• Gli affari dei “campioni italiani” con il regime di #al-Sisi in Egitto

    #Eni, #Snam, #Intesa_Sanpaolo e #Sace hanno stretto in questi anni rapporti proficui con il governo del Cairo, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Nemmeno l’omicidio di Giulio Regeni ha segnato un punto di svolta nella fossile “campagna d’Egitto”. Il dettagliato report di ReCommon (https://www.recommon.org) in occasione della Cop27 sul clima.

    Perché Eni ha continuato ad aumentare i propri investimenti in Egitto persino dopo che sono emersi possibili legami tra l’assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni e il regime di Abdel Fattah al-Sisi? Qual è stata la destinazione finale degli ingenti finanziamenti che Intesa Sanpaolo ha concesso al ministero della Difesa e al ministero delle Finanze egiziani? Perché l’assicuratore pubblico Sace non ha avuto alcuna remora nel garantire la raffineria di Assiut, nonostante altri attori finanziari fossero preoccupati per le implicazioni reputazionali derivanti proprio dal “caso Regeni”? E perché Snam non pubblica ancora l’elenco completo degli azionisti dell’East mediterranean gas company?

    Sono solo alcune delle domande che ReCommon ha rivolto alle principali aziende e società italiane che hanno stretto in questi anni rapporti proficui con il governo egiziano, accusato di gravi e ripetute violazioni dei diritti umani (su tutte la detenzione di circa 60mila dissidenti politici) e che si rifiuta di collaborare con gli inquirenti italiani nelle indagini sul rapimento, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Gli interrogativi, insieme a un’attenta analisi degli interessi economici delle singole realtà, è contenuta nel dossier “La campagna d’Egitto – Gli affari dei ‘campioni’ italiani con il regime di al-Sisi” pubblicato il 7 novembre 2022, all’indomani dell’apertura della 27esima Conferenza della Nazioni Unite sul clima (Cop27) che si svolge a Sharm el-Sheikh. Un documento preciso e dettagliato da cui emerge, ancora una volta, come il business prevalga sui diritti umani e sui processi democratici.

    L’Egitto è un punto di investimento centrale per Eni, che lì possiede circa il 20% delle proprie riserve di gas con una produzione annuale di 15 miliardi di metri cubi (pari al 30% del totale dell’azienda e al 60% di quella egiziana) per un utile di 5,2 miliardi di euro in cinque anni, che costituisce circa un terzo degli utili complessivi della divisione “Esplorazione e produzione”.

    Uno snodo chiave negli interessi dell’azienda in Egitto è stata la scoperta ad agosto 2015 del giacimento sottomarino “Zohr” che, secondo le esplorazioni di Eni, conterebbe circa 850 miliardi di metri cubi di gas: si tratterebbe quindi di una delle maggiori riserve a livello mondiale e la più grande nel Mediterraneo. Con l’omicidio Regeni, rinvenuto il 2 febbraio 2016, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi si sono però complicate. “Abbiamo detto chiaramente che noi siamo per i diritti umani, per questo pretendiamo chiarezza assoluta. La vogliamo come italiani e come Eni”, aveva dichiarato Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’azienda, a Il Messaggero il 6 marzo 2016. Ma solo pochi giorni prima, il 21 febbraio, la sua società aveva ottenuto l’assegnazione proprio dell’appalto per il giacimento “Zohr”.

    Secondo ReCommon al centro dei legami tra Eni e il regime di al-Sisi vi sarebbero i debiti accumulati dalle aziende energetiche egiziane nei confronti delle compagnie fossili straniere che nel 2013, anno della presa del potere da parte del generale, avevano raggiunto quota sei miliardi di euro. In particolare Eni era tra le aziende più esposte, con un ammontare di crediti scaduti pari a un miliardo di euro. Nel 2015 l’azienda italiana è riuscita però ad accordarsi con l’Egitto garantendo cinque miliardi di euro in investimenti in cambio di condizioni contrattuali favorevoli che comprendono anche un raddoppio del prezzo del gas che il Paese acquista dall’azienda. “Di lì a poco la società realizzerà la maxi scoperta di ‘Zohr’ e nel giro di qualche anno i debiti contratti dallo Stato egiziano risulteranno azzerati. Non c’è ombra di dubbio che, dal punto di vista degli affari, Eni abbia vinto la sua scommessa, accettando però di legarsi al regime egiziano con un nodo così stretto da non allentarsi neppure di fronte all’uccisione di un cittadino italiano”, ricorda ReCommon. Inoltre grazie ai progetti realizzati da Eni, il regime di al-Sisi è riuscito a conquistarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere energetico regionale ed europeo

    Anche Snam, il più grande operatore d’Europa per quanto riguarda il trasporto del gas e che gestisce una rete di 41mila chilometri e una capacità di stoccaggio di 20 miliardi di metri cubi, partecipata dallo Stato italiano, vanta numerosi affari nel Paese nordafricano. L’azienda ha acquistato a dicembre 2021 il 25% della East mediterranean gas company (Emg), proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon che collega Israele ed Egitto, anche noto come “Gasdotto della pace”. Secondo ReCommon tra gli azionisti di Emg vi sarebbero Emed, una società “partecipata dalla israeliana Delek Drilling e dal gruppo statunitense Chevron” e che controlla il 39% di Emg. Secondo le inchieste di ReCommon e della testata investigativa egiziana Mada Masr, Emed avrebbe legami con i vertici dei servizi segreti egiziani.

    “Tutti questi investimenti infrastrutturali vengono attuati grazie agli istituti di credito e alle istituzioni finanziarie. In prima fila c’è Bank of Alexandria, la sussidiaria locale del primo gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo”, ricorda ReCommon. L’istituto è la quinta banca d’Egitto e conta 1,5 milioni di clienti su 179 filiali. Nel 2006 il governo di Hosni Mubarak aveva venduto per 1,6 miliardi di dollari l’80% delle azioni della banca a Intesa Sanpaolo. Bank of Alexandria, partecipata anche dal governo egiziano, afferma di essere il canale privilegiato degli investimenti italiani nel Paese nordafricano, tra cui il settore oil&gas e quello degli armamenti.

    A garanzia degli investimenti vi è poi Sace, l’assicuratore pubblico italiano controllato dal ministero dell’Economia, che tra il 2016 e il 2021 ha emesso garanzie a progetti oil&gas per un totale di 13,7 miliardi di euro, ponendosi così al terzo posto per il supporto finanziario all’industria fossile dopo le controparti canadesi e statunitensi. In Egitto, Sace ha emesso garanzie per 3,9 miliardi di euro. Tra le infrastrutture supportate dall’istituto vi sono due raffinerie: la Middle East oil refinery (Midor) e l’Assiut oil refinery (Aor), entrambe in capo all’Egyptian general petroleum corporation (Egpc), l’azienda petrolifera di Stato.

    Per realizzare Midor, Sace ha garantito i prestiti di Bnp Paribas, Crédit agricole e Cassa depositi e prestiti (Cdp) per un ammontare di 1,2 miliardi di euro. Mentre per quanto riguarda la raffineria di Assiut, Sace ha agito in modo simile garantendo a febbraio 2022 un supporto finanziario pari a 1,32 miliardi di euro: l’impianto è la più grande raffineria dell’Egitto meridionale e si tratta di un’infrastruttura strategica per al-Sisi che ha presenziato personalmente l’inaugurazione dei lavori il 22 dicembre 2021. Tuttavia secondo le ricostruzioni dei quotidiani StartMag e Milano Finanza (citate nel report di ReCommon) vi sarebbero state delle resistenze all’interno di Cdp in merito al finanziamento della raffineria dovute alla “scarsa sostenibilità ambientale e a imprecisate ‘considerazioni geopolitiche’”.

    La stima di 3,9 miliardi di euro relativa alle garanzie di Sace comprende però solo il supporto alle operazioni classificate di categoria A e B cioè “quei progetti che possono avere ripercussioni ambientali e sociali che vanno da gravi a irreversibili: raffinerie, oleodotti, gasdotti, centrali termoelettriche, petrolchimici, dighe e altre mega-infrastrutture”. Sace, infatti, non è obbligata a riportare le altre categorie di investimento tra cui possono ricadere armamenti come ad esempio l’acquisto di due fregate militari italiane da parte dell’Egitto da Fincantieri nel 2020 per un totale di 1,2 miliardi di euro. L’esposizione storica di Sace al regime del Generale al-Sisi è quindi molto superiore ai 3,9 miliardi di euro dichiarati.

    https://altreconomia.it/gli-affari-dei-campioni-italiani-con-il-regime-di-al-sisi-in-egitto

    #Italie #Egypte #Regeni #Giulio_Regeni #Assiut #pétrole #raffinerie #East_mediterranean_gas_company (#EMG) #droits_humains #Zohr #gaz #énergie #gazduc #gazduc_Arish-Ashkelon #Emed #Delek_Drilling #Chevron #Bank_of_Alexandria #Middle_East_oil_refinery (#Midor) #Assiut_oil_refinery (#Aor) #Egyptian_general_petroleum_corporation (#Egpc) #Bnp_Paribas #Crédit_agricole #Cassa_depositi_e_prestiti (#Cdp) #Fincantieri

  • Laminé par les marées noires, le delta du Niger est menacé de famine | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/lamine-par-les-marees-noires-le-delta-du-niger-est-menace-de-famine

    Laminé par les marées noires, le delta du Niger est menacé de famine
    20 photos

    Au Nigeria, dans la principale région pétrolifère d’Afrique, les fuites d’hydrocarbures se multiplient et ruinent des milliers de pêcheurs et d’agriculteurs. Le pétrole assure 10 % du PIB du pays, le plus peuplé d’Afrique avec 219 millions d’habitants. Sur place, certains ont assigné en justice des entreprises pétrolières, mais les indemnités et le nettoyage n’ont pas permis de retrouver la prospérité perdue. Au point que la famine menace.
    Sadak Souici (photos) et Théophile Simon (texte)

    2 novembre 2022

    © Sadak Souici
    Nigeria, janvier 2022. Vue aérienne de Bolo, un village de pêcheurs sur les bords d’un bras du delta du Niger, l’un des plus longs fleuves d’Afrique. Autrefois prospère, le village est aujourd’hui fantomatique, ruiné par la pollution. Le Nigeria est le principal pays producteur de pétrole en Afrique subsaharienne, et injecte chaque jour près de 2 millions de barils dans les veines de l’économie mondiale.


  • Derrière les murs d’un centre de « réhabilitation » pour #mineurs
    https://metropolitiques.eu/Derriere-les-murs-d-un-centre-de-rehabilitation-pour-mineurs.html

    Offrant une plongée derrière les murs du centre Cité-des-Prairies à #Montréal, l’adaptation en #bande_dessinée d’une recherche ethnographique conduite par Nicolas Sallée met en cases les paradoxes du traitement pénal des déviances juvéniles. La bande dessinée est en passe de devenir un médium classique pour la diffusion de la sociologie, comme en témoignent les nombreuses initiatives qui ont fleuri ces dix dernières années. Au-delà des réalisations individuelles, comme le fameux Riche, pourquoi pas toi ?, #Commentaires

    / bande dessinée, #délinquance, #justice, #prison, mineurs, #protection_de_la_jeunesse, Montréal, #Canada, (...)

    #Québec
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-lancelevee.pdf

  • Tirs policiers mortels : une étude atteste du danger de l’assouplissement de l’usage des armes

    photo qui passe pas : article 435-1 arme de destruction massive
    Le texte permet notamment aux forces de l’ordre d’ouvrir le feu en cas de refus d’obtempérer d’un véhicule, si « les occupants sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ». (Virginie Haffner/Hans Lucas/AFP)

    L’analyse statistique menée par trois chercheurs établit une corrélation entre une loi sur la sécurité intérieure votée en 2017 et la multiplication par cinq du nombre de personnes tuées par des agents dans un véhicule.

    C’est une première pierre essentielle pour saisir les raisons de l’explosion des tirs policiers mortels. Les chercheurs Sebastian Roché (CNRS), Paul Le Derff (université de Lille) et Simon Varaine (université Grenoble Alpes) ont produit une étude statistique sur les causes structurelles de ces homicides. D’après leurs travaux destinés à une publication dans une revue scientifique, le cadre juridique de l’usage des armes qui a été assoupli en mars 2017 avec le vote par la majorité #socialiste de l’article 435-1 du code de la #sécurité intérieure, est certainement la raison principale de cette situation. Ce texte permet notamment aux forces de l’ordre d’ouvrir le feu en cas de refus d’obtempérer d’un véhicule, si « les occupants sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ». Une situation où les agents peuvent donc tirer alors qu’il n’existe pas une menace réelle et imminente pour eux ou d’autres personnes – il suffit qu’elle soit « susceptible » de survenir.

    Le recensement effectué par Roché, Le Derff et Varaine atteste qu’il y a eu cinq fois plus de personnes tuées par des tirs policiers visant des personnes se trouvant dans des véhicules, entre avant et après le vote de la loi. Tandis que le nombre de personnes tuées par les autres tirs policiers diminue légèrement. « A partir d’une analyse statistique rigoureuse du nombre mensuel de victimes des tirs, malheureusement, il est très probable » que ce texte soit « la cause du plus grand nombre constaté d’homicides commis par des policiers », expliquent les chercheurs. Une version synthétique de leur travail est rendue public ce vendredi dans la revue Esprit.

    « Comment expliquer que ce soit uniquement ce type de tir qui augmente ? »

    « Jusqu’à présent, la réponse du gouvernement et de l’administration policière a consisté à minimiser l’importance des vies citoyennes perdues, et à évacuer la responsabilité des agents, d’une part, et surtout la leur, d’autre part », taclent les trois chercheurs en référence aux récentes prises de paroles du ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, et du directeur général de la police nationale, Frédéric Veaux. Roché, Le Derff et Varaine rappellent que « les caractéristiques du système de #police ont des effets sur les violences policières mortelles : la croyance selon laquelle le comportement du policier peut être expliqué de manière satisfaisante par les caractéristiques d’une confrontation a été très tôt mise en cause par les résultats obtenus ».

    Pour appuyer leur démonstration, les sociologues ont réalisé une comparaison avec les autres tirs policiers mortels en France mais également la situation dans deux pays voisins, l’Allemagne et la Belgique. « Aucun changement notable n’est constaté », notent-ils dans leur étude. « Si la loi de 2017 qui assouplit les conditions de tirs sur les occupants des véhicules était hors de cause, comment expliquer que ce soit uniquement ce type de tir qui augmente ? »

    Les trois chercheurs ont également étudié une hypothèse généralement avancée par les syndicalistes policiers et responsables politiques : ces tirs mortels seraient la conséquence d’une hausse des comportements dangereux des automobilistes lors des contrôles routiers. Les données disponibles à ce sujet souffrent d’importantes limites mais la comptabilisation des #refus_d’obtempérer dangereux effectués par les forces de l’ordre a tout de même été prise en compte dans leurs recherches. Entre 2012 et 2016, les autorités comptaient en moyenne 2 800 refus d’obtempérer grave par an, contre 3 800 en moyenne chaque année depuis 2017. Ce qui représente une augmentation de 35 % entre les deux périodes. Insuffisant pour Roché, Le Derff et Varaine : « Il ne semble pas que cette augmentation puisse à elle seule expliquer l’augmentation de plus de 350 % des tirs mortels sur véhicules en mouvement entre les deux périodes. » Et concluent : « Il apparaît que la loi de 2017 a eu un effet de plus grande mise en danger de la vie des citoyens par la police. »

    https://www.liberation.fr/societe/police-justice/tirs-policiers-mortels-une-etude-atteste-du-danger-de-lassouplissement-de

    #délit_de_fuite

  • Saint-Ouen : la police tire après un refus d’obtempérer, une balle finit dans un bus RATP
    https://actu.fr/ile-de-france/saint-ouen-sur-seine_93070/saint-ouen-la-police-tire-apres-un-refus-d-obtemperer-une-balle-finit-dans-un-b

    Tout commence dans la rue du Landy, quand le conducteur d’une voiture refuse de s’arrêter à la demande d’un équipage de police. Les policiers « se sentant en danger » sortent leur arme de service et tirent à deux reprises en direction du véhicule afin de mettre fin à sa course, précise une source policière.

    Une balle arrivera dans la voiture concernée, la seconde dans une vitre d’un bus de la RATP, précisément de la ligne 173 en direction de La Courneuve. Par chance, aucun occupant du bus qui était en service, n’a été blessé, confirme cette même source.

    #Police #armes_de_la_police #délit_de_fuite #refus_d'obtempérer #93

  • The Full Story Behind Sega Channel, Sega’s Precursor To Game Pass | Time Extension
    https://www.timeextension.com/features/the-full-story-behind-sega-channel-segas-precursor-to-game-pass

    The idea of video games on demand is something we’re all quite familiar with today thanks to subscription services like Xbox Game Pass and PlayStation Plus, but what you might not know - and might even struggle to believe - is that Sega attempted its own version of this business model back in the 1990s.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #rétro #vintage #sega #sega_channel #time_warner #console_megadrive #console_genesis #xbox_game_pass #playstation_plus #rétrospective #tv #sega_of_america #nintendo #tom_kalinske #doug_glen #delta_box #atari_2600 #tom_kalinske #stan_thomas #hbo #andy_rifkin #gaas #konami #michael_shorrock #andy_rifkin #nick_fiore #ea #jeu_vidéo_triple_play_baseball_96 #jeu_vidéo_primal_rage #atari_games

  • The Full Story Behind Sega Channel, Sega’s Precursor To Game Pass | Time Extension
    https://www.timeextension.com/features/the-full-story-behind-sega-channel-segas-precursor-to-game-pass

    The idea of video games on demand is something we’re all quite familiar with today thanks to subscription services like Xbox Game Pass and PlayStation Plus, but what you might not know - and might even struggle to believe - is that Sega attempted its own version of this business model back in the 1990s.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #rétro #vintage #sega #sega_channel #time_warner #console_megadrive #console_genesis #xbox_game_pass #playstation_plus #rétrospective #tv #sega_of_america #nintendo #tom_kalinske #doug_glen #delta_box #atari_2600 #tom_kalinske #stan_thomas #hbo #andy_rifkin #gaas #konami #michael_shorrock #

  • Le groupe Editis suspend la parution d’un livre de Guillaume Meurice juste avant sa sortie
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2022/09/13/le-groupe-editis-suspend-la-parution-d-un-livre-de-guillaume-meurice-juste-a


    #cancel_culture

    Le dictionnaire devait sortir le 29 septembre aux éditions Le Robert (propriété du groupe Editis). Un dictionnaire de blagues, coécrit par Guillaume Meurice, chroniqueur de l’émission « C’est encore nous » sur France Inter, et Nathalie Gendrot, metteuse en scène et auteure régulière de la maison. Le fin mot de l’histoire de France en 200 expressions, devait être un livre rigolo. Est-ce qu’il n’a pas fait rire Vincent Bolloré, premier actionnaire de Vivendi, maison mère d’Editis, le groupe d’édition chargé de publier l’ouvrage ? Michèle Benbunan, sa directrice générale a en tout cas préféré purement et simplement faire suspendre ce livre.

    Mais non, il ne se comporte pas du tout comme un foutu dictateur, l’intégriste chrétien…

    • Explication officielle : « sept passages » du livre seraient « susceptibles de donner lieu à contentieux », a expliqué, mardi 13 septembre au soir, fort ennuyé et visiblement bouleversé, le directeur des éditions #Le_Robert, Charles Bimbenet, à Guillaume Meurice. Soit l’avant-veille du rendez-vous fixé aux auteurs pour venir signer leur ouvrage, qui s’inscrivait dans une collection à laquelle ont participé des auteurs prestigieux comme le linguiste Alain Rey (200 drôles de mots qui ont changé nos vies depuis 50 ans, ouvrage publié en 2017).

      « Pas de caviardage »

      L’éditeur avait pourtant sollicité lui-même les auteurs il y a un an et le fameux dictionnaire avait été lu, relu, annoté. « Tout roule désormais selon la direction juridique sauf deux expressions : Louboutin et #Bolloré », finit par expliquer M. Bimbenet à Guillaume Meurice début août. Le premier passage litigieux concernait Vincent Bolloré, cité dans la définition de « Faire long feu : Expression remplacée aujourd’hui par : révéler sur Canal+ les malversations de Vincent Bolloré ». L’autre entrée du dictionnaire posant problème concernait l’expression « Etre talon rouge : Aujourd’hui, les Louboutin jouent le même rôle : bien montrer aux autres qu’on est capable de porter un smic à chaque pied ».

      « Pas de caviardage, répond en riant le chroniqueur de France Inter, sinon je fais une vidéo pour dire ce qui vous attend quand on écrit un livre chez Bolloré ! » A la limite, il veut bien entendre que #Louboutin soit une marque très procédurière, comme on le lui explique – il ignore sans doute encore aujourd’hui que ces chaussures de luxe sont le péché mignon de Michèle Benbunan. Mais le passage sur Bolloré, non, pas question ! Charles Bimbinet prend note et le rassure : « Ok. On laisse comme ça. Ça va le faire. »

      Selon la direction de la communication du groupe, ces nouveaux passages sont susceptibles de tomber sous le coup « de la diffamation, de l’injure et de la calomnie »
      Ça ne l’a « pas fait ». Ces derniers jours, cinq autres expressions ont brusquement posé problème au service juridique d’#Editis, qui a sollicité un avocat extérieur.

      Soudainement incriminées, les phrases : « De la chair à canon : Exemple : un livreur #Deliveroo dans l’actuelle guerre économique. » Ou : « Faire l’école buissonnière : A ne pas confondre avec faire le ministère buissonnier qui est le fait de laisser l’école se dégrader et les profs devenir “influenceur Lexomil” ». Selon la direction de la communication du groupe, ces nouveaux passages sont susceptibles de tomber sous le coup « de la diffamation, de l’injure et de la calomnie. En général, les auteurs le comprennent et revoient leur copie ».

      Guillaume Meurice avait pourtant prévenu, en août, qu’il ne reviendrait plus sur le texte, et n’a eu connaissance de ces fautes de goût s’ajoutant à « Bolloré » qu’une fois la décision de suspendre l’ouvrage adoptée. En fin de semaine dernière, Michèle Benbunan avait fait stopper la fabrication, chez l’imprimeur, des blagues de Guillaume Meurice et Nathalie Gendrot.

      si on se débrouille bien, Le Robert finira par consonner avec le Larousse des années 50
      #édition #Editis #humour #capitalisme #culture #tabous

    • Il semble assez évident que les nouveaux éléments « problématiques » sont ajoutés pour noyer le poisson, mais j’aurais tendance à croire que même les deux premiers passages n’ont pas non plus de risques juridiques : c’est un livre d’humour, et ça limite forcément les risques d’être condamné pour injure ou diffamation.

      Surtout : Meurice et la bande de France Inter sont clairement le centre de focalisation de la détestation de la part de la droite dans ses fantasmes de culture war. Pas besoin de se cacher derrière des arguties juridiques et des expertises de cabinets d’avocats : pour eux simplement Meurice ne devrait pas être payé par leurs impôts pour se foutre de leur gueule et monter en épingle leur connerie et leur mépris de classe tous les jours sur la radio publique (et donc évidemment pas publié dans une maison d’édition qui leur appartient).

    • Je pense vraiment que ces histoires de risque juridique, c’est juste un alibi pour ne pas avoir à reconnaître platement qu’on vient de censurer un bouquin pour ne pas déplaire au patron.

      Le monde qui relate ça, d’ailleurs, c’est trop mignon : les gens qui ont dépublié une chronique pour ne pas déplaire à Macron (quoi, y’avait un risque juridique aussi ?).

    • Bolloré manquerait-il d’humour ? Certaines blagues de l’ouvrage co-écrit par Guillaume Meurice ne lui ont pas plu du tout. Mais alors pas du tout. Voilà l’explication officielle : « sept passages » du livre seraient « susceptibles de donner lieu à contentieux », a expliqué le directeur des éditions Le Robert à Guillaume Meurice, selon Le Monde. Début août, un passage citant Bolloré posait déjà problème : « Faire long feu : Expression remplacée aujourd’hui par : révéler sur Canal+ les malversations de Vincent Bolloré ».

      Puis, d’autres extraits ont été vivement critiqués par le service juridique d’Éditis. Par exemple : « Faire l’école buissonnière : À ne pas confondre avec faire le ministère buissonnier qui est le fait de laisser l’école se dégrader et les profs devenir “influenceur Lexomil.” » Un clin d’œil au ministre de l’Éducation Pap Ndiaye, et à une École publique que la macronie laisse se dégrader à petit feu. Selon la direction de la communication d’Éditis, ces nouveaux passages sont susceptibles de tomber sous le coup « de la diffamation, de l’injure et de la calomnie. » La liberté d’expression s’arrête là où commence la critique des ministres en place et l’égo de Bolloré ?

      https://linsoumission.fr/2022/09/14/guillaume-meurice-censure-bolllore

    • Marc : l’un n’empêche pas l’autre.

      Encore récemment quelques réflexions ici :
      https://seenthis.net/messages/968308#message968353

      Ou bien on est arrivés au stade où il faut défendre la « pluralité » de Léa Salamé parce que sinon c’est Christine Kelly ? La position gauche en est réduite à réclamer qu’on socialise les revenus de Léa Salamé et d’Alain Finkelkraut, au motif que sinon c’est CNews ?

      https://seenthis.net/messages/968308#message968435

      Je n’ai jamais payé de redevance, refusant de financer ce très très mauvais « service public » qui a globalement toujours servi le pouvoir (et je ne l’écoute et regarde quasiment jamais), voilà que la taxe va revenir par une autre porte...

      Et l’ensemble du fil était par ailleurs consacré à une de tes autres marottes : qui c’est qui paie pour un service public présenté comme « gratuit ».

  • Collectif des Livreurs Autonomes de Plateformes @_CLAP75
    https://twitter.com/_CLAP75/status/1565572729046110208

    Les livreurs Uber Eats ne veulent plus se laisser faire.
    L’annonce de cette mobilisation se répand comme une trainée de poudre via les réseaux.
    Des centaines de livreurs sont attendues.
    Du jamais vu en Europe.

    #livreurs #lutte_collective #travail #droits_sociaux #Uber_eats #Deliveroo #Stuart #Glovo #Frichti #droit_du_travail #présomption_de_salariat #auto_entrepreneurs #service_à_la_personne #commerce #restauration #ville #auto_organisation

    • Deliveroo, reconnu coupable de travail dissimulé, condamnée à verser 9,7 millions d’euros à l’Urssaf
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/09/02/la-plate-forme-deliveroo-reconnue-coupable-de-travail-dissimule-condamnee-a-

      L’entreprise britannique, coupable d’avoir dissimulé 2 286 emplois de livreurs en Ile-de-France entre avril 2015 et septembre 2016, a dit qu’elle ferait appel.

      « Cette décision est difficile à comprendre et va à l’encontre de l’ensemble des preuves qui établissent que les livreurs partenaires sont bien des prestataires indépendants, de plusieurs décisions préalablement rendues par les juridictions civiles françaises », a réagi Deliveroo. « L’enquête de l’Urssaf porte sur un modèle ancien qui n’a plus cours aujourd’hui », selon la plate-forme.
      « Aujourd’hui, les livreurs partenaires bénéficient d’un nouveau modèle basé sur un système de “connexion libre” qui permet aux livreurs partenaires de bénéficier d’encore plus de liberté et de flexibilité », indique Deliveroo, en rappelant sa participation prochaine au dialogue social organisé en France pour les travailleurs des plates-formes.

      #travail_dissimulé

  • En #Californie, avec le réchauffement climatique, le risque d’une méga-#inondation dévastatrice a doublé
    https://www.courrierinternational.com/article/etats-unis-en-californie-avec-le-rechauffement-climatique-le-

    Le réchauffement climatique a fait doubler la probabilité d’une méga-inondation aux conséquences catastrophiques en Californie, selon une étude publiée dans la revue Science Advances, relayée samedi 13 août par le Los Angeles Times

    Selon les travaux de chercheurs de l’université UCLA, le #déluge qui pourrait se produire risquerait d’être aussi dévastateur que la grande inondation de 1862. La pluie s’était alors abattue pendant trente jours consécutifs, déclenchant des inondations monstres dans une grande partie de cet État de l’Ouest américain, rappelle le quotidien.

    Source : Climate change is increasing the risk of a California megaflood | Science Advances
    https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abq0995

    #climat #inondations #sécheresse

  • Nella città delle piattaforme

    Sullo sfondo del lavoro precario del #delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme

    Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.

    Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”

    Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.

    L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.

    Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.

    Come esclude la città

    Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.

    In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.

    Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.
    Un posto «dal quale partire e tornare»

    Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.

    Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.

    Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.

    I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».

    La mozione del consiglio comunale

    Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.

    La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.

    Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.

    https://irpimedia.irpi.eu/nella-citta-delle-piattaforme

    #ubérisation #uber #géographie_urbaine #urbanisme #villes #urban_matters #espace_public #plateformes_numériques #Milan #travail #caporalato #uber_eats #riders #algorithme #colonisation_urbaine #espace_urbain #Glovo #Deliveroo #cloud_kitchen #Kuiri #dark_store #magazzini_urbani #JustEat #starting_point

  • Pourquoi détruit-on la planète ? Les dangers des explications pseudo-neuroscientifiques

    Des chercheurs en neurosciences et sociologie mettent en garde contre la thèse, qu’ils jugent scientifiquement infondée, selon laquelle une de nos #structures_cérébrales nous conditionnerait à surconsommer.

    Selon Thierry Ripoll et Sébastien Bohler, les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux #comportements_individuels déterminés par notre cerveau. Une structure, le striatum, piloterait par l’intermédiaire d’une #molécule_neurochimique, la #dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation, indiquaient-ils récemment dans un entretien au Monde.

    (#paywall)
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2022/07/07/pourquoi-detruit-on-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-scientifi

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    Tribune longue :

    Dans un entretien croisé pour Le Monde, Thierry Ripoll et Sébastien Bohler présentent leur thèse commune, développée dans deux ouvrages récents et que Bohler avait résumée dans un ouvrage précédent sous le titre évocateur de « bug humain » : les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux comportements individuels déterminés par la structure même du cerveau. Précisément, le dogme de la croissance viendrait du striatum. Selon lui, cette structure cérébrale piloterait par l’intermédiaire d’une molécule neurochimique, la dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation. Ripoll reprend cette thèse à son compte, et il affirme que la décroissance économique, qu’il appelle de ses vœux pour limiter les catastrophes en cours, bute ainsi sur des limites psychobiologiques.

    Cette thèse est très forte et a des conséquences politiques très préoccupantes : la #nature_humaine, ou plus précisément notre #programmation_biologique, conditionnerait le champ des possibles concernant l’organisation socio-économique. Le modèle de croissance économique serait le seul compatible avec le #fonctionnement_cérébral humain. Cela disqualifie les projets politiques de #décroissance ou de stabilité basés sur la #délibération_démocratique. Cela déresponsabilise également les individus[i] : leur #comportement destructeur de l’#environnement n’est « pas de leur faute » mais « celle de leur #striatum ». Une conséquence logique peut être la nécessité de changer notre nature, ce qui évoque des perspectives transhumanistes, ou bien des mesures autoritaires pour contraindre à consommer moins, solution évoquée explicitement par les deux auteurs. Les neurosciences et la #psychologie_cognitive justifient-elles vraiment de telles perspectives ?

    Nous souhaitons ici solennellement informer les lectrices et les lecteurs de la totale absence de fondement scientifique de cette thèse, et les mettre en garde contre ses implications que nous jugeons dangereuses. Ce message s’adresse également à ces deux auteurs que nous estimons fourvoyés, sans préjuger de leur bonne foi. Nous ne doutons pas qu’ils soient sincèrement et fort justement préoccupés des désastres environnementaux mettant en danger les conditions d’une vie décente de l’humanité sur Terre, et qu’ils aient souhaité mobiliser leurs connaissances pour aider à trouver des solutions. Les arguments déployés sont cependant problématiques, en particulier ceux relevant des neurosciences, notre domaine principal de compétence.

    Tout d’abord, le striatum ne produit pas de #dopamine (il la reçoit), et la dopamine n’est pas l’#hormone_du_plaisir. Le neuroscientifique #Roy_Wise, qui formula cette hypothèse dans les années 70, reconnut lui-même « je ne crois plus que la quantité de plaisir ressentie est proportionnelle à la quantité de dopamine » en… 1997. L’absence de « fonction stop » du striatum pour lequel il faudrait toujours « augmenter les doses » est une invention de #Bohler (reprise sans recul par #Ripoll) en contresens avec les études scientifiques. Plus largement, la vision localisationniste du xixe siècle consistant à rattacher une fonction psychologique (le #plaisir, le #désir, l’#ingéniosité) à une structure cérébrale est bien sûr totalement obsolète. Le fonctionnement d’une aire cérébrale est donc rarement transposable en termes psychologiques, a fortiori sociologiques.

    Rien ne justifie non plus une opposition, invoquée par ces auteurs, entre une partie de #cerveau qui serait « récente » (et rationnelle) et une autre qui serait « archaïque » (et émotionnelle donc responsable de nos désirs, ou « instinctive », concept qui n’a pas de définition scientifique). Le striatum, le #système_dopaminergique et le #cortex_frontal, régions du cerveau présentes chez tous les mammifères, ont évolué de concert. Chez les primates, dont les humains, le #cortex_préfrontal a connu un développement et une complexification sans équivalent. Mais cette évolution du cortex préfrontal correspond aussi à l’accroissement de ses liens avec le reste du cerveau, dont le système dopaminergique et le striatum, qui se sont également complexifiés, formant de nouveaux réseaux fonctionnels. Le striatum archaïque est donc un #neuromythe.

    Plus généralement, les données neuroscientifiques ne défendent pas un #déterminisme des comportements humains par « le striatum » ou « la dopamine ». Ce que montrent les études actuelles en neurosciences, ce sont certaines relations entre des éléments de comportements isolés dans des conditions expérimentales simplifiées et contrôlées, chez l’humain ou d’autres animaux, et des mesures d’activités dans des circuits neuronaux, impliquant entre autres le striatum, la dopamine ou le cortex préfrontal. Le striatum autocrate, dont nous serions l’esclave, est donc aussi un neuromythe.

    Par ailleurs, Bohler et Ripoll font appel à une lecture psycho-évolutionniste simpliste, en fantasmant la vie des êtres humains au paléolithique et en supposant que les #gènes codant pour les structures du cerveau seraient adaptés à des conditions de vie « primitive », et pas à celles du monde moderne caractérisé par une surabondance de biens et de possibles[ii]. Il y a deux problèmes majeurs avec cette proposition. Tout d’abord, les liens entre les gènes qui sont soumis à la sélection naturelle, les structures cérébrales, et les #comportements_sociaux sont extrêmement complexes. Les #facteurs_génétiques et environnementaux sont tellement intriqués et à tous les stades de développement qu’il est impossible aujourd’hui d’isoler de façon fiable des #déterminismes_génétiques de comportements sociaux (et ce n’est pourtant pas faute d’avoir essayé). Poser la surconsommation actuelle comme sélectionnée par l’évolution, sans données génétiques, est une spéculation dévoyée de la #psychologie_évolutionniste. Le second problème concerne les très faibles connaissances des modes d’#organisation_sociale des peuples qui ont vécu dans la longue période du paléolithique. Il n’existe pas à notre connaissance de preuves d’invariants ou d’un mode dominant dans leur organisation sociale. Les affirmations évolutionnistes de Bohler et Ripoll n’ont donc pas de statut scientifique.

    Il est toujours problématique de privilégier un facteur principal pour rendre compte d’évolutions historiques, quel qu’il soit d’ailleurs, mais encore plus quand ce facteur n’existe pas. Les sciences humaines et sociales montrent la diversité des modèles d’organisation sociale qui ont existé sur Terre ainsi que les multiples déterminismes socio-historiques de la « grande accélération » caractéristique des sociétés modernes dopées aux énergies fossiles. Non, toutes les sociétés n’ont pas toujours été tournées vers le désir de toujours plus, vers le progrès et la croissance économique : on peut même argumenter que la « religion du #progrès » devient dominante dans les sociétés occidentales au cours du xixe siècle[iii], tandis que le modèle de la #croissance_économique (plutôt que la recherche d’un équilibre) n’émerge qu’autour de la seconde guerre mondiale[iv]. Invoquer la « #croissance » comme principe universel du vivant, comme le fait Ripoll, abuse du flou conceptuel de ce terme, car la croissance du PIB n’a rien à voir avec la croissance des plantes.

    Il peut certes sembler légitime d’interroger si le fonctionnement du cerveau a, au côté des multiples déterminismes sociohistoriques, une part de #responsabilité dans l’état de la planète. Mais la question est mal posée, l’activité de « milliards de striatum » et les phénomènes socioéconomiques ne constituant pas le même niveau d’analyse. Bohler et Ripoll ne proposent d’ailleurs pas d’explications au niveau cérébral, mais cherchent à légitimer une explication psychologique prétendument universelle (l’absence d’#autolimitation) par la #biologie. Leurs réflexions s’inscrivent donc dans une filiation ancienne qui cherche une explication simpliste aux comportements humains dans un #déterminisme_biologique, ce qu’on appelle une « #naturalisation » des #comportements. Un discours longtemps à la mode (et encore présent dans la psychologie populaire) invoquait par exemple le « #cerveau_reptilien » à l’origine de comportements archaïques et inadaptés, alors que cette pseudo-théorie proposée dans les années 60 a été invalidée quasiment dès son origine[v]. Le « striatum », la « dopamine », le « #système_de_récompense », ou le « #cerveau_rapide et le #cerveau_lent » sont en fait de nouvelles expressions qui racontent toujours à peu près la même histoire. Loin d’être subversive, cette focalisation sur des déterminismes individuels substitue la #panique_morale [vi] à la #réflexion_politique et ne peut mener, puisque nous serions « déterminés », qu’à l’#impuissance ou à l’#autoritarisme.

    Les erreurs des arguments développés par Bohler et Ripoll ont d’ores et déjà été soulignées à propos d’ouvrages précédents de Bohler[vii]. Nous souhaitons également rappeler qu’il existe un processus d’évaluation des productions scientifiques (y compris théoriques) certes imparfait mais qui a fait ses preuves : la revue par les pairs. Aucun de ces deux auteurs ne s’y est soumis pour avancer ces propositions[viii]. Il n’est pas sûr que notre rôle de scientifiques consiste à évaluer les approximations (et c’est un euphémisme) qui sont en continu publiées dans des livres ou dans la presse. Notre réaction présente est une exception justifiée par une usurpation des neurosciences, la gravité des enjeux écologiques dont ces auteurs prétendent traiter, ainsi que par la popularité grandissante que ces thèses semblent malheureusement rencontrer[ix].

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    Ce texte n’est pas issu des travaux de l’atelier d’écologie politique mais il résonne fortement avec d’autres travaux de l’atécopol. Il a été rédigé par Etienne Coutureau, chercheur CNRS en neurosciences (Bordeaux), Jean-Michel Hupé, chercheur CNRS en neurosciences et en écologie politique et membre de l’atécopol (Toulouse), Sébastien Lemerle, enseignant-chercheur en sociologie (Paris-Nanterre), Jérémie Naudé, chercheur CNRS en neurosciences (Montpellier) et Emmanuel Procyk, chercheur CNRS en neurosciences (Lyon).

    [i] Jean-Michel Hupé, Vanessa Lea, « Nature humaine. L’être humain est-il écocidaire par nature ? », dans Greenwashing : manuel pour dépolluer le débat public, Aurélien Berlan, Guillaume Carbou et Laure Teulières (coords.), Paris, Le Seuil, 2022, p. 150-156.

    [ii] Philippe Huneman, Hugh Desmond, Agathe Du Crest, « Du darwinisme en sciences humaines et sociales (1/2) », AOC, 15 décembre 2021.

    [iii] François Jarrige, Technocritiques, Paris, La Découverte, 2014.

    [iv] Timothy Mitchell, « Economentality : how the future entered government », Critical inquiry, 2014, vol. 40, p. 479-507. Karl Polanyi a par ailleurs montré comment l’économie de marché est une construction socio-historique : La Grande Transformation, Aux origines politiques et économiques de notre temps, Paris, Gallimard, (1944) 1983.

    [v] Sébastien Lemerle, Le cerveau reptilien. Sur la popularité d’une erreur scientifique, Paris, CNRS éditions, 2021.

    [vi] Jean-Michel Hupé, Jérôme Lamy, Arnaud Saint-Martin, « Effondrement sociologique ou la panique morale d’un sociologue », Politix, n° 134, 2021. Cet article témoigne également que Bohler et Ripoll ne sont pas les seuls intellectuels mobilisant les neurosciences de façon très contestable.

    [vii] Jérémie Naudé (2019), « Les problèmes avec la théorie du "bug humain", selon laquelle nos problème d’écologie viendraient d’un bout de cerveau, le striatum » ; Thibault Gardette (2020), « La faute à notre cerveau, vraiment ? Les erreurs du Bug humain de S. Bohler » ; Alexandre Gabert (2021), « Le cortex cingulaire peut-il vraiment "changer l’avenir de notre civilisation" ? », Cortex Mag, interview d’Emmanuel Procyk à propos de Sébastien Bohler, Où est le sens ?, Paris, Robert Laffont, 2020.

    [viii] Le bug humain de Sébastien Bohler (Paris, Robert Laffont, 2019) a certes obtenu « le Grand Prix du Livre sur le Cerveau » en 2020, décerné par la Revue Neurologique, une revue scientifique à comité de lecture. Ce prix récompense « un ouvrage traitant du cerveau à destination du grand public ». Les thèses de Bohler n’ont en revanche pas fait l’objet d’une expertise contradictoire par des spécialistes du domaine avant la publication de leurs propos, comme c’est la norme pour les travaux scientifiques, même théoriques.

    [ix] La thèse du bug humain est ainsi reprise dans des discours de vulgarisation d’autorité sur le changement climatique, comme dans la bande dessinée de Christophe Blain et Jean-Marc Jancovici, Le monde sans fin, Paris, Dargaud, 2021.

    https://blogs.mediapart.fr/atelier-decologie-politique-de-toulouse/blog/070722/pourquoi-detruit-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-neur
    #neuro-science #neuroscience #critique #écologie #surconsommation #politisation #dépolitisation #politique

  • Cyclistes vulnérables et délinquance routière

    J’ai déjà perdu un pote il y a 2 ans, un militant, et son fils de 16 ans.
    Hier soir, un pote FB postait ça  :

    Krec’h Goulifern, sur les hauteurs de la gueule de l’enfer.
    Et en plein dedans. Marianne est allée au pain ce matin, probablement revenait elle avec des croissants et un pain au chocolat pour moi, parce que c’est dimanche.
    Elle n’est jamais revenue.
    Un chauffard l’a tuée.
    Comme le veut la formule, ni fleurs ni couronnes ni visites ni quoi que ce soit.

    Quelqu’un de proche   :

    Marianne et Erwan le Corre ont créé un lieu magique en Bretagne : le Manoir Krec’h Goulifern . Depuis des années nos vies étaient liées par nos projets fous, des utopies bien réelles sur lesquelles nos quotidiens sont souvent mis à rude épreuve. On a partagé joies, fiertés, questionnements, peines et déceptions et tant de beaux moments.
    Ce matin Marianne est allée chercher le pain à vélo et n’est jamais revenue. Un chauffard a pris sa vie.
    Je n’ai pas de mot pour dire la peine immense et la violence de la nouvelle. Marianne était une femme d’une incroyable rélisience, brillante, lucide, attentive, déterminée. Elle avait tant de fois fait face aux défis et épreuves que la vie avait mis sur son chemin, sans se laisser gagner par la haine ou la colère. Sans jamais se détourner de ses valeurs, de ce qu’elle avait tenté de bâtir par dessus tout.
    On avait prévu cette semaine un de ces goûters qu’on aimait tant, l’odeur des crêpes chaudes, les doigts pleins des confitures de leur jardin, à partager en douceur et sincérité les émerveillements, les doutes, les difficultés de l’année écoulée. Il n’y aura plus de goûter, de visite de chantier, de pressées de pommes ou d’atelier de savon. Plus de rire, de débats jusqu’au bout de la nuit sur ce monde qu’on essaie d’inventer face à celui qui part en vrille, plus de larmes et de réconfort mutuel.
    Enfin si, des larmes, des larmes infinies, impossibles à sécher.
    Marianne, Erwan, vous qui avez tant de fois eu les mots pour nous soutenir dans les moments durs, qui avez été notre refuge. Je me sens impuissante à trouver à mon tour les mots justes face à une telle ignominie.
    Il reste tout ce qu’on a partagé, tous ces moments resterons précieusement dans nos cœurs. Personne ne pourra nous l’enlever.
    Et promis, on respectera tes volontés : pas de gerbes de fleurs, de grande cérémonie, pas de chichi, ça ne te ressemblerait pas. Mais au pommé cette année, on chantera pour toi autour du feu et on ravivera dans nos cœurs chahutés la flamme des jours heureux. Pour ne pas oublier, pour ne pas laisser la tristesse gagner... Et bien sûr, tu veilleras sur nous de là haut.
    Ici où tout est triste, on prendra soin de ce que vous avez construit et de notre ami Erwan qui devra vivre avec l’absence infinie, la peine absolue et éternelle de cette journée sans retour en arrière possible. On lui tiendra la main sur le chemin vers l’appétit de la vie, que tu savais tant nous transmettre. Sur ce chemin, je te le promets, on ne le laissera pas seul.
    Repose en paix Marianne, avec tout notre amour

    Perso, j’ai ma voiture dans le garage depuis un an, mais je n’arrive pas à me résoudre à la vendre  : parce que pour l’instant, passer au vélo, même en ville, ça revient à se faire agresser en permanence, à risquer très concrètement sa peau, parce que je n’ai toujours pas trouvé de toubib traitant et que s’il faut, faudra faire 15 ou 20 km pour en trouver un, ce qui est totalement aberrant…

    J’en ai ras le cul de la civilisation de la bagnole…

  • Une histoire de « résilience » en tant que marqueur des discriminations sociales.

    Comment la ville de Phoenix lutte contre des rues à 80 degrés
    https://www.telerama.fr/debats-reportages/a-phoenix-sous-le-feu-du-rechauffement-climatique-7000297.php

    Avec plus de 40 degrés attendus ce mardi à Paris, la capitale a activé le niveau 3 de son “plan canicule” : ouverture de parcs et jardins la nuit, mise en place de fontaines temporaires et de brumisateurs, etc. Des mesures d’urgence, qui n’adapteront pas Paris à des changements durables. Aux États-Unis, la ville de Phoenix, qui détient les records de chaleur du pays, a développé des techniques de pointe pour vivre sous des chaleurs extrêmes. Et ça fonctionne. Mais seulement dans les quartiers les plus favorisés. Reportage.

    https://justpaste.it/3f9us

  • Un livreur Deliveroo fait reconnaître en appel qu’il aurait dû être salarié | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/130722/un-livreur-deliveroo-fait-reconnaitre-en-appel-qu-il-aurait-du-etre-salari

    Il avait été le premier à obtenir gain de cause aux prud’hommes face à Deliveroo, en février 2020. Il est désormais le premier à avoir fait condamner la plateforme de livraison de repas devant la cour d’appel de Paris. Le 6 juillet, la cour a condamné Deliveroo pour « travail dissimulé » face à un livreur ayant exercé avec son application entre septembre 2015 et avril 2016.

    #deliveroo #travail_dissimulé #harcèlement

    • Les juges ont estimé que ce travailleur censément indépendant a réussi à « caractériser la fictivité de son indépendance à l’égard de la société Deliveroo et l’existence d’une véritable relation de travail ». Il aurait donc dû être employé sous le statut de salarié, et bénéficier des avantages qui y sont attachés : congés payés, paiement des heures supplémentaires, protection sociale complète.

      L’entreprise, qui n’a pas encore indiqué si elle allait aller en cassation, devra lui verser environ 30 000 euros, au motif de la rupture de son contrat, assimilée par la justice à un licenciement illicite, du rappel des heures supplémentaires, du paiement de ses frais professionnels, de l’indemnité de six mois de salaire pour « travail dissimulé », mais aussi en réparation du harcèlement moral qu’il a subi.

      « C’est une décision très réaliste par rapport à nos conditions de travail à cette époque, réagit auprès de Mediapart le jeune homme, qui ne souhaite pas que son identité soit divulguée. Avant Deliveroo, j’étais déjà livreur salarié. Et je suis passé de ce statut de salarié à un état où j’étais soi-disant mon propre patron, mais où toutes les décisions étaient prises par l’entreprise, de façon unilatérale, sans aucune discussion. »

      Cet arrêt est une sérieuse épine dans le pied pour l’entreprise, qui a déjà été condamnée en avril au pénal à 375 000 euros d’amende, pour « le détournement planifié et généralisé » du statut d’indépendant sur la période 2015-2017 – le livreur victorieux était partie civile dans ce dossier.

      Deliveroo met en effet souvent en avant ses six victoires judiciaires face à d’anciens coursiers sur ce thème, dont deux arrêts de la cour d’appel de Paris. Laquelle vient donc de modifier sa vision de ce type de dossiers.

      « Quand Deliveroo gagne, c’est surtout qu’il y a un problème de manque de preuves, car les coursiers ne disposent souvent pas de tous les éléments pour appuyer leur témoignage », déclare Kevin Mention, l’avocat du travailleur. Il relève par exemple que la cour a contredit ses deux précédentes décisions, en convenant que la géolocalisation des coursiers permettait leur surveillance étroite.

      Les critères permettant d’établir l’existence d’une situation de salariat sont connus, et avaient fait l’objet de vifs débats lors du procès pénal. Pour la cour d’appel, ils étaient dans ce cas également tous réunis. Elle a retenu que Deliveroo avait donné au livreur « des directives sur sa façon de se vêtir, de procéder à la prise en charge des commandes et à leur livraison, ainsi que sur la gestion de son emploi du temps et sur le lieu d’exercice de la prestation ». L’entreprise a aussi « contrôlé l’application » de ces directives, et elle « elle exerçait un pouvoir de sanction ».

      L’entreprise ne partage pas cette analyse, et répète que « les livreurs partenaires de Deliveroo bénéficient de conditions qui sont celles des travailleurs indépendants » : « Ils sont libres de se connecter quand ils le souhaitent, d’où ils le souhaitent, d’accepter ou de refuser chaque prestation qui leur est proposée, de travailler avec d’autres plateformes s’ils le souhaitent, ne sont pas tenus de porter des vêtements siglés Deliveroo. »

      Un ton « agressif et menaçant »

      Le coursier victorieux se dit particulièrement satisfait d’avoir obtenu la condamnation de l’entreprise pour harcèlement moral. « C’est un bonus, dit-il. Je pensais que sans justificatif médical décrivant l’impact sur la santé, il était impossible d’obtenir ce type de condamnation. Mais les juges ont dû estimer que c’était très flagrant. Je ne suis pas celui qui a subi le pire, mais j’ai gardé des preuves, contrairement à d’autres. »

      Parmi ces preuves, plusieurs SMS et mails, individuels ou collectifs, décrivant les règles à observer pendant les livraisons et menaçant très régulièrement de pénalités financières ou de rupture de collaboration tous les récalcitrants. « Le ton agressif et menaçant employé par les personnes en charge de la coordination des coursiers », ainsi que « les pressions exercées » ont « excédé l’exercice d’un pouvoir normal de direction », a tranché le tribunal.

      « Des coursiers nous disent que des échanges de ce type sont assez fréquents, rapporte Kevin Mention. C’est une pression permanente, qui va beaucoup plus loin que les ordres classiques, et la précarité ne fait qu’accentuer les choses, avec la menace de mettre fin aux contrats. »

      Pour l’entreprise, la décision de justice « porte sur une relation ancienne, différente du modèle actuel » et n’entraîne donc pas de conséquence sur son modèle actuel. Le danger se rapproche pourtant. Fin juin, Deliveroo a été condamnée pour la première fois en première instance pour des faits intervenus après 2017, et donc sur une période qui n’avait pas été couverte par la condamnation au pénal.

      Et selon Kevin Mention, une seconde enquête pénale est en cours, pour la période courant depuis 2018. « Des coursiers ont déjà été auditionnés un peu partout en France », glisse l’avocat. Il annonce aussi avoir été mandaté « par une centaine de livreurs » pour préparer le dépôt d’une plainte sur la période 2018-2021.

      Enfin, le 1er septembre, le tribunal judiciaire de Paris devrait donner le montant auquel sera condamnée à payer Deliveroo à l’Urssaf, au titre de ses manquements dans le versement des cotisations sociales à l’État : puisque ses coursiers sont des salariés, l’entreprise doit payer les cotisations, et des pénalités. L’Urssaf lui réclame près de 10 millions.

  • Crimes of Solidarity and Humanitarianism

    https://www.crimesofsolidarity.org
    #délit_de_solidarité #solidarité #criminalisation_de_la_solidarité #database #données #statistiques #chiffres #cartographie #monde #base_de_données #asile #migrations #réfugiés #visualisation

    La base données n’a pas l’air d’être vraiment à jour et fiable, mais l’approche est intéressante, ce qui est évident en regardant la carte pour France/Italie :

  • Etude criminalisation solidarité

    L’étude cartographie les nouvelles tendances de de criminalisation de la solidarité et élabore des recommandations à l’égard de l’Union européenne et des États membres. L’étude révèle également de nombreux cas de criminalisation partout en Europe, dont certains en Belgique : entre janvier 2021 et mars 2022, pas moins de 89 personnes ont été criminalisées pour avoir aidé des exilé.es en Europe. Dans la grande majorité des cas (88%), ces défenseur.es des droits humains, souvent migrant.es eux-mêmes, ont été accusé.es de faciliter l’entrée, le transit et le séjour irrégulier, ou encore le trafic d’êtres humains.

    https://issuu.com/saskiabricmont/docs/etude_criminalisation_solidarit_-_r_sum_analytiq

    #criminalisation #solidarité #criminalisation_de_la_solidarité #délit_de_solidarité #rapport #asile #migrations #réfugiés

    ping @isskein @karine4

    • Non à la criminalisation de la solidarité avec les exilé.es en Europe

      Agir en solidarité avec les exilé.es dans l’Union européenne se révèle de plus en plus difficile depuis plusieurs années. Des études ont montré qu’entre 2015 et 2019 au moins 171 personnes ont été criminalisées pour des actes de solidarité envers les personnes migrantesdans 13 États membres de l’UE. Et cela ne s’arrête pas là.

      La nouvelle étude commandée par le groupe des Verts/ALE au Parlement européen tire la sonnette d’alarme. Réalisée par Martha Gionco et Jyothi Kanics de l’organsiation PICUM (Plateforme pour la coopération internationale pour les migrants sans-papiers), cette étude de cas cartographie les nouvelles tendances de ce phénomène de criminalisation de la solidarité et élabore des recommandations à l’égard de l’UE et de ses États membres. Mercredi dernier, j’organisais avec ma collègue irlandaise Grace O’Sullivan une conférence pour présenter l’étude en présence de différents acteur.ices de la société civile et activistes.

      Les cas de criminalisation en hausse, bien que leur nombre reste sous-estimé…

      L’étude révèle qu’entre janvier 2021 et mars 2022, pas moins de 89 personnes ont été criminalisées pour avoir aidé des personnes migrantes. Ces personnes ont fourni de la nourriture, un abri, une assistance médicale ou des moyens de transport à des personnes qui ont dû fuir leur pays d’origine. Elles ont également apporté un soutien dans le cadre du dépôt des demandes d’asile.
      Ces chiffres ne dressent probablement qu’une image très incomplète du nombre réel de personnes qui sont criminalisées au sein de l’UE pour avoir fait preuve de solidarité envers les migrant.es et personnes déplacées. De nombreux cas n’ont probablement pas été recensés par l’étude.

      Notre étude a révélé que la majorité des cas de criminalisation de la solidarité sont susceptibles de ne pas être signalés en raison de :

      la crainte que l’attention médiatique ne compromette encore plus les relations avec les autorités et ne limite l’accès aux zones frontalières ou aux centres d’accueil ;
      la volonté de préserver le droit à la vie privée des bénévoles et de ne pas mettre les bénévoles et leurs familles en danger ;
      la prudence de certain.es défenseur.ess des droits humains qui préfèrent ne pas s’exprimer sur des procès en cours.

      Dans la grande majorité des cas (88%), les défenseur.es des droits humains ont été accusé.es de faciliter l’entrée, le transit et le séjour irrégulier, ou encore le trafic de personnes migrant.es.

      Une criminalisation encore plus lourdes pour les défenseur.es des droits humains étant eux-même des exilé.es

      Par ailleurs, l’étude alerte sur le fait que la criminalisation des défenseur.es des droits humains qui sont eux-mêmes des exilé.es est encore moins signalée. Lorsqu’elles sont criminalisées, ces personnes se trouvent dans une situation particulièrement vulnérable, car elles risquent l’expulsion, le refoulement, la détention arbitraire et la perte de statut. Nombre d’entre elles subissent de lourdes conséquences financières, sociales et économiques.

      En Belgique, ce fut le cas de Walid, l’un des 4 individus membres de la Plateforme Citoyenne de Soutien aux Réfugiés accusés dans un procès débuté en 2017, pour avoir fourni de l’aide et un logement à des migrant.es et demandeur.ses d’asile. Pour ces actes de solidarités, ils et elles encouraient jusqu’à 10 ans de prison pour trafic d’être humains. Leur acquittement fut finalement confirmé après 4 longues années de procédure, mais durant cette période Walid - qui était le seul des accusé.es à ne pas être citoyen européen - fut particulièrement criminalisé. Bien qu’il vive en Belgique avec un statut de résident régulier depuis 2001, il a été considéré comme présentant un risque de fuite et a été placé en détention provisoire pendant 8 mois. Durant cette détention, il fut expulsé de sa maison et a perdu toutes ses affaires personnelles, y compris ses photos de famille, jetées dans la rue. Comme le rappelle son témoignage dans l’étude, ce traitement et cette période d’isolation ont eu un impact dévastateur et durable sur sa vie, sur sa santé et son bien-être.

      L’Union européenne doit agir contre la répression de la solidarité et pour une politique migratoire humaine

      La criminalisation de la solidarité, et celle qui s’abat plus férocement sur défenseur.es des droits humains qui sont eux-mêmes des exilé.es, sont inacceptables pour les Verts/ALE. L’UE doit prendre des mesures immédiates pour lutter contre la répression de la solidarité et empêcher la criminalisation de l’aide humanitaire. Pour ce faire, les Verts/ALE plaident notamment pour l’élaboration d’un cadre commun aux Etats membres afin de renforcer la protection de la solidarité dans la législation.

      Comme je l’expliquais dans Le Soir, les Etats membres ont aujourd’hui une grande marge de manœuvre en la matière pour interpréter le droit européen, ce qui leur permet de mettre en place des législations qui ont tendance à criminaliser plutôt qu’à reconnaître la solidarité envers les migrants. Un cadre commun clair limiterait ces interprétations criminalisantes.

      L’UE devrait aussi faire beaucoup plus pour protéger les défenseur.es des droits humains, notamment en finançant de manière adéquate l’aide humanitaire. Il est également indispensable d’améliorer la veille en matière de droits humains pour demander des comptes aux Etats responsables de violations dans le cadre de procédures de criminalisation. Je réclame ainsi la création d’un organisme indépendant pour contrôler ces situations.

      De manière plus globale, il est urgent de développer une politique migratoire européenne basée sur l’accueil et la solidarité passant notamment par la mise en place de voies légales et sûres d’accès au continent européen.

      https://www.youtube.com/watch?v=nlwD-l6VRUE&feature=emb_logo

      https://saskiabricmont.eu/priorites/141-non-a-la-criminalisation-de-la-solidarite-avec-les-exilees-en-eur

  • À propos de « Terre et liberté » d’Aurélien Berlan, par Anselm Jappe (recension)
    http://www.palim-psao.fr/2022/04/a-propos-de-terre-et-liberte-d-aurelien-berlan-par-anselm-jappe-recension

    Mais par la suite une évolution dans sa pensée a eu lieu, et toujours en refusant tout « romantisme agraire », il a progressivement abandonné l’idée que l’émancipation sociale dépende forcément d’un degré du développement industriel que seulement le capitalisme a pu assurer. La rupture avec le marxisme traditionnel devait aussi passer par le rejet de cette assomption – qui est resté moins marquée, cependant, que le rejet de la centralité de la « lutte des classes ». De toute manière, il a nettement nié la possibilité de sortir de la logique de la valeur à travers le numérique, en répondant avec son article « La non-valeur du non-savoir » (Exit ! n°5, 2008) à l’article « La valeur du savoir » d’Ernst Lohoff (Krisis, n°31, 2007). La conception d’une sortie du travail à travers les machines « qui travaillent à notre place » est depuis des décennies assez populaire dans une bonne partie de la gauche radicale, et on en trouve des traces même dans le Manifeste contre le travail de 1999. Cependant, la critique « catégorielle » du travail, qui met l’accent sur le caractère tautologique du côté abstrait du travail accumulé comme représentation phantasmagorique de la pure dépense d’énergie et qui devient le lien social, n’est pas identique à une critique « empirique » du travail en tant qu’activité déplaisante – même si l’énorme augmentation du « travail concret » dans la société capitaliste est évidemment une conséquence de l’intronisation du travail abstrait comme lien social. La critique de la valeur a certainement dépassé le stade de l’« éloge de la paresse » ‒ même si ce slogan pouvait constituer jusqu’à 2000 environ une provocation salutaire envers le marxisme traditionnel autant qu’envers le mainstream social. Ensuite cette forme de critique du travail a trouvé une certaine diffusion s’accompagnant de sa banalisation, la polémique contre les « jobs à la con » (David Graeber), etc.

    […]

    L’ancienne idée que le développement des forces productives doit s’achever avant de pouvoir passer à une société émancipée, et qui fait à nouveau rage avec des tendances comme l’accélérationnisme cher à Multitudes, a été abandonnée par la majorité des auteurs de la critique de la valeur (mais non par tous). La critique de la logique de la valeur et une critique des appareils technologiques peuvent donc bien s’intégrer et se compléter dans une critique de la « méga-machine » (Mumford), même si le degré de « mélange » de ces deux critiques peut varier assez fortement selon l’approche choisie. Berlan ne va pas jusqu’à dire, comme d’autres auteurs de la critique anti-industrielle, que la critique du travail aide le capitalisme parce qu’elle dénigrerait le faire artisanal et l’ethos du travail, en favorisant ainsi les procédures automatisées, voire numérisées. Mais Berlan n’évoque jamais vraiment la différence entre travail concret et travail abstrait.

    […]

    Mais lorsque l’écroulement progressif de la société marchande poussera des millions de gens vers ces expériences – comme Berlan le prévoit et le souhaite, ce qui est d’ailleurs une perspective très optimiste – que trouveront-ils à récupérer ? Des arbres coupés et des vignes arrachées, des sols empoisonnés et des savoir-faire complètement perdus. Combien de temps faudrait-il pour recomposer ce qui a été perdu (si on y arrive) ? Et surtout, quoi faire si, au moment de la récolte, des gens se présentent, qui n’ont contribué en rien au labeur, mais qui ont des mitraillettes ? Berlan évoque effectivement le problème de la défense, presque toujours négligé dans ces contextes. Mais il le reperd tout de suite. Or, l’autodéfense ne fait pas peur aux zapatistes et aux kurdes dans le Rojava, et pourrait en tenter quelques-uns dans les zad – mais la plupart des aspirants à l’autonomie en Europe choisissent sans doute d’éviter le problème, effectivement épineux, et préfèrent la bêche au fusil.

    Une autre faiblesse de cette approche réside dans la méconnaissance du rôle de l’argent : en stigmatisant le « purisme » de ceux qui voudraient bannir tout usage de la monnaie, Berlan en défend un usage « raisonnable », limitée, pour les échanges entre communautés largement autosuffisantes. Ainsi fait retour le vieil espoir, pour ne pas dire le mythe éternel, de la « production simple de marchandises », où l’argent ne s’accumule pas en capital, mais reste sagement à sa place en jouant un rôle purement auxiliaire. Proudhon l’a proclamé comme un idéal, Fernand Braudel comme une vérité historique (le marché sans le capitalisme), Karl Polanyi (ce sont tous des auteurs cités par Berlan) comme une situation historique passée (quand la terre, le travail et la monnaie n’étaient pas des marchandises) et qui serait à rétablir. Mais c’est un leurre, très présent même à l’intérieur du marxisme. Marx a déjà démontré le caractère « impérialiste » de l’argent qui ne peut que prendre possession graduellement de toutes les sphères vitales. Le problème réside dans l’homologation des activités les plus différentes dans une seule substance, « le travail » ; si ensuite celle-ci se représente dans une « monnaie fondante », des bons de travail ou de la monnaie tout court, ne touche pas à l’essentiel. La méconnaissance du rôle du travail abstrait est ici évidemment étroitement liée à celle du rôle de l’argent.

    […]

    Dernièrement, on a prêté une attention croissante à l’« absence de limites » que provoque la société capitaliste (et sur laquelle elle se fonde en retour), à la « pléonexie », à son déni de la réalité physique. Cela constitue une partie indispensable de la mise en discussion de l’utilitarisme, du productivisme, de l’industrialisme et du culte de la consommation marchande qui distinguent autant le capitalisme que ses critiques de gauche. Cependant, Berlan risque d’aller un peu trop loin. Il oppose le désir de vivre en communautés autonomes fondées sur le partage et l’entraide, qui aurait caractérisé la plupart des êtres humains dans l’histoire, au désir de se libérer de la condition humaine et de ses contraintes. Ainsi risque-t-on de jeter aux orties, ou de déclarer pathologique, une bonne partie de l’existence humaine. Le désir de délivrance est un élément constant de l’existence humaine, souvent considérée comme sa partie noble, et s’explique avec les limites inévitables, mais quand même difficiles à accepter, de la conditio humana. La volonté d’aventure et d’extraordinaire, de grands exploits et de triomphes, de reconnaissance et de traces à laisser de son passage sur terre semble difficilement éliminable, et même si on pouvait l’éradiquer, on appauvrirait terriblement le monde humain. Le côté agonistique de l’homme doit être canalisé en des formes non trop destructrices, non simplement renié ou refoulé (avec les résultats qu’on connaît).

    […]

    L’omniprésence du désir d’être délesté des taches les plus ennuyeuses et répétitives de la vie évidemment ne justifie en rien le mille et une formes d’hiérarchie et d’oppression auxquelles ce désir a conduit. Mais il faut faire les comptes avec cette pulsion qui semble aussi originaire et fondamentale que le désir de communauté, et en tirer des bénéfices.

    […]

    Même si on n’a jamais trouvé le ciel, ou seulement pour de brefs moments, sa quête a constamment aiguillonné les humains à faire autre chose que l’accomplissement des cycles éternels. Sous-évaluer l’importance de la dimension du sacré, de la religion, du transcendant, ou simplement du rêve et de la recherche de l’impossible (les chiens qui savent voler) a déjà coûté cher aux mouvements d’émancipation. Ce ne sont pas nécessairement ces désirs qui font problème, mais la tentative de les réaliser à travers les technologies apparues sous le capitalisme, qui font sauter toutes les barrières entre le rêve et le passage á l’acte, détruisant au passage aussi la possibilité de rêver. Les mythes universels sur l’immortalité ne sont pas responsables du transhumanisme.

    […]

    [9] D’ailleurs, ce mythe mésopotamien, un des plus anciens connus et dont ils existent de nombreuses versions, débouche justement sur l’impossibilité d’atteindre l’immortalité - un serpent vole l’herbe de l’immortalité que les dieux ont donnée à Gilgamesh, qui accepte alors sa mortalité et décide de jouir des plaisirs des mortels, comme celui de tenir son enfant par la main.

    #Aurélien_Berlan #liberté #subsistance #délivrance #recension #livre #Anselm_Jappe #critique_de_la_valeur #anti-industriel #décroissance #philosophie #désir #émancipation #argent #travail #travail_abstrait #critique_du_travail #mythe #rêve #immortalité #transcendance

  • En attente d’un arbitrage, l’éditeur Dupuis suspend la résurrection de Gaston Lagaffe
    https://www.rts.ch/info/culture/13099180-en-attente-dun-arbitrage-lediteur-dupuis-suspend-la-resurrection-de-gas

    L’éditeur belge Dupuis a décidé de différer la sortie d’un nouvel album de Gaston Lagaffe, initialement prévue cette année. Il a fait cette annonce lundi à l’occasion d’une audience devant un tribunal de Bruxelles, saisi par Isabelle Franquin, la fille du créateur du gaffeur culte.

    Sous le coup d’un procès, Dupuis a décidé de différer à l’an prochain - au plus tôt - la sortie d’un nouvel album de Gaston Lagaffe. Sa parution est combattue par la fille du dessinateur belge André Franquin, décédé en 1997. Elle refuse que le personnage revive sous les traits d’un autre dessinateur, le Canadien Marc Delafontaine, alias Delaf.

    « Son papa a répété de manière continue, pendant des années, qu’il ne voulait en aucun cas que Gaston Lagaffe soit repris par un autre dessinateur après sa mort », a affirmé l’avocate d’Isabelle Franquin devant le tribunal.

    Il s’agit d’"un droit moral inaliénable" qu’est habilitée à exercer celle qui est l’unique ayant droit d’André Franquin, a-t-elle ajouté.

    A l’inverse, les éditions Dupuis estiment être propriétaires des droits patrimoniaux sur les personnages de Franquin, via le rachat en 2013 de la société Marsu Productions. Mais lundi, son avocat a annoncé que l’éditeur acceptait de différer son projet. « On n’a pas envie de faire la guerre, on veut un débat serein » avec Isabelle Franquin, a-t-il expliqué.

    Par conséquent, toute prépublication dans le journal de Spirou d’une nouvelle planche de Lagaffe est suspendue, et l’album lui-même ne sortira pas avant 2023, ce qui laisse le temps de trancher le litige au fond, au terme d’un arbitrage privé.

    Dans son numéro du 6 avril, Dupuis avait publié un premier gag de Lagaffe dessiné par Delaf dans le journal de Spirou, ce qu’avaient déploré les avocats d’Isabelle Franquin. L’éditeur avait alors déjà annoncé suspendre la suite des prépublications « par souci d’apaisement ».

    L’affaire met en ébullition le monde de la bande dessinée. Des centaines de personnes, dont plusieurs auteurs et d’autrices de BD, ont signé une lettre ouverte de soutien à Isabelle Franquin, accusant le projet de Dupuis de « bafouer le droit moral » du créateur de Lagaffe.

    « En agissant ainsi, vous fragilisez une forme artistique qui a mis plus d’un siècle à se faire respecter. Vous proposez de revenir à une époque où la volonté du créateur était soumise au bon vouloir des détenteurs des droits commerciaux et où un ersatz - ou produit dérivé - se présente comme une oeuvre originale », dénonce ce texte.

    Parmi les signataires, plusieurs ont laissé des commentaires parfois cinglants. « Arrêtez avec ces imitations de personnages, c’est nul », assène Zep, l’auteur de Titeuf.

    « Je signe d’autant plus volontiers que j’ai formulé la même intention à de nombreuses reprises : devant mes proches, devant notaire et sur différents médias. Je m’oppose à ce qu’un autre dessinateur s’empare du Chat, après ma disparition », écrit Philippe Geluck.

    D’autres en revanche soutiennent le projet d’une suite, notamment le célèbre scénariste Jean van Hamme (Thorgal, XIII, Largo Winch). Pour lui, tant que « le personnage de Gaston est respecté, il n’y a rien à redire. »

    La poursuite d’une oeuvre par un éditeur ou les reprises de personnages par d’autres auteurs sont monnaies courantes dans l’univers de la bande-dessinée. Une spécificité de cette littérature.

    Ainsi, plusieurs personnages et séries cultes comme Astérix, Blake et Mortimer, Lucky Luke, les Schtroumpfs ou encore plus récemment Corto Maltese, relancé par les éditions Casterman en 2021, ont vécu une renaissance après la mort de leur créateur. Franquin lui-même avait repris le personnage de Spirou, et avait transmis de son vivant son personnage du Marsupilami au dessinateur Batem, afin d’en faire une série indépendante.

    Mais le père de Gaston a toujours exprimé de son vivant sa volonté que Gaston ne lui survive pas sous le crayon d’un autre dessinateur. « Gaston Lagaffe est une oeuvre particulière qui concernait profondément » Franquin, expliquait Philippe Duvanel, directeur artistique du festival Delémont’BD, fin mars dans La Matinale.

    #Fric #commerce #droit_d’auteur #vol #dupuis #franquin #génie #bd #bande_dessinée #dessin #spirou #andré_franquin #gaston_lagaffe #profanation #delaf #création

    • La guerre se fabrique près de chez nous

      L’Observatoire des armements publie un nouveau rapport sur l’impact des entreprises d’armement de la #Région_Auvergne-Rhône-Alpes sur les #conflits. Il documente notamment 11 sociétés qui alimentent les guerres et répressions actuelles : Palestine, Yémen, Égypte, République démocratique du Congo... À chacun·e de nous de se mobiliser et à nos décideurs d’agir pour éliminer l’empreinte de la région sur les violations de droits humains.

      Cette étude rédigée par Tony Fortin avec Patrice Bouveret est téléchargeable gratuitement ou disponible en version papier (www.obsarm.org/IMG/pdf/fabrique_de_la_guerre_aura_mai_2022_web.pdf).

      La guerre en Ukraine est venue raviver la crainte d’une guerre généralisée en Europe, une crainte sur laquelle capitalise le secteur de l’armement pour développer et vendre de nouveaux équipements. Déjà, la guerre au Yémen avait replacé au premier plan ces dernières années la responsabilité de la France par rapport à l’utilisation des armes qu’elle vend. Les multiples enquêtes d’ONG et de journalistes ont pointé le rôle des majors du secteur (Thales, Safran, Dassault…). Peu d’informations existent en revanche sur les myriades de petites et moyennes entreprises réparties sur l’ensemble du territoire. Or, à partir du moment où une entreprise « habite » un lieu, son rôle — si les conséquences de son activité posent de graves problèmes humains — ne doit-il pas être connu de tous et débattu par les habitants ? Où et à qui leurs armes sont-elles vendues ? Sont-elles si inodores et incolores sur le plan de la préservation de la paix et du respect des droits humains ?

      Notre nouveau rapport apporte une première pierre à ce projet en documentant le rôle d’un panel d’entreprises d’armement et de maintien de l’ordre établies dans la région Auvergne-Rhône-Alpes. Onze sociétés, parmi les plus significatives, ont ainsi été identifiées. La conclusion de cette étude l’établit sans fard : certaines entreprises du terroir local sont bel et bien associées aux guerres et répressions actuelles.

      Entre autres exemples :

      - des hélicoptères modernisés ont été cédés au Togo qui réprime sa propre population (#Ares basée dans la Drôme) :
      - des blindés fabriqués pour partie en région lyonnaise sont en guerre contre les mouvements sociaux au Chili, Liban, Sénégal, Égypte (#Arquus en région lyonnaise) ;
      – des drones ont été livrés à des compagnies minières décriées en Australie, Ghana, Afrique du Sud (#Delta_Drone en région lyonnaise) ;
      - des fusils de précision sont utilisés en Égypte et Israël (#PGM_Précision en Savoie) ;
      - des flash-ball stéphanois ont servi contre l’opposition sociale en République démocratique du Congo et en France (#Verney-Carron à Saint-Étienne), etc.

      Un tel impact doit interpeller nos décideurs locaux qui attribuent des aides publiques au secteur de l’armement : n’est-il pas temps de réajuster le plan de développement économique de nos collectivités à l’aune des droits humains ? Ou d’engager a minima un audit mesurant l’empreinte de nos entreprises régionales sur les conflits internationaux et les violations de droits humains ?

      Ce dossier contient également différentes pistes d’initiatives pour chacun·e d’entre nous, habitant·e·s, citoyen·ne·s, élu·e·s, journalistes, membres d’associations, etc., pour en faire un sujet politique. Pourquoi ne pas organiser une discussion publique ? Engager le débat sur les pistes de reconversion possible de ces entreprises vers d’autres secteurs socialement utiles ?

      http://www.obsarm.org/spip.php?article383

      #armes #armement #industrie_de_l'armement #France #rapport #Auvergne-Rhône-Alpes

      ping @karine4

  • Non, l’automatisation ne fera pas disparaître le travail. Entretien avec J. S. Carbonell – CONTRETEMPS
    https://www.contretemps.eu/automatisation-travail-machines-industrie-entretien-carbonell

    David Broder – Votre travail résiste à l’idée que nous assistons à un « grand remplacement technologique » du travail humain. Pourquoi ? Et qu’est-ce que les caisses automatiques nous apprennent à ce sujet ?

    Juan Sebastián Carbonell – D’abord, parce que c’est faux ; le remplacement technologique n’a pas lieu. Je prends l’exemple des caisses automatiques, car il y a eu une controverse en France au début des années 2000. La CFDT (Confédération française démocratique du travail) a fait campagne contre elles, en disant qu’elles allaient remplacer les caissières des supermarchés. Les syndicats sont parfois eux-mêmes victimes de cette illusion : la mythologie capitaliste du « grand remplacement » du travail par les machines. Pourtant, vingt ans après leur introduction, les caisses automatiques ne sont présentes que dans 57% des supermarchés en France, et là où elles sont présentes, elles s’ajoutent, et ne remplacent pas, les caisses conventionnelles avec des caissières humaines. Elles ne sont pas non plus toujours aussi automatiques : il y a toujours des caissiers pour surveiller et aider les clients, même si leurs tâches ont changé.

    Le livre tente donc de remettre en question ce sens commun. Pour moi, le problème de la transformation du travail aujourd’hui n’est pas tant que les nouvelles technologies pourraient éventuellement remplacer les travailleur.euse.s, mais qu’elles sont utilisées pour dégrader les conditions de travail, faire stagner les salaires et mettre en place une flexibilisation majeure du temps de travail.

    #travail #salariat #automatisation #machines #capitalisme #délocalisations #livre

  • Où délibérer en démocratie ?
    https://laviedesidees.fr/Ou-deliberer-en-democratie.html

    À propos de : Loïc Blondiaux, Bernard Manin (dir.), Le tournant délibératif de la #démocratie, Presses de Sciences-Po. Comment réaliser l’idéal d’une démocratie délibérative ? Un ouvrage collectif revient sur le « tournant délibératif » de la pensée démocratique et esquisse les voies de sa mise en œuvre, dans des démocraties de masse où l’opinion publique continue d’être cristallisée par les médias et les partis.

    #Politique #délibération
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202205_deliberer.docx

  • Au #col_du_Portillon, entre la #France et l’#Espagne, la #frontière de l’absurde

    L’ordre est tombé d’en haut. Fin 2020, Emmanuel Macron annonce la fermeture d’une quinzaine de points de passage entre la France et l’Espagne. Du jour au lendemain, le quotidien des habitants des #Pyrénées est bouleversé.

    C’est une histoire minuscule. Un #col_routier fermé aux confins des Pyrénées françaises des mois durant sans que personne n’y comprenne rien. Ni les Français ni les Espagnols des villages alentour, pas même les élus et les forces de l’ordre chargés de faire respecter cette fermeture. L’histoire de cette « mauvaise décision », qui a compliqué la vie de milliers de personnes pendant treize mois, débute à l’automne 2020.

    Les journaux gardent en mémoire la visite d’Emmanuel Macron au Perthus, le poste-frontière des Pyrénées-Orientales, département devenu depuis quelques années la voie privilégiée des migrants venus du Maroc, d’Algérie et d’Afrique subsaharienne. Sous un grand soleil, inhabituel un 5 novembre, le président de la République, un masque noir sur le visage, avait alors annoncé une fermeture temporaire des frontières françaises d’une ampleur jamais connue depuis la création de l’espace Schengen, en 1985 : une quinzaine de points de passage, situés tout le long des 650 kilomètres de frontière entre la France et l’Espagne, seraient désormais barrés.

    L’objectif officiel, selon les autorités, étant « d’intensifier très fortement les contrôles aux frontières » pour « lutter contre la menace terroriste, la lutte contre les trafics et la contrebande (drogue, cigarettes, alcools…) mais aussi contre l’immigration clandestine ». Aux préfets concernés de s’organiser. Ils ont eu deux mois.

    Une mesure « ubuesque »

    6 janvier 2021. Loin du Perthus, à quelque 300 kilomètres de là, il est 20 heures lorsque les premières automobiles sont refoulées au col du Portillon, l’un des points de passage concernés par cette mesure. Ce jour-là, il n’y a pourtant pas plus de neige que d’habitude. La frontière est fermée jusqu’à nouvel ordre, annoncent les gendarmes. Lutte contre le terrorisme. Les refoulés sont dubitatifs. Et inquiets. La dernière fois qu’on les a rembarrés comme ça, c’était au lendemain de l’attaque de Charlie Hebdo, quand, comme partout, les contrôles aux frontières avaient été renforcés. Ça aurait recommencé ? A la radio et à la télévision, on ne parle pourtant que de l’assaut du Capitole, à Washington, par des centaines de trumpistes survoltés, pas d’une attaque en France.

    « Ça n’a l’air de rien, mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. » Michel, retraité

    Comme il n’existe pas trente-six manières de matérialiser une frontière, Etienne Guyot, le préfet de la région Occitanie et de la Haute-Garonne, a fait installer de gros plots en béton armé et autant d’agents de la police aux frontières (PAF) en travers de cette route qui permet de relier Bagnères-de-Luchon à la ville espagnole de Bossòst, située dans le val d’Aran. Au bout de quelques jours, parce que les plots étaient trop espacés, les agents ont fait ajouter des tas de gravier et de terre pour éviter le passage des motos et des vélos. Mais les deux-roues ont aimé gravir les petits cailloux. De gros rochers sont donc venus compléter l’installation.

    Ce chantier à 1 280 mètres d’altitude, au milieu d’une route perdue des Pyrénées, n’a pas intéressé grand monde. Quelques entrefilets dans la presse locale – et encore, relégués dans les dernières pages – pour un non-événement dans un endroit qui ne dit rien à personne, sauf aux mordus du Tour de France (magnifique victoire de Raymond Poulidor au Portillon en 1964) et aux habitants du coin.

    Cette décision – l’une de celles qui se traduisent dans les enquêtes d’opinion par une défiance vis-à-vis des dirigeants – a été vécue comme « ubuesque », « injuste », « imposée par des Parisiens qui ne connaissent pas le terrain ». Elle a achevé d’excéder une région déjà énervée par un confinement jugé excessif en milieu rural et, avant cela, par une taxe carbone mal vécue dans un territoire où la voiture est indispensable.

    « Le carburant ça finit par chiffrer »

    Si la fermeture du col n’a engendré aucune conséquence tragique, elle a sérieusement entamé des activités sociales et économiques déjà fragilisées après le Covid-19. Prenez Michel, retraité paisible à Bagnères-de-Luchon, habitué à faire ses courses trois fois par semaine à Bossòst, côté espagnol. Un petit quart d’heure sépare les deux villes si l’on emprunte le col du Portillon, avec une distance d’à peine 17 kilomètres. Mais, depuis janvier 2021, il faut faire le tour et franchir le pont du Roi. Soit un détour de 42 kilomètres. « Ça n’a l’air de rien, concède le septuagénaire. Mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. Et le carburant, ça finit par chiffrer. »

    Dans ce coin, le Pays Comminges, qui s’étend depuis les coteaux de Gascogne jusqu’à la frontière espagnole, la frontière n’existait pas. « Pas dans les têtes, en tout cas », assure Pierre Médevielle. Bien que le sénateur indépendant de la Haute-Garonne boive de l’eau plate à l’heure du déjeuner, il correspond en tout point à l’idée que l’on se fait d’un élu de la Ve République du siècle dernier. Il donne rendez-vous dans un restaurant qui sert du canard, il a 62 ans, un look gentleman-farmer de circonstance (un week-end en circonscription), une passion pour la chasse et la pêche, une fidélité de longue date pour les partis centristes et une connaissance encyclopédique de l’histoire de sa région.

    Le Comminges, c’est plus de 77 000 habitants, une densité de 36 habitants au kilomètre carré, un déclin démographique inquiétant, une vallée difficile à développer, un accès routier complexe… Une véritable petite diagonale du vide dans le Sud-Ouest. « Juste après le Covid, la fermeture du Portillon a été vécue comme une sanction, explique le sénateur. Elle a bouleversé le quotidien de nombreux frontaliers. »

    Des questions laissées sans réponse

    Les Aranais vont et viennent dans les hôpitaux et les cabinets médicaux de Toulouse et de Saint-Gaudens – un accord de coopération sanitaire lie les deux pays –, et leurs enfants sont parfois scolarisés dans les écoles et le collège de Luchon. Les Français considèrent, eux, le val d’Aran comme un grand supermarché low cost planté au milieu d’une nature superbe. Ils achètent, à Bossòst – des alcools, des cigarettes et des produits bon marché conditionnés dans d’immenses contenants (céréales, pâte à tartiner, shampoing, jus d’orange…). Le samedi matin, les Espagnols, eux, se fournissent en fromage et en chocolat côté français, dans le gigantesque Leclerc d’Estancarbon. D’un côté comme de l’autre, on parle l’occitan, qu’on appelle gascon en France et aranais en Espagne.

    Pierre Médevielle a fait comme il a pu. Il a posé des questions dans l’Hémicycle. Il a adressé des courriers au ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin. Il a beaucoup discuté avec celui qui est alors le secrétaire d’Etat chargé de la ruralité, Joël Giraud, et avec son homologue espagnol, Francés Boya Alós, chargé du défi démographique (l’autre nom de la ruralité). Ils ont tous trois fait état des pétitions citoyennes et des motions votées par les élus des communes concernées, suppliant Gérald Darmanin de revenir sur une décision « incompréhensible ».

    Eric Azemar, le maire de Bagnères-de-Luchon, estime, lui, les conséquences « catastrophiques » pour sa ville, notamment pour la station thermale, déjà éprouvée par la pandémie : « De 11 000 curistes, nous sommes passés à 3 000 en 2020 et à peine à 5 000 en 2021. » Il a appris la fermeture de la frontière le matin même du 6 janvier 2021. En recevant l’arrêté préfectoral. « Point. » Point ? « Point. » En treize mois, aucun de ces élus n’est parvenu à arracher un courriel ou la moindre invitation à une petite réunion de crise à la préfecture. Rien. Le silence.

    Contourner l’obstacle

    « Le mépris », déplore Patrice Armengol, le Français sur qui cette décision a le plus pesé. Il vit à Bagnères-de-Luchon et travaille exactement au niveau du Portillon mais côté espagnol. A 2 kilomètres près, il n’était pas concerné par cette affaire, mais, voilà, son parc animalier, l’Aran Park – km 6 puerto del Portillón –, est, comme son nom et son adresse l’indiquent, installé dans le val d’Aran. Val d’Aran, Catalogne, Espagne. Il a cru devenir fou, il est devenu obsessionnel. « Leur barrage était mal fichu mais aussi illégal, commente-t-il. Là, vous voyez, le panneau ? Le barrage était à 1 kilomètre de la frontière française. »

    C’est exact. Appuyé contre son 4 × 4, il fait défiler les photos du barrage, prises au fil des mois. Lui est allé travailler tous les jours en franchissant le col : il roulait en voiture jusqu’au barrage, déchargeait les kilos de viande et de fruits secs périmés achetés pour ses bêtes dans les supermarchés français, franchissait le barrage à pied et chargeait le tout dans une autre voiture garée de l’autre côté des plots. Le soir, il laissait une voiture côté espagnol et repartait dans celle qui l’attendait côté français. « Ils m’ont laissé faire, heureusement », dit-il.

    Il a trouvé héroïques les habitants qui, autour du col de Banyuls, dans les Pyrénées-Orientales, ont régulièrement déplacé les blocs de pierre avec toujours le même message : « Les Albères ne sont pas une frontière. » Le geste ne manquait pas de panache, mais lui-même ne s’y serait pas risqué : « Une violation des frontières, c’est grave. Je n’avais pas envie d’aller en prison pour ça. » Patrice Armengol s’est donc contenté de limiter les dégâts. S’il a perdu près d’un tiers de ses visiteurs, il a pu maintenir le salaire de ses trois employés espagnols à plein temps.

    La fin du calvaire mais pas du mystère

    Gemma Segura, 32 ans, s’occupe des visites scolaires dans le parc et, pour défendre l’ouverture du col, elle a rejoint l’association des commerçants de Bossòst, où elle vit. Fille d’un boucher à la retraite et d’une enseignante d’aranais, elle est née à Saint-Gaudens comme beaucoup de frontaliers espagnols. « Je suis toujours allée chez le médecin à Saint-Gaudens et mes grands-mères consultent des cardiologues français. Nos banques sont françaises. Nos familles vivent des deux côtés de la frontière. Et, quand je jouais au foot, je participais à la Coupe du Comminges, en France. »

    « Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. » Un agent chargé de surveiller la zone

    Après des études de sciences de l’environnement à Barcelone, elle a préféré revenir ici, dans ce coin, certes un peu enclavé, mais si beau. Certains parlent aujourd’hui de quitter Bossòst, leurs commerces ayant été vides pendant des mois. Mais le « miracle » s’est enfin produit le 1er février 2022, et, cette fois, l’information a fait la « une » de La Dépêche du Midi : « Le col du Portillon est enfin ouvert. »

    De nouveau, personne n’a compris. La possibilité d’une ouverture avait été rejetée par le premier ministre Jean Castex lui-même à peine un mois plus tôt lors d’un déplacement à Madrid. Perplexité du maire de Bagnères-de-Luchon : « Pourquoi maintenant ? Il y a sans doute une raison logique, le ministre ne fait pas ça pour s’amuser. » Même les agents chargés de surveiller la zone sont surpris : « Pourquoi avoir fermé ? C’était mystérieux, mais on l’a fait. Et, maintenant, on ouvre, mais on doit intensifier les contrôles. Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. »

    « En haut », au ministère de l’intérieur et à la préfecture, on est peu disert sur le sujet. Le service de presse de la préfecture nous a envoyé, sans empressement, ces explications parcimonieuses : « Depuis quelques mois, la police aux frontières a constaté une recrudescence de passeurs au cours de différentes opérations menées sur les points de passage autorisés. (…) Les dispositifs de contrôle sur la frontière ont permis de nombreuses interpellations de passeurs (quatorze en 2021 et un en 2022). »

    Une voie migratoire sous surveillance

    Ces chiffres sont autant d’histoires qui atterrissent sur le bureau du procureur de Saint-Gaudens, Christophe Amunzateguy. Le tribunal, comme les rues de la ville, est désert ce 31 janvier. Il est 18 heures et Christophe Amunzateguy, qui assure la permanence, est parfaitement seul. Comme tout le monde ici, les décisions de la préfecture le prennent de court. On ne l’informe de rien, jamais. Il pointe du doigt le journal ouvert sur son bureau. « Je l’apprends par La Dépêche. La préfecture ne m’en a pas informé. »

    Il parle de l’ouverture du col du Portillon. Il lit à voix haute que le préfet promet des renforts. « Eh bien, très bonne nouvelle, mais, s’il y a des renforts, il y aura une multiplication des interpellations et, s’il y a des interpellations, c’est pour qui ? Pour moi. » Dans cette juridiction, l’une des plus petites de France, ils ne sont que deux procureurs et six magistrats du siège. Après avoir connu les parquets turbulents de Nancy et de Lille – il a suivi l’affaire du Carlton –, Christophe Amunzateguy se sent « dépaysé » dans ce « bout du monde ». « C’est une expérience, résume-t-il. Ici, on fait tout, tout seul. »

    « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière » Jacques Simon

    C’est au mois de septembre 2021, soit neuf mois après la fermeture du col du Portillon, que la « vague » d’arrivée de migrants s’est amplifiée. La police de l’air et des frontières l’a alerté à la mi-août : des clandestins arriveraient par le point de passage du pont du Roi. Ce mois-là, les interpellations se sont succédé : quatorze d’un coup.

    Sur les quatre derniers mois de 2021, neuf passeurs algériens ont été condamnés à des peines de prison ferme en Haute-Garonne. Et seize passeurs ont été jugés à Saint-Gaudens en 2021. Le profil ? « Des personnes de nationalité algérienne, explique le procureur. Par pur opportunisme, elles prennent en charge des personnes en situation irrégulière et leur font passer la frontière contre 200 à 600 euros, dans leur voiture ou dans une voiture de location. »

    Une délinquance d’opportunité

    Au début de l’année 2022, ça a recommencé. Le 4 janvier, à 10 h 40, alors qu’ils contrôlaient une Golf à Melles – la routine –, les agents de la PAF ont aperçu un Scénic tenter une manœuvre de demi-tour avant que quatre passagers n’en descendent précipitamment et se mettent à courir. Tentative désespérée et totalement vaine : tous ont été arrêtés en un rien de temps. Le chauffeur de la Golf a été embarqué aussitôt que les agents se sont aperçus qu’il était le propriétaire officiel du Scénic. Tous ont été conduits au tribunal de Saint-Gaudens, où le procureur a pu reconstituer leur parcours.

    Arrivés d’Algérie quelques jours plus tôt, les trois passagers à l’arrière du Scénic tentaient de gagner Toulouse. Un premier passeur, payé 200 euros, les a d’abord conduits à Alicante où le chauffeur de la Golf les a contactés par téléphone. Chargé de les conduire à la gare de Toulouse contre 200 euros par personne, il a roulé toute la nuit avant de crever. Un de ses « amis » est venu de France (en Scénic) pour réparer la voiture et les « aider » à poursuivre le voyage, qui s’est donc terminé à Melles.

    Concernant les conducteurs du Scénic et de la Golf, la conclusion est la même que pour l’écrasante majorité des dossiers de 2021 : « Ils sont en free-lance. » Dans le vocabulaire de la justice, ça s’appelle de la « délinquance d’opportunité ». Les passeurs n’appartiennent pas à des réseaux ; ils arrondissent leurs fins de mois.

    Les passeurs du 4 janvier ont été condamnés à quatre et six mois d’emprisonnement et incarcérés à la maison d’arrêt de Seysses (Haute-Garonne). L’un des deux a écopé de cinq ans d’interdiction du territoire français et leurs deux véhicules ont été saisis. Le procureur assume cet usage de la « manière forte » : garde à vue systématique, comparution immédiate, saisie des véhicules (« ils sont sans valeur, ce sont des poubelles »), confiscation du numéraire trouvé sur les passeurs (« je ne prends pas l’argent sur les personnes transportées »). Il précise ne pas en faire une question de politique migratoire mais prendre au sérieux la question de la traite des êtres humains : « On ne se fait pas d’argent sur le malheur des autres. »

    La frontière, terre de fantasme

    Christophe Amunzateguy se souvient du 19 janvier 2021. Il était dans son bureau, seul comme d’habitude, quand il a reçu un coup de fil de la gendarmerie lui signalant qu’une bande d’activistes habillés en bleu et circulant à bord de trois pick-up a déroulé une banderole sur une zone EDF située dans le col du Portillon. Sur les réseaux sociaux, il apprend qu’il s’agit de militants de Génération identitaire, un mouvement d’ultra-droite, tout à fait au courant, eux, contrairement au reste du pays, que le col du Portillon a été bloqué.

    Le procureur découvre, quelques jours plus tard, une vidéo de l’opération commentée par Thaïs d’Escufon, la porte-parole du groupuscule, affirmant qu’il est « scandaleux qu’un migrant puisse traverser la frontière ». Elle a été condamnée au mois de septembre 2021 à deux mois d’emprisonnement avec sursis pour les « injures publiques » proférées dans cette vidéo.

    Que la frontière soit depuis toujours un espace naturel de trafics et de contrebande n’est un secret pour personne. Pourquoi fermer maintenant ? En vérité, explique le procureur, c’est du côté des Pyrénées-Orientales qu’il faut chercher la réponse. En 2021, 13 000 personnes venues du Maghreb et d’Afrique subsaharienne ont été interpellées au sud de Perpignan, à Cerbère. Un chiffre « record » qui a entraîné l’intensification des contrôles. Les passeurs ont donc choisi d’emprunter des voies moins surveillées. Le bouche-à-oreille a fait du point de passage du pont du Roi une entrée possible.

    Le procureur est formel : le phénomène est contenu. Quant au fantasme des migrants qui franchissent les montagnes à pied, cela lui paraît improbable. L’hiver, c’est impraticable ; aux beaux jours, il faut être un alpiniste chevronné et bien connaître le coin. Un peu plus loin, du côté du Pas de la Case, deux passeurs de tabac sont morts en montagne : l’un, algérien, de froid, en 2018, et l’autre, camerounais, après une chute, en 2020.

    La route de la liberté

    Ces chemins, désormais surveillés et fermés, ont longtemps été synonymes de liberté. C’est par là qu’ont fui les milliers de réfugiés espagnols lors de la Retirada, en 1939, après la guerre civile. Par là aussi que, dans l’autre sens, beaucoup ont pu échapper aux nazis au début des années 1940. La mémoire de cette histoire est ravivée par ceux qui l’ont vécue et par leurs descendants qui se regroupent en associations depuis une vingtaine d’années.

    « Sur cette chaîne pyrénéenne, on évalue à 39 000 personnes les personnes qui fuyaient le nazisme », explique Jacques Simon, fondateur et président des Chemins de la liberté par le Comminges et le val d’Aran, créée en mars 2018. Son grand projet est de labelliser la nationale 125, depuis le rond-point de la Croix-du-Bazert, à Gourdan-Polignan, jusqu’au pont du Roi, pour en faire une « route de la liberté » comme il existe une route des vins, une route de la ligne Maginot et une Voie sacrée.

    L’un des récits de traversée que raconte souvent Jacques Simon est celui qui concerne seize compagnons partis clandestinement de la gare de Saléchan la nuit du 25 octobre 1943. En pleine montée du pic du Burat, les passeurs se perdent et les trois femmes du groupe, dont une enfant, peinent. « Leurs chaussures n’étaient pas adaptées et elles portaient des bas en rayonne. C’est une matière qui brûle au contact de la neige, explique Jacques Simon, qui a recueilli les souvenirs des derniers témoins. Elles ont fini pieds nus. » Le groupe est arrivé en Espagne et tous ont survécu.

    « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. » Philippe Petriccione

    Parmi eux, Paul Mifsud, 97 ans, l’un des deux résistants commingeois toujours en vie. Le second, Jean Baqué, 101 ans, avait 19 ans quand il s’est engagé dans la Résistance. Arrêté par la milice en novembre 1943, il parvient à s’échapper des sous-sols de l’hôtel Family, le siège de la Gestapo à Tarbes. Dans sa fuite, il prend une balle dans les reins, ce qui ne l’empêche pas d’enfourcher un vélo pour se réfugier chez un républicain espagnol. « Il m’a caché dans le grenier à foin et a fait venir un docteur. »

    En décembre 2021, Jean Baqué est retourné sur les lieux, à Vic-en-Bigorre. Il est tombé sur le propriétaire actuel, qui lui a raconté que l’Espagnol, Louis Otin, avait été fusillé en 1944 par la milice. « Je ne l’avais jamais su. » Jean Baqué a organisé quelques jours plus tard une cérémonie en sa mémoire dans le bois de Caixon, là où l’homme a été assassiné. « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière », résume Jacques Simon.

    L’ivresse des sommets

    Ces chemins, Philippe Petriccione les connaît comme sa poche et il accepte de nous guider. A l’approche du col du Portillon, en apercevant depuis son 4 × 4 quatre agents de la PAF occupés à contrôler des véhicules, le guide de haute montagne raconte un souvenir qui date du lendemain de l’attentat contre Charlie Hebdo, en janvier 2015. C’était ici même : « Les Mossos d’Esquadra [la force de police de la communauté autonome de Catalogne] ont débarqué. Ils ne sont pas toujours très tendres. Ils ont toqué à la vitre de ma bagnole avec le canon de leur fusil. J’avais envie de leur dire : “C’est bon, moi, je vais faire du ski, les gars.” »

    Le 4 × 4 s’engage sur un chemin. Les stalactites le long des rochers enchantent les passagers, le gel sous les roues, moins. Philippe arrête la voiture. « On y va à pied. » En réalité, « on y va » à raquettes. Après quelques kilomètres, la vue spectaculaire lui redonne le sourire. C’est pour cela qu’il est venu vivre à la montagne. Né à Paris dans le 18e arrondissement, il a vécu ici et là avant de s’installer il y a une dizaine d’années à Luchon avec sa femme et leurs enfants. « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. »

    On se tient face à un vallon enneigé dont les pentes raides dévalent dans un cirque de verdure. Le guide tend le bras vers le côté gauche. Il montre une brèche recouverte de glace : le port de Vénasque, à 2 444 mètres d’altitude (« col » se dit « port » dans les Pyrénées) : « Il est devenu célèbre sous Napoléon, qui a eu une idée de stratège. Il s’est dit : “Je vais faire passer mon armée par là.” Il a tracé un chemin pour passer avec les chevaux et les canons. » On distingue la limite géographique appelée le carrefour des Trois-Provinces. A gauche, la Catalogne. A droite, l’Aragon et, face à nous, la Haute-Garonne. Il y a huit ports, soit autant de passages possibles pour traverser le massif. « L’histoire dit que 5 000 personnes sont passées en quarante-huit heures en avril 1938… »

    Philippe connaît par cœur cet épisode, puisqu’il a l’habitude de le raconter aux touristes et aux collégiens qui viennent parfois depuis Toulouse découvrir « en vrai » ces chemins. Il fait comme aujourd’hui. Il tend le bras et montre au loin les pentes raides de ce paysage de la Maladeta et la vue sur l’Aneto, le plus haut sommet du massif. Un rectangle sombre perce l’étendue blanche. En approchant, on distingue une borne en béton, « F356E » : c’est la frontière. F pour France, E pour Espagne. Ces bornes, il y en a 602 tout le long de la frontière. Le tracé, qui date de la fin du XIXe siècle, part de la borne numéro 1, sur les bords de la Bidassoa, et va jusqu’au pied du cap Cerbère, en Méditerranée, explique le guide. Allongé sur la neige, il répète qu’ici c’est une montagne particulière. « Il n’y a jamais personne. »

    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/04/29/au-col-du-portillon-entre-la-france-et-l-espagne-la-frontiere-de-l-absurde_6

    #montagne #frontières #fermeture #points_de_passage #contrôles_frontaliers #terrorisme #lutte_contre_le_terrorisme #Bagnères-de-Luchon #Bossòst #val_d'Aran #plots #PAF #gravier #terre #rochers #Pays_Comminges #gascon #aranais #migrations #asile #réfugiés #pont_du_Roi #délinquance_d’opportunité #passeurs #politique_migratoire #traite_d'êtres_humains #génération_identitaire #Thaïs_d’Escufon #Cerbère #parcours_migratoires #routes_migratoires #Pas_de_la_Case #histoire

    via @karine4
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  • Paresse business : petits livreurs et gros profits | ARTE Radio
    https://www.arteradio.com/emission/vivons_heureux_avant_la_fin_du_monde

    Depuis la pandémie, les applications de « quick commerce » ont révolutionné les comportements du citadin moyen. La recette miraculeuse ? Commander en trois clics sur son smartphone une barquette de guacamole pour l’apéro ou un pack de lait UHT, et se les faire amener à domicile en quelques minutes par un livreur à vélo. Et ceci tous les jours, de l’aube à minuit, pour un surcoût dérisoire de même pas deux euros. Flink, Cajoo, Gorillas, Getir… Une dizaine de jeunes start-up européennes se disputent, après celui de la livraison des repas, ce nouveau marché des courses d’épicerie disruptées. Leur arme fatale : un réseau de dark stores, des mini-entrepôts disséminés dans les grandes métropoles et qui permettent aux livreurs d’être à proximité des clients. Des siècles de civilisation et d’innovation technique pour ne plus bouger ses fesses du canapé... Que raconte ce business de la paresse ? Sous prétexte de nous simplifier la vie, comment cette économie change-t-elle le visage de la ville ? Notre rapport aux autres, au travail, au temps ? D’ailleurs, quelle vie mènent ceux qui pédalent toute la journée avec des sacs isothermes sur le dos ? En rencontrant un livreur à vélo sans papiers, des geeks du numérique, et un économiste affûté et pédagogue, Delphine Saltel éclaire ce qui se passe à l’ombre des dark stores et des dark kitchens. Au cœur de nos petits arrangements avec la flemme.

    #Podcast #Alimentation #Économie #Numérique