• Du champ à la mine : une géohistoire de la gestion des déchets à #Lyon
    https://metropolitiques.eu/Du-champ-a-la-mine-une-geohistoire-de-la-gestion-des-dechets-a-Lyon.

    La gestion des ordures a souvent engendré des conflits, parfois invisibilisés. Yann Brunet étudie les politiques d’incinération des #déchets de la ville de Lyon et retrace cette histoire au cours du #XXe_siècle. À moins d’habiter près d’un incinérateur ou d’être témoin d’une grève des éboueurs, la gestion des déchets urbains des agglomérations s’opère dans une quasi-invisibilité des acteurs et de cette masse résiduelle produite sur laquelle reposent pourtant nos modes de vie urbains. De #Terrains

    / déchets, #géohistoire, #environnement, #métabolisme, Lyon, XXe siècle, #histoire_urbaine

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-brunet-2.pdf

    • Nella Terra dei Fuochi l’Italia ha violato il diritto alla vita: una sentenza pilota della Corte Europea dei diritti umani

      Sommario

      – L’emergenza rifiuti in Campania e il fenomeno della Terra dei Fuochi
      - I fatti: 40 anni di traffico, interramento e incendio di rifiuti pericolosi da parte della criminalità
      - Ammissibilità: escluse dalla causa le associazioni e i ricorsi presentati dopo il 2014
      - Nella Terra dei Fuochi violato il diritto alla vita dei residenti
      - Decontaminazione a rilento, sanzioni penali inadeguate, screening insufficiente, poca informazione
      - Una sentenza-pilota: due anni per attuare le misure generali della Corte

      Il 30 gennaio 2025, la Corte europea dei diritti umani (CtEDU) ha emesso una sentenza-pilota nel caso Cannavacciuolo e Altri contro Italia (ricorso 51767/14 e altri), riguardante la situazione di inquinamento ambientale che ha colpito il territorio compreso tra le province di Napoli e Caserta noto come “Terra dei Fuochi”. La CtEDU ha riscontrato che l’Italia ha violato l’art. 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) e chiesto alle autorità italiane di attuare adeguate misure di riqualificazione ambientale dei territori interessati dal fenomeno. Tra due anni a partire dalla pubblicazione della sentenza, la Corte si riserva di verificare l’impatto di tali misure.
      L’emergenza rifiuti in Campania e il fenomeno della Terra dei Fuochi

      Il caso Cannavacciulo e altri contro Italia prende origine da una serie di ricorsi presentati tra il 2014 e il 2015 da 34 individui, residenti nei 90 comuni campani che tre decreti del governo italiano, emessi tra il 2013 e il 2015, hanno classificato come esposti ai rischi associati al fenomeno di abbandono, interramento e incendio illegale di rifiuti che ha interessato l’area denominata “Terra dei Fuochi”. Nel territorio vivono circa tre milioni di persone.

      La sentenza della CtEDU è di oltre 170 pagine e segue alcune precedenti pronunce che si sono interessate di argomenti simili, in particolare la sentenza Di Sarno e altri c. Italia (ricorso 39765/08) del 2012, v. Annuario 2013, p. 281), in cui la CtEDU aveva trattato dell’emergenza creatasi in Campania tra il 1994 e il 2009 legata alla incapacità di gestire la raccolta e lo stoccaggio dei rifiuti urbani. In quel caso, la CtEDU aveva accertato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU (diritto alla vita privata e familiare), in ragione del disagio e del rischio per la salute dei residenti legato all’emergenza rifiuti. Analogo oggetto e simile esito aveva avuto anche il caso Locascia e altri c. Italia (ricorso 35648/10) deciso nel 2023. Su entrambi i casi è ancora aperta la supervisione sull’esecuzione delle sentenze da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (nel 2025, una riunione in materia è prevista a marzo per esaminare il documento di aggiornamento del governo italiano. Anche rilevante è il caso Cordella e altri c. Italia (ricorso n. 54414/13 e n. 54264/15, sentenza del 24 gennaio 2019, v. Annuario 2020, p. 276), che tratta dell’inquinamento legato all’azienda ex Ilva di Taranto. La supervisione su questo e alcuni altri casi simili riguardanti l’inquinamento causato dall’Ilva è tutt’ora incorso.

      Il caso Di Sarno non aveva toccato la problematica specifica dell’inquinamento legato alle discariche abusive e al trattamento illegale dei rifiuti, ma solo le carenze dell’amministrazione pubblica nella gestione dei rifiuti urbani nella regione e in particolare nel capoluogo regionale. La sentenza Cannavacciuolo è pertanto altamente significativa perché riguarda un aspetto specifico e particolarmente grave e inquietante dell’emergenza ambientale che interessa la Campania.
      I fatti: 40 anni di traffico, interramento e incendio di rifiuti pericolosi da parte della criminalità

      La prima parte della sentenza svolge una attenta e accurata ricostruzione dei fatti che hanno portato nel corso degli anni, e in particolare a partire dal 2013, a scoprire e contrastare la complessa vicenda denominata “Terra dei fuochi”. In particolare, nel 2013 il Parlamento aveva desegretato le dichiarazioni di un “collaboratore di giustizia” che all’epoca già parlava di traffici illegali di rifiuti che venivano interrati e bruciati nell’area a partire dagli anni 1980 (del resto, la prima commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del traffico illegale di rifiuti tossici verso la Campania è stata istituita nel 1996). Nello stesso 2013, un decreto-legge introduceva misure urgenti e straordinarie a protezione della salute degli abitanti e per la decontaminazione dei terreni e delle acque della vasta area interessata dal fenomeno.

      I ricorrenti denunciano la violazione non solo dell’art. 8 CEDU, con riferimento al rischio sanitario a cui sono esposti a partire almeno dagli anni 1990, ma anche la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita), in ragione della asserita esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento dei terreni, delle acque e dell’aria e l’aumento della mortalità dovuta ad alcune patologie, comprese varie forme di tumore, riscontrato tra la popolazione dei territori interessati.
      Ammissibilità: escluse dalla causa le associazioni e i ricorsi presentati dopo il 2014

      La Corte, discutendo dell’ammissibilità dei ricorsi avanzati da vittime dirette o indirette della presunta violazione degli articoli 2 e 8 CEDU, decide di escludere dalla causa, in quanto privi dello status di vittime, alcune associazioni rappresentative di abitanti della Campania. I reclami dei ricorrenti singoli sono invece ricevibili. La CtEDU accerta infatti che non vi sono vie di ricorso disponibili nell’ordinamento italiano per ottenere da parte dello stato l’adozione di misure di prevenzione dell’inquinamento e di contenimento delle conseguenze di una contaminazione che è tutt’ora in corso. L’unico rimedio previsto dall’ordinamento italiano è un’azione di risarcimento del danno, che però non rappresenta un rimedio effettivo in situazioni come quella in oggetto. Tuttavia, sono ammissibili solo i ricorsi depositati entro i primi mesi del 2014. L’art. 35 della CEDU prevede che i ricorsi alla CtEDU siano presentati entro un termine di sei mesi (dal 2022 ridotti a quattro) che, secondo la CtEDU, decorre in questo caso dal dicembre 2013, identificato come momento a partire dal quale l’emergenza è diventata universalmente e ufficialmente nota.
      Nella Terra dei Fuochi violato il diritto alla vita dei residenti

      Venendo al merito della causa, la CtEDU, dopo aver riassunto la posizione dei ricorrenti, dello stato e di svariate terze parti che sono intervenute con proprie osservazione, essenzialmente a sostegno dei ricorrenti, si concentra sulla applicabilità dell’art. 2 CEDU. La protezione del diritto alla vita implica che lo stato prenda tutte le misure positive appropriate per intervenire nei casi in cui esista un reale e imminente rischio per la vita delle persone soggette alla sua giurisdizione, in particolare in relazione ad attività inerentemente pericolose – come il trattamento di rifiuti. Il caso in questione si riferisce a attività che hanno messo in pericolo non un limitato numero di persone in relazione a una situazione circoscritta, ma milioni di individui per decenni. E non riguarda le conseguenze pericolose di una attività regolamentata, bensì gli effetti di azioni illegali realizzate da soggetti criminali. Inoltre, lo stato non contesta le gravi conseguenze patologiche, anche mortali, dell’esposizione a diossina, metalli pesanti e altri componenti inquinanti presenti nell’ambiente del territorio in questione, limitandosi a contestarne la pertinenza in relazione a determinati ricorrenti. La CtEDU, anche alla luce del principio di precauzione, ritiene quindi che si sia in presenza di un rischio sufficientemente serio, genuino e accertabile per la vita, e che tale rischio sia imminente per chiunque risieda nei 90 comuni identificati partire dal 2013. L’art. 2 CEDU è quindi applicabile. Si tratta di vedere se l’Italia ha operato in modo adeguato per mitigare il rischio.
      Decontaminazione a rilento, sanzioni penali inadeguate, screening insufficiente, poca informazione

      L’analisi è condotta secondo molteplici direttrici. In primo luogo, la CtEDU valuta se lo stato è stato efficace nell’identificare il rischio per la salute dei cittadini. Se dal 2013 in poi azioni per la mappatura delle aree esposte al rischio e lo screening della popolazione sono state adottate, la CtEDU si dichiara sorpresa per la mancanza di iniziative in questo senso durante i circa venti anni precedenti in cui il fenomeno era stato denunciato in varie sedi sia scientifiche sia istituzionali e giudiziarie. Dal 2013 e fino ai giorni nostri, del resto, la mappatura e i test sulla terra, l’acqua e l’aria della Terra dei Fuochi è ancora parziale, e riguarda solo le aree agricole, mentre nuove discariche di rifiuti tossici continuano ad essere scoperte, come dimostrano rapporti del 2021.

      In secondo luogo, la CtEDU valuta l’effettività delle misure di contaminazione adottate a partire dal 2013. La conclusione è che sono state parziali e che in molti casi si trovano ancora alla fase preliminare.

      Un terzo profilo considerato riguarda le verifiche epidemiologiche per determinare il collegamento tra inquinamento e insorgenza di patologie letali nella popolazione. Se passi avanti sono stati fatti dal 2012 in poi, dalla documentazione che la CtEDU ha potuto esaminare emerge che fino al 2016 le ricerche sono state al di sotto dello standard di diligenza richiesto dalle circostanze.

      Lo stato avrebbe inoltre dovuto monitorare e reprimere le condotte illecite che sono alla base del fenomeno della Terra dei fuochi. Circa il monitoraggio, lo stato ha preso misure significative e efficaci, istituendo anche uno speciale “Incaricato per il fenomeno del rogo di rifiuti nella Regione Campania”, ma solo a partire dal 2012. In materia di repressione penale, la CtEDU nota che una adeguata legislazione penale per contrastare il traffico di rifiuti tossici e il loro smaltimento illecito è intervenuta solo a partire dal 2015, che ha inserito nel codice penale gli articoli da 452-bis a 452 terdecies: fino ad allora, la normativa penale italiana risultava infatti frammentata e non sufficientemente integrata nel quadro giuridico generale. Anche le informazioni fornite dallo stato su indagini e processi portati avanti per i delitti ambientali più gravi collegati alla Terra dei Fuochi (lo stato ne ha menzionati sette), non hanno evidenziato una particolare efficacia dello strumento giudiziario. Alcuni processi sono stati chiusi per prescrizione; le condanne finora ammontano a tre.

      La CtEDU, pur ribadendo il diverso quadro in cui si collocano l’emergenza rifiuti che ha interessato la Campania tra il 1994 e il 2009 e il fenomeno della Terra dei Fuochi, non esclude un legame tra le due problematiche, riconoscendo che la cattiva gestione della raccolta e smaltimento rifiuti da parte delle istituzioni può avere favorito l’inserimento della criminalità organizzata in tali procedure. D’altro canto, però, la CtEDU osserva che nemmeno sul primo fronte l’Italia può dirsi del tutto uscita dalla situazione di criticità, dal momento che la procedura di esecuzione della sentenza Di Sarno è ancora aperta e che solo nel 2019 l’Italia ha terminato il pagamento della multa di 120.000 euro al giorno comminatale dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) al termine della procedura di infrazione avviata per il mancato adempimento della direttiva relativa ai rifiuti (sentenza C-297/08).

      Infine, la CtEDU considera inadeguata l’informazione fornita sul fenomeno della Terra dei Fuochi dalle autorità italiane. Anche se i dati epidemiologici e gli altri studi di tipo scientifico sono stati resi tempestivamente pubblici, è mancata una strategia adeguata per informare la popolazione su un problema tanto grave e che investiva contemporaneamente il suolo, le acque e la qualità dell’aria. Particolarmente preoccupante il fatto che la dichiarazione di un collaboratore di giustizia della camorra che denunciava la diffusione delle pratiche criminali di inquinamento ambientale fin dagli anni 1980 sia stata coperta dal segreto di stato per quindici anni.

      In conclusione, la CtEDU dichiara che il nesso tra il fenomeno della Terra dei Fuochi e la violazione o il rischio di violazione del diritto alla vita dei ricorrenti sancito dall’art. 2 CEDU si può ritenere provato e che quindi l’Italia ha violato l’art. 2 CEDU. Questa conclusione rende non necessario indagare sull’eventuale violazione anche dell’art. 8 CEDU sotto il profilo della mancata protezione del diritto alla salute e al benessere dei ricorrenti.
      Una sentenza-pilota: due anni per attuare le misure generali della Corte

      Un aspetto importante della sentenza Cannavacciuolo è legata al fatto che la CtEDU ha deciso di attribuire ad essa il carattere di sentenza pilota. La CtEDU ha infatti considerato che la durata decennale della descritta situazione di violazione dell’art. 2 CEDU che lo stato ha contrastato in modo lento e incompleto, unita alla circostanza che ci sono 72 ricorsi riguardati la stessa questione, di cui 36 coinvolgono oltre 4.700 cittadini, giustifica l’adozione di tale procedura. In conseguenza di ciò, lo stato italiano è tenuto a predisporre una strategia complessiva, da definire on collaborazione con la Regione Campania, gli enti locali e la società civile, per mappare il fenomeno e procedere alla decontaminazione dei siti a rischio. Lo stato deve inoltre istituire un meccanismo nazionale indipendente per monitorare l’avanzamento della strategia adottata e misurarne l’impatto. Infine, lo stato deve creare una piattaforma informativa accessibile e aggiornata. Queste misure generali devono essere adottate e avviate a regime entro due anni, quindi entro il 2027. Nel frattempo, tutti i ricorsi pendenti relativi alla situazione della Terra dei Fuochi restano sospesi e saranno rivisti nel 2027. Sempre nel 2027 saranno considerate, con una sentenza ulteriore, le domande di equo indennizzo presentate da alcuni dei ricorrenti.

      https://unipd-centrodirittiumani.it/it/temi/nella-terra-dei-fuochi-litalia-ha-violato-il-diritto-alla-v
      #droit_à_la_vie #CEDH

  • Le « cauchemar » du CEA : pourquoi le démantèlement nucléaire prend des décennies
    https://www.latribune.fr/article/entreprises-finance/energie-environnement/2133555046872714/le-cauchemar-du-cea-pourquoi-le-demantelement-nucleaire-prend-des-decennie


    Le réacteur nucléaire G2, situé sur le site de Marcoule (Gard), nécessite encore environ 30 années de travaux de démantèlement. Toutefois, ces opérations n’aboutiront probablement que d’ici une centaine d’années.
    Juliette Raynal pour La Tribune.

    RECIT - Sous la nef monumentale du réacteur G2, le temps semble s’être arrêté. Mais derrière ce décor figé, le CEA affronte un défi bien vivant : démanteler l’héritage d’un demi-siècle d’atome militaire et civil. Entre retards, surcoûts, installations à bout de souffle et difficulté organisationnelle, sa stratégie est mise à mal.

    La nef, immense, mesure près de 75 mètres de hauteur et le soleil qui perce ce mardi matin d’octobre empêche de distinguer correctement le sommet de la structure. Le lieu, particulièrement silencieux, est chargé d’histoire. Nous ne nous trouvons pas dans une église mais dans un gigantesque bâtiment industriel, sur le site du Commissariat à l’énergie atomique (CEA) de Marcoule (Gard), abritant G2, le tout premier réacteur nucléaire ayant envoyé de l’électricité sur le réseau tricolore. C’était en 1958, au cœur de la guerre froide. Le réacteur, dont la mission principale consistait à produire du plutonium pour la dissuasion atomique, est arrêté définitivement en février 1980. Et depuis, le temps semble s’être figé, ou presque.

    Sur place, ce réacteur refroidi au gaz prend la forme d’un énorme cylindre en béton allongé et encerclé de câbles noirs destinés à contenir sa dilatation. Sur son flanc droit, on distingue encore les restes d’anciens « toboggans » permettant d’évacuer les combustibles sans arrêter le réacteur. Les générateurs à vapeur, situés en façade à l’extérieur du bâtiment, ont été retirés. Tout comme l’ensemble des combustibles et les salles de conduite. Désormais, les opérations de démantèlement sont à l’arrêt et trente ans de travaux seront encore nécessaires afin de « revenir à l’herbe ». Toutefois, l’échéance finale sera bien plus lointaine.

    #paywall

  • La ruée vers le fumier
    https://metropolitiques.eu/La-ruee-vers-le-fumier.html

    Quels sont les #déchets agricoles et quelles logiques socio-économiques régissent leur utilisation ? Simon Joxe étudie la circularité des #biodéchets dans la communauté de communes des Mauges, en Pays de la Loire. Autrefois, les matières organiques urbaines – excréments humains, résidus alimentaires et #déchets_organiques divers – fertilisaient les champs maraîchers et céréaliers périurbains, une technique circulaire qui a perduré jusqu’aux années 1970 dans des villes comme Paris (Dufour 2023). #Terrains

    / #économie_circulaire, #méthanisation, déchets, déchets organiques, #agriculture, biodéchets

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_joxe-2.pdf

  • Dans l’#Allier, inquiétudes autour de l’ouverture d’une mine de #lithium et de ses matières radioactives

    La production de matières radioactives d’un site d’#Imerys dans l’Allier va considérablement augmenter si sa mine de lithium est autorisée. Mais personne, ou presque, n’est au courant. Car l’industriel s’est montré particulièrement discret sur ce sujet sensible qu’il a omis de déclarer pendant plusieurs années.

    « Des produits radioactifs à #Échassières ? Jamais entendu parler ! » Maurice Deschamps est maire de #Lalizolle (Allier), commune où pourrait voir le jour l’une des plus grandes mines de lithium d’Europe. La préfecture vient de donner le feu vert au groupe Imerys pour y construire un site pilote d’#extraction et de transformation du minerai.

    Contacté par Mediapart au téléphone, le maire, ancien responsable à la direction départementale de l’agriculture, assure avoir suivi la plupart des rencontres organisées par l’entreprise avec les élu·es depuis l’annonce du projet, en octobre 2022. « Jusqu’à une par mois, c’est beaucoup ! » Il a aussi assisté à plusieurs des vingt-quatre réunions publiques organisées par la Commission nationale du débat public (CNDP) entre mars et juillet 2024.

    Pourtant, comme tous les édiles des communes voisines qu’a pu joindre Mediapart, Maurice Deschamps ignorait que le projet « #Emili » (exploitation de #mica_lithinifère par Imerys) impliquerait de produire chaque année plus de 1 millier de tonnes de #matières_radioactives. Car dans cette même roche, Imerys compte extraire du lithium, mais aussi d’autres #minéraux comme du #tantale et de l’#étain, particulièrement concentrés en #uranium.

    C’est sur la #Bosse, une colline boisée qui domine le bocage bourbonnais, que le projet de mine s’apprête à démarrer. Pour atteindre le #gisement de lithium, une galerie sera creusée sous une carrière de #kaolin, matière première de la porcelaine, en exploitation depuis plus d’un siècle. Elle a été rachetée en 2005 par Imerys, propriété du groupe Bruxelles-Lambert (contrôlé par les familles de milliardaires #Frère et #Desmarais).

    Activité nucléaire

    À côté de la #fosse_d’extraction de kaolin se trouve une usine où le #minerai est purifié et traité. Mais depuis les années 1980 au moins, on y traite aussi d’autres matériaux extraits dans cette fosse : de l’étain, du tantale et du #niobium. Quand il sort de cette laverie, ce concentré de métaux bruts, semblable à une pâte noire, est stocké dans des fûts puis expédié à l’étranger. Les métaux, une fois purifiés dans une fonderie, pourront notamment être utilisés pour produire de l’électronique. Or, ce concentré métallique a une particularité sur laquelle l’industriel et les autorités se sont montrés très discrets : il est radioactif.

    Sa composition est donnée dans les petites lignes du dossier de l’enquête publique qui vient de s’achever en vue de la construction à Échassières des phases pilotes du projet Emili, une galerie de reconnaissance et une usine : « Le concentré [d’étain, tantale et niobium – ndlr] possède une certaine #radioactivité du fait de la présence d’une faible concentration en #uranium […] et #thorium », a précisé l’industriel dans ce dossier d’enquête de 3 500 pages.

    « On peut estimer la radioactivité totale d’un tel concentré à environ 300 000 becquerels par kilogramme, explique Julien Syren, géologue et codirecteur de la Criirad, association d’expertise citoyenne (voir le détail du calcul en annexe). Ça n’a rien d’anecdotique ! » D’après le Code de la santé publique, la transformation, le stockage et le transport de ce minerai radioactif sont considérés comme une « activité nucléaire ». Le seuil fixé par l’administration est dépassé quand les produits émettent plus de 1 000 becquerels par kilogramme (Bq/kg) et que leur stockage excède 1 tonne. Imerys en produit environ 100 tonnes par an.

    Si la #mine d’Échassières voyait le jour, cette production radioactive changerait d’échelle. Imerys compte exploiter le lithium, mais aussi l’étain, le tantale et le niobium présents dans la même roche jusqu’à plus de 500 mètres de profondeur. « La production de lithium (quelle que soit sa forme) augmenterait automatiquement la production de concentré d’étain-tantale et niobium déjà commercialisé par Imerys », précise l’entreprise en 2020 dans sa demande de prolongation de permis d’exploration. Dans la mine de lithium, Imerys prévoit d’extraire quinze fois plus de roches que dans la carrière – et produirait donc au moins 1 500 tonnes de métaux radioactifs par an.

    « Pour les salariés du site et la population, poursuit Julien Syren, il y a un risque d’exposition aux rayonnements et des sources de #pollution importantes. Les poussières contenant de l’uranium et ses descendants radioactifs peuvent être ingérées, les #radionucléides peuvent se retrouver dans les déchets miniers et dans les #eaux. » Les faibles doses de radioactivité augmentent sensiblement le risque de #cancer, comme l’a récemment mis en évidence une étude internationale parue dans le British Medical Journal. Julien Syren se dit très étonné que cet enjeu n’ait pas été traité « de façon centrale » pendant le débat public sur la mine de lithium.

    La direction régionale de l’environnement Auvergne-Rhône-Alpes, responsable de la surveillance environnementale de la carrière, confirme à Mediapart que « l’usine de traitement du kaolin relève de la rubrique #ICPE_1716-2 » qui encadre les usines « mettant en œuvre des substances radioactives d’origine naturelle ». L’Agence de sûreté nucléaire et de radioprotection (ASNR) est chargée de la surveillance radiologique du personnel de l’usine d’Imerys, qu’elle a inspectée plusieurs fois depuis 2009.

    Les salariés de la #laverie portent des dosimètres, et certains font l’objet d’un suivi médical spécifique. L’agence de sûreté nucléaire précise que « les transports des substances radioactives d’origine naturelle produites par le site d’Échassières sont soumis à la réglementation sur les marchandises dangereuses » et que « les colis sont contrôlés par sondage lors des inspections de l’ASNR ».

    #Non-conformité

    Mais autour d’Échassières, personne n’était au courant. Pas même les associations de protection de l’environnement. « Tous ces éléments auraient dû être donnés au public il y a bien longtemps, s’insurge Corinne Castanier, responsable en radioprotection à la Criirad. C’est étrange de ne pas prévenir les mairies qu’il pourrait y avoir une activité nucléaire sur leur commune. C’est encore plus étrange de ne pas les prévenir qu’il y en a déjà une ! », ajoute-t-elle à propos de la carrière de kaolin.

    Même s’ils avaient épluché les documents administratifs concernant cette carrière, les élu·es concerné·es n’auraient pas trouvé trace de cette production radioactive : Imerys avait omis de la déclarer en préfecture, contrairement à ce que prévoit la loi depuis 2014. Les services de l’État ont confirmé à Mediapart que le groupe minier était en « non-conformité » jusqu’en novembre 2022, quand la déclaration d’#activité_nucléaire a finalement été faite, à la suite d’une inspection de l’usine. Mais une fois enregistrée, cette déclaration n’a pas été mise en ligne par la préfecture de l’Allier.

    C’est pendant cette période de non-conformité, en 2021, qu’Imerys a obtenu l’autorisation de prolonger de trente ans l’activité de sa carrière – elle devait initialement s’arrêter en 2020 – et d’en doubler la surface. Sans que ni la rubrique administrative ICPE 1716-2 ni la production de substances radioactives aient été mentionnées dans l’enquête publique. L’#étude_d’impact ne la mentionne pas non plus.

    « Le site dispose, de très longue date, de toutes les autorisations nécessaires pour stocker et transporter ces matières, nous répond Imerys. Lors du débat public de 2024, organisé par la commission nationale du débat public (CNDP), nous avons rappelé que le granite était bien porteur de ces éléments radioactifs », ajoute l’industriel (lire l’intégralité de sa réponse en annexe).

    Un problème en réalité ancien

    Imerys s’était engagé dans le cadre de ce débat à « partager toute l’information sur le projet Emili » et à s’aligner sur le « niveau de #transparence très élevé » du standard minier #Irma (#Initiative_for_Responsible_Mining_Assurance), un label centré sur le partage d’information avec les populations.

    En avril 2024, dans la salle des fêtes du bourg de Saint-Pourçain, dans l’Allier, s’est tenue la onzième soirée d’information sur la mine de lithium organisée par la CNDP. Ce soir-là, le public a un peu déserté. Micro en main, Grégoire Jean, directeur recherche et développement chez Imerys, présente, slide après slide, les enjeux environnementaux du projet. Apparaît sur l’écran une fiche intitulée « La radioactivité du granite de Beauvoir ».

    Elle indique que pour éviter l’accumulation de radon, un gaz radioactif, il faudra ventiler les galeries de la mine, comme dans « les maisons et les caves » des régions granitiques. La production de matières radioactives n’est pas mentionnée lors de ce débat, pas plus qu’elle n’apparaît dans le « Dossier du maître d’ouvrage », le volume de 156 pages diffusé par Imerys pour décrire le projet minier. « On a un granite qui n’est pas spécialement radioactif, il est parfaitement classique », rassure Grégoire Jean au micro.

    Un rapport critique

    Pourtant, sa teneur en uranium semble poser problème depuis longtemps. Dans sa demande de permis d’exploration de 2020, Imerys mentionne qu’au début des années 1980, « une étude de faisabilité » pour une mine d’étain et de tantale à Échassières s’était révélée « négative » en raison notamment de « la présence d’uranium dans le concentré de tantale ». Elle avait été menée conjointement par le bureau des recherches géologiques et minières et l’entreprise #Peñarroya… qui n’est autre que l’ancienne dénomination d’Imerys.

    « Non seulement les données scientifiques accessibles montrent que le #granite_de_Beauvoir contient plus d’uranium que la moyenne, analyse le géologue Julien Syren, mais de toute façon, le principal problème est la concentration de cette radioactivité dans les #déchets et les #sous-produits. »

    La mine d’Échassières, si elle est construite, va générer environ 2 millions de tonnes de résidus par an, sous forme de #boues rejetées par les deux usines de traitement du minerai, à Échassières et à #Montluçon. Quel serait le niveau de radioactivité de ces immenses volumes de déchets ? Quel serait le risque de contamination des sources et des #eaux_souterraines de la Bosse, réputée pour ses #zones_humides ?

    Imerys déclare à Mediapart avoir « mis en avant avec l’exploitation actuelle de kaolin (dans un contexte quasi identique à celui du projet) [sa] capacité à maîtriser ces problématiques ». Dans l’enquête publique pour la création de la mine pilote, Imerys cite un seul rapport datant de 2010 à l’appui de l’absence de contamination radioactive. Un document que, malgré nos demandes, l’entreprise a refusé de communiquer.

    En revanche, Mediapart s’est procuré un rapport rédigé en 2007 par l’Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (IRSN, aujourd’hui fusionné avec l’ASNR), consacré à la carrière d’Échassières. Ce document exclusif que nous publions en annexe pointe plusieurs « incohérences » dans la surveillance radiologique des salariés. Il reproche à l’exploitant de ne pas surveiller la radioactivité dans les eaux rejetées « dans le ruisseau communal » et de n’avoir « procédé à aucune évaluation des doses auxquelles la population est susceptible d’être soumise ». Le directeur de l’IRSN concluait : « La radioprotection des populations est traitée sommairement. »

    La situation a-t-elle changé ? La Criirad s’est saisie du dossier et a demandé des informations aux services de l’État. Pour les avocats de l’association Préservons la forêt des Colettes, opposée au projet minier, la découverte de cette production radioactive, trois ans après le lancement du projet Emili, est « sidérante », aussi bien « pour ce qu’elle révèle du projet que pour l’effort qui semble avoir été fait pour ne pas ébruiter ces informations déterminantes pour la population, ont réagi Théodore Catry et Benjamin Cottet-Emard. Imerys a eu bien des occasions de s’exprimer avec transparence, mais semble clairement avoir fait le choix de la rétention. » En haut de la colline d’Échassières, les engins s’activent pour construire la mine pilote autorisée fin septembre par la préfecture. L’#autorisation_environnementale qui vient d’être délivrée à Imerys ne prévoit aucune surveillance de la radioactivité.

    https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/071025/dans-l-allier-inquietudes-autour-de-l-ouverture-d-une-mine-de-lithium-et-d
    #Echassières #France #terres_rares

    • Projet de mine de lithium dans l’Allier : quid de la radioactivité ?

      La société Imerys souhaite ouvrir une mine de lithium dans l’Allier. Au-dessus du gisement, une carrière de kaolin est exploitée depuis plus d’un siècle. Le site produit également un concentré d’étain, niobium et tantale présentant une radioactivité élevée. La quantité de concentré produit augmenterait avec la mine de lithium.

      « Dans l’Allier, inquiétudes autour de l’ouverture d’une mine de lithium et de ses matières radioactives » : c’est le titre d’un article de Célia Izoard publié sur Médiapart le 7 octobre 2025.

      Sollicitée par la journaliste, la CRIIRAD s’est penchée sur les aspects radiologiques de la carrière de kaolin actuellement exploitée par Imerys juste au-dessus du gisement de lithium.

      Premier constat : depuis plus d’un siècle, les exploitants successifs n’extraient pas seulement le kaolin mais également un concentré d’étain, de tantale et de niobium dans lequel se concentre l’uranium 238. L’activité de ce radionucléide atteint 30 000 becquerels par kilogramme (Bq/kg), très largement au-dessus de 1 000 Bq/kg, seuil de classement comme « substance radioactive d’origine naturelle » (SRON). En tenant compte des autres radionucléides naturels présents, l’activité totale est de plusieurs centaines de milliers de Bq/kg (1), avec tous les risques radiologiques associés (irradiation externe, contamination par inhalation ou ingestion).

      Du fait de cette radioactivité et des quantités présentes dans l’installation (plusieurs dizaines de tonnes de concentré produites chaque année), le site doit être classé ICPE (Installation Classée pour la Protection de l’Environnement), à la rubrique 1716-2 qui encadre les installations mettant en œuvre des substances radioactives d’origine naturelle.

      Alors que la radioactivité du site est connue des autorités depuis au moins 2006, et que la rubrique 1716-2 existe depuis 2014, il a fallu attendre 2022 pour que l’exploitant déclare cette activité nucléaire.

      Malgré cette déclaration, le dernier arrêté préfectoral fixant les règles de surveillance du site par l’exploitant ne comporte aucune prescription en matière de mesures radiologiques, alors que la réglementation impose des contrôles.

      De plus, alors que l’exploitant d’une ICPE 1716-2 doit transmettre chaque année à l’Agence nationale pour la gestion des déchets radioactifs (ANDRA) un inventaire des matières et déchets radioactifs présents sur le site, la CRIIRAD n’a pas trouvé, sur le site de l’ANDRA, de fiche pour ce site.

      Pour éclaircir ces points ainsi que d’autres aspects du dossier, la CRIIRAD a écrit à la DREAL Auvergne-Rhône-Alpes. Vous pouvez télécharger ce courrier avec le lien en bas de l’article.

      S’agissant du projet de mine de lithium, l’exploitant est très discret sur la question de la radioactivité, alors qu’il reconnaît que « la production de lithium (quelle que soit sa forme) augmenterait automatiquement la production de concentré d’étain-tantale et de niobium déjà commercialisé par Imerys ».

      Affaire à suivre…

      https://www.criirad.org/10-10-2025-projet-de-mine-de-lithium-dans-lallier-quid-de-la-radioactivite

  • #JOP2030 : un projet à contre-courant de la #transition Alpine

    Selon ses principaux promoteurs, les Jeux Olympiques et Paralympiques de 2030 seront structurants pour les Alpes françaises. Il ne s’agit pas seulement de penser l’avenir des #stations_de_ski, comme le suggère l’#Association_Nationale_des_Maires_de_Stations_de_Montagne (#ANMSM), mais de redéfinir rien de moins que les contours d’une « #civilisation_alpine [1] » (sic). Derrière les grands discours, quel projet de #territoire se dessine, ou se confirme avec les JOP 2030 ?

    La vie des montagnard·es est marquée par le #relief. Il remplit notre champ de vision, contraint et draine nos déplacements, définit notre #identité. Le relief est omniprésent dans nos vies. Cette géomorphologie contraignante est aussi protectrice : contre les canicules, contre les sécheresses - précipitations plus abondantes, stockage de l’eau en altitude sous forme de glace... Contre les excès humains aussi, par la résistance naturelle qu’elle oppose à l’#aménagement, à la domination de l’environnement, à l’organisation des concurrences inter-humaines, et contre le vivant.

    Le projet de territoire porté par les promoteurs des JOP 2030 voudrait briser cette résistance. Pour Renaud Muselier, président du conseil régional de Provence-Alpes-Côte d’Azur (PACA), les jeux olympiques et paralympiques sont "une opportunité pour l’accélération de la #transition_montagnarde”. Mais laquelle ? Dans une interview pour La Provence (14/10/23), il répondait à la question de l’impact du projet sur l’environnement : "Quand on parle de bilan carbone, mettre 5 heures pour faire Marseille Briançon, est-ce acceptable ? L’embouteillage à Tallard, on l’accepte ?"

    Il pointait ainsi du doigt un de ces embouteillages des vendredi et dimanche soirs de la saison de ski, dans lequel se retrouvent coincés, les skieurs venus des grandes métropoles régionales du sud : Montpellier, Marseille, toute la côte varoise. Dont un certain Renaud Muselier, qui vient faire du ski en Haute Ubaye en passant par... Tallard pour accéder à son lieu de villégiature. D’autres “bouchons” ou goulets d’étranglement existent partout dans les Alpes françaises (et ailleurs) conséquence d’une hyper affluence ponctuelle qui engorge les massifs avec une régularité métronomique.

    Voilà qui illustre la vision de territoire portée par les JOP 2030, et ses promoteurs : en pleine période de restriction budgétaire massive, il s’agit essentiellement de favoriser quelques grands #domaines_skiables (deux pour les Alpes du sud) et l’amélioration des #axes_routiers pour y parvenir. Et ce au détriment des #populations_locales, des #services_publics, de l’#environnement… mais également de tous les "petits territoires”, éloignés (à peine) de ces domaines skiables et des grands axes qui y mènent. Ces “petits” territoires comprennent un ensemble de stations de #moyenne_montagne qui souffrent déjà particulièrement du #réchauffement_climatique, et dont les premières fermetures emblématiques se succèdent déjà.

    Et le #ferroviaire, demanderez-vous ? Dans cette vision territoriale, le ferroviaire est certes mis en avant par les porteurs du projet, comme caution verte : il s’agit de passer, d’ici aux jeux, d’un temps de trajet de quasi 5 heures à 3h30 entre Marseille et Briançon. Or, les temps de parcours actuels sont le résultat d’une politique de délaissement du #rail, depuis de nombreuses années, portée par les mêmes qui promeuvent les jeux. L’état du #réseau_ferroviaire alpin est tellement dégradé, qu’il paraît difficile de le rendre rapidement à nouveau attractif d’ici 2030. De sorte que l’option la plus "réaliste" pour réduire le temps de trajet serait... de ne pas s’arrêter dans les gares intermédiaires !

    La vision portée par les JOP 2030 est celle de la #spécialisation du territoire, celui des Alpes, au service d’un #tourisme_de_masse issu des grands centres urbains. #Chamonix, #Briançon en sont des exemples emblématiques. La population locale, habitant à l’année, est progressivement chassée des hautes vallées spécialisées dans le ski, devenues trop chères, et invivables au quotidien. Elle subit l’arrivée d’un nombre toujours croissant de vacancier·es, pour qui tout est organisé, dans une “montée en gamme” de l’accueil. On perçoit ainsi deux réalités et logiques distinctes, celle des habitant·es des territoires de montagne, et celle des consommateur·ices d’un territoire.

    Issue des catégories aisées des grands centres urbains, sous pression des contraintes citadines du quotidien, cette population de vacancier·es a besoin, le temps du weekend et des #vacances, de fuir leur lieu de vie, pour s’aérer, pour décompresser. Iels deviennent consommateur·ices d’un territoire, avec le besoin impérieux de changer d’air, de se détendre et de couper d’un quotidien oppressant... pour mieux se présenter le lundi matin au bureau avec la mine hâlée de ceux qui ont les moyens de s’échapper momentanément de l’"enfer" des grandes cités, et de profiter, le temps du weekend ou de vacances, des espaces naturels et des bienfaits de l’activité en extérieur.

    La spécialisation de territoire (au service des centres urbains) que dessine le #surtourisme se retrouve aussi dans d’autres secteurs d’activités : l’#énergie par exemple. Dans les Alpes du sud, des zones “excentrées” sont vues comme territoire à “faible pression foncière”, qui laisse la place au développement des #énergies_renouvelables, solaire photovoltaïque entre autres (du fait du climat particulièrement ensoleillé) et l’apparition de #centrales_photovoltaïques géantes, remplaçant forets et espaces naturels “sauvages”.Ou encore le secteur des #déchets, les arrières pays servant de zone de stockage des déchets des grandes agglomérations.

    Cette #spécialisation_territoriale n’a pourtant pas d’avenir dans le contexte actuel de réchauffement climatique. Dès janvier 2023, la trajectoire climatique de la France a été définie par le ministère de la Transition écologique à +4 degrés à l’horizon 2100, moins de 8 ans après les Accords de Paris qui stipulaient un objectif de 1,5 degrés. Dans les Alpes, ces +4 degrés pourraient être atteints bien avant 2100, ce territoire se réchauffant plus vite que le reste du pays. Quelle hausse de température pouvons nous y attendre et craindre +5, + 6 degrés ?... Une étude européenne sur plus de 2500 stations de ski montrent qu’à plus 4 degrés, 98 % des stations auront un problème existentiel d’enneigement.

    Dans ce contexte de réchauffement climatique fort, les territoires de montagne sont à la fois fragiles, et pourvus d’atouts importants : fraîcheur (relative), réserves en eau, espaces naturels disponibles pour la biodiversité… Un ensemble de facteurs nécessaires à la résilience de territoire. La #revitalisation du territoire alpin ne pourra pas être activée sans prendre en compte ses particularités et sans sa population. Et c’est pourtant ainsi qu’est bâti le projet JOP 2030 ! Il paraît urgent de remettre la #vie_montagnarde, celle des habitant·es des Alpes, au cœur de la question de l’avenir des massifs, au cœur de la question de la #transition_alpine ; Urgent de rompre avec un modèle de consommation de la montagne, urgent d’intégrer les populations pour construire de nouvelles orientations.

    https://france.attac.org/nos-publications/lignes-d-attac/article/jop-2030-un-projet-a-contre-courant-de-la-transition-alpine
    #JO2030 #jeux_olympiques #Alpes #migrations #consumérisme #climat #changement_climatique

  • « De l’or sous mon terrain ? » : en Loire-Atlantique, un projet d’exploration minière divise - ici
    https://www.francebleu.fr/infos/economie-social/de-l-or-sous-mon-terrain-en-loire-atlantique-un-projet-d-exploration-mini

    Les sous-sols de huit communes du nord de la Loire-Atlantique pourraient être analysés dans le cadre d’un #projet_minier. L’objectif est de voir les types de métaux qui s’y cachent avant de potentiellement les exploiter. Un projet qui va prendre du temps, mais qui fait déjà grincer des dents.

    Lithium : la France mise 200M€ sur une mine stratégique dans l’Allier (03).
    https://www.lasemainedelallier.fr/lithium-france-mise-200-millions-allier

    https://alternatives-projetsminiers.org/transition-sous-tension-enquete-sur-louverture-dune-min

    Ce film de Violeta Ramirez (52 minutes) est issu d’une enquête anthropologique menée dans l’Allier au sujet de la possible ouverture d’une #mine_de_lithium. En interrogeant les différents acteurs du territoire, il montre la réception locale des politiques de #transition_énergétique et la perception des changements environnementaux.

    La relance de l’extraction des minerais critiques et de leur métallurgie menace les masses d’eau françaises
    https://europeanwater.org/fr/actions/focus-par-pays-et-ville/1148-la-relance-de-l-extraction-des-minerais-critiques-et-de-leur-met
    #extractivisme

  • France : des centaines de personnes manifestent contre un site d’enfouissement de déchets nucléaires
    Publié le : 21/09/2025
    https://www.rfi.fr/fr/france/20250920-france-des-centaines-de-personnes-manifestent-contre-un-site-d-enfouiss

    Dans la Meuse, 600 personnes selon la police et 1 600 selon les organisateurs ont marché samedi 20 septembre pour la « manifestation du futur », organisée contre le projet Cigéo d’enfouissement des déchets nucléaires. Un cortège mené alors que, dans les mois qui viennent, l’Autorité de sûreté nucléaire devrait donner son autorisation pour le chantier. Deux cents black blocks ont fait face, pendant un temps, aux forces de l’ordre, avec échanges de pétards et de gaz lacrymogènes.

    #Bure

  • https://www.lalibre.be/debats/opinions/2025/08/16/negociations-sur-la-pollution-plastique-le-recyclage-encourage-par-les-etats

    Ils réduisent la pollution plastique à un simple problème de « mauvaise gestion des déchets » et s’emploient à recentrer les débats sur la phase post-consommation. Un tour de passe-passe pour éviter de devoir négocier sur la réduction de la production de déchets plastiques… à sa source, selon la chercheuse Aurélie Leroy.

    À Genève, 179 pays se sont retrouvés pour tenter de conclure un traité visant à mettre fin à la pollution plastique. Cette rencontre représentait la dernière étape d’un cycle de négociations lancé en 2022 par les Nations unies, après plusieurs rounds infructueux. L’enjeu était de taille : ce texte était destiné à devenir l’accord international le plus ambitieux depuis l’Accord de Paris. Mais les espoirs ont été déçus : aucun plafond de production plastique n’a été fixé, aucune réglementation contraignante adoptée, et aucune restriction imposée sur les produits chimiques nocifs pour la santé humaine.

    Deux camps se sont affrontés. D’un côté, le puissant bloc de la pétrochimie [1] a tout fait pour entraver le processus et protéger un débouché stratégique pour son or noir, à l’heure où le monde tente de se détourner des énergies fossiles. De l’autre, une grosse centaine d’États « ambitieux », [2] soutenus par des ONG et la société civile, ont plaidé pour un accord fort, assorti d’objectifs et d’échéances juridiquement contraignants couvrant l’ensemble du cycle de vie des plastiques, depuis l’extraction des matières premières jusqu’à la gestion des déchets. Dix jours de discussions où se sont heurtés la défense d’intérêts économiques colossaux et l’urgence de répondre à une crise écologique hors de contrôle.

    article relayé ici : https://www.cetri.be/Negociations-sur-la-pollution

    #matières_plastiques #pétrochimie #déchets #recyclage (enfumage du) #catastrophe_environnementale #santé (des écosystèmes)

  • « Transformer les pollutions en dollars » : controverses autour d’une infrastructure verte à Montréal (1986-1996)
    https://metropolitiques.eu/Transformer-les-pollutions-en-dollars-controverses-autour-d-une-infr

    Une « infrastructure verte » de gestion des #déchets peut susciter des controverses ; c’est ce que montre Anaël Marrec dans une étude sur le #biogaz menée dans le quartier Saint-Michel à Montréal. La valorisation des biogaz de #décharge se développe à la fin des années 1970 à travers le monde, alors que se cumulent la crise de l’énergie et la crise des déchets (Daley et al. 1979 ; Raven et Verbong 2005). Depuis la Seconde Guerre mondiale, les municipalités doivent gérer des quantités sans cesse croissantes de #Terrains

    / #histoire, #énergie, déchets, biogaz, #conflit, décharge

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_marrec.pdf

  • Les #microplastiques, une #menace invisible pour l’#environnement

    Les microplastiques, particules inférieures à quelques millimètres, se sont répandus sur l’ensemble de la planète. En tant que #déchets presque invisibles menaçant les écosystèmes et s’affranchissant des frontières, ils constituent un nouveau #problème_public mondial dont la résolution s’avère très délicate.

    https://shs.cairn.info/article/CAFR_414_0078?lang=fr&ID_ARTICLE=CAFR_414_0078
    #invisibilité

  • #Gaspillage_alimentaire : 9 millions de tonnes par an en France, des solutions locales émergent

    Face à 9 millions de tonnes de #déchets_alimentaires produits chaque année en France, des initiatives locales et solidaires émergent pour lutter contre le #gaspillage, tout en aidant les plus précaires et en préservant l’environnement.

    Selon le ministère de l’Agriculture, la France a généré 9 millions de tonnes de déchets alimentaires en 2022, dont 4 millions étaient encore consommables. À l’échelle individuelle, chaque Français jette en moyenne 58 kilos de nourriture par an, dont 24 kilos encore comestibles, pour un coût estimé à 100 euros par habitant. Ce gaspillage, qui débute dès la #production et se poursuit jusqu’à la #consommation, aggrave les #inégalités_sociales et contribue aux émissions de gaz à effet de serre. Dans ce contexte, de nouvelles solutions émergent, à l’image des épiceries #anti-gaspi nées en Bretagne, qui proposent à la vente des #invendus ou des produits refusés par la #grande_distribution.

    Des #épiceries_solidaires pour valoriser les invendus

    À Bordeaux, une enseigne spécialisée a développé un réseau de 28 magasins où l’on trouve fruits et légumes « moches » ou mal calibrés, produits issus de #surproduction, ou encore articles dont l’#emballage ne correspond plus aux standards des #grandes_surfaces. « On a tout un tas de raisons qui font que ces produits se trouvent exclus des circuits de distribution traditionnels », explique Arnaud, responsable du magasin. Les consommateurs, de plus en plus sensibilisés à la #lutte_contre_legaspillage, adhèrent au concept, d’autant que les prix sont en moyenne 15 % inférieurs à ceux des distributeurs classiques. Pour les producteurs, c’est aussi une #alternative à la #destruction de leurs récoltes, notamment dans l’Ouest où des pommes non conformes aux #calibres sont désormais valorisées. « On apporte notre petite pierre à l’édifice sur ce sujet-là », souligne Arnaud, évoquant l’impact écologique de cette démarche.

    Des invendus pour les #étudiants

    Au Palais-sur-Vienne, en Haute-Vienne, la municipalité a rejoint une plateforme pour vendre à prix réduit les surplus de repas issus de la restauration collective. « On ne gaspille pas, on prépare des denrées à tarif réduit pour ceux qui en ont besoin. Donc c’est bon pour la planète et c’est bon pour le portefeuille des gens », affirme le maire. Les particuliers peuvent ainsi acheter un panier repas complet pour 4 euros, d’une valeur réelle de 35 à 40 euros, tandis que les bénéfices soutiennent le centre communal d’action sociale.

    À Bordeaux, l’association #Linky récupère chaque semaine des invendus pour les redistribuer à près de 500 étudiants en situation de précarité. « Sur un an, en 2024, on a aidé 10 000 étudiants au niveau de l’antenne de Bordeaux », détaille Emmanuel, responsable de l’association. Linky a ainsi sauvé 93 tonnes de nourriture localement, et 1 200 tonnes à l’échelle nationale, grâce à une logistique citoyenne et décarbonée. « Chaque fois qu’on fait une #récupération, la #redistribution se fait dans la foulée », précise-t-il, garantissant la fraîcheur des produits et la #solidarité entre étudiants.

    https://france3-regions.franceinfo.fr/nouvelle-aquitaine/gironde/bordeaux/gaspillage-alimentaire-9-millions-de-tonnes-par-an-en-fra
    #nourriture

  • Une immense #mine pollue la #Bretagne, l’État ferme les yeux

    Des analyses réalisées par le média breton Splann ! révèlent comment la mine à ciel ouvert de #Glomel, en Bretagne, contamine son environnement aux métaux toxiques. Cette année, l’État a prolongé son exploitation de vingt ans.

    Des ruisseaux, des tourbières, des prairies humides... La commune de #Glomel, dans le centre de la Bretagne, étendue sur près de 80 km2, abrite la #réserv_ naturelle régionale des #landes et #marais de Glomel, ainsi que deux sites #Natura_2000 et plusieurs zones naturelles d’intérêt écologique faunistique et floristique.

    Le paradoxe est qu’elle abrite aussi la plus grande mine à ciel ouvert en activité de l’Hexagone : sur place, la multinationale #Imerys peut extraire chaque année jusqu’à 1,5 million de tonnes de roches et raffine dans ses deux usines un quart de la production mondiale d’#andalousite.

    La « #Damrec » comme on dit ici en référence à l’ancien nom d’Imerys, est longtemps passée inaperçue. Déjà, qui connaît l’andalousite, ce minéral résistant aux très hautes températures ? On le retrouve sous forme d’additif dans les bétons ou les peintures, dans les blocs moteurs de camions ou dans les fours de toute l’industrie, de la métallurgie au nucléaire. Mais si l’andalousite est couramment utilisée par la grande industrie pour ses propriétés réfractaires, nous n’avons jamais directement affaire à elle.

    D’autre part, le site de Glomel est resté d’autant plus discret qu’il n’est, aux yeux de l’administration, qu’une carrière : on imagine un modeste carreau au bord d’une route déserte, quelques camions. Sauf que…

    Sauf qu’il s’agit bel et bien d’une mine avec ses immenses cratères, ses usines, ses bassins de décantation remplis d’eau acide et ses montagnes de #déchets qui avancent dans le paysage, avalant les champs, les fermes et les chemins. Tout ceci inquiète nombre de riverains, qui voient se multiplier les cas de #cancer et se demandent ce qu’il restera des zones humides, des sources et des captages dans cet avenir où rien ne sera plus précieux que l’eau.

    Un trou grand comme quinze terrains de football

    Mais Imerys compte bien aller au bout de ce #gisement. Après une enquête publique houleuse et d’âpres débats, l’État vient de l’autoriser à poursuivre l’exploitation jusqu’en 2044 en creusant une quatrième #fosse_d’extraction : un trou grand comme quinze terrains de football et aussi profond que cinq immeubles parisiens empilés.

    Sur le site internet d’Imerys Glomel, on lit qu’« une des priorités du site concerne la gestion des rejets aqueux […] dans les rivières, zones humides et nappes souterraines alentour ». L’enjeu est de taille, puisqu’en aval de la mine se trouve la réserve naturelle régionale de #Magoar_Penvern. Puis, à 6 km du site industriel, un premier captage d’eau potable dans l’#Ellé alimente les 6 000 habitants des communes voisines.

    Dans le #Kergroaz, un minuscule #ruisseau qui serpente dans le sous-bois, Imerys rejette chaque année environ 1,5 million de mètres cubes d’#eaux_usées. Ces eaux sont traitées, et les exigences de la préfecture ont conduit l’entreprise à investir récemment dans une unité destinée à limiter la quantité de #manganèse et de #fer dans ses rejets. Mais même après traitement, ils contiennent des quantités très importantes de contaminants : la préfecture des Côtes-d’Armor autorise le site à rejeter chaque jour dans ses eaux usées jusqu’à 9 kg d’#hydrocarbures et, entre autres, jusqu’à 11 kg par jour au total de #cobalt et de #nickel, des métaux cancérigènes, mutagènes et reprotoxiques.

    Pourtant, Imerys assure n’avoir « aucun impact sur les eaux » et a financé une étude sur cinq ans de l’état écologique du #Crazius, où se jette le Kergroaz. Cette étude payée par l’industriel conclut à un « bon état » du cours d’eau pour certains paramètres, mais ce qui frappe, c’est que les métaux les plus toxiques émis par le site ne semblent pas avoir été recherchés dans le cours d’eau.

    Pourquoi s’intéresser à la présence de fer et d’#aluminium, et non à des contaminants bien plus redoutables comme l’#arsenic, le #cadmium, le cobalt ou le nickel, qui sont par ailleurs présents dans les déchets de cette mine ? Interrogé, Imerys n’a pas souhaité répondre à nos questions. Pour y voir plus clair, Splann ! a décidé de faire analyser les sédiments du Crazius.

    En juillet puis en septembre, Splann ! a prélevé plusieurs jeux d’échantillons de sédiments dans le lit du ruisseau d’abord en amont du point de rejet de la mine, pour disposer d’un échantillon « témoin » ; puis dans un deuxième temps au niveau où Imerys rejette ses eaux usées ; et finalement à 2 km de là en aval dans le même cours d’eau, dans la réserve naturelle régionale.

    Des concentrations en nickel jusqu’à 60 fois supérieures à la valeur guide

    Ces sédiments ont été analysés par un laboratoire accrédité Cofrac. Les résultats de ces analyses ont été interprétés avec l’aide de Frédéric Gimbert, spécialiste des pollutions minières et chercheur en écotoxicologie au Centre nationale de la recherche scientifique (CNRS) de Besançon.

    Alors que les sédiments du prélèvement témoin, en amont, ne présentent aucune contamination, au niveau du point de rejet d’Imerys, les concentrations en nickel sont jusqu’à 60 fois supérieures à la valeur guide pour un bon état écologique des sédiments d’eau douce. Les concentrations en cobalt sont jusqu’à 20 fois supérieures à cette valeur. Les analyses révèlent aussi la présence de métaux toxiques qu’Imerys n’est pas censé déverser : les sédiments contiennent quatre fois la valeur guide pour l’arsenic et une teneur anormale en cadmium, tous deux également cancérigènes, mutagènes et reprotoxiques.

    « De telles quantités de contaminants présentent manifestement un #danger et un #risque pour l’#environnement, dit Frédéric Gimbert. Il faudrait également rechercher ces mêmes contaminants dans les #sols où se déposent les #poussières issues de l’activité minière et conduire plus largement une étude d’évaluation des risques, pour l’environnement, mais aussi pour la #santé_publique. »

    Nos analyses révèlent également que la contamination s’étend au-delà du périmètre immédiat de la mine. À 2 kilomètres en aval du site, au cœur de la réserve naturelle régionale de Magoar Penvern, les concentrations en cobalt et en nickel sont plus de dix fois supérieures aux valeurs guides pour un cours d’eau en bon état écologique.

    Un #captage d’#eau_potable en aval de la mine

    Qu’en est-il à 6 km en aval, dans la rivière Ellé, où #Eau_du_Morbihan prélève une partie de l’eau qui sera ensuite traitée pour être distribuée aux communes voisines ? Pour le savoir, notre équipe s’est rendue à #Toultreincq, qui signifie « trou saumâtre » en breton, dont l’usine de potabilisation est justement en pleins travaux. Une toute nouvelle unité de traitement est en construction pour un coût de 6 millions d’euros d’argent public.

    « La pollution de l’eau par la mine ? C’est simple : ce n’est pas un sujet. Il n’y a aucun problème », déclare, dès le début de notre visite, #Dominique_Riguidel, le directeur d’Eau du Morbihan qui s’est déplacé en personne pour nous le dire. L’ouverture de nouveaux captages d’eau souterraine permettront de « diversifier les ressources et de limiter les prélèvements dans l’Ellé », explique-t-il. C’est-à-dire précisément à limiter la dépendance au captage de Pont Saint-Yves, sur l’Ellé, en aval de la mine.

    Mais le directeur d’Eau du Morbihan est formel : tout ceci n’a aucun rapport avec le fait qu’Imerys rejette chaque année 1,5 million de mètres cubes d’eaux usées contenant des sulfates, des hydrocarbures et des métaux lourds en amont de ce captage. « La nouvelle unité permettra de mieux traiter les pesticides et les médicaments », justifie-t-il.

    Un ingénieur chimiste, expert en contaminations pour des organismes de santé publique, s’interroge : « J’ai du mal à croire que tous ces travaux n’aient aucun rapport avec l’agrandissement de la mine. Vu l’argent que ça coûte de changer une installation, ça ne se fait pas sans raison objective. Et il n’est pas courant d’avoir de tels traitements de l’eau en tête de bassin versant, où elle est normalement moins polluée. »

    Pour connaître la qualité de l’eau sur l’Ellé, en aval de la mine, le plus simple est de s’adresser à l’agence régionale de santé (ARS), qui surveille les captages. Nous lui avons demandé de nous communiquer les analyses de l’eau captée en aval de Glomel.

    « Il n’existe pas de contrôle sanitaire sur la ressource “Pont Saint-Yves” exclusivement », a répondu l’ARS. Le captage d’eau le plus exposé aux pollutions de la mine ne serait donc pas surveillé : l’agence publique ne contrôle pas la qualité des eaux brutes qu’après qu’elles ont été mélangées à la station de traitement. Une fois dilués dans les eaux prélevées ailleurs, les contaminants d’Imerys passent inaperçus. Ce qui pousse certains riverains désabusés à résumer ainsi la situation : « La mine de Glomel utilise la réserve naturelle régionale comme station d’épuration » pour traiter ses effluents chargés en métaux toxiques. « Mais si la contamination continue d’augmenter, explique l’ingénieur chimiste, l’eau de ce captage risque de ne plus être utilisable pour produire de l’eau potable. »

    Les déchets miniers ont contaminé les #eaux_souterraines

    « Quand j’étais ado, par une chaude journée d’été, je m’amusais à repérer les plans d’eau des environs sur les photos satellites. J’ai découvert un lagon bleu à Glomel. J’ai demandé à ma mère : “pourquoi on n’est jamais allées s’y baigner ?” » Voilà comment Camille a découvert la mine de Glomel : un espoir de baignade. Espoir déçu : le lac de 12 hectares dont elle parle, une ancienne fosse d’extraction, recueille en continu des #eaux_acides et les boues de traitement des usines du site.

    Une autre riveraine se rappelle : « Pendant une réunion en 2022, j’ai demandé ce que contenait cette fosse qu’on appelle “la fosse 2”. Imerys m’a répondu “du mica et des oxydes de fer”. » Pas de quoi s’inquiéter, donc, Camille aurait pu s’y baigner. Mais dans un tableau perdu dans les 3 000 pages du dossier d’enquête publique, on apprend que ces boues contiennent de fortes concentrations de cadmium, de #chrome, de cobalt, de nickel et de plomb : des métaux dits « lourds », cancérigènes, neurotoxiques et reprotoxiques.

    Les boues de cette fosse contiennent aussi les produits chimiques utilisés dans l’usine. Lors d’une réunion publique, les porte-parole de l’entreprise ont assuré que « le procédé d’extraction ne fait pas intervenir de composés chimiques ». Pourtant, les documents de l’enquête publique indiquent que les usines de Glomel utilisent 75 tonnes par an de substances nocives pour l’environnement et la santé.

    Par exemple, le #méthyl-isobutyl_carbinol, un #solvant dangereux pour les #nappes_souterraines, l’#acrylamide, cancérigène, mutagène et reprotoxique, le #sulfonate_de_sodium et l’#amylxanthate, toxiques pour la vie aquatique.

    Chaque année, une trentaine de tonnes de ces produits sont déversées dans le « joli lac ». Imerys affirme que la fosse est « étanche », mais aucune membrane n’empêche ces boues acides de s’infiltrer dans les eaux souterraines. Et il en va de même dans tous les autres espaces du site où sont entreposées ces boues : la « fosse no 1 » (2 millions de m3) et « l’ancienne digue » (900 000 m3).

    Les contaminants de ces déchets toxiques ont commencé à migrer vers les eaux souterraines : c’est ce qu’indiquent certains éléments qu’Imerys a communiqués à l’administration. L’un des appareils de mesure de l’industriel relève que les taux de contaminants ont explosé entre 2012 et 2021.

    Ainisi, les déchets de la mine contiennent des concentrations importantes de nickel, un métal qui provoque des cancers du poumon et des sinus et des maladies cardiovasculaires. Or, sous le site minier, les eaux souterraines contiennent quarante fois la teneur en nickel maximale autorisée pour les eaux brutes destinées à la consommation. Les autres contaminants (cobalt, cadmium, arsenic, produits chimiques…) susceptibles d’avoir migré vers la nappe ne semblent pas surveillés.

    En juin 2024, en prolongeant l’exploitation de vingt ans, les services de l’État ont autorisé l’entreprise à générer au total environ 12 millions de m3 de déchets supplémentaires, autant de déchets qui seront entreposés sur place et qui sont censés ne pas entrer en contact avec les eaux souterraines pour les décennies et les siècles à venir. Alors que jusqu’ici, Imerys n’a pas réussi à empêcher la contamination des eaux souterraines.

    Qui traitera les eaux acides en l’an 2150 ?

    En 2044, en théorie, l’extraction d’andalousite sera terminée et viendra le temps de la « remise en état », comme on dit. Mais la roche exploitée à Glomel a une particularité : elle contient de la #pyrite, c’est-à-dire du #soufre. Quand la roche mise à nu par l’extraction ou les déchets miniers du site rencontrent de l’eau (la pluie par exemple), cette eau se transforme naturellement en #acide_sulfurique et entraîne vers l’aval les contaminants présents dans la roche. C’est ce qu’on appelle le drainage minier acide, l’une des pollutions les plus redoutables liées à l’activité minière.

    Actuellement, toutes les eaux qui ruissellent sur le site sont collectées et traitées par lmerys pour perdre leur acidité. Qui va traiter ces #eaux_de_ruissellement dans un siècle pour empêcher cette marée acide de contaminer le bassin de l’Ellé ? Dans les documents de l’enquête publique, Imerys assure qu’après la #remise_en_état, « les eaux pluviales ne seront plus susceptibles de s’acidifier ». Les montagnes de déchets seront « étanchéifiées » avec une couche de résidus miniers très fins puis quelques centimètres de terre. L’entreprise assurera un suivi du site pendant dix ans après la fin de l’activité.

    On sait pourtant que le drainage minier acide est sans limite de temps, comme le rappelle l’association de géologues miniers SystExt. À #Chessy-les-Mines, dans le Rhône, un gisement riche en pyrite a été exploité depuis le Moyen Âge. La mine a fermé après un effondrement dans la galerie principale, survenu en 1877. Un rapport confidentiel du Bureau des recherches géologiques et minières (BRGM) publié en 2019, que Splann ! s’est procuré, décrit le traitement des eaux acides mis en place à #Chessy.

    L’État a constaté que ces #eaux_minières, quoique traitées « depuis 130 ans », étaient trop polluantes, si bien qu’il a dû y construire une toute nouvelle station de traitement en 2005. Le drainage minier acide de Chessy dure donc depuis 150 ans sans que, d’après le rapport, l’#acidité ou les concentrations de métaux dans les eaux n’aient baissé au cours du temps.

    Des eaux acides dont devront s’occuper les générations suivantes

    À Chessy, le problème se pose sur 20 hectares ; à Glomel, il se poserait sur 265 hectares. La création d’une nouvelle fosse et de nouveaux stockages de déchets augmentent d’autant la quantité d’eaux acides dont auront à s’occuper les six ou sept générations à venir.

    « Les pollutions minières du passé posent des problèmes insurmontables, et l’État, qui doit les gérer tant bien que mal, le sait très bien, dit Dominique Williams, membre d’Eau et rivières de Bretagne. Pourtant, il reproduit les mêmes erreurs à une échelle dix fois supérieure. Les services de la préfecture ont délivré cette autorisation sans prendre la mesure de l’ampleur de cette pollution ».

    La préfecture des #Côtes-d’Armor et la direction régionale de l’environnement ont été alertées de la contamination aux #métaux_lourds que révèle notre enquête, et des problèmes soulevés par l’étendue considérable du #drainage_minier_acide après la fermeture du site. La Région Bretagne a elle aussi « soumis ces informations à l’État afin qu’il puisse répondre aux inquiétudes exprimées » tout en indiquant à Splann ! qu’elle prenait « au sérieux l’alerte émise » sur la pollution de la réserve naturelle régionale.

    Or, malgré nos sollicitations, l’État ne s’est pas exprimé. Quant au groupe Imerys, notre rédaction lui a donné la possibilité de revenir sur ses déclarations concernant l’absence de métaux lourds et d’impact sur les eaux : il n’a pas souhaité nous répondre. L’extension de la mine est d’ores et déjà contestée devant la #justice. Fin octobre, l’association Eau et rivières de Bretagne a déposé un recours contre l’ouverture de la nouvelle fosse au tribunal administratif de Rennes.

    IMERYS PARLE EMPOUSSIÈREMENT

    « Vous voyez cette poussière ? Nos animaux la boivent dans leurs abreuvoirs, nos enfants la respirent », s’inquiète une habitante de Glomel, femme d’agriculteur. Sur l’avant-toit de sa maison, la gouttière que montre Émilie (le prénom a été modifié) est tapissée d’un dépôt noir épais de plusieurs centimètres. « Je l’ai nettoyé, mais il n’a mis que quelques mois à revenir », explique-t-elle.

    En plus des trois usines du site, le principal responsable de cette poussière s’appelle le « Sabès » : une montagne de résidus de trente mètres de haut occupant l’équivalent d’une cinquantaine de terrains de football. Quand le vent souffle, ces poussières forment un panache qui saupoudre la campagne.

    À force de plaintes, l’État a demandé à Imerys de poser des jauges « Owen » dans les hameaux voisins, des récipients en plastique juchés sur des poteaux. Selon l’entreprise, la « mesure des retombées de poussière à proximité du site » n’indique « aucun dépassement des seuils réglementaires ». Elle omet simplement de dire que seule la quantité de poussière est mesurée, et pas sa qualité. Sur ce point, Imerys a affirmé aux habitants que « les poussières de la mine se composent principalement d’aluminium ».

    Dans un document du groupe, on peut même lire que « les résidus sableux stockés sur le Sabès sont constitués de sables fins propres. Ils ne contiennent aucun produit chimique ». La véritable composition de ces résidus miniers qui forment ces poussières, bien plus inquiétante, est renseignée quelque part dans les 3 000 pages du dossier d’enquête publique. On y trouve le même cortège de métaux cancérigènes que dans les sédiments analysés par Splann ! : chrome, nickel, arsenic, plomb…

    Certains habitants relient l’activité de la mine, et en particulier ces poussières, à ce qu’ils considèrent comme une épidémie de cancers dans le voisinage du site. Jean-Yves Jego, éleveur dans un hameau voisin et conseiller municipal d’opposition à Glomel, se souvient d’une remarque de l’agent de la Mutualité sociale agricole, quand il a créé son élevage de chèvres en 2011 : « À moitié pour plaisanter, il m’a demandé : “Vous êtes sûr que vous voulez vous installer ici ? Il y a eu trois jeunes hommes morts du cancer à proximité !” »

    https://reporterre.net/Une-immense-mine-pollue-la-Bretagne-l-Etat-ferme-les-yeux
    #pollution #contamination #métaux_lourds #eau #extractivisme #France

  • Surveillance, greenwashing : le mirage écologique d’une ville « intelligente »

    La ville sud-coréenne de #Songdo incarne une promesse « verte » contestée, une #écologie_de_façade au prix de caméras omniprésentes, capteurs et maisons connectées.

    On s’attendrait presque à n’y voir circuler en silence que quelques voitures électriques. Or, à Songdo, les gratte-ciel étincelants, les façades vitrées et les courbes métalliques futuristes captent d’abord le regard. Au cœur de ce district d’Incheon, sur la côte nord-ouest de la Corée du Sud, serpente un canal relié à la mer Jaune. Sortie de l’eau en à peine vingt ans, Songdo a été bâtie sur des terres artificielles gagnées sur la mer.

    « On observe un basculement dans le discours sur la ville au début des années 2000 : Songdo a d’abord été présentée comme “verte”, malgré une destruction massive de l’environnement naturel lors de sa construction. À partir de 2010, le récit a changé : la ville est devenue “smart” (“intelligente”) », dit Suzanne Peyrard, chercheuse associée au Centre Chine, Corée, Japon de l’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) et autrice d’une thèse sur cette ville coréenne (2023).

    Songdo, vitrine sud-coréenne d’une urbanisation high-tech de 265 000 habitants, incarne une promesse contestée entre écologie de façade, gestion opaque des déchets, dépendance à la voiture et omniprésence d’un dispositif de surveillance qui, lui, ne fait aucun doute.

    Gestion des #déchets intelligente... et défaillante

    Du haut de la G-Tower, au 33e étage, la vue impressionne. Encore en cours de construction, la phase 2 du chantier démesuré de Songdo est prévue pour 2027, selon la Ville. La fin du projet ne cesse d’être repoussée et certains lopins de terre forment toujours des espaces vides au milieu des immeubles géants. Auprès de ces friches, on se sent minuscule.

    Les promoteurs vantent encore aujourd’hui une ville « ecofriendly » (« écologique »), dont 40 % de la surface serait occupée par des espaces verts, selon l’#Incheon_Smart_City_Corporation (#ISCC), une société publique spécialisée dans la conception et la gestion de villes intelligentes. Le plus emblématique de ces lieux, Central Park, s’articule autour d’un canal artificiel, qui s’élargit en lac.

    Certains immeubles affichent fièrement leur certification #Leadership_in_Energy_and_Environmental_Design (#Leed), un label qui garantit le respect de normes de conception durable et d’#efficacité_énergétique. Une #promesse accueillie avec scepticisme par Cha Chungha, cofondateur de Re-Imagining Cities, une ONG de conseils sur le développement de « smart cities » : « La plupart des bâtiments qui sont “Leed” passent tout juste le plus bas niveau de certification. Bien sûr, ce n’est pas cela qui est mis en avant. »

    La ville est équipée d’un système souterrain de gestion des déchets, présenté comme innovant lors de son installation : « Les citoyens de la résidence possèdent une carte, qui leur ouvre l’accès aux conteneurs. Les déchets sont ensuite aspirés sous terre, puis envoyés vers des centres de tri situés en dehors de la ville, mais le système est défaillant. Cela provoque régulièrement l’apparition de tas d’ordures dans les rues. Les tunnels souterrains, prévus pour faciliter la logistique, ont aussi favorisé la prolifération de nuisibles », détaille Suzanne Peyrard.

    De plus, l’accès à ces conteneurs « smart » est inégal suivant les résidences, observe Dakota McCarty, titulaire d’un doctorat en urbanisme et professeur adjoint en sciences et politiques de l’environnement à l’université George Mason de Corée.

    « L’expérience des habitants ne résonne pas avec ce qui correspond à une vision large de la “smart city”. Bien que le système de déchets souterrains soit technologiquement avancé, la plupart des habitants n’y ont plus accès et certains le remettent en question, le considérant comme un projet coûteux dans une ville où d’autres services essentiels, comme les transports publics, semblent sous-développés. »

    Une ville énergivore

    Quant à l’image écologique de la ville, où siège le Fonds vert pour le climat de l’Organisation des Nations unies (ONU) depuis 2013, Richard, un Canadien habitant Songdo depuis trois ans, n’est pas dupe : « C’est assez ironique puisque la ville a été construite sur des terres asséchées. »

    Si quelques panneaux solaires, des pistes cyclables et certains toits végétalisés sont bien visibles, « l’empreinte de Songdo reste importante en raison de sa dépendance à l’égard des #voitures_individuelles, de la forte consommation d’#énergie de ses bâtiments et du coût environnemental de la remise en état des terres sur lesquelles elle a été construite », précise Dakota McCarty. Sans compter les « immenses #parkings et les larges avenues à plusieurs voies qui donnent la priorité à la circulation automobile », ajoute le professeur.

    Pourtant, c’est au cœur d’une zone piétonne qu’a choisi de s’installer Seok-Hoon [*], il y a six ans. Le quadragénaire, qui travaille pour le compte d’entreprises biopharmaceutiques, évoque d’abord l’emplacement du lieu : « Près de mon appartement, c’est un espace interdit aux voitures. J’ai pensé que c’était idéal pour élever mon enfant, plus sûr. »

    Et puis, il y a ses clients. Selon The Korea Herald, la capacité de production biopharmaceutique du Songdo Bio Cluster, un pôle rassemblant plusieurs entreprises leaders du marché mondial, est la plus importante au monde. Quant aux avantages des services intelligents de la ville, il ne les évoquera pas, et ne saura ni les désigner ni émettre d’avis sur le sujet.

    En face du musée de l’histoire urbaine d’Incheon, à l’angle d’un arrêt de bus, un écran indique la position du car en temps réel, mais aussi la température, 36 °C, et la qualité de l’air, bien que cet indicatif soit en panne (mesuré à 0 µg/m³). Plus étonnant, le panneau affiche la fréquentation du bus en question, de « peu fréquenté » à « normal », et va jusqu’à renseigner les passagers sur le nombre de sièges encore disponibles.

    La version considérée comme la plus intelligente de ces arrêts de bus est close, chauffée en hiver, climatisée en été et, au besoin, recharge sans fil votre smartphone. Cette #technologie, comme toutes les autres, est promue par l’ISCC. Pourtant, après avoir sillonné en bus une partie des 600 hectares du district, aucune trace de ces arrêts intelligents. Les agents de l’office du tourisme lèveront le mystère : il n’en existe que quatre.

    Contrôle des #espaces_publics et privés

    À quelques pas de l’institution se dresse l’imposante G-Tower. Les visiteurs peuvent avoir un aperçu des services intelligents développés dans la ville. Après une présentation et la projection d’une courte vidéo promotionnelle, le public est invité à se placer debout devant l’écran. L’effet de surprise ne tarde pas : l’écran est en réalité une immense baie vitrée qui surplombe une salle de contrôle plongée dans la pénombre. Seules les lueurs des écrans s’y détachent, diffusant en temps réel les images captées par des milliers de caméras disséminées dans toute la ville.

    Installés derrière les rangées de bureaux qui y font face, les employés se relaient 24 h/24 pour analyser ces informations. Chaque plaque d’immatriculation entrant et sortant de Songdo est scannée. Un véhicule qui mordrait sur un passage piéton sera identifié. « On nous demande souvent si nous contactons les piétons qui ne respectent pas les feux verts pour traverser par exemple, dit en riant Lee Min-Kyeong, responsable des relations publiques à l’ISCC. La réponse est non. » Mais les équipes, en revanche, sont capables de contrôler les feux des intersections pour permettre une intervention plus rapide de la police et des pompiers.

    Sol, 26 ans, ne savait rien de ces dispositifs. « La première fois que j’ai visité Songdo, ça m’a juste coupé le souffle. Je me suis dit : “Je ne sais pas combien de temps cela prendra, mais je veux vivre ici”. Tout est si beau, si propre, si moderne. »

    L’étudiante dominicaine a fini par choisir son université uniquement pour son emplacement, dans le but de s’installer dans le district. Dans son dortoir, pas de services intelligents, mais à l’extérieur, « smart city » ou pas, c’est plutôt cette impression de neuf et de technologie qui l’enchante, comme la multiplication d’écrans en tout genre.

    Au niveau individuel, « certains dispositifs permettent de contrôler l’ensemble de l’appartement où l’on vit », explique Suzanne Peyrard. Lim Su-Yeon, 38 ans, confirme : « Je reçois une alerte quand le lave-linge a fini de tourner, et je peux vérifier sur mon portable que j’ai bien éteint l’induction. »

    Les écrans de contrôle, en plus d’éteindre et d’allumer lumières et gaz, affichent la consommation en temps réel de l’électricité et du chauffage. Ces données sont bien protégées, assure la chercheuse, qui se dit impressionnée par le niveau de sécurité déployé.

    « Le contexte géopolitique — la guerre toujours en suspens avec la Corée du Nord — oblige le pays à stocker ses #données à l’intérieur de son territoire. Pourtant, cela coexiste avec des pratiques très intrusives dans les #espaces_semi-privés. Lorsqu’on habite dans une résidence, on peut consulter toutes les #caméras des parties communes », développe Suzanne Peyrard, qui a habité le district pendant un an et demi.

    Et la chercheuse d’ajouter : « Une partie des caméras de la ville est factice ou non connectée, et la #reconnaissance_faciale n’est pas systématiquement activée. Finalement, la question de la #surveillance est souvent posée à travers un prisme français. En Corée du Sud, la présence de caméras est largement acceptée, voire considérée comme neutre. »

    https://reporterre.net/Surveillance-greenwashing-le-mirage-ecologique-d-une-ville-intelligente
    #smart_cities #villes_intelligentes #surveillance #green-washing #urbanisme #Corée_du_Sud

  • Incendi, l’emergenza in Calabria nelle foto della Nasa e la ’ndrangheta sullo sfondo: «Roghi per coprire rifiuti tossici»

    L’osservatorio satellitare mostra la mappa del fuoco nell’ultima settimana. È allarme anche in Sicilia e Puglia. Nel Vibonese i danni maggiori negli ultimi giorni, la crisi in Aspromonte vista da Gioacchino Criaco: «Invece di prevenire speriamo nel fato e nei droni»

    La foto di Firms (Fire information for resource management system) della Nasa mostra una Calabria che brucia in un Sud flagellato dagli incendi, puntellato di rosso dai roghi che, nell’ultima settimana, hanno divorato decine di ettari del territorio. In Sicilia e Puglia la situazione appare, stando alle immagini satellitari, altrettanto drammatica (nel Salento forse ancora di più).

    In Calabria il Vibonese e l’Aspromonte sembrano le aree più colpite negli ultimi giorni: in provincia di Vibo, in particolare, il numero degli incendi è cresciuto in maniera esponenziale nei giorni del caldo record, trainato da afa e vento. Il bilancio dice duecentoventi incendi in meno di un mese e il quadro tracciato dal comandante provinciale dei Vigili del Fuoco di Vibo Valentia, Ambrogio Ponterio individua le aree più colpite: Mileto, Pizzo, Nicotera, Joppolo. Entra nel novero anche Drapia, dove 48 ore di fuoco hanno messo a dura prova soccorsi e cittadini: «Quasi il 40% del nostro territorio è oramai cenere», ha raccontato al Vibonese il sindaco Alessandro Porcelli. Il resort evacuato a Cirò Marina e l’altro lambito dalle fiamme a Sibari la scorsa notte danno la misura di quanto le fiamme mettano a rischio anche il turismo nel clou della stagione estiva.

    L’accusa di Savino: «Incendi per nascondere lo smaltimento di sostanze tossiche»

    Le foto del disastro fanno il giro dei social e la polemica sconfina nel campo della politica, tra accuse dell’opposizione per mancati interventi di prevenzione e la maggioranza che accusa i rivali di procurato allarme. Che le aree montane siano spopolate e sguarnite è un fatto. Ma da più parti arriva una lettura dell’emergenza che la riconduce a fenomeni criminale. La denuncia del vescovo di Cassano allo Ionio è stato chiara e indirizzata a un business illegale specifico: «Dietro la coltre di fumo si cela la figura vile e arrogante della criminalità organizzata, in combutta con operatori economici senza scrupoli. Questi roghi non sono incidenti fortuiti, ma tattiche di una guerra occulta e spregevole contro la natura e gli abitanti. Il loro scopo è occultare lo smaltimento illecito di sostanze tossiche, scorie industriali e scarti speciali che stanno contaminando il suolo, l’atmosfera e le riserve idriche. Si tratta di un’economia letale, fondata sul profitto sfrenato e su un sistema di illegalità diffusa, che opera nell’ombra ma possiede volti, nomi e interessi ben definiti».

    Criaco: «Si poteva fare qualcosa invece si punta sul fato e sui droni»

    Anche lo scrittore Gioacchino Criaco, nei giorni scorsi, ha fatto sentire la propria voce dopo gli incendi nel Reggino mettendo nel mirino, però, la mancata programmazione: «Nulla di serio è stato programmato per annientare, limitare, gli incendi – ha scritto sul proprio profilo social –. Tutti o quasi hanno tradito, tutti o quasi abbiamo tradito, chi per tanto, chi per poco chi per nulla, chi per interesse e chi per viltà, chi per arroganza e chi per servilismo. E a voglia a rifiutarla, l’unica parola appropriata è tradimento».

    L’autore avanza anche qualche proposta: «Avrei provato, leggi permettendo, a costituire un assessorato alla prevenzione degli incendi in Regione, con competenza esclusiva su Calabria Verde e sul Consorzio Unico. Avrei provato a costituire in ogni Comune un assessorato dedicato. Avrei assunto, anche in forma stagionale, personale per la prevenzione e l’intervento. Avrei diviso il territorio in microaree, delineando responsabilità specifiche. Avrei integrato guide e pastori. Avrei costituito comitati permanenti con dentro camminatori, guide, pastori, studiosi, chiunque potesse anche lontanamente essere utile. Avrei costruito piccoli invasi nelle microaree e dotato il personale degli strumenti necessari. Tutto comunque meno costoso degli interventi ex post. Avrei fatto il giro delle scuole a dire ai ragazzi cos’è il tradimento e chi sono i traditori... avrei tentato di tutto, non sarei rimasto a sperare nel fato e nella pioggia o nei droni che il mondo ci invidia».

    https://www.lacnews24.it/cronaca/incendi-lemergenza-in-calabria-nelle-foto-della-nasa-e-la-ndrangheta-sullo
    #feux #incendies #Calabre #déchets #mafia #ndrangheta #Italie

    • SOS INCENDI. In Italia nei primi sette mesi 2025 bruciati 30.988 ettari di territorio

      I dati del nuovo dossier “Italia in fumo” (https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/2025-Report-Incendi-1.pdf) di Legambiente. Nei primi sette mesi 2025 bruciati 30.988 ettari di territorio pari a 43.400 campi da calcio. Il Meridione il più colpito dall’emergenza incendi con sei regioni in cima alla classifica per ettari percorsi dalle fiamme: Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania e Sardegna. Incendiari, ecomafiosi e crisi climatica tra le cause degli incendi boschivi. Sotto attacco le aree naturali protette: andati persi da inizio anno 6.261 ettari di aree Natura 2000. Preoccupano i ritardi nell’attuazione dei Piani Antincendio Boschivo (AIB): 5 parchi nazionali hanno il piano scaduto e ancora in fase di rielaborazione

      In Italia è SOS incendi. Dal 1° gennaio al 18 luglio 2025 nella Penisola si sono verificati 653 incendi che hanno mandato in fumo 30.988 ettari di territorio pari a 43.400 campi da calcio. Parliamo di una media di 3,3 incendi al giorno con una superficie media bruciata di 47,5 ettari. A scattare questa fotografia è Legambiente che oggi diffonde i dati del suo nuovo report “L’Italia in fumo” insieme a un pacchetto di 12 proposte e 5 buone pratiche da replicare a livello nazionale, affinché il Paese recuperi i ritardi in fatto di prevenzione e controlli e colmi la frammentazione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali attraverso una strategia e una governance integrata che ad oggi manca all’appello. Stando al report di Legambiente, che ha analizzato e rielaborato i dati EFFIS (European Forest Fire Information System), dei ben 30.988 ettari di territorio bruciati nei primi sette mesi del 2025, 18.115 hanno riguardato ettari naturali (ossia aree boscate); 12.733 ha hanno interessato aree agricole, 120 ettari aree artificiali, 7 ettari aree di altro tipo.

      Sud e Isole sotto scacco delle fiamme: Il Meridione si conferma l’area più colpita dagli incendi con sei regioni in cima alla classifica per ettari bruciati. Maglia nera alla Sicilia, con 16.938 ettari bruciati in 248 roghi. Seguita da Calabria, con 3.633 ettari in 178 eventi incendiari, Puglia con 3.622 ettari in 69 eventi, Basilicata con 2.121 ettari in soli 13 roghi (con la media ettari per incendio più alta: 163,15), Campania con 1.826 ettari in 77 eventi e la Sardegna con 1.465 ettari in 19 roghi. Tra le regioni del Centro e Nord Italia: ci sono il Lazio (settimo in classifica) con 696 ettari andati in fumo in 28 roghi e la Provincia di Bolzano (ottava in classifica) con 216 ettari in 3 roghi e la Lombardia.

      Per l’associazione ambientalista ad oggi il Paese paga non solo lo scotto dei troppi ritardi, ma anche l’acuirsi della crisi climatica che amplifica il rischio di incendi boschivi e l’assalto delle ecomafie e degli incendiari. Secondo l’ultimo Rapporto Ecomafia diffuso il 10 luglio scorso, nel 2024 sono stati 3.239 i reati (incendi boschivi e di vegetazione, dolosi, colposi e generici in Italia) contestati dalle forze dell’ordine, Carabinieri forestali e Corpi forestali regionali, un dato però in calo del 12,2% rispetto al 2023. Sono 459 le persone denunciate (-2,1% rispetto al 2023), 14 invece quelle arrestate (+16,7% rispetto al 2023). L’analisi di questi fenomeni criminali è arricchita dalle attività, anche di carattere preventivo raccontate sempre nel Rapporto Ecomafia grazie al contributo elaborato dal Nucleo informativo antincendio boschivo del Comando Carabinieri per la Tutela forestale e dei Parchi. Il dettaglio delle notizie di reato conferma la prevalenza degli incendi di natura dolosa (1.197 su 2.612, pari al 45,8%), purtroppo per il 95% contro ignoti. Sempre di origine prevalentemente dolosa sono le notizie di reato relative a incendi di vegetazione non boschiva, 294 su 423, pari a circa il 70%, anche in questo caso quasi sempre contro ignoti.

      “Per contrastare gli incendi boschivi – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – non basta concentrarsi sull’emergenza estiva o su singole cause, ma è fondamentale adottare un approccio integrato che integri prevenzione, rilevamento, monitoraggio e lotta attiva. Bisogna puntare sulla prevenzione attraverso una gestione territoriale efficace, che includa l’uso ecologicamente sostenibile delle risorse agro-silvo-pastorali. Ma è anche fondamentale promuovere e remunerare i servizi ecosistemici, sostenendo e rivitalizzando le comunità rurali nelle aree interne e montane affinché possano riappropriarsi di una funzione di presidio territoriale. Allo stesso tempo è importante applicare la normativa vigente per arginare qualsiasi ipotesi di speculazione futura sulle aree percorse dal fuoco, ed estendere le pene previste per il reato di incendio boschivo a qualsiasi rogo. È cruciale rafforzare le attività investigative per individuare i diversi interessi che spingono ad appiccare il fuoco, anche in modo reiterato. L’analisi approfondita dei luoghi colpiti e dei punti d’innesco accertati può costruire una mappa investigativa essenziale per risalire ai responsabili”.
      Classifica regionale per roghi più distruttivi

      Nel report Legambiente stila anche la classifica degli eventi maggiormente distruttivi che hanno coinvolto una superficie superiore ai 100 ettari vede ancora al primo posto la Sicilia con 49 incendi su un totale nazionale di 81, seguita da Puglia con 10 incendi e 1957 ettari andati in fumo, Basilicata, Sardegna, Campania con rispettivamente 5 roghi e 1880, 1089, e 824 ettari bruciati.
      Aree naturali sotto attacco e ritardi Piani AIB

      Preoccupano anche gli incendi scoppiati in aree naturali. Su 30.988 ettari di territorio bruciati, ben 6.260,99 hanno riguardo aree Natura 2000 in 198 eventi incendiari. Quella interessata dal rogo più grave è stata a Dualchi (Nu), che ha visto andare distrutti 439 ettari, tutti in area Natura 2000. A livello regionale, Puglia e Sicilia risultano le regioni più colpite da incendi in aree Natura 2000. La Puglia con 2.169 ettari andati in fumo per colpa di 43 incendi, la seconda, la Sicilia, con 1.547 ettari andati distrutti per causa di un numero maggiore di incendi, ben 62. Seguono in classifica la Sardegna (740 ettari in 6 incendi), la Campania (738 ettari in 27 incendi) e la Calabria (590 ettari in 40 incendi).

      Un dato preoccupante a cui va aggiunto quello sui ritardi d’attuazione dei Piani Antincendio Boschivo (AIB) che per legge (art.8 l 353/2000) deve essere approntata per le aree naturali protette, nazionali e regionali. Secondo gli ultimi dati disponibili sul portale del MASE, aggiornati al 31/12/2024, su un totale di 24 Parchi nazionali sono 8 quelli che dispongono di un Piano AIB vigente, avendo completato l’intero iter di adozione, con l’inserimento nei Piani AIB regionali e l’emanazione del Decreto Ministeriale di adozione. 11 quelli con un Piano AIB approvato dall’Ente gestore, ma l’iter di adozione non è ancora concluso: in alcuni casi, i piani non sono conformi e sono in fase di rielaborazione; in altri, sono in attesa del parere del CUFA (Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri) e/o del CNVVF (Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco) e dell’intesa regionale. 5 Parchi Nazionali (Val Grande, Stelvio, Dolomiti Bellunesi, Appennino Tosco Emiliano, Aspromonte) avevano un Piano AIB adottato ma recentemente scaduto, e il nuovo piano è attualmente ancora in fase di elaborazione. Inoltre, delle 67 Riserve Naturali Statali e al di fuori dei Parchi Nazionali (e quindi legalmente obbligate a dotarsi di un Piano AIB), solo 8 hanno completato l’iter di approvazione. Le rimanenti 59 Riserve hanno la procedura per il Piano AIB ancora in corso.

      “Gli incendi – aggiunge Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette di Legambiente – sono un problema complesso che richiede un cambio di approccio radicale. Se da un lato l’Italia ha compiuto passi significativi nell’aggiornamento della legislazione, con norme che mirano a rafforzare le pene per i responsabili e a promuovere la prevenzione attraverso la pianificazione territoriale e la gestione del paesaggio, persistono criticità che ne limitano l’efficacia come la frammentazione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali, spesso sovrapposte e non sempre coordinate. Ciò rappresenta un punto debole intrinseco, rallentando l’attuazione di strategie integrate e a lungo termine e su cui occorre al più presto lavorare. Non vanno dimenticate poi le buone pratiche in atto, che meritano di essere replicate, e il supporto che la tecnologia più dare nella partita della prevenzione come dimostra anche il progetto avviato in Abruzzo la scorsa estate con INWIT, e con cui stiamo collaborando, incentrato sull’utilizzo di servizi innovativi basati su IoT per contrastare gli incendi boschivi”.
      12 proposte e 5 buone pratiche

      Di fronte a questo quadro Legambiente oggi ha lanciato anche un pacchetto di 12 proposte chiedendo di: 1) Migliorare il coordinamento istituzionale per il governo integrato degli incendi boschivi e coinvolgere le istituzioni competenti per la gestione forestale. 2) Integrare le strategie di adattamento con la pianificazione forestale e quella antincendio boschivo. 3) Garantire la gestione sostenibile delle zone rurali per ridurre il rischio di incendio. 4) Adottare il pascolo prescritto per la prevenzione degli incendi. 5) Coinvolgere i cittadini e le comunità locali: Fire smart community e Fire smart territory. 6) Garantire dati e statistiche aggiornate e l’attuazione e aggiornamento del catasto delle aree percorse al fuoco. 7) Favorire il ripristino ecologico e funzionale delle aree percorse dal fuoco. 8) Integrare la pianificazione urbanistica con la prevenzione degli incendi boschivi. 9) Potenziare i presidi dello Stato nella lotta agli incendi boschivi. 10) Estendere le pene previste per il reato di incendio boschivo a qualunque tipologia di incendio. 11) Migliorare l’applicazione delle norme contro gli incendi boschivi; 12) Rafforzare i divieti previsti dalle norme nazionali e regionali.

      Sul fronte buone pratiche, Legambiente nel report cita il “Fire smart community e fire smart territory”, il progettista del fuoco prescritto, la pianificazione integrata in Piemonte, i Piani specifici di prevenzione (PSP) della Regione Toscana per arrivare al progetto di INWIT con servizi innovativi basati su IoT per contrastare gli incendi boschivi. Azioni che meritano di essere replicate sul territorio nazionale.

      https://www.legambiente.it/comunicati-stampa/sos-incendi-in-italia-nei-primi-sette-mesi-2025-bruciati-30-988-ettari-d

  • Trgovska Gora: i rifiuti radioattivi nella periferia d’Europa
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Trgovska-Gora-i-rifiuti-radioattivi-nella-periferia-d-Europa-238918

    Sono iniziati i lavori di demolizione di fabbricati dismessi nell’area dell’ex caserma di Čerkezovac, in Croazia, al confine con la Bosnia Erzegovina, per lasciare spazio al controverso nuovo centro per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi della centrale nucleare di Krško

  • #Un couple détruit « la chaise de Van Gogh » en s’asseyant dessus dans un musée italien *

    Le 12 juin, le Palazzo Maffei de Vérone a diffusé les images de vidéosurveillance d’un incident pour le moins édifiant : un couple de touristes y est filmé en train de détruire une œuvre d’art contemporaine en s’asseyant dessus.

    La scène s’est déroulée dans une salle d’exposition, à un moment où les agents de surveillance s’étaient temporairement absentés. Profitant de leur absence, les visiteurs ont tenté de prendre une photo « à effet », explique le musée sur Instagram. On peut voir l’homme mimant une posture assise sur ce qui semblait être une chaise. Mais au lieu de feindre, il s’est véritablement assis... provoquant l’effondrement de l’œuvre.
    . . . . .
    https://www.youtube.com/watch?v=f4SUsTYG1qA

    source : https://www.lefigaro.fr/culture/un-couple-detruit-la-chaise-de-van-gogh-en-s-asseyant-dessus-dans-un-musee-

    #finance #déchets les #journuliste qualifient cette #fumisterie d’oeuvre d’#art la #vidéo-surveillance ne sert à rien

  • Des données officielles confirment la pollution autour de l’incinérateur d’Ivry-Paris 13, l’un des plus grands et anciens d’Europe
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2025/05/27/des-donnees-officielles-confirment-la-pollution-autour-de-l-incinerateur-d-i

    En février 2022, une étude de la fondation ToxicoWatch, spécialisée dans l’analyse toxicologique des polluants émis par les incinérateurs, pour le collectif 3R, avait révélé une contamination massive aux dioxines des œufs dans les poulaillers à Ivry et aux alentours. Depuis, l’ARS recommande toujours de ne pas consommer d’œufs issus de poulaillers domestiques dans 410 communes de l’aire urbaine de Paris et répète que l’incinérateur est une source de pollution parmi d’autres avec le trafic routier ou le brûlage de déchets à l’air libre.

    En avril, une nouvelle étude de ToxicoWatch a mis en évidence des niveaux importants de dioxines et de métaux lourds dans des mousses prélevées à moins de un kilomètre de l’incinérateur notamment dans des cours d’écoles d’Ivry et de la commune voisine de Charenton-le-Pont. Le Syctom a alors mis en cause la méthodologie de la fondation et assuré, comme en février 2022, que le lien n’est pas établi avec l’incinérateur, situé près du périphérique, à cheval sur Ivry et le 13e arrondissement de Paris.

    [...]

    Les concentrations relevées autour de l’incinérateur d’Ivry-Paris 13 oscillent donc entre près de deux fois et dix fois au-dessus de la valeur réglementaire allemande à mesure que l’on se rapproche de l’usine. « Ces données montrent qu’il y a bien une pollution due à l’incinération et pas seulement au trafic routier, contrairement à ce que répète le Syctom à chaque étude », commente Amélie Boespflug, coprésidente du collectif 3R.

    [...] En avril, les représentants de parents d’élèves FCPE de plusieurs écoles ont écrit à l’agence régionale de santé (ARS) d’Ile-de-France avec cette question : « Est-il dangereux d’élever nos enfants à Ivry-sur-Seine ? » Le journal municipal de mai précise que les services de la ville étudient « une éventuelle répartition des élèves concernées dans d’autres établissements ». « Si on m’explique qu’il y a un risque sanitaire, je déplacerai les enfants, dit au Monde le maire (Parti communiste français) d’Ivry, Philippe Bouyssou. J’ai besoin d’un positionnement clair et sans ambiguïtés des autorités sanitaires : est-ce que oui ou non il y a un risque avec les retombées de dioxines ? »

    #pollution #air #déchets #incinérateur #ivry #Paris #école #cancer

    • « C’est l’incinérateur qui doit fermer, pas les écoles » : profs et parents veulent des réponses sur la pollution de l’usine
      https://www.leparisien.fr/val-de-marne-94/ivry-sur-seine-94200/cest-lincinerateur-qui-doit-fermer-pas-les-ecoles-profs-et-parents-veulen

      Aucun lien, pour le moment, n’est fait entre ces cas et l’incinérateur. Mais pour les représentants syndicaux, il y aurait un nombre anormal de cas de cancers dans cet établissement [lycée Romain-Rolland d’Ivry-sur-Seine]. La FSU exige également une plus grande transparence sur les prélèvements réalisés au sein du lycée et de la zone proche de l’incinérateur.

      Sans accès à ces demandes, le syndicaliste assure que les personnels pourraient, à la rentrée, faire valoir leur droit de retrait et qu’une "grève est tout à fait possible. Mais l’idéal serait d’éviter le conflit en informant sur l’état des contaminations, en envisageant de déplacer les écoles, de végétaliser, de mettre en place des purificateurs d’air ou autres solutions. »

      Au-delà des profs, c’est toute la communauté éducative qui n’en peut plus du flou concernant ce qu’elle estime être un manque de communication des autorités autour de cette fameuse pollution aux dioxines. Près de 72 conseils locaux de parents d’élèves d’Ivry mais aussi des XIIe et XIIIe arrondissements de Paris exigent même « l’arrêt immédiat de l’incinération de déchets à Ivry-sur-Seine ».

      « On espérait être rassurés de la part des pouvoirs publics lors de la dernière réunion mais on est ressorti alarmés. On était choqué du manque de réponse, on a presque vécu ça comme un manque de respect ou de sérieux », souffle Tomas Ibarlucia, papa d’un jeune garçon scolarisé dans l’école élémentaire l’Orme au Chat et représentant des parents d’élèves.

      « Quand j’entends qu’on pourrait déplacer les écoles, je trouve ça inacceptable. C’est l’incinérateur qui doit fermer ! ». Selon lui, des habitants envisageraient de déménager face à cette situation. « Soit les autorités publiques nous démontrent que ces pollutions sont sans risque ou alors ils prennent toutes les mesures nécessaires. Parce que si les enfants tombent malades ce sera de leur responsabilité. »

  • Petits réacteurs nucléaires modulaires : neuf modèles suivis par l’Autorité de Sûreté
    https://www.enviscope.com/petits-reacteurs-nucleaires-modulaires-neuf-modeles-suivis-par-lautorite-

    Michel Deprost 11/06/2025 - A la une, Nucléaire

    Les projets de petits #réacteurs #modulaires (#PRM) ou Small Modular reactors (#SMR) visent à répondre à des besoins en électricité à des niveaux moindres de puissance et d’une manière plus décentralisée. L’#ASNR suit l’émergence de neuf modèles.

    Les petits réacteurs modulaires introduisent une rupture dans la logique historique du #nucléaire civil qui a visé depuis des décennies à construire des réacteurs de plus en plus puissants : 600 MW, 900 MW, 1300 MW. Pour chaque accroissement de la puissance, il a été nécessaire de repenser en profondeur la conception globale y compris le génie civil. L’augmentation de la puissance a interdit, par nature, la construction en grandes séries.

    Des standards de sûreté identiques

    Les petits réacteurs modulaires sont présentés comme une solution flexible. En 2024, 9 modèles de petits réacteurs modulaires étaient suivis par l’ASNR sans compter le projet #Nuward porté par #EDF. Paul Durliat, chef de la Division de Lyon de l’ASNR, rappelle que pour les petits réacteurs modulaires la réglementation est la même que pour les réacteurs actuels. « Généralement ils présentent des standards de sûreté […] très élevés mais posent beaucoup de questions : il faut démontrer la capacité à construire du combustible dans des conditions de sûreté satisfaisante ». Ils imposent aussi de #prévoir le #démantèlement et la gestion des #déchets. Il faut enfin prendre en considération le fait que ces réacteurs seraient installés dans des zones plus densément peuplées que les réacteurs actuels.

    Une démarche cadrée

    L’ASNR a mis en place une démarche pour suivre l’avancement de ces projets avec différentes étapes. Certains, pourraient faire une Demande d’Autorisation de Création (#DAC). Jimmy Energy a déjà déposé sa demande, pour un projet de réacteur à haute température de 20 MWth. L’instruction est en cours. #Calogena est en phase de pré-instruction pour un projet de réacteur à eau légère de 30 MWth. Les porteurs de projets #NAAREA et de #Newcleo préparent leur DAC car ils ont validé la phase préparatoire. #Thorizon, jeune pousse néerlandaise qui s’implante à Lyon est en cours de phase préparatoire, au stade de la revue.

    Eric Zelnio chef du pôle LUUD ASN relève : « ça fait longtemps qu’on n’a pas eu autant de compétiteurs avec des solutions différentes. […] On peut raisonnablement penser que tout ne se traduira pas par des installations en fonctionnement […] parmi celles qui iront au bout un certain nombre d’options permettront peut-être des réemplois de matière ». Pour Eric Zelnio, il est prématuré de prévoir la part des PMR par rapport à l’ensemble du cycle […] il faut au moins attendre l’horizon 2030, pour voir qui arrive à concrétiser ses projets.

  • La Cour des comptes alerte sur l’urgence du stockage des déchets faiblement radioactifs

    Ces déchets dits de « faible activité à vie longue (FAVL) » représentent en volume plus d’une centaine de piscines olympiques.

    Où stocker les déchets faiblement radioactifs qui peuvent rester encore actifs pendant 100 000 ans, en France ? La Cour des comptes appelle les autorités à identifier rapidement des sites adaptés pour accueillir quelque 280 000 m3 de ces déchets, pour lesquels aucune solution de stockage n’existe aujourd’hui, selon un rapport publié mardi 3 juin.

    (...)

    Mais pour le long terme, la Cour des comptes fait le constat qu’"à ce jour aucune solution de stockage opérationnelle n’existe" pour ces déchets. Ils ne sont pas acceptés dans les stockages de surface compte tenu de leur vie longue, mais leur faible activité « ne justifie pas » non plus un stockage géologique comme dans le projet Cigéo, destiné à recevoir à 500 m de profondeur les déchets les plus dangereux à Bure (Meuse).

    https://www.franceinfo.fr/environnement/energie/nucleaire/la-cour-des-comptes-alerte-sur-l-urgence-du-stockage-des-dechets-faibleme

    #nucléaire
    #déchets_radioactifs
    #ANDRA

  • La crise du chiffonnage à #Paris (1900-1939)
    https://metropolitiques.eu/La-crise-du-chiffonnage-a-Paris-1900-1939.html

    Les chiffonniers ont marqué l’histoire des représentations de Paris. Dans les années 1940, leur disparition signe la fin d’un monde professionnel du recyclage, victime de l’industrialisation du traitement des #déchets privilégiant l’incinération et la mise en décharge. Pendant le premier tiers du XXe siècle, la région parisienne devient l’une des métropoles les plus urbanisées et industrialisées de l’Europe continentale. Les conséquences environnementales de la croissance démographique et les changements #Essais

    / déchets, Paris, #banlieue, #chiffonnier, #hygiène, #incinération, #collecte_des_ordures, #histoire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_ramon.pdf

  • Pollution plastique 5 000 canards se sont jetés à l’eau ce dimanche à Namur : « L’année prochaine on en prévoit 10 000 »

    Ce dimanche 18 mai, la Sambre a couiné. Elle en a vu passer des navires, des kayaks, des péniches amoureuses du ralenti, mais jamais une pareille basse-cour flottante : 5 000 canards jaunes se sont jetés à l’eau depuis le pont de l’Évêché, dans un tourbillon aquatique parfaitement organisé. Canamurois, premier du nom, événement mi-fou, mi-fondé, entièrement dédié à la course… de canards en plastique.

    Organisée par les Rotary Namur Val Mosan et Confluent, les volatiles . . . .


    La suite : https://www.lavenir.net/regions/namur/2025/05/18/5-000-canards-se-sont-jetes-a-leau-ce-dimanche-a-namur-lannee-prochaine-on-en-prevoit-10-000-DB6ES7HEX5F25J3KBFGCY3YNIE/?cx_testId=30&cx_testVariant=cx_1&cx_artPos=2#cxrecs_s

     #plastique #pollution #déchets #environnement #rotary #rotary club #eau #bêtise #conneries #Belgique

  • Le #nucléaire va ruiner la #France
    https://reporterre.net/La-relance-du-nucleaire-va-ruiner-la-France

    Malgré le coût faramineux du tout-nucléaire, la France s’enferre dans cette impasse. Voici les bonnes feuilles du livre-enquête « Le nucléaire va ruiner la France ». Laure Noualhat y décortique les mécanismes d’une gabegie.

    La relance nucléaire est-elle raisonnable ? À en croire Emmanuel Macron et tant d’autres, le « graal » nucléaire serait la seule solution pour ralentir le changement climatique et préserver notre confort. Alors que l’État fait des économies à tout-va, le secteur semble bénéficier d’un budget illimité.

    On a appris lundi que le centre d’enfouissement de #déchets_nucléaires #Cigéo à #Bure, coûtera jusqu’à 37,5 milliards d’euros. Pour la relance de la filière, la facture grimpera au minimum à 80 #milliards d’euros. À mesure que les #retards s’accumulent, ces montants sont sans cesse revus à la hausse. Le tout alors qu’#EDF est déjà lourdement endettée.

  • Stockage des #déchets #nucléaires à #Bure : pourquoi la facture du projet d’enfouissement pourrait exploser
    https://www.francetvinfo.fr/environnement/energie/nucleaire/dechets-nucleaires-a-bure/stockage-des-dechets-nucleaires-a-bure-pourquoi-la-facture-du-projet-d-

    Selon une nouvelle estimation de l’#Andra, le coût total de ce projet hors norme pourrait finalement s’élever à 37,5 milliards d’euros.

    Plus ça va, plus ça coûte cher. Comme l’EPR. Comme le démantèlement. Comme tout ce que l’atome nucléarise.

    • le projet Cigéo pourrait coûter entre 26,1 et 37,5 milliards d’euros*, étalés sur 150 années d’exploitation du site.

      Pour l’heure, 83 000 m3 de déchets les plus radioactifs sont attendus à Bure, dont la moitié a déjà été produite.

      Donc on y stockerait 553m³/an, on mettrait 75 ans à stocker les déchets produits en grosso-merdo 75 ans d’exploitation !? Donc ça ne suffit pas aux déchets qui continueraient d’être produits. Dans 150 ans il y aurait encore 75 ans de déchets à gérer. Soit ils se sont basé sur un projet d’arrêt du nucléaire civil soit c’est sous-dimensionné de moitié !

  • Le #compostage manuel de grande capacité : Red Hook Compost à #New_York
    https://metropolitiques.eu/Le-compostage-manuel-de-grande-capacite-Red-Hook-Compost-a-New-York.

    A travers l’exemple de Red Hook Compost, le site de compostage manuel le plus important des États-Unis, Stéphane Tonnelat montre que le compostage collectif peut être un levier d’apprentissage tout en traitant de grandes quantités de matières organiques. Il est aussi source de fierté pour ses usagers qui reconnectent leur alimentation aux sols agricoles. Le site de compostage de Red Hook, dans le district de Brooklyn, à New York, transforme plus de 200 tonnes de #déchets organiques par an avec des #Terrains

    / New York, compostage, déchets, #déchets_organiques, #insertion_sociale, #bénévoles, #prévention

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_tonnelat5.pdf