, « adressée uniquement aux chercheurs de cet institut ».

      « Hold-up »

      « Le CNRS est en faveur d’un assouplissement de la réglementation des OGM sur les NGT afin d’accélérer la recherche et l’innovation à partir de ces nouvelles techniques, lit-on dans le message. A l’occasion de ce débat, #WePlanet a coordonné l’écriture d’une lettre ouverte, notamment signée par Emmanuelle Charpentier et Jennifer Doudna, Prix Nobel de chimie 2020, et envoyée aux membres du Parlement européen pour les inciter à voter en faveur d’une réglementation assouplie pour les nouvelles techniques génomiques. »
      Le message relaie la proposition de WePlanet aux scientifiques « de se prendre en photo devant leur laboratoire et de publier leur image sur les réseaux sociaux en utilisant le #GiveGenesAChance [“Donnez une chance aux gènes”] et #NGTs ».

      La lettre ouverte coordonnée par l’organisation WePlanet et relayée par l’institut de biologie du CNRS appelle les parlementaires européens à « examiner attentivement les avantages de l’adoption des NGT », à « rejeter les ténèbres de l’alarmisme anti-science et à se tourner vers la lumière de la prospérité et du progrès ».
      Le texte a été signé par environ 1 500 scientifiques européens, souvent chercheurs en biologie moléculaire ou en génétique végétale, dont un peu moins d’une vingtaine déclarant une affiliation au CNRS. Les NGT sont toutefois l’objet de grandes divergences d’opinions au sein de la communauté scientifique, souvent selon les champs disciplinaires.

      En écologie et évolution, parmi de nombreux chercheurs interrogés par Le Monde, ou s’étant exprimés sur des listes de diffusion scientifiques, la stupéfaction et la réprobation dominent. « Un hold-up de quelques-uns sur la voix et la réputation de nos institutions », grince un professeur du Muséum national d’histoire naturelle. « Consterné par une prise de position publique de certains acteurs au CNRS qui prend en otage l’ensemble de l’établissement », confie au Monde un écologue, directeur de recherche au CNRS. « Hallucinant et scandaleux », dit un autre, généticien à l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement.

      « Texte partisan »

      Le biologiste François Parcy, médaille d’argent du CNRS, a pour sa part signé la lettre ouverte de WePlanet et a posté sur son compte X une photo en faveur des NGT. « Je l’ai fait par adhésion au message véhiculé, sans avoir reçu ce mail d’invitation du CNRS, dit-il. Cette démarche est surprenante au regard de la frilosité de nos organismes sur ces sujets, mais je trouve bien que l’institut de biologie [du CNRS] s’engage sur ce sujet, alors que de nombreux chercheurs favorables à ces technologies n’osent pas prendre la parole publiquement. »

      « Ce texte apparaît partisan et néglige les données scientifiques en écologie et en évolution sur les conséquences désastreuses pour l’environnement des OGM, qui n’ont fait qu’augmenter les quantités de pesticides répandues sans améliorer les rendements et ont permis de l’appropriation du vivant par des brevets », fait valoir une chercheuse en génétique et écologie évolutives, directrice de recherche au CNRS et membre de l’Académie des sciences.

      L’institut de biologie du CNRS dit ne pas disposer d’« informations précises » sur l’association. Les responsables de WePlanet assurent, eux, que leur organisation a été fondée en février 2022. Installée à Bruxelles, elle dispose de représentants dans plusieurs pays européens – sa représentante en France est une ex-cadre d’Areva, fondatrice de l’association Voix du nucléaire.

      « Permettre un débat contradictoire »

      Selon l’institut de biologie, « la position officielle du CNRS [en faveur d’une dérégulation des NGT] a été établie au terme de réunions avec cinq autres instituts de recherche européens ». La direction du CNRS reconnaît cependant que cette position n’est pas le fruit d’une confrontation pluridisciplinaire de points de vue.
      La juriste Christine Noiville, directrice de recherche au CNRS et présidente de son comité d’éthique (Comets), dit comprendre que, derrière la position du CNRS, « il y a le spectre des arrachages d’OGM qui plane encore et la nécessité de respecter la liberté académique ». Mme Noiville rappelle toutefois l’un des avis récents du Comets selon lequel « si le CNRS venait à décider de s’engager en tant qu’institution, c’est-à-dire s’il prenait des positions publiques et normatives sur des sujets de société, (…) il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux #chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent – et permettre un débat contradictoire au sein de l’institution ».

      La physicienne Michèle Leduc, directrice de recherche émérite au CNRS, ancienne présidente du Comets, se dit pour sa part très surprise par cette initiative de l’institut de biologie, qui « s’adresse directement à ses directeurs de laboratoire avec des injonctions précises et sans justifier ses options, sur un sujet qui fait l’objet de vifs débats scientifiques, non totalement tranchés et porteurs de graves enjeux politiques ». Elle rappelle « la nécessité du #débat_démocratique éclairé par les scientifiques sur les questions économiques et sociétales ».

      Cet article a été modifié samedi 10 février 2024 pour supprimer les propos d’une chercheuse qui ne souhaite pas être citée.

  • [Les Promesses de l’Aube] Les BienVeilleuses @ #théâtre le Public
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/les-bienveilleuse-theatre-le-public

    « Dans mon entourage, tout le monde savait, personne n’a bougé ». Du 06 février et 23 mars 2024, le Théâtre Le Public se réinvente pour aider à faire la lumière sur les violences conjugales et intrafamiliales.

    Quels sont les mécanismes de l’emprise ? Pourquoi ces violences restent-elles dissimulées ? Que révèlent-elles de notre société ? Quelles sont les répercussions sur l’entourage et sur les enfants, victimes silencieuses ? Comment en parler, comment protéger, comment réparer ?

    Pendant 7 semaines, dans une atmosphère accueillante et bienveillante, Le Public accueille des femmes et hommes de terrain afin de répondre à ces questions. Et ainsi permettre aux publics de prendre la mesure du phénomène, d’interroger et d’échanger.

    Ne laissons plus le silence taire la violence. Parlons-en !

    EN PARTENARIAT AVEC : (...)

    #danse #slam #concerts #exposition #ateliers #lectures #débats #conférences #théâtre,danse,slam,concerts,exposition,ateliers,lectures,débats,conférences
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/les-bienveilleuse-theatre-le-public_17270__1.mp3

  • La nature existe-t-elle ? - Agone
    https://agone.org/aujourlejour/la-nature-existe-t-elle

    C’est à l’occasion de « ma première étude sur le terrain », chez les Achuar d’Amazonie, raconte Descola, que « j’ai commencé à comprendre que ces notions de nature et de société n’avaient aucun sens ». En prélude à un dialogue avec Baptiste Morizot, le journal Le Monde présente Philippe Descola comme cet « anthropologue qui a converti toute une génération de chercheurs à penser “par-delà nature et culture” ».

    Il est difficile de savoir si cette conversion s’est opérée, chez les anthropologues, pour la totalité d’une génération. Mais il est certain que les chercheurs ne sont pas les seuls, aujourd’hui, à vouloir se passer de cette opposition de la nature et de la culture : l’idée a commencé de gagner le grand public.

    Intro du livre :

    Pour ne pas en finir avec la nature - Agone
    https://agone.org/livres/pour-ne-pas-en-finir-avec-la-nature

    Méditant sur le destin de la nature dans le contexte contemporain de son artificialisation toujours plus avancée, Philippe Descola annonce « son décès prévisible, en tant que concept » et la « clôture probable d’un long chapitre de notre propre histoire ». Mais comment définir les « dégâts anthropiques » occasionnés par l’action de l’homme sans faire référence au moins implicitement à ce que cette action modifie et à ce qui est atteint par ces dégâts ? Soit à ce qui, dans le monde, a de loin précédé notre existence, l’a produite et continue de la déterminer : la nature.

    Il est tout à fait certain qu’une époque est en train de se clore, caractérisée par une certaine manière de concevoir notre rapport à la nature. Il n’en reste pas moins que nous avons beaucoup de raisons, et des raisons assez solides, de douter que ce à quoi renvoie le mot « n’existe pas », ou encore que la notion de nature n’ait « aucun sens » et ne soit qu’un « fétiche » qui a « fait son temps ». Comme on peut douter qu’il faille « désormais penser sans elle » et qu’user du concept de nature soit, comme le suggérait Pessoa, le symptôme d’« une maladie de nos idées ». Il est ainsi plus urgent de le clarifier de manière critique que de penser par-delà nature et culture.

    Si l’on en croit l’anthropologue Philippe Descola, la pensée moderne de la nature fait partie du problème et non de la solution. En philosophe, Patrick Dupouey interroge cette proposition pour montrer que, bien au contraire, un concept de nature solide reste un outil indispensable pour comprendre les crises que nous traversons, sans sombrer dans les apories du relativisme. L’analyse de ces processus permet de faire émerger des solutions pour une transformation progressiste et coopérative du monde, pour sortir des crises qui caractérisent notre époque.

    #nature #culture #philosophie #anthropologie #Philippe_Descola #débat #Patrick_Dupouey

  • « Affirmer que la #transition_énergétique est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/22/affirmer-que-la-transition-energetique-est-impossible-c-est-le-meilleur-moye

    Partant du double constat selon lequel il n’y a jamais eu, par le passé, de remplacement d’une source d’énergie par une autre ; et que les transformations énergétiques se sont toujours faites de manière additive (les énergies s’ajoutant les unes aux autres), certains historiens en déduisent, à tort selon nous, qu’il n’y aurait aucun horizon pour une sortie des fossiles. Cette sortie des fossiles (le « transitioning away from fossil fuels », dans le langage forgé à la COP28) serait donc condamnée par avance.

    Tel est le message récurrent de Jean-Baptiste Fressoz [chroniqueur au Monde] notamment, dans ses ouvrages ou tribunes, qui visent toutes à réfuter ce qu’il considère comme « la fausse promesse de la transition ».

    Or, ce déclinisme écologique est non seulement grandement infondé, mais également de nature à plomber les ambitions dans la lutte contre le changement climatique. Affirmer que la transition est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager. A rebours de ce défaitisme, nous voulons ici affirmer, avec force, qu’il est possible de réussir cette transition.

    Certes, à l’exception des années de crise – financière en 2008-2009, sanitaire en 2020-2021 –, les émissions de CO2 n’ont jamais cessé d’augmenter, bien que sur un rythme ralenti, d’environ + 1 % annuel au cours des années 2010, contre + 3 % annuels dans les années 2000. Car, dans le même temps, la population mondiale continuait à augmenter, tout comme la satisfaction des besoins énergétiques d’une part croissante de cette population.

    Pourtant le désempilement des énergies a déjà lieu dans certaines régions du monde : c’est le cas en Europe, par exemple, qui a engagé sa transition énergétique. Parallèlement, des acteurs de plus en plus nombreux – Etats, entreprises, chercheurs, citoyens – intègrent aujourd’hui la nécessité de réduire les émissions de gaz à effet de serre dans leurs stratégies et comportements. L’ambition n’est pas encore assez affirmée, la mise en œuvre des transformations pas assez rapide et efficace, mais le mouvement est enclenché. Comment l’ignorer ?

    Sobriété, efficacité et investissements
    Le 11 janvier, Fatih Birol, directeur de l’Agence internationale de l’énergie (AIE), indiquait que les capacités installées dans l’année en énergies renouvelables avaient augmenté de 50 % entre 2022 et 2023. Pour la part des renouvelables dans la production d’électricité, l’AIE attend le passage de 29 % à 42 % en 2028 (de 12 % à 25 % pour les seules énergies éolienne et solaire). Depuis 1975, le prix des panneaux photovoltaïques est passé de 100 dollars par watt à moins de 0,5 dollar par watt aujourd’hui, soit une réduction de 20 % du coût pour chaque doublement des capacités installées ; c’est la mesure du taux d’apprentissage de la technologie. Et alors que la question du stockage de l’électricité devient de plus en plus cruciale, on constate le même taux d’apprentissage pour les batteries : depuis 1992, chaque fois que double le nombre de batteries produites, leur coût diminue de 18 %.

    Il est clair que ces progrès spectaculaires ne contredisent pas la thèse de l’additivité des énergies : si depuis 2016 les investissements dans les énergies décarbonées dépassent largement les investissements dans les énergies fossiles, ces derniers ont à nouveau augmenté après la baisse de 2020. Et la sortie des fossiles ne se vérifiera vraiment que le jour où l’augmentation de la production d’énergie décarbonée sera supérieure en volume à celle de la consommation totale d’énergie.

    Pour atteindre cet objectif, sobriété et efficacité énergétique sont indispensables afin de maîtriser la croissance de la demande. Mais il est également évident que sobriété et efficacité ne suffiront pas. Pour atteindre le plafonnement des émissions avant 2030, il faudra décupler les investissements dans ces énergies décarbonées, et notamment dans les pays du Sud, afin de faire baisser le volume des énergies fossiles : c’est la condition sine qua non pour atteindre les objectifs de l’accord de Paris. Nous sommes conscients qu’il s’agit d’un processus long et difficile, mais osons le dire : il n’y a pas d’autre solution, et nous pouvons y arriver.

    De nouvelles alliances s’imposent
    Serions-nous condamnés par l’histoire ? Faut-il prendre acte de notre impuissance supposée, ou poser un renversement complet du système comme condition préalable à la transition ? Dans les deux cas, cela serait très risqué, et franchement irresponsable.

    Car il n’y a pas de fatalité ! On trouve sur le site du dernier rapport du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) une citation d’Albert Camus : « Pour ce qui est de l’avenir, il ne s’agit pas de le prédire, mais de le faire. » C’est dans cette perspective que s’inscrivent tous les acteurs des COP et des négociations internationales – que certains stigmatisent comme un « grand cirque » –, pour qui « dire, c’est faire ».

    Evidemment, dire ne suffit pas, et il faut aussi mobiliser des moyens puissants, politiques et financiers. Il faut également affronter ceux – lobbys industriels et politiques – qui, par fatalisme ou par intérêt, freinent cette transformation. Enfin, comme le suggère le philosophe Pierre Charbonnier, la création de nouvelles alliances s’impose entre ceux qui ont compris que la transition servait leurs intérêts, et surtout ceux de leurs enfants.

    La démarche des sciences de la nature et de la physique consiste à s’appuyer sur des constats d’observation pour en tirer des lois immuables. Elle s’applique mal cependant aux sciences sociales. Mais ces obstacles ne doivent pas empêcher de penser l’avenir, à la manière de Gaston Berger, le père de la prospective, qui ne cessait de rappeler : « Demain ne sera pas comme hier. Il sera nouveau et il dépendra de nous. Il est moins à découvrir qu’à inventer. »

    Signataires : Anna Creti, économiste, chaire Economie du climat, université Paris-Dauphine ; Patrick Criqui, économiste, CNRS, université Grenoble-Alpes ; Michel Derdevet, président de Confrontations Europe, Sciences Po ; François Gemenne, politiste, HEC Paris ; Emmanuel Hache, économiste, IFP énergies nouvelles et Institut de relations internationales et stratégiques ; Carine Sebi, économiste, chaire Energy for Society, Grenoble Ecole de Management.

  • La logistique : un enjeux stratégique pour les luttes écolos ?
    https://radioparleur.net/2024/01/09/la-logistique-un-enjeux-strategique-pour-les-luttes-ecolos

    “Le pouvoir est logistique” disait-on en 2016. Une rengaine toujours d’actualité pour les luttes écologistes. En ligne de mire le projet d’entrepôts Green dock à Gennevilliers. Avec nous pour cette nouvelle émission au Saint-Sauveur à Ménilmontant, Carlotta Benvegnù, sociologue du travail et deux militant·es des Soulèvements de la terre 93. En 2021, la logistique représentait […] L’article La logistique : un enjeux stratégique pour les luttes écolos ? est apparu en premier sur Radio Parleur.

    #Au_fil_des_luttes #Débats_et_conférences #Une_second_bandeau

  • La #désinformation qui déstabilise la #démocratie

    « La désinformation est un bouton fantastique sur lequel appuyer pour déstabiliser les démocraties. C’est la #menace la plus sournoise. Parce que la démocratie fonctionne si on a accès à l’#information, pour pouvoir porter un jugement et participer au #débat_public ». C’est ainsi que le professeur adjoint en communication publique et politique à l’ENAP, Philippe Dubois, résumait le problème qui était au coeur du forum La démocratie au temps de la désinformation, tenu le 30 novembre à Montréal.

    La démocratie recule, soulignait d’ailleurs cette année un rapport du Varieties of Democracy Institute de l’Université de Göteborg (Suède) (https://v-dem.net/documents/29/V-dem_democracyreport2023_lowres.pdf), fruit d’une collaboration de près de 4000 experts de 180 pays. La désinformation, la #polarisation et l’#autocratisation se renforcent mutuellement.

    Avec l’ajout récent de la Thaïlande et du Mali, pour la première fois depuis plus de 20 ans, la liste des pays compte plus d’#autocraties que de démocraties : 5,7 milliards de personnes vivent dans des autocraties (72% de la population mondiale) contre 1 milliard de personnes pour les démocraties libérales —soit à peine 13%. Et près d’un tiers du premier groupe vit même au sein d’autocraties fermées (Chine, Iran, Myanmar et Vietnam, par exemple).

    Bref, le niveau de démocratie pour le citoyen mondial moyen est en recul, pour revenir au niveau de 1986. L’Europe de l’Est et l’Asie centrale, ainsi que l’Amérique latine et les Antilles, ont retrouvé leur niveau de la fin de la guerre froide.

    « C’est souvent un idéal que l’on prend pour acquis avec ses opportunités de délibération : presse libre, débats publics, et des institutions publiques pour faire fonctionner cela », avance Philippe Dubois. Ce « modèle le moins pire », comme l’aurait dit Churchill, « a bien souffert lors de la récente pandémie ». Avec ses mesures exceptionnelles et restrictives, la Covid-19 a vu reculer, de manière temporaire, certains droits et libertés. Cela a entaché la confiance dans les institutions démocratiques, et dans leurs acteurs, confiance qui n’était déjà pas si élevée avant la crise sanitaire.

    Or, les #réseaux_sociaux jouent eux aussi un rôle dans cette #régression. Peut-être parce qu’ils répercutent plus les #frustrations et la #colère que la #raison et les #nuances, il y aurait, semble-t-il, plus de cyniques et de mécontents qu’avant. Certaines tranches de la population s’avèrent aussi moins attachées à la démocratie, comme les jeunes, qui s’informent eux-mêmes davantage que les plus vieux par les algorithmes. « Cela ne signifie pas qu’ils rejettent la démocratie. Cela signifie plutôt qu’ils partagent davantage un type de contenu » qui la rejette, note le chercheur.

    L’École des médias de l’UQAM avait mandaté cet été la firme Léger pour sonder la population québécoise sur leurs perceptions sur des enjeux liés à la démocratie et à la désinformation. Le rapport montre que 25% de la population québécoise pense que les gouvernements cachent la réalité sur la nocivité des vaccins —18% pensent que c’est probable, alors que 8% pensent que c’est certain.

    C’est une #méfiance envers les institutions qui augmente, tout comme celle envers les #médias, car selon ce sondage, 44% de la population québécoise pense que les médias manipulent l’information qu’ils diffusent.

    En quête de #littératie_scientifique

    « Nous vivons une #crise_épistémologique avec une remise en question des #figures_d’autorité » constatait, lors du forum du 30 novembre, le professeur au département sciences humaines, lettres et communications de la TÉLUQ, Normand Landry. « Les gens parlent d’#esprit_critique mais c’est un mot galvaudé : où est notre capacité de se remettre en question et de changer d’idées et d’admettre nos erreurs ? »

    D’où l’importance de l’#éducation_aux_médias et de la littératie scientifique, soulignait-on dans ce forum organisé par les Fonds de recherche du Québec. Mélissa Guillemette, rédactrice en chef du magazine Québec Science, note que « moins de la moitié des Canadiens ont des bases solides en science (42%), c’est donc à mettre au premier plan. La littératie en santé au Québec reste elle aussi très faible chez 2 personnes sur 3 et pour 95% des 60 ans et plus, il s’avère même difficile de comprendre un médecin. »

    Les #jeunes ont particulièrement du mal à distinguer le #vrai du #faux. « Les adolescents ont du mal à reconnaître la désinformation. Ils manquent de bons critères d’évaluation pour juger de la qualité d’une bonne information », relève l’étudiante à la maîtrise en sciences de l’éducation de l’Université de Sherbrooke, Élise Rodrigue-Poulin.

    « Chez les enseignants aussi, le niveau de pensée critique varie souvent de faible à moyen. Et lorsque la nouvelle fait appel à trop d’#émotion, la plupart d’entre nous ne sommes plus capables de l’évaluer correctement », ajoute-t-elle.

    La solution serait de s’éduquer à reconnaître la désinformation, mais il faudrait aussi développer du contenu scolaire pour soutenir l’esprit critique chez les jeunes – et par ricochet, le personnel enseignant. Des éléments inclus dans le nouveau programme Culture et citoyenneté québécoise, vont dans ce sens.

    Ce serait toutefois insuffisant. « Le programme a plusieurs points positifs : donner des outils et des critères sur les informations et les médias, et l’explication de ce qu’est la démocratie. Comme enseignante, je trouve ça bon, mais il n’est pas obligatoire cette année et il a été présenté aux enseignants quelques jours avant la rentrée », explique Mme Rodrigue-Poulin. Il doit être implanté dans toutes les écoles en septembre 2024.

    Normand Landry renchérit : « Je salue l’adoption d’un programme mais je le pense moins sérieux dans le soutien à développer ce savoir. Depuis plus de 20 ans, l’#école développe du contenu d’éducation aux médias – par exemple, sur les compétences numériques, adopté en 2019 – mais sans se donner les conditions de déploiement et des ressources pour les enseignants. »

    La désinformation à gogo

    « Nous sommes dans une espèce de jungle et trouver la vérité, c’est un casse-tête. La désinformation, cela ne date pas d’hier mais c’est le volume qui augmente. », rappelle Nicolas Garneau, chercheur postdoctoral en informatique à l’Université de Copenhague.

    Et nous pouvons tous partager de la désinformation. Les réseaux sociaux sont conçus pour nous inviter à générer du contenu – « exprimez-vous », « posez des actions » – à partir de messages qui en appellent à nos #émotions.

    Il faut donc apprendre à se méfier des choix des #algorithmes et développer son esprit critique – « d’où ça sort ? », « quelle est la source de l’info ? »

    « Il ne faut pas oublier que ce sont des modèles économiques basés sur nos données. Ils enregistrent ce que l’on regarde et lorsqu’on s’exprime. Les plateformes exploitent nos #failles_psychologiques », rappelle Emmanuelle Parent, directrice générale et recherche du Centre pour l’intelligence émotionnelle en ligne (Le Ciel).

    Le professeur en journalisme à l’École des médias de l’Université du Québec à Montréal, Jean-Hugues Roy, s’intéresse plus spécifiquement à Facebook. Il remarque qu’il y a beaucoup de contenus viraux —et religieux— qui circulent. Qui plus est, en l’absence de véritables informations – en raison du blocage du contenu des médias par Meta – « il n’y a plus rien de pertinent. C’est un véritable marché aux puces de #contenus_viraux dont certains peuvent être toxiques. Cela peut prendre l’apparence de contenu journalistique, en ajoutant des éléments mensongers et trompeurs uniquement pour faire des clics. »

    Il est temps d’encadrer ces plateformes, poursuit-il. Une démarche entamée par le Canada avec le projet de loi C-18 qui vise à forcer les « géants du web » à indemniser les médias d’information —c’est ce projet de loi qui est la raison du boycottage des médias entrepris en ce moment par Meta au Canada.

    « Ce sont des entreprises privées et on s’attend à ce qu’elles prennent leurs responsabilités ou que les autorités le fassent. Nous avons une agence d’inspection des aliments au Canada, il est possible d’imaginer une agence d’inspection des réseaux sociaux alors que nos vies sont dessus et qu’ils font beaucoup d’argent avec nos données », pense M. Roy.

    Autrement dit, il faut un encadrement de ces outils par l’humain. « Leur raison d’être est de nous donner un coup de main, pas de décider à notre place », tranche encore Nicolas Garneau.

    https://www.sciencepresse.qc.ca/actualite/2023/12/15/desinformation-destabilise-democratie

  • Projet de loi « immigration » : à la suite du rejet à l’Assemblée, la commission mixte paritaire se réunira lundi
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/13/projet-de-loi-immigration-la-commission-mixte-paritaire-reunie-probablement-

    Projet de loi « immigration » : à la suite du rejet à l’Assemblée, la commission mixte paritaire se réunira lundi
    Le Monde avec AFP
    Publié aujourd’hui à 08h47, modifié à 13h07
    Le président de la commission des lois de l’Assemblée nationale, Sacha Houlié, a annoncé mercredi 13 décembre que la commission mixte paritaire (CMP) entre députés et sénateurs se réunira le 18 décembre, à 17 heures, pour dégager un compromis sur le projet de loi du gouvernement relatif à l’immigration. « Avec le président de la commission des lois du Sénat, nous venons de décider de convoquer la CMP (…) le lundi 18 décembre à 17 heures », a écrit le député de la Vienne (Renaissance) sur X.
    « Cette commission se met au travail informellement dès aujourd’hui » afin de « préparer » les débats, avait assuré plus tôt dans la journée la présidente de l’Assemblée nationale, Yaël Braun-Pivet, en disant espérer, si ces derniers sont « conclusifs », un vote de la loi « avant Noël ». L’élue des Yvelines avait rappelé sur France 2 qu’« aujourd’hui personne n’a la majorité » dans la future CMP, composée de sept députés et sept sénateurs : ni le camp présidentiel, qui détient la majorité relative à l’Assemblée, ni la droite majoritaire au Sénat. Il faut que « chacun fasse un pas vers l’autre » et « sortir des postures », a affirmé la présidente de l’Assemblée nationale, en résumant : « Il faut trouver un compromis. »De son côté, la première ministre, Elisabeth Borne, devait recevoir à Matignon, mercredi à 11 h 30, les dirigeants des Républicains (LR) pour tenter de trouver un accord, a appris l’Agence France-Presse de plusieurs sources parlementaires. La cheffe du gouvernement, qui était accompagnée du ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, devait échanger avec Eric Ciotti, Olivier Marleix et Bruno Retailleau, respectivement président du parti, chef de file des députés et chef de file des sénateurs de LR.
    Le projet de loi relatif à l’immigration a été rejeté lundi par l’Assemblée nationale avant même d’être débattu, laissant l’exécutif dans une situation de crise inédite. Dès mardi, Emmanuel Macron avait confirmé la poursuite du chemin législatif du projet de loi, l’un des plus importants de son deuxième mandat, écartant toute dissolution ou utilisation du 49.3 en dépit du feu nourri des oppositions. Le président de la République a dénoncé en conseil des ministres le « cynisme » et « le jeu du pire » des oppositions qui veulent « bloquer le pays ». Signe du séisme, le chef de l’Etat a convoqué dans la soirée de mardi un dîner à l’Elysée auquel ont pris part une demi-douzaine de ministres parmi les plus politiques, sa cheffe du gouvernement et des cadres de la majorité, dont les rapporteurs du texte sur l’immigration.
    Le président « souhaite un dialogue constructif mais sincère en CMP pour bâtir un compromis si possible », a résumé un participant. Et si cette CMP échouait, le texte serait donc abandonné, sans nouvelle lecture à l’Assemblée ou au Sénat, après un an et demi de revirements, tractations et péripéties.Sans préciser alors la date de la réunion de la CMP, Emmanuel Macron a souhaité que cela se fasse « dans les meilleurs délais », a affirmé un autre convive du dîner, qui a duré plus de trois heures. Quant à la dissolution, le président a blâmé ceux « autour de la table qui imaginent une dissolution, alors qu’il n’y a même pas lieu de tirer de conclusion générale de cette séquence », affirme un des participants.

    #Covid-19#migrant#migration#france#loimigration#immigration#debatparlementaire#politiquemigratoire

  • Le mythe de l’exode urbain parisien : quelles mobilités en temps de crise sanitaire ?
    https://metropolitiques.eu/Le-mythe-de-l-exode-urbain-parisien-quelles-mobilites-en-temps-de-cr

    Les départs précipités de citadin∙es à l’orée du premier #confinement ont nourri l’idée d’un #exode_urbain. Par des données inédites sur les utilisateurs de Facebook en France, N. Cattan, O. Telle et C. Vacchiani-Marcuzzo en livrent une tout autre lecture, à une très fine échelle territoriale. Dossier : Les #mobilités post-Covid : un monde d’après plus écologique ? Cet article a pour objectif d’étudier les dynamiques des mobilités des Français·es et des Parisien·nes, entre mars 2020 et septembre 2022, afin de #Débats

    / #Covid-19, exode urbain, #réseaux_sociaux, confinement, mobilité, #mobilité_résidentielle, #numérique

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/cattan-etal.pdf

  • Projet de loi « immigration » : les députés rétablissent l’aide médicale d’Etat
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/11/29/projet-de-loi-immigration-les-deputes-retablissent-l-aide-medicale-d-etat_62

    Projet de loi « immigration » : les députés rétablissent l’aide médicale d’Etat
    Gérald Darmanin, qui porte le projet de loi, a qualifié la suppression de l’AME par une majorité de sénateurs de « cavalier législatif évident ».
    Le Monde avec AFP
    Les députés ont supprimé, mercredi 29 novembre, à une très grande majorité, un article introduit par les sénateurs qui entendait transformer l’aide médicale d’Etat (AME) en une simple aide médicale d’urgence (AMU), dans le projet de loi « immigration ».
    « La commission des lois de l’Assemblée nationale vient de rétablir l’aide médicale d’Etat. C’était indispensable. C’est une position juste et forte pour un dispositif indispensable, efficace et évalué de santé publique », a réagi le ministre de la santé, Aurélien Rousseau, sur le réseau social X.
    Le rapporteur général du projet de loi, Florent Boudié (Renaissance), a souligné qu’il s’agissait d’une question relevant de la « santé des individus », mais aussi d’une « question de santé collective ». Il ne s’agit cependant pas de « fermer le débat ». Un rapport sur le sujet, rédigé par Patrick Stefanini et Claude Evin, doit être remis le 4 décembre. Ce rejet n’est pas une surprise, la majorité ayant dès le départ dit qu’elle ne conserverait pas cette disposition qui transformait l’AME en AMU. Il s’agit d’un « cavalier législatif évident », a réaffirmé mercredi le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, c’est-à-dire une disposition n’ayant pas de lien direct avec le texte et susceptible, à ce titre, d’être rejetée par le Conseil constitutionnel.Président du groupe Horizons à l’Assemblée, Laurent Marcangeli a lui aussi estimé que la mesure n’avait pas sa place dans le cadre du texte immigration, et a demandé que, « rapidement, la première ministre fixe les conditions de ce débat, pourquoi pas à l’occasion d’une loi de finances rectificative ».
    La gauche a unanimement dénoncé la mesure. Supprimer l’aide médicale d’Etat serait « dangereux médicalement, absurde économiquement, indigne moralement », a estimé le président du groupe socialiste à l’Assemblée nationale, Boris Vallaud. Le budget de l’AME représente « 0,5 % du budget de la Sécu », une « goutte d’eau dans l’océan », a de son côté affirmé Benjamin Lucas, du groupe écologiste. Seuls Les Républicains (LR) et le Rassemblement national (RN) étaient favorables à cette suppression, proposée par Marine Le Pen depuis « de très nombreuses années », comme l’a rappelé le député RN Yoann Gillet. Le Sénat avait approuvé en première lecture, début novembre, le remplacement de l’aide médicale d’Etat par une aide médicale d’urgence, avec un panier de soins réduit et recentré sur la prise en charge des soins urgents, des maladies graves, des douleurs aiguës, des soins liés à la grossesse ou encore des vaccinations.

    #Covid-19#migrant#migration#france#loimigration#AME#debatparlementaire#sante#santepublique#immigration#migrationirreguliere

  • Discriminations et #politisation ordinaire dans les #quartiers_populaires
    https://metropolitiques.eu/Discriminations-et-politisation-ordinaire-dans-les-quartiers-populai

    S’appuyant sur une enquête collective, Marion Carrel souligne que les expériences des discriminations structurent le rapport au politique dans les quartiers populaires. La politisation ordinaire issue de ces expériences, étouffée par les institutions, constitue une clé d’explication de l’embrasement qui a suivi la mort de Nahel Merzouk le 27 juin 2023 à Nanterre. Le 27 juin 2023 à Nanterre, Nahel Merzouk, 17 ans, était tué à bout portant par un policier invoquant un refus d’obtempérer et la légitime #Débats

    / #discrimination, #émeutes, politisation, #police, quartiers populaires

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-carrel.pdf

  • Projet de loi « immigration » : dix-sept députés LR prêts à voter le texte « si prévaut l’esprit du projet voté par le Sénat »
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/11/26/dix-sept-deputes-lr-prets-a-voter-la-loi-sur-l-immigration-si-prevaut-l-espr

    Projet de loi « immigration » : dix-sept députés LR prêts à voter le texte « si prévaut l’esprit du projet voté par le Sénat »
    Dans un texte publié par « La Tribune Dimanche », ces élus se démarquent de leur président de groupe, Olivier Marleix, qui a prévenu que Les Républicains ne voteront pas le projet de loi s’il n’est pas accompagné d’une réforme de la Constitution.
    Le Monde avec AFP
    Dix-sept députés Les Républicains (LR) se disent prêts à voter le projet de loi sur l’immigration « si prévaut l’esprit du projet du Sénat » à l’issue de son examen à l’Assemblée, une position plus ouverte que celle de la direction du groupe LR sur ce texte qui représente un défi pour le gouvernement.« Nous entendons préserver les principaux acquis du Sénat et améliorer cette loi autant que possible », assurent ces députés, parmi lesquels Julien Dive, Virginie Duby-Muller ou Philippe Juvin, dans leur tribune publiée dans La Tribune Dimanche. Ils renvoient « la balle (…) dans le camp du gouvernement » et de « la majorité présidentielle, de son aile gauche en particulier ».Le président du groupe LR à l’Assemblée, Olivier Marleix, a prévenu mardi que le camp présidentiel ne « doit pas s’attendre à avoir une majorité » sur ce texte, « en tout cas, pas avec nous », s’il n’était pas accompagné d’une réforme de la Constitution.
    La droite fait depuis plusieurs mois d’une réforme de l’article 11 de la Constitution, qui permettrait d’étendre aux questions migratoires l’organisation de référendums, le cœur de ses revendications concernant l’immigration. Mais un référendum sur l’immigration a été écarté par le président Emmanuel Macron à l’issue des deuxièmes rencontres de Saint-Denis, le 17 novembre.
    Pour les dix-sept signataires qui se démarquent de la position de leur chef, « le détricotage du texte du Sénat est évidemment la principale menace pour l’avenir de cette loi ». « Amender oui. Anéantir non », expliquent-ils, rappelant que « la plupart des sénateurs de la majorité présidentielle ont voté le texte au Sénat ».
    Selon eux, la nouvelle rédaction de l’article 3 (devenu 4 bis), qui prévoyait la régularisation des clandestins travaillant dans des secteurs en tension, préserve « le pouvoir discrétionnaire des préfets » et est « une réponse ferme qui ne crée pas un droit opposable au fond ». Leur avis n’est pas partagé par Olivier Marleix, pour lequel l’article 4 bis « n’est pas une bonne solution ».
    Pour autant, le gouvernement, qui ne dispose que d’une majorité relative, parviendra-t-il à éviter le 49.3 sur ce texte ? Selon les calculs d’un cadre de la majorité, si les vingt et un membres du groupe indépendant Libertés, indépendants, outre-mer et territoires apportent leurs suffrages, « il manque dix-huit voix ».
    Le projet de loi « immigration », très durci par la majorité sénatoriale de droite, arrive en débat en commission à l’Assemblée nationale lundi, mettant le gouvernement au défi d’aller chercher une majorité sans déchirer le camp présidentiel.

    #Covid-19#migrant#migration#france#loimigration#immigration#debatparlementaire#politiquemigratoire

  • Projet de loi sur l’immigration : « Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/11/28/projet-de-loi-sur-l-immigration-les-francais-attendent-de-la-representation-

    Projet de loi sur l’immigration : « Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité »
    Tribune Pierre Henry
    président de l’association France Fraternités
    Le débat sur l’immigration et l’asile au Sénat a accouché d’un projet de loi populiste en ce sens que son objet n’est pas d’apporter des solutions à des situations concrètes, mais de permettre à quelques politiciens des droites extrêmes de prendre une posture martiale. Ce projet ne répare rien. En épousant fausses informations, clichés et autres lubies des temps présents, il aggrave en de nombreux cas une situation déjà dramatique. Ce qui fait dire à nombre d’associations et à certaines formations politiques de gauche que ce texte doit dès lors être rejeté en bloc. N’est-ce pas aller vite en besogne ?
    Il y a trois mois, une voie d’espoir transpartisane était apparue avec la publication, le 11 septembre dans le quotidien Libération, d’une tribune de trente-cinq parlementaires appelant à la régularisation par le travail dans les métiers en tension de personnes séjournant sur le sol français depuis plusieurs années. Ce sujet complexe était abordé avec nuance. Pour quelles raisons obscures, éloignées du bien commun, faudrait-il aujourd’hui abandonner cette démarche de bon sens ? Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité. Cette double exigence pourrait être satisfaite à cinq conditions, constitutives d’un compromis acceptable par l’ensemble des forces de progrès et de gouvernement de l’arc républicain, laissant les droites extrêmes à leurs démons.
    La première est celle du maintien en l’état du dispositif d’aide médicale réservé aux étrangers en situation irrégulière : mécanisme de prévention, il représente un bouclier de protection pour l’ensemble des citoyens de ce pays. Il protège tout un chacun, son coût est maîtrisé et représente moins de 0,49 % du budget de l’Assurance-maladie. La fraude y est marginale, parfaitement documentée, et l’existence de ce dispositif est un sas utile pour protéger les urgences hospitalières de l’embolie qui les guette s’il venait à disparaître.
    La deuxième est d’inscrire dans la loi un processus de régularisation permettant aux personnes travaillant dans des métiers qui manquent de main-d’œuvre, résidant en France depuis plusieurs années, de s’y engager en toute confiance et transparence. La situation aujourd’hui est ubuesque à de nombreux égards. Elle oblige les personnes à avoir recours à des mécanismes de fraude (travail sous alias ou sans fiches de paie). Elle les maintient souvent dans l’assistanat à charge de la communauté nationale. Ainsi, plusieurs dizaines de milliers de personnes hébergées dans des structures d’urgence se trouvent privées de toutes perspectives raisonnables d’en sortir.
    La troisième est le rétablissement du droit du sol pour les enfants nés sur le sol français. La République est fraternelle parce qu’elle estime qu’un enfant né en France, même de parents étrangers, qui y a séjourné de manière continue et qui y a passé sa scolarité, devient français à sa majorité parce que la nationalité ne repose pas sur l’ethnie, mais sur la socialisation. Inutile, confuse et discriminatoire, la mesure voulue par le Sénat et consistant à restreindre ce droit nous renvoie au XXe siècle et à la période des ministres de l’intérieur Charles Pasqua (1986-1988 et 1993-1995) et Jean-Louis Debré (1995-1997). La compréhension du monde en marche arrière et l’utilisation de grossiers stratagèmes sont détestables pour qui prétend tenter de régler les problèmes de l’heure.
    La quatrième condition préalable à un compromis doit amener la représentation parlementaire à refuser de pénaliser a priori le séjour irrégulier d’un étranger. Il n’y a aucun motif légitime à cette pénalisation qui n’est que de posture et qui entre en contradiction avec les décisions de la Cour de justice de l’Union européenne. Elle n’aide en rien à ce que des étrangers faisant l’objet d’une mesure d’éloignement administrative ou judiciaire quittent le territoire français.
    Enfin, le projet de loi, dont l’asile n’est pas l’objet principal, entend procéder à une réforme radicale de la procédure d’examen des recours. De l’analyse de ce texte, il ressort qu’à l’aune de l’objectif recherché d’efficacité, ni l’urgence d’une telle réforme ni son bien-fondé ne seraient justifiés. L’essentiel de l’augmentation des délais de jugement constatée n’est pas imputable au fonctionnement collégial de la Cour nationale du droit d’asile (CNDA). La cinquième condition est donc le renoncement à l’instauration d’un juge unique et le maintien de cette collégialité qui contribue à la qualité de l’instruction et des décisions rendues. Elle vaut pluralité de compétences, de regards professionnels et de voix, à l’audience comme en délibéré.
    La noblesse de la politique est en toute chose la recherche d’un compromis. Sur un sujet aussi complexe que la question migratoire, certains font métier de simplisme dans une période propice à toutes les manipulations. Aux démocrates, humanistes et républicains de montrer qu’une voie raisonnable est possible sans céder aux bonimenteurs ! Pierre Henry est président de l’association France Fraternités

    #Covid-19#migrant#migration#france#loimigration#immigration#asile#AME#regularisation#debatparlementaire#CNDA#droit#droitdusol#sante

  • Conflit israélo-palestinien : une #chape_de_plomb s’est abattue sur l’université française

    Depuis les attaques du Hamas contre Israël le 7 octobre 2023, le milieu de la #recherche, en particulier les spécialistes du Proche-Orient, dénonce un climat de « #chasse_aux_sorcières » entretenu par le gouvernement pour toute parole jugée propalestinienne.

    « #Climat_de_peur », « chasse aux sorcières », « délation » : depuis les attaques du Hamas contre Israël, le 7 octobre dernier, et le déclenchement de l’offensive israélienne sur #Gaza, le malaise est palpable dans une partie de la #communauté_scientifique française, percutée par le conflit israélo-palestinien.

    Un #débat_scientifique serein, à distance des agendas politiques et de la position du gouvernement, est-il encore possible ? Certains chercheurs et chercheuses interrogés ces derniers jours en doutent fortement.

    Dans une tribune publiée sur Mediapart (https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/151123/defendre-les-libertes-dexpression-sur-la-palestine-un-enjeu-academiq), 1 400 universitaires, pour beaucoup « spécialistes des sociétés du Moyen-Orient et des mondes arabes », ont interpellé leurs tutelles et collègues « face aux faits graves de #censure et de #répression […] dans l’#espace_public français depuis les événements dramatiques du 7 octobre ».

    Ils et elles assurent subir au sein de leurs universités « des #intimidations, qui se manifestent par l’annulation d’événements scientifiques, ainsi que des entraves à l’expression d’une pensée académique libre ».

    Deux jours après l’attaque du Hamas, la ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche, #Sylvie_Retailleau, avait adressé un courrier de mise en garde aux présidents d’université et directeurs d’instituts de recherche.

    Elle y expliquait que, dans un contexte où la France avait « exprimé sa très ferme condamnation ainsi que sa pleine solidarité envers Israël et les Israéliens » après les attaques terroristes du 7 octobre, son ministère avait constaté « de la part d’associations, de collectifs, parfois d’acteurs de nos établissements, des actions et des propos d’une particulière indécence ».

    La ministre leur demandait de « prendre toutes les mesures nécessaires afin de veiller au respect de la loi et des principes républicains » et appelait également à signaler aux procureurs « l’#apologie_du_terrorisme, l’#incitation_à_la_haine, à la violence et à la discrimination ».

    Un message relayé en cascade aux différents niveaux hiérarchiques du CNRS, jusqu’aux unités de recherche, qui ont reçu un courrier le 12 octobre leur indiquant que l’« expression politique, la proclamation d’opinion » ne devaient pas « troubler les conditions normales de travail au sein d’un laboratoire ».

    Censure et #autocensure

    Le ton a été jugé menaçant par nombre de chercheurs et chercheuses puisque étaient évoquées, une fois de plus, la possibilité de « #poursuites_disciplinaires » et la demande faite aux agents de « signaler » tout écart.

    Autant de missives que des universitaires ont interprétées comme un appel à la délation et qu’ils jugent aujourd’hui responsables du « #climat_maccarthyste » qui règne depuis plusieurs semaines sur les campus et dans les laboratoires, où censure et autocensure sont de mise.

    Au point que bon nombre se retiennent de partager leurs analyses et d’exprimer publiquement leur point de vue sur la situation au Proche-Orient. Symbole de la chape de plomb qui pèse sur le monde académique, la plupart de celles et ceux qui ont accepté de répondre à nos questions ont requis l’anonymat.

    « Cela fait plus de vingt ans que j’interviens dans le #débat_public sur le sujet et c’est la première fois que je me suis autocensurée par peur d’accusations éventuelles », nous confie notamment une chercheuse familière des colonnes des grands journaux nationaux. Une autre décrit « des échanges hyper violents » dans les boucles de mails entre collègues universitaires, empêchant tout débat apaisé et serein. « Même dans les laboratoires et collectifs de travail, tout le monde évite d’évoquer le sujet », ajoute-t-elle.

    « Toute prise de parole qui ne commencerait pas par une dénonciation du caractère terroriste du Hamas et la condamnation de leurs actes est suspecte », ajoute une chercheuse signataire de la tribune des 1 400.

    Au yeux de certains, la qualité des débats universitaires se serait tellement dégradée que la production de connaissance et la capacité de la recherche à éclairer la situation au Proche-Orient s’en trouvent aujourd’hui menacées.

    « La plupart des médias et des responsables politiques sont pris dans un #hyperprésentisme qui fait commencer l’histoire le 7 octobre 2023 et dans une #émotion qui ne considère légitime que la dénonciation, regrette Didier Fassin, anthropologue, professeur au Collège de France, qui n’accepte de s’exprimer sur le sujet que par écrit. Dans ces conditions, toute perspective réellement historique, d’une part, et tout effort pour faire comprendre, d’autre part, se heurtent à la #suspicion. »

    En s’autocensurant, et en refusant de s’exprimer dans les médias, les spécialistes reconnus du Proche-Orient savent pourtant qu’ils laissent le champ libre à ceux qui ne craignent pas les approximations ou les jugements à l’emporte-pièce.

    « C’est très compliqué, les chercheurs établis sont paralysés et s’interdisent de répondre à la presse par crainte d’être renvoyés à des prises de position politiques. Du coup, on laisse les autres parler, ceux qui ne sont pas spécialistes, rapporte un chercheur lui aussi spécialiste du Proche-Orient, qui compte parmi les initiateurs de la pétition. Quant aux jeunes doctorants, au statut précaire, ils s’empêchent complètement d’évoquer le sujet, même en cours. »

    Stéphanie Latte Abdallah, historienne spécialiste de la Palestine, directrice de recherche au CNRS, a été sollicitée par de nombreux médias ces dernières semaines. Au lendemain des attaques du Hamas, elle fait face sur certains plateaux télé à une ambiance électrique, peu propice à la nuance, comme sur Public Sénat, où elle se trouve sous un feu de questions indignées des journalistes, ne comprenant pas qu’elle fasse une distinction entre l’organisation de Daech et celle du Hamas…

    Mises en cause sur les #réseaux_sociaux

    À l’occasion d’un des passages télé de Stéphanie Latte Abdallah, la chercheuse Florence Bergeaud-Blackler, membre du CNRS comme elle, l’a désignée sur le réseau X, où elle est très active, comme membre d’une école de pensée « antisioniste sous couvert de recherche scientifique », allant jusqu’à dénoncer sa « fausse neutralité, vraie détestation d’Israël et des juifs ».

    S’est ensuivi un déluge de propos haineux à connotation souvent raciste, « des commentaires parfois centrés sur mon nom et les projections biographiques qu’ils pouvaient faire à partir de celui-ci », détaille Stéphanie Latte Abdallah, qui considère avoir été « insultée et mise en danger ».

    « Je travaille au Proche-Orient. Cette accusation qui ne se base sur aucun propos particulier, et pour cause (!), est choquante venant d’une collègue qui n’a de plus aucune expertise sur la question israélo-palestinienne et aucune idée de la situation sur le terrain, comme beaucoup de commentateurs, d’ailleurs », précise-t-elle.

    Selon nos informations, un courrier de rappel à l’ordre a été envoyé par la direction du CNRS à Florence Bergeaud-Blackler, coutumière de ce type d’accusations à l’égard de ses collègues via les réseaux sociaux. La direction du CNRS n’a pas souhaité confirmer.

    Commission disciplinaire

    À l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), après la diffusion le 8 octobre d’un communiqué de la section syndicale Solidaires étudiant·e·s qui se prononçait pour un « soutien indéfectible à la lutte du peuple palestinien dans toutes ses modalités et formes de lutte, y compris la lutte armée », la direction a effectué un signalement à la plateforme Pharos, qui traite les contenus illicites en ligne.

    Selon nos informations, une chercheuse du CNRS qui a relayé ce communiqué sur une liste de discussion interne, en y apportant dans un premier temps son soutien, est aujourd’hui sous le coup d’une procédure disciplinaire. Le fait qu’elle ait condamné les massacres de civils dans deux messages suivants et pris ses distances avec le communiqué de Solidaires étudiant·e·s n’y a rien fait. Une « commission paritaire » – disciplinaire en réalité – sur son cas est d’ores et déjà programmée.

    « Il s’agit d’une liste intitulée “opinions” où l’on débat habituellement de beaucoup de sujets politiques de façon très libre », nous précise un chercheur qui déplore le climat de suspicion généralisée qui s’est installé depuis quelques semaines.

    D’autres rappellent l’importance de la chronologie puisque, le 8 octobre, l’ampleur des crimes contre les civils perpétrés par le Hamas n’était pas connue. Elle le sera dès le lendemain, à mesure que l’armée israélienne reprend le contrôle des localités attaquées.

    Autre cas emblématique du climat inhabituellement agité qui secoue le monde universitaire ces derniers jours, celui d’un enseignant-chercheur spécialiste du Moyen-Orient dénoncé par une collègue pour une publication postée sur sa page Facebook privée. Au matin du 7 octobre, Nourdine* (prénom d’emprunt) poste sur son compte une photo de parapentes de loisir multicolores, assortie de trois drapeaux palestiniens et trois émoticônes de poing levé. Il modifie aussi sa photo de couverture avec une illustration de Handala, personnage fictif et icône de la résistance palestinienne, pilotant un parapente.

    À mesure que la presse internationale se fait l’écho des massacres de civils israéliens auxquels ont servi des ULM, que les combattants du Hamas ont utilisés pour franchir la barrière qui encercle la bande de Gaza et la sépare d’Israël, le chercheur prend conscience que son post Facebook risque de passer pour une célébration sordide des crimes du Hamas. Il le supprime moins de vingt-quatre heures après sa publication. « Au moment où je fais ce post, on n’avait pas encore la connaissance de l’étendue des horreurs commises par le Hamas, se défend-il. Si c’était à refaire, évidemment que je n’aurais pas publié ça, j’ai été pétri de culpabilité. »

    Trop tard pour les regrets. Quatre jours après la suppression de la publication, la direction du CNRS, dont il est membre, est destinataire d’un mail de dénonciation. Rédigé par l’une de ses consœurs, le courrier relate le contenu du post Facebook, joint deux captures d’écran du compte privé de Nourdine et dénonce un « soutien enthousiaste à un massacre de masse de civils ».

    Elle conclut son mail en réclamant « une réaction qui soit à la mesure de ces actes et des conséquences qu’ils emportent », évoquant des faits pouvant relever de « l’apologie du terrorisme » et susceptibles d’entacher la réputation du CNRS.

    On est habitués à passer sur le gril de l’islamo-gauchisme et aux attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues.

    Nourdine, chercheur

    Lucide sur la gravité des accusations portées à son égard, Nourdine se dit « démoli ». Son état de santé préoccupe la médecine du travail, qui le met en arrêt et lui prescrit des anxiolytiques. Finalement, la direction de l’université où il enseigne décide de ne prendre aucune sanction contre lui.

    Également directeur adjoint d’un groupe de recherche rattaché au CNRS, il est néanmoins pressé par sa hiérarchie de se mettre en retrait de ses fonctions, ce qu’il accepte. Certaines sources universitaires affirment que le CNRS avait lui-même été mis sous pression par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche pour sanctionner Nourdine.

    Le chercheur regrette des « pratiques vichyssoises » et inédites dans le monde universitaire, habitué aux discussions ouvertes même lorsque les débats sont vifs et les désaccords profonds. « Des collègues interloqués par mon post m’ont écrit pour me demander des explications. On en a discuté et je me suis expliqué. Mais la collègue qui a rédigé la lettre de délation n’a prévenu personne, n’a pas cherché d’explications auprès de moi. Ce qui lui importait, c’était que je sois sanctionné », tranche Nourdine. « On est habitués à passer sur le gril de l’#islamo-gauchisme et aux #attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues », finit-il par lâcher, amer.

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    Sciences Po en butte aux tensions

    Ce mardi 21 novembre, une manifestation des étudiants de Sciences Po en soutien à la cause palestinienne a été organisée rue Saint-Guillaume. Il s’agissait aussi de dénoncer la « censure » que subiraient les étudiants ayant trop bruyamment soutenu la cause palestinienne.

    Comme l’a raconté L’Obs, Sciences Po est confronté à de fortes tensions entre étudiants depuis les attaques du Hamas du 7 octobre. Le campus de Menton, spécialisé sur le Proche-Orient, est particulièrement en ébullition.

    Une boucle WhatsApp des « Students for Justice in Palestine », créée par un petit groupe d’étudiants, est notamment en cause. L’offensive du Hamas y a notamment été qualifiée de « résistance justifiée » et certains messages ont été dénoncés comme ayant des relents antisémites. Selon l’hebdomadaire, plusieurs étudiants juifs ont ainsi dit leur malaise à venir sur le campus ces derniers jours, tant le climat y était tendu. La direction a donc convoqué un certain nombre d’étudiants pour les rappeler à l’ordre.

    Lors d’un blocus sur le site de Menton, 66 étudiants ont été verbalisés pour participation à une manifestation interdite.

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    En dehors des cas particuliers précités, nombre d’universitaires interrogés estiment que le climat actuel démontre que le #monde_académique n’a pas su résister aux coups de boutoir politiques.

    « Ce n’est pas la première fois qu’une telle situation se produit », retrace Didier Fassin. « On l’avait vu, sous la présidence actuelle, avec les accusations d’islamo-gauchisme contre les chercheuses et chercheurs travaillant sur les discriminations raciales ou religieuses. On l’avait vu, sous les deux présidences précédentes, avec l’idée qu’expliquer c’est déjà vouloir excuser », rappelle-t-il en référence aux propos de Manuel Valls, premier ministre durant le quinquennat Hollande, qui déclarait au sujet de l’analyse sociale et culturelle de la violence terroriste : « Expliquer, c’est déjà vouloir un peu excuser. »

    « Il n’en reste pas moins que pour un certain nombre d’entre nous, nous continuons à essayer de nous exprimer, à la fois parce que nous croyons que la démocratie de la pensée doit être défendue et surtout parce que la situation est aujourd’hui trop grave dans les territoires palestiniens pour que le silence nous semble tolérable », affirme Didier Fassin.

    Contactée, la direction du #CNRS nous a répondu qu’elle ne souhaitait pas s’exprimer sur les cas particuliers. « Il n’y a pas à notre connaissance de climat de délation ou des faits graves de censure. Le CNRS reste très attaché à la liberté académique des scientifiques qu’il défend depuis toujours », nous a-t-elle assuré.

    Une répression qui touche aussi les syndicats

    À la fac, les syndicats sont aussi l’objet du soupçon, au point parfois d’écoper de sanctions. Le 20 octobre, la section CGT de l’université Savoie-Mont-Blanc (USMB) apprend sa suspension à titre conservatoire de la liste de diffusion mail des personnels, par décision du président de l’établissement, Philippe Galez. En cause : l’envoi d’un message relayant un appel à manifester devant la préfecture de Savoie afin de réclamer un cessez-le-feu au Proche-Orient et dénonçant notamment « la dérive ultra-sécuritaire de droite et d’extrême droite en Israël et la politique de nettoyage ethnique menée contre les Palestiniens ».

    La présidence de l’université, justifiant sa décision, estime que le contenu de ce message « dépasse largement le cadre de l’exercice syndical » et brandit un « risque de trouble au bon fonctionnement de l’établissement ». La manifestation concernée avait par ailleurs été interdite par la préfecture, qui invoquait notamment dans son arrêté la présence dans un rassemblement précédent « de nombreux membres issus de la communauté musulmane et d’individus liés à l’extrême gauche et ultragauche ».

    La section CGT de l’USMB n’a pas tardé à répliquer par l’envoi à la ministre Sylvie Retailleau d’un courrier, depuis resté lettre morte, dénonçant « une atteinte aux libertés syndicales ». La lettre invite par ailleurs le président de l’établissement à se plier aux consignes du ministère et à effectuer un signalement au procureur, s’il estimait que « [le] syndicat aurait “troublé le bon fonctionnement de l’établissement” ». Si ce n’est pas le cas, « la répression syndicale qui s’abat sur la CGT doit cesser immédiatement », tranche le courrier.

    « Cette suspension vient frontalement heurter la #liberté_universitaire, s’indigne Guillaume Defrance, secrétaire de la section CGT de l’USMB. C’est la fin d’un fonctionnement, si on ne peut plus discuter de manière apaisée. »

    Le syndicat dénonce également l’attitude de Philippe Galez, qui « veut désormais réguler l’information syndicale à l’USMB à l’aune de son jugement ». Peu de temps après l’annonce de la suspension de la CGT, Philippe Galez a soumis à l’ensemble des organisations syndicales un nouveau règlement relatif à l’utilisation des listes de diffusion mail. Le texte limite l’expression syndicale à la diffusion « d’informations d’origine syndicale ou à des fins de communication électorale ». Contacté par nos soins, le président de l’USMB nous a indiqué réserver dans un premier temps ses « réponses et explications aux organisations syndicales et aux personnels de [son] établissement ».

    Interrogé par Mediapart, le cabinet de Sylvie Retailleau répond que le ministère reste « attaché à la #liberté_d’expression et notamment aux libertés académiques : on ne juge pas des opinions. Il y a simplement des propos qui sont contraires à la loi ».

    Le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche fait état de « quelques dizaines de cas remontés au ministère ». Il reconnaît que des événements ont pu être annulés pour ne pas créer de #trouble_à_l’ordre_public dans le climat actuel. « Ils pourront avoir lieu plus tard, quand le climat sera plus serein », assure l’entourage de la ministre.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/211123/conflit-israelo-palestinien-une-chape-de-plomb-s-est-abattue-sur-l-univers
    #université #Israël #Palestine #France #7_octobre_2023 #délation #ESR

  • Analyse : « Projet de loi Darmanin : Vérités et contrevérités » — #François_Héran

    Le projet de loi Immigration et asile, présenté au Conseil des ministres en février 2023 par Gérald Darmanin, ministre de l’Intérieur, et amendé par la Commission des lois du Sénat en mars 2023, doit être finalement débattu par les sénateurs le 6 décembre 2023. Or les #débats et #controverses autour de ce projet manient sans cesse des arguments chiffrés, qui interpellent les chercheurs en statistique sociale et en #économie. Leur devoir est de vérifier les assertions chiffrées de la sphère politique. Ce faisant, ils ne sortent pas de leur neutralité pour investir le champ politique : ce sont les politiques qui multiplient les incursions dans la sphère des chiffres. C’est une bonne chose que les politiques argumentent sur des #données. Encore doivent-ils respecter les règles de méthode les plus élémentaires et tenir compte des données comparatives collectées en Europe.

    D’où la #vérification, proposée ici, d’une série de faits majeurs en matière d’immigration complétée en annexe par un fact-checking juridique sur la portée réelle de l’article 8 de la Convention européenne des droits de l’Homme.

    Le but poursuivi ici est simple : nourrir le débat en essayant de raison garder.

    Plan :

    - VRAI ou FAUX : « Nous avons perdu la maîtrise de l’immigration »
    - VRAI ou FAUX : « Le #regroupement_familial, pompe aspirante de l’immigration »
    - VRAI ou FAUX : « La France championne d’Europe de la demande d’asile »
    - VRAI ou FAUX : La France, du moins, « a pris sa part » dans l’accueil des exilés
    - VRAI ou FAUX : « Nous avons rendu la France particulièrement attractive pour les migrants »
    - Pour un débat rationnel sur le projet de loi Darmanin
    – Annexe : L’article 8 de la Convention européenne des droits de l’Homme

    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2023/10/31/projet-loi-darmanin-verites-et-contreverites
    #loi_immigration #France #chiffres #statistiques #fact-checking #attractivité #migrations #asile #réfugiés

  • Meloni, accordo con Rama prevede 2 centri migranti in Albania

    “L’accordo prevede di allestire centri per migranti in Albania che possano contenere fino a 3mila persone”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro dell’Albania Edi Rama. “L’accordo che sigliamo oggi – ha aggiunto - arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione” tra i due Paesi e “quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra Stati Ue e Stati per ora extra Ue – per ora - è fondamentale”. “In questi due centri” i migranti resteranno “il tempo necessario per le procedure e una volta a regime nei centri ci potrà essere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone”. “L’accordo non riguarda i minori e donne in gravidanza ed i soggetti vulnerabili – precisa – la giurisdizione sarà italiana. L’Albania collabora sulla sorveglianza esterna delle strutture. All’accordo che disegna la cornice, seguiranno una serie di protocolli. Contiamo di rendere operativi i centri in primavera”. (ANSA).

    https://it.euronews.com/2023/11/06/meloni-accordo-con-rama-prevede-2-centri-migranti-in-albania

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

    ajouté à la Métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

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    Et ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Migranti, accordo Italia-Albania. Meloni: “Centri italiani nel loro Paese”. Il Pd: “Un pericoloso pasticcio”. Ue: “L’Italia rispetti il diritto comunitario”

      Il premier Edi Rama ricevuto a Palazzo Chigi dove è stato siglato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi. Accoglieranno fino a 3mila persone, solo coloro che saranno salvati in mare. Protestano + Europa e Avs

      La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi il primo ministro dell’Albania Edi Rama. «Sono contenta di annunciare con lui un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migranti. L’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania. C’è una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità – dice Meloni durante le dichiarazioni congiunte con il collega albanese – L’accordo prevede di allestire due centri migranti in Albania che possano contenere fino 3mila persone. E arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione» tra i due Paesi e «quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra stati Ue e stati - per ora - è fondamentale».

      Un accordo contro cui si scagliano le opposizioni e che il Pd definisce “un pericoloso pasticcio”. Mentre da Bruxelles un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos dice: «Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

      L’incontro tra i due primi ministri è stata anche l’occasione per ribadire il sostegno dell’Italia all’ingresso di Tirana in Ue. "L’Albania si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un paese membro e questa è una delle ragioni per cui sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. E ancora. «L’Ue non è un club. Quindi, io non parlo di ingressi ma di riunificazione dei Balcani occidentali che sono Paesi Ue a tutti gli effetti», osserva Meloni. Che ricorda anche come l’Italia sia «il primo partner commerciale dell’Albania. Il nostro interscambio vale circa il 20% del Pil albanese. Ci sono intensi rapporti culturali e sociali. È una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità. L’accordo di oggi arricchisce questa collaborazione con un ulteriore tassello», conclude la premier.
      Le reazioni

      Se la destra plaude all’intesa tra l’Italia e l’Albania, le opposizioni insorgono. «L’accordo che il governo Meloni ha raggiunto con il governo albanese sembra configurarsi come un pericoloso pasticcio, parecchio ambiguo. Se infatti si è, come sembra, di fronte a richiedenti asilo, appare assolutamente inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse, come annunciato, le procedure di verifica delle domande d’asilo», attacca Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie della segreteria nazionale del Pd. “Praticamente si crea una sorta di Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori dell’Ue senza che possa esserci la possibilita’ di controllare lo stato di detenzione delle persone rinchiuse in questi centri"., protesta Riccardo Magi, segretario di Più Europa. E Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinisra aggiunge: Quello che il governo ha definito come un ’importantissimo protocollo di intesa’ non è altro che una politica di respingimento mascherata da cooperazione internazionale. Il governo italiano –prosegue - sta delegando la gestione dei migranti irregolari, di fatto esternalizzando le proprie responsabilità, con il rischio di creare campi di permanenza che potrebbero non assicurare standard adeguati di accoglienza e rispetto per la dignità umana".

      Ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani replica: «L’accordo rafforza il nostro ruolo da protagonista in Europa ed apre nuove strade di collaborazione nell’Adriatico. Contrasto all’immigrazione irregolare e bloccare la tratta di esseri umani. Queste le priorita’ della nostra politica estera».
      Il protocollo d’intesa

      Il protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migratori siglato oggi, secondo quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi, non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare, fatta eccezione per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Le strutture realizzate, viene spiegato, potranno accogliere complessivamente fino a 3mila immigrati, per una previsione di 39mila persone accolte in un anno. L’accordo si pone un obiettivo di dissuasione rispetto alle partenze e di deterrenza rispetto al traffico di esseri umani.

      La giurisdizione dei due centri per migranti in Albania sarà italiana, spiega ancora Palazzo Chigi. I migranti, viene precisato, sbarcheranno a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening; a Gjader realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. L’Albania collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e sorveglianza. L’Albania, sottolinea ancora Palazzo Chigi, già vede un’importante presenza di forze dell’Ordine e magistrati italiani.
      Rama: “Se l’Italia chiama l’Albania c’è”

      “Se l’Italia chiama l’Albania c’è – risponde Rama – Non sta a noi giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo e altre istituzioni, a noi sta rispondere ’Presente’ quando si tratta di dare una mano. Questa volta significa aiutare a gestire con un pizzico di respiro in più una situazione e difficile per l’Italia". «La geografia è diventata una maledizione per l’Italia, quando si entra in Italia si entra in Ue – spiega il premier Albanese – Noi non abbiamo la forza e la capacità di essere la soluzione ma abbiamo un dovere verso l’Italia e la capacità di dare una mano. L’Albania non fa parte dell’Unione ma è uno Stato europeo, ci manca la U davanti ma ciò non ci impedisce di essere e vedere il mondo come europei».

      https://www.repubblica.it/politica/2023/11/06/news/migranti_meloni_accordo_albania_edi_rama-419723671

      #Gjader #Shengjin #débarquement #identification #screening #premier_accueil #CPR

    • Migrants, accord Italie-Albanie. Meloni : « Des centres italiens dans leur pays ». Adhésion de Tirana à l’UE : « Nous l’avons toujours soutenue »

      Le Premier ministre Giorgia Meloni a reçu le Premier ministre de l’Albanie au Palazzo Chigi Edi Rama. “Je suis heureux d’annoncer avec lui un mémorandum d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires. L’Italie est le premier partenaire commercial de l’Albanie. Il existe déjà une collaboration très étroite dans la lutte contre l’illégalité – a déclaré Meloni lors de la réunion conjointe déclarations avec son collègue albanais – L’accord prévoit la création de centres de migrants en Albanie pouvant accueillir jusqu’à 3 mille personnes. Et il enrichit la collaboration « entre les deux pays avec une étape supplémentaire » et « lorsque nous avons commencé à en discuter, nous sommes partis du l’idée que l’immigration clandestine de masse est un phénomène auquel aucun État de l’UE ne peut lutter seul et que la collaboration entre les États de l’UE est – pour l’instant – fondamentale”.

      La rencontre entre les deux premiers ministres a également été l’occasion de réitérer le soutien de l’Italie à l’entrée de Tirana dans l’UE. “L’Albanie se confirme comme une nation amie et même si elle ne fait pas encore partie de l’Union, elle se comporte comme si elle en était un pays membre et c’est une des raisons pour laquelle je suis fier que l’Italie ait toujours été l’un des pays qui soutiennent l’élargissement. aux Balkans occidentaux”. Et encore. “L’UE n’est pas un club. Je ne parle donc pas d’entrées, mais de la réunification des Balkans occidentaux, qui sont à tous égards des pays de l’UE”, observe encore Meloni. Il rappelle également que l’Italie est “le premier partenaire commercial de l’Albanie. Nos échanges commerciaux représentent environ 20 % du PIB albanais. Il existe des relations culturelles et sociales intenses. C’est une collaboration très étroite qui existe déjà dans la lutte contre l’illégalité. L’accord d’aujourd’hui enrichit cette collaboration d’une étape supplémentaire”, conclut le Premier ministre.

      Le protocole d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires signé aujourd’hui, selon ce que l’on apprend de sources au Palazzo Chigi, ne s’applique pas aux immigrants arrivant sur les côtes et le territoire italiens mais à ceux secourus en mer, à l’exception de les mineurs, les femmes enceintes et les sujets vulnérables. Les structures créées, explique-t-on, pourront accueillir au total jusqu’à 3 mille immigrants, pour une prévision de 39 mille personnes accueillies par an. L’accord vise à dissuader les départs et à décourager la traite des êtres humains.

      « Si l’Italie appelle l’Albanie, elle est là – répond Rama – Ce n’est pas à nous de juger du mérite politique des décisions prises dans ce lieu et dans d’autres institutions, c’est à nous de répondre ‘Présent’ lorsqu’il s’agit de prêter un main. Cette fois, il s’agit d’aider à gérer une situation difficile pour l’Italie avec un peu plus de répit.” “La géographie est devenue une malédiction pour l’Italie, quand vous entrez en Italie, vous entrez dans l’UE – explique le Premier ministre Albanese – Nous n’avons pas la force et Nous avons la capacité d’être la solution, mais nous avons un devoir envers l’Italie et la capacité de lui donner un coup de main. L’Albanie ne fait pas partie de l’Union mais c’est un Etat européen, il nous manque le U devant mais cela ne nous empêche pas d’être et de voir le monde en Européens”.

      https://fr.italy24.press/local/1061085.html

    • Migrants: two structures to manage illegal flows, this is what the Italy-Albania #memorandum_of_understanding provides

      Two structures in Albanian territory under Italian jurisdiction which will serve to manage illegal migratory flows. This is the fulcrum of the memorandum of understanding signed today by Italy and Albania and announced by the Prime Minister Giorgia Meloni and the counterpart Edi Rama. Rama’s “surprise” visit was not officially announced until this morning when a brief note from Palazzo Chigi announced that the two heads of government would meet in the afternoon and that they would subsequently make statements to the press. The discretion of the two governments prevailed and, consequently, also the surprise effect at the time of the announcement. “It is an agreement that enriches the friendship between the two nations,” said Meloni at the time of the announcement, subsequently explaining the details of the agreement which focuses on three primary objectives: combating human trafficking, preventing it and welcoming who has the right to protection. “Albania will grant some areas of the territory”, where Italy will be able to create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to three thousand people who will remain here for the time necessary to process asylum applications and , possibly, for the purposes of repatriation", said Meloni, specifying that the agreement does not concern minors, pregnant women and vulnerable subjects.

      The prime minister also provided details on the areas which will host the two structures which, hopefully, will be ready by spring 2024. “In the port of Shengjin (the seaport located north of Albania) disembarkation and identification procedures will be taken care of, while in another more internal area another structure based on the Repatriation Retention Centers model will be created (Cpr)”, explained Meloni, adding that the Albanian police forces will cooperate to guarantee “the security and external surveillance of the structures”. According to Meloni, the agreement signed today is a further step in the close bilateral cooperation. “Mass illegal immigration is a phenomenon that EU member states cannot face alone and cooperation between EU states and, for now, non-EU states can be decisive,” said the Prime Minister, according to whom Albania confirms itself as a friend not only of Italy but also of the European Union. “Despite not yet being formally part of the EU, Albania is a candidate country but behaves as if it were already a de facto member country of the Union and this is one of the reasons why I am proud of the fact that Italy is has always been one of the greatest supporters of the entry of Albania and the Western Balkans into the Union", added Meloni, who defined the memorandum of understanding “an innovative solution” in the hope that “it can become the model for other agreements of this type”.

      Speaking at the end of Meloni’s statements, Prime Minister Rama – underlining that the idea for the agreement was born during the Prime Minister’s summer holiday in Vlore – he immediately wanted to point out that “when Italy calls, Albania is there”. “Albania is not an EU state, but it is in Europe. It is a European state, and this does not prevent us from seeing the world as Europeans,” said Rama. “We would not have made this agreement with any other EU state. There is an important relationship of a historical, cultural, but also emotional nature, which links Albania with Italy", continued the prime minister. “We can lend a hand and help manage a situation which, as everyone sees, is difficult for Italy. When you enter Italy, you enter Europe, the EU, but when it comes to managing this entry as an EU we know well how things go,” said Rama. “We don’t have the strength to be a solution, but I believe we have a duty towards Italy and a certain ability to lend a hand”, added Rama who then recalled how his country can boast a tradition of hospitality, which began by the thousands of Italians protected after the Second World War. “We have a history of hospitality”, Rama underlined, recalling that Albania welcomed more than half a million war refugees and those fleeing to survive the ethnic cleansing from Kosovo. “We also gave refuge to thousands of Afghan women when NATO abandoned Afghanistan, and to a few thousand Iranians,” added the Albanian prime minister.

      https://www.agenzianova.com/en/news/migrants-two-structures-to-manage-illegal-flows%2C-this-is-what-the-Ita
      #MoU

    • Migranti: Un #Protocollo_d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.osservatoriorepressione.info/migranti-un-protocollo-dintesa-lalbania-opaco-disumano-pri

    • Naufraghi e richiedenti protezione. In collisione con i diritti

      È sbagliato evocare Guantanamo e la detenzione extraterritoriale dei sospetti terroristi negli Usa, ma di certo l’accordo a sorpresa tra Italia e Albania per l’accoglienza di una parte delle persone tratte in salvo dal mare è destinato a far discutere. Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa su un dossier identitario come quello della politica dell’asilo, i cui risultati sono finora rimasti lontani dalle promesse elettorali, e ha servito all’opinione pubblica una soluzione che può presentare come “innovativa”. Ma l’innovazione può entrare in collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati europei e internazionali.

      Anzitutto, il patto Meloni-Rama ha un sottofondo post-coloniale, come l’accordo britannico con il Ruanda a cui sembra ispirarsi: un Paese del “Primo mondo”, forte delle sue risorse politiche ed economiche, dirotta su un Paese meno fortunato e più bisognoso di appoggi l’onere di accogliere sul suo territorio i migranti sgraditi. Si immagina paradossalmente che Paesi con meno risorse e istituzioni più fragili possano ricevere degnamente i profughi che da noi sono visti come un problema. Infatti, quasi tradendo il sottotesto punitivo dell’accordo, si prevede che vengano esentati dal trasferimento in Albania donne in gravidanza, minori, soggetti vulnerabili. E il governo non ha esitato a parlare di una misura finalizzata alla deterrenza nei confronti di quelli che si ostina a definire come immigrati illegali, al pari del modello britannico.

      In realtà nel 2022 il 48% dei richiedenti l’asilo ha ottenuto uno status legale in prima istanza, e ad essi si aggiunge il 72% di coloro che hanno presentato un ricorso giurisdizionale. Dunque, rischiamo di mandare in Albania delle persone che hanno diritto all’asilo. Proprio l’esempio britannico mostra che le corti di giustizia, nazionali ed europee, l’hanno finora bloccato, e la capacità di reggere al vaglio della magistratura sarà un arduo banco di prova dell’accordo.

      Qualcosa non quadra poi riguardo ai numeri: si prevede di realizzare due strutture sul territorio albanese, una per l’identificazione allo sbarco, l’altra per l’accoglienza temporanea, con una capacità di 3.000 posti complessivi, e si prevede di trattare complessivamente 36-39.000 profughi all’anno. Si lascia intendere che basteranno quattro settimane per decidere della loro domanda di asilo, mentre oggi il tempo medio è di circa 18 mesi, senza contare la possibilità di ricorso. È probabile che i profughi languiranno a lungo in Albania e che i numeri dei casi trattati rimarranno assai più bassi di quelli annunciati.

      Ma i problemi più spinosi riguardano l’integrazione dei “deportati”. Se otterranno la protezione internazionale, averli lasciati in un Paese terzo non avrà di certo preparato la strada per la loro futura integrazione in Italia, sotto il profilo della possibilità di apprendere e praticare la lingua italiana, di conoscere la società in cui dovranno inserirsi, di orientarsi nel mercato del lavoro e nel sistema dei servizi. Se invece riceveranno un diniego, occorre chiedersi che ne sarà di loro. La bassissima capacità di rimpatrio forzato da parte delle nostre istituzioni (4.304 persone nel 2022), peraltro simili in questo agli altri Paesi europei, è un dato ormai noto. Se ne occuperanno le autorità albanesi? Con quale protezione dei loro diritti umani inalienabili, per esempio il diritto alle cure mediche necessarie e urgenti, o a non morire di fame?

      La politica dell’immigrazione ci ha abituato da tempo a dichiarazioni enfatiche – basti ricordare i più volte annunciati accordi con la Tunisia – e presunte soluzioni che si rivelano inattuabili. Anche l’accordo Italia-Albania rischia ora di entrare nella serie. O meglio: se non sarà attuato, sarà l’ennesima pseudo-ricetta venduta all’opinione pubblica; se dovesse essere attuato, anche solo parzialmente, tratterà soltanto una minoranza dei casi e sferrerà comunque una picconata alla già traballante architettura giuridica dei diritti umani fondamentali.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-collisione-con-i-diritti

    • Accord migratoire Italie-Albanie : l’#ONU appelle au respect du #droit_international

      L’agence de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a appelé mardi au « respect du droit international relatif aux réfugiés » après l’accord signé lundi entre l’Italie et l’Albanie visant à délocaliser dans ce pays l’accueil de migrants sauvés en mer et l’examen de leur demande d’asile.

      « Les modalités de transfert des demandeurs d’asile et des réfugiés doivent respecter le droit international relatif aux réfugiés », a exhorté le HCR dans un communiqué publié à Genève.

      L’accord signé lundi à Rome par la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama prévoit que l’Italie va ouvrir dans ce pays, candidat à l’adhésion à l’UE, deux centres pour accueillir des migrants sauvés en mer afin de « mener rapidement les procédures de traitement des demandes d’asile ou les éventuels rapatriements ».

      Ces deux centres gérés par l’Italie, opérationnels au printemps 2024, pourront accueillir jusqu’à 3.000 migrants, soit environ 39.000 par an selon les prévisions. Les mineurs, les femmes enceintes et les personnes vulnérables ne seraient pas concernés.

      Le HCR, qui dit n’avoir « pas été informé ni consulté sur le contenu de l’accord », estime que « les retours ou les transferts vers des pays tiers sûrs ne peuvent être considérés comme appropriés que si certaines normes sont respectées - en particulier, que ces pays respectent pleinement les droits découlant de la Convention relative au statut des réfugiés et les obligations en matière de droits de l’Homme, et si l’accord contribue à répartir équitablement la responsabilité des réfugiés entre les nations, plutôt que de la déplacer ».

      Un membre du gouvernement italien a précisé mardi que les migrants seraient emmenés directement vers ces centres, sans passer par l’Italie, et que ces structures seraient placées sous l’autorité de Rome en vertu d’« un statut d’extraterritorialité ». Mais de nombreuses questions sur le fonctionnement d’un tel projet restent en suspens.

      L’Italie est confrontée à un afflux de migrants depuis janvier (145.000 contre 88.000 en 2022 sur la même période). Les règles européennes prévoient que d’une manière générale, le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’UE est responsable du traitement de sa demande d’asile, et les pays méditerranéens se plaignent de devoir assumer une charge disproportionnée.

      https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/071123/accord-migratoire-italie-albanie-l-onu-appelle-au-respect-du-droit-interna

    • Accordo Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo

      #Fulvio_Vassallo_Paleologo: «Un protocollo opaco, disumano e privo di basi legali»

      “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel Mediterraneo centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

      Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi da un testo (scarica qui) di nove pagine scarse e 14 articoli che indicano come funzioneranno e verranno gestiti i centri. L’accordo ha una durata di cinque anni e sarà rinnovato automaticamente a meno che una delle due parti non comunichi il proprio dissenso entro sei mesi dalla scadenza. In un anno dovrebbero essere accolte-trattenute circa 36.000 persone. I costi, dalle spese di detenzione alla sicurezza interna, saranno tutti in capo all’Italia, mentre l’Albania fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruiti i centri: uno al porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, e un altro a Gjader, nell’entroterra. I due centri dovrebbero servire per processare entro 30 giorni le richieste di asilo e per trattenere coloro a cui verrà negata la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine oppure del probabile invio in Italia. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.
      L’Italia dovrà farsi carico anche di tutte le spese legate alla costruzione dei centri che dovranno essere aperti per la primavera del 2024. Il Post riporta che il sito albanese Gogo.al ha indicato sommariamente dei costi iniziali (vedi il documento diffuso): “l’Italia verserà all’Albania entro 3 mesi un primo fondo pari a 16,5 milioni. Si prevede che oltre 100 milioni di euro saranno congelati in un conto bancario di secondo livello come garanzia”.

      La presidente del Consiglio doveva battere un colpo, dare un messaggio al suo elettorato e alla maggioranza: il “problema immigrazione”, con gli sbarchi che non accennano a diminuire 1 e il flop dell’accordo con la Tunisia, è sempre una priorità della sua agenda politica, a tal punto che è lei stessa, senza coinvolgere nessun altro ministro, a intestarsi l’operazione e dichiarare il nuovo “punto di svolta”. E’ perciò evidente che questo protocollo si inserisce dentro il solco della narrazione mediatica e normativa, dal decreto Piantedosi sulle Ong, al cosiddetto decreto Cutro, fino alla proclamazione dello stato di emergenza dell’11 aprile e alle altre modifiche ai danni di minori e richiedenti asilo, dove vale tutto per raggiungere l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli arrivi delle persone migranti.

      Tuttavia, tutti questi tentativi, dall’esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo fino a portare fisicamente le persone in Paesi extra Ue, non sono una prerogativa solo del governo Meloni, ma hanno avuto in questi anni diversi promotori e, pur con delle differenze tra loro, una stessa matrice ideologica anti-migranti: per esempio, i respingimenti a catena dall’Italia alla Bosnia-Erzegovina, non hanno poi uno scopo così diverso dagli accordi tra Inghilterra e Ruanda.

      Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo si tratta dell’ennesimo annuncio propagandistico del governo in quanto il protocollo d’intesa è «opaco, disumano e privo di basi legali».

      «Nulla infatti – fa notare l’esperto di diritto di asilo e immigrazione – è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su quali autorità effettuano i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?», si domanda.

      Nel protocollo – si legge nel testo – le autorità italiane avranno piena responsabilità all’interno dei centri, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento».

      «La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi – spiega l’esperto – al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici)».

      «In quell’occasione – prosegue Paleologo – la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama».

      Anche rispetto la procedura di cosiddetto “sbarco selettivo” tra donne, minori e uomini ci sono diversi problemi di legittimità giuridica in quanto si tratta di una palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio. Anche su questo punto Paleologo è chiaro: «Il diritto di chiedere protezione internazionale è regolato secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo. Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure se sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporrebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera».

      Da Bruxelles, la Commissione UE non esclude del tutto la validità dell’accordo, affermando che il caso è diverso dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto si applicherebbe alle persone che non hanno ancora raggiunto le coste italiane. Sempre secondo l’avvocato Paleologo «il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio».

      «La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana”? Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati.
      Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea», conclude Paleologo.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    • L’accordo Italia-Albania sui migranti? Solo propaganda!

      Il nuovo memorandum d’intesa tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti? Probabilmente solo un « ennesimo annuncio propagandistico » secondo Fulvio Vassallo Paleologo che firma su ADIF [1] un dettagliato articolo che analizza l’annuncio di Giogia Meloni ( non il provvedimento perché questo non esiste ).

      In altre parole, « per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, il “Piano Mattei per l’Africa”, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee ».

      Possibile che il giurista abbia ragione, ma è anche possibile che il fine sia creare terrore in chi in Italia è già; I CPR, ancor di più se in Albani, sono strumentali a schiavizzare i migranti.

      L’avvocato e attivista pro migranti Fulvio Vassallo Paleologo, nell’articolo solleva pure una serie di perplessità giuridiche del progetto della presidente del consiglio italiano di realizzare un CPR in Albania.

      Una tra queste: « qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [e quindi l’Italia, NdR] deve avere una espressa previsione di legge, e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa » [1].

      Come possa assicurarsi, in Albania, la difesa legale del migrante e un procedimento di convalida firmato da un magistrato italiano rappresenta un grande punto interrogativo. « Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? », scrive infatti il giurista nell’articolo.

      Precisa poi Fulvio Vassallo Paleologo come « il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi ».

      Il giudizio finale dell’autore rispetto all’annuncio della Meloni non può, quindi, che essere negativo e drastico: « appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio ».

      Tagliente anche il giudizio rispetto alla firma del leader albanese, Edi Rama: « il Memorandum d’intesa rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità ».

      La differenza tra la verità di Fulvio Vassallo Paleologo e la propaganda della Meloni, tuttavia, la fanno le “visualizzazioni” del sito ADIF rispetto a quelli di Repubblica, La Stampa, Libero, Il Giornale, La Verità, Il Gazzettino, etc dove l’effetto “annuncio” è passato senza commenti critici.

      Fonti e Note:

      [1] ADIF, 7 novembre 2023, Fulvio Vassallo Paleologo, “Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali”.

      https://www.pressenza.com/it/2023/11/laccordo-italia-albania-sui-migranti-solo-propaganda

    • Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.a-dif.org/2023/11/07/un-protocollo-dintesa-con-lalbania-opaco-disumano-e-privo-di-basi-legali

    • Accordo Italia-Albania sui migranti, la UE chiede i dettagli

      L’Italia realizzerà in Albania due centri per la gestione dei migranti che potranno gestire un flusso annuale di 36mila persone. Lo ha dichiarato oggi la premier Giorgia Meloni in conferenza stampa con il primo ministro albanese Edi Rama. Ne parliamo con Genthiola Madhi, ricercatrice di Osservatorio Balcani e Caucaso, e con Andrea Spagnolo, professore di Diritto internazionale e umanitario all’Università di Torino.

      https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/luogo-lontano/puntata/trasmissione-7-novembre-2023-160500-2404283315532563

    • Ecco perché l’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo

      Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo.

      Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo.

      Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti.

      Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3).

      Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1).

      Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera.

      Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente.

      Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo.

      Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese.

      La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles).

      Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione.

      Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione.

      All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo.

      Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa.

      Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno.

      Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1).

      Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili.

      La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale.

      Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19).

      In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo.

      Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia.

      Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania.

      https://www.unita.it/2023/11/10/ecco-perche-laccordo-tra-italia-e-albania-e-illegale-tutte-le-procedure-che-vi

    • Ancora lui, ancora Edi

      Periodicamente il primo ministro albanese si occupa dei flussi migratori italiani. Ripassare quali siano le sue motivazioni è utile, anche perché questa volta, forse, ha esagerato. Un commento

      Edi Rama governa l’Albania da più di dieci anni. Le prime elezioni le vinse nel 2013, pochi mesi dopo il “siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” di Pierluigi Bersani. Da noi la sinistra pareggiava con un Berlusconi terminale; sull’altra sponda dell’Adriatico, invece, Edi l’artista, Edi il socialista, l’ex sindaco di Tirana che aveva colorato i palazzi, archiviava per sempre la stagione di Sali Berisha. Voltava pagina. “Come sono avanti questi albanesi”, è il qualunquismo mezzo di sinistra e mezzo di disprezzo che da allora dedichiamo ai nostri vicini. E su questa carenza di conoscenza, da più di un decennio, periodicamente, Edi Rama lucra politica. Non lo vediamo perché per vederlo bisogna considerare l’Albania uno stato. E invece per noi l’Albania è un luogo dell’immaginario, e i sogni non sono portatori di interessi. Non lo vediamo, perché la fiction italo-albanese è utile a mascherare la povertà della nostra politica estera.

      L’ultimo gioco di prestigio Rama lo ha regalato lunedì scorso a Palazzo Chigi, questa volta il complice non è stato l’«amico Renzi» (2014), né l’«amico Di Maio» (2021), siccome siamo nel 2023 è stata «l’amica Giorgia Meloni». Non sono certo che commentare il memorandum (https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/11/08/1699429572-Protocollo-Italia-Albania-.pdf?x19465) firmato dai due governi sia utile, non solo perché è evidentemente poco praticabile sul piano pratico e giuridico, ma perché seguo da diversi anni le relazioni tra Italia e Albania e non credo più alle parole che si dicono le due diplomazie. A chi non avesse seguito, basti sapere che nel corso della conferenza stampa (https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-meloni-incontra-il-primo-ministro-della-repubblica-d-albania/24178), la Presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Albania “concederà all’Italia alcune zone del suo territorio” (sic!), sulle quali l’Italia potrà realizzare “a proprie spese e sotto la propria giurisdizione” due strutture “per la gestione dei migranti illegali”. Per l’esattezza il governo ipotizza di portare in Albania tremila persone al mese, che dovrebbero rimanere in questi centri durante la domanda di asilo, negata la quale il richiedente verrebbe allontanato dal territorio albanese (non si capisce per andare dove, se si rimpatria dall’Italia o dall’Albania). Flusso complessivo annuale stimato: 36.000 persone. Come alla fine delle pubblicità dei farmaci, Meloni in chiusura ha messo le avvertenze – “Il protocollo disegna la cornice politica, all’accordo dovranno seguire i provvedimenti normativi conseguenti” – e ha fornito una vaga data di inizio progetto: primavera 2024. Tradotto: questo accordo non esiste, è pura propaganda.

      Nulla di nuovo sotto il sole italo-albanese. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2018, quando la crisi della nave Diciotti bloccata da Salvini nel porto di Catania venne “risolta” dai media manager del governo albanese, che promise su twitter l’accoglienza di 20 migranti, venendo immediatamente ripreso dall’account della Farnesina, e quindi da tutte le agenzie stampa. Anche allora i ministri Salvini e Di Maio (il governo era gialloverde) enfatizzarono la condotta del piccolo paese balcanico “più europeo e più solidale degli stati membri”: a sinistra ci si cullò nel sogno di un paese povero ma ospitale, a destra ci si vantò dei frutti dell’intransigenza del ministro degli Interni, che con il suo “no” aveva imposto una redistribuzione, peraltro a un paese che con il suo gesto ripagava finalmente l’accoglienza degli italiani (come se la Lega Nord degli anni Novanta fosse stata accogliente verso gli albanesi). Giorni di dichiarazioni allucinanti e vuote, perché nessun asilante della Diciotti arrivò mai in Albania (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Nessun-asilante-della-Diciotti-e-mai-arrivato-in-Albania-192453), né alcuna autorità si pose mai il problema che ciò accadesse, essendo illegale il trasferimento di un migrante giunto in Ue in uno stato terzo, fuori dal sistema di asilo europeo.

      Ed è proprio qui che la sparata di Meloni supera quella di Salvini: perché per evitare l’obiezione dell’illegalità di un trasferimento forzato fuori dall’Ue, a questo giro si dice che il porto di Shëngjin e le sue strutture saranno “territorio italiano”, e che da quel territorio i migranti dislocati in Albania potranno chiedere asilo all’Italia. Ammesso e non concesso che sia possibile trasportare i migranti intercettati, poniamo, al largo della Sicilia in un porto a 700 km di mare delle rotte del Mediterraneo centrale (non certo l’approdo più vicino imposto dalle Convenzioni internazionali sul soccorso in mare), davvero non si capisce come sia possibile realizzare una Italia extraterritoriale, capace di organizzare un’accoglienza rispettosa del diritto internazionale fuori dai propri confini. Ma sto contravvenendo al buon proposito di non commentare un memorandum che non diventerà mai operativo. Torniamo alla politica, e in particolare alla politica albanese. Perché, ciclicamente, Edi Rama si occupa delle nostre questioni migratorie?

      Per lo stesso motivo per cui nel 2020 sceneggiò di inviare una squadra di infermieri in Lombardia per aiutare le nostre terapie intensive intasate dal Covid-19 (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Dare-un-senso-alla-solidarieta-del-governo-albanese-200768): il video sulla pista dell’aeroporto di Tirana (https://www.youtube.com/watch?v=XYtgeZjtIko

      ), con i poveri medici già inscafandrati è degno della Corea del Nord (per la cronaca, si trattava di ragazzi inesperti, come emerse negli ospedali del bresciano dove vennero dislocati, sostanzialmente per apprendere le tecniche di contrasto al virus, nel momento in cui la pandemia divampava anche in Albania). Nel 2018, come nel 2020 come nel 2023, per Edi Rama l’obiettivo è sempre uno solo: entrare nel flusso narrativo delle vicende europee, accreditarsi tra i partner come leader d’area e dipingere presso le opinioni pubbliche l’Albania come membro di fatto dell’Unione europea. Cose che aiutano a far dimenticare che su ogni singolo dossier dei negoziati di adesione il suo paese arranca.

      La conferenza stampa di Rama e Meloni non ha raccontato l’avvenimento di un fatto diplomatico. È essa stessa il fatto diplomatico. Dinanzi agli italiani, Rama ha offerto a Meloni la possibilità di fingere che l’Italia abbia una politica estera assertiva (una funzione che lo stato albanese ha svolto altre volte nella storia d’Italia), dinanzi agli europei, Meloni ha offerto a Rama ciò che tutti i governi italiani garantiscono a prescindere dal colore politico: il certificato di europeità. “Non solo l’Albania si conferma una nazione amica dell’Italia – ha dichiarato la Presidente – ma anche una nazione amica dell’Unione europea. Nonostante sia solo un paese candidato si comporta già come un paese membro dell’Unione”. Insomma, da dieci anni il copione è lo stesso, ma i nostri governi cambiano ed ereditano il discorso dal precedente, mentre Rama resta e continua ad affinare la sua interpretazione: “Preferisco far riposare il traduttore”, dice prima di sfoderare il suo italiano, con lo sguardo umile di chi vorrebbe fare di più. E poi va dritto al cuore, dritto sul senso di colpa della sinistra, dritto sul complesso di superiorità della destra: “Non avremmo fatto questo accordo con nessuno stato Ue. Il debito che abbiamo con l’Italia non si paga, ma se l’Italia chiama l’Albania c’è. Se ci sono domande bene, se non ci sono firmiamo e andiamo in vita dopo aver fatto il nostro dovere”.

      Da dieci anni, Edi Rama governa il suo paese con i media stranieri e il consenso che miete all’estero, da Bruxelles ad Ankara (perché esiste anche un copione “orientalista” consolidato, ma questa è un’altra storia: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-candidata-all-Europa-o-provincia-ottomana-195112). Oggi in Albania manca una opposizione credibile, sia a livello nazionale che municipale, principalmente perché opporsi non conviene. La criminalità organizzata è scesa a patti con questo nuovo, singolo, potere. La corruzione non dilaga, è endemica, l’unico metodo possibile. Le riforme richieste dall’Ue arrancano, gli albanesi emigrano in massa: senza barconi, ma chiedendo asilo in nord Europa, come gli eritrei della Diciotti.

      Per tutti questi motivi Edi (che è cresciuto a Rai e Mediaset e conosce il potere ipnotico che l’estero esercita sulla periferia albanese e che il ricordo della migrazione albanese esercita su di noi) ogni tanto un giretto in Italia se lo fa. E proprio per questi motivi, proprio perché l’Albania reale, nonostante la nostra cooperazione e le nostre politiche, oggi è un paese così, noi abbiamo bisogno di un’Albania che ci racconti quanto siamo stati bravi. Che ci confermi che stiamo raccogliendo i frutti dell’accoglienza seminata trenta anni fa. Che ci rassicuri sul fatto che sappiamo stare nel Mediterraneo, e che sul Mare Nostrum disponiamo di tavoli e relazioni che ci consentono di farci ascoltare in Europa. Questa volta, forse, l’hanno sparata troppo grossa. La ricorrente bugia italo-albanese è un’impostura morale che interessa a poche persone, ma sta oltrepassando le soglie della sostenibilità. Il risveglio rischia di essere molto brusco.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Ancora-lui-ancora-Edi-228139

    • Albania Agrees to Host Centres Processing Migrants to Italy

      Albanian Prime Minister Edi Rama has signed an agreement in Rome pledging to host centers that will process the claims of thousands of migrants rescued by Italy at sea.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart, Edi Rama, on Monday in Rome signed an important memorandum of understanding under which Albania has agreed to host centres managing thousands of would-be migrants to Italy rescued at sea.

      “Mass illegal immigration is a phenomenon that no EU state can deal with alone, and collaboration between EU states and non-EU states, for now, is fundamental,” Meloni said.

      “The memorandum has three main goals”, she explained; to combat people smuggling and illegal migration, and to welcome only those that have rights to international protection.

      Under the deal, Italy will set up two centres in Albania, which Meloni said in the end might handle “a total annual flow of 36,000 people”.

      Jurisdiction over the centres will be Italian.

      “Albania will grant some areas of territory”, where Italy will create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to 3,000 people who will remain there for the time needed to process asylum applications and, possibly, for the purposes of repatriation,” said Meloni, Italy’s ANSA news agency reported.

      One centre will be at the northwestern Albanian port of Shëngjin, which will handle disembarkation and identification procedures and where Italy will set up a first reception and screening centre.

      In Gjader, also in north-western Albania, it will set up a second, pre-removal centre, CPR, structure for subsequent procedures, ANSA added.

      The deal does not apply to immigrants arriving on Italian territory but to those rescued in the Mediterranean by Italian official ships – not those rescued by NGOs. It does not apply to minors, pregnant women and vulnerable persons.

      Albania will collaborate on the external surveillance of the centres. A series of protocols will follow that outline the framework. The plan is to make the centres operational in the spring of 2024, Meloni said.

      Since Meloni’s far-right government came into power, one of its priorities has been to reduce the number of people arriving illegally in Italy through the Central Mediterranean or Western Balkan migration routes.

      This goal explains Italy’s renewed political interest in the Balkans. Several top Italian political figures, including Meloni herself and Foreign Minister Antonio Tajani, have been regularly meeting counterparts in Slovenia, Croatia and Albania in the last months. A central point of these meetings has been migration.

      Data published by the Italian Department of Public Safety show that the number of irregular arrivals in Italy in 2023 until November 1, 2023, was 145,314, a 165-per-cent increase compared to 2021, and 64 per cent higher than 2022.

      Albania’s Rama said Albania could not reach a similar agreement with any other country in the EU, citing the unique connections between Albania and Italy and Italians and Albanians.

      Sa far, Albania has had limited capacities to host migrants, most of whom use it as transit country to reach EU countries.

      Rama added that Albania owes the Italian people a debt for “what they did to us from the first day that we arrived on the shores of [Italy] to find support and to imagine and have a better life”.

      After the fall of communism of Albania in 1991, many Albanians fled to Italy’s southern coasts by boat. According to data published in 2021 by the Italian National Institute of Statistic, 230,000 Albanian citizens have acquired Italian citizenship since 1991.

      https://balkaninsight.com/2023/11/06/albania-agrees-to-host-centres-processing-migrants-to-italy

    • Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedures

      “The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and Albania on disembarkation and the processing of asylum applications, concluded last week, raises several human rights concerns and adds to a worrying European trend towards the externalisation of asylum responsibilities,” said today the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović.

      “The MoU raises a range of important questions on the impact that its implementation would have for the human rights of refugees, asylum seekers and migrants. These relate, among others, to timely disembarkation, impact on search and rescue operations, fairness of asylum procedures, identification of vulnerable persons, the possibility of automatic detention without an adequate judicial review, detention conditions, access to legal aid, and effective remedies. The MoU creates an ad hoc extra-territorial asylum regime characterised by many legal ambiguities. In practice, the lack of legal certainty will likely undermine crucial human rights safeguards and accountability for violations, resulting in differential treatment between those whose asylum applications will be examined in Albania and those for whom this will happen in Italy.

      The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalising asylum as a potential ‘quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees, asylum seekers and migrants. However, externalisation measures significantly increase the risk of exposing refugees, asylum seekers and migrants to human rights violations. The shifting of responsibility across borders by some states also incentivises others to do the same, which risks creating a domino effect that could undermine the European and global system of international protection.

      Ensuring that asylum can be claimed and assessed on member states’ own territories remains a cornerstone of a well-functioning, human rights compliant system that provides protection to those who need it. It is therefore important that member states continue to focus their energy on improving the efficiency and effectiveness of their domestic asylum and reception systems, and that they do not allow the ongoing discussion about externalisation to divert much-needed resources and attention away from this. Similarly, it is crucial that member states ensure that international co-operation efforts prioritise the creation of safe and legal pathways that allow individuals to seek protection in Europe without resorting to dangerous and irregular migration routes.”

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/view/-/asset_publisher/ugj3i6qSEkhZ/content/id/261934338

    • German Chancellor Scholz to examine Italy-Albania asylum deal

      The German leader has signalled an openness to study Italy’s recent agreement to hold asylum seekers in centers in Albania. The deal has raised human rights concerns, including from the Council of Europe.

      German Chancellor Scholz has said he will look “closely” at Italy’s plans to establish centers in Albania to hold migrants. Speaking on the sidelines of the congress of European Socialists in the Spanish city of Malaga, he noted that Albania is a candidate for EU membership and that challenges like migration needed to be addressed on a European level, reported Reuters.

      “Bear in mind that Albania will quite soon, in our view, be a member of the EU, implying that we are talking about the question of how can we jointly solve challenges and problems within the European family,” Scholz told reporters on Saturday (November 11).

      The Memorandum of Understanding between the Italian and Albanian governments, announced last week, will see tens of thousands of migrants who were rescued in the Mediterranean housed in closed centers in Albania while authorities assess their asylum requests.

      “Such deals, that have been eyed there, are possible, and we will all look at that very closely,” Scholz stated during the briefing, according to Reuters.

      He emphasized that a clear European course in migration policy was needed “to correct things that have not been right in the past (and) to establish a solidarity mechanism so that not each country on its own has to try and master the challenges alone.”
      ’It becomes less attractive for them to pay big money to smugglers’

      If the Italy-Albania deal is implemented, it would be the first time that such an idea would actually be put in place, Ruud Koopmans, a professor for migration studies and advisor to the German Federal Office for Migration and Refugees, BAMF, told DW in an interview. He referred to unsuccessful attempts by Denmark and the UK to try something similar in Rwanda.

      From a legal perspective, the Italy-Albania deal could become problematic if people who are rescued on Italian territory instead of in international waters are sent to Albania, Koopmans noted. “When people from the Sahara come to Italy and are then sent to Albania, there is no prior connection to Albania. This could be legally problematic.”

      Koopmans said that it could also become difficult to send people back who are rejected. “…(T)his is not easy in practice, as home countries often do not cooperate and documents are missing. This is a problem that Albania will also face. But if people know that they will have to wait in Albania if they are rejected, it becomes less attractive for them to pay big money to smugglers,” he said.

      Discussions on finding solutions to increasing asylum numbers are gaining momentum, Koopmans said. “More and more countries are looking for solutions. Denmark, Austria, the Netherlands and Germany are having discussions along these lines.” Deals like the Italy-Albania agreement could present an opportunity for countries neighboring the EU, in that they could help their efforts to join the bloc, he added.

      Deal could undermine human rights safeguards, Mijatović

      Italy’s deal has raised concerns among Italy’s opposition as well as rights groups who see it as an attack on the right to asylum. The NGO Emergency said that the deal is “in reality, ...a way to block migrants from arriving on Italian soil – and therefore European soil – to ask for asylum, as required by European and international law. (This is) yet another attack on asylum rights and the provisions of Article 10 of our Constitution.”

      Concerns were also expressed by Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović. She warned that the deal’s legal ambiguities could undermine human rights safeguards and accountability. “The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalizing asylum as a potential ’quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees,” she said in a press release on November 13.

      Mijatović urged member states to focus on improving domestic asylum and reception systems and to prioritize safe and legal pathways for protection in Europe.

      Germany announces streamlined asylum process

      The chancellor’s remarks in Malaga came on the heels of an agreement with Germany’s 16 states on a tougher migration policy and increased funding for refugee hosting capacities.

      Faced with an increase in the number of asylum cases filed in Germany, estimated to reach 300,000 this year, the government has announced it will accelerate procedures.

      At all BAMF offices, the procedure for registering asylum seekers now includes photographing and fingerprinting, allowing for immediate data checks to rule out potential multiple identities. The system allows other agencies involved in the asylum process to access biometric data as well, according to BAMF. Arabic names will be transferred into the Latin alphabet to prevent differences in spelling and other mix-ups.

      Furthermore, mobile phone searches will only be conducted on a case-by-case basis, BAMF said, and queries to the Schengen Information System (SIS) will be reduced: if the last SIS search was within 14 days, an additional inquiry is waived.

      A spokesperson from BAMF said that these specific measures would make procedures more efficient, while maintaining high-security standards. The asylum procedure is meant to last 6.7 months on average. However, when considering negative decisions, administrative court proceedings take on average 21.8 months in the first instance, the spokesperson noted.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53194/german-chancellor-scholz-to-examine-italyalbania-asylum-deal

    • Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento

      La Costituzione italiana prevede che la ratifica di trattati internazionali spetti al Presidente della Repubblica, previa, quando occorra, l’autorizzazione con legge del Parlamento (art. 87, Cost.).

      Tutti i tipi di trattati internazionali costituiscono una delle fonti del diritto internazionale, la cui efficacia nell’ambito nazionale deriva da un ordine di esecuzione dato per effetto della loro ratifica che fa sorgere l’obbligo internazionale della loro attuazione interna.

      Come ha ricordato il Ministero degli affari esteri nella sua circolare n. 2/2021 del 30 luglio 2021 “quale che sia la loro denominazione formale (trattati, accordi, convenzioni, memorandum, etc.), i trattati internazionali possono essere conclusi tramite documenti a firma congiunta, scambi di note, scambi di lettere o altre modalità, essendo riconosciuto dal diritto internazionale il principio della libertà delle forme.”

      Gli atti per i quali l’art. 80 Cost. prescrive la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica sono i «trattati che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi».

      La dottrina giuridica afferma che si tratti di una forma di controllo democratico della politica estera e di compartecipazione delle Camere al potere estero del Governo. Anche per tale rilevanza politica complessiva l’art. 72, comma 4 Cost. prescrive che i disegni di legge per la ratifica siano esaminati sempre con procedura legislativa ordinaria.

      Inoltre, è bene ricordare che, in generale, qualsiasi norma non costituzionale deve essere interpretata sempre in modo conforme alla Costituzione, sicché anche questo Protocollo deve essere interpretato in modo conforme all’art. 80 Cost.

      Secondo il Governo, tuttavia, il Protocollo italo-albanese in materia di gestione delle migrazioni non deve essere sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica, perché sarebbe l’attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170.

      Tesi giuridicamente infondata, perché l’art. 19 del Trattato del 1995 prevede soltanto che Italia ed Albania “concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori” e che “riconoscono la necessità di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi della Repubblica Italiana e della Repubblica di Albania e di concludere a tal fine un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale, conformemente alla legislazione vigente”.

      Dunque, nel Trattato del 1995 Italia e Albania si sono accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria soltanto per l’ipotesi prevista nell’art. 19 comma 2 e cioè per regolare l’immigrazione albanese in Italia (che infatti è stata poi regolata con due successivi accordi firmati in forma semplificata nel 1997 e nel 2008), mentre le norme che si riferiscono genericamente alla regolazione e al controllo dei flussi migratori alludono a materie del tutto vaghe e suscettibili delle più diverse applicazioni, future e incerte.

      Pertanto, la mera indicazione che si tratti di un Protocollo sulla “cooperazione in materia migratoria” e il richiamo a due precedenti trattati e accordi non possono certo essere lo strumento per eludere l’obbligo derivante dall’art. 80 Cost. per il Governo di presentare alle Camere un apposito disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e della futura intesa di attuazione.

      Il Protocollo appena firmato prevede disposizioni molto dettagliate che riguardano proprio i casi in cui l’art. 80 Cost. esige la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica, perché:

      – comportano oneri alle finanze, sia perché il Protocollo pone espressamente a carico dell’Italia specifici oneri finanziari, per l’allestimento delle strutture (art. 4, comma 5), per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), per la realizzazione delle strutture necessarie al personale albanese addetto alla sicurezza esterna dei centri (art. 5., comma 2), per la riconduzione nei centri da parte delle autorità albanesi di eventuali migranti usciti illegalmente dai centri (art. 6, comma 6) e per l’impiego dei mezzi e delle unità albanesi (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2), cioè per la realizzazione e gestione dei centri, per il relativo personale, per il trasporto da e per l’Albania degli stranieri trattenuti e per la loro assistenza anche sanitaria (a cui dovrà aggiungersi anche la copertura degli oneri connessi al gratuito patrocinio per le spese di difesa degli stranieri, per quelle di interpretariato e per quelle sullo svolgimento dell’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale e dei giudici che convalideranno il trattenimento e che giudicheranno sugli eventuali ricorsi), sia perché il Protocollo prevede specifici contributi, iniziali (16,5 milioni di euro) e una successiva garanzia di 100 milioni di euro, che devono essere erogati dall’Italia all’Albania i cui importi e scadenze sono specificati in un apposito allegato al Protocollo stesso;

      - comportano modificazioni di leggi, perché il Protocolloper essere effettivamente attuato non soltanto prevede espressamente un’intesa successiva (che, dunque, dovrà essere sottoposta alle Camere congiuntamente al Protocollo), ma prevede norme che comportano operazioni amministrative e giudiziarie concernenti stranieri giunti in Italia e che saranno svolte in Albania, cioè norme non previste dalle attuali leggi italiane. Questo significa che il protocollo, per essere attuato, esige implicitamente la modificazione di tante norme legislative vigenti in Italia, che regolano la condizione giuridica degli stranieri che giungono in Italia e che presentano in Italia una domanda per fruire del diritto di asilo nel territorio della Repubblica italiana (e la condizione giuridica dello straniero e le condizioni per il diritto di asilo sono materie coperte da riserva di legge ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Infatti, in base alle disposizioni del protocollo costoro potranno essere soccorsi da navi italiane, e dunque in territorio italiano, e da qui trasportati poi in Albania per essere sottoposti in territorio albanese a misure restrittive alla libertà personale (e i casi e i modi dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sono materie coperte da riserva assoluta di legge e da riserva di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU); tali restrizioni avverranno mediante provvedimenti disposti e attuati in Albania da autorità italiane in modi che saranno, in tutto o in parte, diversi da quelli già previsti dalle vigenti norme legislative italiane (p. es. occorrerà indicare quale sarà l’autorità di pubblica sicurezza competente dal punto di vista geografico ad adottare i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti di trattenimento, occorrerà individuare la commissione territoriale competente ad esaminare eventuali domande di protezione internazionale, occorrerà dare una nuova applicazione al concetto di “accompagnamento immediato alla frontiera” di persone che in realtà sono già fuori del territorio italiano, occorrerà stabilire modi e garanzie per interpreti, difensori e stranieri durante lo svolgimento in Albania dei colloqui con le autorità di pubblica sicurezza e con i giudici, occorrerà disciplinare i procedimenti di trasporto degli stranieri da e per i centri albanesi);

      – comportano regolamenti giudiziari che riguardano la giurisdizione italiana, sia relativamente alla sua estensione territoriale e personale (inclusa la regolamentazione di eventuali contenziosi sulla responsabilità civile di ciò che accadrà in Albania che saranno espressamente di competenza dei giudici italiani), sia con riguardo alla effettuazione da parte dei giudici italiani nei centri albanesi dei giudizi di convalida dei trattenimenti e degli eventuali giudizi sui ricorsi contro le eventuali decisioni di diniego e di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (occorrerà disciplinare la competenza territoriale del giudice che dovrà giudicare in Albania e le modalità delle notificazioni e dello svolgimento dei giudizi);

      - hanno natura politica, poiché le disposizioni del Protocollo impegnano durevolmente la politica estera italiana, avendo una durata di cinque anni ed essendo state negoziate e stipulate personalmente e pubblicamente dai capi dei Governi dei due Stati e non già da Ministri o da meri funzionari ministeriali, e poiché le premesse del Protocollo espressamente lo motivano con la “comunanza di interessi e di aspirazioni” tra i due Stati e dei due Stati alla prevenzione dei flussi migratori illeciti e della tratta degli esseri umani, e a promuovere la crescente collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania “anche nella prospettiva dell’adesione della Repubblica di Albania all’UE”, che è l’evidente interesse principale di tutte le azioni di politica estera del governo albanese. La grande ed evidente politicità dell’accordo è confermata dalle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Presidente del Consiglio dei ministri al momento della firma del protocollo davanti al Primo ministro albanese: il Protocollo è stato definito «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati, la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania e «un accordo di respiro europeo».

      Inoltre, il Protocollo ha per oggetto misure che attengono alle materie della sicurezza e della difesa nazionale. L’attuazione delle disposizioni previste dal Protocollo comporta il trasporto verso l’Albania di stranieri mediante mezzi delle competenti autorità italiane, il che avverrà in modi sostanzialmente forzati, mediante aerei o navi delle Forze armate italiane, le quali hanno già basi in Albania e alle quali il Governo con l’art. 21 del decreto-legge 19 settembre 2023, n. 124 ha affidato la realizzazione dei centri di permanenza per il rimpatrio, dei punti di crisi e dei centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo, trattandosi di materie che lo stesso articolo del citato decreto-legge attribuisce espressamente alla materia della difesa e della sicurezza la realizzazione.

      Proprio su queste materie la legge n. 25/1997 (e oggi l’art. 10, comma 1, lett. a) del codice dell’ordinamento militare, emanato con d. lgs. n. 66/2010) ha previsto che tutte le deliberazioni del Governo in materia di sicurezza e di difesa debbano essere sempre approvate dal Parlamento. Ciò comporta che dal 1997 sono sottoposti all’esame delle Camere mediante leggi di autorizzazione alla ratifica anche tutti i tipi di accordi internazionali in materia di sicurezza e di difesa.

      *

      È dunque indispensabile l’esame parlamentare del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo protocollo e della sua futura intesa di attuazione e delle norme nazionali che daranno esecuzione nell’ordinamento italiano a questi accordi.

      Va ricordato, infine che:

      – la proposta di legge di autorizzazione alla ratifica non necessariamente deve essere di iniziativa del Governo (la Costituzione non lo prescrive), sicché, come è già accaduto in alcune altre occasioni, in mancanza di una presentazione di un disegno di legge del Governo essa può essere presentata nelle Camere anche da singoli parlamentari;

      – L’Assemblea di ogni Camera ha il potere di presentare alla Corte costituzionale ricorso per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.

      In ogni caso qualora questo Protocollo non sia sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica in conformità con l’art. 80 Cost. non potrà mai essere eseguito, né potrà essere considerato vincolante per l’ordinamento italiano, quale obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost.

      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento

    • Nell’intesa Italia-Albania, la continuità deve preoccuparci quanto la novità

      L’accordo spinge la pratica di esternalizzare le frontiere verso direzioni preoccupanti. Dubbi sulla sua effettiva applicabilità

      A più di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania in materia di “gestione dei flussi migratori”, la mossa del governo italiano ha attirato diverse critiche in ambienti giuridici e militanti per le sue implicazioni in termini di diritti umani e di rispetto della legislazione italiana ed europea in materia di asilo.

      Nella consueta propaganda del governo, l’accordo (reso noto soltanto a operazione conclusa) è stato presentato come un successo diplomatico, un accordo “storico” e “innovativo”. Di fronte alle preoccupazioni sollevate da varie voci, la Presidente del Consiglio non è entrata nel merito, limitandosi a dichiararsi “fiera” di questa azione pionieristica, che “può diventare un modello per altre nazioni di collaborazione tra Paesi Ue e extra Ue” 1.

      Il protocollo prevede l’istituzione di due centri (paradossalmente definiti da alcuni media “di accoglienza”) in territorio albanese, ma sottoposti alla giurisdizione italiana: uno per le procedure di identificazione e gestione delle domande di asilo, l’altro per i rimpatri, sul “modello” dei CPR. È previsto un termine di 28 giorni per valutare le domande di ogni richiedente: una velocizzazione dei tempi che sicuramente andrebbe a discapito dell’accuratezza delle raccolte delle prove e delle valutazioni. Per quanto riguarda il “modello” del centro per i rimpatri, è ormai noto quanto gli abusi fisici e psicologici verso i detenuti siano frequenti, e quante morti evitabili sono state causate da questo sistema.

      I dubbi sulla legittimità e le possibili conseguenze dell’accordo sono tanti e fondati. E nonostante alcune affermazioni di approvazione da parte di politici europei per l’esperimento “interessante”, diversi giuristi esperti di migrazioni e diritto d’asilo hanno espresso le loro riserve sull’intesa. Una dichiarazione di ASGI sottolinea le ragioni per cui la mancata approvazione parlamentare di un accordo come questo non può ritenersi legittima. L’intesa prevede infatti disposizioni su alcune materie (finanziarie, scelte di politica estera, modifiche all’ordinamento giuridico) di cui dovrebbe necessariamente rispondere la rappresentanza democratica 2. Nel merito dei contenuti si è ampiamente espresso Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e attivista, descrivendo l’accordo come “privo di basi legali”.

      Un primo elemento di illegittimità è il trasferimento delle persone soccorse dalle navi italiane in territorio extra-europeo. Non si conoscono poi le attribuzioni delle competenze sulle procedure, le modalità dei rimpatri, i criteri per l’attribuzione delle caratteristiche di “vulnerabilità” che impedirebbero il trasferimento di alcune persone tratte in salvo da navi italiane verso l’Albania.

      Critiche sono arrivate anche da alcune organizzazioni non governative. Emergency ha descritto l’accordo come l’ennesimo attacco al diritto di asilo 3. La non appartenenza dell’Albania all’UE significa l’impossibilità di applicare la legge europea all’azione delle autorità albanesi. Inoltre, per i tempi sbrigativi con cui le persone richiedenti asilo sarebbero valutate, potrebbe non esserci spazio per il diritto al ricorso contro la decisione di rifiuto della domanda. In modo analogo, Amnesty International ha condannato l’accordo come “illegale e impraticabile” 4.

      Sia nelle presentazioni istituzionali sia nelle critiche, si è parlato di questo accordo soprattutto in termini di novità, di rottura con il quadro giuridico esistente. Ma è bene anche enfatizzare anche gli aspetti di continuità di questa scelta politica con il passato. Un’opinione autorevole arriva dal Consiglio d’Europa, che nelle parole della Commissaria per i diritti umani Dunja Mijatović esprime la sua preoccupazione per la tendenza crescente in Europa ad esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo.

      La dichiarazione mette a punto una serie di fattori ambigui e problematici dell’accordo: “le tempistiche degli sbarchi, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità automatica di detenzione senza un adeguato controllo giudiziario, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e a rimedi effettivi […]. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia” 5.

      E sebbene tutte le ambiguità e anomalie implicite nel trattato potrebbero comportarne il fallimento o addirittura l’inapplicabilità, il protocollo d’intesa non fa che aggravare la preoccupante tendenza a esternalizzare le frontiere, ormai consolidata.

      E non è chiaramente una prerogativa esclusiva del governo attuale e delle forze politiche che lo sostengono. Infatti, il memorandum si inserisce perfettamente nel solco di altri accordi, più o meno opachi, che i nostri governi – ma anche altri governi europei e la stessa Unione – sottoscrivono da anni con paesi extra UE. Allora, forse, vale la pena di riflettere su quanto siamo disposti ad accettare, di volta in volta, di sacrificare un pezzo in più dei diritti delle persone in movimento, in una posta al ribasso che ha normalizzato sistemi che producono morte, sfruttamento e torture come inevitabili conseguenze della sacralità dei confini.

      Questa tendenza a esternalizzare tramite accordi con paesi terzi è indice di scarsa democraticità.

      Innanzitutto perché uno strumento come un protocollo d’intesa, o Memorandum of Understanding, è per sua natura “flessibile”. La preferenza sempre più marcata per questo tipo di accordo da parte del governo italiano – si pensi al memorandum con la Libia nel 2017 e con la Tunisia nel 2020 – risponde alle logiche emergenziali con cui sono ormai quasi esclusivamente trattate le questioni legate alle migrazioni.

      Se questo è un vantaggio dal punto di vista del governo, è evidente che la mancanza di controllo sui suoi contenuti e sulla sua eventuale applicazione rappresenta un problema: un memorandum non è legalmente vincolante per le due parti, non è necessariamente sottoposto a ratifiche parlamentare e può essere mantenuto riservato.

      Se si vuole parlare la lingua degli “interessi strategici”, troppo spesso l’unica con cui le istituzioni governative si approcciano alle politiche migratorie, è però una mossa rischiosa e in alcuni casi poco lungimirante. Un paese terzo a cui vengono attribuite determinate prerogative nel controllo dei confini non è un semplice ricettore passivo di politiche neocoloniali. Benché sia evidente che i rapporti di potere sono sbilanciati in favore della controparte europea, è vero anche che accordi di questo tipo hanno dato la possibilità ad alcuni governi di esercitare forme di pressione e influenza. Pressioni che, ovviamente, sono sempre andate a scapito dei diritti delle persone in movimento, usate come merce di scambio per ottenere dei vantaggi. Controlli più serrati si alternano a periodi di “rilascio controllato” dei/delle migranti, a seconda di ciò che il governo appaltante ritiene in quel momento più funzionale ai propri bisogni. È quello che accade ad esempio con Libia, Turchia, Marocco, Tunisia.

      È in questi termini che emerge ancora la continuità con le politiche migratorie degli ultimi decenni. Esternalizzare le frontiere e le procedure permette di sorvolare più di quanto non sia possibile in Italia sulle incombenze giuridiche e burocratiche del sistema di asilo. Ma soprattutto, rende meno visibili le immancabili violazioni associate al sistema di controllo delle migrazioni. Con la creazione di spazi sotto la giurisdizione italiana in un territorio di uno stato terzo, resta da chiarire come sarebbero valutate le responsabilità in caso di carenze gravi nelle strutture, che sono già state riscontrate in moltissime altre strutture europee, e non: sovraffollamento, mancanza di servizi adeguati per i richiedenti, incuria, abusi fisici, somministrazione di psicofarmaci contro la volontà dei soggetti interessati. A chi sarebbe affidata poi la repressione di eventuali rivolte o fughe da parte delle persone detenute?

      Esternalizzare le frontiere ha quindi uno scopo pratico molto preciso: allontanare dal territorio europeo la conoscenza delle sofferenze e degli atti di ribellione delle persone sottoposte al regime delle frontiere, prevenire azioni di monitoraggio e pressioni sul rispetto dei loro diritti da parte della società civile, far svolgere ad altri il lavoro sporco che per cui le istituzioni governative e le forze di polizia europee potrebbero dover essere chiamate a rispondere.

      Sottolineare gli elementi che renderebbero questo accordo illegale e inapplicabile è necessario per prevenire situazioni difficilmente riparabili con gli strumenti a disposizione della legge. Ma potrebbe non bastare: l’esperienza ci ha mostrato come accordi e decreti contrari ad alcuni principi costituzionali e del diritto di asilo abbiano comunque trovato applicazione, soprattutto quando questa è affidata in parte ad autorità di paesi terzi. È fondamentale quindi contestare alle sue radici una gestione emergenziale delle migrazioni, che passa per il solo sistema di asilo senza prevedere canali di ingresso regolari, e che mira a prevenire l’arrivo nel territorio europeo del maggior numero di persone possibile.

      Tweet di Giorgia Meloni: https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1723027124246708620
      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento
      https://www.emergency.it/comunicati-stampa/laccordo-italia-albania-e-lennesimo-attacco-al-diritto-di-asilo-e-sottende
      https://www.amnesty.org/en/latest/news/2023/11/italy-plan-to-offshore-refugees-and-migrants-in-albania-illegal-and-unworka
      https://www.coe.int/hr/web/commissioner/-/italy-albania-agreement-adds-to-worrying-european-trend-towards-externalising-a

      https://www.meltingpot.org/2023/11/nellintesa-italia-albania-la-continuita-deve-preoccuparci-quanto-la-novi

    • Tavolo Asilo e Immigrazione: appello al Parlamento perché non ratifichi il Protocollo Italia-Albania

      L’accordo getta le basi per la violazione del principio di non respingimento e per l’attuazione di pratiche di detenzione illegittima: alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, senza una chiara base legale e nessuna garanzia del diritto di difesa e a un ricorso effettivo

      Il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede che il Protocollo Italia-Albania venga revocato dal Governo e fa fin da ora un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera sull’intesa.

      L’accordo firmato con il governo albanese, violando gli obblighi costituzionali e internazionali del nostro Paese, si pone, come quello con la Tunisia, l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo.

      L’accordo Italia-Albania, così come delineato, comporta infatti il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Il testo dell’intesa non chiarisce se i centri da realizzarsi in Albania saranno destinati alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale e in particolare alle procedure di frontiera o al rimpatrio, ma alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, subendo di fatto un regime di detenzione automatica e prolungata, senza una chiara base legale. Anche la possibilità di controllo giurisdizionale sembra compromessa, così come il diritto di difesa e a un ricorso effettivo. L’Accordo non chiarisce infatti la competenza a convalidare il trattenimento delle persone, né che cosa accadrà alle persone che hanno chiesto protezione internazionale che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata.

      Infine, desta preoccupazione la mancanza nel Protocollo di qualsiasi riferimento alle persone maggiormente vulnerabili, minori, donne, famiglie, vittime di tortura, e di come queste sarebbero salvaguardate dall’applicazione dell’accordo, così come era stato invece annunciato nei giorni scorsi.

      Per questi motivi le Organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione ne hanno chiesto oggi la revoca da parte del Governo durante una conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e il Segretario di +Europa Riccardo Magi, il senatore Graziano Delrio, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, oltre ai deputati Matteo Mauri, Giuseppe Provenzano e Alfonso Colucci.

      Le associazioni hanno inoltre lanciato un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera.

      Per il Tavolo Asilo e Immigrazione

      A Buon Diritto, ACAT, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, DRC Italia, Emergency, Europasilo, Fondazione Migrantes, Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Intersos, Medici del Mondo, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, Save the Children Italia, Senza Confine, Società Italiana Medicina delle Migrazioni, UIL, UNIRE

      Aderiscono inoltre

      AOI, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, Rivolti ai Balcani, Sea Watch e Sos Mediterranée Italia

      https://www.asgi.it/primo-piano/tavolo-asilo-e-immigrazione-appello-al-parlamento-perche-non-ratifichi-il-proto

    • Italy: Parliament to ratify Albania deal to process asylum seekers

      Both of Italy’s houses of parliament will be given the chance to ratify the country’s new deal to process asylum seekers in Albania. The motion was approved after a debate in the lower house on Tuesday.

      Italy’s Foreign Minister Antonio Tajani spoke to Italy’s lower house on Tuesday (November 21), explaining the Italy-Albania deal to process asylum seekers in more detail, and promising that the deal would be presented as a DDL (proposal of a law) and that both houses would have the chance to ratify it before it proceeds.

      In his long speech to the lower house, Tajani reminded parliamentarians that other similar deals with countries like Libya had not been subject to the same ratification process. Originally the Italian government said that the Italy-Albania deal didn’t need to be either, since it was not a treaty and only treaties needed to be ratified by parliament.

      However, in what the opposition has dubbed a “complete U-turn,” two weeks after the Italy-Albania deal was signed, Tajani has announced that it would be presented as a subject for debate by parliamentarians. The government hopes that the debates and ratification process will be “as quick as possible,” since the deal is meant to begin in just a few months, by spring 2024.
      Deal ’is just one additional instrument’ to manage migration

      Fighting the traffickers is “an absolute priority” for the Italian government, said Tajani during his speech to parliament. Referring to the death of a two-year-old girl during a rescue operation on Monday (November 20), Tajani said “we won’t and shouldn’t get used to these kinds of tragedies that are unfolding along our coasts.”

      He proposes that the Italy-Albania deal is just “one additional instrument” to help Italy manage migration. Tajani said that Italy has worked hard to make migration a central tenet of EU debate, and says that Italy and other members of the bloc are all working hard to “stop irregular migration, fight traffickers and strengthen the external borders of the EU.”

      Although Tajani admitted that the deal was “no panacea”, he said that Italy had “deep and historic ties with Albania” and already had joint teams to stop the trade in drugs and migrants. For the benefit of the parliament, Tajani outlined once again that the deal would be entirely paid for by Italy and was expected to cost €16.5 million initially. This would cover the two centers, one at the port and one about 30 kilometers away.

      The initial center at the port will be where people are registered and fingerprinted. They will then be moved to the reception center, where they will have their asylum requests examined. Anyone whose request is refused would be repatriated from there.
      Not comparable to UK-Rwanda deal, says Tajani

      This is no offshoring deal, said Tajani, disputing the accusations that it was “Italy’s Guantanamo” or anything like the UK-Rwanda deal. The centers will be entirely staffed by Italian personnel, be managed under Italian law, and they will come under the jurisdiction of the Italian courts, said Tajani.

      Italy’s foreign minister underlined that “no vulnerable people, women or children” would be sent to these centers. It will be exclusively to process the asylum requests of non-vulnerable migrants from safe countries, explained Tajani, or those who have already had one claim refused, or people waiting for repatriation.

      There will never be more than 3,000 people in the centers at any one time, promised Tajani. Italy will pay Albania for police patrols outside the centers and for any hospital visits that are required. Tajani also assured parliamentarians that all rights to healthcare and safety would be respected and that the only asylum seekers brought to Albania would be by Italian official boats. NGO rescue ships would not be disembarking people in Albania.
      Keeping it within the ’European family’

      Tajani said that the European Commission had already confirmed that the agreement did not violate EU law, since, as Tajani explained quoting EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson, the processing will follow Italian law which is fully in line with European law.

      Several MPs in the debate, including Minister Tajani referenced the fact that the German chancellor had said they would be following the agreement closely and thinking about similar models for their country. According to Tajani, the German Chancellor Olaf Scholz said that since Albania will soon be part of the European family, referring to Albania’s European accession process, processing asylum seekers in Albania was about “solving challenges within Europe” and not offshoring.

      Scholz, speaking in Malaga recently, said that the whole bloc was looking to “reduce irregular migration” and said he thought there should be more deals struck like the EU-Turkey 2016 deal, to help Europe manage migration.

      Increasing the legal pathways to Italy

      Nearing the conclusion of his speech, Tajani underlined that any exceptions to adhering to the rule of international law would be straight out “impossible”. Using the Albania agreement as a model, Tajani said the Italian government was seeking to conclude or extend similar deals with other friendly countries, transit countries and countries of origin.

      Tajani promised that the Italian government would also increase the number of legal pathways into Italy. He said in parliament that the new work permits for migrant workers had already been increased to about 150,000 per year from this year to 2025, compared to 82,000 in 2022.

      At the end of the debate in parliament, a majority of 189 to 126 voted to allow the proposal to continue its passage and be put forward as an official proposal of law (DDL), to be examined and ratified by both houses.
      Critics call deal ’illegitimate’ and ask for it to be revoked

      However, the law was not without its critics. During the debate, Riccardo Magi from the Più Europa (More Europe) party said that the deal “did nothing but increase uncertainty and would take away the fundamental right to personal liberty” of people who may be detained under the deal. He added that he didn’t believe that even the ministers proposing the deal believed it would really be doable.”

      On November 20, Amnesty International and 35 other NGOs, which together form the TAI (Tavalo Asilo e Immigrazione – a forum for the discussion of asylum and immigration) have also criticized the deal, calling it “illegitimate” and saying it should be “revoked.”

      The TAI held a press conference on Tuesday (November 21) where they reiterated that in their opinions, the deal violated international obligations and laws. They said that just like the deal with Tunisia, it was an attempt to “externalize the borders and the right to asylum.”

      According to a press release from the TAI, the Italian migration system is “in chaos and continuously violates the law and the rights of welcome and asylum” that under international law they are forced to offer. TAI accuses the Italian government of “making sure it implements practices in the field which just produce emergencies and discomfort.”

      The TAI says that the Italy-Albania deal “risks seriously violating human rights.” They say that once those people are on an Italian boat, they come under Italian jurisdiction, so they can’t then be transferred to another state to have their asylum requests examined.

      The deal, says TAI, goes against the principle of non-refoulement, whereby a person cannot be sent back to a land where they could knowingly be put in danger. The deal also allows for people to be detained illegitimately, claims TAI.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53392/italy-parliament-to-ratify-albania-deal-to-process-asylum-seekers

    • In Pictures: Sites Where Refugees Will be Hosted In Albania

      BIRN has taken a look at the sites in Albania where a reception centre and a refugee camp will be built in accordance with the controversial agreement reached between the Albanian and Italian governments.

      The agreement was opposed both in Italy and Albania and one of the biggest critics that it received is related to Albania’s capacities to receive 3000 migrants in a month.

      According to the protocol that has been published, a reception centre for migrants will be built inside the Port of Shengjin, in the Lezha area of northern Albania, which will process and register migrants rescued at sea by Italy.

      A second site, which will serve as a refugee camp, will be built in Gjader, a village where a former military air base was built in the 1970s during the communist era.

      Italy’s plan to build migrant centres in Albania has been criticised in both countries, where activists and human rights lawyers have questioned Albania’s capacities to handle the arrangements.

      While the deal has been criticised by human rights experts, lawyers and civil society groups in Italy, in Albania many see it as Prime Minister Edi Rama’s personal initiative, since it was not discussed previously in public.

      The deal allows Italy to set up facilities on Albanian territory for migrants it has rescued at sea, which will accommodate up to 3,000 people at any one time.

      The agreement, which BIRN has seen, although without its annexes, states: “In the event that, for any reason, the [migrant’s] right to stay in the facilities cease to exist”, Italy must immediately transfer these persons out of Albanian territory.

      “Italy will use the port of Shengjin and the Gjader area to establish, at its own expense, two entry and temporary reception facilities for immigrants rescued at sea, capable of accommodating up to 3,000 people, or 39,000 a year, to expedite the processing of asylum applications or potential repatriation”, the text of the protocol notes, adding that jurisdiction over the centres will be Italian.

      “In Shengjin, Italy will handle disembarkation and identification procedures and establish a first reception and screening centre; in Gjader, it will create a model Cpr facility for subsequent procedures. Albania will collaborate with its police forces, for security and surveillance,” it adds.

      https://balkaninsight.com/2023/11/22/in-pictures-sites-where-refugees-will-be-hosted-in-albania
      #photographie #localisation

    • L’intesa con Tirana costerà oltre mezzo miliardo. 142 milioni di euro solo nel 2024

      «Oltre 142 milioni di euro nel 2024, quasi 645 nei cinque anni di validità (prorogabili). È quanto costerà ai contribuenti italiani l’intesa tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e l’omologo Edi Rama per rinchiudere nei centri di trattenimento in Albania i migranti soccorsi in alto mare dalle navi italiane. Soldi che l’esecutivo è andato a cercare raschiando il fondo del barile degli accantonamenti di quattordici ministeri.»

      https://ilmanifesto.it/tagli-a-universita-e-agricoltura-per-fare-i-centri-in-albania
      #coût

    • The 2023 Italy-Albania protocol on extraterritorial migration management

      In November 2023, the Italian government concluded a Memorandum of Understanding (MoU), or Protocol, with the Albanian authorities envisaging extraterritorial migration and asylum management, including detention and asylum processing, in Albania. This Report examines the Protocol in light of EU, regional and international legal standards, and the main responses that it has attracted so far. It concludes that the MoU can be understood as a nationalistic and unilateral arrangement that, while not involving the EU, covers policy areas falling within the scope of European law. The MoU runs contrary to EU constitutive principles enshrined in the Treaties, including the EU Charter of Fundamental Rights, as well as international law. It should be regarded as a non-model in migration and asylum policies as it is affected by far-reaching illegality and unfeasibility grounds undermining both its rationale and implementation.

      https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management
      #extra-territorialité #droit_international #droits_fondamentaux

    • Nouvel avatar de l’externalisation : l’accord Italie-Albanie

      Il y a 20 ans, Plein Droit s’inquiétait des projets européens d’installation, dans des pays non membres de l’Union européenne (UE), de « centres de transit » où seraient enfermées, le temps d’instruire leur demande d’asile, les personnes étrangères ayant franchi illégalement les frontières de l’Union. Évoquant un « cauchemar », l’édito dénonçait l’intention des États membres « de se dégager des responsabilités que la Convention de Genève sur les réfugiés fait peser sur eux », ajoutant : « On devine au prix de quelles pressions, économiques ou non, ces pays accepteront ou se feront imposer ces camps de transit, […] on imagine sans mal l’insécurité à laquelle les demandeurs d’asile seront confrontés, les chantages auxquels ils pourront être soumis de la part des pays condamnés par l’Europe à les accueillir à sa place [1] ».

      Si, depuis, l’externalisation de l’asile a été déclinée de multiples façons [2], le projet de #camps_de_détention situés hors de l’UE, mais juridiquement contrôlés par un État membre, ne s’est jamais concrétisé. Sans doute à cause des #obstacles_juridiques que poserait un tel montage, notamment au regard du respect des droits fondamentaux. Mais aussi parce qu’il suppose de trouver où les implanter : jusqu’ici, les tentatives pour convaincre des pays voisins de se prêter au jeu ont échoué. Lorsqu’en 2018 le Conseil européen a exploré la possibilité de créer, hors du territoire européen, des « #centres_régionaux_de_débarquement » pour y placer des boat people interceptés en Méditerranée, il s’est heurté au refus catégorique des États nord-africains et de l’Union africaine [3].

      Aujourd’hui, le #cauchemar est à nos portes. À la veille de l’adoption du Pacte européen qui entend accélérer la procédure frontalière d’examen des demandes d’asile et renforcer la « dimension externe » de la politique migratoire de l’UE, l’Italie a conclu le 6 novembre, avec l’Albanie, un accord visant à y délocaliser l’accueil de migrants secourus en mer et l’examen des demandes d’asile. Il paraît que c’est au cours de ses vacances en Albanie, l’été dernier, que la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni a posé les bases de cette « pièce importante » de sa stratégie de lutte contre les flux migratoires. Elle y a trouvé l’oreille attentive de son homologue albanais, Edi Rama, prêt à mettre « gratuitement » à la disposition de l’Italie deux zones au nord du pays pour qu’elle y construise les centres sous administration italienne où seront détenus des migrants interceptés en mer par des navires italiens. Le premier, dans une ville côtière, pour y procéder aux premiers soins, aux opérations d’identification, et instruire les demandes d’asile ; le second, sur une base militaire, pour organiser le #rapatriement des personnes qui ne demandent pas l’asile ou ne seront pas reconnues éligibles à une protection. Aux demandeurs d’asile placés dans ces centres qualifiés d’« extraterritoriaux » serait appliquée la procédure accélérée que la loi italienne prévoit pour les requêtes formées à la frontière. Seuls ceux qui obtiendraient une protection seraient admis au séjour en Italie, les autres devant être expulsés.

      L’accord ne pourra cependant entrer en vigueur avant que la Haute Cour albanaise ne se soit prononcée sur sa #constitutionnalité : les membres de l’opposition qui l’ont saisie contestent cette forme de « vente d’un morceau du territoire albanais » qui conduirait, selon un député du parti Più Europa, à la création d’« une sorte de #Guantanamo italien, en dehors de toute norme internationale, en dehors de l’UE [4] ».

      Là n’est pas le seul problème que soulève l’accord, même si Georgia Meloni aimerait que celui-ci devienne « un modèle à suivre ». Un « modèle » qui suscite les réserves du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), à aucun moment « informé ni consulté », et que dénonce la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe. Relevant ses « #ambiguïtés_juridiques », celle-ci liste les multiples questions que l’accord soulève en matière d’équité des procédures d’asile, d’identification des personnes vulnérables et des mineurs, de risque de détention automatique sans contrôle juridictionnel, de conditions de détention, d’accès à l’assistance juridique et de recours effectif... Et met en garde contre le recours croissant à l’externalisation, qui pourrait « créer un effet domino susceptible de saper le système européen et mondial de protection internationale [5] ». De leur côté, plusieurs ONG ont déjà mis en évidence l’incompatibilité de l’accord avec la législation européenne – à laquelle l’Italie est tenue de se conformer – en matière d’asile et d’éloignement [6].

      Les institutions de l’UE semblent moins inquiètes. Pas de réaction du côté des gouvernements, sans doute soulagés de voir l’Italie traiter seule le problème des arrivées d’exilé·es sur ses côtes plutôt que d’être rappelés à une « solidarité européenne » à laquelle ils préfèrent se dérober. Quant à la Commission européenne, elle s’est empressée de préciser que « le droit européen n’est pas applicable en dehors du territoire de l’UE » mais que, « étant donné l’appartenance de l’Italie à l’Union et l’adoption obligatoire d’une législation commune, les règles qui s’appliqueront dans les centres albanais seront effectivement de nature européenne et imiteront le cadre qui s’applique sur le sol italien [7] ». Nous voilà rassurés.

      https://www.gisti.org/spip.php?article7170

    • Protocole d’accord Italie/Albanie sur les migrations : une coopération transfrontière contraire au droit international

      La chambre des députés italienne et la Cour suprême albanaise ont approuvé le protocole d’accord sur les migrations conclu en novembre 2023, respectivement les 24 et 29 janvier 2024. Le réseau Migreurop dénonce des manœuvres qui s’inscrivent dans la continuité des politiques de l’Union européenne (UE) et de ses États membres pour externaliser le traitement de la demande de protection internationale.

      Le 6 novembre 2023, l’Italie a conclu un « accord » avec l’Albanie en vue de délocaliser le traitement de la demande d’asile de certain·e·s ressortissant·e·s étranger·ère·s de l’autre côté de ses frontières [1]. Ce protocole, rendu public le 7 novembre, s’appliquerait aux personnes interceptées ou secourues en mer par les autorités italiennes, qui pourraient être débarquées dans les villes côtières albanaises de Shëngjin et de Gjader. Les personnes reconnues « vulnérables » ne seraient pas concernées par cet accord.

      Celui-ci prévoit, d’ici le printemps 2024, la construction de deux camps [2] financés par l’Italie : l’un destiné à l’évaluation de la demande d’asile, l’autre aux « éventuels rapatriements » [3] (autrement dit, aux expulsions). Alors que le Parlement italien n’a pas été sollicité au moment de la conclusion de l’accord [4], ces structures relèveraient pourtant exclusivement de la juridiction italienne. Contre une compensation financière et une avancée dans le processus d’adhésion à l’UE, l’Albanie aurait donné son accord pour « accueillir » 3 000 personnes par mois sur son territoire et assurer une part active dans les activités de sécurité et de surveillance via ses forces de police [5]. Fortement inspiré par le concept australien de « Pacific solution » [6], ce mécanisme placerait les deux camps sous autorité italienne, avec du personnel italien, en vertu d’un statut d’extraterritorialité.

      Certaines institutions européennes se sont dans un premier temps contentées d’appeler au respect du droit national et international. La Commissaire européenne en charge des affaires intérieures a déclaré, une semaine après que l’accord a été rendu public : « L’évaluation préliminaire de notre service juridique est qu’il ne s’agit pas d’une violation de la législation de l’UE, mais que cela est hors de la législation de l’UE » [7]. Une formulation particulièrement ambiguë, qui n’a pas été éclaircie quand elle a ajouté : « l’Italie se conforme à la législation européenne, ce qui signifie que les règles sont les mêmes. Mais d’un point de vue juridique, il ne s’agit pas de la législation européenne, mais de la législation italienne (qui) suit la législation européenne ».

      La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, a quant à elle rappelé que « la possibilité de déposer une demande d’asile et de la faire examiner sur le territoire des États membres reste une composante indispensable d’un système fiable et respectueux des droits humains », ajoutant que « Le protocole d’accord crée un régime d’asile extraterritorial ad hoc, caractérisé par de nombreuses ambiguïtés juridiques » [8].

      S’il a l’allure d’un accord bilatéral, cet accord s’inscrit dans la continuité de l’externalisation des politiques d’asile menée par les États européens depuis le début des années 2000, se projetant plus ou moins loin des frontières européennes (du Maroc au Rwanda en passant par la Turquie, notamment). De nombreux pays sont en effet tenus de coopérer avec l’UE et ses États membres dans le domaine de l’immigration et de l’asile en échange d’avantages en matière commerciale, de politique étrangère ou d’aide au développement.

      Dans le cas présent, l’Italie, au nom d’un prétendu « partage des responsabilités », pioche dans la mallette à outils à disposition des États pour externaliser le traitement de la demande d’asile. L’Albanie ayant obtenu en 2014 le statut de pays candidat à l’adhésion à l’Union européenne, cette coopération transfrontière représenterait un gage de sa bonne volonté, se donnant ainsi l’image d’être le partenaire-clé des pays européens dans la mise en œuvre de leurs politiques de sélection et de filtrage des personnes étrangères aux frontières extérieures [9]. Cette stratégie utilitariste, mobilisant les personnes en migration comme levier de négociation politique, a déjà été mise en œuvre par le passé à de maintes reprises, et le réseau Migreurop a solidement étayé les effets délétères de tels accords sur les droits des personnes migrantes [10].

      Au-delà de l’opacité et du secret qui a entouré sa conclusion, ce protocole d’accord pose de nombreuses questions :

      Alors même que l’accord ne s’appliquerait pas aux personnes considérées vulnérables, ne peut-on estimer que les personnes rescapées sont de facto vulnérables ? Que le déplacement dans ces centres albanais de personnes rescapées en mer constitue de facto une action qui vulnérabilise ces personnes ?

      Quid du principe de non-refoulement ? En envoyant des personnes en dehors de son territoire, le temps du traitement de la demande d’asile, l’Italie risque de contrevenir au principe de non-refoulement, pourtant énoncé à l’article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés, qui interdit le retour des réfugiés et des demandeurs d’asile vers des pays où ils risquent d’être persécutés [11].

      En pratique, sa mise en œuvre impactera les droits des personnes selon les conditions du débarquement (qui ne sera donc pas le lieu sûr le plus proche comme le prévoit la réglementation internationale) : qu’en sera-t-il du respect de la procédure de demande d’asile, de l’identification de la vulnérabilité, de l’accès à une assistance juridique ? Elle impactera aussi, ensuite, les conditions dans lesquelles les personnes seront détenues, à l’image de ce qui s’est passé dans les hotspots en Grèce, dans lesquels les personnes étaient prisonnières de camps à ciel ouvert [12].

      Qui sera responsable en cas de violations des droits au sein de ces camps ? Quel droit s’appliquera, le droit italien ou le droit albanais ? Comment pourra être garantie l’effectivité des droits dans un territoire localisé à distance de la juridiction responsable, loin des regards ?

      Selon les termes de cet accord, ni les personnes débarquées par les bateaux d’ONG, ni les personnes arrivées de manière autonome ne devraient être concernées. Comment savoir si les autorités italiennes n’élargiront pas cette procédure à tou·te·s les demandeur·euse·s d’asile ? L’accord ne risque-t-il pas, en outre, de mettre en difficulté les conditions dans lesquelles s’effectueront les opérations de recherche et sauvetage des personnes en détresse en mer ? Le tri entre les personnes reconnues vulnérables et les autres se fera-t-il sur le bateau ou en Albanie ?

      Pour les personnes expulsées, le seront-elles depuis l’Italie ou depuis l’Albanie ? De sérieux doutes se posent au regard des déclarations du Premier ministre albanais affirmant qu’elles incomberaient aux autorités italiennes (alors qu’initialement cette tâche devait être effectuée par l’Albanie).

      La détention aurait lieu durant la procédure frontalière et en vue du retour, mais quid des personnes libérées en Albanie : seront-elles renvoyées vers l’Italie ou un autre État ?

      Cet accord tombe-t-il sous le coup du droit européen ou non ? La Commissaire aux affaires intérieures a laissé planer un doute sur la nature européenne des règles qui s’y appliqueraient. La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe a quant à elle pointé du doigt le risque d’un effet domino « susceptible de saper le système européen » si d’autres États décident eux-aussi de transférer leur responsabilité au-delà des frontières européennes [13].

      Les règles édictées dans l’accord politique sur le pacte européen adoptées le 20 décembre 2023 devront-elles s’appliquer sur le territoire albanais car sous juridiction italienne et donc européenne ?

      Et pour finir, se pose la question du coût exorbitant de ces déplacements de populations, mais aussi celui de l’accord négocié avec l’Albanie pour disposer d’une partie de son territoire national, et du fonctionnement-même de ces camps.

      Pour toutes ces raisons, le réseau Migreurop dénonce un protocole d’accord qui n’aurait jamais dû voir le jour. Et à supposer que le gouvernement italien s’obstine dans cette direction, cela ne peut se faire sans que le droit européen et la protection des droits des personnes soient mis en œuvre et respectés. À commencer par celui de demander l’asile dans de bonnes conditions.

      Les mécanismes d’externalisation à l’œuvre – qui se généralisent – violent le droit international avec la complicité des autorités nationales et la complaisance de certaines institutions européennes. Il est urgent de refuser ce contournement incessant du droit qui, loin des regards, s’inscrit dans la stratégie mortifère de mise à distance des personnes étrangères.

      https://migreurop.org/article3230

  • Émeutes urbaines et #politique_de_la_ville
    https://metropolitiques.eu/Emeutes-urbaines-et-politique-de-la-ville.html

    Alors que la Première ministre vient d’annoncer une série de mesures sécuritaires et financières, le géographe Guy Burgel revient sur l’interprétation des #émeutes de l’été 2023. Il propose une refonte de la politique de la ville, à recentrer sur les mesures sociales et non urbanistiques, et en particulier sur la question scolaire. Octobre 2023. Quatre mois à peine après le séisme social qui a ébranlé la France, l’émeute urbaine paraît oubliée par des médias, accaparés par la tragédie du terrorisme et de la #Débats

    / #banlieue, émeutes, politique de la ville, #inégalités, #rénovation_urbaine

  • Proposition de loi visant à interdire l’usage de l’#écriture_inclusive
    Rapport n° 67 (2023-2024), déposé le 25 octobre 2023

    AVANT-PROPOS

    I. ÉCRITURE « INCLUSIVE » OU NOVLANGUE EXCLUANTE ?
    A. DES PRATIQUES QUI SE DÉVELOPPENT RAPIDEMENT
    1. Qu’est-ce que l’écriture dite « inclusive » ?
    2. Un phénomène loin d’être marginal
    B. UNE DÉMARCHE QUI SOULÈVE DE NOMBREUSES DIFFICULTÉS
    1. Une écriture non neutre
    2. Une contrainte importante sur une langue déjà menacée
    3. Une menace pour l’intelligibilité et l’accessibilité des textes
    II. UNE PROPOSITION DE LOI NÉCESSAIRE POUR DISSIPER DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    A. DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    1. Quelques grands principes et deux circulaires
    2. Une jurisprudence hésitante
    B. UNE PROPOSITION DE LOI POUR CLARIFIER LE DROIT
    C. LA POSITION DE LA COMMISSION

    EXAMEN DES ARTICLES

    Article 1er

    Interdiction de l’usage de l’écriture dite inclusive dès lors que le droit exige l’utilisation du français
    Article 2

    Conditions d’application et d’entrée en vigueur de la loi
    Intitulé de la proposition de loi

    EXAMEN EN COMMISSION
    LISTE DES PERSONNES ENTENDUES
    RÈGLES RELATIVES À L’APPLICATION DE L’ARTICLE 45
    DE LA CONSTITUTION ET DE L’ARTICLE 44 BIS
    DU RÈGLEMENT DU SÉNAT (« CAVALIERS »)
    LA LOI EN CONSTRUCTION
    https://www.senat.fr/rap

    /l23-067/l23-067.html
    #France #interdiction #loi #novlangue #langue #menace #intelligibilité #accessibilité #incertitudes_juridiques #jurisprudence #circulaires #proposition_de_loi

    • 中性语言 - 维基百科,自由的百科全书
      https://zh.m.wikipedia.org/wiki/%E4%B8%AD%E6%80%A7%E8%AF%AD%E8%A8%80

      Trop compliqué:e pour moi. Désormais je contournerai le problème en ne m"exprimant plus qu’en chinois, qui ne connait pas le problème de no lamgues.

      Le chinois est une langue super simple qui ne connais ni genre, ni temps ni conjugaison ou déclinaison. Il n’y a mėme pas de singulier ou pluriel. Tu dis simplemen « il y en a plusieurs » avec un seul « mot » (们) qui établit son contexte par sa position. Si tu veux dire expressément qu’il n’y a qu’un seul spécimen de quelque chose ( 一个 x ) tu le dis simplement. S’il est important de savoir s’il s’agit de quelque chose de féminin (女)ou masculin (男), tu fais pareil. Tu ne mentionne expressément que les qualités exceptionnelles, tout le reste est contexte.

      Les juristes ont raison sur un point : il est très difficile voire impossible de formuler des textes de droit en chinois qui ne comportent pas ambiguité. On est confronté en chinois à un nombre d’éléments de grammaire très réduit au profit de la syntaxe. Chaque idéogramme correspond à un nombre élevé de significations différents et parfois contradictoires. Cette particularité fait que le chinois ancient dépasse en complexité le grec antique.

      On peut sans doute affirmer que nos grammaires ont une grande influence sur notre logique, notre manière de penser. Nos batailles liguistiques n’existeraient pas, si nous avions appris à parler et penser d’une manière plus libre, peut-être plus chinoise ;-)

      Voici ce que dit wikipedia en chinois à propos de l’écriture inclusive.

      Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions [1] et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord. En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord . En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .

      Attention, traduction Google

    • Suggérer l’utilisation du kotava comme langue de communication dans l’administration :

      Les substantifs et les pronoms sont invariables ; il n’existe aucun système de déclinaison. Il n’y a pas non plus de genre. Si l’on souhaite insister sur le sexe d’une personne ou d’un animal il est possible d’utiliser les suffixes dérivationnels -ye (pour les êtres vivants de sexe masculin) et -ya (pour les êtres vivant de sexe féminin).

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Kotava

    • Guerre d’usure contre l’écriture inclusive… et l’#égaconditionnalité

      Les #conservateurs, en mal de notoriété, épuisent les féministes avec un énième texte contre l’écriture inclusive. Ce texte veut interdire cette écriture à celles et ceux qui reçoivent des fonds publics. #Anti-égaconditionnalité !

      Quelques jours après l’échec du Rassemblement National (RN), Les Républicains (LR) réussissent à imposer un #débat_parlementaire pour interdire l’écriture inclusive ! Le 12 octobre dernier, le RN avait inscrit un texte dans sa « niche » parlementaire à l’#Assemblée_nationale. Mais il avait fini par le retirer avant de se voir opposer un rejet. Des députés LR qui s’étaient alliés à lui, puis rétractés, réservaient sans doute leurs forces pour soutenir leurs collègues du Sénat.
      Car mercredi 25 octobre, les sénateur.trice.s de la Commission de la culture, de l’éducation et de la communication du Sénat ont adopté une proposition de loi voulant « protéger la langue française  » de ses « #dérives  ». Une proposition qui sera examinée le 30 octobre.

      Le bruit des conservateurs, la fatigue des féministes

      Une #grosse_fatigue a alors gagné le mouvement féministe sur les réseaux sociaux. Impossible de compter le nombre de proposition de lois, de circulaires, de textes outragés, de déclarations solennelles s’attaquant à l’#égalité dans le #langage. Vouloir restaurer la #domination_masculine dans la #langue_française permet aux conservateurs de se faire mousser à bon compte auprès de leur électorat. Et pendant qu’ils occupent le devant de la scène sous les ors de la République, les féministes s’épuisent à démontrer la #justesse de leur combat avec beaucoup moins de moyens pour se faire entendre.

      Le #rouleau_compresseur est en marche. La proposition de la commission sénatoriale, qui avait été déposée par « Le sénateur » -c’est ainsi qu’elle se présente- LR #Pascale_Gruny en janvier 2022, a peu de chance d’aboutir dans sa totalité à une loi tant elle est excessive. Mais elle permet une nouvelle fois de sédimenter le discours conservateur dans l’opinion. Un discours attaché à ce que « le masculin l’emporte ».

      Pascale Gruny a eu les honneurs de l’émission « Les grandes gueules » sur RMC . Elle a pu nier le poids du #symbole : « Que le masculin l’emporte sur le féminin, c’est simplement une règle de grammaire, cela ne veut pas dire que les hommes sont supérieurs aux femmes, c’est ridicule » a-t-elle asséné. « Le but c’est de l’interdire dans les contrats, les publications de la vie privée pour que cela ne s’utilise plus. Et je veux aussi que cela disparaisse de l’#université comme à Sciences-po où c’est obligatoire je crois. »

      Le texte proposé veut très largement bannir l’écriture inclusive « dans tous les cas où le législateur exige un document en français », comme les modes d’emploi, les contrats de travail ou autres règlements intérieurs d’entreprises, mais aussi les actes juridiques. « Tous ces documents seraient alors considérés comme irrecevables ou nuls » s’ils utilisent l’écriture inclusive, dite aussi #écriture_épicène.
      Ces conservateurs ne se sont toujours pas remis de l’approbation, par le Tribunal de Paris en mars dernier, d’inscrire l’écriture inclusive dans le marbre de plaques commémoratives (lire ici).

      Pas de #subvention si le masculin ne l’emporte pas

      Le texte de Pascale Gruny fait même de l’anti-égaconditionnalité en interdisant l’écriture inclusive aux « publications, revues et communications diffusées en France et qui émanent d’une personne morale de droit public, d’une personne privée exerçant une mission de service public ou d’une personne privée bénéficiant d’une subvention publique ». Les journaux qui reçoivent des subventions publiques devraient être concernés ?…

      Rappelons que l’égaconditionnalité des finances publiques revendiquée par les féministes consiste à s’assurer que les #fonds_publics distribués ne servent pas à financer des activités qui creusent les inégalités entre femmes et hommes… Ici on parlerait de patriarcatconditionnalité…

      C’est aussi un combat qui épuise les féministes.

      https://www.lesnouvellesnews.fr/guerre-dusure-contre-lecriture-inclusive-et-legaconditionnalite

      #épuisement #féminisme

    • Pour une fois je me permets d’avoir une opinion alors que d’habitude j’essaie de me tenir aux choses que je sais et de me taire ou de poser de questions par rapports aux autres sujets.

      Ne perdons pas trop de temps avec des discussions inutiles. Si le langage et l’écriture appelés inclusifs deviennent assez populaires parce qu’ils correspondent à une pratique partagée par assez de monde, si cette relative nouveauté est plus qu’un dada des intellectuels, si le peuple adopte ces formes d’expression, aucun décret n’arrêtera leur avancée.

      Je suis content d’avoir été en mesure d’apprendre un français approximatif, assez bon pour me faire comprendre et je ne verrai plus le jour du triomphe ou de la défaite de telle ou telle forme de français. Ces processus durent longtemps.

      Alors je préfère investir un peu de mon temps pour améliorer mes compétences en chinois. Cette langue me promet la même chose qui m’a fait prendre la décision d’apprendre le français. Avec l’apprentissage d’une nouvelle langue on découvre le monde sous d’autres angles, on adopte de nouvelles façons de raisonner et d’agir, on développe une personnalité supplémentaire, on n’est plus jamais seul. Parfois je me demande, ce que ferait mon caractère chinois à ma place quand ma personnalité allemande, française ou états-unienne me fait prendre une décision.

      Ma pratique des langues que je maîtrise changera au rythme auquel je les utiliserai. Je continuerai alors de le mentionner quand le sexe d’une personne a une importance et une signification, si c’est nécessaire pour dire ce que j’ai à dire. Pour le reste je me tiens aux règles qu’on m’a enseignées et aux habitudes que j’ai prises.

      Je comprends la peur de l’invisibilité et le besoin de la combattre parce que je passe une grande partie de ma vie à donner une voix aux personnes qui sont comme moi rendus invisibles par le pouvoir en place, par les mécanismes inscrits dans nos sociétés et par la méchanceté et le dédain des imbéciles. Chaque langue connaît des manières de s’attaquer à ce défi.

      Je suis curieux comment l’écriture et le langage inclusif cohabiteront ou pas avec cette multitude de formes d’expression chères à celles et ceux qui en sont maîtresses et maîtres et les considèrent comme les leurs.

      #écriture_inclusive #français #chinois #dialectes #patois #allemand

    • #mecsplications sur l’inclusivité et détournement de ce qui est préoccupant dans ce post.

      Les langues sont vivantes et tout gouvernement/état qui cherche à imposer aux populations de contrôler leurs expressions du langage tend au totalitarisme. #police_du_langage

      A contrario, l’écriture inclusive est un signe qui déplait aux conservateurs et aux fascistes parce qu’elle est manifestation politique du vivre ensemble, du soin à marquer que les inégalités de genre ne sont plus acceptables et de la résistance vivante à une langue moribonde, celle du patriarcat. Une petite révolution à la barbe des tenants du pouvoir et tout cela uniquement par le langage cela appelle des lois et de la répression.

      Quelle mauvais blague.

      Les rétrogrades de Toulouse ne s’y sont pas trompés, ils ont carrément interdit l’usage de l’écriture inclusive. 23/06/2021
      https://www.ladepeche.fr/2021/06/22/toulouse-pas-decriture-inclusive-au-capitole-9624088.php

      #féminisme #écriture_inclusive

    • #militantisme #langues_vivantes #langue_écrite #langue_parlée

      Et justement : les passions tristes des forces réactionnaires :

      «  Il existe d’autres moyens d’inclure le féminin dans la langue française  », expose la conseillère municipale d’opposition qui juge «  intéressant de réfléchir à ces questions sans passion.  »

      Qu’iels aillent bien tou·tes se faire cuire le cul, ces administrateurs·rices du cheptel humain :-))

    • Mais la française est vraiment horrible, il faut absolument la interdire avant qu’elle ne se diffuse partout, elle va nous falloir rapidement accepter l’écriture inclusive ou toute la morale patriarcale de notre chère Jeanne Jack Rousselle va se retrouver à la ruisselle. Pensez donc à cette genre de traduction

      « Toute l’éducation des hommes doit être relative à les femmes. Leur plaire, leur être utiles, se faire aimer et honorer d’elles, les élever jeunes, les soigner grandes, les conseiller, les consoler, leur rendre la vie agréable et douce : voilà les devoirs des hommes dans toutes les temps, et ce qu’on doit leur apprendre dès l’enfance. »

    • La Monde ne sait pas ce qu’est la pointe médiane, et utilise des pointes de ponctuation (et en les doublant) pour dénoncer la usage qu’elle méconnait. C’est quand même savoureuse.

      sénateur.rice.s

      c’est pourtant simple la pointe médiane c’est à la milieu, comme ça

      sénatrice·s

      la texte législative de ces andouilles qui n’ont rien à asticoter dans leur cervelle a donc été adoptée par la sénate cette nuit

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/31/ecriture-inclusive-le-senat-adopte-un-texte-interdisant-la-pratique-dans-tou

      #les_crétins_du_palais_du_luxembourg

    • C’est difficile de suivre cette débat avec la novlangue employée par les député·es ; par exemple j’ai cherché la terme de wokisme dans la dictionnaire et je n’ai rien trouvée. Et sinon pour pointer une contradiction, elle me semble qu’il y a déjà une loi AllGood qui vise à défendre l’immutabilité éternelle de la française — mais que la startup nachioune n’en a pas grand chose à faire.

    • la enjeu est de montrer que la culture française est sage et docile ( Au-delà de Versailles et de St Cloud c’est la jungle ) et que grâce à macron et toutes celleux accrocs à ses jolies mollettes de roitelet la langue française constitue une socle immuable. (ici j’adore l’aspect sable mouvant de la langue, tu crois que tu la maitrises qu’elle t’appartient enfermé dans les dogmes coloniaux des institutions et hop, nique ta novlangue)

      Iels ont donc si peur que la langue française soit vivante et évolue, je trouve ça juste extraordinaire d’en arriver à légiférer pour un point médian. Enchainez ce point médian tout de suite et jetez le au cachot ! Oui maitre·sse.

    • Le « François » dans tous ses états ...
      #château-Macron (du gros qui fait tache)
      https://seenthis.net/messages/1023508#message1023947

      #tataouinage (?) #québecois
      https://fr.wiktionary.org/wiki/tataouiner
      (Et donc rien à voir avec Tataouine, ville de Tunisie passée dans le langage populaire pour évoquer un endroit perdu au bout du monde)
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Tataouine
      En arabe,
      تطاوين
      se prononce un peu comme Tatooine qui est une planète-désert de l’univers de fiction Star Wars.
      Il n’y a pas de hasard, enfin, si, peut-être, un peu quand même ...

  • #Edwy_Plenel : Israël-Palestine : la question morale

    Si le conflit israélo-palestinien enflamme le monde, c’est parce qu’il porte une question morale universelle : celle de l’égalité des droits. Que la légitimité internationale d’Israël s’accompagne de la négation des droits des Palestiniens n’a cessé de précipiter ce sommeil de la raison qui engendre des monstres. Seule cette lucidité politique est à même de défier la catastrophe en cours.

    LeLe sommeil de la raison produit des monstres. Avant de donner à voir, dans toute leur abomination, les désastres de la guerre (Los Desastres de la Guerra, 1810-1815), le peintre et graveur espagnol Francisco de Goya (1746-1828) avait intitulé ainsi l’une des gravures de sa série Los caprichos à la fin du XVIIIe siècle : El sueño de la razon produce monstruos. On y voit le peintre endormi tandis qu’une volée d’oiseaux nocturnes tourbillonne au-dessus de lui, symbolisant la folie et l’ignorance qui mènent l’humanité à sa perte.

    Nous vivons un moment semblable, d’obscurcissement et d’égarement. Spectateurs effarés, nous découvrons l’horreur des tueries de civils israéliens dans l’attaque terroriste du Hamas tandis que nous suivons l’hécatombe de civils palestiniens à Gaza sous les bombes de l’armée israélienne. Toutes ces vies humaines se valent, elles ont le même prix et le même coût, et nous nous refusons à cette escalade de la terreur où les crimes d’un camp justifieraient les crimes de l’autre. Mais nous nous sentons impuissants devant une catastrophe qui semble irrémédiable, écrite par avance tant ont été perdues, depuis si longtemps, les occasions de l’enrayer (pour mémoire mes alarmes de 2009, de 2010 et de 2014).

    Nous savons bien qu’il n’y a qu’une façon d’en sortir dans l’urgence : un cessez-le-feu immédiat sous contrôle des Nations unies afin de sauver les otages des deux bords, qui ouvrirait la voie à une solution politique dont la clé est la reconnaissance d’un État palestinien ayant lui-même reconnu l’État d’Israël. Mais, s’il peut arriver que d’un péril imminent naisse un salut improbable, cette issue semble un vœu pieux, faute de communauté internationale forte et unie pour l’imposer. Faute, surtout, de détermination des soutiens d’Israël, États-Unis au premier chef, pour freiner une volonté de vengeance qui ne fera qu’accélérer la course à l’abîme.

    Dès lors, comment échapper à un sentiment de sidération qu’aggrave le spectacle de désolation du débat politique et médiatique français ? À mille lieues de sa grandeur prétendue, la France officielle donne à voir son abaissement raciste, jetant la suspicion sur nos compatriotes musulmans et arabes, et son alignement impérialiste, rompant avec l’ancienne position équilibrée de sa diplomatie moyen-orientale. Indifférence aux oppressions et intolérance aux dissidences règnent sur cette médiocrité dont font les frais manifestations et expressions pro-palestiniennes, dans un climat maccarthyste qui distingue tristement notre pays des autres démocraties.

    Que faire ? Il importe déjà d’y voir clair. Ici, la responsabilité du journalisme, associant son devoir professionnel à son utilité sociale, est de trouer cette obscurité, en chassant les passions tristes et en s’éloignant des colères aveugles. Trouver son chemin, arriver à se repérer, réussir à ne pas s’égarer : autant d’impératifs vitaux par temps de propagande, que nous devons servir par une pratique aussi rigoureuse que sensible du métier. Elle suppose de résister au présent monstre de l’information en continu qui fonctionne à l’amnésie, perdant le fil de l’histoire, oubliant le passé qui la détermine, effaçant le contexte qui la conditionne (voir notre entretien-vidéo avec Bertrand Badie sur les mots et l’histoire du conflit).

    Mais il ne suffit pas de rendre compte. Il nous faut aussi échapper à la résignation qui guette, « cette accoutumance à la catastrophe dont le sentiment vague engourdit aujourd’hui tout désir d’action ». La formule est de l’historien Patrick Boucheron dans un récent libelle où il persiste, dans le sillage de Victor Hugo, à vouloir « étonner la catastrophe par le peu de peur qu’elle nous fait ». Secouant ce manteau de poussière dont le poids risque de nous paralyser, Le temps qui reste est une invitation inquiète à ne pas le perdre, ce temps, en refusant de se laisser prendre au piège de la catastrophe, tels des animaux saisis dans des phares, tétanisés et immobilisés par la conscience du péril.

    Car l’habitude, tissée de conformisme et de suivisme, est la meilleure alliée du pire en devenir. Voici donc, à l’instar de lucioles clignotant dans une nuit qui gagne, quelques repères qui nous guident pour affronter les désordres du monde et les folies des hommes. Quatre boussoles morales qui énoncent aussi ce à quoi nous refusons de nous habituer.
    1. Tout soutien inconditionnel est un aveuglement. Quel que soit le camp concerné. Quelle que soit la justesse de la cause.

    Aucun État, aucune nation, aucun peuple, et, partant, aucune armée, aucun parti, aucun mouvement, qui s’en réclame, ne saurait être soutenu inconditionnellement. Car, au-dessus d’eux, il y a une condition humaine universelle, dont découle un droit international sans frontières. Si, en 1948, l’année où est né l’État d’Israël, fut proclamée, à Paris, une Déclaration universelle des droits de l’homme, c’est pour cette raison même : s’ils ne rencontrent aucun frein, les États, les nations ou les peuples, peuvent devenir indifférents à l’humanité et, par conséquent, dangereux et criminels.

    Adoptée à Paris en 1948 par les cinquante-huit États alors représentés à l’Assemblée générale des Nations unies, la Déclaration de 1948 résulte de cette lucidité provoquée par la catastrophe européenne dont nationalisme et racisme furent les ressorts, conduisant au génocide des juifs d’Europe. Français, son rédacteur, René Cassin, Prix Nobel de la paix en 1968, s’était battu pour imposer, dans son intitulé, cette qualification d’« universelle » au lieu d’internationale : façon de signifier qu’un droit supérieur, celui de la communauté humaine, devait s’imposer aux États et aux nations dont ils se prévalent. Autrement dit de rappeler qu’aucun État, qu’aucune nation, qu’aucun peuple ne devrait se dérober, au prétexte de ses intérêts propres, à cette exigence de respect de l’égalité des droits.

    « Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité », énonce l’article premier de la Déclaration universelle des droits de l’homme. Comme la française de 1789, la Déclaration de 1948 dessine l’horizon d’une promesse, toujours inaccomplie et inachevée, sans cesse en chantier et à l’œuvre face aux égoïsmes renaissants des États et au risque qu’ils cèdent aux idéologies de l’inégalité. De ce point de vue, l’ajout de la dignité, notion sensible, aux droits, critère juridique, n’est pas indifférent, tout comme sa position première dans l’énoncé : il s’agit non seulement de respecter d’autres humains, mais aussi de se respecter soi-même. En somme, de rester digne, de savoir se tenir, se retenir ou s’empêcher, afin de ne jamais céder à la haine de l’homme.

    Chèque en blanc accordé à ses dirigeants et à ses militaires, l’affirmation d’un « soutien inconditionnel » à l’État d’Israël dans sa riposte au Hamas tourne le dos à ces valeurs universelles. Elle prolonge ce mépris pour le droit international que l’on invoque volontiers face à l’agression russe en Ukraine mais que l’on dénie à la Palestine par l’absolu non-respect des résolutions onusiennes condamnant, depuis 1967, les annexions et colonisations israéliennes de territoires palestiniens.
    2. Jamais la fin ne saurait justifier les moyens. Seuls les moyens utilisés déterminent la fin recherchée.

    Depuis soixante-quinze ans, la Palestine pose au monde une question morale : celle de la fin et des moyens. La légitimité d’Israël ne saurait se fonder sur la négation des droits des Palestiniens jusqu’à la commission répétée de crimes de guerre. Mais la contestation de l’occupation et de la colonisation ne saurait tolérer la négation de l’humanité des Israéliens.

    En franchissant ce pas avec les massacres et prises d’otage de civils, le Hamas a fait plus que nuire à la cause qu’il dit servir : il l’a déshonorée. Dans la mémoire juive des persécutions européennes contre lesquelles s’est créé le mouvement sioniste à la fin du XIXe siècle, la terreur déchaînée par le Hamas sur des civils israéliens ne peut qu’évoquer les pogroms antisémites. Et le rappel de massacres commis en 1947-1948 par les composantes les plus extrémistes du sionisme, afin de faire fuir les Palestiniens, ne saurait en aucun cas lui servir d’excuses.

    La violence aveugle de l’oppresseur le discrédite, légitimant la résistance violente de l’opprimé. Jusqu’au processus de paix entamé en 1991, le mouvement national palestinien, alors sous la direction de Yasser Arafat et du Fath qui dominait l’Organisation de libération de la Palestine, a illustré cette règle éternelle des situations d’injustices où un peuple prétend en dominer un autre. Mais, par ses débats internes, son pluralisme assumé, son évolution revendiquée jusqu’à la reconnaissance de l’État d’Israël, il a fait sienne la conviction que la cause libératrice de l’opprimé exige une morale supérieure où sa riposte ne cède pas aux crimes reprochés à l’oppresseur.

    Il y a cinquante ans, en 1973, l’année de la guerre du Kippour dont le Hamas a choisi la date anniversaire pour son attaque sur Israël, un appel collectif d’intellectuels notables (parmi lesquels Edgar Morin, Laurent Schwartz, Jean-Pierre Vernant et Pierre Vidal-Naquet) rappelait ces « évidences morales et politiques fondamentales » : « Il n’y a pas de problème de la fin et des moyens. Les moyens font partie intégrante de la fin. Il en résulte que tout moyen qui ne s’orienterait pas en fonction de la fin recherchée doit être récusé au nom de la morale politique la plus élémentaire. Si nous voulons changer le monde, c’est aussi, et peut-être d’abord, par souci de moralité. […] Si nous condamnons certains procédés politiques, ce n’est pas seulement, ou pas toujours, parce qu’ils sont inefficaces (ils peuvent être efficaces à court terme), mais parce qu’ils sont immoraux et dégradants, et qu’ils compromettent la société de l’avenir. »

    Cette mise en garde vaut évidemment pour les deux camps. De 2023 à 2001, se risquer à comparer le 7-Octobre israélien au 11-Septembre états-unien, ce n’est pas seulement ignorer la question nationale palestinienne en souffrance, au prétexte d’une guerre de civilisation entre le bien occidental et le mal arabe, c’est surtout continuer de s’aveugler sur la suite. Le terrorisme faisant toujours la politique du pire, les désordres actuels du monde résultent de la riposte américaine, à la fois mensongère et criminelle, détruisant un pays, l’Irak, qui n’y était pour rien, tout en semant un discrédit universel par une violation généralisée des droits humains dont l’Occident paye encore le prix. Loin de détruire l’adversaire désigné, il en a fait surgir d’autres, d’Al-Qaïda à Daech, encore plus redoutables.
    3. Au cœur du conflit israélo-palestinien, la persistance de la question coloniale ensauvage le monde.

    Porté par le mouvement sioniste qui avait obtenu la création d’un foyer national juif en Palestine, la création de l’État d’Israël en 1948 a été unanimement approuvée par les puissances victorieuses du nazisme. L’incommensurabilité du crime contre l’humanité, jusqu’à l’extermination par le génocide, commis contre les juifs d’Europe, légitimait le nouvel État. Une faute abominable devait être réparée en offrant aux juifs du monde entier un refuge où ils puissent vivre dans la tranquillité et la sécurité, à l’abri des persécutions.

    Si, aujourd’hui, Israël est un des endroits du monde où les juifs vivent avec angoisse dans le sentiment inverse, c’est parce que la réparation du crime européen s’est accompagnée de l’injustice commise contre les Palestiniens. Ce faisant, l’Occident – cette réalité politique dont les États-Unis ont alors pris le leadership – a prolongé dans notre présent le ressort passé de la catastrophe européenne : le colonialisme. Se retournant contre l’Europe et ses peuples, après avoir accompagné sa projection sur le monde, le colonialisme fut l’argument impérial du nazisme, avec son cortège idéologique habituel de civilisations et d’identités supérieures à celles des peuples conquis, soumis ou exclus.

    La colonisation ne civilise pas, elle ensauvage. Le ressentiment nourri par l’humiliation des populations dépossédées s’accompagne de l’enfermement des colons dans une posture conquérante, d’indifférence et de repli. L’engrenage est aussi redoutable qu’infernal, offrant un terrain de jeu idéal aux identités closes où la communauté devient une tribu, la religion un absolu et l’origine un privilège. Dès lors, accepter le fait colonial, c’est attiser le foyer redoutable d’une guerre des civilisations qu’illustre la radicalisation parallèle des deux camps, le suprémacisme juif raciste de l’extrême droite israélienne faisant écho à l’idéologie islamique du Hamas et de ses alliés, dans la négation de la diversité de la société palestinienne.

    Dialoguant en 2011, dans Le Rescapé et l’Exilé, avec le regretté Stéphane Hessel, qui accompagna depuis l’ONU où il était diplomate la création de l’État juif en Palestine, Elias Sanbar rappelle cette origine d’un conflit qui ne cessera de s’aggraver tant qu’elle ne sera pas affrontée : « On ne peut certes pas refaire l’histoire, mais il est important de dire que ce conflit a commencé par une terrible injustice commise en Palestine pour en réparer une autre, née dans l’horreur des camps nazis. » Acteur des négociations de paix israélo-palestiniennes, il en tirait la conséquence que la seule solution est dans l’égalité des droits. Dans la réciprocité et la reconnaissance. L’envers de ce poison qu’est la concurrence des victimes. L’opposé de cette misère qu’est la condescendance du vainqueur.

    « Il faut affirmer, déclarait-il alors – et pense-t-il toujours –, que la concurrence dans le registre des malheurs est indécente, que les courses au record du nombre de morts sont littéralement obscènes. Chaque souffrance est unique, le fait que des juifs aient été exterminés n’enlève rien à la souffrance des Palestiniens, tout comme le fait que des Palestiniens aient souffert et continuent de souffrir n’enlève rien à l’horreur vécue par des juifs. Puis et surtout, la reconnaissance de la souffrance des autres ne délégitime jamais votre propre souffrance. Au contraire. »
    4. La solution du désastre ne peut être confiée à ses responsables israéliens dans l’indifférence au sort des Palestiniens.

    Le 8 octobre 2023, au lendemain de l’attaque du Hamas contre Israël, le quotidien Haaretz, qui sauve l’honneur de la démocratie israélienne, publiait un éditorial affirmant que cette énième guerre était « clairement imputable à une seule personne : Benyamin Nétanyahou », ce premier ministre qui a « établi un gouvernement d’annexion et de dépossession » et a « adopté une politique étrangère qui ignorait ouvertement l’existence et les droits des Palestiniens ».

    La droite et l’extrême droite israéliennes ont attisé l’incendie qu’elles prétendent aujourd’hui éteindre par l’extermination militaire du Hamas et l’expulsion des Palestiniens de Gaza. Ce n’est pas un Palestinien qui, en 1995, a assassiné Yitzhak Rabin, portant un coup d’arrêt fatal au processus de paix, mais un terroriste ultra-nationaliste israélien. C’est Israël qui, depuis, sous l’impulsion de Benyamin Nétanyahou, n’a cessé de jouer cyniquement avec les islamistes du Hamas pour diviser le camp palestinien et affaiblir sa composante laïque et pluraliste.

    À l’aune de ces vérités factuelles, largement documentées, notamment par le journaliste Charles Enderlin, la polémique française sur le prérequis que serait la qualification de terroriste du Hamas en tant qu’organisation – et pas seulement de ses actions dont on a souligné le caractère criminel – a quelque chose de surréel. En 2008-2009, faisant écho aux stratégies israéliennes, la présidence de Nicolas Sarkozy n’hésitait pas à défendre la nécessité de « parler » avec le Hamas dont le chef était même interviewé par Le Figaro pour inviter le chef de l’État français à « donner une impulsion vitale à la paix ».

    Comble de l’hypocrisie, le Qatar, financier avéré du Hamas avec la tolérance d’Israël, est un partenaire économique, financier, militaire, diplomatique, sportif, culturel, etc., qui est, ô combien, chez lui dans l’establishment français, tout comme d’ailleurs son rival émirati. Or c’est au Qatar que le Hamas tient sa représentation extérieure, avec un statut avoisinant celui d’une antenne diplomatique, digne d’un État en devenir.

    Si des actions du Hamas peuvent être qualifiées de terroristes, c’est s’aveugler volontairement que de ne pas prendre en considération son autre réalité, celle d’un mouvement politique avec une assise sociale. Que sa ligne idéologique et ses pratiques autoritaires en fassent l’adversaire d’une potentielle démocratie palestinienne, qui respecterait le pluralisme des communautés et la diversité des opinions, ne l’empêche pas d’être l’une des composantes, aujourd’hui devenue dominante, du nationalisme palestinien.

    La paix de demain ne se fera qu’entre ennemis d’hier. Et, surtout, qu’entre peuples qui ne sont pas assimilables à leurs dirigeants. Ce mensonge doublé d’hypocrisie sur la réalité du Hamas et son instrumentalisation par l’État d’Israël souligne l’illusion qui a volé en éclats depuis le 7 octobre. Israël et les États-Unis pensaient reléguer la question palestinienne en pariant sur les États arabes, leurs intérêts à courte vue et leur opportunisme à toute épreuve. Ce faisant, ils oubliaient les peuples qui ne sont pas dupes, s’informent et s’entraident. Grands absents de ces mécanos diplomatiques, où l’on prétend faire leur avenir à leur place, ils finissent toujours, un jour ou l’autre, par en déjouer les plans.

    Au spectacle des foules proclamant dans le monde leur solidarité avec la Palestine, y compris dans les pays arabes qui ont normalisé leurs relations avec Israël, comment ne pas penser à ces lignes de notre confrère Christophe Ayad qui accompagnent l’exposition de l’Institut du monde arabe « Ce que la Palestine apporte au monde » ? « C’est du monde tel qu’il va mal dont la Palestine nous parle, écrit-il. On l’observe, on la scrute, on l’encourage ou on lui fait la leçon, mais c’est elle qui nous regarde depuis l’avenir de notre humanité. La Palestine vit déjà à l’heure d’un monde aliéné, surveillé, encagé, ensauvagé, néolibéralisé. Les Palestiniens savent ce que c’est d’être un exilé sur sa propre terre. Apprenons d’eux ! »

    Face aux ombres qui, aujourd’hui, s’étendent, ces réflexions peuvent paraître optimistes. Pourtant, la leçon est déjà là, la seule qui vaille pour éviter le pire, soit cette guerre des monstres dont Benyamin Nétanyahou et le Hamas sont les protagonistes : il n’y aura jamais de paix par la puissance et la force. Devant les défis sans frontières qui nous assaillent, le crédo de la puissance est une impasse quand la conscience de la fragilité est, au contraire, une force.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/221023/israel-palestine-la-question-morale
    #7_octobre_2023 #Israël #Palestine #égalité_des_droits #Palestine #Israël #lucidité #à_lire #raison #obscurcissement #égarement #tueries #terrorisme #civils #Gaza #Hamas #armée_israélienne #terreur #crimes #impuissance #catastrophe #cessez-le-feu #otages #solution_politique #communauté_internationale #Etats-Unis #USA #vengeance #sidération #désolation #débat_politique #débat_médiatique #médias #France #suspicion #médiocrité #responsabilité #propagande #journalisme #amnésie #résignation #habitude #conformisme #suivisme #aveuglement #soutien_conditionnel #question_coloniale

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • Le Débat – France 24 sur X : " MichaelShurkin @14NStrategies @StphAntoine 🇮🇱🇺🇸 “Les #EtatsUnis ne sont pas considérés comme un médiateur honnête au #MoyenOrient” @karimbitar, professeur à l’@USJLiban, spécialiste du Proche et Moyen-Orient, invité de @StphAntoine dans le #DebatF24 de ce soir
    https://twitter.com/DebatF24/status/1714368657726361780

    https://video.twimg.com/ext_tw_video/1714368296680558592/pu/vid/avc1/640x360/0ciAba1eYL6w0g_B.mp4?tag=12