• Le gouvernement allemand envisage des #déportations vers l’Afghanistan via l’Ouzbékistan, rapporte Der Spiegel

    Le gouvernement allemand et l’#Ouzbékistan mènent des discussions en vue de permettre des déportations de migrants se trouvant en #Allemagne vers l’#Afghanistan, sans organiser de consultations directes avec les taliban, rapporte dimanche le magazine allemand Der Spiegel.

    Le ministère allemand de l’Intérieur a envoyé dans ce but une délégation à Tachkent, la capitale de l’Ouzbékistan, à la fin du mois de mai, a indiqué le magazine, sans dévoiler ses sources.

    La délégation allemande a proposé au gouvernement ouzbek que les Afghans candidats à la déportation soient envoyés à #Tachkent, d’où ils pourraient être transportés à Kaboul par avion, écrit Der Spiegel.

    Le ministère allemand de l’Intérieur n’a pas immédiatement fait de commentaire.

    La ministre de l’Intérieur Nancy Faeser a déclaré plus tôt dans le mois que l’Allemagne envisageait de déporter les migrants originaires d’Afghanistan qui représentaient une menace pour la sécurité.

    Une telle décision serait toutefois controversée, l’Allemagne ne déportant pas de personnes vers des pays où leur vie est menacée. Berlin a cessé les déportations vers l’Afghanistan après la prise de pouvoir des taliban en 2021.

    Tachkent veut néanmoins signer avec Berlin un #accord définitif visant à réglementer l’entrée de travailleurs qualifiés ouzbeks en Allemagne avant de sceller un pacte sur la question des déportations, selon Der Spiegel.

    Le délégué spécial du gouvernement fédéral allemand aux accords migratoires se rendra en Ouzbékistan la semaine prochaine afin de discuter de l’accord concernant les travailleurs ouzbeks, précise Der Spiegel.

    https://www.msn.com/fr-fr/actualite/monde/le-gouvernement-allemand-envisage-des-d%C3%A9portations-vers-lafghanistan-via-louzb%C3%A9kistan-rapporte-der-spiegel/ar-BB1ojW9N
    #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #migrants_ouzbeks

    via @karine4

  • Comment des migrants sont abandonnés en plein désert en #Afrique

    Une enquête de plusieurs mois menée par « Le Monde », le média à but non lucratif « Lighthouse Reports » et sept médias internationaux montre comment des dizaines de milliers de migrants en route vers l’Europe sont arrêtés et abandonnés en plein désert au Maroc, Tunisie et Mauritanie.

    https://www.dailymotion.com/video/x8yrqiy

    #vidéo #migrations #désert #abandon #Mauritanie #Maroc #Tunisie #réfugiés #externalisation #frontières #rafles #racisme_anti-Noirs #Fès #déportations #Rabat #forces_auxiliaires #refoulements #arrestations_arbitraires #enlèvements #centres_de_détention #Ksar #détention_administrative #Espagne #bus #Algérie #marche #torture #Gogui #Mali #accords #financements #expulsions_collectives #Nouakchott #forces_de_l'ordre #Sfax #Italie #équipement #aide_financière #UE #EU #Union_européenne #forces_de_sécurité #gardes-côtes #gardes-côtes_tunisiens #droits_humains #droits_fondamentaux

    ping @_kg_

  • Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • EFFECTS OF EXTERNALISATION IN TUNISIA. Racism, Ordeal of Migrants and No End in Sight

    Extreme violence and an openly racist policy against Black people have been ongoing in Tunisia for more than a year now. The already existing racism in Tunisia escalated in the beginning of 2023, catalysed by a racist and discriminatory speech against people on the move from sub-Saharan Africa, which the Tunisian President Kais Saied gave on February 21. In the days following the speech, groups of marginalised young men targeted Black people in different Tunisian cities. Black people were subjected to acts of violence, including pogroms of armed mobs. They faced several forms of institutional violence like racial profiling and arbitrary detention by security forces. Even valid residence papers did not protect Black people from violence: numerous people were arrested regardless of their residence status. Some were seriously injured, houses were set on fire and an unknown number of people disappeared. Many found themselves without shelter and food and were deprived of their right to health and transportation.

    The ongoing violence culminated in illegal mass deportations to the desert areas bordering Libya and Algeria executed by Tunisian authorities. In July 2023 alone, Al Jazeera reported in a video that about 1.200 Black people were stuck at the Libyan border without food, water, and shelter. Since then, numerous deaths have been recorded and deportation to the border areas are still ongoing. Simultaneously, departures from Tunisia to Europe increased massively in summer 2023. During the four summer months alone, more than 83,000 people crossed the sea – figures that we have not seen in this region since around the mid-2010s – and besides people from Sub-Saharan countries were Tunisians themselves. In April 2023, civil search and rescue organisations and migrant solidarity networks voiced in a joint statement that Tunisia is neither a safe country of origin nor a place of safety for those rescued at sea. Violence and insecurity remain; in the following part we aim to provide an overview of the current situation.

    In reaction to the increased number of crossings, border violence along the Tunisian route increased and means of control of migratory movements were reinforced. On the water, the number of interceptions by the Tunisian coast guard, with nearly 70,000 interceptions in 2023, doubled as compared to the year before. Reports of the violent behaviour of the Tunisian coast guard – boats being pushed away and rammed, people being beaten with sticks and intimidated with gunshots, coast guard stealing engines from rubber dinghies and leaving people adrift at sea – are piling up.

    What can be further observed is that the Tunisian coast guard is more actively involved in the EU-implemented “push-back by proxy regime” in the Central Mediterranean, which means that the EU is outsourcing interceptions at sea to non-European actors to reduce the number of crossings. A detailed analysis published by the CivilMRCC elaborates how four elements – strengthening the capacities of the Tunisian coastguard (equipment and training), setting up a coastal surveillance system, creating a functional MRCC, and declaring a Tunisian Search and Rescue Region – are used by the European Union and its member states to replicate in Tunisia the regime of refoulement by proxy set up in Libya just a few years earlier.

    After being intercepted and brought back to land, the Central Mediterranean Analysis by the Alarm Phone, published in February 2024 states that “the deportation of people intercepted at sea by the Tunisian coastguards has become a systematic practice in recent months.” The situation for Black migrants is far from being safe on land as well. After the peak of deportations of Black migrants to the Libyan-Tunisian and Algerian-Tunisian border zones in July and September 2023, which we have also documented on migration-control.info, expulsions continue, as the Tunisian civil rights organisation FTDES reports. At the Libyan border, people are handed over by Tunisian authorities to Libyan militias, where they end up in detention centers run by armed groups. Deportations to the Algerian border zone also continue in Tunisia’s west. It is hard to assess the number of deportations, as most of the time the Tunisian authorities rob sub-Saharans, take their money, and confiscate their cell phones. Migrants therefore have little chance of providing evidence of these illegal deportations.

    In addition, chain deportations from Tunisia via Algeria to Niger are documented. Algeria’s long-standing illegal practice of deporting people to Niger has been well documented by the Alarm Phone Sahara. In October 2023, the APS reported that the “practice of pushbacks continues to this day, and many of the people who found themselves stranded in Niger after being deported from Algeria report that they were already in Tunisia beforehand and had been deported from there to the Algerian border.” The activist group confirmed its observations in December, drawing on an interview with a “Guinean migrant who was initially in Tunisia, pushed back to Algeria and then pushed back to Niger.” According to an article published by the Guardian in mid-March 2024, this deportation practice has led to the separation of children from their parents by the police. “Their mums and dads go out to beg and then the police catch them and take them to Algeria,” a person is quoted in the article. In 2023, almost 1,500 unaccompanied children approached the Tunisian offices of the UNHCR to seek support.

    Then there are also those who have fled their countries of origin, for whom the living conditions in Tunisia are so terrible that they would rather return than remain in Tunisia. In 2023, the International Organisation for Migration (IOM) repatriated 2,557 migrants. These “voluntary returns” are occurring in a context of violence and impossibility of earning a living, without safe alternatives of staying or moving somewhere else. In fact, the returns cannot be considered “voluntary.”

    The migrants who are still waiting in Tunisia’s coastal areas for an opportunity to cross endure ongoing hardships and face police brutality. In a video posted on March 6, 2024 on X by Refugees in Tunisia, an alliance of migrants in Tunisia, one can see a person walking through olive groves, where many people waiting for a possible departure seek shelter. The video shows destroyed cabins made of plastic sheeting while a person reports that “the police came inside here today, burned our houses down, took some phones, money…They burned down all our houses. It’s not easy for us.”

    Despite these documented violations of human rights, the European Union and its member states continue trying to curb the arrivals by the sea. The big promises that von der Leyen and Meloni made on their visit in Tunis in June 2023 flopped. Tunisia is still not willing to take migrants back and is not in for externalised asylum procedures. Frontex is not welcome. The EU is picking up the pieces. In a document that migration-control.info obtained, the EU admits that apart from delivery of spare parts and equipment for the coast guard, not much else has been achieved. But instead of acknowledging the freedom of movement for all, the EU continues to control migration movements and wants to finance a control center between Libya and Tunisia to limit the mobility of migrants between these countries.

    While acknowledging the ongoing violence exercised by the border regime, 2023’s “little summer of migration” also shows how fragile the European closure is. People could make their way from North Africa to Europe within a very short period and the collective arrivals had the power to tear down institutions of the border regime. In September 2023 in Lampedusa, for example, the hotspot was opened due to the number of arrivals and people were transferred to the mainland quickly from where they could continue their journeys. The people affected, Tunisians, and migrants in Tunisia are constantly opposing the policies violating their human rights.

    In January 2024, Al Jazeera reported on protests by families whose relatives (most of whom were reported to be from the small village of El Hancha in the Sfax Governorate) went missing when trying to leave Tunisia. The families erected roadblocks and burned tires around the village to pressure the authorities to continue their search efforts, and brought their protest to the capital to criticize the “official silence about their missing relatives.” In February, Refugees in Tunisia published a video showing a group of migrants demonstrating in Zarzis, a coastal town in Tunisia’s south, demanding rights and pressuring authorities and international organizations such as the UNCHR to provide humanitarian support and protection. Their organization and protest actions are part of years of migrant and anti-racist struggles in Tunisia and North Africa as well as in the countries of origin and European diasporas.

    When the number of arrivals fell during the winter, mainly due to weather conditions, some analysts linked this to European borderwork. However, just in these days, end of March 2024, quite a few boats arrived in Lampedusa, coming from Tunisia. At the same time, there were reports on an increased number of interceptions and by-land-operations by Tunisian Coastguard and Security forces. So the race between the security forces and migrant movements has started again, in early spring 2024. Let’s support their moving and resistance, let’s continue our struggle against the violence exercised by the border regime and our struggle against the European externalisation. Freedom of Movement for all!

    Further reading:

    - Echoes, Issue 7, July 2023: A Critical Look at the Situation in Tunisia and the New EU-Tunisia Deal
    - migration-control.info, June 2023: “This is a shame for humanity” – Update on the ongoing protest of the Refugees in Tunisia
    - migration-control.info, April 2023: “If we stay here we are going to die”– Testimonies from refugees in Tunisia about their protest sit-in at the UNHCR in Tunis and its violent eviction

    https://civilmrcc.eu/political-developments/effects-of-externalisation-in-tunisia
    #Tunisie #racisme #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #frontières #racisme_anti-Noirs #violence #renvois #expulsions #désert #abandon_dans_le_désert #Algérie #Libye #déportations

    via @_kg_

  • Une recension de livre qui interroge à la fois la politisation du passé colonial et la possibilité de caractériser des legs coloniaux dans la longue durée

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/02/hecatombe-oceanienne-dans-le-pacifique-la-memoire-d-un-depeuplement_6214429_

    « Hécatombe océanienne » : dans le Pacifique, la mémoire d’un dépeuplement

    Des premiers contacts avec les explorateurs européens, au XVIᵉ siècle, jusqu’au début du XXᵉ siècle, Christophe Sand analyse dans un livre le phénomène massif de dépopulation des Océaniens, lié aux crises et aux guerres engendrées par les maladies.

    Par Nathalie Guibert, 2 février 2024

    Fernand de Magellan, James Cook, Louis-Antoine de Bougainville… Ces navigateurs ont inscrit l’exploration des îles du Pacifique au chapitre de la grandeur européenne. Leurs étapes charrient néanmoins une effroyable hécatombe, exposée par le chercheur basé en Nouvelle-Calédonie Christophe Sand, dans son dernier ouvrage. Entre leurs premiers contacts au XVIe siècle et le début du XXe siècle, la population des Océaniens est passée de quelque 3 millions à 410 000 personnes.

    Christophe Sand n’est pas démographe, mais archéologue. Ce sont « les concentrations de sites d’habitat, de structures cérémonielles inventoriées dans les îles » qui l’ont « obligé à questionner les évaluations démographiques » existantes. Il a travaillé à la lumière des récits d’aventuriers, des textes des missionnaires et des fonctionnaires coloniaux, et des synthèses des chercheurs. Il en résulte une démonstration solide dans un livre, Hécatombe océanienne. Histoire de la dépopulation du Pacifique et ses conséquences (XVIe-XXe siècle), richement illustré.

    Quand ils débarquent, les Européens découvrent des populations nombreuses. Parvenu à Tahiti le 19 juin 1767, avec le capitaine Samuel Wallis, atteint d’une maladie vénérienne et alité, l’officier George Robertson n’en revient pas : sur plus de cinq cents pirogues, quatre mille hommes les entourent, quand, à terre, « personne à bord n’a jamais vu un rassemblement d’autant de gens si loyaux ». Ces derniers vont vite être exposés à de puissants agents pathogènes qui ont pour noms « dysenterie », « grippe », « lèpre », « syphilis », « gonorrhée », « oreillons », « rougeole », « tuberculose », « variole »…
    Lire aussi la critique : Article réservé à nos abonnés « Océaniens », de Nicholas Thomas : le Pacifique cosmopolite

    Faisant exploser les sociétés et les pouvoirs locaux, l’extermination est si violente que, « dans la première moitié du XIXe siècle, tout le Pacifique se trouve en guerre », précise au Monde Christophe Sand. Quant aux conversions chrétiennes massives de l’époque, elles ont servi autant à asseoir de nouveaux pouvoirs politiques qu’à « rechercher une réponse et une protection face à l’incompréhensible effondrement démographique en cours dans les îles ».

    A Tahiti, quand les visites des navires européens s’enchaînent, à la fin du XIXe siècle, « la succession d’épidémies ne laisse pas le temps pour des reprises démographiques », appuie l’auteur. Après l’annexion française de 1842, l’île compte moins de dix mille résidents. Entre 1760 et 1880, elle aura perdu 95 % de ses habitants.

    « Sentiment d’infériorité »

    La célèbre île de Pâques, Rapa Nui, vit « un drame à épisodes multiples ». L’étude de squelettes pascuans démontre la transmission précoce de maladies vénériennes importées à partir de l’arrivée du Hollandais Jakob Roggeveen, en 1772. Les animaux européens débarqués sur l’île ravagent ensuite l’environnement, tandis que les chefferies traditionnelles se déchirent.

    Quand, à partir de 1800, les baleiniers succèdent aux explorateurs commerçants, « la population refuse que les marins débarquent » pour se protéger. Mais les navires négriers du Pérou vont saigner les élites de l’île, déportant mille personnes d’un coup. En 1720, Rapa Nui comptait environ dix mille habitants. Cent soixante ans plus tard, ils sont moins de cent.

    En Nouvelle-Calédonie, les évaluations divergent encore, tant l’effondrement de la population des Kanak demeure un sujet sensible, très politique, entre indépendantistes et héritiers des colons. Avant la prise de possession de la Grande Terre, l’île principale de l’archipel, au nom de la France, en septembre 1853, les épidémies sévissent, là aussi. Puis la violence de la colonisation foncière décime les tribus. Un premier recensement colonial compte 39 000 autochtones en Nouvelle-Calédonie, après l’écrasement de la grande révolte kanak de 1878.

    Pour les Kanak, l’hécatombe serait « au moins comparable », selon l’auteur, à celle des pays voisins, soit une baisse de population de 80 % entre 1850 et 1900. « Jamais l’équipe archéologique calédonienne sous ma direction n’a proposé un chiffre », précise-t-il néanmoins. On peut regretter cette prudence. « J’aurais pris une balle si j’en avais donné un, le pays n’était pas prêt [après la quasi-guerre civile de 1984-1988] », explique-t-il au Monde. Le contexte s’est apaisé. Des archives européennes, et de nouvelles données archéologiques, devraient permettre de proposer une estimation dans un prochain livre, promet-il.

    Les observateurs coloniaux ont longtemps nié leur responsabilité. Outre les « liqueurs » et la « dépravation des mœurs », « la domestication et le désœuvrement (…) sont les véritables raisons de la décadence des Polynésiens », assure le médecin de la marine Charles Clavel, en 1884, au sujet des îles Marquises. Le drame, démontre Christophe Sand, a pourtant touché toutes les générations suivantes, bien au-delà des épidémies.

    L’ouvrage éclaire ainsi la relation contemporaine des peuples du Pacifique vis-à-vis de l’Occident : « Les Océaniens, ayant compris très tôt le lien direct entre les Occidentaux et l’apparition de maladies, ont tenté de se préserver de relations prolongées. » Voyant les Blancs épargnés, les populations ont développé un « traumatisme sur la perte de confiance en soi », un « sentiment d’infériorité ». La mémoire de la dépopulation reste vivace : lors de la pandémie de Covid-19, « des communautés insulaires se sont spontanément isolées » dans de « nombreux lieux du Pacifique ».

    « Hécatombe océanienne. Histoire de la dépopulation du Pacifique et ses conséquences (XVIe-XXe siècle) », de Christophe Sand, Au vent des îles, 376 p., 33 €.

    #Océanie #Polynésie #Nouvelle-Calédonie #épidémies #colonisation #déportations

  • CARTOGRAPHIE DES VIOLATIONS SUBIES PAR LES PERSONNES EN DEPLACEMENT EN TUNISIE

    L’#OMCT publie aujourd’hui un rapport, « Les routes de la torture : Cartographie des violations subies par les personnes en déplacement en Tunisie » qui met en lumière l’ampleur et la nature des violations des #droits_humains commises en Tunisie entre juillet et octobre 2023 à l’encontre de migrant-e-s, réfugié-e-s et demandeurs d’asile.

    Depuis octobre 2022, la Tunisie a connu une intensification progressive des violations à l’encontre des personnes en déplacement essentiellement d’origine subsaharienne, sur fond de #discrimination_raciale. Le discours présidentiel du 21 février 2023 les a rendues encore plus vulnérables, et le mois de juillet 2023 a représenté un tournant dans l’échelle et le type des violations des #droits_humains commises, avec une recrudescence des #arrestations et des #détentions_arbitraires, des #déplacements_arbitraire et forcés, ayant donné lieu à des #mauvais_traitement, des #tortures, des #disparitions et, dans plusieurs cas, des #décès. Ce cycle d’#abus commence avec une situation d’irrégularité qui accroît leur #vulnérabilité et qui les expose au risque de violations supplémentaires.

    Cependant, malgré l’ampleur des violations infligées, celles-ci ont été très largement passées sous silence, invisibilisant encore davantage une population déjà marginalisée. A traves les voix de victimes directes de violations ayant voulu partager leurs souffrances avec l’OMCT, ce rapport veut contribuer à contrer cette dynamique d’#invisibilisation des migrant-e-s, refugié-e-s et demandeurs d’asile résidant en Tunisie, qui favorise la perpétuation des violations et un climat d’#impunité.

    Le rapport s’appuie notamment sur plus de 30 entretiens avec des représentant-e-s d’organisations partenaires et activistes travaillant sur tout le territoire tunisien et une vingtaine de témoignages directes de victimes de violence documentés par l’OMCT et ses partenaires. Il dresse une cartographie des violations infligées aux migrants, parmi lesquelles les expulsions forcées des logements, les #violences physiques et psychologiques exercées aussi bien par des citoyens que par des agents sécuritaires, le déni d’#accès_aux_soins, les arrestations et détentions arbitraires, les déplacements arbitraires et forcés sur le territoire tunisien, notamment vers les zones frontalières et les #déportations vers l’Algérie et la Libye. Les interactions avec les forces de l’ordre sont généralement assorties de torture et mauvais traitements tandis que les victimes sont privées, dans les faits, du droit d’exercer un recours contre ce qu’elles subissent.

    Cette #violence institutionnelle touche indistinctement les personnes en déplacement, indépendamment de leur statut, qu’elles soient en situation régulière ou non, y compris les réfugié-e-s et demandeurs d’asile. Les victimes, hommes, femmes, enfants, se comptent aujourd’hui par milliers. A la date de publication de ce rapport, les violations se poursuivent avec une intensité et une gravité croissante, sous couvert de lutte contre l’immigration clandestine et les réseaux criminels de trafic d’êtres humains. La Tunisie, en conséquence, ne peut être considérée comme un pays sûr pour les personnes en déplacement.

    Ce rapport souhaite informer les politiques migratoires des décideurs tunisiens, européens et africains vers une prise en compte décisive de l’impact humain dramatique et contre-productif des politiques actuelles.

    https://omct-tunisie.org/2023/12/18/les-routes-de-la-torture

    #migrations #asile #réfugiés #Tunisie #rapport

    ping @_kg_

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • Vichy, Pétain et les juifs : l’historien Robert O. Paxton répond aux polémiques, dans un rare entretien au « Monde »
    https://www.lemonde.fr/societe/video/2021/12/02/vichy-et-les-juifs-l-historien-robert-o-paxton-repond-a-eric-zemmour-dans-un

    VIDÉO Eric #Zemmour [qui se dit gaulliste, ndc] répète depuis 2014 que le régime de Vichy aurait « protégé les #juifs_français et donné les #juifs_étrangers » [#préférence_nationale que c’est l’adn de la France, ndc]. Cible du polémiste, l’historien américain Robert O. Paxton répond, dans une interview vidéo accordée au « Monde » depuis New York. Par Karim El Hadj, Charles-Henry Groult, Elisa Bellanger et Isabel Bonnet, 02 décembre 2021

    Depuis plusieurs années, Eric Zemmour répète dans ses livres et sur les plateaux de télévision son point de vue sur le rôle du #régime_de_Vichy dans le génocide des juifs. Dans son essai Le Suicide français, il dénonçait la « thèse » d’une « malfaisance absolue du régime de Vichy » (page 88) [qui a aussi organisé des camps de vacances, et crée la police nationale]. « Vichy a protégé les juifs français et donné les juifs étrangers », insistait-il sur #Europe_1 le 26 septembre 2021, niant toutefois vouloir « réhabiliter #Pétain »-.

    Qu’en disent les historiens de la seconde guerre mondiale ? Le plus célèbre d’entre eux, l’Américain Robert O. Paxton, a publié en 1973 _La France de Vichy, dont les conclusions ont profondément renouvelé le regard sur la responsabilité de ce régime dans les #persécutions et les #déportations de juifs, français et étrangers. Un travail construit grâce à des #archives françaises et allemandes alors inédites, affiné depuis et complété par d’autres historiens.
    Régulièrement ciblé par Eric Zemmour comme chantre d’une « doxa » anti-Vichy, Robert O. Paxton ne donne plus que de rares interviews. Il a accepté de répondre aux questions du Monde, depuis New York.
    Quelques livres pour en savoir plus :
    La France à l’heure allemande (1940-1944), de Philippe Burrin (Seuil)
    La survie des Juifs en France 1940-1944, de Jacques Semelin et Serge Klarsfeld (CNRS Editions)
    L’Etat contre les juifs, de Laurent Joly (Grasset)

    #Robert_Paxton #lois_d'aryanisation #statut_des_juifs #déchéance_de_nationalité #rafles #étoile_jaune #antisémitisme #histoire

  • #Frontex : deportations at record high in first half of 2023

    The European Union’s border agency, Frontex, facilitated the deportation of nearly 18,000 individuals from EU territory during the first half of 2023, marking an unprecedented peak. This surge in removals, executed through both scheduled flights and “voluntary” return procedures, demonstrates a 60% upswing in deportations compared to the corresponding period in 2022.

    113% increase in “voluntary” returns

    The numbers come from a Frontex report obtained by Statewatch (https://www.statewatch.org/media/4059/eu-council-frontex-operational-activities-report-first-half-2023-12561-2) that summarises the agency’s operational activities in the first six months of 2023, with the agency attributing the notable spike in return operations to the increased number of “voluntary” returns.

    This category constituted more than half of all removals for the reporting period, a marked increase from the 39% recorded across 2022, leading to a 113% rise in the number of third-country nationals deported “voluntarily”. The majority of these returns were conducted via ordinary, scheduled flights, as opposed to charter flights.

    This record number of deportations aligns with the establishment of the #standing_corps (SC), the uniformed, armed wing of Frontex that is supposed to be include 10,000 officers by 2027. SC personnel are deployed in #joint_operations (#JO) “to support the host authorities in border control, including prevention, detection of and combatting cross-border crime“.

    According to the report, the introduction of the SC constitutes a fundamental shift in how Frontex manages and executes operational response activities, especially within joint operations, rapid border interventions, and return operations.

    Analysis by Statewatch illustrates Frontex’s expanding role in deportation operations over the last 15 years, and the upswing in deportations mirrors the augmented budget allocated in 2023. As per the 2023 Procurement Plan, Frontex earmarked €40 million exclusively for the acquisition of chartered aircraft to facilitate forced returns from 2023 to 2027. In 2022, the Agency’s annual expenditure on deportations of €79 million was nearly four times higher than in 2020.

    Fundamental rights issues and concerns

    With the European Commission urging EU member states to increase deportations and endorse migrant return agreements, these figures seem like to increase in the coming years.

    Frontex’s Fundamental Rights Officer (FRO) has previously raised concerns regarding fundamental rights during return operations, including a lack of interpreters, privacy infringements, insufficient medical assessments and provision of food and drinks, as well as dangerous conditions, among other issues. Furthermore, the application of force and coercive measures has been reported as disproportionate and without clear justification.

    The escalating volume of deportations from the EU has garnered criticism from rights groups such as the Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants (PICUM), which has welcomed alternative approaches offered by some cities and municipalities.

    “Some local authorities are actually trying to implement programs which offer accommodation for undocumented people, which support them and help them to explore whether and how they can regularize their position. This is happening in the Netherlands and Belgium. Municipalities are realizing that we need to go in a different direction,” Marta Gionco told InfoMigrants in May this year.

    Frontex’s operational activities

    In its report on operational activities, Frontex mentions the implementation of 21 joint operations in 296 locations, with over 2,800 staff deployed by the agency. These operations “are based on the risk analysis and along the main migratory routes”.

    The operations include: JO Coordination Points Air, Land, Sea; JO Focal Point Air; the maritime operations JO Themis 2023, JO Poseidon 2023, JO Indalo 2023, JO Seaports 2023, JO Opal Coast, JO Albania Sea and JO Montenegro Sea; as well as the land border operations JO North Macedonia 2023, JO Montenegro Land 2023, JO Albania Land 2023, JO Serbia Land 2023, JO Moldova 2023 and the largest operation JO Terra 2023.

    The agency does not list the names or locations of most of these operations publicly on its website, instead mainly offering generic information on the countries in which it has officials and equipment deployed.

    The prioritization of these operational activities is determined by various criteria, including risk analysis, vulnerability assessments, attributed impact levels on external border sections, and strategic and political significance, as well as Frontex’s existing capabilities. Additionally, these priorities are contingent on requests, availability, and hosting capacities of member states.

    The report states that the planned prioritization was presented to the Management Board in the preceding month, although it does not appear that any decision has yet been taken on the topic.

    https://www.statewatch.org/news/2023/october/frontex-deportations-at-record-high-in-first-half-of-2023

    #renvois #expulsions #asile #migrations #sans-papiers #chiffres #statistiques #2023 #retours_volontaires #déportations

    ping @_kg_

  • A Mayotte, une opération de déportation sans précédent | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/claire-rodier/a-mayotte-une-operation-de-deportation-precedent/00106614

    Le lancement à Mayotte d’une triple opération coup de poing contre l’habitat insalubre, les étrangers en situation irrégulière et la délinquance aurait dû coïncider avec l’examen du projet de loi sur l’immigration et l’asile à l’Assemblée nationale, une façon pour le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, d’afficher sa fermeté tous azimuts.

    https://justpaste.it/desei

    #Mayotte #immigrations #déportations

    • c’est annoncé triple confirmé depuis bien 15 jours, même le prez des Comores est allé pleurer [pour rien] qu’on lui renvoye pas la marchandise ; c’est la prochaine super production de Darmanin, une opération essentiellement de communication dixit « des hauts fonctionnaires » - avec dommage collatéraux sur les victimes bien entendu, mais c’est collatéral.

      Le dernier article sur le fond que j’ai vu chez Mediapart date du 12 avril :
      https://seenthis.net/messages/999339

      #Wuambushu #decasage #repression

    • Prévue pour la fin avril, l’opération « Wuambushu » devrait durer deux mois, et il y a mis les moyens.
      [...]
      La préfecture de Mayotte est rodée à l’exercice : en 2021, plus de 20 000 personnes ont été éloignées de Mayotte, le plus souvent vers l’île d’Anjouan – un nombre bien supérieur aux 14 000 étrangers reconduits à la frontière depuis l’ensemble de la France métropolitaine à la même période.
      [...]
      Mais cette fois-ci, c’est bien une véritable déportation qui s’organise, puisqu’on parle de 400 expulsions quotidiennes, soit 24 000 en deux mois. Pour la préparer, deux centres de rétention (où sont détenus les étrangers en instance d’éloignement) ont été spécialement créés, et le renfort d’unités antiémeutes spécialement affectées au centre pénitentiaire de Mayotte est prévu.

    • AFP 20.04.23 - 21h04

      l’opération a été validée par le président français Emmanuel Macron en conseil de défense et devrait débuter la semaine prochaine, selon une source proche du dossier. Elle devrait durer au moins deux mois, selon les informations obtenues par l’AFP de source proche.

  • Biden administration quietly resumes deportations to Russia
    https://www.theguardian.com/us-news/2023/mar/18/biden-administration-russia-deportations

    #Immigration advocates were taken by surprise when a young Russian man, who came to the US fleeing Vladimir Putin’s efforts to mobilize citizens to fight in #Ukraine, was abruptly deported at the weekend from the US back to #Russia.

    He was among several Russian asylum seekers, many of whom have made their way to the US in the last year, who are now terrified the US government will return them to Russia where they could face prison or be sent rapidly to the frontline, where Russia has seen tens of thousands of casualties.

    [...] News of resumed #deportations to Russia came just over a year after reports that the Biden administration had suspended deportation flights to Russia, Ukraine and seven other countries in Europe during Russia’s attack on Ukraine. It is unclear when deportations to Russia resumed. The White House did not respond to a request for comment.

  • Expulsions from Algeria 🇩🇿 to Niger 🇳🇪 continue.😡 Between 16-21/10/22 366 people from various countries were forced out of trucks by law enforcement 🇩🇿 at #PointZero & walk 15km (!!!) to #Assamaka (‘unofficial convoys’) or have been deported to #Assamaka with ‘official convoys’.

    On 19/19/2022 the 121 deportees of the unofficial convoy are of the following nationalities:
    Benin: 12
    Burkina: 3
    Cameroon: 5
    Gabon: 1
    Gambie: 1
    G/Bissau: 1
    G/Conakry: 37
    RCI: 6
    Libéria:3
    Mali: 33
    Niger: 3
    Nigeria: 4
    Senegal: 5
    Sierra Leone: 2
    –-
    In addition, on 16/10/2022 an official convoy with 97 deportees of Nigerian nationality arrived. The Algerian law enforcement agencies expelled
    52 men
    9 women
    17 boys
    19 girls

    On 21/10/2022 another convoy deported 148 Nigerien citizens:
    84 men
    9 women
    25 boys
    30 girls

    #expulsions #migrations #réfugiés #frontières #désert #déportations #abandon #Sahara #désert_du_Sahara
    #Algérie #Niger

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    Ajouté à la métaliste des « #left-to-die in the Sahara desert »
    https://seenthis.net/messages/796051

    via @rhoumour

  • Le #Niger voit l’arrivée d’une nouvelle vague de plus de 600 migrants refoulés d’#Algérie

    Le 6 septembre, déjà, 847 personnes originaires d’Afrique subsaharienne étaient arrivées à #Agadez en provenance du pays voisin.

    Plus de 600 migrants, originaires d’une dizaine de pays africains, sont arrivés dans le nord du Niger après avoir été refoulés d’Algérie, a appris l’AFP, mardi 20 septembre, auprès des autorités locales.

    Six cent soixante-neuf personnes – dont quatorze femmes et cinq mineurs – sont arrivées « à pied » le 17 septembre à #Assamaka, ville nigérienne la plus proche de la frontière, après avoir été refoulées d’Algérie, ont indiqué à l’AFP les autorités locales. Parmi elles, 286 Maliens, 166 Guinéens, 37 Burkinabés, 27 Sénégalais, 25 Béninois, 22 Ivoiriens, 21 Gambiens, 21 Soudanais, 19 Nigérians, 14 Camerounais et 14 Sierra-Léonais, mais aussi deux Nigériens et des ressortissants du Tchad, de Mauritanie, de Guinée-Bissau, du Liberia et du Togo.

    L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) a « confirmé » à l’AFP « l’arrivée de la vague de migrants » d’Algérie, sans toutefois avancer de nombre. « Nous sommes disposés à leur apporter une assistance. Les migrants qui souhaitent intégrer notre programme d’aide au retour volontaire peuvent être admis au niveau de notre centre de transit d’Assamaka », a assuré l’OIM.
    Des « traitements inhumains »

    Le 6 septembre, 847 migrants, en majorité des Nigériens et parmi lesquels 40 femmes et 74 enfants non accompagnés, étaient arrivés à Agadez après avoir été refoulés d’Algérie, avait indiqué à l’AFP la municipalité de cette grande ville du nord du Niger. Début juillet, l’OIM avait annoncé avoir secouru 50 migrants ouest-africains, dont des femmes et des enfants, « bloqués » dans le nord désertique du Niger, près de la frontière avec la Libye.

    Considéré comme un eldorado et un point de transit vers l’Europe, l’Algérie a expulsé depuis 2014 des dizaines de milliers de migrants irréguliers originaires d’Afrique subsaharienne, selon les Nations unies. Certains de ces migrants tentent de survivre en Algérie, souvent en mendiant, mais un grand nombre cherche surtout à gagner l’Europe.

    En juin, l’organisation Médecins sans frontières (MSF) avait dénoncé « les traitements inhumains » infligés à des migrants ouest-africains cherchant à gagner l’Europe, dont « environ 2 000 » sont « en moyenne mensuellement » refoulés d’Algérie et de Libye vers le Niger voisin. L’Algérie, qui n’a pas de législation en matière d’asile, a souvent démenti ces accusations, dénonçant une « campagne malveillante ».

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/09/21/le-niger-voit-l-arrivee-d-une-nouvelle-vague-de-plus-de-600-migrants-refoule

    #expulsions #migrations #réfugiés #frontières #désert #déportations #abandon #Sahara #désert_du_Sahara

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    Ajouté à la métaliste des « #left-to-die in the Sahara desert »
    https://seenthis.net/messages/796051

    • Une nouvelle vague de plus de 600 migrants refoulés d’Algérie arrive au Niger

      Plus de 600 migrants, originaires d’une dizaine de pays subsahariens, sont arrivés dans le nord du Niger après avoir été refoulés d’Algérie, ont appris à l’AFP les autorités de Niamey. L’information a été confirmée par l’Organisation internationale des migrations, qui n’a cependant pas donné de chiffres. C’est la deuxième fois ce mois-ci qu’un tel afflux de migrants africains sont refoulés d’Algérie.

      Selon les autorités nigériennes, ils sont arrivés à pied il y a trois jours, à Assamaka, la ville du Niger la plus proche de la frontière algérienne : 669 migrants d’Afrique de l’Ouest et d’Afrique centrale refoulés d’Algérie. Parmi eux, surtout des hommes, mais également 14 femmes et cinq mineurs. Pour la plupart originaires du Mali et de Guinée, mais aussi du Burkina Faso, du Sénégal, de Côte d’Ivoire, de Gambie, du Soudan... Une dizaine de nationalités d’Afrique subsaharienne.

      L’Organisation internationale des migrations (OIM) a confirmé « l’arrivée de cette vague de migrants », sans préciser leur nombre. Elle a proposé de leur apporter une assistance, en particulier d’admettre, au centre de transit d’Assamaka, les candidats au retour volontaire.

      Ce n’est pas la première fois que l’Algérie, qui n’a pas de procédure d’asile, refoule des migrants. Mais c’est le deuxième afflux de cette ampleur en moins d’un mois au Niger. En juin dernier, l’ONG humanitaire Médecins sans frontières avait dénoncé « les traitements inhumains » infligés en Algérie à des migrants ouest-africains qui cherchaient à gagner l’Europe.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/43462/une-nouvelle-vague-de-plus-de-600-migrants-refoules-dalgerie-arrive-au

  • Un leone, le stragi, la censura e uno schifezzario

    Quanto fu infame l’Italia in Libia. Stragista 100 anni fa e poi negli anni ’20-30. Ma infame anche nel nuovo secolo l’Italia di Berlusconi-Frattini con i profughi ma – sarà bene non scordarlo – l’accordo per il respingimento fu bipartisan (pochissimi a sinistra votarono contro).

    Il 16 settembre di 81 anni fa viene ammazzato «il leone del deserto»: è una storia che i nostri governanti (di vario colore) ritengono non dovremmo conoscere, dunque io la racconto ogni volta che posso.

    Omar Al Mukhtar ha 63 anni quando, nel 1923, diventa il capo della resistenza anti-italiana in Cirenaica, come allora veniva chiamata la Libia. Una vita da insegnante del Corano e poi gli ultimi anni da eroe e genio militare. Infinitamente superiori per numero (oltre 20 mila contro 2-3mila) e per armamento (aerei e gas tossici massicciamente usati) i fascisti ci misero un decennio per piegare la resistenza libica che dalla sua aveva solo l’appoggio della popolazione e la conoscenza del territorio.
    A vincere fu il generale Rodolfo Graziani, con massacri e campi di concentramento. Fascisti certo. Ma anche il colonialismo di Giolitti fu sanguinario quando nel 1911 (su fortissime pressioni del Banco di Roma, legato a interessi vaticani) aggredì la Libia: repressione scientifica, deportazioni (migliaia tra Favignana, Ustica e Ventotene ma anche tantissimi schiavizzati nelle grandi fabbriche del Nord Italia) e massacri come quello di Sciara Sciat su cui calò la censura. «Tripoli, bel suol d’amore» si cantava: in realtà suolo di orrore. Fra il 1911 e il ’15 la popolazione della Cirenaica passa da 300mila a 120 mila. Allora la sinistra italiana si opponeva al colonialismo. Forse perché una sinistra c’era.
    Un salto avanti nel tempo. Fu dunque Graziani, un criminale di guerra al pari delle Ss, a sconfiggere Omar al Mukhtar. A esempio deportando circa 100mila libici in 13 campi di concentramento: in 40mila vi moriranno. Non erano guerriglieri ma avrebbero potuto dar cibo o rifugio ai nemici dell’Italia.

    Nell’estate del ’31 «il leone del deserto» è con soli 700 uomini, pochi viveri e quasi zero munizioni. L’11 settembre è catturato e dopo un processo-farsa impiccato il 16 settembre. Ha 70 anni e sale al patibolo sereno. «Non ci arrenderemo, la prossima generazione combatterà e poi la successiva e la successiva ancora». Da uomo religioso aggiunge: «da Dio veniamo e a Dio torniamo».
    Di tutto questo sapremmo in Italia zero se non fosse per il coraggio di Angelo Del Boca e di pochi altri storici. Come si sa, il fascismo non ebbe la sua Norimberga. Una serie di amnistie (assai discutibili e comunque applicate in modo scandaloso) poi procedimenti archiviati, documenti nascosti per anni negli “armadi della vergogna” consentirono la libertà sia agli anelli minori di quella catena criminale che fu il fascismo che ai peggiori assassini e ai capi, compresi boia confessi come Rodolfo Graziani o Valerio Borghese.

    Quasi tutti in Italia, compreso Gianfranco Fini, hanno chiesto «scusa» – chi prima e chi molto dopo – agli ebrei per le persecuzioni ma le istituzioni non hanno ricordato e pianto quelli che siamo andati a massacrare in Africa. Anzi passano gli anni e i governi le imprese africane degli italiani – fascisti e non – restano nascoste.

    Nei libri e persino nelle sale cinematografiche.

    La censura – strisciante, mai dichiarata ma netta – colpisce dagli anni ‘80 sino a oggi Il leone del deserto di Moustapha Akkad, un campione d’incasso in molti Paesi. Un filmone tipico di Hollywood, con tutti i pregi e i difetti delle grandi produzioni, con ottimi attori (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, John Gielgud… ) e nessun falso storico anti-italiano; anzi, notò Del Boca, facciamo miglior figura che nella realtà: nel film alcuni italiani si ribellano a Graziani il che purtroppo non accadde (avvenne invece in Etiopia e in Somalia, pochi anni dopo). Quel film non lo si vide e tuttora non si può vedere. Questioni burocratiche pare; no anzi, è “vilipendio”; rettifica “manca il visto”; anzi no “è il distributore che preferisce non farlo girare”; in ogni modo qua e là arriva la Digos a sequestrarlo; passa solo in un paio di festival minori e in qualche cineclub coraggioso.

    Il vero, solo, indubitabile motivo della censura è che Akkad mostra, in modo documentato, gli orrori italiani in Libia. Il «leone» del titolo era appunto Omar Al Muktar, tuttora notissimo nell’Africa intera (in ogni grande città si trova una via a lui intitolata).

    Per riparare a tanta viltà si potrebbe chiedere adesso al nostro ministro della Pubblica istruzione di aprire il prossimo anno scolastico con questo film. Scusate, avevo dimenticato che non abbiamo più una scuola pubblica ma solo macerie dove resistono (questo sì) un po’ di professori, professoresse, studentesse e studenti non asserviti, non rincoglioniti, non domati da manganelli (molti) e carote (poche).

    Da questa estate all’ignoranza, alla rimozione, all’auto-assoluzione si aggiunge uno schifezzario: ad Affile (nel Lazio) c’è un sacrario dedicato al boia Graziani che lì era nato. Il cosiddetto sacrario è una doppia vergogna: per l’omaggio a un criminale ma anche per lo sperpero di soldi pubblici. Vi immaginate cosa succederebbe se in Germania si facesse un monumento a Himmler o a Eichmann? Naturalmente la classe politica italiana non si è accorta – prima, durante la costruzione e dopo – dell’omaggio al massacratore (in Africa ma anche altrove). Ben pochi – Zingaretti, Vincenzo Vita, Touadi, Vendola – hanno preso posizione e/o hanno chjesdyo spiegazioni o interventi del governo che “ovviamente” si è fatto di nebbia. La s-governatrice Polverini, prima di dimettersi, ha stanziato altri 20mila euro per il completamento e la video-sorveglianza dello schifezzario che lei chiama sacrario. Se in Italia quasi tutto tace “in alto” (“in basso no: manifestazioni di protesta ci sono state e, se vi interessa saperne di più, ne racconto sul mio blog) fuori dallo stagno italiano il monumento a Graziani è uno scandalo internazionale.

    Ovviamente il passato si lega sempre al presente e al futuro. Oggi nel Lazio i gruppi neofascisti vengono aiutati dalle istituzioni: Casa Pound ha avuto in regalo (di nuovo denaro pubblico) un bel palazzo dal sindaco Eia-Eia-Ale-danno. E voi credete che sui molti misfatti di Forza Nuova o sui senegalesi uccisi il 13 dicembre 2011 a Firenze si sia davvero indagato? E che qualche istituzione si sia davvero preoccupata dei feriti, uno dei quali rimarrà del tutto paralizzato? E’ pur vero che alcuni magistrati e poliziotti con coraggio indagano sul neo-nazifascismo e sui suoi complici. Ma che peso volete abbiano nei palazzi dell’Italia che non ha trovato i colpevoli di piazza Fontana e delle altre stragi, che censura un serio film anticolonialista e che non manda subito le ruspe ad Affile?

    NOTA CON QUASI SPOT

    Se già sapete cos’è il mensile «Pollicino gnus» (quel «gnus» sarebbe «news» all’emiliana) e conoscete la sovversiva Mag-6 (Mutua auto gestione) di Reggio Emilia mi congratulo. Se no… informatevi. Questo qui sopra è l’editoriale del numero di gennaio 2013 dedicato alla Libia. Visto che sono il direttore ir/responsabile della rivista mi hanno chiesto di introdurlo: ho ripreso discorsi perlopiù già fatti in blog, cercando di attualizzarli. Se andate su www.pollicinognus.ittrovate l’indice di questo numero e indicazioni utili (sugli arretrati, su come abbonarsi, sull’info-shop). Di abbonarvi e di capire come funziona la Mag – una piccola, lunga, vincente storia di un modo diverso per rapportarsi al denaro – lo consiglio davvero. (db)

    https://www.labottegadelbarbieri.org/un-leone-le-stragi-la-censura-e-uno-schifezzario
    #mémoire #fascisme #histoire #Italie #Rodolfo_Graziani #Graziani #colonisation #passé_colonial #Italie_coloniale #colonisation #leone_de_deserto #Omar_Al_Mukhtar #Omar_al-Mokhtar #résistance #Libye #Cyrénaïque #résistance_libyenne #camps_de_concentration #massacres #Giolitti #censure #Sciara_Sciat #déportations #amnistie #Valerio_Borghese #Affile #leone_del_deserto #cinéma

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @olivier_aubert

  • Erdogan opponents allege Greek border pushbacks

    For years #Greece has been accused of illegally pushing asylum-seekers back to #Turkey, a practice it strenuously denies.
    But according to witnesses and rights groups, the summary #deportations are also hitting vulnerable opponents of Turkish President Recep Tayyip #Erdogan.
    Kurdish writer Meral Simsek, 42, is one of several people who told AFP they were sent back to Turkey to face imprisonment and possible torture after already making a perilous crossing of the border on the River #Evros.

    Athens has always denied that its security forces engage in illegal #pushbacks.

    In March, Greece’s national transparency authority said a four-month investigation found no evidence of such practices.

    EU border agency Frontex has also repeatedly been accused by rights groups of illegally returning migrants across EU borders.

    Its chief Fabrice Leggeri quit last month amid an investigation by the European anti-fraud office OLAF, reportedly into alleged mismanagement.

    Alkistis Agrafioti, a lawyer with the Greek Council for Refugees, said the time has come for the EU to mount a “serious” inquiry into pushbacks.

    “Pushbacks not only run contrary to international law, but they are also accompanied by criminal acts — stealing, violence, abuse” and lives being put in danger, she added.

    Marina Rafenberg / AFP

    https://www.rfi.fr/en/erdogan-opponents-allege-greek-border-pushbacks

  • Pourquoi moins de Juifs de France ont été déportés que ceux des autres pays d’Europe Time of Israel
    https://fr.timesofisrael.com/pourquoi-moins-de-juifs-de-france-ont-ete-deportes-que-ceux-des-au

    Le livre de Jacques Semelin, qu’il présente comme "la meilleure riposte aux falsifications de l’histoire", va à l’encontre des opinions défendues à ce sujet par éric zemmour


    L’historien et politologue Jacques Semelin sur le plateau du 13H de France 2, le 10 mai 2016. (Crédit : Culturebox / Capture d’écran)

    « Pourquoi les trois quarts des Juifs en France n’ont pas été déportés » : telle est la question – et le sous-titre – du nouveau livre de l’historien Jacques Semelin, directeur de recherche émérite au CNRS, écrit avec le journaliste Laurent Larcher du journal La Croix.

    Dans Une énigme française, publié chez Albin Michel le mois dernier, le chercheur s’interroge sur les raisons pour lesquelles environ 75 % des Juifs de France pendant la Seconde Guerre mondiale ont pu éviter la déportation (environ 74 150 d’entre eux furent déportés, sur un total de près de 320 000 personnes), sur la raison pour laquelle « la France est le pays où les Juifs ont proportionnellement subi le moins de pertes » parmi les pays de « l’Europe occupée par l’Allemagne hitlérienne », pour reprendre des mots de Serge Klarsfeld.

    Son livre, dans lequel « il s’agit juste de rétablir les faits » et qu’il présente comme « la meilleure riposte aux falsifications de l’histoire », va à l’encontre des opinions défendues à ce sujet par Eric Zemmour. Un chapitre entier est d’ailleurs consacré à celui-ci (récemment, l’historien Laurent Joly a lui aussi écrit un ouvrage, La Falsification de l’histoire, en réponse aux thèses défendues par le polémiste au sujet de la Seconde Guerre mondiale).

    Alors que le candidat à la présidentielle estime que ce relatif sauvetage est dû à la politique de Vichy (avec un pourcentage de déportés bien inférieur à ceux aux Pays-Bas, en Pologne ou en Belgique), l’historien répond que cela n’a rien à voir avec un quelconque effort de Vichy, qui a au contraire vivement discriminé et participé à la déportation des Juifs.

    https://www.youtube.com/watch?v=elNZF0rlsgs

    Jacques Semelin liste ainsi parmi ces raisons leurs stratégies de survie ; les priorités stratégiques du IIIe Reich ; les réseaux d’entraide ou d’évasion ; ou encore l’aide de la population à les cacher ou ne pas les dénoncer, ainsi que les protestations publiques de quelques responsables catholiques.

    « Deux tiers des Juifs de France sont partis en zone libre et se sont dispersés un peu partout », a expliqué Jacques Semelin à France 24. « Il faut aussi noter que ceux qui parlaient français et qui avaient plus d’argent s’en sortaient mieux. »

    Aux arguments d’Eric Zemmour, l’historien a répondu auprès de France 24 : « C’est n’importe quoi. On ne le trouve aucunement dans les archives. Éric Zemmour joue sur l’ignorance des gens. »

    Écrivant à la première personne, l’homme revient sur la genèse de ses recherches, et explique pourquoi il passé 10 ans à travailler sur le sujet. Il revient aussi sur les rencontres effectuées dans ce cadre : avec des survivants, avec le politologue Stanley Hoffmann ou encore avec l’ancienne déportée et ministre Simone Veil, qui l’a questionné en 2008 : « Comment se fait-il que tant de Juifs ont pu survivre en France malgré le gouvernement de Vichy et les nazis ? », question à la base de ses recherches.

    https://www.youtube.com/watch?v=f6vN3bYiTsE

    Il revient également sur le discours du Vel d’hiv de l’ancien président Jacques Chirac. Selon lui, le chef d’État est allé trop loin alors qu’il reconnaissait la responsabilité et la culpabilité de la France dans la Shoah tout en occultant le fait que de nombreux Français avaient aidé ou sauvé des Juifs, notamment lors de la Rafle du Vel d’hiv.

    « Au moment de celle du Vel d’hiv en juillet, il s’est passé quelque chose auquel personne ne s’attendait. Les nazis et Vichy comptaient arrêter 27 000 Juifs, surtout étrangers, mais en fin de compte, ils n’en ont attrapé ‘que’ 13 000, même si cela fait 13 000 de trop », et cela grâce à des citoyens qui ont pu alerter les Juifs visés, dit l’historien.

    Jacques Semelin, spécialiste des génocides et des violences extrêmes, des formes de résistances civiles et de sauvetage, et de la survie des Juifs en France durant la Seconde Guerre mondiale, avait déjà publié plusieurs ouvrages sur ce dernier sujet, dont Persécutions et entraides dans la France occupée. Comment 75 % des Juifs en France ont échappé à la mort en 2013, et La survie des Juifs en France (1940-1944) en 2018. Son nouvel ouvrage vise à faire la synthèse de ces travaux déjà publiés.

    #Shoah #Histoire #juifs #Juifs_de_France #déportation #Historiographie #éric_zemmour #falsifications #déportations #Seconde_Guerre_mondiale #vichy #entraide #culpabilité

  • Près de 5,000 migrants expulsés du régime frontalier algérien en un mois

    Ces derniers jours, nous avons reçu de nouveau l’information des dénonciateurs de l’Alarme Phone Sahara concernant deux autres déportations massives de l’Algérie vers le Niger : Une expulsion massive officielle et une non-officielle ont eu lieu. Le dimanche 21 mars, 601 migrant.e.s originaires de plusieurs pays d’Afrique sub-saharienne ont été déporté.e.s et abandonné.e.s dans la zone frontalière entre l’Algérie et le Niger, en plein désert, et forcés de marcher 15 à 20 kilomètres jusqu’au poste frontière d’Assamaka, comme cela arrive habituellement aux personnes déportées dans des convois non officiels.
    Deux jours plus tard, le mardi 23 mars, un autre convoi est arrivé d’Algérie avec des personnes déportées de force. Cette fois, la plupart des migrant.e.s étaient des Nigérien.ne.s, dont 917 hommes, 66 femmes et 87 mineurs, ainsi que d’autres migrant.e.s d’Afrique subsaharienne. Une fois de plus, un total de 1,211 personnes a été expulsées violemment et contre leur gré par les autorités sécuritaires algériennes.
    Tous ces événements doivent être replacés dans le contexte des derniers jours et des dernières semaines et doivent être scandalisés ! Les 5 et 11 mars, au moins 1,054 personnes ont été expulsées. De plus, 2,098 autres personnes sont arrivées au poste frontière d’Assamaka les 14 et 16 mars après avoir été déportées d’Algérie, selon les dénonciateurs d’Alarme Phone Sahara. De plus, des sources de Gao au Mali rapportent également l’arrivée de 125 migrants déportés venant de la frontière algéro-malienne et nigéro-malienne entre le 18 et le 20 mars.
    Nous voulons souligner et crier à nouveau certaines de nos demandes pour arrêter ces politiques frontalières antihumaines, racistes et meurtrières :
    o Alarme Phone Sahara demande l’arrêt immédiat des déportations et des refoulements de réfugié.e.s et de migrant.e.s de l’Algérie vers le Niger - pas de guerre aux réfugié.e.s et aux migrant.e.s !
    o Alarme Phone Sahara appelle à la fin des actes de vol et de violence des forces de sécurité algériennes contre les migrant.e.s et les réfugié.e.s !
    o Alarme Phone Sahara appelle à la fin de l’externalisation des frontières européennes sur le sol africain !

    https://www.facebook.com/1643705359272714/posts/2549686525341255

    #Algérie #expulsions #migrations #réfugiés #frontières #Niger #désert #Assamaka #déportations #abandon #Mali #Sahara #désert_du_Sahara

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    • Algérie - Niger : des migrants violentés et expulsés en plein milieu du désert

      Malgré la fermeture des frontières terrestres, due à la pandémie de Covid-19, le refoulement systématique des migrants depuis l’Algérie vers le Niger n’a pas cessé. Ainsi, depuis le début de l’année, près de 4 370 personnes ont été emmenées par les forces de l’ordre algériennes jusqu’au « point zéro », en plein désert, à proximité de la région nigérienne d’Agadez. Nombre de ces personnes en migration ont témoigné, auprès des équipes MSF, des violences qu’elles ont subies.

      Safi Keita, enceinte de quatre mois, résidait en Algérie où elle était vendeuse d’épices. Elle avait laissé ses deux enfants à leur grand-mère au Mali, son pays d’origine. Un jour, les forces de l’ordre ont débarqué à son domicile pour l’arrêter : « Les gendarmes algériens ont défoncé la porte. Ils ont tout emporté, argent et téléphones. Ensuite, ils m’ont conduite au poste », raconte la jeune femme.

      Le lendemain, Safi est emmenée de force dans un centre de détention, « Ils nous ont fait monter dans des camions bondés, nous étions très serrés et nous n’avions pas de masque. » Une fois arrivée au centre, on lui a demandé de sauter du camion : « Comme j’étais enceinte, cela m’a provoqué des douleurs au ventre », raconte Safi.

      Dans le centre de détention, où elle a passé quatre jours, Safi doit faire face à des conditions d’hygiène déplorables et des repas uniquement composés de pain. « J’étais enceinte, mais je n’ai bénéficié d’aucun traitement de faveur. Les gardes n’ont éprouvé aucune compassion envers moi. » Les détenus ont ensuite été transportés à la frontière entre l’Algérie et le Niger, dans le désert.

      Au milieu de nulle part

      Selon le recensement effectué par les équipes de Médecins Sans Frontières, en 2020, plus de 23 175 personnes migrantes sont arrivées dans la petite ville désertique d’Assamaka, près de la frontière entre le Niger et l’Algérie. C’est un peu moins que les 29 888 expulsions recensées par les équipes de MSF en 2019, mais c’est un nombre qui, malgré la fermeture des frontières du Niger depuis mars 2020 en raison de la Covid-19, reste pourtant élevé.

      Les équipes MSF d’Agadez ont recueilli des centaines de témoignages de ces personnes migrantes aidées ou secourues par l’association après avoir été expulsées d’Algérie. Plus de 989 migrants ont été victimes de violences en 2020, et 21 ont témoigné avoir été torturés. Plus de 1 900 personnes migrantes ont aussi été soignées pour des problèmes de santé mentale.

      Les migrants ont témoigné avoir été arrêtés puis placés dans des centres de détention pendant des jours, des semaines, voire des mois et ensuite entassés dans des bus ou des camions par les forces de sécurité algériennes afin d’être déposés à la frontière entre l’Algérie et le Niger, dans un lieu appelé le « Point Zero ». Dans le désert, au milieu de nulle part, souvent en pleine nuit.

      Livrés à eux-mêmes, sans rien, les personnes expulsées d’Algérie doivent effectuer, sans aucune carte ou moyen de localisation, une marche d’environ 15 km pour rejoindre le village d’Assamaka, au Niger. Certains se perdent et ne sont jamais retrouvés.

      En provenance d’Afrique de l’Ouest, du Moyen-Orient ou d’Asie du Sud, ces hommes, femmes, enfants et personnes âgées résidaient, pour certains, en Algérie depuis des années avant d’être expulsés. D’autres traversaient le pays pour atteindre l’Europe.
      Dépouillés et volés

      Traoré Ya Madou, originaire du Mali, a travaillé pendant six ans en tant que peintre en Algérie avant d’être arrêté par les forces de l’ordre. « Nous habitions sur le chantier où nous travaillions. Ce matin-là, la police algérienne a débarqué. Généralement, nous leur donnions de l’argent ou nous résistions, et les agents partaient. Mais cette fois-là, ils étaient nombreux, environ une vingtaine, ils ont cassé la porte et sont entrés. Une fois à l’intérieur, ils nous ont menottés et transportés à la gendarmerie. J’y suis resté 24 heures sans manger. Là-bas, nous avons été minutieusement fouillés. Durant la fouille, ils retirent même vos sous-vêtements… Nous avons subi un traitement inhumain. J’avais 2 500 euros sur moi, ils m’ont tout pris. Ils m’ont aussi sauvagement battu et j’ai dû être transporté à l’hôpital », détaille-t-il. Pour avoir résisté aux policiers algériens, Traoré a été puni. Il a été déposé encore plus loin d’Assamaka que les autres, et a dû marcher près de quatre heures pour rejoindre la petite ville.

      Les histoires de Safi et Traoré ne sont qu’un court aperçu de ce qui se passe à la frontière entre l’Algérie et le Niger.

      En 2015, au Sommet de la Valette sur la migration, les pays européens et africains ont davantage renforcé le système de contrôle aux frontières et facilité le renvoi, volontaire ou non, des migrants qualifiés d’illégaux. C’est ainsi que des personnes en migration ont continué d’être arrêtées arbitrairement, soumises à de mauvais traitements ou renvoyées vers un pays où elles risquent d’être persécutées.

      Ces politiques mises en œuvre pour freiner les flux de migrants n’ont pas empêché ces personnes de rechercher un endroit sûr ou une vie meilleure. Au contraire, cela n’a abouti qu’à davantage de criminalisation et de violences envers les personnes en migration.

      « Les conditions d’arrestation, de détention, et d’expulsion orchestrées par le gouvernement algérien ne respectent pas le principe fondamental de non-refoulement et sont des pratiques contraires aux droits de l’homme et au droit international des réfugiés, explique Jamal Mrrouch, chef de mission de MSF au Niger. Il est primordial de commencer à réajuster ces politiques et de garantir une assistance humanitaire et une protection aux personnes migrantes, en veillant à ce que les structures locales dans les pays de transit, comme le Niger, puissent répondre aux besoins de tous. »

      https://www.msf.fr/actualites/algerie-niger-des-migrants-violentes-et-expulses-en-plein-milieu-du-desert

    • Algérie : le « #point_zéro », cet endroit au milieu de nulle part où sont abandonnés les migrants

      Depuis le début de l’année, plus de 4 000 personnes ont été emmenées par les forces de l’ordre algériennes jusqu’à la frontière du Niger, en plein désert, dans un endroit appelé « point zéro ». Abandonnés là, sans repères, certains se perdent et ne sont jamais retrouvés. Dans un rapport, MSF dénonce une nouvelle fois ces renvois illégaux malgré la fermeture des frontières.

      « Les gendarmes algériens ont défoncé la porte. Ils ont tout emporté, argent et téléphones. Ensuite, ils m’ont conduite au poste […] J’étais enceinte, mais je n’ai bénéficié d’aucun traitement de faveur. Les gardes n’ont éprouvé aucune compassion envers moi. » Safi, une Malienne enceinte de quatre mois, fait partie de ces migrants récemment « raflés » par les autorités algériennes puis emmenés de force dans le désert, à quelques kilomètres seulement du Niger, au « point zéro ». C’est là, au milieu de nulle part, que les migrants sont abandonnés.

      Ils doivent, par leurs propres moyens et souvent sans GPS, trouver un chemin pour rejoindre le Niger. La frontière est pourtant fermée depuis le mois de mars 2020 en raison de la pandémie de coronavirus. Qu’importe : les refoulements n’ont jamais cessé. Depuis le début de l’année, près de 4 370 personnes ont ainsi été conduites à ce « point zéro ».

      Les migrants sont abandonnés « souvent en pleine nuit », écrit Médecins sans frontières (MSF) dans un rapport publié mercredi 21 avril. Le processus d’expulsion est souvent le même : après leur arrestation, les migrants - qui sont parfois installés en Algérie depuis plusieurs années - sont envoyés dans des centres de détention pendant quelques jours ou quelques semaines, puis entassés dans des bus et emmenés dans le désert.
      « Certains se perdent et ne sont jamais retrouvés »

      Sur l’ensemble de l’année 2020, plus de 23 000 migrants ont traversé le désert, selon les chiffres de MSF.

      « Livrés à eux-mêmes, sans rien, les personnes expulsées d’Algérie doivent effectuer, sans aucune carte ou moyen de localisation, une marche d’environ 15 km pour rejoindre le village d’#Assamaka, au Niger. Certains se perdent et ne sont jamais retrouvés », écrit encore MSF.

      Ces renvois ne sont pas inédits. Depuis des années, l’Algérie renvoie illégalement des migrants en les relâchant dans le désert. La rédaction d’InfoMigrants a recensé de nombreux témoignages de migrants victimes de ces expulsions illégales. Beaucoup parlent de la peur de se perdre, du manque de repères, du soleil qui assomme ou des nuits froides, de la soif qui les saisit.

      « On nous a déposé à environ 15 kilomètres de la frontière. Le reste, on a dû le faire à pied. Cette nuit-là, entre 2h et 6h, on a marché vers le Niger, on était environ 400 personnes », expliquait en janvier à InfoMigrants Falikou, un Ivoirien de 28 ans.

      Lorsqu’ils parviennent à atteindre la frontière nigérienne, les migrants sont pris en charge par l’Organisation internationale des migrations (OIM) qui dispose de plusieurs centres dans le pays. Certains décident de rentrer chez eux, d’autres en revanche tentent de retourner en Algérie, ou essayent de rejoindre l’Europe via les côtes marocaines ou libyennes.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/31694/algerie-le-point-zero-cet-endroit-au-milieu-de-nulle-part-ou-sont-aban

  • Un nombre choquant de morts, mais aussi des luttes grandissantes sur place
    https://alarmphone.org/wp-content/uploads/sites/25/2021/01/Pic-Title.jpeg

    2020 a été une année difficile pour des populations du monde entier. Les voyageur.euses des routes de #Méditerranée_occidentale et de l’Atlantique n’y ont pas fait exception. Iels ont fait face à de nombreux nouveaux défis cette année, et nous avons été témoins de faits sans précédents. Au Maroc et en #Espagne, non seulement la crise du coronavirus a servi d’énième prétexte au harcèlement, à l’intimidation et à la maltraitance de migrant.es, mais les itinéraires de voyage ont aussi beaucoup changé. Un grand nombre de personnes partent à présent d’Algérie pour atteindre l’Espagne continentale (ou même la #Sardaigne). C’est pourquoi nous avons commencé à inclure une section Algérie (voir 2.6) dans ces rapports. Deuxièmement, le nombre de traversées vers les #Canaries a explosé, particulièrement ces trois derniers mois. Tout comme en 2006 – lors de la dénommée « #crise_des_cayucos », lorsque plus de 30 000 personnes sont arrivées aux Canaries – des bateaux partent du Sahara occidental, mais aussi du Sénégal et de Mauritanie. Pour cette raison, nous avons renommé notre section sur les îles Canaries « route de l’Atlantique » (voir 2.1).

    Le nombre d’arrivées sur les #îles_Canaries est presqu’aussi élevé qu’en 2006. Avec plus de 40 000 arrivées en 2020, le trajet en bateau vers l’Espagne est devenu l’itinéraire le plus fréquenté des voyages vers l’Europe. Il inclut, en même temps, l’itinéraire le plus mortel : la route de l’Atlantique, en direction des îles Canaries.

    Ces faits sont terrifiants. A lui seul, le nombre de personnes mortes et de personnes disparues nous laisse sans voix. Nous dressons, tous les trois mois, une liste des mort.es et des disparu.es (voir section 4). Pour ce rapport, cette liste est devenue terriblement longue. Nous sommes solidaires des proches des défunt.es ainsi que des survivant.es de ce calvaire. A travers ce rapport, nous souhaitons mettre en avant leurs luttes. Nous éprouvons un profond respect et une profonde gratitude à l’égard de celles et ceux qui continuent de se battre, sur place, pour la dignité humaine et la liberté de circulation pour tous.tes.

    Beaucoup d’exemples de ces luttes sont inspirants : à terre, aux frontières, en mer et dans les centres de rétention.

    En Espagne, le gouvernement fait tout son possible pour freiner la migration (voir section 3). Ne pouvant empêcher la mobilité des personnes, la seule chose que ce gouvernement ait accompli c’est son échec spectaculaire à fournir des logements décents aux personnes nouvellement arrivées. Néanmoins, beaucoup d’Espagnol.es luttent pour les droits et la dignité des migrant.es. Nous avons été très inspiré.es par la #CommemorAction organisée par des habitant.es d’Órzola, après la mort de 8 voyageur.euses sur les plages rocheuses du nord de #Lanzarote. Ce ne sont pas les seul.es. : les citoyen.nes de Lanzarote ont publié un manifeste réclamant un traitement décent pour quiconque arriverait sur l’île, qu’il s’agisse de touristes ou de voyageur.euses en bateaux. Nous relayons leur affirmation : il est important de ne pas se laisser contaminer par le « virus de la haine ».

    Nous saluons également les réseaux de #solidarité qui soutiennent les personnes arrivées sur les autres îles : par exemple le réseau à l’initiative de la marche du 18 décembre en #Grande_Canarie, « #Papeles_para_todas » (papiers pour tous.tes).

    Des #résistances apparaissent également dans les centres de rétention (#CIE : centros de internamiento de extranjeros, centres de détention pour étrangers, équivalents des CRA, centres de rétention administrative en France). En octobre, une #manifestation a eu lieu sur le toit du bâtiment du CIE d’#Aluche (Madrid), ainsi qu’une #grève_de_la_faim organisée par les personnes qui y étaient détenues, après que le centre de #rétention a rouvert ses portes en septembre.

    Enfin, nous souhaitons mettre en lumière la lutte courageuse de la CGT, le syndicat des travailleur.euses de la #Salvamento_Maritimo, dont les membres se battent depuis longtemps pour plus d’effectif et de meilleures conditions de travail pour les gardes-côtes, à travers leur campagne « #MásManosMásVidas » (« Plus de mains, plus de vies »). La CGT a fait la critique répétée de ce gouvernement qui injecte des fonds dans le contrôle migratoire sans pour autant subvenir aux besoins financiers des gardes-côtes, ce qui éviterait l’épuisement de leurs équipes et leur permettrait de faire leur travail comme il se doit.

    Au Maroc, plusieurs militant.es ont dénoncé les violations de droits humains du gouvernement marocain, critiquant des pratiques discriminatoires d’#expulsions et de #déportations, mais dénonçant aussi la #stigmatisation que de nombreuses personnes noires doivent endurer au sein du Royaume. Lors du sit-in organisé par l’AMDH Nador le 10 décembre dernier, des militant.es rassemblé.es sur la place « Tahrir » de Nador ont exigé plus de liberté d’expression, la libération des prisonnier.es politiques et le respect des droits humains. Ils y ont également exprimé le harcèlement infligé actuellement à des personnes migrant.es.

    De la même manière, dans un communiqué conjoint, doublé d’une lettre au Ministère de l’Intérieur, plusieurs associations (Euromed Droits, l’AMDH, Caminando Fronteras, Alarm Phone, le Conseil des Migrants) se sont prononcées contre la négligence des autorités marocaines en matière de #sauvetage_maritime.

    Les voyageur.euses marocain.es ont également élevé la voix contre l’état déplorable des droits humains dans leur pays (voir le témoignage section 2.1) mais aussi contre les conditions désastreuses auxquelles iels font face à leur arrivée en Espagne, dont le manque de services de première nécessité dans le #camp portuaire d’#Arguineguín est un bon exemple.

    Au #Sénégal, les gens se sont organisées après les #naufrages horrifiants qui ont eu lieu en très grand nombre dans la seconde moitié du mois d’octobre. Le gouvernement sénégalais a refusé de reconnaître le nombre élevé de morts (#Alarm_Phone estime jusqu’à 400 le nombre de personnes mortes ou disparues entre le 24 et le 31 octobre, voir section 4). Lorsque des militant.es et des jeunes ont cherché à organiser une manifestation, les autorités ont interdit une telle action. Pourtant, trois semaines plus tard, un #rassemblement placé sous le slogan « #Dafa_doy » (Y en a assez !) a été organisé à Dakar. Des militant.es et des proches se sont réuni.es en #mémoire des mort.es. Durant cette période, au Sénégal, de nombreuses personnes ont été actives sur Twitter, ont tenté d’organiser des #hommages et se sont exprimées sur la mauvaise gestion du gouvernement sénégalais ainsi que sur les morts inqualifiables et inutiles.

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    https://alarmphone.org/fr/2021/01/29/un-nombre-choquant-de-morts-mais-aussi-des-luttes-grandissantes-sur-plac
    #décès #morts #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #mourir_en_mer #route_Atlantique #Atlantique #Ceuta #Melilla #Gibraltar #détroit_de_Gibraltar #Nador #Oujda #Algérie #Maroc #marche_silencieuse

    ping @karine4 @_kg_
    #résistance #luttes #Sénégal

    • Liste naufrages et disparus (septembre 2020-décembre 2020) (partie 4 du même rapport)

      Le 30 septembre, un mineur marocain a été retrouvé mort dans un bateau dérivant devant la côte de la péninsule espagnole, près d’Alcaidesa. Apparemment, il est mort d’hypothermie.

      Le 1er octobre, un cadavre a été récupéré en mer dans le détroit de Gibraltar.

      Le 2 octobre, 53 voyageur.euse.s, dont 23 femmes et 6 enfants, ont été porté.e.s disparu.e.s en mer. Le bateau était parti de Dakhla en direction des îles Canaries. L’AP n’a pas pu trouver d’informations sur leur localisation. (Source : AP).

      Le 2 octobre, un corps a été retrouvé sur un bateau transportant 33 voyageur.euse.s au sud de Gran Canaria. Cinq autres passager.e.s étaient dans un état critique.

      Le 2 octobre, comme l’a rapporté la militante des droits de l’homme Helena Maleno, d’un autre bateau avec 49 voyageur.euse.s sur la route de l’Atlantique, 7 ont dû être transférés à l’hôpital dans un état critique. Deux personnes sont mortes plus tard à l’hôpital.

      Le 6 octobre, un corps a été récupéré au large d’Es Caragol, à Majorque, en Espagne.

      Le 6 octobre, un corps a été rejeté sur la plage de Guédiawaye, au Sénégal.

      Le 9 octobre, Alarm Phone a continué à rechercher en vain un bateau transportant 20 voyageur.euse.s en provenance de Laayoune. Iels sont toujours porté.e.s disparu.e.s. (Source : AP).

      Le 10 octobre, un corps a été retrouvé par les forces algériennes sur un bateau qui avait initialement transporté 8 voyageur.euse.s en provenance d’Oran, en Algérie. Deux autres sont toujours portés disparus, 5 des voyageur.euse.s ont été sauvé.e.s.

      Le 12 octobre, 2 corps de ressortissant.e.s marocain.e.s ont été récupérés en mer au large de Carthagène.

      Le 16 octobre, 5 survivant.e.s d’une odyssée de 10 jours en mer ont signalé que 12 de leurs compagnons de voyage étaient porté.e.s disparu.e.s en mer. Le bateau a finalement été secouru au large de la province de Chlef, en Algérie.

      Le 20 octobre, un voyageur est mort sur un bateau avec 11 passager.e.s qui avait débarqué de Mauritanie en direction des îles Canaries. (Source : Helena Maleno).

      Le 21 octobre, la Guardia Civil a ramassé le corps d’un jeune ressortissant marocain en combinaison de plongée sur une plage centrale de Ceuta.

      Le 21 octobre, Salvamento Maritimo a secouru 10 voyageur ;.euse.s dans une embarcation en route vers les îles Canaries, l’un d’entre eux est mort avant le sauvetage.

      Le 23 octobre, le moteur d’un bateau de Mbour/Sénégal a explosé. Il y avait environ 200 passager.e.s à bord. Seul.e.s 51 d’entre elleux ont pu être sauvé.e.s.

      Le 23 octobre, un corps a été rejeté par la mer dans la municipalité de Sidi Lakhdar, à 72 km à l’est de l’État de Mostaganem, en Algérie.

      Le 24 octobre, un jeune homme en combinaison de plongée a été retrouvé mort sur la plage de La Peña.

      Le 25 octobre, un bateau parti de Soumbédioun/Sénégal avec environ 80 personnes à bord est entré en collision avec un patrouilleur sénégalais. Seul.e.s 39 voyageur.euse.s ont été sauvé.e.s.

      Le 25 octobre, un bateau avec 57 passager.e.s a chaviré au large de Dakhla/ Sahara occidental. Une personne s’est noyée. Les secours sont arrivés assez rapidement pour sauver les autres voyageur.euse.s.

      Le 25 octobre, Salvamento Marítimo a sauvé trois personnes et a récupéré un corps dans un kayak dans le détroit de Gibraltar.

      Le 26 octobre, 12 ressortissant.e.s marocain.e.s se sont noyé.e.s au cours de leur périlleux voyage vers les îles Canaries.

      Le 29 octobre, nous avons appris une tragédie dans laquelle probablement plus de 50 personnes ont été portées disparues en mer. Le bateau avait quitté le Sénégal deux semaines auparavant. 27 survivant.e.s ont été sauvé.e.s au large du nord de la Mauritanie.

      Le 30 octobre, un autre grand naufrage s’est produit au large du Sénégal. Un bateau transportant 300 passager.e.s qui se dirigeait vers les Canaries a fait naufrage au large de Saint-Louis. Seules 150 personnes ont survécu. Environ 150 personnes se sont noyées, mais l’information n’est pas confirmée.

      Le 31 octobre, une personne est morte sur un bateau en provenance du Sénégal et à destination de Tenerifa. Le bateau avait pris le départ avec 81 passager.e.s.

      Le 2 novembre, 68 personnes ont atteint les îles Canaries en toute sécurité, tandis qu’un de leurs camarades a perdu la vie en mer.

      Le 3 novembre, Helena Maleno a signalé qu’un bateau qui avait quitté le Sénégal avait chaviré. Seul.e.s 27 voyageur.euse.s ont été sauvé.e.s sur la plage de Mame Khaar. 92 se seraient noyé.e.s.

      Début novembre, quatre Marocain.e.s qui tentaient d’accéder au port de Nador afin de traverser vers Melilla par un canal d’égout se sont noyé.e.s.

      Le 4 novembre, un groupe de 71 voyageur.euse.s en provenance du Sénégal a atteint Tenerifa. Un de leurs camarades est mort pendant le voyage.

      Le 7 novembre, 159 personnes atteignent El Hierro. Une personne est morte parmi eux.

      Le 11 novembre, un corps est retrouvé au large de Soumbédioune, au Sénégal.

      Le 13 novembre, 13 voyageur.euse.s de Boumerdes/Algérie se sont noyé.e.s alors qu’iels tentaient de rejoindre l’Espagne à bord d’une embarcation pneumatique.

      Le 14 novembre, après 10 jours de mer, un bateau de Nouakchott est arrivé à Boujdour. Douze personnes sont décédées au cours du voyage. Les 51 autres passager.e.s ont été emmené.e.s dans un centre de détention. (Source : AP Maroc)

      Le 16 novembre, le moteur d’un bateau a explosé au large du Cap-Vert. Le bateau était parti avec 150 passager.e.s du Sénégal et se dirigeait vers les îles Canaries. 60 à 80 personnes ont été portées disparues lors de la tragédie.

      Le 19 novembre, 10 personnes ont été secourues alors qu’elles se rendaient aux îles Canaries, l’une d’entre elles étant décédée avant son arrivée.

      Le 22 novembre, trois corps de jeunes ressortissant.e.s marocain.e.s ont été récupérés au large de Dakhla.

      Le 24 novembre, huit voyageur.euse.s sont mort.e.s et 28 ont survécu, alors qu’iels tentaient de rejoindre la côte de Lanzarote.

      Le 24 novembre, un homme mort a été retrouvé sur un bateau qui a été secouru par Salvamento Maritimo au sud de Gran Canaria. Le bateau avait initialement transporté 52 personnes.

      Le 25 novembre, 27 personnes sont portées disparues en mer. Elles étaient parties de Dakhla, parmi lesquelles 8 femmes et un enfant. Alarm Phone n’a pas pu trouver d’informations sur leur sort (Source : AP).

      Le 26 novembre, deux femmes et deux bébés ont été retrouvés mort.e.s dans un bateau avec 50 personnes originaires de pays subsahariens. Iels ont été emmenés par la Marine Royale au port de Nador.

      Le 27 novembre, un jeune ressortissant marocain est mort dans un canal d’eau de pluie en tentant de traverser le port de Nador pour se rendre à Mellila .

      Le 28 novembre, un.e ressortissant.e marocain.e a été retrouvé.e mort.e dans un bateau transportant 31 passager.e.s en provenance de Sidi Ifni (Maroc), qui a été intercepté par la Marine royale marocaine.

      Le 2 décembre, deux corps ont été retrouvés sur une plage au nord de Melilla.

      Le 6 décembre, 13 personnes se sont retrouvées au large de Tan-Tan/Maroc. Deux corps ont été retrouvés et deux personnes ont survécu. Les 9 autres personnes sont toujours portées disparues.

      Le 11 décembre, quatre corps de “Harraga” algérien.ne.s d’Oran ont été repêchés dans la mer, tandis que sept autres sont toujours porté.e.s disparu.e.s.

      Le 15 décembre, deux corps ont été retrouvés par la marine marocaine au large de Boujdour.

      Le 18 décembre, sept personnes se sont probablement noyées, bien que leurs camarades aient réussi à atteindre la côte d’Almería par leurs propres moyens.

      Le 23 décembre, 62 personnes ont fait naufrage au large de Laayoune. Seules 43 à 45 personnes ont survécu, 17 ou 18 sont portées disparues. Une personne est morte à l’hôpital. (Source : AP)

      Le 24 décembre, 39 voyageur.euse.s ont été secouru.e.s au large de Grenade. Un des trois passagers qui ont dû être hospitalisés est décédé le lendemain à l’hôpital.

      https://alarmphone.org/fr/2021/01/29/un-nombre-choquant-de-morts-mais-aussi-des-luttes-grandissantes-sur-place/#naufrages

  • Appel de Migrant Solidarity Network : non aux #déportations vers l’Ethiopie !

    Nous demandons à Karine Keller Suter, Cheffe du Département fédéral de justice et police (DFJP) et Mario Gattiker, Secrétaire d’Etat aux Migration (SEM), ainsi qu’aux autorités compétentes la #suspension du vol spécial vers l’Ethiopie prévu le 27.01.2021 et l’annulation du renvoi forcé des requérant.e.s d’asile éthiopien.ne.s résidant en Suisse

    NON aux déportations vers l’Éthiopie ! Non au vol spécial du 27 janvier !

    Lundi S.A. a été arrêté et placé en détention à la prison de Frambois en vue d’une expulsion vers l’Éthiopie alors qu’il se rendait au Service de la population vaudoise (SPOP) pour renouveler son papier d’aide d’urgence. En période de COVID, de telles interventions se font loin des regards et loin du bruit !

    Dans le contexte de cette arrestation, on apprend que le Secrétariat d’État aux migrations (SEM) organise une #expulsion_collective par vol spécial[1] de Suisse vers l’Éthiopie le 27 janvier 2021, et ceci malgré la guerre, la crise et la pandémie qui frappent ce pays.

    En Éthiopie, la situation ne fait qu’empirer !

    Alors même que la situation politique se détériore en Éthiopie, nombreuses sont les voix qui s’élèvent pour dénoncer cette pratique et demander « un arrêt immédiat des #renvois_forcés en Éthiopie »[2] , dont l’OSAR – Organisation Suisse d’Aide aux Réfugiés –, la Confédération en profite pour y organiser un vol spécial. De manière plus cynique, pourrait-on dire, qu’elle en profite justement avant que des mesures diplomatiques ne soient prises qui l’en empêcherait ?

    Selon des haut-e-s-responsables de l’ONU et de l’UE, il existe des « rapports concordants à propos de violences ciblant certains groupes ethniques, d’assassinats, de pillages massifs, de viols, de retours forcés de réfugiés et de possibles crimes de guerre »[3] (Josep Borrell, Haut représentant de l’Union Européenne pour les affaires étrangères et la politique de sécurité, 15/01/2021).

    En avril 2018 déjà, on apprenait que le gouvernement suisse avait signé un accord secret de réadmission avec l’Ethiopie prévoyant la transmission aux services secrets éthiopiens des données personnelles des personnes renvoyées de force[4] les jetant droit dans la gueule du loup. Cet accord avait déjà été dénoncé à l’époque par Amnesty International et Human Rights Watch. Mais le gouvernement persiste et signe !

    Pourtant, depuis l’entrée en fonction du premier ministre Abiy Ahmed en 2018, et la mise en œuvre de nombreuses réformes, les tensions entre son gouvernement et le Front de libération du peuple du Tigré (Tigray People’s Liberation Front TPLF), le parti au pouvoir dans la région du Tigré n’ont cessé d’augmenter. En septembre 2020, le gouvernement central a pris la décision d’annuler les élections régionales en raison du COVID 19, mais celles-ci ont eu lieu malgré tout dans la région du Tigré. Le conflit s’est alors amplifié entraînant des centaines de morts et blessés - suite aux attaques aériennes lancées par l’armée éthiopienne - et, selon Amnesty International, des massacres de civils[5].

    Lors d’un reportage audio de la RTS[6], les experts interrogés compare cette guerre ethnique actuelle avec le génocide d’ex-yougoslavie, expliquant que celui-ci sera long et violent, les soldats étant entraînés au combat. Les réseaux internet sont coupés rendant l’accès aux informations impossible dans certaines regions du pays, tout comme l’accès de l’aide humanitaire.

    S.A. n’a pas pu accepter de retourner volontairement en Éthiopie

    Les autorités vaudoises et fédérales sont aveugles aux vies humaines touchées par l’exécution mécanique d’ordres et envoient sans sourciller des personnes au cœur d’une guerre civile naissante. Ces expulsions vers l’Éthiopie mettent délibérément en danger l’intégrité des personnes concernées, elles doivent être impérativement empêchées !

    Cela fait plus de 7 ans que S.A. vit dans le canton de Vaud. Jusqu’à ce jour il partageait une chambre dans un foyer d’aide d’urgence avec sa sœur - et son enfant - elle aussi en Suisse depuis près de dix ans. Malgré ces difficultés, c’est ici qu’S.A. tisse des liens et exerces ces activités depuis de nombreuses années. Or, selon les informations qui nous sont parvenues, S.A. se trouve actuellement dans un état critique. Déjà traumatisé, affaibli psychiquement et affecté physiquement, la violence de son arrestation et l’absurdité de cette décision d’expulsion ne font qu’aggraver sa situation, le confrontant encore une fois aux décisions « administratives » aberrantes des autorités vaudoises et fédérales et à leurs conséquences bien réelles et destructrices. Quand cet acharnement de l’État et ces procédures d’expulsion meurtrières s’arrêteront-t-elles ?

    Nous ne cesserons de dénoncer cet entêtement absurde, irresponsable et inhumain des autorités et exigeons la libération immédiate de S.A. et de tous ses compatriotes de Frambois et d’ailleurs ! Nous ne cesserons d’exiger l’arrêt total des expulsions et un droit de rester pour toutes et tous.

    A lire également l’Appel de Migrant Solidarity Network : Le vol spécial prévu pour l’Éthiopie ne doit pas décoller https://migrant-solidarity-network.ch/2021/01/22/aufruf-der-geplante-sonderflug-nach-aethiopien-darf-nicht [7]

    [1] Par vol spécial on entend des déportations forcées, sous la contrainte, lors desquelles les personnes concernées se font ligoter de la tête (casque) aux pieds et aux mains. Elles restent entravées ainsi durant un long vol, encadrées par une dizaine de policier par personne, avant d’être remises par les autorités suisses et européennes aux autorités policières/migratoires du pays vers lequel l’expulsion est opérée.

    [2] https://www.osar.ch/publications/news-et-recits/lethiopie-au-bord-de-la-guerre-civile

    [3] https://www.mediapart.fr/journal/international/210121/en-ethiopie-la-france-partagee-entre-business-et-defense-des-droits-humain
    https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage/91459/we-need-humanitarian-access-tigray-urgent-first-step-towards-peace-ethio

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2020/11/13/ethiopie-l-onu-craint-de-possibles-crimes-de-guerre-apres-le-massacre-de-civ

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2020/11/13/ethiopie-l-onu-craint-de-possibles-crimes-de-guerre-apres-le-massacre-de-civ

    [4] https://www.lematin.ch/story/asile-l-etrange-accord-de-la-suisse-avec-lethiopie-767317721551

    [5] https://www.amnesty.org/en/latest/news/2020/11/ethiopia-over-50-ethnic-amhara-killed-in-attack-on-village-by-armed-group

    [6] https://www.rts.ch/info/monde/11744384-comment-lethiopie-sombre-dans-la-guerre-un-an-apres-le-nobel-de-la-paix

    [7] Afin de contacter l’Appel de Migrant Solidarity Network, vous pouvez leur adresser un mail à l’adresse suivante : info@migrant-solidarity-network.ch

    https://droit-de-rester.blogspot.com/2021/01/appel-de-migrant-solidarity-network-non.html
    #Ethiopie #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_éthiopiens #renvois #expulsions #vol_spécial #Suisse #résistance

    • LibrAdio | Non aux expulsions ! Non aux vols spéciaux vers l’Ethiopie

      LibrAdio consacre un sujet au risque de renvois de cinq personnes migrantes vers l’Ethiopie le 27 janvier 2021. Une interview d’Anja qui connaît bien Tahir, un homme qui risque l’expulsion, parle de son parcours migratoire : son opposition au régime sur place, les menaces qui l’ont visé mais aussi son intégration en Suisse. Elle raconte notamment que depuis dimanche celui-ci a entamé une grève de la faim et de la soif à Frambois, centre de détention administrative avant le renvoi. Dans l’interview, sont explicités les risques et les impacts humains que de telles expulsions pourraient avoir vers un pays où la vie de ces personnes sont en danger. Anja évoque une veille d’alerte qui se relaye devant Frambois pour symboliquement exiger l’annulation de ce vol spécial.

      https://www.youtube.com/watch?v=heiz_r1Ebgc&feature=emb_logo

      https://asile.ch/2021/01/26/libradio-non-aux-expulsions-non-aux-vols-speciaux-vers-lethiopie

    • Solidarité Tattes relaye ici le communiqué de presse des ami·e·s de #Tahir et #Solomon :

      Communiqué de presse – 28 janvier 2021

      Tahir expulsé : les autorités genevoises exécutent un renvoi inqualifiable !

      Une mobilisation large d’ami·e·s de Tahir a organisé une présence jour et nuit du 25 au 27 janvier devant le Centre de détention administrative de Frambois pour dénoncer le renvoi de Tahir et de 2 autres personnes vers l’Ethiopie, un renvoi organisé par vol spécial Frontex.

      Depuis plusieurs jours, Tahir était en grève de la faim et de la soif. Mardi matin 26 janvier, la police l’a contacté pour lui proposer 1’000 CHF en échange de l’acceptation de son renvoi, ce à quoi Tahir a répondu que sa vie n’était pas à vendre. Il s’agit d’une pratique inacceptable et que nous dénonçons.

      Mercredi 27 janvier vers midi, l’état de santé de Tahir s’est dégradé et il a été transféré aux urgences des HUG. Vers 18h, nous avons appris qu’il serait emmené à l’aéroport. Plusieurs dizaines de personnes se sont postées devant différentes sorties des HUG afin de lui dire au revoir, et de former une chaîne humaine symbolique contre son renvoi.

      Alors que nous étions masqués et respections les distances physiques sanitaires, les forces de police ont procédé à des contrôles de papiers et menacé de dresser des amendes. C’est à ce moment que Tahir a été sorti de son lit aux urgences pour être emmené à l’aéroport. Le mouvement s’est alors déplacé devant le Terminal 2, d’où le vol spécial devait partir. De nombreuses démarches ont été menées en parallèle pour demander aux autorités genevoises, en charge de l’exécution du renvoi, d’empêcher ce renvoi inacceptable. L’espoir a persisté jusqu’au bout, l’avocate de Tahir, Maitre Buser, ayant fait un dernier recours ce 27 janvier en fin de journée auprès du Tribunal Administratif Fédéral avec mesures d’urgence.

      A 22h, le vol spécial Frontex, mutualisé avec l’Allemagne, s’envolait vers Addis Abeba, avec escale à Athènes pour embarquer d’autres personnes déboutées. Au vu de tous les éléments questionnant la légitimité du renvoi de notre ami, nous sommes extrêmement choqués que le Canton n’ait pas usé de son pouvoir pour renoncer à l’exécution de ce renvoi.

      Nous dénonçons tout particulièrement que :

      Tahir ait été arraché de son lit d’hôpital aux urgences pour être mis de force dans l’avion
      Aucun test PCR n’a été effectué au départ de la Suisse, alors que cette dernière doit le réaliser avant tout départ
      Les autorités genevoises n’ont rien fait pour empêcher ce renvoi, alors que son exécution relevait de leur compétence

      Nous avons appris ce jeudi matin que Tahir est bien arrivé à Addis Abeba.

      Le contact avec lui ne sera pas rompu.

      Les ami·e·s de Tahir

    • Suite au #vol_spécial du mercredi 27.01 qui a eu lieu malgré toutes les protestations et la grande mobilisation, vous trouverez ci-dessous des nouvelles de Solomon et la manière dont les derniers jours avant son expulsion ce sont déroulés :

      Un plan de vol pour l’Éthiopie a été remis à Solomon il y a cinq mois. Plan de vol qu’il a refusé. Sa vie était en Suisse. Il travaillait dans un atelier de mécanique vélo, était engagé dans le foyer dans lequel il vivait, apprécié de tout le monde. C’était évident qu’il ne pouvait pas accepter de partir. Suite à son refus, il a continué à recevoir, comme auparavant, l’aide d’urgence (qu’il devait renouveler tous les 2-3 mois). Puis, rien d’autre, la vie continuait. Pas d’assignation à résidence l’obligeant à rester à la maison en attendant que la police l’emmène, pas d’ordonnance pénale, rien. Rien n’indiquait qu’il allait être arrêté prochainement dans les locaux du service de la population (SPOP).

      Mardi 19 janvier 2021. Au matin, Solomon va renouveler son papier d’aide d’urgence (action qu’il devait faire régulièrement pour garder son droit au logement à l’EVAM entre autres). La personne au guichet lui demande de patienter dans la salle d’attente. 10 minutes plus tard, deux policiers pénètrent dans les locaux du SPOP et l’embarquent. Menottes aux poignets, sans aucune explication. Solomon se sent traité comme un criminel. Sans que personne ne lui explique ce qui lui arrive, il est emmené en voiture. Pendant le trajet, Solomon demande à joindre son patron pour le prévenir qu’il ne sera pas au travail l’après-midi. C’est la seule demande qui lui est consentie. Il va changer plusieurs fois de véhicule - voitures et fourgonnettes - il est complètement déboussolé et ne comprend pas pourquoi tout ce cirque pour le transporter qui sait où. Ce n’est qu’en arrivant sur place qu’il apprend qu’il a été emmené à Genève, à la prison de Frambois, où il passera la nuit.

      Mercredi 20 janvier. Solomon est ramené à Lausanne pour comparaître devant le tribunal des mesures de contrainte et d’application des peines. Là, Solomon rencontre pour la première fois, et qui fut aussi la dernière, l’avocat qui lui a été attribué (qui était, en fait, le stagiaire de l’avocate censée s’occuper de sa situation), accompagné d’un interprète anglais, langue que Solomon ne parle pas. Lorsqu’il le fait remarquer au procureur, ce dernier lui répond : "On va faire avec". Sous-entendu par-là que Solomon ne connaîtra pas le contenu du jugement, à part quelques éléments qu’il a compris en français et de bribes d’anglais. Oui, malgré le fait qu’il ait précisé qu’il ne parlait pas anglais, l’ensemble du jugement lui a été traduit dans cette langue.

      Ensuite, Solomon est ramené à Frambois, au sous-sol, dans une pièce avec toilettes et lavabo. Il y est placé en isolement jusqu’au mardi suivant. Il n’est autorisé à voir personne, mesure COVID. Il reçoit les appels seulement quand le personnel de la prison est disponible pour les lui transférer. Impossible non plus de lui rendre visite.

      Plus aucune nouvelle de sa supposée avocate jusqu’au lundi 25 janvier, date à laquelle il reçoit un appel pour lui dire qu’elle passera mardi. Or, mardi, personne ne vient.

      Dans la nuit de mardi 26 à mercredi 27, ses ami.es, son équipe de foot, viennent devant la prison de Frambois depuis Lausanne, pour être là au cas où Solomon serait emmené de nuit à l’aéroport. Iels veillent toute la nuit jusqu’au petit matin, avant de retourner à Lausanne pour le travail. Deux heures plus tard, on apprend que la police vaudoise est arrivée à Frambois avec l’intention de ramener Solomon dans le canton de Vaud. Il est dit aux personnes encore postées devant la prison en soutien aux incarcérés, que le vol n’aurait "peut-être pas lieu".

      Les ami.es de Salomon appellent Frambois pour savoir où il a été transféré. Les gardiens leur répondent qu’ils ne peuvent pas donner cette info, qu’ils doivent appeler le service de la population (SPOP) vaudois. Lorsque ses ami.es appellent le SPOP, on leur dit que seule l’avocate peut avoir accès à ces informations. Sa sœur ne compte pas. Son avocate n’en a rien à faire de lui, mais plusieurs personnes essaient de l’appeler tout de même puisqu’elle semble être la seule à avoir droit à cette information si confidentielle. On pense qu’il a été emmené à nouveau dans les locaux de la police cantonale de la Blécherette. Le pourquoi du comment les policiers ont procédé ainsi reste un mystère. L’avocate attend la journée du mercredi 27 janvier, le jour du vol spécial, pour faire une demande de réexamen, qui bien sûr arrivera trop tard. Elle laisse encore cette journée s’écouler avant de lâcher qu’elle ne sait pas où se trouve Solomon, sans avoir pris la peine de passer un coup de fil à la réception de la police cantonale.

      Mercredi 27 janvier. Dans la soirée, Solomon est transféré depuis Lausanne vers l’aéroport de Genève (matin à Frambois, après-midi à Lausanne, retour à Genève le soir). Il aura dû d’abord subir la torture psychologique de la police de la Blécherette. Affaibli par sa grève de la faim et cherchant à trouver du repos, Solomon est réveillé à maintes reprises par les policiers qui entrent dans sa cellule, lui enlèvent la couverture, puis repartent. Il est ensuite déshabillé, et plaqué contre le mur pour une fouille intégrale - lors de laquelle les policiers se foutent de lui.

      "Ils m’ont humilié jusqu’au bout"

      A nouveau menotté, il est embarqué dans une voiture. Personne ne lui dit où il va. Une fois arrivé à l’aéroport de Genève, il est contraint de se diriger vers l’avion, encadré par deux policiers. Quand Solomon monte dans l’avion, les policiers précisent qu’il a un certificat médical. Dans l’avion, ils étaient 7 Ethiopiens de Suisse, 3 des cantons romands et 4 des cantons germanophones, plus de 40 policiers. Pendant le trajet, un des policiers lui tend une enveloppe en lui disant que c’est de l’argent auquel il a droit, une somme d’un peu plus de 1000 .-. Solomon signe une sorte de reçu, attestant qu’il a bien reçu l’argent, un papier écrit à la main. Arrivé à Addis Abeba, il ouvre l’enveloppe dans laquelle il n’y a plus qu’une centaine de francs, le policier lui a donc dérobé 1000.-. « J’aimerais comprendre pourquoi il a fait ça ».

      Solomon a pu sortir de l’aéroport et il va « bien », il atterrit.
      [Témoignage recueilli par les ami.es de Solomon]

      Reçu via la mailing-list de la Coordination asile de Genève, 30.01.2020

    • La Coordination asile.ge condamne le vol spécial de Genève vers l’Éthiopie du 27 janvier. Elle appelle les autorités genevoises à réagir.

      Dans la nuit du 27 au 28 janvier dernier, un avion spécialement affrété pour le renvoi de demandeurs d’asile déboutés s’est envolé de l’aéroport de Cointrin vers l’Éthiopie. À son bord se trouvait notamment #Tahir_Tilmo, demandeur d’asile qui avait été attribué au canton de Genève et dont l’exécution du renvoi dépendait de la police genevoise. Tahir Tilmo avait été arrêté et était détenu à Favra puis à Frambois pour des raisons administratives depuis le 7 septembre dernier. Cet universitaire avait appris le français, participait à diverses activités organisées au sein de l’université genevoise, et était décrit comme une personne bien intégrée. Une pétition, signée par plus de 1000 personnes et demandant au Conseil d’État de le soutenir, avait été déposée. Le Conseil d’État n’y avait pas répondu. Une forte mobilisation citoyenne a eu lieu pour essayer d’éviter l’exécution du renvoi. En vain.

      Quatre jours avant le vol spécial, Tahir Tilmo s’était mis en grève de la faim et de la soif. Le 27 janvier, sur l’avis d’un médecin généraliste qui l’a examiné à #Frambois, il a été conduit au service des urgences des #HUG. Il y était entravé par des liens aux pieds – comme si dans son état il pouvait échapper aux deux policiers qui le flanquaient ! Après quelques examens, la police est venue le chercher aux urgences pour le transférer à l’aéroport. Comment se fait-il qu’un homme en grève de la faim et de la soif, se plaignant de douleurs importantes, ait pu être considéré comme apte à subir le choc d’un vol spécial ? Les médecins qui l’ont jugé apte à être renvoyé connaissaient-ils les conditions violentes dans lesquelles se déroule un renvoi forcé ? La police a-t-elle forcé la main au personnel soignant des HUG ? Trois demandeurs d’asile déboutés sont déjà morts au cours de telles opérations : quel(s) risque(s) les autorités genevoises ont-elles fait courir à Tahir ? La Coordination asile.ge exige des réponses à ces questions qui sont du ressort des autorités genevoises, pour éviter de futurs décès.

      Ce vol spécial était l’un des premiers à destination de l’Éthiopie, suite à la signature d’un accord entre la Suisse et le gouvernement éthiopien en 2018. Cet accord a été signé au moment où l’élection d’un nouveau premier ministre dans le pays africain donnait l’illusion d’une stabilité retrouvée. Mais depuis la situation a beaucoup changé, et une guerre a éclaté au nord du pays. Selon les observateurs avertis, l’Éthiopie risque de sombrer dans une guerre civile sur fond de divisions ethniques. La Coordination asile.ge se joint à l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés pour demander aux autorités fédérales la suspension immédiate des renvois forcés vers l’Éthiopie, en raison de l’instabilité politique qui prévaut dans ce pays et qui génère des situations de violence.

      De manière générale, la Coordination asile.ge exprime son opposition aux vols spéciaux de niveau 4, qui équivalent en soi à des formes de mauvais traitement. En autorisant que de telles opérations se déroulent à Genève, les responsables politiques genevois faillissent à protéger les droits humains et l’image de notre cité. Il existe une contradiction majeure entre d’une part l’émotion qu’un tel renvoi suscite au sein de la population genevoise doublée de l’expression d’une certaine indignation par des responsables politiques jusqu’au Conseil d’État, et d’autre part la construction en ce moment même d’un centre de renvoi et de nouvelles places de détention administrative au Grand-Saconnex, en un complexe dévolu à la multiplication d’opérations de ce type. La Coordination asile.ge demande aux autorités genevoises de manifester auprès des autorités fédérales leur intérêt à mettre en œuvre sur le territoire cantonal une politique de refuge, d’accueil et d’intégration plutôt que d’exclusion et de renvoi forcé.

      https://coordination-asile-ge.ch/la-coordination-asile-ge-condamne-le-vol-special-de-geneve-ver

    • Éthiopien renvoyé, et en plus détroussé !

      Dans l’avion du retour, Solomon, l’Éthiopien du canton de Vaud expulsé, s’est fait barboter les 1000 francs de son aide au retour. Malaise.

      La Coordination asile de Lausanne a relayé sur le site Asile.ch l’histoire de Solomon A., l’Éthiopien renvoyé de force dans son pays le 27 janvier avec six autres de ses compatriotes. Elle raconte les étapes de son renvoi depuis qu’il a reçu un plan de vol il y a cinq mois. : « Plan de vol qu’il a refusé, est-il précisé. Sa vie était en Suisse. Il travaillait dans un atelier de mécanique vélo, était engagé dans le foyer dans lequel il vivait, apprécié de tout le monde. C’était évident qu’il ne pouvait pas accepter de partir. »

      Le mardi 19 janvier, Solomon est allé renouveler son papier d’aide d’urgence pour garder son droit au logement. C’est là que deux policiers sont venus l’appréhender par surprise pour le renvoi. Il est amené au centre de Frambois sur Genève, puis le lendemain à Lausanne devant le Tribunal des mesures de contraintes. Puis retour à Frambois, où il est placé dans une cellule en sous-sol à l’isolement. Le 26 janvier ses amis viennent le soutenir devant le centre, car ils craignent qu’il soit expulsé durant la nuit. On leur dit que ce ne sera peut-être pas le cas, qu’il a été transféré dans le canton de Vaud.
      « Plaqué contre le mur »

      En fait, le vol spécial est prévu pour le lendemain. Ses amis dénoncent les traitements qu’on lui a fait subir lors de sa dernière incarcération en terre vaudoise : « Affaibli par sa grève de la faim et cherchant à trouver du repos, Solomon est réveillé à maintes reprises par les policiers qui entrent dans sa cellule, lui enlèvent la couverture, puis repartent. Il est ensuite déshabillé, et plaqué contre le mur pour une fouille intégrale. »

      Finalement, le 27 janvier, il est à nouveau transféré à Genève direction l’aéroport. « Dans l’avion, ils étaient sept Éthiopiens de Suisse, trois des cantons romands et quatre des cantons germanophones, plus de 40 policiers », racontent ses amis qui ont recueilli son témoignage après le vol. Ils expliquent aussi que durant le trajet : « un des policiers lui tend une enveloppe en lui disant que c’est de l’argent auquel il a droit, une somme d’un peu plus de 1000 francs. Solomon signe une sorte de reçu, attestant qu’il a bien reçu l’argent, un papier écrit à la main. Arrivé à Addis Abeba, il ouvre l’enveloppe dans laquelle il n’y a plus qu’une centaine de francs… »
      « Quelqu’un se sert… »

      1000 francs ont donc disparu… Dans son témoignage, il accuse le policier, mais comment savoir ? Renseignement pris, l’autre Éthiopien de Genève expulsé par le même avion, Tahir, a bien reçu lui son aide au retour en bonne et due forme. Alors que s’est-t-il passé avec Solomon ? Aldo Brina, spécialiste des questions d’asile au Centre social protestant de Genève, observe : « Depuis le temps que je travaille dans l’asile, il y a des problèmes avec les aides au retour, mais on ne peut rien prouver, rien n’est établi. J’ai souvent entendu ce même récit de la part des personnes renvoyées à qui on avait subtilisé de l’argent. Est-ce qu’ils mentent ou est-ce qu’il y a anguille sous roche ? Ce serait quand même étonnant qu’ils inventent tous la même chose, alors je pencherais plutôt pour la deuxième option. Mais encore une fois, je n’ai aucune preuve. Quelqu’un se sert… Ce peut-être en Suisse ou dans le pays du retour… »

      La Coordination asile Lausanne va en tout cas demander des explications aux autorités vaudoises.

      https://www.lematin.ch/story/ethiopien-renvoye-et-en-plus-detrousse-259136891094

    • Renvoi de Tahir : les associations interpellent les autorités genevoises

      A Genève, la coordination Asile.ge interpelle le Conseil d’Etat pour le renvoi de l’éthiopien Tahir. Par le passé, le Conseil d’Etat s’est opposé aux renvois forcés et il aurait dû agir.

      L’affaire de l’éthiopien renvoyé par avion la semaine dernière continue de faire des remous à Genève. Ce matin (me) la coordination asile.ge envoyait un communiqué. Pour elle, le renvoi forcé de Tahir alors qu’il était hospitalisé est inadmissible. Le requérant d’asile débouté était en grève de la faim et de la soif depuis plusieurs jours, d’où son hospitalisation. Asile.ge estime que le Conseil d’Etat genevois aurait dû agir même si la compétence en matière de renvois relève de la Confédération. Les explications d’Aldo Brina.

      Asile.ge s’interroge sur la légalité de ce renvoi par vol spécial alors qu’il était souffrant. Ecoutez Aldo Brina.

      Renvois annulés dans le passé

      Asile.ch rappelle que les autorités genevoises ont déjà stoppé des renvois par le passé. Pour la coordination Genève doit pratiquer une politique de refuge, d’accueil et d’intégration plutôt que d’exclusion.

      Plus de 1000 Genevois avaient signé une pétition demandant de surseoir au renvoi, rappelle le collectif d’associations. Sans succès, malgré l’émotion suscitée par ce cas dans la population. La pratique du renvoi risque de se multiplier à l’avenir avertit Aldo Brina.

      Compétence fédérale

      Le porte-parole de Mauro Poggia, Laurent Paoliello, rappelle que les autorités genevoises ne sont pas compétentes en matière d’asile. Il renvoie au Secrétariat d’Etat aux migrations, le SEM.

      https://www.radiolac.ch/actualite/renvoi-de-tahir-les-associations-interpellent-les-autorites-genevoises

    • La coordination de l’asile demande la suspension des renvois

      Le renvoi par la force de sept ressortissants éthiopiens la semaine dernière choque les milieux de l’asile.

      L’expulsion de sept Éthiopiens dans un avion spécial mercredi dernier au départ de Cointrin continue à faire des vagues. Tahir Tilmo résidant à Genève et Solomon Arkisso dans le canton de Vaud étaient détenus à la prison genevoise de Frambois et avaient entamé une grève de la faim et de la soif le week-end précédent. Tous deux étaient en Suisse, craignant pour leur vie là-bas pour des raisons politiques. Une forte mobilisation n’a pas empêché leur renvoi.

      L’attitude du Département genevois de la sécurité, de l’emploi et de la santé a été même critiquée sèchement par le conseiller d’État Antonio Hodgers : « Il aurait pu en être autrement, comme nous avons été plusieurs à le préconiser. En cette période de fortes restrictions des libertés (de réunion, de commerce, d’accès à la culture, etc.), l’État doit être attentif à ne pas perdre son humanité et tomber dans une dérive autocratique qui consiste à exercer le pouvoir de manière froide et désincarnée ».

      Ce mercredi, c’est la Coordination asile.ge qui dénonce ces renvois, notamment celui de Tahir Tilmo : « Cet universitaire avait appris le français, participait à diverses activités organisées au sein de l’université genevoise, et était décrit comme une personne bien intégrée. Une pétition signée par plus de 1000 personnes et demandant au Conseil d’État de le soutenir, avait été déposée. Le Conseil d’État n’y avait pas répondu. »
      Un des premiers vols avec le nouvel accord

      La coordination ajoute : « En autorisant que de telles opérations se déroulent à Genève, les responsables politiques genevois faillissent à protéger les droits humains et l’image de notre cité. Il existe une contradiction majeure entre d’une part l’émotion qu’un tel renvoi suscite au sein de la population genevoise, doublée de l’expression d’une certaine indignation par des responsables politiques jusqu’au Conseil d’État »,

      La coordination constate que ce vol spécial était l’un des premiers à destination de l’Éthiopie, suite à la signature de l’accord entre la Suisse et le gouvernement éthiopien en 2018. Mais aujourd’hui la situation a changé et l’Éthiopie est retournée dans une période de troubles graves : « Cet accord a été signé au moment où l’élection d’un nouveau premier ministre dans le pays africain donnait l’illusion d’une stabilité retrouvée. Mais depuis la situation a beaucoup changé, et une guerre a éclaté au nord du pays ».

      Face aux risques de voir le pays plonger dans une guerre civile, la Coordination asile.ge se joint à l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés (OSAR) pour demander aux autorités fédérales « la suspension immédiate des renvois forcés vers l’Éthiopie en raison de l’instabilité politique qui prévaut dans ce pays et qui génère des situations de violence ».

      De son côté, Le Secrétariat d’État aux migrations (SEM) estime que la situation actuelle permet des renvois forcés en Éthiopie.

      https://www.lematin.ch/story/la-coordination-de-lasile-demande-la-suspension-des-renvois-395551064023

    • Un renvoi indigne et honteux pour Genève

      Cinq personnalités genevoises interpellent les autorités du canton sur leur non intervention face au renvoi de Tahir Tilmo, l’un des requérants d’asile éthiopiens déboutés, expulsés de Suisse par vol spécial.1 Ce dernier résidait à Genève.

      En novembre 2020, en Ethiopie, les tensions entre le gouvernement central et les dirigeants de la région du Tigré ont dégénéré en conflit ouvert. Celui-ci a atteint son paroxysme suite à la décision du gouvernement central de repousser, sans succès, les élections régionales prévues en septembre 2020 à cause de la pandémie de coronavirus. On dénombre des centaines de morts et de blessés. Plus de 100 000 personnes sont en fuite.

      En dépit de cette situation, soulignée par de nombreuses organisations internationales comme Amnesty, deux jeunes Ethiopiens1 sont arrêtés en vue de leur renvoi et détenus à Genève, à la prison de Frambois. Craignant pour leur vie, ils entament une grève de la faim et de la soif. Dans la nuit du 27 au 28 janvier, ils sont placés de force à bord d’un vol spécial de Frontex à destination d’Addis Abeba.

      Tahir, un Ethiopien d’une trentaine d’années, était arrivé à Genève en 2015, et était en détention administrative depuis septembre 2020. Les membres de sa famille, engagés dans le Front de libération oromo, ont été incarcérés, torturés ou assassinés. Son compatriote Solomon résidait dans le canton de Vaud depuis sept ans et avait été interpellé dix jours plus tôt à Lausanne, alors qu’il se rendait au Service de la population pour percevoir son aide d’urgence.

      L’état de santé de Tahir se dégradant, il a été transféré aux urgences des Hôpitaux universitaires de Genève (HUG). Plusieurs dizaines de personnes – parmi lesquels ses ami·e·s et des membres des associations Solidarité Tattes, Stop Renvoi et 3ChêneAccueil – étaient venues former une chaîne humaine symbolique contre ce renvoi. Les forces de police ont effectué des contrôles d’identité et menacé de verbaliser. De multiples démarches ont été tentées par ses ami-e-s, son avocate, des associations et des relais politiques.

      Les autorités responsables n’ont pas renoncé à ce renvoi inacceptable. Les proches des deux requérants éthiopiens ont demandé à plusieurs reprises de pouvoir leur dire au revoir. Sans succès. De nombreuses questions douloureuses demeurent sans réponse. Pourquoi les autorités, notamment cantonales, ne sont-elles pas intervenues pour empêcher ce renvoi ? Les HUG ont-ils pu délivrer un certificat médical assurant du bon état de santé de Tahir alors que celui-ci était aux urgences, sans même consulter son médecin ou son psychiatre à Frambois ? Pourquoi aucun des quatre Ethiopiens venus de Suisse n’avait-il fait le test PCR, alors que les trois venus d’Allemagne l’avaient effectué ?

      Les autorités genevoises, qui ont pourtant procédé à l’arrestation de Tahir et demandé son placement en détention, cherchent peut-être à s’abriter derrière la compétence du Secrétariat d’Etat aux migrations. Elles disposent cependant d’une responsabilité et d’une marge de manœuvre qui leur sont propres. Genève est le siège de nombreuses organisations internationales et le siège européen des Nations unies. Les autorités étaient – en tous cas moralement – tenues d’intervenir pour empêcher ce renvoi. La communauté internationale a établi depuis longtemps un ensemble de normes visant à garantir que le retour des réfugiés se déroule de manière à protéger leurs droits. Le non-refoulement des demandeurs d’asile vers un pays où leur vie est danger est considéré comme l’un des principes les plus stricts du droit international. Mauro Poggia, conseiller d’Etat en charge du Département de la sécurité, de l’économie et de la santé, ne s’est pas opposé à ce renvoi. Les autres conseillers-ères d’Etat doivent manifester leur désaccord et dénoncer la politique inacceptable de renvois que la Suisse met en œuvre de manière toujours plus inhumaine.

      Laurence Fehlmann Rielle, conseillère nationale, PS/GE.

      Emmanuel Deonna, député au Grand Conseil genevois, PS.

      Wahba Ghaly, conseiller municipal, Vernier, PS.

      Marc Morel, pour la Ligue suisse des droits de l’homme, Genève.

      Julie Franck, maître d’enseignement et de recherche à l’Université de Genève, pour les ami·e·s de Tahir.

      https://lecourrier.ch/2021/02/03/un-renvoi-indigne-et-honteux-pour-geneve

  • How #ICE Exported the Coronavirus

    An investigation reveals how Immigration and Customs Enforcement became a domestic and global spreader of COVID-19.

    Admild, an undocumented immigrant from Haiti, was feeling sick as he approached the deportation plane that was going to take him back to the country he had fled in fear. Two weeks before that day in May, while being held at an Immigration and Customs Enforcement detention facility in Louisiana, he had tested positive for the coronavirus — and he was still showing symptoms.

    He disclosed his condition to an ICE official at the airport, who sent him to a nurse.

    “She just gave me Tylenol,” said Admild, who feared reprisals if his last name was published. Not long after, he was back on the plane before landing in Port-au-Prince, one of more than 40,000 immigrants deported from the United States since March, according to ICE records.

    Even as lockdowns and other measures have been taken around the world to prevent the spread of the coronavirus, ICE has continued to detain people, move them from state to state and deport them.

    An investigation by The New York Times in collaboration with The Marshall Project reveals how unsafe conditions and scattershot testing helped turn ICE into a domestic and global spreader of the virus — and how pressure from the Trump administration led countries to take in sick deportees.

    We spoke to more than 30 immigrant detainees who described cramped and unsanitary detention centers where social distancing was near impossible and protective gear almost nonexistent. “It was like a time bomb,” said Yudanys, a Cuban immigrant held in Louisiana.

    At least four deportees interviewed by The Times, from India, Haiti, Guatemala and El Salvador, tested positive for the virus shortly after arriving from the United States.

    So far, ICE has confirmed at least 3,000 coronavirus-positive detainees in its detention centers, though testing has been limited.

    We tracked over 750 domestic ICE flights since March, carrying thousands of detainees to different centers, including some who said they were sick. Kanate, a refugee from Kyrgyzstan, was moved from the Pike County Correctional Facility in Pennsylvania to the Prairieland Detention Facility in Texas despite showing Covid-19 symptoms. He was confirmed to have the virus just a few days later.

    “I was panicking,” he said. “I thought that I will die here in this prison.”

    We also tracked over 200 deportation flights carrying migrants, some of them ill with coronavirus, to other countries from March through June. Under pressure from the Trump administration and with promises of humanitarian aid, some countries have fully cooperated with deportations.

    El Salvador and Honduras have accepted more than 6,000 deportees since March. In April, President Trump praised the presidents of both countries for their cooperation and said he would send ventilators to help treat the sickest of their coronavirus patients.

    So far, the governments of 11 countries have confirmed that deportees returned home with Covid-19.

    When asked about the agency’s role in spreading the virus by moving and deporting sick detainees, ICE said it took precautions and followed guidelines of the Centers for Disease Control and Prevention. As of last week, ICE said that it was still able to test only a sampling of immigrants before sending them home. Yet deportation flights continue.

    https://www.themarshallproject.org/2020/07/10/how-ice-exported-the-coronavirus

    #covid-19 #coronavirus #USA #Etats-Unis #migrations #migrerrance #renvois #expulsions #déportations #avions #transports_aériens #contamination #malades #rétention #détention_administrative #asile #réfugiés #déboutés #distanciation_sociale #swiftair #visualisation #cartographie #géographie

    ping @isskein @simplicissimus @karine4 @reka

  • C’était 2007, et #François_Gemenne, alors doctorant, a écrit ce texte...

    Carte blanche François Gemenne Doctorant au Centre d’études de l’ethnicité et des migrations (Cedem) de l’Université de Liège Client nº 338 983 492 de #Brussels_Airlines : La courageuse #révolte des personnels navigants face aux #déportations par #avion

    En novembre dernier, j’ai pris un vol de Brussels Airlines (qui, à l’époque, s’appelait encore SN Brussels Airlines) à destination de Nairobi. À l’arrière de l’avion se trouvait une dame d’une cinquantaine d’années, que deux policiers ramenaient de force dans son pays. Peu avant le décollage, la dame a commencé à crier et à pleurer, suscitant une gêne évidente chez les autres passagers. J’ai beau savoir que ces déportations de demandeurs d’asile déboutés sont régulièrement organisées sur les vols réguliers des compagnies commerciales, c’était la première fois que j’en étais le témoin direct.

    Cette déportation n’a donné lieu à aucun incident particulier : il y a eu des cris, des larmes, des supplications et des menottes, mais, pour autant que je m’en sois rendu compte, pas de coups. Il n’en va pas toujours ainsi, et l’exemple de Semira Adamu sera toujours là pour nous le rappeler.

    J’ai passé le plus clair du vol à m’en vouloir de ne pas avoir protesté davantage, de ne pas être descendu de l’appareil, et de m’être finalement rendu complice de cette expulsion. Je me souviens en avoir beaucoup voulu au personnel de cabine pour sa professionnelle indifférence, qui m’apparaissait comme une caution tacite des méthodes employées. À mon retour, j’avais écrit à la direction de la compagnie, pour me désoler que celle-ci se rende complice de cette politique de déportations. On avait poliment accusé réception de ma protestation, sans plus. Et depuis, je m’étais étonné que les compagnies aériennes, les pilotes, les hôtesses et les stewards, acceptent que l’État utilise ainsi leurs avions pour ramener de force chez eux ceux qui n’avaient commis d’autre crime que celui de vouloir habiter chez nous.

    Voici pourtant que les pilotes et les personnels navigants d’Air France font maintenant savoir à leur direction qu’ils en ont marre, et que leur métier est de faire voyager les gens, pas de les déporter contre leur gré. Leur révolte est courageuse, et leur dégoût salutaire.

    On apprend aussi que les pilotes d’Air Canada ont émis la même revendication il y a quelque temps, et que la compagnie canadienne a depuis cessé de transporter les demandeurs d’asile déboutés. On apprend même que c’est tout le groupe Star Alliance, la première alliance aérienne mondiale, qui comprend notamment la Lufthansa et Air Canada, qui envisage d’arrêter les déportations.

    Dans ce concert, les pilotes de Brussels Airlines restent étrangement muets. Sans vouloir souffler des idées à leurs syndicats, il me semble qu’ils sont actuellement en position de force par rapport à leur direction, et que ce serait le moment où jamais de mettre cette revendication sur la table. Si la direction de Brussels Airlines tient vraiment à garder ses pilotes, elle aurait ainsi l’occasion de prouver sa bonne volonté.

    La démarche des pilotes d’Air France est louable, mais elle n’est pourtant pas totalement étrangère à des motivations commerciales. Car c’est également l’image de marque de la compagnie qui est en jeu. Quand j’ai émis une timide protestation auprès d’une hôtesse du vol de Nairobi, en novembre dernier, c’est bien ce souci qu’elle avait à l’esprit quand elle m’a placidement répondu de ne pas m’en faire, et que les cris cesseraient rapidement après le décollage. Tant d’argent investi dans le confort des sièges, la réduction des files d’attente aux comptoirs d’enregistrement, le design des uniformes et des fuselages, tout cela réduit à néant par des cris, des pleurs et des échauffourées à l’arrière de l’appareil ? Quand des déportés menottés meurent à l’arrière des Airbus tricolores, le ciel cesse rapidement d’être le plus bel endroit de la terre.

    Les déportations à bord d’appareils commerciaux ont pourtant un mérite : elles assurent la publicité de cette politique. Que se passerait-il si, demain, Brussels Airlines ou Air France refusaient de se rendre encore complices de cette politique ? On peut difficilement imaginer que l’État organise les déportations sur RyanAir. Plus vraisemblablement, on affréterait alors des trains spéciaux et des vols charter. Ça coûterait plus cher, beaucoup plus cher. Pour autant, on doute fort que nos gouvernements réalisent qu’il serait infiniment plus économique, et même rentable, de laisser simplement ces gens s’installer chez nous.

    Par contre, nous ne saurions plus rien des expulsions qui ont lieu jour après jour. Aurions-nous vraiment été mis au courant de la mort de Semira Adamu, si elle avait été tuée dans un avion militaire ? Des passagers pourraient-ils encore s’indigner, se révolter quand des déportés sont violentés par les policiers ?

    Notre Constitution et nos lois prévoient et organisent la publicité des débats parlementaires et judiciaires. L’État, par souci d’économie, a organisé de facto la publicité des déportations. Chaque vol commercial qui s’envole avec un passager menotté à bord nous rappelle que, collectivement, nous avons un problème. Et que tous les passagers, dans leur indifférence, à commencer par la mienne, en portent une part de responsabilité.

    Récemment, comme tous les clients de Brussels Airlines, j’ai reçu un courrier me demandant s’il était important pour moi de recevoir un journal à bord, ou qu’un repas me soit servi en vol. On ne m’a pas demandé, par contre, s’il était important pour moi que tous les passagers aient librement consenti à leur présence dans l’avion. C’est pourtant une question à laquelle j’aurais volontiers répondu.

    https://www.lesoir.be/art/la-courageuse-revolte-des-personnels-navigants-face-aux_t-20070713-00CCQG.htm
    #résistance #pilotes #asile #migrations #expulsions #renvois

    Ajouté à cette métaliste sur la #résistance de #passagers (mais aussi de #pilotes) aux #renvois_forcés :
    https://seenthis.net/messages/725457

  • The business of building walls

    Thirty years after the fall of the Berlin Wall, Europe is once again known for its border walls. This time Europe is divided not so much by ideology as by perceived fear of refugees and migrants, some of the world’s most vulnerable people.

    Who killed the dream of a more open Europe? What gave rise to this new era of walls? There are clearly many reasons – the increasing displacement of people by conflict, repression and impoverishment, the rise of security politics in the wake of 9/11, the economic and social insecurity felt across Europe after the 2008 financial crisis – to name a few. But one group has by far the most to gain from the rise of new walls – the businesses that build them. Their influence in shaping a world of walls needs much deeper examination.

    This report explores the business of building walls, which has both fuelled and benefited from a massive expansion of public spending on border security by the European Union (EU) and its member states. Some of the corporate beneficiaries are also global players, tapping into a global market for border security estimated to be worth approximately €17.5 billion in 2018, with annual growth of at least 8% expected in coming years.

    https://www.youtube.com/watch?v=CAuv1QyP8l0&feature=emb_logo

    It is important to look both beyond and behind Europe’s walls and fencing, because the real barriers to contemporary migration are not so much the fencing, but the vast array of technology that underpins it, from the radar systems to the drones to the surveillance cameras to the biometric fingerprinting systems. Similarly, some of Europe’s most dangerous walls are not even physical or on land. The ships, aircrafts and drones used to patrol the Mediterranean have created a maritime wall and a graveyard for the thousands of migrants and refugees who have no legal passage to safety or to exercise their right to seek asylum.

    This renders meaningless the European Commission’s publicized statements that it does not fund walls and fences. Commission spokesperson Alexander Winterstein, for example, rejecting Hungary’s request to reimburse half the costs of the fences built on its borders with Croatia and Serbia, said: ‘We do support border management measures at external borders. These can be surveillance measures. They can be border control equipment...But fences, we do not finance’. In other words, the Commission is willing to pay for anything that fortifies a border as long as it is not seen to be building the walls themselves.

    This report is a sequel to Building Walls – Fear and securitization in the European Union, co-published in 2018 with Centre Delàs and Stop Wapenhandel, which first measured and identified the walls that criss-cross Europe. This new report focuses on the businesses that have profited from three different kinds of wall in Europe:

    The construction companies contracted to build the land walls built by EU member states and the Schengen Area together with the security and technology companies that provide the necessary accompanying technology, equipment and services;

    The shipping and arms companies that provide the ships, aircraft, helicopters, drones that underpin Europe’s maritime walls seeking to control migratory flows in the Mediterranean, including Frontex operations, Operation Sophia and Italian operation Mare Nostrum;
    And the IT and security companies contracted to develop, run, expand and maintain EU’s systems that monitor the movement of people – such as SIS II (Schengen Information System) and EES (Entry/Exit Scheme) – which underpin Europe’s virtual walls.

    Booming budgets

    The flow of money from taxpayers to wall-builders has been highly lucrative and constantly growing. The report finds that companies have reaped the profits from at least €900 million spent by EU countries on land walls and fences since the end of the Cold War. The partial data (in scope and years) means actual costs will be at least €1 billion. In addition, companies that provide technology and services that accompany walls have also benefited from some of the steady stream of funding from the EU – in particular the External Borders Fund (€1.7 billion, 2007-2013) and the Internal Security Fund – Borders Fund (€2.76 billion, 2014-2020).

    EU spending on maritime walls has totalled at least €676.4 million between 2006 to 2017 (including €534 million spent by Frontex, €28.4 million spent by the EU on Operation Sophia and €114 million spent by Italy on Operation Mare Nostrum) and would be much more if you include all the operations by Mediterranean country coastguards. Total spending on Europe’s virtual wall equalled at least €999.4m between 2000 and 2019. (All these estimates are partial ones because walls are funded by many different funding mechanisms and due to lack of data transparency).

    This boom in border budgets is set to grow. Under its budget for the next EU budget cycle (2021–2027) the European Commission has earmarked €8.02 billion to its Integrated Border Management Fund (2021-2027), €11.27bn to Frontex (of which €2.2 billion will be used for acquiring, maintaining and operating air, sea and land assets) and at least €1.9 billion total spending (2000-2027) on its identity databases and Eurosur (the European Border Surveillance System).
    The big arm industry players

    Three giant European military and security companies in particular play a critical role in Europe’s many types of borders. These are Thales, Leonardo and Airbus.

    Thales is a French arms and security company, with a significant presence in the Netherlands, that produces radar and sensor systems, used by many ships in border security. Thales systems, were used, for example, by Dutch and Portuguese ships deployed in Frontex operations. Thales also produces maritime surveillance systems for drones and is working on developing border surveillance infrastructure for Eurosur, researching how to track and control refugees before they reach Europe by using smartphone apps, as well as exploring the use of High Altitude Pseudo Satellites (HAPS) for border security, for the European Space Agency and Frontex. Thales currently provides the security system for the highly militarised port in Calais. Its acquisition in 2019 of Gemalto, a large (biometric) identity security company, makes it a significant player in the development and maintenance of EU’s virtual walls. It has participated in 27 EU research projects on border security.
    Italian arms company Leonardo (formerly Finmeccanica or Leonardo-Finmeccanica) is a leading supplier of helicopters for border security, used by Italy in the Mare Nostrum, Hera and Sophia operations. It has also been one of the main providers of UAVs (or drones) for Europe’s borders, awarded a €67.1 million contract in 2017 by the European Maritime Safety Agency (EMSA) to supply them for EU coast-guard agencies. Leonardo was also a member of a consortium, awarded €142.1 million in 2019 to implement and maintain EU’s virtual walls, namely its EES. It jointly owns Telespazio with Thales, involved in EU satellite observation projects (REACT and Copernicus) used for border surveillance. Leonardo has participated in 24 EU research projects on border security and control, including the development of Eurosur.
    Pan-European arms giant Airbus is a key supplier of helicopters used in patrolling maritime and some land borders, deployed by Belgium, France, Germany, Greece, Italy, Lithuania and Spain, including in maritime Operations Sophia, Poseidon and Triton. Airbus and its subsidiaries have participated in at least 13 EU-funded border security research projects including OCEAN2020, PERSEUS and LOBOS.
    The significant role of these arms companies is not surprising. As Border Wars (2016), showed these companies through their membership of the lobby groups – European Organisation for Security (EOS) and the AeroSpace and Defence Industries Association of Europe (ASD) – have played a significant role in influencing the direction of EU border policy. Perversely, these firms are also among the top four biggest European arms dealers to the Middle East and North Africa, thus contributing to the conflicts that cause forced migration.

    Indra has been another significant corporate player in border control in Spain and the Mediterranean. It won a series of contracts to fortify Ceuta and Melilla (Spanish enclaves in northern Morocco). Indra also developed the SIVE border control system (with radar, sensors and vision systems), which is in place on most of Spain’s borders, as well as in Portugal and Romania. In July 2018 it won a €10 million contract to manage SIVE at several locations for two years. Indra is very active in lobbying the EU and is a major beneficiary of EU research funding, coordinating the PERSEUS project to further develop Eurosur and the Seahorse Network, a network between police forces in Mediterranean countries (both in Europe and Africa) to stop migration.

    Israeli arms firms are also notable winners of EU border contracts. In 2018, Frontex selected the Heron drone from Israel Aerospace Industries for pilot-testing surveillance flights in the Mediterranean. In 2015, Israeli firm Elbit sold six of its Hermes UAVs to the Switzerland’s Border Guard, in a controversial €230 million deal. It has since signed a UAV contract with the European Maritime Safety Agency (EMSA), as a subcontractor for the Portuguese company CEIIA (2018), as well as contracts to supply technology for three patrol vessels for the Hellenic Coast Guard (2019).
    Land wall contractors

    Most of the walls and fences that have been rapidly erected across Europe have been built by national construction companies, but one European company has dominated the field: European Security Fencing, a Spanish producer of razor wire, in particular a coiled wire known as concertinas. It is most known for the razor wire on the fences around Ceuta and Melilla. It also delivered the razor wire for the fence on the border between Hungary and Serbia, and its concertinas were installed on the borders between Bulgaria and Turkey and Austria and Slovenia, as well as at Calais, and for a few days on the border between Hungary and Slovenia before being removed. Given its long-term market monopoly, its concertinas are very likely used at other borders in Europe.

    Other contractors providing both walls and associated technology include DAT-CON (Croatia, Cyprus, Macedonia, Moldova, Slovenia and Ukraine), Geo Alpinbau (Austria/Slovenia), Indra, Dragados, Ferrovial, Proyectos Y Tecnología Sallén and Eulen (Spain/Morocco), Patstroy Bourgas, Infra Expert, Patengineeringstroy, Geostroy Engineering, Metallic-Ivan Mihaylov and Indra (Bulgaria/Turkey), Nordecon and Defendec (Estonia/Russia), DAK Acélszerkezeti Kft and SIA Ceļu būvniecības sabiedrība IGATE (Latvia/Russia), Gintrėja (Lithuania/Russia), Minis and Legi-SGS(Slovenia/Croatia), Groupe CW, Jackson’s Fencing, Sorhea, Vinci/Eurovia and Zaun Ltd (France/UK).

    In many cases, the actual costs of the walls and associated technologies exceed original estimates. There have also been many allegations and legal charges of corruption, in some cases because projects were given to corporate friends of government officials. In Slovenia, for example, accusations of corruption concerning the border wall contract have led to a continuing three-year legal battle for access to documents that has reached the Supreme Court. Despite this, the EU’s External Borders Fund has been a critical financial supporter of technological infrastructure and services in many of the member states’ border operations. In Macedonia, for example, the EU has provided €9 million for patrol vehicles, night-vision cameras, heartbeat detectors and technical support for border guards to help it manage its southern border.
    Maritime wall profiteers

    The data about which ships, helicopters and aircraft are used in Europe’s maritime operations is not transparent and therefore it is difficult to get a full picture. Our research shows, however, that the key corporations involved include the European arms giants Airbus and Leonardo, as well as large shipbuilding companies including Dutch Damen and Italian Fincantieri.

    Damen’s patrol vessels have been used for border operations by Albania, Belgium, Bulgaria, Portugal, the Netherlands, Romania, Sweden and the UK as well as in key Frontex operations (Poseidon, Triton and Themis), Operation Sophia and in supporting NATO’s role in Operation Poseidon. Outside Europe, Libya, Morocco, Tunisia and Turkey use Damen vessels for border security, often in cooperation with the EU or its member states. Turkey’s €20 million purchase of six Damen vessels for its coast guard in 2006, for example, was financed through the EU Instrument contributing to Stability and Peace (IcSP), intended for peace-building and conflict prevention.

    The sale of Damen vessels to Libya unveils the potential troubling human costs of this corporate trade. In 2012, Damen supplied four patrol vessels to the Libyan Coast Guard, sold as civil equipment in order to avoid a Dutch arms export license. Researchers have since found out, however, that the ships were not only sold with mounting points for weapons, but were then armed and used to stop refugee boats. Several incidents involving these ships have been reported, including one where some 20 or 30 refugees drowned. Damen has refused to comment, saying it had agreed with the Libyan government not to disclose information about the ships.

    In addition to Damen, many national shipbuilders play a significant role in maritime operations as they were invariably prioritised by the countries contributing to each Frontex or other Mediterranean operation. Hence, all the ships Italy contributed to Operation Sophia were built by Fincantieri, while all Spanish ships come from Navantia and its predecessors. Similarly, France purchases from DCN/DCNS, now Naval Group, and all German ships were built by several German shipyards (Flensburger Schiffbau-Gesellschaft, HDW, Lürssen Gruppe). Other companies in Frontex operations have included Greek company, Motomarine Shipyards, which produced the Panther 57 Fast Patrol Boats used by the Hellenic Coast Guard, Hellenic Shipyards and Israel Shipyards.

    Austrian company Schiebel is a significant player in maritime aerial surveillance through its supply of S-100 drones. In November 2018, EMSA selected the company for a €24 million maritime surveillance contract for a range of operations including border security. Since 2017, Schiebel has also won contracts from Croatia, Denmark, Iceland, Italy, Portugal and Spain. The company has a controversial record, with its drones sold to a number of countries experiencing armed conflict or governed by repressive regimes such as Libya, Myanmar, the UAE and Yemen.

    Finland and the Netherlands deployed Dornier aircraft to Operation Hermes and Operation Poseidon respectively, and to Operation Triton. Dornier is now part of the US subsidiary of the Israeli arms company Elbit Systems. CAE Aviation (Luxembourg), DEA Aviation (UK) and EASP Air (Netherlands) have all received contracts for aircraft surveillance work for Frontex. Airbus, French Dassault Aviation, Leonardo and US Lockheed Martin were the most important suppliers of aircraft used in Operation Sophia.

    The EU and its member states defend their maritime operations by publicising their role in rescuing refugees at sea, but this is not their primary goal, as Frontex director Fabrice Leggeri made clear in April 2015, saying that Frontex has no mandate for ‘proactive search-and-rescue action[s]’ and that saving lives should not be a priority. The thwarting and criminalisation of NGO rescue operations in the Mediterranean and the frequent reports of violence and illegal refoulement of refugees, also demonstrates why these maritime operations should be considered more like walls than humanitarian missions.
    Virtual walls

    The major EU contracts for the virtual walls have largely gone to two companies, sometimes as leaders of a consortium. Sopra Steria is the main contractor for the development and maintenance of the Visa Information System (VIS), Schengen Information System (SIS II) and European Dactyloscopy (Eurodac), while GMV has secured a string of contracts for Eurosur. The systems they build help control, monitor and surveil people’s movements across Europe and increasingly beyond.

    Sopra Steria is a French technology consultancy firm that has to date won EU contracts worth a total value of over €150 million. For some of these large contracts Sopra Steria joined consortiums with HP Belgium, Bull and 3M Belgium. Despite considerable business, Sopra Steria has faced considerable criticism for its poor record on delivering projects on time and on budget. Its launch of SIS II was constantly delayed, forcing the Commission to extend contracts and increase budgets. Similarly, Sopra Steria was involved in another consortium, the Trusted Borders consortium, contracted to deliver the UK e-Borders programme, which was eventually terminated in 2010 after constant delays and failure to deliver. Yet it continues to win contracts, in part because it has secured a near-monopoly of knowledge and access to EU officials. The central role that Sopra Steria plays in developing these EU biometric systems has also had a spin-off effect in securing other national contracts, including with Belgium, Bulgaria, Czech Republic, Finland, France, Germany, Romania and Slovenia GMV, a Spanish technology company, has received a succession of large contracts for Eurosur, ever since its testing phase in 2010, worth at least €25 million. It also provides technology to the Spanish Guardia Civil, such as control centres for its Integrated System of External Vigilance (SIVE) border security system as well as software development services to Frontex. It has participated in at least ten EU-funded research projects on border security.

    Most of the large contracts for the virtual walls that did not go to consortia including Sopra Steria were awarded by eu-LISA (European Union Agency for the Operational Management of Large-Scale IT Systems in the Area of Freedom, Security and Justice) to consortia comprising computer and technology companies including Accenture, Atos Belgium and Morpho (later renamed Idema).
    Lobbying

    As research in our Border Wars series has consistently shown, through effective lobbying, the military and security industry has been very influential in shaping the discourse of EU security and military policies. The industry has succeeded in positioning itself as the experts on border security, pushing the underlying narrative that migration is first and foremost a security threat, to be combatted by security and military means. With this premise, it creates a continuous demand for the ever-expanding catalogue of equipment and services the industry supplies for border security and control.

    Many of the companies listed here, particularly the large arms companies, are involved in the European Organisation for Security (EOS), the most important lobby group on border security. Many of the IT security firms that build EU’s virtual walls are members of the European Biometrics Association (EAB). EOS has an ‘Integrated Border Security Working Group’ to ‘facilitate the development and uptake of better technology solutions for border security both at border checkpoints, and along maritime and land borders’. The working group is chaired by Giorgio Gulienetti of the Italian arms company Leonardo, with Isto Mattila (Laurea University of Applied Science) and Peter Smallridge of Gemalto, a digital security company recently acquired by Thales.

    Company lobbyists and representatives of these lobby organisations regularly meet with EU institutions, including the European Commission, are part of official advisory committees, publish influential proposals, organise meetings between industry, policy-makers and executives and also meet at the plethora of military and security fairs, conferences and seminars. Airbus, Leonardo and Thales together with EOS held 226 registered lobbying meetings with the European Commission between 2014 and 2019. In these meetings representatives of the industry position themselves as the experts on border security, presenting their goods and services as the solution for ‘security threats’ caused by immigration. In 2017, the same group of companies and EOS spent up to €2.65 million on lobbying.

    A similar close relationship can be seen on virtual walls, with the Joint Research Centre of the European Commission arguing openly for public policy to foster the ‘emergence of a vibrant European biometrics industry’.
    A deadly trade and a choice

    The conclusion of this survey of the business of building walls is clear. A Europe full of walls has proved to be very good for the bottom line of a wide range of corporations including arms, security, IT, shipping and construction companies. The EU’s planned budgets for border security for the next decade show it is also a business that will continue to boom.

    This is also a deadly business. The heavy militarisation of Europe’s borders on land and at sea has led refugees and migrants to follow far more hazardous routes and has trapped others in desperate conditions in neighbouring countries like Libya. Many deaths are not recorded, but those that are tracked in the Mediterranean show that the proportion of those who drown trying to reach Europe continues to increase each year.

    This is not an inevitable state of affairs. It is both the result of policy decisions made by the EU and its member states, and corporate decisions to profit from these policies. In a rare principled stand, German razor wire manufacturer Mutanox in 2015 stated it would not sell its product to the Hungarian government arguing: ‘Razor wire is designed to prevent criminal acts, like a burglary. Fleeing children and adults are not criminals’. It is time for other European politicians and business leaders to recognise the same truth: that building walls against the world’s most vulnerable people violates human rights and is an immoral act that history will judge harshly. Thirty years after the fall of the Berlin Wall, it is time for Europe to bring down its new walls.

    https://www.tni.org/en/businessbuildingwalls

    #business #murs #barrières_frontalières #militarisation_des_frontières #visualisation #Europe #UE #EU #complexe_militaro-industriel #Airbus #Leonardo #Thales #Indra #Israel_Aerospace_Industries #Elbit #European_Security_Fencing #DAT-CON #Geo_Alpinbau #Dragados #Ferrovial, #Proyectos_Y_Tecnología_Sallén #Eulen #Patstroy_Bourgas #Infra_Expert #Patengineeringstroy #Geostroy_Engineering #Metallic-Ivan_Mihaylov #Nordecon #Defendec #DAK_Acélszerkezeti_Kft #SIA_Ceļu_būvniecības_sabiedrība_IGATE #Gintrėja #Minis #Legi-SGS #Groupe_CW #Jackson’s_Fencing #Sorhea #Vinci #Eurovia #Zaun_Ltd #Damen #Fincantieri #Frontex #Damen #Turquie #Instrument_contributing_to_Stability_and_Peace (#IcSP) #Libye #exernalisation #Operation_Sophia #Navantia #Naval_Group #Flensburger_Schiffbau-Gesellschaft #HDW #Lürssen_Gruppe #Motomarine_Shipyards #Panther_57 #Hellenic_Shipyards #Israel_Shipyards #Schiebel #Dornier #Operation_Hermes #CAE_Aviation #DEA_Aviation #EASP_Air #French_Dassault_Aviation #US_Lockheed_Martin #murs_virtuels #Sopra_Steria #Visa_Information_System (#VIS) #données #Schengen_Information_System (#SIS_II) #European_Dactyloscopy (#Eurodac) #GMV #Eurosur #HP_Belgium #Bull #3M_Belgium #Trusted_Borders_consortium #économie #biométrie #Integrated_System_of_External_Vigilance (#SIVE) #eu-LISA #Accenture #Atos_Belgium #Morpho #Idema #lobby #European_Organisation_for_Security (#EOS) #European_Biometrics_Association (#EAB) #Integrated_Border_Security_Working_Group #Giorgio_Gulienetti #Isto_Mattila #Peter_Smallridge #Gemalto #murs_terrestres #murs_maritimes #coût #chiffres #statistiques #Joint_Research_Centre_of_the_European_Commission #Mutanox #High-Altitude_Pseudo-Satellites (#HAPS)

    Pour télécharger le #rapport :


    https://www.tni.org/files/publication-downloads/business_of_building_walls_-_full_report.pdf

    déjà signalé par @odilon ici :
    https://seenthis.net/messages/809783
    Je le remets ici avec des mots clé de plus

    ping @daphne @marty @isskein @karine4

    • La costruzione di muri: un business

      Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa fa parlare di sé ancora una volta per i suoi muri di frontiera. Questa volta non è tanto l’ideologia che la divide, quanto la paura di rifugiati e migranti, alcune tra le persone più vulnerabili al mondo.

      Riassunto del rapporto «The Business of Building Walls» [1]:

      Chi ha ucciso il sogno di un’Europa più aperta? Cosa ha dato inizio a questa nuova era dei muri?
      Ci sono evidentemente molte ragioni: il crescente spostamento di persone a causa di conflitti, repressione e impoverimento, l’ascesa di politiche securitarie sulla scia dell’11 settembre, l’insicurezza economica e sociale percepita in Europa dopo la crisi finanziaria del 2008, solo per nominarne alcune. Tuttavia, c’è un gruppo che ha di gran lunga da guadagnare da questo innalzamento di nuovi muri: le imprese che li costruiscono. La loro influenza nel dare forma ad un mondo di muri necessita di un esame più profondo.

      Questo rapporto esplora il business della costruzione di muri, che è stato alimentato e ha beneficiato di un aumento considerevole della spesa pubblica dedicata alla sicurezza delle frontiere dall’Unione Europea (EU) e dai suoi Stati membri. Alcune imprese beneficiarie sono delle multinazionali che approfittano di un mercato globale per la sicurezza delle frontiere che si stima valere approssimativamente 17,5 miliardi di euro nel 2018, con una crescita annuale prevista almeno dell’8% nei prossimi anni.

      È importante guardare sia oltre che dietro i muri e le barriere d’Europa, perché i reali ostacoli alla migrazione contemporanea non sono tanto le recinzioni, quanto la vasta gamma di tecnologie che vi è alla base, dai sistemi radar ai droni, dalle telecamere di sorveglianza ai sistemi biometrici di rilevamento delle impronte digitali. Allo stesso modo, alcuni tra i più pericolosi muri d’Europa non sono nemmeno fisici o sulla terraferma. Le navi, gli aerei e i droni usati per pattugliare il Mediterraneo hanno creato un muro marittimo e un cimitero per i migliaia di migranti e di rifugiati che non hanno un passaggio legale verso la salvezza o per esercitare il loro diritto di asilo.

      Tutto ciò rende insignificanti le dichiarazioni della Commissione Europea secondo le quali essa non finanzierebbe i muri e le recinzioni. Il portavoce della Commissione, Alexander Winterstein, per esempio, nel rifiutare la richiesta dell’Ungheria di rimborsare la metà dei costi delle recinzioni costruite sul suo confine con la Croazia e la Serbia, ha affermato: “Noi sosteniamo le misure di gestione delle frontiere presso i confini esterni. Queste possono consistere in misure di sorveglianza o in equipaggiamento di controllo delle frontiere... . Ma le recinzioni, quelle non le finanziamo”. In altre parole, la Commissione è disposta a pagare per qualunque cosa che fortifichi un confine fintanto che ciò non sia visto come propriamente costruire dei muri.

      Questo rapporto è il seguito di “Building Walls - Fear and securitizazion in the Euopean Union”, co-pubblicato nel 2018 con Centre Delàs e Stop Wapenhandel, che per primi hanno misurato e identificato i muri che attraversano l’Europa.

      Questo nuovo rapporto si focalizza sulle imprese che hanno tratto profitto dai tre differenti tipi di muro in Europa:
      – Le imprese di costruzione ingaggiate per costruire i muri fisici costruiti dagli Stati membri UE e dall’Area Schengen in collaborazione con le imprese esperte in sicurezza e tecnologia che provvedono le tecnologie, l’equipaggiamento e i servizi associati;
      – le imprese di trasporto marittimo e di armamenti che forniscono le navi, gli aerei, gli elicotteri e i droni che costituiscono i muri marittimi dell’Europa per tentare di controllare i flussi migratori nel Mediterraneo, in particolare le operazioni di Frontex, l’operazione Sophia e l’operazione italiana Mare Nostrum;
      – e le imprese specializzate in informatica e in sicurezza incaricate di sviluppare, eseguire, estendere e mantenere i sistemi dell’UE che controllano i movimento delle persone, quali SIS II (Schengen Information System) e EES (Entry/Exii Scheme), che costituiscono i muri virtuali dell’Europa.
      Dei budget fiorenti

      Il flusso di denaro dai contribuenti ai costruttori di muri è stato estremamente lucrativo e non cessa di aumentare. Il report rivela che dalla fine della guerra fredda, le imprese hanno raccolto i profitti di almeno 900 milioni di euro di spese dei paesi dell’UE per i muri fisici e per le recinzioni. Con i dati parziali (sia nella portata e che negli anni), i costi reali raggiungerebbero almeno 1 miliardo di euro. Inoltre, le imprese che forniscono la tecnologia e i servizi che accompagnano i muri hanno ugualmente beneficiato di un flusso costante di finanziamenti da parte dell’UE, in particolare i Fondi per le frontiere esterne (1,7 miliardi di euro, 2007-2013) e i Fondi per la sicurezza interna - Fondi per le Frontiere (2,76 miliardi di euro, 2014-2020).

      Le spese dell’UE per i muri marittimi hanno raggiunto almeno 676,4 milioni di euro tra il 2006 e il 2017 (di cui 534 milioni sono stati spesi da Frontex, 28 milioni dall’UE nell’operazione Sophia e 114 milioni dall’Italia nell’operazione Mare Nostrum) e sarebbero molto superiori se si includessero tutte le operazioni delle guardie costiera nazionali nel Mediterraneo.

      Questa esplosione dei budget per le frontiere ha le condizioni per proseguire. Nel quadro del suo budget per il prossimo ciclo di bilancio dell’Unione Europea (2021-2027), la Commissione europea ha attribuito 8,02 miliardi di euro al suo fondo di gestione integrata delle frontiere (2021-2027), 11,27 miliardi a Frontex (dei quali 2,2 miliardi saranno utilizzati per l’acquisizione, il mantenimento e l’utilizzo di mezzi aerei, marittimi e terrestri) e almeno 1,9 miliardi di euro di spese totali (2000-2027) alle sue banche dati di identificazione e a Eurosur (il sistemo europeo di sorveglianza delle frontiere).
      I principali attori del settore degli armamenti

      Tre giganti europei del settore della difesa e della sicurezza giocano un ruolo cruciale nei differenti tipi di frontiere d’Europa: Thales, Leonardo e Airbus.

      – Thales è un’impresa francese specializzata negli armamenti e nella sicurezza, con una presenza significativa nei Paesi Bassi, che produce sistemi radar e sensori utilizzati da numerose navi della sicurezza frontaliera. I sistemi Thales, per esempio, sono stati utilizzati dalle navi olandesi e portoghesi impiegate nelle operazioni di Frontex.
      Thales produce ugualmente sistemi di sorveglianza marittima per droni e lavora attualmente per sviluppare una infrastruttura di sorveglianza delle frontiere per Eurosus, che permetta di seguire e controllare i rifugiati prima che raggiungano l’Europa con l’aiuto di applicazioni per Smartphone, e studia ugualmente l’utilizzo di “High Altitude Pseudo-Satellites - HAPS” per la sicurezza delle frontiere, per l’Agenzia spaziale europea e Frontex. Thales fornisce attualmente il sistema di sicurezza del porto altamente militarizzato di Calais.
      Con l’acquisto nel 2019 di Gemalto, multinazionale specializzata nella sicurezza e identità (biometrica), Thales diventa un attore importante nello sviluppo e nel mantenimento dei muri virtuali dell’UE. L’impresa ha partecipato a 27 progetti di ricerca dell’UE sulla sicurezza delle frontiere.

      – La società di armamenti italiana Leonardo (originariamente Finmeccanica o Leonardo-Finmeccanica) è uno dei principali fornitori di elicotteri per la sicurezza delle frontiere, utilizzati dalle operazioni Mare Nostrum, Hera e Sophia in Italia. Ha ugualmente fatto parte dei principali fornitori di UAV (o droni), ottenendo un contratto di 67,1 milioni di euro nel 2017 con l’EMSA (Agenzia europea per la sicurezza marittima) per fornire le agenzie di guardia costiera dell’UE.
      Leonardo faceva ugualmente parte di un consorzio che si è visto attribuire un contratto di 142,1 milioni di euro nel 2019 per attuare e assicurare il mantenimento dei muri virtuali dell’UE, ossia il Sistema di entrata/uscita (EES). La società detiene, con Thales, Telespazio, che partecipa ai progetti di osservazione dai satelliti dell’UE (React e Copernicus) utilizzati per controllare le frontiere. Leonardo ha partecipato a 24 progetti di ricerca dell’UE sulla sicurezza e il controllo delle frontiere, tra cui lo sviluppo di Eurosur.

      – Il gigante degli armamenti pan-europei Airbus è un importante fornitore di elicotteri utilizzati nella sorveglianza delle frontiere marittime e di alcune frontiere terrestri, impiegati da Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lituania e Spagna, in particolare nelle operazioni marittime Sophia, Poseidon e Triton. Airbus e le sue filiali hanno partecipato almeno a 13 progetti di ricerca sulla sicurezza delle frontiere finanziati dall’UE, tra cui OCEAN2020, PERSEUS e LOBOS.

      Il ruolo chiave di queste società di armamenti in realtà non è sorprendente. Come è stato dimostrato da “Border Wars” (2016), queste imprese, in quanto appartenenti a lobby come EOS (Organizzazione europea per la sicurezza) e ASD (Associazione delle industrie aerospaziali e della difesa in Europa), hanno ampiamente contribuito a influenzare l’orientamento della politica delle frontiere dell’UE. Paradossalmente, questi stessi marchi fanno ugualmente parte dei quattro più grandi venditori europei di armi al Medio Oriente e all’Africa del Nord, contribuendo così ad alimentare i conflitti all’origine di queste migrazioni forzate.

      Allo stesso modo Indra gioca un ruolo non indifferente nel controllo delle frontiere in Spagna e nel Mediterraneo. L’impresa ha ottenuto una serie di contratti per fortificare Ceuta e Melilla (enclavi spagnole nel Nord del Marocco). Indra ha ugualmente sviluppato il sistema di controllo delle frontiere SIVE (con sistemi radar, di sensori e visivi) che è installato nella maggior parte delle frontiere della Spagna, così come in Portogallo e in Romania. Nel luglio 2018, Indra ha ottenuto un contratto di 10 milioni di euro per assicurare la gestione di SIVE su più siti per due anni. L’impresa è molto attiva nel fare lobby presso l’UE. È ugualmente una dei grandi beneficiari dei finanziamenti per la ricerca dell’UE, che assicurano il coordinamento del progetto PERSEUS per lo sviluppo di Eurosur e il Seahorse Network, la rete di scambio di informazioni tra le forze di polizia dei paesi mediterranei (in Europa e in Africa) per fermare le migrazioni.

      Le società di armamenti israeliane hanno anch’esse ottenuto numerosi contratti nel quadro della sicurezza delle frontiere in UE. Nel 2018, Frontex ha selezionato il drone Heron delle Israel Aerospace Industries per i voli di sorveglianza degli esperimenti pilota nel Mediterraneo. Nel 2015, la società israeliana Elbit Systems ha venduto sei dei suoi droni Hermes al Corpo di guardie di frontiera svizzero, nel quadro di un contratto controverso di 230 milioni di euro. Ha anche firmato in seguito un contratto per droni con l’EMSA (Agenzia europea per la sicurezza marittima), in quanto subappaltatore della società portoghese CEIIA (2018), così come dei contratti per equipaggiare tre navi di pattugliamento per la Hellenic Coast Guard (2019).
      Gli appaltatori dei muri fisici

      La maggioranza di muri e recinzioni che sono stati rapidamente eretti attraverso l’Europa, sono stati costruiti da società di BTP nazionali/società nazionali di costruzioni, ma un’impresa europea ha dominato nel mercato: la European Security Fencing, un produttore spagnolo di filo spinato, in particolare di un filo a spirale chiamato “concertina”. È famosa per aver fornito i fili spinati delle recinzioni che circondano Ceuta e Melilla. L’impresa ha ugualmente dotato di fili spinati le frontiere tra l’Ungheria e la Serbia, e i suoi fili spinati “concertina” sono stati installati alle frontiere tra Bulgaria e Turchia e tra l’Austria e la Slovenia, così come a Calais e, per qualche giorno, alla frontiera tra Ungheria e Slovenia, prima di essere ritirati. Dato che essi detengono il monopolio sul mercato da un po’ di tempo a questa parte, è probabile che i fili spinati “concertina” siano stati utilizzati presso altre frontiere in Europa.

      Tra le altre imprese che hanno fornito i muri e le tecnologie ad essi associate, si trova DAT-CON (Croazia, Cipro, Macedonia, Moldavia, Slovenia e Ucraina), Geo Alpinbau (Austria/Slovenia), Indra, Dragados, Ferrovial, Proyectos Y Tecnología Sallén e Eulen (Spagna/Marocco), Patstroy Bourgas, Infra Expert, Patengineeringstroy, Geostroy Engineering, Metallic-Ivan Mihaylov et Indra (Bulgaria/Turchia), Nordecon e Defendec (Estonia/Russia), DAK Acélszerkezeti Kft e SIA Ceļu būvniecības sabiedrība IGATE (Lettonia/Russia), Gintrėja (Lituania/Russi), Minis e Legi-SGS (Slovenia/Croazia), Groupe CW, Jackson’s Fencing, Sorhea, Vinci/Eurovia e Zaun Ltd (Francia/Regno Unito).

      I costi reali dei muri e delle tecnologie associate superano spesso le stime originali. Numerose accuse e denunce per corruzione sono state allo stesso modo formulate, in certi casi perché i progetti erano stati attribuiti a delle imprese che appartenevano ad amici di alti funzionari. In Slovenia, per esempio, accuse di corruzione riguardanti un contratto per la costruzione di muri alle frontiere hanno portato a tre anni di battaglie legali per avere accesso ai documenti; la questione è passata poi alla Corte suprema.

      Malgrado tutto ciò, il Fondo europeo per le frontiere esterne ha sostenuto finanziariamente le infrastrutture e i servizi tecnologici di numerose operazioni alle frontiere degli Stati membri. In Macedonia, per esempio, l’UE ha versato 9 milioni di euro per finanziare dei veicoli di pattugliamento, delle telecamere a visione notturna, dei rivelatori di battito cardiaco e sostegno tecnico alle guardie di frontiera nell’aiuto della gestione della sua frontiera meridionale.
      Gli speculatori dei muri marittimi

      I dati che permettono di determinare quali imbarcazioni, elicotteri e aerei sono utilizzati nelle operazioni marittime in Europa mancano di trasparenza. È dunque difficile recuperare tutte le informazioni. Le nostre ricerche mostrano comunque che tra le principali società implicate figurano i giganti europei degli armamenti Airbus e Leonardo, così come grandi imprese di costruzione navale come l’olandese Damen e l’italiana Fincantieri.

      Le imbarcazioni di pattugliamento di Damen sono servite per delle operazioni frontaliere portate avanti da Albania, Belgio, Bulgaria, Portogallo, Paesi Bassi, Romania, Svezia e Regno Unito, così come per le vaste operazioni di Frontex (Poseidon, Triton e Themis), per l’operazione Sophia e hanno ugualmente sostento la NATO nell’operazione Poseidon.

      Al di fuori dell’Europa, la Libia, il Marocco, la Tunisia e la Turchia utilizzano delle imbarcazioni Damen per la sicurezza delle frontiere, spesso in collaborazione con l’UE o i suoi Stati membri. Per esempio, le sei navi Damen che la Turchia ha comprato per la sua guardia costiera nel 2006, per un totale di 20 milioni di euro, sono state finanziate attraverso lo strumento europeo che contribuirebbe alla stabilità e alla pace (IcSP), destinato a mantenere la pace e a prevenire i conflitti.

      La vendita di imbarcazioni Damen alla Libia mette in evidenza l’inquietante costo umano di questo commercio. Nel 2012, Damen ha fornito quattro imbarcazioni di pattugliamento alla guardia costiera libica, che sono state vendute come equipaggiamento civile col fine di evitare la licenza di esportazione di armi nei Paesi Bassi. I ricercatori hanno poi scoperto che non solo le imbarcazioni erano state vendute con dei punti di fissaggio per le armi, ma che erano state in seguito armate ed utilizzate per fermare le imbarcazioni di rifugiati. Numerosi incidenti che hanno implicato queste imbarcazioni sono stati segnalati, tra i quali l’annegamento di 20 o 30 rifugiati. Damen si è rifiutata di commentare, dichiarando di aver convenuto col governo libico di non divulgare alcuna informazione riguardante le imbarcazioni.

      Numerosi costruttori navali nazionali, oltre a Damen, giocano un ruolo determinante nelle operizioni marittime poiché sono sistematicamente scelti con priorità dai paesi partecipanti a ogni operazione di Frontex o ad altre operazioni nel Mediterraneo. Tutte le imbarcazioni fornite dall’Italia all’operazione Sophia sono state costruite da Fincantieri e tutte quelle spagnole sono fornite da Navantia e dai suoi predecessori. Allo stesso modo, la Francia si rifornisce da DCN/DCNS, ormai Naval Group, e tutte le imbarcazioni tedesche sono state costruite da diversi cantieri navali tedeschi (Flensburger Schiffbau-Gesellschaft, HDW, Lürssen Gruppe). Altre imprese hanno partecipato alle operazioni di Frontex, tra cui la società greca Motomarine Shipyards, che ha prodotto i pattugliatori rapidi Panther 57 utilizzati dalla guardia costiera greca, così come la Hellenic Shipyards e la Israel Shipyards.

      La società austriaca Schiebel, che fornisce i droni S-100, gioca un ruolo importante nella sorveglianza aerea delle attività marittime. Nel novembre 2018, è stata selezionata dall’EMSA per un contratto di sorveglianza marittima di 24 milioni di euro riguardante differenti operazioni che includevano la sicurezza delle frontiere. Dal 2017, Schiebel ha ugualmente ottenuto dei contratti con la Croazia, la Danimarca, l’Islanda, l’Italia, il Portogallo e la Spagna. L’impresa ha un passato controverso: ha venduto dei droni a numerosi paesi in conflitto armato o governati da regimi repressivi come la Libia, il Myanmar, gli Emirati Arabi Uniti e lo Yemen.

      La Finlandia e i Paesi Bassi hanno impiegato degli aerei Dornier rispettivamente nel quadro delle operazioni Hermès, Poseidon e Triton. Dornier appartiene ormai alla filiale americana della società di armamenti israeliana Elbit Systems.
      CAE Aviation (Lussemburgo), DEA Aviation (Regno Unito) e EASP Air (Paesi Bassi) hanno tutte ottenuto dei contratti di sorveglianza aerea per Frontex.
      Airbus, Dassault Aviation, Leonardo e l’americana Lockheed Martin hanno fornito il più grande numero di aerei utilizzati per l’operazione Sophia.

      L’UE e i suoi Stati membri difendono le loro operazioni marittime pubblicizzando il loro ruolo nel salvataggio dei rifugiati in mare. Ma non è questo il loro obiettivo principale, come sottolinea il direttore di Frontex Fabrice Leggeri nell’aprile 2015, dichiarando che “le azioni volontarie di ricerca e salvataggio” non fanno parte del mandato affidato a Frontex, e che salvare delle vite non dovrebbe essere una priorità. La criminalizzazione delle operazioni di salvataggio da parte delle ONG, gli ostacoli che esse incontrano, così come la violenza e i respingimenti illegali dei rifugiati, spesso denunciati, illustrano bene il fatto che queste operazioni marittime sono volte soprattutto a costituire muri piuttosto che missioni umanitarie.
      I muri virtuali

      I principali contratti dell’UE legati ai muri virtuali sono stati affidati a due imprese, a volte in quanto leader di un consorzio.
      Sopra Steria è il partner principale per lo sviluppo e il mantenimento del Sistema d’informazione dei visti (SIV), del Sistema di informazione Schengen (SIS II) e di Eurodac (European Dactyloscopy) e GMV ha firmato una serie di contratti per Eurosur. I sistemi che essi concepiscono permettono di controllare e di sorvegliare i movimenti delle persone attraverso l’Europa e, sempre più spesso, al di là delle sue frontiere.

      Sopra Steria è un’impresa francese di servizi per consultazioni in tecnologia che ha, ad oggi, ottenuto dei contratti con l’UE per un valore totale di più di 150 milioni di euro. Nel quadro di alcuni di questi grossi contratti, Sopra Steria ha formato dei consorzi con HP Belgio, Bull e 3M Belgio.

      Malgrado l’ampiezza di questi mercati, Sopra Steria ha ricevuto importanti critiche per la sua mancanza di rigore nel rispetto delle tempistiche e dei budget. Il lancio di SIS II è stato costantemente ritardato, costringendo la Commissione a prolungare i contratti e ad aumentare i budget. Sopra Steria aveva ugualmente fatto parte di un altro consorzio, Trusted Borders, impegnato nello sviluppo del programma e-Borders nel Regno Unito. Quest’ultimo è terminato nel 2010 dopo un accumulo di ritardi e di mancate consegne. Tuttavia, la società ha continuato a ottenere contratti, a causa del suo quasi monopolio di conoscenze e di relazioni con i rappresentanti dell’UE. Il ruolo centrale di Sopra Steria nello sviluppo dei sistemi biometrici dell’UE ha ugualmente portato alla firma di altri contratti nazionali con, tra gli altri, il Belgio, la Bulgaria, la Repubblica ceca, la Finlandia, la Francia, la Germania, la Romania e la Slovenia.

      GMV, un’impresa tecnologica spagnola, ha concluso una serie di grossi contratti per Eurosur, dopo la sua fase sperimentale nel 2010, per almeno 25 milioni di euro. Essa rifornisce ugualmente di tecnologie la Guardia Civil spagnola, tecnologie quali, ad esempio, i centri di controllo del suo Sistema integrato di sorveglianza esterna (SIVE), sistema di sicurezza delle frontiere, così come rifornisce di servizi di sviluppo logistico Frontex. L’impresa ha partecipato ad almeno dieci progetti di ricerca finanziati dall’UE sulla sicurezza delle frontiere.

      La maggior parte dei grossi contratti riguardanti i muri virtuali che non sono stati conclusi con consorzi di cui facesse parte Sopra Steria, sono stati attribuiti da eu-LISA (l’Agenzia europea per la gestione operazionale dei sistemi di informazione su vasta scale in seno allo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia) a dei consorzi di imprese specializzate nell’informazione e nelle nuove tecnologie, tra questi: Accenture, Atos Belgium e Morpho (rinominato Idemia).
      Lobby

      Come testimonia il nostro report “Border Wars”, il settore della difesa e della sicurezza, grazie ad una lobbying efficace, ha un’influenza considerabile nell’elaborazione delle politiche di difesa e di sicurezza dell’UE. Le imprese di questo settore industriale sono riuscite a posizionarsi come esperti della sicurezza delle frontiere, portando avanti il loro discorso secondo il quale la migrazione è prima di tutto una minaccia per la sicurezza che deve essere combattuta tramite mezzi militari e securitari. Questo crea così una domanda continua del catalogo sempre più fornito di equipaggiamenti e servizi che esse forniscono per la sicurezza e il controllo delle frontiere.

      Un numero alto di imprese che abbiamo nominato, in particolare le grandi società di armamenti, fanno parte dell’EOS (Organizzazione europea per la sicurezza), il più importante gruppo di pressione sulla sicurezza delle frontiere.

      Molte imprese informatiche che hanno concepito i muri virtuali dell’UE sono membri dell’EAB (Associazione Europea per la Biometria). L’EOS ha un “Gruppo di lavoro sulla sicurezza integrata delle frontiere” per “permettere lo sviluppo e l’adozione delle migliori soluzioni tecnologiche per la sicurezza delle frontiere sia ai checkpoint che lungo le frontiere marittime e terrestri”.
      Il gruppo di lavoro è presieduto da Giorgio Gulienetti, della società di armi italiana Leonardo, Isto Mattila (diplomato all’università di scienze applicate) e Peter Smallridge di Gemalto, multinazionale specializzata nella sicurezza numerica, recentemente acquisita da Thales.

      I lobbisti di imprese e i rappresentanti di questi gruppi di pressione incontrano regolarmente le istituzioni dell’UE, tra cui la Commissione europea, nel quadro di comitati di consiglio ufficiali, pubblicano proposte influenti, organizzano incontri tra il settore industriale, i policy-makers e i dirigenti e si ritrovano allo stesso modo in tutti i saloni, le conferenze e i seminari sulla difesa e la sicurezza.

      Airbus, Leonardo e Thales e l’EOS hanno anche assistito a 226 riunioni ufficiali di lobby con la Commissione europea tra il 2014 e il 2019. In queste riunioni, i rappresentanti del settore si presentano come esperti della sicurezza delle frontiere, e propongono i loro prodotti e servizi come soluzione alle “minacce alla sicurezza” costituite dall’immigrazione. Nel 2017, queste stesse imprese e l’EOS hanno speso fino a 2,56 milioni di euro in lobbying.

      Si constata una relazione simile per quanto riguarda i muri virtuali: il Centro comune della ricerca della Commissione europea domanda apertamente che le politiche pubbliche favoriscano “l’emergenza di una industria biometrica europea dinamica”.
      Un business mortale, una scelta

      La conclusione di questa inchiesta sul business dell’innalzamento di muri è chiara: la presenza di un’Europa piena di muri si rivela molto fruttuosa per una larga fetta di imprese del settore degli armamenti, della difesa, dell’informatica, del trasporto marittimo e delle imprese di costruzioni. I budget che l’UE ha pianificato per la sicurezza delle frontiere nei prossimi dieci anni mostrano che si tratta di un commercio che continua a prosperare.

      Si tratta altresì di un commercio mortale. A causa della vasta militarizzazione delle frontiere dell’Europa sulla terraferma e in mare, i rifugiati e i migranti intraprendono dei percorsi molto più pericolosi e alcuni si trovano anche intrappolati in terribili condizioni in paesi limitrofi come la Libia. Non vengono registrate tutte le morti, ma quelle che sono registrate nel Mediterraneo mostrano che il numero di migranti che annegano provando a raggiungere l’Europa continua ad aumentare ogni anno.

      Questo stato di cose non è inevitabile. È il risultato sia di decisioni politiche prese dall’UE e dai suoi Stati membri, sia dalle decisioni delle imprese di trarre profitto da queste politiche. Sono rare le imprese che prendono posizione, come il produttore tedesco di filo spinato Mutinox che ha dichiarato nel 2015 che non avrebbe venduto i suoi prodotti al governo ungherese per il seguente motivo: “I fili spinati sono concepiti per impedire atti criminali, come il furto. Dei rifugiati, bambini e adulti, non sono dei criminali”.

      È tempo che altri politici e capi d’impresa riconoscano questa stessa verità: erigere muri contro le popolazioni più vulnerabili viola i diritti umani e costituisce un atto immorale che sarà evidentemente condannato dalla storia.

      Trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, è tempo che l’Europa abbatta i suoi nuovi muri.

      https://www.meltingpot.org/La-costruzione-di-muri-un-business.html

    • How the arms industry drives Fortress Europe’s expansion

      In recent years, rising calls for deterrence have intensified the physical violence migrants face at the EU border. The externalization of the border through deals with sending and transit countries signals the expansion of this securitization process. Financial gains by international arms firms in this militarization trend form an obstacle for policy change.

      In March, April, and May of this year, multiple European countries deployed military forces to their national borders. This was done to assist with controls and patrols in the wake of border closures and other movement restrictions due to the Covid-19 crisis. Poland deployed 1,460 soldiers to the border to support the Border Guard and police as part of a larger military operation in reaction to Covid-19. And the Portuguese police used military drones as a complement to their land border checks. According to overviews from NATO, the Czech Republic, Greece, Latvia, Lithuania, the Netherlands (military police), Slovakia, and Slovenia all stationed armed forces at their national borders.

      While some of these deployments have been or will be rolled back as the Corona crisis dies down, they are not exceptional developments. Rather, using armed forces for border security and control has been a common occurrence at EU external borders since the so-called refugee crisis of 2015. They are part of the continuing militarisation of European border and migration policies, which is known to put refugees at risk but is increasingly being expanded to third party countries. Successful lobbying from the military and security industry has been an important driver for these policies, from which large European arms companies have benefited.

      The militarization of borders happens when EU member states send armies to border regions, as they did in Operation Sophia off the Libyan coast. This was the first outright EU military mission to stop migration. But border militarization also includes the use of military equipment for migration control, such as helicopters and patrol vessels, as well as the the EU-wide surveillance system Eurosur, which connects surveillance data from all individual member states. Furthermore, EU countries now have over 1,000 kilometers of walls and fences on their borders. These are rigged with surveillance, monitoring, and detection technologies, and accompanied by an increasing use of drones and other autonomous systems. The EU also funds a constant stream of Research & Technology (R&T) projects to develop new technologies and services to monitor and manage migration.

      This process has been going on for decades. The Schengen Agreement of 1985, and the subsequent creation of the Schengen Area, which coupled the opening of the internal EU borders with robust control at the external borders, can be seen as a starting point for these developments. After 2011, when the so-called ‘Arab Spring’ led to fears of mass migration to Europe, and especially since the ‘refugee crisis’ of 2015, the EU accelerated the boosting and militarising of border security, enormously. Since then, stopping migration has been at the top of the EU agenda.

      An increasingly important part of the process of border militarization isn’t happening at the European borders, but far beyond them. The EU and its member states are incentivizing third party countries to help stop migrants long before they reach Europe. This externalising of borders has taken many forms, from expanding the goals of EUCAP missions in Mali and Niger to include the prevention of irregular migration, to funding and training the Libyan Coast Guard to return refugees back to torture and starvation in the infamous detention centers in Libya. It also includes the donation of border security equipment, for example from Germany to Tunisia, and funding for purchases, such as Turkey’s acquisition of coast guard vessels to strengthen its operational capacities.

      Next to the direct consequences of European border externalisation efforts, these policies cause and worsen problems in the third party countries concerned: diverting development funds and priorities, ruining migration-based economies, and strengthening authoritarian regimes such as those in Chad, Belarus, Eritrea, and Sudan by providing funding, training and equipment to their military and security forces. Precisely these state organs are most responsible for repression and abuses of human rights. All this feeds drivers of migration, including violence, repression, and unemployment. As such, it is almost a guarantee for more refugees in the future.

      EU border security agency Frontex has also extended its operations into non-EU-countries. Ongoing negotiations and conclusions of agreements with Balkan countries resulted in the first operation in Albania having started in May 2019. And this is only a small part of Frontex’ expanding role in recent years. In response to the ‘refugee crisis’ of 2015, the European Commission launched a series of proposals that saw large increases in the powers of the agency, including giving member states binding advice to boost their border security, and giving Frontex the right to intervene in member states’ affairs (even without their consent) by decision of the Commission or Council.

      These proposals also included the creation of a 10,000 person strong standing corps of border guards and a budget to buy or lease its own equipment. Concretely, Frontex started with a budget of €6 million in 2005, which grew to €143 million in 2015. This was then quickly increased again from €239 million in 2016 to €460 million in 2020. The enormous expansion of EU border security and control has been accompanied by rapidly increasing budgets in general. In recent years, billions of euros have been spent on fortifying borders, setting up biometric databases, increasing surveillance capacities, and paying non-EU-countries to play their parts in this expansion process.

      Negotiations about the next seven-year-budget for the EU, the Multiannual Financial Framework 2021-2027, are still ongoing. In the European Commission’s latest proposal, which is clearly positioned as a response to the Covid-19 pandemic, the fund for strengthening member states’ border security, the Integrated Border Management Fund, has been allotted €12.5 billion. Its predecessors, the External Borders Fund (2007-2013) and the Internal Security Fund – Borders (2014-2020), had much smaller budgets: €1.76 billion and €2.70 billion, respectively. For Frontex, €7.5 billion is reserved, with €2.2 billion earmarked for purchasing or leasing equipment such as helicopters, drones, and patrol vessels. These huge budget increases are exemplary of the priority the EU attaches to stopping migration.

      The narrative underlying these policies and budget growths is the perception of migration as a threat; a security problem. As researcher, Ainhoa Ruiz (Centre Delàs) writes, “the securitisation process also includes militarisation,” because “the prevailing paradigm for providing security is based on military principles: the use of force and coercion, more weapons equating to more security, and the achievement of security by eliminating threats.”

      This narrative hasn’t come out of the blue. It is pushed by right wing politicians and often followed by centrist and leftist parties afraid of losing voters. Importantly, it is also promoted by an extensive and successful industrial lobby. According to Martin Lemberg-Pedersen (Assistant Professor in Global Refugee Studies, Aalborg University), arms companies “establish themselves as experts on border security, and use this position to frame immigration to Europe as leading to evermore security threats in need of evermore advanced [security] products.” The narrative of migration as a security problem thus sets the stage for militaries, and the security companies behind the commercial arms lobby, to offer their goods and services as the solution. The range of militarization policies mentioned so far reflects the broad adoption of this narrative.

      The lobby organizations of large European military and security companies regularly interact with the European Commission and EU border agencies. They have meetings, organise roundtables, and see each other at military and security fairs and conferences. Industry representatives also take part in official advisory groups, are invited to present new arms and technologies, and write policy proposals. These proposals can sometimes be so influential that they are adopted as policy, almost unamended.

      This happened, for instance, when the the Commission decided to open up the Instrument contributing to Security and Peace, a fund meant for peace-building and conflict prevention. The fund’s terms were expanded to cover provision of third party countries with non-lethal security equipment, for example, for border security purposes. The new policy document for this turned out to be a step-by-step reproduction of an earlier proposal from lobby organisation, Aerospace and Defence Industries Association of Europe (ASD). Yet, perhaps the most far-reaching success of this kind is the expansion of Frontex, itself, into a European Border Guard. Years before it actually happened, the industry had already been pushing for this outcome.

      The same companies that are at the forefront of the border security and control lobby are, not surprisingly, also the big winners of EU and member states’ contracts in these areas. These include three of the largest European (and global) arms companies, namely, Airbus (Paneuropean), Leonardo (Italy) and Thales (France). These companies are active in many aspects of the border security and control market. Airbus’ and Leonardo’s main product in this field are helicopters, with EU funds paying for many purchases by EU and third countries. Thales provides radar, for example, for border patrol vessels, and is heavily involved in biometric and digital identification, especially after having acquired market leader, Gemalto, last year.

      These three companies are the main beneficiaries of the European anti-migration obsession. At the same time, these very three companies also contribute to new migration streams to Europe’s shores through their trade in arms. They are responsible for significant parts of Europe’s arms exports to countries at war, and they provide the arms used by parties in internal armed conflicts, by human rights violators, and by repressive regimes. These are the forces fueling the reasons for which people are forced to flee in the first place.

      Many other military and security companies also earn up to hundreds of millions of euros from large border security and control projects oriented around logistics and transport. Dutch shipbuilder Damen provided not only many southern European countries with border patrol vessels, but also controversially sold those to Libya and Turkey, among others. Its ships have also been used in Frontex operations, in Operation Sophia, and on the Channel between Calais and Dover.

      The Spanish company, European Security Fencing, provided razor wire for the fences around the Spanish enclaves, Ceuta and Melilla, in Morocco, as well as the fence at Calais and the fences on the borders of Austria, Bulgaria, and Hungary. Frontex, the European Maritime Safety Agency (EMSA), and Greece leased border surveillance drones from Elbit and Israel Aerospace Industries (IAI). These are Israeli military companies that routinely promote their products as ‘combat-proven’ or ‘battlefield tested’ against Palestinians.

      Civipol, a French public-private company owned by the state, and several large arms producers (including Thales, Airbus, and Safran), run a string of EU-/member state-funded border security projects in third party countries. This includes setting up fingerprint databases of the whole populations of Mali and Senegal, which facilitates identification and deportation of their nationals from Europe. These are just a few examples of the companies that benefit from the billions of euros that the EU and its member states spend on a broad range of purchases and projects in their bid to stop migration.

      The numbers of forcibly displaced people in the world grew to a staggering 79.5 million by the end of last year. Instead of helping to eliminate the root causes of migration, EU border and migration policies, as well as its arms exports to the rest of the world, are bound to lead to more refugees in the future. The consequences of these policies have already been devastating. As experts in the field of migration have repeatedly warned, the militarisation of borders primarily pushes migrants to take alternative migration routes that are often more dangerous and involve the risks of relying on criminal smuggling networks. The Mediterranean Sea has become a sad witness of this, turning into a graveyard for a growing percentage of refugees trying to cross it.

      The EU approach to border security doesn’t stand on its own. Many other countries, in particular Western ones and those with authoritarian leaders, follow the same narrative and policies. Governments all over the world, but particularly those in the US, Australia, and Europe, continue to spend billions of euros on border security and control equipment and services. And they plan to increase budgets even more in the coming years. For military and security companies, this is good news; the global border security market is expected to grow by over 7% annually for the next five years to a total of $65 billion in 2025. It looks like they will belong to the very few winners of increasingly restrictive policies targeting vulnerable people on the run.

      https://crisismag.net/2020/06/27/how-the-arms-industry-drives-fortress-europes-expansion
      #industrie_militaire #covid-19 #coronavirus #frontières_extérieures #Operation_Sophia #Eurosur #surveillance #drones #technologie #EUCAP #externalisation #Albanie #budget #Integrated_Border_Management_Fund #menace #lobby_industriel #Instrument_contributing_to_Security_and_Peace #conflits #paix #prévention_de_conflits #Aerospace_and_Defence_Industries_Association_of_Europe (#ASD) #Airbus #Leonardo #Thales #hélicoptères #radar #biométrie #identification_digitale #Gemalto #commerce_d'armes #armement #Damen #European_Security_Fencing #barbelé #European_Maritime_Safety_Agency (#EMSA) #Elbit #Israel_Aerospace_Industries (#IAI) #Civipol #Safran #base_de_données

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      Pour @etraces :

      Civipol, a French public-private company owned by the state, and several large arms producers (including Thales, Airbus, and Safran), run a string of EU-/member state-funded border security projects in third party countries. This includes setting up fingerprint databases of the whole populations of Mali and Senegal, which facilitates identification and deportation of their nationals from Europe

    • GUARDING THE FORTRESS. The role of Frontex in the militarisation and securitisation of migration flows in the European Union

      The report focuses on 19 Frontex operations run by the European Border and Coast Guard Agency (hereafter Frontex) to explore how the agency is militarising borders and criminalising migrants, undermining fundamental rights to freedom of movement and the right to asylum.

      This report is set in a wider context in which more than 70.8 million people worldwide have been forcibly displaced, according to the 2018 figures from the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) (UNHCR, 2019). Some of these have reached the borders of the European Union (EU), seeking protection and asylum, but instead have encountered policy responses that mostly aim to halt and intercept migration flows, against the background of securitisation policies in which the governments of EU Member States see migration as a threat. One of the responses to address migration flows is the European Border and Coast Guard Agency (hereafter Frontex), established in 2004 as the EU body in charge of guarding what many have called ‘Fortress Europe’, and whose practices have helped to consolidate the criminalisation of migrants and the securitisation of their movements.

      The report focuses on analysing the tools deployed by Fortress Europe, in this case through Frontex, to prevent the freedom of movement and the right to asylum, from its creation in 2004 to the present day.

      The sources used to write this report were from the EU and Frontex, based on its budgets and annual reports. The analysis focused on the Frontex regulations, the language used and its meaning, as well as the budgetary trends, identifying the most significant items – namely, the joint operations and migrant-return operations.

      A table was compiled of all the joint operations mentioned in the annual reports since the Agency was established in 2005 up to 2018 (see annexes). The joint operations were found on government websites but were not mentioned in the Frontex annual reports. Of these operations, we analysed those of the longest duration, or that have showed recent signs of becoming long-term operations. The joint operations are analysed in terms of their objectives, area of action, the mandates of the personnel deployed, and their most noteworthy characteristics.

      Basically, the research sought to answer the following questions: What policies are being implemented in border areas and in what context? How does Frontex act in response to migration movements? A second objective was to analyse how Frontex securitises the movement of refugees and other migrants, with the aim of contributing to the analysis of the process of border militarisation and the security policies applied to non-EU migrants by the EU and its Member States.

      https://www.tni.org/en/guarding-the-fortress

      Pour télécharger le rapport_
      https://www.tni.org/files/publication-downloads/informe40_eng_ok.pdf

      #rapport #TNI #Transnational_institute

    • #Frontex aircraft : Below the radar against international law

      For three years, Frontex has been chartering small aircraft for the surveillance of the EU’s external borders. First Italy was thus supported, then Croatia followed. Frontex keeps the planes details secret, and the companies also switch off the transponders for position display during operations.

      The European Commission does not want to make public which private surveillance planes Frontex uses in the Mediterranean. In the non-public answer to a parliamentary question, the EU border agency writes that the information on the aircraft is „commercially confidential“ as it contains „personal data and sensitive operational information“.

      Frontex offers EU member states the option of monitoring their external borders using aircraft. For this „Frontex Aerial Surveillance Service“ (FASS), Frontex charters twin-engined airplanes from European companies. Italy first made use of the service in 2017, followed a year later by Croatia. In 2018, Frontex carried out at least 1,800 flight hours under the FASS, no figures are yet available for 2019.

      Air service to be supplemented with #drones

      The FASS flights are carried out under the umbrella of „Multipurpose Aerial Surveillance“, which includes satellite surveillance as well as drones. Before the end of this year, the border agency plans to station large drones in the Mediterranean for up to four years. The situation pictures of the European Union’s „pre-frontier area“ are fed into the surveillance system EUROSUR, whose headquarter is located at Frontex in Warsaw. The national EUROSUR contact points, for example in Spain, Portugal and Italy, also receive this information.

      In addition to private charter planes, Frontex also uses aircraft and helicopters provided by EU Member States, in the central Mediterranean via the „Themis“ mission. The EU Commission also keeps the call signs of the state aircraft operating there secret. They would be considered „sensitive operational information“ and could not be disclosed to MEPs.

      Previously, the FOIA platform „Frag den Staat“ („Ask the State“) had also tried to find out details about the sea and air capacities of the member states in „Themis“. Frontex refused to provide any information on this matter. „Frag den Staat“ lost a case against Frontex before the European Court of Justice and is now to pay 23,700 Euros to the agency for legal fees.

      Real-time tracking with FlightAware

      The confidentiality of Frontex comes as a surprise, because companies that monitor the Mediterranean for the agency are known through a tender. Frontex has signed framework contracts with the Spanish arms group Indra as well as the charter companies CAE Aviation (Canada), Diamond-Executive Aviation (Great Britain) and EASP Air (Netherlands). Frontex is spending up to 14.5 million euros each on the contracts.

      Finally, online service providers such as FlightAware can also be used to draw conclusions about which private and state airplanes are flying for Frontex in the Mediterranean. For real-time positioning, the providers use data from ADS-B transponders, which all larger aircraft must have installed. A worldwide community of non-commercial trackers receives this geodata and feeds it into the Internet. In this way, for example, Italian journalist Sergio Scandura documents practically all movements of Frontex aerial assets in the central Mediterranean.

      Among the aircraft tracked this way are the twin-engined „DA-42“, „DA-62“ and „Beech 350“ of Diamond-Executive Aviation, which patrol the Mediterranean Sea on behalf of Frontex as „Osprey1“, „Osprey3“ and „Tasty“, in former times also „Osprey2“ and „Eagle1“. They are all operated by Diamond-Executive Aviation and take off and land at airports in Malta and Sicily.

      „Push-backs“ become „pull-backs“

      In accordance with the Geneva Convention on Refugees, the EU Border Agency may not return people to states where they are at risk of torture or other serious human rights violations. Libya is not a safe haven; this assessment has been reiterated on several occasions by the United Nations Commissioner for Refugees, among others.

      Because these „push-backs“ are prohibited, Frontex has since 2017 been helping with so-called „pull-backs“ by bringing refugees back to Libya by the Libyan coast guard rather than by EU units. With the „Multipurpose Aerial Surveillance“, Frontex is de facto conducting air reconnaissance for Libya. By November 2019, the EU border agency had notified Libyan authorities about refugee boats on the high seas in at least 42 cases.

      Many international law experts consider this practice illegal. Since Libya would not be able to track down the refugees without the help of Frontex, the agency must take responsibility for the refoulements. The lawyers Omer Shatz and Juan Branco therefore want to sue responsibles of the European Union before the International Criminal Court in The Hague.

      Frontex watches refugees drown

      This is probably the reason why Frontex disguises the exact location of its air surveillance. Private maritime rescue organisations have repeatedly pointed out that Frontex aircrafts occasionally switch off their transponders so that they cannot be tracked via ADS-B. In the answer now available, this is confirmed by the EU Commission. According to this, the visibility of the aircraft would disclose „sensitive operational information“ and, in combination with other kinds of information, „undermine“ the operational objectives.

      The German Ministry of the Interior had already made similar comments on the Federal Police’s assets in Frontex missions, according to which „general tracking“ of their routes in real time would „endanger the success of the mission“.

      However, Frontex claims it did not issue instructions to online service providers to block the real-time position display of its planes, as journalist Scandura described. Nonetheless, the existing concealment of the operations only allows the conclusion that Frontex does not want to be controlled when the deployed aircraft watch refugees drown and Italy and Malta, as neighbouring EU member states, do not provide any assistance.

      https://digit.site36.net/2020/06/11/frontex-aircraft-blind-flight-against-international-law
      #avions #Italie #Croatie #confidentialité #transparence #Frontex_Aerial_Surveillance_Service (#FASS) #Multipurpose_Aerial_Surveillance #satellites #Méditerranée #Thermis #information_sensible #Indra #CAE_Aviation #Diamond-Executive_Aviation #EASP_Air #FlightAware #ADS-B #DA-42 #DA-62 #Beech_350 #Osprey1 #Osprey3 #Tasty #Osprey2 #Eagle1 #Malte #Sicile #pull-back #push-back #refoulement #Sergio_Scandura

    • Walls Must Fall: Ending the deadly politics of border militarisation - webinar recording
      This webinar explored the trajectory and globalization of border militarization and anti-migrant racism across the world, the history, ideologies and actors that have shaped it, the pillars and policies that underpin the border industrial complex, the resistance of migrants, refugees and activists, and the shifting dynamics within this pandemic.

      - #Harsha_Walia, author of Undoing Border Imperialism (2013)
      - #Jille_Belisario, Transnational Migrant Platform-Europe (TMP-E)
      - #Todd_Miller, author of Empire of Borders (2020), Storming the Wall (2019) and TNI’s report More than A Wall (2019)
      - #Kavita_Krishnan, All India Progressive Women’s Association (AIPWA).
      https://www.tni.org/en/article/walls-must-fall
      https://www.youtube.com/watch?v=T8B-cJ2bTi8&feature=emb_logo

      #conférence #webinar

    • Le business meurtrier des frontières

      Le 21ème siècle sera-t-il celui des barrières ? Probable, au rythme où les frontières nationales se renforcent. Dans un livre riche et documenté, publié aux éditions Syllepse, le géographe Stéphane Rosière dresse un indispensable état des lieux.

      Une nuit du mois de juin, dans un centre de rétention de l’île de Rhodes, la police grecque vient chercher une vingtaine de migrant·e·s, dont deux bébés. Après un trajet en bus, elle abandonne le groupe dans un canot de sauvetage sans moteur, au milieu des eaux territoriales turques. En août, le New York Times publie une enquête révélant que cette pratique, avec la combinaison de l’arrivée aux affaires du premier ministre conservateur Kyriakos Mitsotakis et de la diffusion de la pandémie de Covid-19, est devenue courante depuis mars.

      Illégales au regard du droit international, ces expulsions illustrent surtout le durcissement constant de la politique migratoire de l’Europe depuis 20 ans. Elles témoignent aussi d’un processus mondial de « pixellisation » des frontières : celles-ci ne se réduisent pas à des lignes mais à un ensemble de points plus ou moins en amont ou en aval (ports, aéroports, eaux territoriales…), où opèrent les polices frontalières.
      La fin de la fin des frontières

      Plus largement, le récent ouvrage de Stéphane Rosière, Frontières de fer, le cloisonnement du monde, permet de prendre la mesure d’un processus en cours de « rebordering » à travers le monde. À la fois synthèse des recherches récentes sur les frontières et résultats des travaux de l’auteur sur la résurgence de barrières frontalières, le livre est une lecture incontournable sur l’évolution contemporaine des frontières nationales.

      D’autant qu’il n’y a pas si longtemps, la mondialisation semblait promettre l’affaissement des frontières, dans la foulée de la disparition de l’Union soviétique et, corollairement, de la généralisation de l’économie de marché. La Guerre froide terminée annonçait la « fin de l’histoire » et, avec elle, la disparition des limites territoriales héritées de l’époque moderne. Au point de ringardiser, rappelle Stéphane Rosière, les études sur les frontières au sein de la géographie des années 1990, parallèlement au succès d’une valorisation tous azimuts de la mobilité dans le discours politique dominant comme dans les sciences sociales.

      Trente ans après, le monde se réveille avec 25 000 kilomètres de barrières frontalières – record pour l’Inde, avec plus de 3 000 kilomètres de clôtures pour prévenir l’immigration depuis le Bangladesh. Barbelés, murs de briques, caméras, détecteurs de mouvements, grilles électrifiées, les dispositifs de contrôle frontalier fleurissent en continu sur les cinq continents.
      L’âge des « murs anti-pauvres »

      La contradiction n’est qu’apparente. Les barrières du 21e siècle ne ferment pas les frontières mais les cloisonnent – d’où le titre du livre. C’est-à-dire que l’objectif n’est pas de supprimer les flux mondialisés – de personnes et encore moins de marchandises ni de capitaux – mais de les contrôler. Les « teichopolitiques », terme qui recouvre, pour Stéphane Rosière, les politiques de cloisonnement de l’espace, matérialisent un « ordre mondial asymétrique et coercitif », dans lequel on valorise la mobilité des plus riches tout en assignant les populations pauvres à résidence.

      De fait, on observe que les barrières frontalières redoublent des discontinuités économiques majeures. Derrière l’argument de la sécurité, elles visent à contenir les mouvements migratoires des régions les plus pauvres vers des pays mieux lotis économiquement : du Mexique vers les États-Unis, bien sûr, ou de l’Afrique vers l’Europe, mais aussi de l’Irak vers l’Arabie Saoudite ou du Pakistan vers l’Iran.

      Les dispositifs de contrôle frontalier sont des outils parmi d’autres d’une « implacable hiérarchisation » des individus en fonction de leur nationalité. Comme l’a montré le géographe Matthew Sparke à propos de la politique migratoire nord-américaine, la population mondiale se trouve divisée entre une classe hypermobile de citoyen·ne·s « business-class » et une masse entravée de citoyen·ne·s « low-cost ». C’est le sens du « passport index » publié chaque année par le cabinet Henley : alors qu’un passeport japonais ou allemand donne accès à plus de 150 pays, ce chiffre descend en-dessous de 30 avec un passeport afghan ou syrien.
      Le business des barrières

      Si les frontières revêtent une dimension économique, c’est aussi parce qu’elles sont un marché juteux. À l’heure où les pays européens ferment des lits d’hôpital faute de moyens, on retiendra ce chiffre ahurissant : entre 2005 et 2016, le budget de Frontex, l’agence en charge du contrôle des frontières de l’Union européenne, est passé de 6,3 à 238,7 millions d’euros. À quoi s’ajoutent les budgets colossaux débloqués pour construire et entretenir les barrières – budgets entourés d’opacité et sur lesquels, témoigne l’auteur, il est particulièrement difficile d’enquêter, faute d’obtenir… des fonds publics.

      L’argent public alimente ainsi une « teichoéconomie » dont les principaux bénéficiaires sont des entreprises du BTP et de la sécurité européennes, nord-américaines, israéliennes et, de plus en plus, indiennes ou saoudiennes. Ce complexe sécuritaro-industriel, identifié par Julien Saada, commercialise des dispositifs de surveillance toujours plus sophistiqués et prospère au rythme de l’inflation de barrières entre pays, mais aussi entre quartiers urbains.

      Un business d’autant plus florissant qu’il s’auto-entretient, dès lors que les mêmes entreprises vendent des armes. On sait que les ventes d’armes, alimentant les guerres, stimulent les migrations : un « cercle vertueux » s’enclenche pour les entreprises du secteur, appelées à la rescousse pour contenir des mouvements de population qu’elles participent à encourager.
      « Mourir aux frontières »

      Bénéfices juteux, profits politiques, les barrières font des heureux. Elles tuent aussi et l’ouvrage de Stéphane Rosière se termine sur un décompte macabre. C’est, dit-il, une « guerre migratoire » qui est en cours. Guerre asymétrique, elle oppose la police armée des puissances économiques à des groupes le plus souvent désarmés, venant de périphéries dominées économiquement et dont on entend contrôler la mobilité. Au nom de la souveraineté des États, cette guerre fait plusieurs milliers de victimes par an et la moindre des choses est de « prendre la pleine mesure de la létalité contemporaine aux frontières ».

      Sur le blog :

      – Une synthèse sur les murs frontaliers : http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2019/01/28/lamour-des-murs

      – Le compte rendu d’un autre livre incontournable sur les frontières : http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2019/08/03/frontieres-en-mouvement

      – Une synthèse sur les barricades à l’échelle intraurbaine : http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2020/10/21/gated-communities-le-paradis-entre-quatre-murs

      http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2020/11/05/le-business-meurtrier-des-frontieres

    • How Private Security Firms Profit Off the Refugee Crisis

      The UK has pumped money to corporations turning #Calais into a bleak fortress.

      Tall white fences lined with barbed wire – welcome to Calais. The city in northern France is an obligatory stop for anyone trying to reach the UK across the channel. But some travellers are more welcome than others, and in recent decades, a slew of private security companies have profited millions of pounds off a very expensive – an unattractive – operation to keep migrants from crossing.

      Every year, thousands of passengers and lorries take the ferry at the Port of Calais-Fréthun, a trading route heavily relied upon by the UK for imports. But the entrance to the port looks more like a maximum-security prison than your typical EU border. Even before Brexit, the UK was never part of the Schengen area, which allows EU residents to move freely across 26 countries. For decades, Britain has strictly controlled its southern border in an attempt to stop migrants and asylum seekers from entering.

      As early as 2000, the Port of Calais was surrounded by a 2.8 metre-high fence to prevent people from jumping into lorries waiting at the ferry departure point. In 1999, the Red Cross set up a refugee camp in the nearby town of Sangatte which quickly became overcrowded. The UK pushed for it to be closed in 2002 and then negotiated a treaty with France to regulate migration between the two countries.

      The 2003 Le Toquet Treaty allowed the UK to check travellers on French soil before their arrival, and France to do the same on UK soil. Although the deal looks fair on paper, in practice it unduly burdens French authorities, as there are more unauthorised migrants trying to reach the UK from France than vice versa.

      The treaty effectively moved the UK border onto French territory, but people still need to cross the channel to request asylum. That’s why thousands of refugees from conflict zones like Syria, Eritrea, Afghanistan, Sudan and Somalia have found themselves stranded in Calais, waiting for a chance to cross illegally – often in search of family members who’ve already made it to the UK. Many end up paying people smugglers to hide them in lorries or help them cross by boat.

      These underlying issues came to a head during the Syrian crisis, when refugees began camping out near Calais in 2014. The so-called Calais Jungle became infamous for its squalid conditions, and at its peak, hosted more than 7,000 people. They were all relocated to other centres in France before the camp was bulldozed in 2016. That same year, the UK also decided to build a €2.7 million border wall in Calais to block access to the port from the camp, but the project wasn’t completed until after the camp was cleared, attracting a fair deal of criticism. Between 2015 and 2018, the UK spent over €110 million on border security in France, only to top it up with over €56 million more in 2018.

      But much of this public money actually flows into the accounts of private corporations, hired to build and maintain the high-tech fences and conduct security checks. According to a 2020 report by the NGO Care4Calais, there are more than 40 private security companies working in the city. One of the biggest, Eamus Cork Solutions (ECS), was founded by a former Calais police officer in 2004 and is reported to have benefited at least €30 million from various contracts as of 2016.

      Stéphane Rosière, a geography professor at the University of Reims, wrote his book Iron Borders (only available in French) about the many border walls erected around the world. Rosière calls this the “security-industrial” complex – private firms that have largely replaced the traditional military-industrial sector in Europe since WW2.

      “These companies are getting rich by making security systems adaptable to all types of customers – individuals, companies or states,” he said. According to Rosière, three-quarters of the world’s border security barriers were built in the 21st century.

      Brigitte, a pensioner living close to the former site of the Calais Jungle, has seen her town change drastically over the past two decades. “Everything is cordoned off with wire mesh," she said. "I have the before and after photos, and it’s not a pretty sight. It’s just wire, wire, wire.” For the past 15 years, Brigitte has been opening her garage door for asylum seekers to stop by for a cup of tea and charge their phones and laptops, earning her the nickname "Mama Charge”.

      “For a while, the purpose of these fences and barriers was to stop people from crossing,” said François Guennoc, president of L’Auberge des Migrants, an NGO helping displaced migrants in Calais.

      Migrants have still been desperate enough to try their luck. “They risked a lot to get into the port area, and many of them came back bruised and battered,” Guennoc said. Today, walls and fences are mainly being built to deter people from settling in new camps near Calais after being evicted.

      In the city centre, all public squares have been fenced off. The city’s bridges have been fitted with blue lights and even with randomly-placed bike racks, so people won’t sleep under them.

      “They’ve also been cutting down trees for some time now,” said Brigitte, pointing to a patch near her home that was once woods. Guennoc said the authorities are now placing large rocks in areas where NGOs distribute meals and warm clothes, to prevent displaced people from receiving the donations. “The objective of the measures now is also to make the NGOs’ work more difficult,” he said.

      According to the NGO Refugee Rights Europe, about 1,500 men, women and minors were living in makeshift camps in and around Calais as of April 2020. In July 2020, French police raided a camp of over 500 people, destroying residents’ tents and belongings, in the largest operation since the Calais Jungle was cleared. An investigation by Slate found that smaller camps are cleared almost every day by the French police, even in the middle of winter. NGOs keep providing new tents and basic necessities to displaced residents, but they are frustrated by the waste of resources. The organisations are also concerned about COVID-19 outbreaks in the camps.

      As VICE World News has previously reported, the crackdown is only pushing people to take more desperate measures to get into the UK. Boat crossings reached record-highs in 2020, and four people have died since August 2020 while trying to cross, by land and sea. “When you create an obstacle, people find a way to get around it,” Guennoc said. “If they build a wall all the way along the coast to prevent boat departures, people will go to Normandy – and that has already started.” Crossing the open sea puts migrants at even greater risk.

      Rosière agrees security measures are only further endangering migrants.“All locks eventually open, no matter how complex they may be. It’s just a matter of time.”

      He believes the only parties who stand to profit from the status quo are criminal organisations and private security firms: “At the end of the day, this a messed-up use of public money.”

      https://www.vice.com/en/article/wx8yax/how-private-security-firms-profit-off-the-refugee-crisis

      En français:
      À Calais, la ville s’emmure
      https://www.vice.com/fr/article/wx8yax/a-calais-la-ville-semmure

    • Financing Border Wars. The border industry, its financiers and human rights

      This report seeks to explore and highlight the extent of today’s global border security industry, by focusing on the most important geographical markets—Australia, Europe, USA—listing the human rights violations and risks involved in each sector of the industry, profiling important corporate players and putting a spotlight on the key investors in each company.

      Executive summary

      Migration will be one of the defining human rights issues of the 21st century. The growing pressures to migrate combined with the increasingly militarised state security response will only exacerbate an already desperate situation for refugees and migrants. Refugees already live in a world where human rights are systematically denied. So as the climate crisis deepens and intersects with other economic and political crises, forcing more people from their homes, and as states retreat to ever more authoritarian security-based responses, the situation for upholding and supporting migrants’ rights looks ever bleaker.

      States, most of all those in the richest countries, bear the ultimate responsibility to uphold the human rights of refugees and migrants recognised under International Human Rights Law. Yet corporations are also deeply implicated. It is their finance, their products, their services, their infrastructure that underpins the structures of state migration and border control. In some cases, they are directly involved in human rights violations themselves; in other cases they are indirectly involved as they facilitate the system that systematically denies refugees and migrants their rights. Most of all, through their lobbying, involvement in government ‘expert’ groups, revolving doors with state agencies, it becomes clear that corporations are not just accidental beneficiaries of the militarisation of borders. Rather they actively shape the policies from which they profit and therefore share responsibility for the human rights violations that result.

      This state-corporate fusion is best described as a Border Industrial Complex, drawing on former US President Eisenhower’s warning of the dangers of a Military-Industrial Complex. Indeed it is noticeable that many of the leading border industries today are also military companies, seeking to diversify their security products to a rapidly expanding new market.

      This report seeks to explore and highlight the extent of today’s global border security industry, by focusing on the most important geographical markets—Australia, Europe, USA—listing the human rights violations and risks involved in each sector of the industry, profiling important corporate players and putting a spotlight on the key investors in each company.
      A booming industry

      The border industry is experiencing spectacular growth, seemingly immune to austerity or economic downturns. Market research agencies predict annual growth of the border security market of between 7.2% and 8.6%, reaching a total of $65–68 billion by 2025. The largest expansion is in the global Biometrics and Artificial Intelligence (AI) markets. Markets and Markets forecasts the biometric systems market to double from $33 billion in 2019 to $65.3 billion by 2024—of which biometrics for migration purposes will be a significant sector. It says that the AI market will equal US$190.61 billion by 2025.

      The report investigates five key sectors of the expanding industry: border security (including monitoring, surveillance, walls and fences), biometrics and smart borders, migrant detention, deportation, and audit and consultancy services. From these sectors, it profiles 23 corporations as significant actors: Accenture, Airbus, Booz Allen Hamilton, Classic Air Charter, Cobham, CoreCivic, Deloitte, Elbit, Eurasylum, G4S, GEO Group, IBM, IDEMIA, Leonardo, Lockheed Martin, Mitie, Palantir, PricewaterhouseCoopers, Serco, Sopra Steria, Thales, Thomson Reuters, Unisys.

      – The border security and control field, the technological infrastructure of security and surveillance at the border, is led by US, Australian, European and Israeli firms including Airbus, Elbit, Leonardo, Lockheed Martin, Airbus, Leonardo and Thales— all of which are among the world’s major arms sellers. They benefit not only from border contracts within the EU, US, and Australia but also increasingly from border externalisation programmes funded by these same countries. Jean Pierre Talamoni, head of sales and marketing at Airbus Defence and Space (ADS), said in 2016 that he estimates that two thirds of new military market opportunities over the next 10 years will be in Asia and the Middle East and North Africa (MENA) region. Companies are also trying to muscle in on providing the personnel to staff these walls, including border guards.

      - The Smart Borders sector encompasses the use of a broad range of (newer) technologies, including biometrics (such as fingerprints and iris-scans), AI and phone and social media tracking. The goal is to speed up processes for national citizens and other acceptable travellers and stop or deport unwanted migrants through the use of more sophisticated IT and biometric systems. Key corporations include large IT companies, such as IBM and Unisys, and multinational services company Accenture for whom migration is part of their extensive portfolio, as well as small firms, such as IDEMIA and Palantir Technologies, for whom migration-related work is central. The French public–private company Civipol, co-owned by the state and several large French arms companies, is another key player, selected to set up fingerprint databases of the whole population of Mali and Senegal.

      – Deportation. With the exception of the UK and the US, it is uncommon to privatise deportation. The UK has hired British company Mitie for its whole deportation process, while Classic Air Charter dominates in the US. Almost all major commercial airlines, however, are also involved in deportations. Newsweek reported, for example, that in the US, 93% of the 1,386 ICE deportation flights to Latin American countries on commercial airlines in 2019 were facilitated by United Airlines (677), American Airlines (345) and Delta Airlines (266).

      - Detention. The Global Detention Project lists over 1,350 migrant detention centres worldwide, of which over 400 are located in Europe, almost 200 in the US and nine in Australia. In many EU countries, the state manages detention centres, while in other countries (e.g. Australia, UK, USA) there are completely privatised prisons. Many other countries have a mix of public and private involvement, such as state facilities with private guards. Australia outsourced refugee detention to camps outside its territories. Australian service companies Broadspectrum and Canstruct International managed the detention centres, while the private security companies G4S, Paladin Solutions and Wilson Security were contracted for security services, including providing guards. Migrant detention in third countries is also an increasingly important part of EU migration policy, with the EU funding construction of migrant detention centres in ten non-EU countries.

      - Advisory and audit services are a more hidden part of public policies and practices, but can be influential in shaping new policies. A striking example is Civipol, which in 2003 wrote a study on maritime borders for the European Commission, which adopted its key policy recommendations in October 2003 and in later policy documents despite its derogatory language against refugees. Civipol’s study also laid foundations for later measures on border externalisation, including elements of the migration deal with Turkey and the EU’s Operation Sophia. Since 2003 Civipol has received funding for a large number of migration-related projects, especially in African countries. Between 2015 and 2017, it was the fourth most-funded organisation under the EU Trust Fund. Other prominent corporations in this sector include Eurasylum, as well as major international consultancy firms, particularly Deloitte and PricewaterhouseCoopers, for which migration-related work is part of their expansive portfolio.

      Financing the industry

      The markets for military and border control procurement are characterized by massively capital intensive investments and contracts, which would not be possible without the involvement of financial actors. Using data from marketscreener.com, the report shows that the world’s largest investment companies are also among the major shareholders in the border industry.

      – The Vanguard Group owns shares in 15 of the 17 companies, including over 15% of the shares of CoreCivic and GEO Group that manage private prisons and detention facilities.

      - Other important investors are Blackrock, which is a major shareholder in 11 companies, Capital Research and Management (part of the Capital Group), with shares in arms giants Airbus and Lockheed Martin, and State Street Global Advisors (SsgA), which owns over 15% of Lockheed Martin shares and is also a major shareholder in six other companies.

      - Although these giant asset management firms dominate, two of the profiled companies, Cobham and IDEMIA, are currently owned by the private equity firm Advent International. Advent specialises in buyouts and restructuring, and it seems likely that it will attempt to split up Cobham in the hope of making a profit by selling on the component companies to other owners.

      - In addition, three large European arms companies, Airbus, Thales and Leonardo, active in the border security market, are partly owned by the governments of the countries where they are headquartered.

      In all cases, therefore, the financing depends on our money. In the case of state ownership, through our taxes, and in terms of asset management funds, through the way individual savings, pension funds, insurance companies and university endowments are directly invested in these companies via the giant Asset Management Funds. This financing means that the border industry survives on at least the tacit approved use of the public’s funds which makes it vulnerable to social pressure as the human rights costs of the industry become ever more clear.
      Human rights and the border industry

      Universal human rights apply to every single human being, including refugees and migrants. While the International Bill of Human Rights provides the foundation, including defining universal rights that are important in the context of migration, such as the right to life, liberty and security of person, the right to freedom from torture or cruel or inhumane or degrading treatment or punishment, and freedom from discrimination, there are other instruments such as the United Nations Convention Relating to the Status of Refugees (Refugee Convention or Geneva Convention) of 1951 that are also relevant. There are also regional agreements, including the Organisation of African Unity Convention Governing the Specific Aspects of Refugee Problems in Africa and the European Convention on Human Rights (ECHR) that play a role relevant to the countries that have ratified them.

      Yet despite these important and legally binding human rights agreements, the human rights situation for refugees and migrants has become ever more desperate. States frequently deny their rights under international law, such as the right to seek asylum or non-refoulement principles, or more general rights such as the freedom from torture, cruel or inhumane treatment. There is a gap with regard to effective legal means or grievance mechanisms to counter this or to legally enforce or hold to account states that fail to implement instruments such as the UDHR and the Refugee Convention of 1951. A Permanent Peoples Tribunal in 2019 even concluded that ‘taken together, the immigration and asylum policies and practices of the EU and its Member States constitute a total denial of the fundamental rights of people and migrants, and are veritable crimes against humanity’. A similar conclusion can be made of the US and Australian border and immigration regime.

      The increased militarisation of border security worldwide and state-sanctioned hostility toward migrants has had a deeply detrimental impact on the human rights of refugees and migrants.

      – Increased border security has led to direct violence against refugees, pushbacks with the risk of returning people to unsafe countries and inhumane circumstances (contravening the principle of non-refoulement), and a disturbing rise in avoidable deaths, as countries close off certain migration routes, forcing migrants to look for other, often more dangerous, alternatives and pushing them into the arms of criminal smuggling networks.

      – The increased use of autonomous systems of border security such as drones threaten new dangers related to human rights. There is already evidence that they push migrants to take more dangerous routes, but there is also concern that there is a gradual trend towards weaponized systems that will further threaten migrants’ lives.

      – The rise in deportations has threatened fundamental human rights including the right to family unity, the right to seek asylum, the right to humane treatment in detention, the right to due process, and the rights of children’. There have been many instances of violence in the course of deportations, sometimes resulting in death or permanent harm, against desperate people who try to do everything to prevent being deported. Moreover, deportations often return refugees to unsafe countries, where they face violence, persecution, discrimination and poverty.

      - The widespread detention of migrants also fundamentally undermines their human rights . There have been many reports of violence and neglect by guards and prison authorities, limited access to adequate legal and medical support, a lack of decent food, overcrowding and poor and unhealthy conditions. Privatisation of detention exacerbates these problems, because companies benefit from locking up a growing number of migrants and minimising costs.

      – The building of major migration databases such as EU’s Eurodac and SIS II, VIS gives rise to a range of human rights concerns, including issues of privacy, civil liberties, bias leading to discrimination—worsened by AI processes -, and misuse of collected information. Migrants are already subject to unprecedented levels of surveillance, and are often now treated as guinea pigs where even more intrusive technologies such as facial recognition and social media tracking are tried out without migrants consent.

      The trend towards externalisation of migration policies raises new concerns as it seeks to put the human costs of border militarisation beyond the border and out of public sight. This has led to the EU, US and Australia all cooperating with authoritarian regimes to try and prevent migrants from even getting close to their borders. Moreover as countries donate money, equipment or training to security forces in authoritarian regimes, they end up expanding and strengthening their capacities which leads to a rise in human rights violations more broadly. Nowhere are the human rights consequences of border externalisation policies clearer than in the case of Libya, where the EU and individual member states (in particular Italy and Malta) funding, training and cooperation with security forces and militias have led to violence at the borders, murder, disappearances, rape, enslavement and abuse of migrants in the country and torture in detention centres.

      The 23 corporations profiled in this report have all been involved in or connected to policies and practices that have come under fire because of violations of the human rights of refugees and migrants. As mentioned earlier, sometimes the companies are directly responsible for human rights violations or concerns. In other cases, they are indirectly responsible through their contribution to a border infrastructure that denies human rights and through lobbying to influence policy-making to prioritize militarized responses to migration. 11 of the companies profiled publicly proclaim their commitment to human rights as signatories to the UN Guiding Principles on Business and Human Rights (UNGPs), but as these are weak voluntary codes this has not led to noticeable changes in their business operations related to migration.

      The most prominent examples of direct human rights abuses come from the corporations involved in detention and deportation. Classic Air Charter, Cobham, CoreCivic, Eurasylum, G4S, GEO Group, Mitie and Serco all have faced allegations of violence and abuse by their staff towards migrants. G4S has been one of the companies most often in the spotlight. In 2017, not only were assaults by its staff on migrants at the Brook House immigration removal centre in the UK broadcast by the BBC, but it was also hit with a class suit in Australia by almost 2,000 people who are or were detained at the externalised detention centre on Manus Island, because of physical and psychological injuries as a result of harsh treatment and dangerous conditions. The company eventually settled the case for A$70 million (about $53 million) in the largest-ever human rights class-action settlement. G4S has also faced allegations related to its involvement in deportations.

      The other companies listed all play a pivotal role in the border infrastructure that denies refugees’ human rights. Airbus P-3 Orion surveillance planes of the Australian Air Force, for example, play a part in the highly controversial maritime wall that prevents migrants arriving by boat and leads to their detention in terrible conditions offshore. Lockheed Martin is a leading supplier of border security on the US-Mexico border. Leonardo is one of the main suppliers of drones for Europe’s borders. Thales produces the radar and sensor systems, critical to patrolling the Mediterrean. Elbit Systems provides surveillance technologies to both the EU and US, marketed on their success as technologies used in the separation wall in the Palestinian occupied territories. Accenture, IDEMIA and Sopra Steria manage many border biometric projects. Deloitte has been one of the key consulting companies to the US Immigration and Customs Enforcement (ICE) agency since 2003, while PriceWaterhouseCoopers provides similar consultancy services to Frontex and the Australian border forces. IBM, Palantir and UNISYS provide the IT infrastructure that underpins the border and immigration apparatus.
      Time to divest

      The report concludes by calling for campaigns to divest from the border industry. There is a long history of campaigns and movements that call for divestment from industries that support human rights violations—from the campaigns to divest from Apartheid South Africa to more recent campaigns to divest from the fossil fuel industry. The border industry has become an equally morally toxic asset for any financial institution, given the litany of human rights abuses tied to it and the likelihood they will intensify in years to come.

      There are already examples of existing campaigns targeting particular border industries that have borne fruit. A spotlight on US migrant detention, as part of former President Trump’s anti- immigration policies, contributed to six large US banks (Bank of America, BNP Paribas, Fifth Third Bancorp, JPMorgan Chase, SunTrust, and Wells Fargo) publicly announcing that they would not provide new financing to the private prison industry. The two largest public US pension funds, CalSTRS and CalPERS, also decided to divest from the same two companies. Geo Group acknowledged that these acts of ‘public resistance’ hit the company financially, criticising the banks as ‘clearly bow[ing] down to a small group of activists protesting and conducting targeted social media campaigns’.

      Every company involved or accused of human rights violations either denies them or says that they are atypical exceptions to corporate behavior. This report shows however that a militarised border regime built on exclusion will always be a violent apparatus that perpetuates human rights violations. It is a regime that every day locks up refugees in intolerable conditions, separates families causing untold trauma and heartbreak, and causes a devastating death toll as refugees are forced to take unimaginable dangerous journeys because the alternatives are worse. However well-intentioned, any industry that provides services and products for this border regime will bear responsibility for its human consequences and its human rights violations, and over time will suffer their own serious reputational costs for their involvement in this immoral industry. On the other hand, a widespread exodus of the leading corporations on which the border regime depends could force states to change course, and to embrace a politics that protects and upholds the rights of refugees and migrants. Worldwide, social movements and the public are starting to wake up to the human costs of border militarisation and demanding a fundamental change. It is time now for the border industry and their financiers to make a choice.

      https://www.tni.org/en/financingborderwars

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    • Outsourcing oppression. How Europe externalises migrant detention beyond its shores

      This report seeks to address the gap and join the dots between Europe’s outsourcing of migrant detention to third countries and the notorious conditions within the migrant detention centres. In a nutshell, Europe calls the shots on migrant detention beyond its shores but is rarely held to account for the deeply oppressive consequences, including arbitrary detention, torture, forced disappearance, violence, sexual violence, and death.

      Key findings

      – The European Union (EU), and its member states, externalise detention to third countries as part of a strategy to keep migrants out at all costs. This leads to migrants being detained and subjected to gross human rights violations in transit countries in Eastern Europe, the Balkans, West Asia and Africa.

      – Candidate countries wishing to join the EU are obligated to detain migrants and stop them from crossing into the EU as a prerequisite for accession to the Union. Funding is made available through pre-accession agreements specifically for the purpose of detaining migrants.

      – Beyond EU candidate countries, this report identifies 22 countries in Africa, Eastern Europe, the Balkans and West Asia where the EU and its member states fund the construction of detention centres, detention related activities such as trainings, or advocate for detention in other ways such as through aggressively pushing for detention legislation or agreeing to relax visa requirements for nationals of these countries in exchange for increased migrant detention.

      - The main goal of detention externalisation is to pre-empt migrants from reaching the external borders of the EU by turning third countries into border outposts. In many cases this involves the EU and its member states propping up and maintaining authoritarian regimes.

      – Europe is in effect following the ‘Australian model’ that has been highly criticised by UN experts and human rights organisations for the torturous conditions inside detention centres. Nevertheless, Europe continues to advance a system that mirrors Australia’s outsourced model, focusing not on guaranteeing the rights of migrants, but instead on deterring and pushing back would-be asylum seekers at all costs.

      - Human rights are systematically violated in detention centres directly and indirectly funded by the EU and its member states, including cases of torture, arbitrary and prolonged detention, sexual violence, no access to legal recourse, humanitarian assistance, or asylum procedures, the detention of victims of trafficking, and many other serious violations in which Europe is implicated.

      - Particularly horrendous is the case of Libya, which continues to receive financial and political support from Europe despite mounting evidence of brutality, enslavement, torture, forced disappearance and death. The International Organisation for Migration (IOM) and the UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), implement EU policies in Libya and, according to aid officials, actively whitewash the consequences of European policies to safeguard substantial EU funding.

      - Not only does the EU deport and push back migrants to unsafe third countries, it actively finances and coercively pushes for their detention in these countries. Often they have no choice but to sign ‘voluntary’ agreements to be returned to their countries of origin as the only means of getting out of torturous detention facilities.

      - The EU implements a carrot and stick approach, in particular in its dealings with Africa, prolonging colonialist dynamics and uneven power structures – in Niger, for example, the EU pushed for legislation on detention, in exchange for development aid funding.

      – The EU envisages a greater role for migrant detention in third countries going forward, as was evidenced in the European Commission’s New Pact on Migration and Asylum.

      - The EU acts on the premise of containment and deterrence, namely, that if migrants seeking to reach Europe are intercepted and detained along that journey, they will be deterred from making the journey in the first place. This approach completely misses the point that people migrate to survive, often fleeing war and other forms of violence. The EU continues to overlook the structural reasons behind why people flee and the EU’s own role in provoking such migration.

      – The border industrial complex profits from the increased securitisation of borders. Far from being passive spectators, the military and security industry is actively involved in shaping EU border policies by positioning themselves as experts on the issue. We can already see a trend of privatising migrant detention, paralleling what is happening in prison systems worldwide.

      https://www.tni.org/en/outsourcingoppression

      pour télécharger le rapport :
      https://www.tni.org/files/publication-downloads/outsourcingoppression-report-tni.pdf

      #externalisation #rétention #détention #détention_arbitraire #violence #disparitions #disparitions_forcées #violence #violence_sexuelle #morts #mort #décès #Afrique #Europe_de_l'Est #Balkans #Asie #modèle_australien #EU #UE #Union_européenne #torture #Libye #droits_humains #droits_fondamentaux #HCR #UNHCR #OIM #IOM #dissuasion #privatisation

    • Fortress Europe: the millions spent on military-grade tech to deter refugees

      We map out the rising number of #high-tech surveillance and deterrent systems facing asylum seekers along EU borders.

      From military-grade drones to sensor systems and experimental technology, the EU and its members have spent hundreds of millions of euros over the past decade on technologies to track down and keep at bay the refugees on its borders.

      Poland’s border with Belarus is becoming the latest frontline for this technology, with the country approving last month a €350m (£300m) wall with advanced cameras and motion sensors.

      The Guardian has mapped out the result of the EU’s investment: a digital wall on the harsh sea, forest and mountain frontiers, and a technological playground for military and tech companies repurposing products for new markets.

      The EU is central to the push towards using technology on its borders, whether it has been bought by the EU’s border force, Frontex, or financed for member states through EU sources, such as its internal security fund or Horizon 2020, a project to drive innovation.

      In 2018, the EU predicted that the European security market would grow to €128bn (£108bn) by 2020. Beneficiaries are arms and tech companies who heavily courted the EU, raising the concerns of campaigners and MEPs.

      “In effect, none of this stops people from crossing; having drones or helicopters doesn’t stop people from crossing, you just see people taking more risky ways,” says Jack Sapoch, formerly with Border Violence Monitoring Network. “This is a history that’s so long, as security increases on one section of the border, movement continues in another section.”

      Petra Molnar, who runs the migration and technology monitor at Refugee Law Lab, says the EU’s reliance on these companies to develop “hare-brained ideas” into tech for use on its borders is inappropriate.

      “They rely on the private sector to create these toys for them. But there’s very little regulation,” she says. “Some sort of tech bro is having a field day with this.”

      “For me, what’s really sad is that it’s almost a done deal that all this money is being spent on camps, enclosures, surveillance, drones.”

      Air Surveillance

      Refugees and migrants trying to enter the EU by land or sea are watched from the air. Border officers use drones and helicopters in the Balkans, while Greece has airships on its border with Turkey. The most expensive tool is the long-endurance Heron drone operating over the Mediterranean.

      Frontex awarded a €100m (£91m) contract last year for the Heron and Hermes drones made by two Israeli arms companies, both of which had been used by the Israeli military in the Gaza Strip. Capable of flying for more than 30 hours and at heights of 10,000 metres (30,000 feet), the drones beam almost real-time feeds back to Frontex’s HQ in Warsaw.

      Missions mostly start from Malta, focusing on the Libyan search and rescue zone – where the Libyan coastguard will perform “pull backs” when informed by EU forces of boats trying to cross the Mediterranean.

      German MEP Özlem Demirel is campaigning against the EU’s use of drones and links to arms companies, which she says has turned migration into a security issue.

      “The arms industries are saying: ‘This is a security problem, so buy my weapons, buy my drones, buy my surveillance system,’” says Demirel.

      “The EU is always talking about values like human rights, [speaking out] against violations but … week-by-week we see more people dying and we have to question if the EU is breaking its values,” she says.

      Sensors and cameras

      EU air assets are accompanied on the ground by sensors and specialised cameras that border authorities throughout Europe use to spot movement and find people in hiding. They include mobile radars and thermal cameras mounted on vehicles, as well as heartbeat detectors and CO2 monitors used to detect signs of people concealed inside vehicles.

      Greece deploys thermal cameras and sensors along its land border with Turkey, monitoring the feeds from operations centres, such as in Nea Vyssa, near the meeting of the Greek, Turkish and Bulgarian borders. Along the same stretch, in June, Greece deployed a vehicle-mounted sound cannon that blasts “deafening” bursts of up to 162 decibels to force people to turn back.

      Poland is hoping to emulate Greece in response to the crisis on its border with Belarus. In October, its parliament approved a €350m wall that will stretch along half the border and reach up to 5.5 metres (18 feet), equipped with motion detectors and thermal cameras.

      Surveillance centres

      In September, Greece opened a refugee camp on the island of Samos that has been described as prison-like. The €38m (£32m) facility for 3,000 asylum seekers has military-grade fencing and #CCTV to track people’s movements. Access is controlled by fingerprint, turnstiles and X-rays. A private security company and 50 uniformed officers monitor the camp. It is the first of five that Greece has planned; two more opened in November.

      https://twitter.com/_PMolnar/status/1465224733771939841

      At the same time, Greece opened a new surveillance centre on Samos, capable of viewing video feeds from the country’s 35 refugee camps from a wall of monitors. Greece says the “smart” software helps to alert camps of emergencies.

      Artificial intelligence

      The EU spent €4.5m (£3.8m) on a three-year trial of artificial intelligence-powered lie detectors in Greece, Hungary and Latvia. A machine scans refugees and migrants’ facial expressions as they answer questions it poses, deciding whether they have lied and passing the information on to a border officer.

      The last trial finished in late 2019 and was hailed as a success by the EU but academics have called it pseudoscience, arguing that the “micro-expressions” the software analyses cannot be reliably used to judge whether someone is lying. The software is the subject of a court case taken by MEP Patrick Breyer to the European court of justice in Luxembourg, arguing that there should be more public scrutiny of such technology. A decision is expected on 15 December.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/dec/06/fortress-europe-the-millions-spent-on-military-grade-tech-to-deter-refu

  • Vers une histoire de la violence , Le Courrier Suisse, 3 novembre 2019, par Francois Cusset
    https://lecourrier.ch/2019/11/03/vers-une-histoire-de-la-violence

    Vers une histoire de la violence
    La violence parle le langage du pouvoir. Le terme a toujours été le pivot d’un « tour de magie ancestral », selon ­l’historien François Cusset, qui consiste à agiter le « fantasme d’une violence imminente » pour justifier une violence « présente, dûment rationalisée ». L’histoire de la violence ? « Une histoire de la stigmatisation et de l’asservissement des populations. »
    dimanche 3 novembre 2019 François Cusset
    Vers une histoire de la violence
    Déploiement de la police montée lors des manifestations du 1er mai 2019 à Paris. FLICKR/CC/JEANNE MENJOULET
    Analyse

    Quand l’oligarchie athénienne qualifie de « barbare », il y a 2500 ans, l’immense majorité de la population extérieure à l’oligarchie – femmes, non-propriétaires, esclaves, étrangers, ennemis –, ce mot suffit à justifier par avance la violence d’Etat qui pourra être exercée contre eux. Et l’opération est plus explicite encore quand le conseiller à la sécurité nationale du président George W. Bush déclare en 2002 : « Un Etat voyou est n’importe quel Etat que les Etats-Unis déclarent tel ». Au-delà de la paranoïa belliqueuse post-11 septembre, l’arbitraire revendiqué de la formule sert à soumettre la justice à la puissance, ancestral coup de force rhétorique qui rappelle que si, comme le posait jadis (Blaise) Pascal le janséniste, « la justice sans la force est impuissante, la force sans la justice est tyrannique », l’équilibre de ces deux pôles reste une vue de l’esprit, et l’usage officiel de la force sera toujours le meilleur moyen de s’arroger les vertus de la justice.

    Les exemples ne se comptent plus de cette vieille prestidigitation des pouvoirs, consistant à agiter le fantasme d’une violence imminente, et archaïque, pour justifier une violence présente, dûment rationalisée. Les migrants qu’on rafle et qu’on expulse pour le danger supposé de certains d’entre eux ou juste, à mots de moins en moins couverts, pour les emplois et les allocations qu’on ne peut pas distribuer sans limites, ni faire violence à ceux qui y auraient vraiment droit. Le missile israélien qui déchiquette quelques familles dans les territoires palestiniens pour l’attentat terroriste qu’ils seraient là-bas, d’après les services secrets, en train de fomenter dans l’ombre.

    Ou encore, moins spectaculaire, le militant écologiste qu’on jette en prison pour avoir arraché des plants de maïs, comme si les pesticides et les OGM n’exerçaient pas la plus grande des violences sur les corps et les biotopes. Et le jeune punk délogé avec brutalité de sous une porte cochère parce que sa forme de vie ou ses atours sont associés par la bien-pensance publique au parasitisme, au vandalisme ou à l’égoïsme anti-social. On n’est jamais très loin de l’autre bout du spectre, où la jeune femme venue déposer plainte pour agression sexuelle et le citadin gay pour insulte homophobe se voient reprocher plus ou moins implicitement un accoutrement ou des choix d’existence qui feraient violence à la bienséance voire à l’ordre public. Par cette inscription, cette façon de légitimer les arbitraires d’Etat, par les méfiances et les rancœurs qui relient les uns et les autres, la violence, bien plus que la déflagration d’un instant, est une chaîne de conséquences, une émotion circulatoire, le piège d’un circuit sans fin.

    C’est le premier problème que posent le mot et le concept de violence, qui rend difficile le travail nécessaire, mais délicat pour historiciser ces questions. Faire une histoire de la violence, pour en comprendre les formes d’aujourd’hui et l’usage tactique dans les luttes de résistance, est donc hautement problématique. Car si la violence légitime est exercée au nom d’une violence antérieure, pour « pacifier » les sociétés comme on le dit depuis la Seconde Guerre mondiale, alors tout dans une telle histoire risque bel et bien d’être à double lecture. Et de fait, le grand tournant historique ici, autour des conquêtes coloniales et de la naissance de l’Etat moderne, sur une longue période qui va du XVIe au XIXe siècles, nous a toujours été présenté comme celui d’une atténuation et d’un encadrement juridique et politique (voire « civilisationnel ») de la violence – alors que l’historiographie récente a pu enfin démentir cette approche et démontrer que les violences d’Etat et les violences coloniales ont été bien pires, par leur bilan quantitatif comme leur ordre normatif, que la conflictualité ordinaire, celle de la vie sociale traditionnelle ou des luttes intercommunautaires, qu’elles étaient censées réduire.

    A l’insécurité résiduelle, avant le Code pénal et l’éclairage nocturne, de nos villes et nos villages, où en effet on pouvait impunément détrousser le visiteur ou occire le manant, l’Etat moderne a substitué ses cadres coercitifs, normalisateurs et centralisateurs, et sa passion punitive légale, à mesure que se creusait le fossé entre le danger objectif et la sanction pénale : entre les années 1980 et aujourd’hui, par exemple, pendant que chutaient en France les taux d’homicides, mais aussi de délits pénaux moindres, la population carcérale a été multipliée par 2,3, « inutilement » en somme.

    Pour compléter ces deux axes majeurs de l’histoire politique moderne – conquête coloniale et formation de l’Etat – on peut ajouter que celle-là s’est prolongée, une fois acquises les indépendances nationales sur les continents concernés (de 1802 pour Haïti à 1962 pour l’Algérie), sous la forme d’un endocolonialisme1 du cru, entretenu par la tutelle économique et morale des anciennes métropoles, ou des nouvelles puissances. Quant à celle-ci (la formation de l’Etat), elle est ce qui a permis aux guerres entre nations voisines, qui avaient toujours existé, d’acquérir une forme rationnelle et systématique et une échelle absolument inédite, qui culminèrent avec les deux guerres mondiales et leur mobilisation totale des corps et des esprits – pas besoin d’être un naïf anarchiste pour y voir une conséquence directe de l’inflation de la forme-Etat, d’un Etat « paroxystique ». Plus simplement dit : Napoléon fait édicter les codes civil et pénal, mais il ravage l’Europe ; les papes de la Renaissance sauvent les âmes des autochtones, mais en en faisant massacrer les corps ; la France apporte en Afrique du Nord l’éducation publique et quelques infrastructures, mais aussi la torture et le racisme d’Etat ; et si lois et normes se sont imposées peu à peu dans les foyers et les rues, d’Occident d’abord, y limitant les risques de désordres imprévus, ce fut avant tout sur les cadavres, innombrables, des insurgés de 1848, des communards de 1871, des mineurs de 1947 ou des refuzniks les plus têtus des années 1970 – ou encore, pour que nous vivions en paix à l’ère du « zéro mort » policier, sur les cadavres de Malik Oussékine, Carlo Giuliani ou Rémi Fraisse. Ou juste les 3000 blessures graves infligées par les policiers français en 30 samedis de « gilets jaunes ».

    En plus de la colonisation qui aurait sorti les peuples primitifs de l’arriération guerrière, et de l’Etat moderne qui aurait pénalisé les arbitraires locaux et les violences interindividuelles (jusqu’aux duels, dont la pratique disparaît enfin au début du XXe siècle), le troisième pilier de cette histoire de la modernité comme pacification sociale et restriction de la violence est à trouver du côté de la civilité. A partir du XVIIe siècle, la civilité est diffusée par les manuels de savoir-vivre et les nouvelles règles descendantes, prônées par l’aristocratie puis la bourgeoisie, ces règles neuves qui recommandent de ne pas se moucher dans la nappe, de discuter au lieu de frapper, d’être pudique et mesuré en toutes occasions.

    C’est la grande thèse du sociologue Norbert Elias sur le « processus de civilisation » comme intériorisation des normes et autorépression de la violence. Sauf qu’elle a été mal comprise, et que même Elias, plus subtil que ses exégètes, en énumérait les limites : la violence des barrières sociales qu’instaurent ces normes ; le mal-être et les complexes imputables à cette privatisation de l’existence ; et surtout les exceptions de taille que sont, au fil de ce processus de trois siècles, les mouvements sociaux qu’on massacre, l’Etat qui punit injustement, les peuples colonisés qui n’ont pas droit à un traitement aussi civil, les guerres de plus en plus longues et sanglantes qui dérogent à tout cela. Difficile, en un mot, de tracer ici le fil continu d’une histoire unidirectionnelle, qui verrait quand même, grosso modo, dans l’ensemble, réduite la violence collective et pacifiées les mœurs communes.

    La pire violence est rationnelle

    Une histoire de la violence à l’ère moderne doit donc être surtout une histoire de la stigmatisation et de l’asservissement des populations sous le prétexte, multiforme et récurrent, d’en prévenir, d’en punir, d’en empêcher ou d’en « civiliser » la violence première – autrement dit, la violence instinctuelle, barbare, inéduquée, infantile, subjective, incontrôlable, là où la violence punitive, parce que légitime, et ne s’appelant donc plus violence, serait rationnelle, légale, élaborée, légitime, adulte, objective, mesurée.

    Certitude intemporelle : le pouvoir n’existe que pour pointer et endiguer une violence qu’il dit originelle. Et que celle-ci soit ou non un mythe, son discours infini sur elle et ses actes officiels contre elle finissent par la faire exister, au moins dans nos esprits rompus à l’idée qu’à l’origine est la violence (du Big Bang, de l’accouchement, ou du sauvage que personne encore n’a sauvé de lui-même) et qu’au terme d’une évolution digne, se trouverait l’apaisement (par les lois, l’éducation, l’ordre, la culture, les institutions, sans même parler du commerce).

    C’est précisément ce postulat profondément ancré, ce postulat d’une violence chaotique des origines à endiguer et à prohiber, qu’une véritable contre-histoire de la violence, ou une histoire des usages de la catégorie de violence, doit avoir à cœur de démonter – de mettre à nu. C’est aussi capital, et moralement faisable, que de démonter, sous l’occupation, le mensonge des affiches de propagande nazie qui présentaient la résistance comme violence sauvage et terrorisme meurtrier. Car ce récit des origines nous voile les vérités de l’histoire, à l’instar des fictions sur « l’état de nature », bien sûr introuvable dans l’histoire réelle, qui sous-tendent les simplismes de droite, avec leur méchant Léviathan venu encadrer le chaos effrayant où « l’homme est un loup pour l’homme », aussi bien que les angélismes de gauche, avec leur bon sauvage rousseauiste et leur civilisation venue corrompre l’humain pacifique. Il n’y a pas de bon sauvage ni de loup-pour-l’homme qui tiennent : loin de ces mythes, il y a les dialectiques de l’histoire, qui ont fait de l’Etat moderne comme de la civilité partout promue des forces à double effet, émancipatrices et répressives, autorisant une rupture avec la tradition aussi bien qu’une re-normalisation coercitive.

    Pendant ce temps, les violences insurrectionnelles décriées et brutalement réprimées, au présent de leur irruption, par les classes dirigeantes, furent la seule communauté réelle d’un peuple que tout divisait par ailleurs et, bien souvent, le seul moyen d’obtenir des avancées effectives sur le terrain du droit, des conditions de vie et de travail, de l’égalité sociale et des libertés civiles – au fil de trois siècles d’émeutes et d’insurrections noyées dans le sang, mais sans lesquelles les quelques progrès de l’histoire moderne n’eurent jamais été obtenus.

    La violence instinctuelle existe évidemment, mais elle n’est que ponctuelle, là où la violence instituée, rendue invisible par les dispositifs de justification étatico-normatifs, dévaste et tue partout et en continu. « Le plus dangereux, dans la violence, est sa rationalité », concluait Michel Foucault en 1979. Les montages financiers ultra-complexes qui mettent en faillite des pays lointains, les exploits technologico-industriels qui mettent en danger la pérennité de la vie sur Terre, ou les trésors d’intelligence stratégique et de créativité esthétique déployés pour produire à l’excès et vendre n’importe quoi ne cessent, aujourd’hui, d’en apporter la désolante illustration – outre qu’ils rappellent que derrière les guerres et les massacres, les sexismes qui tuent et les racismes qui assassinent, la violence la plus dévastatrice aujourd’hui est sans conteste la violence de l’économie. Et ce, d’abord sur les psychés, exsangues, humiliées, pressurisées, réduites à la haine de soi et à l’horizon bouché des rivalités constantes, dont on ne se libère qu’en sautant par la fenêtre.

    Notes
    1. ↑ Forme de néocolonialisme où, malgré l’indépendance nationale, le pays colonisé reste économiquement et politiquement sous l’emprise du colon.

    L’auteur est historien des idées et professeur à l’Université de Nanterre. Récente publication : Le déchaînement du monde : logique nouvelle de la violence, La Découverte, 2018.

    Article paru (version longue) dans Moins !, journal romand d’écologie politique, dossier : « La violence en question », n°43, oct.-nov. 2019.