• Le conseil d’État annule la dissolution des Soulèvements de la Terre :
    https://www.conseil-etat.fr/actualites/soulevements-de-la-terre-gale-alvarium-cri-le-conseil-d-etat-precise-le

    Cependant, il estime que la dissolution des Soulèvements de la Terre ne constituait pas une mesure adaptée, nécessaire et proportionnée à la gravité des troubles susceptibles d’être portés à l’ordre public au vu des effets réels qu’ont pu avoir leurs provocations à la violence contre des biens, à la date à laquelle a été pris le décret attaqué.

    Pour ces raisons, le Conseil d’État annule le décret de dissolution des Soulèvements de la Terre et rejette les demandes de la GALE, de l’Alvarium et du CRI.

  • Sous le Pavé, la Plage. Filmer les espaces publics d’une #ville_nouvelle
    https://metropolitiques.eu/Sous-le-Pave-la-Plage-Filmer-les-espaces-publics-d-une-ville-nouvell

    Que deviennent les espaces publics des quartiers populaires de ville nouvelle en été ? #filmé dans le quartier du Pavé Neuf, à Noisy-le-Grand, le #documentaire d’Anaïs Beji et Félix Cardoso montre l’importance de revisiter les représentations de la vie quotidienne qui s’y déroule. En réaction aux critiques des grands ensembles d’après-guerre décrits comme des « cités-dortoirs », les villes nouvelles françaises ont été conçues pour favoriser l’apparition d’une vie urbaine. Elles sont organisées autour de #Terrains

    / film, documentaire, #espace_public, #politique_de_la_ville, #rénovation_urbaine, ville nouvelle, #banlieue, #ségrégation, (...)

    #discrimination
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_beiji-cardoso.pdf

  • #fedora 39 Released with #GNOME_45, Linux 6.5 + More
    https://www.omgubuntu.co.uk/2023/11/fedora-workstation-39-features-download

    The Fedora Project has released Fedora Workstation 39, the latest version of its flagship desktop Linux operating system. Fedora Workstation 39 brings a number of new features and improvements, including an updated desktop experience with GNOME 45, better hardware support and performance with the Linux 6.5 kernel, and some smaller changes to finesse the overall experience. Many of the new features in Fedora 39 will be familiar to those using Ubuntu 23.10, which also offers GNOME 45 and Linux 6.5. As you’d expect, Fedora 39 offers a best-in-class GNOME 45 experience, shipping things more or less as upstream intended. Users […] This post, Fedora 39 Released with GNOME 45, Linux 6.5 + More is from OMG! Ubuntu. Do not reproduce elsewhere without (...)

    #News #Distros

  • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

    A margine del trilaterale a Trieste il 2 novembre scorso, il ministro snocciola i numeri dei respingimenti dopo la sospensione di Schengen. E annuncia: quando i controlli alle frontiere finiranno, il governo vuole istituire “brigate miste” (di polizia). Dove? Con chi? E con quale mandato?

    Nell’edizione del 20 ottobre dell’Unità avevo esaminato la misura di ripristino dei controlli alle frontiere interne deciso dall’Italia al confine italo-sloveno mettendo in rilievo come tale decisione fosse in contrasto con quanto disposto dal Codice Schengen. Su questo il Codice prevede la possibilità di un temporaneo ripristino dei controlli alle frontiere interne solo come extrema ratio in caso di minaccia all’ordine pubblico e che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna” (Codice Schengen, considerando 26). Ben presto le dichiarazioni del Governo italiano hanno reso evidente come dietro questo ripristino, inutile e quanto mai problematico per la vita sociale ed economica del Friuli Venezia Giulia, ci sia una sola finalità ovvero quella di ostacolare l’ingresso nell’Unione Europea, ad iniziare dal confine esterno tra la Croazia e la Bosnia, a coloro che sono in cerca di protezione e che, per il diritto dell’Unione, hanno invece diritto, alle frontiere e nel territorio degli Stati dell’Unione, di chiedere asilo (Direttiva 2013/32/UE art. 3) e gli Stati hanno il dovere assoluto di non respingerli.

    Le affermazioni rese dal ministro Piantedosi nella conferenza stampa tenutasi a Trieste il 2 novembre 2023, a conclusione dell’incontro trilaterale con gli omologhi sloveno e croato, sono state tanto esplicite quanto sconcertanti. Il ministro ha reso noto che nei primi dieci giorni di vigenza dei controlli alla frontiera sono stati effettuati 220 respingimenti. Non sono state fornite ulteriori informazioni, né il ministro, come ha fatto invece in passato, ha rivendicato la possibilità che vengano respinti o riammessi informalmente anche coloro che al confine italiano chiedono asilo. Sulla radicale illegittimità delle riammissioni informali attuate dall’Italia verso la Slovenia nei confronti di richiedenti asilo si era già espresso con estrema chiarezza il Tribunale ordinario di Roma con due distinte ordinanze, nel gennaio 2021 e nel maggio 2023. Non sappiamo se i dati forniti da Piantedosi riguardino cittadini stranieri che sono stati illegittimamente respinti dopo che è stato loro impedito di chiedere asilo in Italia e se, come impone la normativa a tutti coloro che sono fermati venga “assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale” (T.U. Immigrazione art. 10.3).

    Infine non sappiamo se nei confronti degli stranieri respinti sia stato emesso un provvedimento amministrativo scritto e motivato in fatto e in diritto, notificato al soggetto interessato e impugnabile innanzi all’autorità giudiziaria, o se di tali provvedimenti non c’è traccia. Neppure sappiamo se tali respingimenti sono stati realmente tali o se si è trattato di operazioni di impedimento all’ingresso in Italia attuati in territorio sloveno con la collaborazione della polizia italiana. Sono questioni dirimenti sulle quali il ministro dovrà fornire al più presto le necessarie informazioni. Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

    Un’espressione in particolare, tra quelle usate da Piantedosi, risulta inquietante: il ministro ha affermato che le operazioni di respingimento finora attuate vanno considerate solo come i “primi segnali di una filiera della deterrenza da proseguire con i colleghi”. Il termine deterrenza è sempre associato a una funzione intimidatrice (nel diritto penale ci si è sempre interrogati se la minaccia della sanzione funga o meno da deterrenza). Nel linguaggio politico la deterrenza è rivolta verso un nemico ovvero verso colui che rappresenta un grave pericolo e nei cui confronti, all’occorrenza, si può usare violenza. A chi è diretta la funzione di deterrenza cui si riferisce Piantedosi? Agli stranieri che sono in fuga dai loro paesi affinché non lo facciano? A chi intende chiedere asilo affinché comprenda con metodi convincenti che ciò è inutile? Le parole usate dal ministro sono gravi perché le normative internazionali ed europee e il diritto interno dispongono che l’operato della polizia di frontiera non sia finalizzato ad attuare alcuna deterrenza bensì sia esclusivamente rivolto all’esecuzione di legittimi compiti di controllo dell’attraversamento dei confini; le guardie di frontiera sono tenute infatti ad operare nello stretto ambito delle funzioni attribuite loro dalla legge, e nei confronti di chi viene controllato “devono essere garantiti i diritti fondamentali sanciti nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e nella Carta sui diritti fondamentali dell’Unione europea. I controlli di frontiera devono rispettare pienamente i divieti di infliggere trattamenti inumani o degradanti e di agire in maniera discriminatoria” (Manuale per le guardie di frontiera a cura della Commissione Europea 6.11.2006 punto 1.2).

    Inoltre “a tutti i cittadini di paese terzo che lo desiderano deve essere data la possibilità di chiedere asilo/protezione internazionale alla frontiera (anche nelle zone di transito aeroportuali e portuali). A tal fine, le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire” (Manuale punto 10.2). La rotta balcanica e i confini tra i diversi Stati, da sempre, ma in particolare dal 2018, sono segnati da inenarrabili violenze, illegalità e soprusi condotti dalle polizie dei diversi Stati coinvolti (a volte si tratta di uomini in divisa, altre volte mascherati, ma comunque operanti sempre all’interno di un preciso mandato). I rapporti su queste violenze sono scioccanti e sono così numerosi da riempire un’intera biblioteca; si tratta di violenze ed illegalità avvenute sia ai confini interni dell’Unione Europea che ai confini esterni della stessa. Una situazione che rappresenta, insieme alle violenze attuate sul confine polacco-bielorusso, una delle pagine più oscure dell’Europa. Uno dei luoghi caratterizzati da maggiori violenze è il confine della Croazia con la Bosnia dove i respingimenti arbitrari, uniti ad efferate violenze non sono mai cessati. Secondo il rapporto Trattati come animali – Respingimenti di persone in cerca di protezione dalla Croazia in Bosnia Erzegovina, edito nel maggio 2023 a cura di Human Rights Watch (H.C.R.) una delle più autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti umani a livello internazionale, i respingimenti illegittimi e le violenze, anche efferate, da parte della polizia croata, solo nel 2022, hanno riguardato quasi 30.000 persone, e sono proseguiti nel 2023.

    Il Rapporto evidenzia che “Le forze di polizia conducono spesso i respingimenti in modo violento, rendendosi responsabili di lesioni fisiche e umiliazioni deliberate”. Inoltre “secondo la maggior parte delle testimonianze raccolte da HRW, i poliziotti croati indossano le uniformi, guidano mezzi della polizia e si identificano come agenti per non lasciare alcun dubbio sull’ufficialità del loro ruolo”. Si tratta dunque di una pratica di esplicita deterrenza condotta verso persone inermi che stanno esclusivamente tentando di esercitare il loro diritto a chiedere asilo. “Molti bambini hanno dovuto assistere mentre i loro padri, fratelli maggiori o parenti venivano picchiati, o manganellati o presi a spintoni”, prosegue il Rapporto. La Slovenia non sfugge alla censura operata dalla citata organizzazione internazionale giacché il Rapporto osserva come “in base all’accordo di riammissione tra Slovenia e Croazia, la polizia slovena invia sommariamente i migranti irregolari che sono entrati nel paese passando dalla Croazia, indipendentemente dal fatto che abbiano chiesto asilo in Slovenia. A loro volta le autorità croate generalmente si affrettano a trasferirli in Bosnia o Serbia”.

    Al drammatico Rapporto di H.R.W. si aggiungono i dati diffusi dal Centro per la Pace di Zagabria che da anni svolge un attento lavoro di monitoraggio della situazione del rispetto della legalità in Croazia, secondo cui nel solo mese di luglio 2023 sono stati respinti illegalmente dalla Croazia alla Bosnia 673 persone, tra cui 43 bambini. 369 di essi erano afgani, con tutta evidenza rifugiati. Il 95% delle persone respinte ha subito trattamenti inumani e degradanti tassativamente proibiti dall’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) mentre l’81% ha subito il furto dei propri averi e la distruzione delle proprie cose. E’ in questi cupi contesti che il ministro Piantedosi vorrebbe organizzare le “brigate”? Vuole forse trascinare la polizia italiana in inaccettabili contesti di violenza di cui essere spettatore inerme oppure complice? Confida nella collaborazione della piccola Slovenia, paese cuscinetto, nel realizzare una più respingimenti a catena? Un monitoraggio su quanto rischia di accadere al nostro tormentato confine orientale, da parte di enti di tutela ed organizzazioni internazionali, nonché da parte del Parlamento, è divenuto indispensabile ed urgente.

    https://www.unita.it/2023/11/07/rotta-balcanica-piantedosi-lancia-le-brigate-antimigranti
    #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #Piantedosi #brigades_mixtes #contrôles_frontaliers #refoulements #push-backs #Slovénie #frontière_sud-alpine #contrôles_systématiques_aux_frontières #chiffres #statistiques #patrouilles_mixtes #dissuasion

    –-

    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

    et à la métaliste sur les patrouilles mixtes :
    https://seenthis.net/messages/910352

  • « Condamne le Hamas et sors du studio. »

    La guerre Israël-Hamas éloigne les pays du Proche-Orient de l’Occident
    https://archive.ph/2023.11.07-122421/https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/07/la-guerre-israel-hamas-eloigne-les-pays-du-proche-orient-de-l-occident_61987

    « Depuis le 7 octobre, le discours européen sur le droit international, les droits de l’homme, la liberté d’expression et des médias a volé en éclats. L’Union européenne dépense quantité d’argent pour des programmes à destination des journalistes du Proche-Orient ; en guise de liberté, on a vu ces pays terrifiés par le port d’un keffieh palestinien , raille Muin Khoury, consultant jordanien, d’origine palestinienne, rencontré à Amman. Les Européens ont fait eux-mêmes imploser leur système de valeurs. »

    […]

    Dans un monde ultraconnecté, la question systématique adressée aux invités arabes dans divers médias occidentaux afin qu’ils condamnent les attaques du Hamas est perçue comme une autre « deux poids, deux mesures ». « Sans attendre les médias, des intellectuels arabes et musulmans ont décrit ce qu’a fait le Hamas comme horrible. Mais le débat actuel est dangereux : il dit en creux que l’on doit condamner le Hamas pour avoir le droit de parler. Il n’est pas permis, en outre, de contextualiser ; sans comprendre d’où viennent ces atrocités, rien ne sera réglé. Cela revient donc à dire “condamne le Hamas, et sors du studio” », cingle Khaled Mansour, écrivain égyptien qui vit en Jordanie.

    […]

    La fracture laissera des traces. « Le refus des pays européens de contextualiser accroît le sentiment des sociétés en Egypte, en Jordanie, au Liban, de ne pas être entendues. On va avancer en terrain miné », abonde une source diplomatique occidentale. Beaucoup craignent que des violences – tout comme les actes d’antisémitisme enregistrés en Europe – ne creusent davantage le fossé, vers un horizon mortifère.

    Entre l’Occident et le Proche-Orient, « il y a un avant et un après-7 octobre. Le monde ne sera plus le même », considère Roula Roukbi. Et, dans cette relation, cette intellectuelle et opposante syrienne de 67 ans, exilée au Liban, entrevoit plus d’âpreté. « Le monde qui se prétend démocrate ne l’est plus, estime-t-elle [ prise de conscience un peu tardive tout de même ]. C’est choquant. On aspirait à l’Europe comme modèle de démocratie : on y a vu des manifestations propalestiniennes être interdites, des gens privés de parole… On voit l’Europe silencieuse face aux massacres en train d’être commis contre des civils à Gaza. »

    Au cœur de la « #dissonance », ancienne, la question palestinienne, qui a rejailli sur la scène internationale lors de l’attaque du Hamas. « Ici, nous ne l’avions jamais oubliée, poursuit Roula Roukbi. Les Occidentaux ne l’ont pas compris : la grande injustice qui a été infligée aux Palestiniens en 1948 est ancrée dans notre mémoire, notre existence, à nous, habitants de cette partie du monde. Le conflit israélo-palestinien nous a formés comme citoyens. » Les plus jeunes, que l’on disait désintéressés, sont descendus dans la rue ou se mobilisent en mode 2.0.

    Contrainte de quitter Damas en 2016, cette militante engagée dans la société civile a conservé de l’année 1948 des souvenirs très personnels : le journal intime de son père, écrit pendant les quatre mois qu’il passa engagé comme médecin dans l’Armée du salut arabe, composée de volontaires venus prêter main-forte aux troupes égyptiennes, syriennes et transjordaniennes, lors de la première guerre israélo-arabe, et des photos de lui à Safed, en Galilée.

    Elle a vécu les conflits de 1967 et de 1973. « La cause palestinienne est la mère de toutes les batailles. Sans droits accordés aux Palestiniens, il n’y aura jamais de stabilité dans cette région du monde. Il y aura toujours des problèmes et des révolutions. Les racines de toute la violence que nous voyons depuis le 7 octobre se trouvent dans le refus de reconnaître le droit des Palestiniens à exister », dit-elle. Et de préciser les raisons de son engagement : ce n’est pas « parce que je suis syrienne ou arabe, mais parce que je défends les droits humains. La question palestinienne, la dénonciation de l’occupation, est d’ordre humaine, morale ».

    « Les Palestiniens avaient une terre, une maison »

    A l’Université américaine de Beyrouth, Fatmé Charafeddine, bibliothécaire et archiviste, partage un même vécu, comme tant de Libanais. « J’ai vécu avec la cause palestinienne depuis mon enfance. J’ai vécu la grande invasion israélienne du Liban en 1982. Certains de mes enseignants étaient palestiniens. Enfant à Tyr, dans le Sud, je me demandais toujours pourquoi les réfugiés palestiniens étaient là et vivaient mal. » Dans la foulée de 1948, les Palestiniens aisés arrivés au Liban ont été intégrés. Ceux qui étaient venus de milieux ruraux pauvres ont été placés dans des camps, qui se sont transformés en bidonvilles.

    Fatmé Charafeddine a participé à la collecte de témoignages de Palestiniens ayant vécu la Nakba (la « catastrophe ») de 1948, rassemblés dans une grande base de données digitale de l’AUB. « Ces récits nous racontent que les Palestiniens avaient une terre, une maison, qu’ils ont dû abandonner, et que la société palestinienne était très avancée, très progressiste. » Un récit que l’Occident, plus prompt à mettre en avant les discriminations subies par les réfugiés dans divers pays arabes, a occulté pendant des décennies, estime-t-on dans cette partie du monde.

    L’universitaire se réjouit que ces archives suscitent un intérêt accru, y compris en Europe ou aux Etats-Unis, depuis le 7 octobre. Mais elle voit aussi avec #consternation « des confrères en Occident, sensibles au sort des Palestiniens, s’autocensurer en ligne, par crainte de sanctions, de perdre leur travail » . « Aujourd’hui, assène-t-elle, je me sens plus libre au Liban qu’aux Etats-Unis. »

  • Aux Etats-Unis, la rentrée signe la fin de la discrimination positive à l’université : « Beaucoup de jeunes Noirs et Latinos se demandent s’ils ont leur place »
    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/11/07/aux-etats-unis-la-rentree-signe-la-fin-de-la-discrimination-positive-a-l-uni

    Aux Etats-Unis, la rentrée signe la fin de la discrimination positive à l’université : « Beaucoup de jeunes Noirs et Latinos se demandent s’ils ont leur place »Par Corine Lesnes (San Francisco, correspondante)
    Les universités d’élite ont mis fin aux dispositifs de discrimination positive pour les admissions d’étudiants issus de minorités raciales. Un tournant pour cette population qui doit désormais concourir sur la même ligne de départ que les élèves plus favorisés.
    A ce stade de l’année, sa dernière au lycée, Matthew Echeverria, 17 ans, est surmené. « Vous voulez que je vous raconte ma journée ? », propose-t-il, alors qu’il vient de rentrer chez lui, à Los Angeles, à 20 heures passées. Tout tombe en même temps. D’abord, les examens de milieu de semestre. Pas une sinécure : le lycéen a choisi des cours avancés, de niveau universitaire, indispensables pour espérer intégrer une université d’élite.
    Deuxième source de stress : le dossier de candidature à l’université. Il faut le déposer au plus tard le 1er novembre pour bénéficier du dispositif de décision précoce. Un pensum interminable : le candidat doit réunir ses relevés de notes depuis la troisième, collecter des recommandations de professeurs ou de mentors, et écrire un essai personnel de 650 mots suffisamment original et authentique pour éveiller l’attention de recruteurs qui en reçoivent des dizaines de milliers.

    Matthew travaille à son texte depuis des mois. « Je raconte mon histoire, explique-t-il. C’est beaucoup d’introspection. » Sa mère est originaire du Guatemala ; son père, du Honduras. Ni l’un ni l’autre ne maîtrisent suffisamment l’anglais pour l’aider. « Ils travaillent tellement dur », souligne-t-il. Pas question de les décevoir : il sera le premier de sa famille à faire des études supérieures.En cette fin d’octobre, Matthew s’entraîne aussi pour la finale de cross-country du lycée, également prévue pour le début de novembre. En 2022, il a fini dans les premiers du 5 000 mètres, une performance qu’il entend bien mettre en avant dans son dossier de candidature, d’autant que Dartmouth College, dans le New Hampshire, l’université de ses rêves, compte une équipe d’athlétisme de haut niveau. Le lycéen ambitionne d’entrer à Dartmouth pour son programme, réputé, de sciences politiques et gouvernementales. « Et c’est dans la forêt, en pleine nature, ajoute-t-il. L’opposé de Los Angeles, du bruit et de la pollution. »
    Principe contesté
    A une année près, Matthew aurait pu bénéficier de l’affirmative action, la politique d’admissions préférentielles mise en place depuis les années 1960 aux Etats-Unis pour augmenter le nombre d’étudiants de groupes minoritaires sur les campus.Mais l’affirmative action n’est plus. En juin, la Cour suprême a ordonné la fin de la prise en compte de la « race » du candidat, selon la terminologie utilisée aux Etats-Unis, dans les admissions. « C’est un peu décourageant », réagit le lycéen.Matthew espère que l’enseignement supérieur va continuer à se soucier de diversité. « Tout ce que je fais serait plus facile si j’étais un peu plus privilégié, avance-t-il. Je pourrais avoir un tuteur qui m’aiderait dans les cours de niveau universitaire pour lesquels je n’ai qu’un B. Même pour la course, j’aurais un meilleur coach. En tant que Latino du South Los Angeles, ces privilèges sont hors de ma portée. »Comme Matthew, la plupart des jeunes Noirs et Latinos ont été consternés par la décision de la Cour suprême, remettant en question une conquête de l’époque de la lutte pour les droits civiques. « Cela revient à dire que mon expérience et celle de ma famille n’ont aucune valeur », déplore Markus Ceniceros, 19 ans, étudiant de première année dans un collège communautaire (cycle court) de Phoenix (Arizona). C’est triste de voir le pays retourner en arrière. » Alors qu’il était encore au lycée, Markus a été élu en 2022 au conseil d’administration de son district scolaire. Il avait 40 ans de moins que son prédécesseur, un républicain. La fin de la discrimination positive le confirme dans l’idée que les jeunes doivent s’engager en politique. « Ma génération voit les opportunités lui échapper », regrette Markus.
    La politique dite « d’affirmative action » avait été mise en place par le président Lyndon B. Johnson pour compenser les inégalités raciales, dans la foulée de la déségrégation dans les écoles publiques. En 1965, devant l’université Howard, à Washington, le démocrate avait jugé qu’il n’était pas « juste » de proposer à une personne qui, historiquement, a été « entravée par des chaînes » de venir sur la ligne de départ « concourir avec tous les autres ». Malgré le soutien des administrations suivantes, le principe n’a jamais cessé d’être contesté.
    En 1978, la Cour suprême avait été saisie par un jeune qui reprochait à la faculté de médecine de Davis (Californie) d’avoir réservé des places pour les étudiants issus des minorités. Les juges avaient déclaré illégale la pratique des quotas, mais confirmé que les universités pouvaient prendre en compte l’origine raciale du candidat, entre autres facteurs. Dix-huit ans plus tard, la Californie a invalidé la discrimination positive dans ses universités publiques, suivie par sept Etats (Floride, Idaho, Michigan, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma et Washington).Le 28 juin, à l’initiative du groupe conservateur Students for Fair Admissions, qui avait porté plainte contre Harvard et l’université de Caroline du Nord, la Cour suprême a définitivement enterré la pratique. A une majorité de six voix contre trois, les juges ont considéré que l’affirmative action contrevenait au 14e amendement de la Constitution des Etats-Unis, qui garantit aux citoyens une protection égale devant la loi.La décision a une forte portée symbolique. « Beaucoup de jeunes de couleur se demandent, et à juste titre, s’ils ont leur place dans les grandes universités. Si ces établissements veulent encore d’eux », relate Eric Tipler, tuteur et conseiller en admissions à New York.
    En pratique, elle ne change pas grand-chose. De fait, seul un petit nombre d’universités sont concernées, celles qui sont hautement sélectives comme Stanford (Californie) et les huit établissements de l’Ivy League, sur la Côte est (Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Princeton, University of Pennsylvania et Yale), qui acceptent 10 % ou moins des candidats – à la rentrée 2023, le taux d’admission a été de 3,4 % à Harvard, de 4,3 % à Stanford et de 6 % à Dartmouth. Soit une minorité de moins d’une centaine d’universités sur quelque 4 000 établissements d’études supérieures.
    Dans le reste des institutions, le taux moyen d’admission est d’environ 65 %. « La plupart des universités acceptent la majorité des postulants, résume Sandy Baum, économiste au Center on Education Date and Policy de l’Urban institute, un institut de politiques publiques. Mais les universités d’élite ont un poids sans équivalent dans la société américaine. « Les présidents des Etats-Unis, les juges de la Cour suprême, les grands patrons, sont majoritairement issus de ces universités, explique la chercheuse. Y faire ses études, c’est le passeport pour une réussite exceptionnelle. Il est important que les étudiants noirs ou latinos, qui sont désavantagés du fait des inégalités et du racisme de notre société, aient accès à ces possibilités. »
    D’autant qu’une fois sélectionnés les candidats n’ont pas de peine à financer leurs études. Les établissements de l’Ivy League sont assis sur un capital énorme – de 50,9 milliards de dollars (47,3 milliards d’euros) en 2022 pour Harvard – qui leur permet d’offrir des bourses complètes. « Si vous êtes pauvres, c’est moins cher d’étudier à Harvard ou à Stanford que dans un collège local », précise l’économiste.
    Dans les jours qui ont suivi la décision de la Cour suprême, toutes les grandes institutions ont fait savoir qu’elles restaient attachées à maintenir la diversité sur leurs campus. Il reste à y parvenir. Pour les universités, l’équation est délicate, explique Sandy Baum : comment maintenir l’accès des plus défavorisés à leurs enseignements « sans accepter des étudiants insuffisamment qualifiés ». Concrètement, elles ont mis en place des procédures pour atténuer l’effet de la disparition de la discrimination positive.Sur la « Common App » (Common Application), le dossier de candidature commune, partagé par un millier d’universités, les postulants continueront à cocher une case « race et origine ethnique », maintenue à des fins statistiques, mais un logiciel cachera la réponse. Les responsables des admissions n’auront donc pas connaissance de la « race » des candidats, même s’ils n’ignorent ni son nom ni son origine géographique. « Les universités cherchent le moyen de préserver la diversité, mais elles ne veulent pas risquer d’être poursuivies », résume Eric Tipler, lui-même ancien élève de Yale et d’Harvard.Dans son commentaire de la décision, le président de la Cour suprême a laissé ouverte la possibilité pour les candidats de mentionner leur parcours, à titre individuel. Les grandes universités ont sauté sur l’occasion d’offrir aux étudiants l’occasion d’évoquer la discrimination qu’ils ont pu rencontrer dans leur vie. Elles proposent un essai autobiographique supplémentaire. Pour sa part, Harvard propose maintenant cinq questions. Outre une « expérience intellectuelle importante » et « les trois choses que vos camarades aimeraient savoir à propos de vous », elle demande aux postulants de décrire en quoi « leurs expériences personnelles vécues » leur permettront d’ajouter à la diversité du corps étudiant.
    Pour les candidats, c’est un dilemme supplémentaire : doivent-ils mentionner leurs origines ? « Cela revient à demander à un jeune de 17 ans de décrire l’impact de forces sociales aussi considérables que la “race” sur leur vie, s’inquiète Eric Tipler. On ne devrait pas amener les jeunes au point où ils se sentent obligés d’écrire un essai sur leur “race” pour entrer à l’université. » Que conseiller, par exemple, à un jeune Sino-Américain, sachant que les étudiants d’origine asiatique sont déjà surreprésentés sur les campus ? Matthew Echeverria, le jeune Latino de Los Angeles, a, lui, choisi de centrer son essai sur ses origines. Sa moyenne est élevée. Faire valoir les difficultés qu’il a surmontées ne le desservira pas.Les partisans de l’affirmative action craignaient que les lycéens ne se désengagent. Trois mois après l’ouverture des dossiers, les premières statistiques d’inscription à la Common App montrent que le nombre de candidatures est en hausse par rapport à 2022. « Cela montre que les universités et les ONG ont réussi à communiquer aux étudiants qu’ils sont désirés dans les universités », se félicite Audrey Dow, la vice-présidente de The Campaign for College Opportunity, une association qui travaille à étendre l’accès à l’enseignement supérieur.Le résultat reste incertain. « Dans les prochaines années, il est probable qu’un nombre limité d’étudiants noirs et hispaniques seront admis dans les universités les plus sélectives, anticipe l’économiste Sandy Baum. Cela va être très difficile d’empêcher ce résultat. »

    #Covid-19#migrant#migration#etatsunis#immigration#enseignementsupérieur#discriminationpositive#mobilitesociale#minorite

  • Le projet de loi immigration instrumentalise la #langue pour rejeter des « migrants »

    La notion de « #langue_d’intégration » est revenue sur les devants de la scène politique avec le projet de loi qui visent à durcir les possibilités d’accueil des « migrants » en France, notamment en exigeant un niveau certifié de #français pour l’obtention d’un séjour longue durée. De nombreuses recherches montrent les effets pervers de cette pseudo-évidence, qui n’est qu’une #croyance_erronée.

    L’idée que la capacité à s’exprimer en langue officielle serait une condition préalable à la stabilisation du droit au séjour, car indicateur d’intégration, est devenue courante. C’est le cas notamment en France où a été officialisée la notion, critiquée (Vadot, 2017), de « Français Langue d’Intégration » en 2012 (Adami et André, 2012) comme un élément-clé conditionnant l’autorisation au séjour long des étrangers hors Union Européenne sur le territoire (Ouabdelmoumen, 2014). Cette condition est même imposée aux conjoints de Français alors que la loi fait, par ailleurs, obligation aux époux de vivre ensemble[1], ce dont s’alarme le collectif « Les Amoureux au Ban Public »[2], d’autant que la loi fait, par ailleurs, obligation aux époux de vivre ensemble, ce qui place les époux face à une contradiction terrible et insoluble. L’apprentissage de la ou d’une langue officielle du pays comme « preuve d’intégration » pour obtenir l’autorisation de séjour ou l’accès à la citoyenneté a d’ailleurs été exigée par d’autres pays de l’U.E. ces dernières décennies (Extramania, 2012 ; Goult, 2015a ; Pradeau, 2021).
    L’intégration linguistique est décrétée preuve d’assimilation

    La notion d’intégration a été officialisée en France dans les années 1990 (création du Haut Conseil à l’Intégration[HCI] par décret en 1989[3], intitulé d’un ministère depuis 1991[4]) et réaffirmée par diverses lois. Dès 2003, la « relative à la maîtrise de l’immigration, au séjour des étrangers en France et à la nationalité » prévoit :

    Art. 8 : la délivrance d’une première carte de résident est subordonnée à l’intégration républicaine de l’étranger dans la société française, appréciée en particulier au regard de sa connaissance suffisante de la langue française et des principes qui régissent la République française.

    Elle a été complétée par les lois de 2006 « relative à l’immigration et à l’intégration » et de 2007 « relative à la maîtrise de l’immigration, à l’intégration et à l’asile ».

    Le glossaire « Les Mots de l’intégration » du HCI a une entrée Intégration « participation effective de l’ensemble des personnes appelées à vivre en France à la construction d’une société rassemblée dans le respect de principes partagés » relativement distincte de Assimilation : « Aboutissement supposé ou attendu d’un processus d’intégration de l’immigré tel que celui-ci n’offre plus de caractéristiques culturelles distinctes de celles qui sont censées être communes à la majorité des membres de la société d’accueils ». On présente ainsi l’assimilation comme un aboutissement au plus haut degré de l’intégration. Cette distinction est légère :

    « L’adoption du mot [intégration] n’est cependant pas fortuite. Elle correspond à une tendance lourde de la société française face aux étrangers et néo-Français (...) Une intégration qui ressemble comme une jumelle à l’assimilation d’avant-hier (…) Ces termes furent bientôt interchangeables » (Gaspard, 1992, 21-23 et 124).

    La connotation totalitaire de l’assimilation a été contestée. Ainsi, à propos d’autres populations en situation précaire que les « migrants » : « Assimiler, c’est vouloir réduire l’autre au même, c’est une violence essentielle qui méconnaît l’expérience fondamentale de l’altérité, d’autrui. Assimiler est une démarche totalitaire » (Boyer, 2013, 110). Elle a ensuite été masquée par le terme intégration. À partir des années 2000, la montée du nationalisme français a d’ailleurs conduit au retour de l’usage « décomplexé » du terme assimilation, notamment dans les discours marqués très à droite (thème de campagne du candidat à la présidentielle Éric Zemmour en 2022, entre autres).

    La notion d’assimilation, appréciée notamment « au regard de sa connaissance de la langue française », est d’ailleurs restée dans la loi française depuis 1945 comme condition d’obtention de la nationalité française.
    L’association langue et intégration s’est répandue avec la montée des nationalismes et la crainte de l’immigration

    La notion de « Français Langue d’Intégration », institutionnalisée en France, conduit même, dans un texte de l’organisme officiel chargé de la politique linguistique en France, à affirmer qu’il y aurait un effet automatique de non intégration si le français n’est pas assez « maitrisé » :

    « Sous l’angle linguistique, (…) l’intégration humainement et socialement réussie passe par l’acquisition d’une compétence adéquate dans la langue du pays d’accueil. Son insuffisante maîtrise conduit, en effet, inéluctablement à l’exclusion sociale, culturelle et professionnelle » (DGLFLF, 2005, 7).

    Dans sa thèse, M. Gout montre qu’il y a depuis les années 2000 « une quasi-unanimité du discours politique en Europe sur le rôle prioritaire de la langue dans l’intégration » (Gout, 2015a, 70). Selon C. Extramiana (2012, 136) :

    « Les législations relatives à la maîtrise de la langue du pays d’accueil s’appliquent à trois situations administratives distinctes : l’entrée sur le territoire, la résidence permanente et l’acquisition de la nationalité (...) On constate un pic de 2003 à 2008. L’évolution concerne au premier chef les pays d’Europe de l’Ouest : le Danemark (2003, 2006, 2010), la Belgique/communauté flamande (2003), l’Allemagne (2004, 2007, 2008), la Grèce (2004 et 2005), la Norvège (2005), l’Autriche (2005), les Pays-Bas (2006 et 2007), la France (2007 et 2008), le Liechtenstein (2008). L’année 2009 voit l’adoption de deux nouvelles législations, pour l’Italie et le Liechtenstein, qui a connu une première législation l’année précédente ».

    La Suisse les a rejoints en 2005 pour le séjour long et 2018 pour l’acquisition de la nationalité, dans une des quatre langues officielles (Pradeau, 2021, 194 et 203-suiv.).
    Une fausse évidence, contradictoire et contredite par la recherche

    Or, de nombreuses réserves ont remis en question cette « évidence ». L’accord sur la fonction intégratrice de la langue n’est d’ailleurs général ni dans le temps ni dans l’espace : « Avant 2002, en dehors de l’Allemagne, aucun État membre n’avait d’exigence linguistique vis-à-vis des migrants » (Gout, 2015b, 77). Jusqu’à 2013 en Belgique et 2018 en Italie, il n’y en avait pas. En outre, les exigences ne concernent pas toute une partie de la population étrangère : les ressortissants des autres pays membres de l’UE peuvent s’installer librement (et même voter à certaines élections locales dans certains pays, comme la France) sans aucune condition linguistique. Le préalable linguistique ne vise que certaines populations, de façon clairement discriminatoire.

    De nombreuses études montrent que l’apprentissage de la langue officielle du pays dit « d’accueil » n’est pas une condition à une « intégration », laquelle passe aussi et surtout par d’autres voies, notamment emploi, logement, relations sociales, les habitants du pays n’étant pas, la plupart du temps, monolingues en langue officielle, contrairement à une croyance répandue (Biichlé, 2007 ; Archibald et Galligani, 2009 ; Benson, 2011 ; Hambye et Romainville, 2013 ; Étrillard, 2015). Di Bartolo (2021) a montré, en comparant les biographies linguistiques de familles italiennes installées en Suisse romande et en Savoie française que ce sont surtout les contextes sociolinguistiques qui ont des effets sur le rapport aux langues officielle et familiale, phénomène attesté dans de nombreuses situations (Blanchet, 2019 et 2022). D’autres concluent, en plus, que la pratique préalable ou l’apprentissage même réussi du français ne conduisent pas automatiquement à une « intégration » pour des personnes qui vont subir des discriminations par exemple xénophobes ou racistes (Al Ahmad, 2021). Enfin, la langue de néo-socialisation des personnes migrantes continue à se faire en fait, là où c’est encore nécessaire, plutôt dans une langue dite « locale » ou « régionale » qu’en langue officielle nationale (Beaubrun, 2020 pour la Martinique), processus attesté depuis longtemps mais largement ignoré par les instances étatiques françaises puisqu’il contredit l’unicité linguistique prétendue de la France (Eloy, 2003 pour la Picardie ; Blanchet, 2003 pour la Provence, par exemple). Enfin, au-delà des ressortissants de l’U.E., qui représentent 1/3 des « immigrés » en France[5], on peut être français ou française par filiation et ne pas parler français, par exemple pour les personnes qui sont nées et ont grandi à l’étranger ou dans des parties de la France où le français a été, voire est encore aujourd’hui, en partie étranger : si le cas est devenu rare en « métropole » suite à la politique linguistique autoritaire de l’État, il reste courant par exemple en Guyane[6].

    Ces recherches ne nient pas que « les intégrations (sociale, professionnelle, scolaire) sont, en partie, facilitées grâce à une compétence linguistique ou plutôt sociolangagière ». Elles précisent que cette compétence est « à acquérir à travers la multiplication des pratiques et des situations sociolangagières rencontrées » (Calinon, 2013, 43) et qu’il faut donc pouvoir vivre ces situations sans condition préalable. Des critiques sévères ont ainsi été émises sur l’apprentissage obligatoire, voire préalable, d’une langue dite « d’intégration » :

    « Aujourd’hui, en Europe, l’obligation institutionnelle d’ “intégration linguistique“ pour les migrants, avec la signature d’un contrat d’accueil et le passage obligatoire de tests qui décident de leur régularisation administrative (...) constitue un frein à l’adhésion des apprenants » (Gout, 2015b,139).

    « Parmi les effets contreproductifs relevés, la formation en langue (...) obligatoire (…) risque alors de compromettre d’autres projets et opportunités qui peuvent se révéler tout aussi décisifs dans l’apprentissage, comme dans l’intégration (travail ou bénévolat, recherche d’un logement plus décent, des opportunités de socialisation…). Cela amène (…) à se sentir empêchés de participer à la société française » (Mercier, 2021, n.p.).

    L’acquisition ou l’apprentissage de la langue « n’est pas un préalable à celle-ci [la vie sociale] mais sa conséquence » (Beacco, 2008, 15).
    La langue instrumentalisée pour faire obstacle à une véritable intégration des « migrants », donc pour les rejeter

    L’analyse de nombreux travaux portant sur les processus sociolinguistiques effectivement suivis par les personnes dites « migrantes » (Blanchet et Belhadj, 2019) confirme que les politiques et dispositifs visant une « intégration linguistique » obligatoire et surtout préalable, comme condition d’autorisation d’une insertion sociale effective, ne sont pas justifiés. L’acquisition des langues nécessaires à la vie sociale dans le pays d’accueil s’avère en fait motivée et réalisée par une participation concrète à cette vie sociale. Dès lors, il semble bien que ces dispositifs étatiques aient un tout autre objectif, de contrôle social (Vadot, 2022) : dresser un obstacle pour empêcher le plus grand nombre possible de personnes étrangères venant de certains pays d’avoir accès un séjour stable, durable, dans le pays dit d’installation, voire un séjour définitif en devenant ressortissant de ce pays. Cette interprétation est confirmée par le fait que les tests dits « d’intégration » ou « d’assimilation » comportent aussi des questions sur le pays auxquelles la plupart de ses citoyens seraient bien incapables de répondre[7] (Blanchet et Clerc Conan, 2015).

    On a manifestement affaire à un cas typique de discrimination glottophobe (au prétexte que des gens parlent une autre langue plutôt que français) qui recouvre une discrimination xénophobe (au prétexte que des gens sont étrangers), qui recouvre une discrimination ethniste ou raciste (au prétexte de telle ou telle origine). Ce n’est pas une politique d’intégration, c’est une politique de rejet[8].
    Références :

    Adami H., André V. (2012). Vers le Français Langue d’Intégration et d’Insertion (FL2I). Dans Adami H., Leclercq V. (dirs.), Les migrants face aux langues des pays d’accueil : acquisition naturelle et apprentissage guidé. Villeneuve d’Ascq : Presses Universitaires du Septentrion, p.205-214. En ligne : https://books.openedition.org/septentrion/14056

    Al Ahmad, R. (2021). Étude d’un atelier d’apprentissage du français par un public d’adultes « issus de la migration » dans un milieu associatif bénévole. Une mise en perspective des objectifs, besoins et modalités d’intervention des bénévoles et des apprenant.e.s par le détour d’une expérienciation d’approches plurilingues et interculturelles, Thèse de doctorat en sociolinguistique sous la direction de Ph. Blanchet, université Rennes 2, https://www.theses.fr/2021REN20035

    Archibald, J. et Galligani, S. (Dir.) (2009), Langue(s) et immigration(s) : société, école, travail, Paris : L’Harmattan.

    Beacco, J.-C. (2008). Les langues dans les politiques d’intégration des migrants adultes, www.coe.int/t/dg4/linguistic/Source/Mig08_JC-Beacco_PresDocOr.doc

    Beaubrun, F. (2020). Contextualisation didactique et médiations linguistiques, identitaires et culturelles dans l’enseignement du français langue d’intégration en Guadeloupe, thèse de doctorat sous la direction de F. Anciaux, université des Antilles, https://www.theses.fr/2020ANTI0499

    Benson, M. (2011). The British in rural France : lifestyle migration and the ongoing quest for a better way of life, New York : Manchester University Press.

    Biichlé, L. (2007). Langues et parcours d’intégration de migrants maghrébins en France, Thèse de Doctorat sous la direction de Jacqueline Billiez, Université Stendhal, Grenoble 3, http://tel.archives-ouvertes.fr/docs/00/72/90/28/PDF/ThA_se.pdf

    Blanchet, Ph. (2003). Contacts et dynamique des identités culturelles : les migrants italiens en Provence dans la première partie du XXe siècle. Dans La France Latine - revue d’études d’oc 137, Paris, 2003, p. 141-166, https://www.researchgate.net/publication/341078901_Contacts_et_dynamique_des_identites_culturelles_les_migrants

    Blanchet, Ph. (2019a). Effets des contextes sociolinguistiques sur les pratiques et les transmissions de plurilinguismes familiaux. Dans Revue algérienne d’anthropologie et de sciences sociales Insaniyat 77-78, p. 11-26, https://journals.openedition.org/insaniyat/17798

    Blanchet, Ph. (2022). Migrations, Langues, Intégrations : une analyse sociolinguistique comparative sur des stratégies étatiques et familiales. Dans Langues, cultures et sociétés, 8-2, p. 33-45 ; https://revues.imist.ma/index.php/LCS/article/view/35437

    Blanchet, Ph. et Belhadj Hacen A. (Dir.) (2019). Pratiques plurilingues et mobilités : Maghreb-Europe, Revue algérienne d’anthropologie et de sciences sociales Insaniyat, 77-78 bilingue arabe-français (daté 2017), https://journals.openedition.org/insaniyat/17771

    Blanchet, Ph. et Clerc Conan, S. (2015). Passer de l’exclusion à l’inclusion : des expériences réussies d’éducation à et par la diversité linguistique à l’école. Dans Blanchet, Ph. et Clerc Conan, S. (coord.), Éducation à la diversité et langues immigrées, Migrations Société 162, p. 51-70, https://www.cairn.info/revue-migrations-societe-2015-6-page-49.htm

    Boyer, H. (2013). Accueillir, intégrer, assimiler : définitions et éthique. À propos de l’accueil et de l’intégration des travailleurs handicapés en milieu professionnel, Dans Vie sociale et traitements 119, p. 106-111, https://www.cairn.info/revue-vie-sociale-et-traitements-2013-3-page-106.htm

    Calinon, A.-S. (2013). L’« intégration linguistique » en question, Langage et société 144, p. 27-40,https://www.cairn.info/revue-langage-et-societe-2013-2-page-27.htm

    Délégation Générale à La Langue Française (éd.) (2005). L’intégration linguistique des immigrants adultes, https://www.culture.gouv.fr/content/download/93701/file/rencontres_2005_09_integration_migrant_adultes_def.pdf

    Di Bartolo, V., Rapport à « la langue et à la culture italiennes » chez de jeunes adultes issus de familles du Mezzogiorno immigrées en Vaud et en Savoie dans les années 50/60. Quels processus de transmission au croisement de la sphère privée et publique ?, thèse de doctorat en sociolinguistique sous la direction de Ph. Blanchet et A. Gohard-Radenkovic, universités Rennes 2 et Fribourg (Suisse), https://www.theses.fr/2021REN20031

    Eloy, J.-M. et al. (2003). Français, picard, immigrations. Une enquête épilinguistique, Paris : L’Harmattan.

    Étrillard, A. (2015). La migration britannique en Bretagne intérieure : une étude ethno-sociolinguistique des pratiques d’interaction et de socialisation, thèse de doctorat de sciences du langage sous la direction de Ph. Blanchet, université Rennes 2, https://www.theses.fr/2015REN20035

    Extramiana, C. (2012). Les politiques linguistiques concernant les adultes migrants : une perspective européenne. Dans Adami, H., & Leclercq, V. (Eds.), Les migrants face aux langues des pays d’accueil : Acquisition en milieu naturel et formation. Villeneuve d’Ascq : Presses universitaires du Septentrion. doi :10.4000/books.septentrion.14075

    Gaspard, F. (1992). Assimilation, insertion, intégration : les mots pour "devenir français". Dans Hommes et Migrations1154, p. 14-23, www.persee.fr/doc/homig_1142-852x_1992_num_1154_1_1826

    Gout, M. (2015a). Le rapport entre langue et intégration à travers l’analyse comparative des dispositifs organisationnels des cours linguistiques d’intégration aux jeunes migrants hors obligation scolaire. Étude comparative des dispositifs en Allemagne, Belgique, France et Royaume Uni, Thèse de doctorat sous la direction de S. Clerc, Université d’Aix-Marseille. https://www.theses.fr/2015AIXM3038

    Gout, M. (2015b), Quatre approches didactiques pour la formation linguistique des migrants nouveaux arrivants. Dans Migrations Société 162, p. 139-154, https://www.cairn.info/revue-migrations-societe-2015-6-page-139.htm

    Hambye, Ph. et Romainville, A. S. (2013). Apprentissage du français et intégration, des évidences à interroger, Français et Société n°26-27.

    Mercier, E., 2021, Migrants et langue du pays d’accueil : les risques de transformer un droit en devoir, The Conversation, https://theconversation.com/migrants-et-langue-du-pays-daccueil-les-risques-de-transformer-un-d

    Ouabdelmoumen, N., (2014) Contractualisation des rapports sociaux : le volet linguistique du contrat d’accueil et d’intégration au prisme du genre, Thèse de doctorat en sciences du langage sous la direction de Ph. Blanchet, Université Rennes 2.

    Pradeau, C., 2021, Politiques linguistiques d’immigration et didactique du français pour les adultes migrants : regards croisés sur la France, la Belgique, la Suisse et le Québec, Paris : Presses de la Sorbonne Nouvelle.

    Vadot, M. (2017). Le français, langue d’« intégration » des adultes migrant·e·s allophones ? Rapports de pouvoir et mises en sens d’un lexème polémique dans le champ de la formation linguistique, Thèse de doctorat en sciences du langage sous la direction de J.-M. Prieur, Université Paul-Valéry Montpellier III, https://www.theses.fr/2017MON30053

    Vadot, M. (2022). L’accueil des adultes migrants au prisme de la formation linguistique obligatoire. Logiques de contrôle et objectifs de normalisation, Études de linguistique appliquée 205, p. 35-50, https://www.cairn.info/revue-ela-2022-1-page-35.htm

    [1] https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI000006422766

    [2] http://www.amoureuxauban.net

    [3] Le Haut Conseil à l’intégration a pour mission de « donner son avis et de faire toute proposition utile, à la demande du Premier ministre sur l’ensemble des questions relatives à l’intégration des résidents étrangers ou d’origine étrangère ».

    [4] Dont l’intitulé a comporté, de plus celui d’identité nationale de 2007 à 2010, cooccurrence significative.

    [5] https://www.insee.fr/fr/statistiques/3633212

    [6] https://www.culture.gouv.fr/Media/Thematiques/Langue-francaise-et-langues-de-France/fichiers/publications_dglflf/Langues-et-cite/Langues-et-cite-n-28-Les-langues-de-Guyane

    [7] https://www.slate.fr/story/121455/danemark-test-citoyennete-culture-generale-naturalisation

    [8] NB : Ce texte est une version développée d’un article publié dans The conversation le 20 juin 2023, lors de l’annonce du projet de loi (https://theconversation.com/non-la-langue-francaise-nest-pas-une-condition-a-lintegration-des-m)

    https://blogs.mediapart.fr/philippe-blanchet/blog/061123/le-projet-de-loi-immigration-instrumentalise-la-langue-pour-rejeter-
    #loi_immigration #France #sociolinguistique #intégration #Français_Langue_d’Intégration #obligation #langue_officielle #preuve_d'intégration #intégration_linguistique #citoyenneté #naturalisation #droit_de_séjour #assimilation #nationalisme #instrumentalisation #rejet #vie_sociale #discrimination_glottophobe #glottophobie #discriminations #xénophobie #racisme

    ping @karine4 @isskein @_kg_

  • Des #fouilles_corporelles « sexualisées » frappent les migrants aux frontières de l’Europe

    Déshabillés, humiliés, maltraités. Des femmes et des hommes venus demander asile racontent avoir subi des fouilles corporelles et génitales brutales, effectuées par des personnes censées garder les frontières de l’UE en Grèce.

    Corfou (Grèce).– Clémentine Ngono* n’a jamais voulu venir en Europe. Cependant, des expériences répétées de violence et d’agression l’ont forcée à fuir. D’abord son pays d’origine, le Cameroun, puis la Turquie. Aux premières heures du 15 septembre 2021, elle est montée à bord d’un canot pneumatique gris, en compagnie de son mari, de son fils de six mois et de 33 autres personnes. Qui savaient que le voyage serait dangereux. Conscientes que les autorités grecques pourraient les refouler, elles ont tout de même tenté leur chance.

    Juste après le lever du soleil, le groupe a atteint l’île grecque de Samos. Très vite, un navire des gardes-côtes les a arrêtées. Un groupe d’hommes encagoulés les a embarquées. Une fois sur le bateau de la patrouille grecque, les personnes ont été mises à genoux puis, une par une, ont reçu l’ordre de se lever et de se déshabiller devant tout le monde. Celles et ceux qui osaient résister ont été menacé·es et battu·es, leurs vêtements arrachés et déchirés. Une fois toutes les personnes nues, l’un des hommes masqués a commencé la fouille au corps, n’hésitant pas à toucher les seins et les parties génitales des femmes.

    « Il nous fouillait partout », se souvient Clémentine Ngono, horrifiée, en pressant deux doigts l’un contre l’autre et en les pointant sur son abdomen. « C’est ainsi qu’il a mis sa main dans mon vagin », dit-elle en faisant une pause avant d’ajouter : « Et dans mon anus. » Les hommes, qui ont utilisé les mêmes gants en plastique pour fouiller tout le groupe, ont pris son téléphone et les 500 euros qu’elle avait sur elle.

    Plus tard, le groupe a été abandonné sur des radeaux de sauvetage en Méditerranée. Aujourd’hui encore, Clémentine Ngono ne peut oublier la honte qu’elle a ressentie. « C’était une telle humiliation », dit-elle lors d’un entretien en juillet 2023 à Corfou, où elle travaille pendant l’été comme femme de chambre. Clémentine Ngono a intenté une action en justice, déclarant que la fouille corporelle et génitale forcée était « extrêmement invasive et offensante ». Son cas pourrait toutefois s’inscrire dans une tendance plus large.

    Début 2023, le Comité contre la torture (CPT) du Conseil de l’Europe a critiqué les nombreux cas de mauvais traitements lors des « refoulements » aux frontières de l’Union européenne (UE). Selon son rapport, les autorités frontalières obligent parfois les demandeurs et demandeuses d’asile à repasser la frontière « entièrement nus ». Le Border Violence Monitoring Network, une coalition d’organisations non gouvernementales, fait état de pratiques similaires.

    De même, dans un rapport publié jeudi 2 novembre, Médecins sans frontières (MSF) a recueilli plusieurs témoignages de réfugié·es racontant des fouilles corporelles et génitales sexualisées par de supposés gardes-frontières. Ces derniers obligeraient les demandeurs et demandeuses d’asile à se déshabiller avant de procéder à des fouilles vaginales et anales en public, parfois sans changer de gants. Les fouilles des femmes seraient effectuées par des hommes, comme dans le cas de Clémentine Ngono.
    « Le but était de nous humilier »

    Mediapart s’est entretenu avec plusieurs victimes, des avocats, des ONG, et a examiné des documents internes de l’agence européenne de gardes-côtes Frontex. L’image qui en ressort est celle d’une pratique normalisée : celle de mises à nu et de fouilles génitales forcées lors des refoulements par les autorités frontalières grecques. Ces pratiques semblent avoir un objectif central : dissuader les personnes de réessayer tout en volant leurs objets de valeur et leur argent.

    Meral Şimşek jette sa cigarette à moitié consumée et acquiesce. Cela fait un an que la poétesse kurde est arrivée à Berlin (Allemagne). Meral Şimşek, critique véhémente du régime d’Erdoğan, a été confrontée toute sa vie à la violence et à la persécution des autorités turques. En 2021, les choses ont empiré, elle a alors décidé de quitter son pays.

    Le 29 juin 2021, elle a traversé le fleuve Évros en compagnie d’une femme syrienne, Dicle. « Nous sommes arrivées sur le sol grec », dit-elle dans une vidéo qu’elle a enregistrée au crépuscule. Après plusieurs heures, les deux femmes ont atteint Feres, une petite ville frontalière grecque. Meral Şimşek voulait demander l’asile, mais la police grecque les a interpellées à l’entrée de la ville.

    Après les avoir détenues et battues, les policiers ont emmené les deux femmes dans la rue. Là, ils ont forcé Meral Şimşek à se déshabiller. Ensuite, une policière a fouillé ses parties génitales, en pleine rue. « Ils ont regardé directement dans mon vagin », raconte-t-elle. Pendant ce temps, les autres policiers regardaient. Şimşek se souvient que certains ont fait des commentaires en grec en regardant son corps. Ils ont ensuite fouillé Dicle avec les mêmes gants en plastique. Puis les deux femmes ont été livrées à un groupe d’hommes masqués et reconduites de force en Turquie. « Le but était de nous humilier », dit-elle.

    Du côté des autorités grecques, ni le ministère de l’intérieur ni le ministère des migrations et de l’asile n’ont commenté ces allégations. Les gardes-côtes grecs ont déclaré que « les pratiques opérationnelles des autorités grecques n’incluent pas de telles méthodes », car elles seraient contraires à l’article 257 du Code de procédure pénale grec.

    Interrogée sur les allégations de fouilles corporelles et génitales forcées, Frontex a déclaré à Mediapart qu’elle « avait connaissance d’une poignée de cas de ce type en Grèce et en Bulgarie ».
    Des témoignages connus de Frontex

    Mediapart a pu avoir accès à plusieurs rapports internes du responsable des droits fondamentaux de Frontex, qui contiennent des allégations et des descriptions de mises à nu forcées, principalement à la frontière de l’Évros. Dans un « rapport d’incident grave » (SIR) portant le numéro 10142/2018, daté du 18 novembre 2018, Frontex indique qu’un groupe de réfugiés aurait été repoussé par les autorités grecques après avoir été agressé physiquement et « obligé à se déshabiller ».

    Le rapport SIR 13400/2022, qui concerne une série de refoulements par les autorités grecques en juillet et août 2022, rapporte que des migrants ont été « forcés de repasser par la rivière après que leurs effets personnels leur ont été confisqués, après avoir été déshabillés et battus ».

    Le rapport SIR 15314/2022 du 30 mai 2023 décrit plusieurs refoulements sur le fleuve Évros. Selon ce rapport, un migrant a été « soumis à des violences physiques, mis à nu de force, ses biens ont été volés ou détruits, avant qu’il reçoive l’ordre de retourner irrégulièrement en Turquie » par les autorités grecques.

    Frontex considère elle-même que les déclarations contenues dans le rapport sont « relativement crédibles ». Si les témoignages sont confirmés, l’agence européenne affirme que cela constituerait « probablement une expulsion collective interdite et un traitement inhumain et dégradant ».

    À Samos, l’avocate Ioanna Begiazi ouvre la porte de son cabinet, dans la vieille ville de Vathi. Elle se souvient du cas de Clémentine Ngono. « Elle est venue nous voir parce qu’elle voulait agir », dit-elle. Et le cas de Clémentine Ngono n’est pas isolé.

    Ioanna Begiazi représente régulièrement des victimes de refoulements illégaux. « Les femmes, en particulier, nous disent que les fouilles génitales sont très fréquentes », explique-t-elle. Mais les hommes sont également concernés, ajoute-t-elle. « Il s’agit d’une forme d’humiliation et de dissuasion », explique Ioanna Begiazi. Une humiliation qualifiée par l’avocate de « sexualisée », et qui aurait pour but de décourager les migrant·es de franchir à nouveau la frontière.

    Ioanna Begiazi explique que les fouilles à nu ne sont en soi pas interdites en Grèce. Mais il faudrait qu’il y ait une raison sérieuse pour une telle intervention, comme des preuves concrètes qu’un acte criminel a été commis. Et même si c’était le cas, il existe de nombreuses réglementations. Les fouilles corporelles doivent notamment être conformes aux règles d’hygiène, les agents qui les pratiquent doivent donc changer de gants pour chaque personne qu’ils fouillent.

    Elles doivent aussi être effectuées dans le respect des droits personnels et de la dignité humaine de l’individu. De plus, les fouilles sont censées se dérouler dans un environnement protégé, en aucun cas devant d’autres personnes, afin de garantir le respect de la vie privée. Enfin, elles doivent être réalisées par des personnes du même sexe sans usage ou menace de violence physique.

    La Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a statué en 2001 que les fouilles corporelles effectuées par les forces de l’ordre peuvent être justifiées dans certains cas. Par exemple, si elles permettent d’empêcher des infractions pénales. Cependant, les déshabillages forcés et les fouilles génitales, qui laissent aux victimes « des sentiments d’angoisse et d’infériorité propres à les humilier et à les avilir », violent l’article 3 de la Convention européenne des droits de l’homme.

    Les témoignages des demandeurs et demandeuses d’asile qui dénoncent des mises à nu et des fouilles génitales forcées conduisent les expert·es des droits humains à penser qu’il pourrait s’agir d’une violation de la Convention européenne des droits de l’homme.

    « C’est l’un des moyens de faire passer le message et de les dissuader », explique l’avocat spécialiste des droits humains Nikola Kovačević. Expert dans le domaine de la migration, le Serbe rapporte avoir également connaissance de cas de déshabillage forcé et de fouilles génitales par les autorités frontalières. Selon lui, elles sont destinées à envoyer un message : « Si vous revenez, cela se reproduira. »

    Kovačević estime que les fouilles corporelles et génitales sexualisées violent l’interdiction de la « torture, des traitements dégradants ou inhumains » ancrée dans la Convention de l’UE sur les droits de l’homme et la Convention des Nations unies contre la torture.

    « Les traitements inhumains et dégradants sont dirigés contre la dignité humaine, explique-t-il. Vous privez une personne de sa dignité, vous la forcez à s’agenouiller, vous lui crachez dessus, vous la déshabillez, vous créez une situation dans laquelle cette personne se sent inférieure. »

    Selon Nikola Kovačević, la frontière entre la torture et les traitements inhumains ou dégradants est parfois floue. Cependant, ces deux délits ont une caractéristique centrale en commun : juridiquement, ils ne permettent aucune exception. « Il n’existe aucune circonstance imaginable qui justifie d’infliger de la douleur et de la souffrance à une personne sans défense », explique l’avocat.

    À Corfou, Clémentine Ngono se lève, essuie la sueur de son front et regarde sa montre. Elle dit être épuisée. Fatiguée par les longues heures de travail à l’hôtel, les factures impayées, le sentiment de culpabilité, par la séparation physique avec son mari, dont la demande d’asile a été rejetée.

    Clémentine Ngono dit qu’elle n’aime pas vraiment parler de ce qu’elle a vécu. Cependant, il est important pour elle que des choses similaires n’arrivent pas à d’autres. « Nous avons besoin de gens qui ont le courage de parler », dit-elle. Sinon, rien ne changera. Pour elle, c’est pénible de parler de ce qui s’est passé mais, dit-elle, « si je peux aider les autres, je le ferai ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/031123/des-fouilles-corporelles-sexualisees-frappent-les-migrants-aux-frontieres-

    #migrations #asile #réfugiés #violence #Grèce #humiliation #mauvais_traitements #organes_génitaux #nudité #fouille_au_corps #honte #fouilles_génitales #gardes-frontières #refoulements #push-backs #vol #Evros #Samos #dissuasion #femmes #humiliation_sexualisée #dignité #déshabillage #dignité_humaine

  • BALLAST • Quand « plus jamais ça » devient un cri de guerre
    https://www.revue-ballast.fr/quand-plus-jamais-ca-devient-un-cri-de-guerre

    L’image a fait le tour du monde : lun­di der­nier, l’ambassadeur israé­lien à l’ONU a abor­dé une étoile jaune au cours d’une réunion du Conseil de sécu­ri­té. Sur cette étoile de bien sinistre mémoire, on pou­vait lire : « Never again ». Choqué, le pré­sident de Yad Vashem — le mémo­rial de la Shoah à Jérusalem — a aus­si­tôt réagi : « Cet acte désho­nore les vic­times de l’Holocauste ain­si que l’État d’Israël. » Cette réfé­rence au géno­cide des Juifs d’Europe n’est pas une pre­mière : elles abondent depuis le san­glant 7 octobre. Natasha Roth-Rowland, his­to­rienne spé­cia­li­sée sur l’ex­trême droite, se lève, dans les colonnes du maga­zine israé­lien +972, contre cette ins­tru­men­ta­li­sa­tion du pas­sé en vue de jus­ti­fier les actions mili­taires en cours. En l’oc­cur­rence : « un grave dan­ger de net­toyage eth­nique », aver­tis­sait l’ONU il y a déjà deux semaines. On dénombre aujourd’­hui près de 8 900 morts gazaouis, dont plus de 3 600 enfants. Médecins sans fron­tières fait savoir que les ampu­ta­tions se pra­tiquent désor­mais sans anes­thé­sie. L’UNICEF appelle en vain à un ces­sez-le-feu huma­ni­taire immé­diat : Gaza est deve­nue « un véri­table enfer ». Tandis que les gou­ver­ne­ments du Nord conti­nuent de sou­te­nir la poli­tique d’a­néan­tis­se­ment de la bande de Gaza — voire l’arment, dans le cas des États-Unis —, de nom­breuses voix s’é­lèvent de par le Sud dans l’es­poir que cesse au plus vite l’hor­reur : les pou­voirs boli­vien, chi­lien et colom­bien viennent ain­si de rompre toutes rela­tions diplo­ma­tiques avec Israël ou de rap­pe­ler leurs ambas­sa­deurs. La solu­tion ne sera que poli­tique, rap­pelle l’au­trice. Nous tra­dui­sons son article.

    • L’intérêt rhétorique qui consiste à assimiler ses ennemis à des nazis — ce à quoi procède fréquemment la droite israélienne et ses partisans lorsqu’ils discutent des Palestiniens en général — réside dans la manière dont cela suggère, implicitement ou explicitement, qu’il n’y a qu’une seule ligne de conduite logique, voire morale : l’élimination complète des personnes désignées comme nazies et de toute personne considérée comme leur étant affiliée. C’est pourquoi le discours actuel est inondé d’appels au génocide et à l’épuration ethnique qui émane d’un éventail effroyablement large de sources, et est soutenu par l’idée que, pour reprendre les termes d’un chroniqueur dans le plus lu des journaux israéliens, « le Hamas et les habitants de Gaza sont une seule et même chose ». La constante invocation de l’Holocauste n’a pas l’air d’avoir contribué à sensibiliser à ses leçons ceux qui appellent à la destruction de Gaza. En plus des appels à des massacres en guise de vengeance et des nombreuses références aux Palestiniens comme autant d’« animaux », l’imagerie nazie a également fait la tournée des « hasbaristes » [relais des stratégies de communication de l’État d’Israël envers le reste du monde, ndlr] sur les réseaux sociaux : dans un dessin qui aurait pu tout droit venir de Der Stürmer [hebdomadaire nazi actif de 1923 à 1945, ndlr], on voit une botte de Tsahal sur le point de marcher sur un cafard dont la tête est celle d’un combattant du Hamas. L’ironie est transparente et grotesque : une propagande similaire, obscène, qui a contribué à alimenter des horreurs inimaginables est adoptée pour, en apparence, empêcher la répétition de cette même histoire — et pour justifier la poursuite des massacres ethniques et de la punition collective.

      #épuration_ethnique #nazification_des_Palestiniens #négationnisme #Israël #discours_génocidaire

  • Réhumaniser les personnes décédées en Méditerranée

    Au-delà d’un bilan chiffré, les personnes décédées sont des personnes, avec une histoire et des proches. Dans un contexte de guerre comme un contexte migratoire, lutter contre la #déshumanisation permet à plusieurs acteurs de faire passer des messages politiques.

    Il y a d’abord ces noms, écrits au stylo sur les bras par des enfants de Gaza et dont les images ont circulé sur les réseaux sociaux ces derniers jours. Un prénom, une date de naissance, pour être identifié, pour dire qu’on a existé. Alors que dans la nuit de vendredi 27 à samedi 28 octobre la guerre en Israël et en Palestine est entrée dans une nouvelle phase selon les termes de l’état-major israélien, les Palestiniens bloqués au nord de Gaza subissent des bombardements intensifs. Le territoire est d’ailleurs aujourd’hui décrit comme un “champ de bataille” par l’armée israélienne.

    Jour après jour, les bilans sont diffusés. Le Hamas, qui a pris le pouvoir sur #Gaza depuis 2007, publie le décompte quotidien des victimes du conflit côté palestinien. Des chiffres repris dans les médias qui donnent l’impression d’une masse d’êtres humains non-identifiables ; plus de 8 000 personnes décédées à ce jour, dont 40% sont des enfants selon l’ONG Save the Children qui publiait dimanche 29 octobre un communiqué pour alerter sur cette réalité : 3 257 enfants sont morts depuis le début de l’offensive israélienne en réponse aux attaques meurtrières du Hamas contre des civils israéliens le 7 octobre. En trois semaines, le nombre d’enfants tués a dépassé le bilan de l’année 2019.

    A ce jour, l’OMS indique également qu’un millier de corps non identifiés seraient ensevelis sous les décombres à Gaza. Derrière les statistiques, la peur d’être oublié, que son corps disparaisse sans identité, comme le rappelle les mots de la journaliste palestinienne Plestia Alaqad qui rend compte du conflit sur son compte Instagram : “je perds mes mots à ce stade… à chaque minute, Gaza pourrait être effacée et personne ne saurait rien… je pourrais être tuée à chaque instant, et le plus effrayant est que peut-être, personne n’arrivera à retrouver mon corps mort, et il n’y aura peut être plus rien de moi-même à enterrer”, a-t-elle écrit le 28 octobre alors qu’Israël annonçait lancer la seconde phase de son offensive sur Gaza et intensifiait les bombardements sur l’enclave.

    Ces chiffres égrenés au fil des semaines rappellent d’autres drames, d’autres disparitions silencieuses et invisibles. En Palestine, comme en haute mer depuis le début des années 2010, invisibiliser, nier la présence des corps participe au processus de déshumanisation. Il vient illustrer la hiérarchie des décès entre ceux que l’on montre, que l’on médiatise et que l’on prend en compte et ceux que certains préfèrent laisser dans une masse incertaine. Dans les différents cas, il y a les dominés et les dominants. Un processus politique qui n’est pas inéluctable et qu’il est possible de dénoncer et de dépasser.

    Au-delà des bilans qui paraissent importants à diffuser pour montrer l’ampleur du drame qui se joue à Gaza, certains souhaitent donc aujourd’hui réhumaniser les victimes, mettre un visage, un parcours, une histoire pour ne pas oublier que sous les bombes se sont des humains qui disparaissent : “On peut continuer à rafraîchir le bilan du nombre de morts à Gaza de manière froide et désintéressée ou bien on peut considérer que ces femmes, ces hommes, ont des visages, des noms, des histoires”, explique le journaliste du Parisien Merwane Mehadji sur le réseau social X (anciennement Twitter). Sur son compte, il publie des photos et des courtes biographies de certains des invisibles décédés à Gaza : l’autrice Heba Abu Nada, 32 ans, Ibraheem Lafi, photoreporter, 21 ans, Areej, dentiste, 25 ans qui devait se marier dans quelques jours.

    Sur le site de l’ONG Visualizing Palestine c’est la campagne We Had Dreams qui met des mots sur les peurs et les aspirations des personnes prises au piège dans Gaza bombardée :

    “Si je meurs, rappelez-vous que nous étions des individus, des humains, que nous avions des noms, des rêves, des projets et que notre seul défaut était d’être classé comme inférieurs », Belal Aldbabbour.

    Ces initiatives posent un des enjeux actuels du conflit : mettre un visage c’est humaniser les #victimes alors que dans de nombreuses déclarations de responsables politiques en Europe et aux États-Unis, il est courant de parler uniquement du Hamas comme cible des Israéliens. Hillary Clinton dit ainsi “ceux qui demandent un cessez-le-feu ne comprennent pas qui est le Hamas”. Cela revient alors à annuler la présence de civils à Gaza ou à faire des habitants des terroristes.

    https://twitter.com/CBSEveningNews/status/1718681711133794405

    Du côté des autorités israéliennes, certaines personnalités politiques nient même l’humanité des habitants de Gaza : « J’ai ordonné un siège complet de la bande de Gaza. Il n’y aura pas d’électricité, pas de nourriture, pas de carburant. Tout est fermé. Nous combattons des animaux humains et nous agissons en conséquence », déclarait ainsi le ministre XX le XX octobre.

    “Nous sommes en présence d’un désir d’éradiquer les Palestinien.ne.s, si ce n’est de la terre, de la vie politique terrestre”, analyse la chercheuse Samera Esmeir au regard de cette déclaration. Dans un article publié en anglais sur le site du média égyptien Mada Masr, elle explique : “ Nous sommes en présence d’une entreprise coloniale qui tente de détruire ce qui a échappé à la destruction pendant et après les cycles précédents de conquête et de dévastation – cycles qui ont commencé en 1948. Nous sommes en présence d’une volonté coloniale d’effacer l’autochtone.” Remontant l’histoire de la création de l’État d’Israël, la professeure associée du département de rhétorique de l’université de Berkeley en Grande-Bretagne développe pour démontrer la construction au fil des années d’une dénégation d’accorder un statut civil aux Palestiniens : “La société palestinienne a été détruite en 1948. Les territoires occupés en 1967 ont été délibérément fragmentés, déconnectés et séparés par des colonies. Il n’y a pas de forme d’État, d’armée permanente, d’étendue de territoire ou de position civile. Au lieu de cela, il y a de nombreux camps de réfugiés, des familles dépossédées et des sujets en lutte. Tout ce qui pourrait favoriser la normalité civile est déjà visé par l’occupation israélienne, qu’il s’agisse de maisons, d’écoles, d’ONG, de centres culturels ou d’universités. Comparée à l’autre côté de la ligne verte, la vie en Cisjordanie et dans la bande de Gaza, où se concentre la violence israélienne à l’encontre des Palestinien.ne.s, n’autorise aucune normalité civile”.

    Selon les statistiques de l’ONG israélienne pour la défense des droits humains B’Tselem, plus de 10 500 Palestiniens ont été tués par les forces israéliennes depuis le début de la 2nde Intifada en 2000. L’ONG a entrepris un travail de vérification de chaque décès, que la personne soit palestinienne, israélienne ou étrangère : “B’Tselem examine les circonstances de chaque décès, notamment en recensant les témoignages oculaires lorsque cela est possible et en rassemblant des documents officiels (copies de pièces d’identité, actes de décès et dossiers médicaux), des photographies et des séquences vidéo”, peut-on lire sur le site de l’organisation. Un travail de recensement et d’identification qui répond également à l’enjeu de garder traces des victimes du conflit au fil des années. Une position que l’organisation défend depuis sa création : “Depuis la création de B’Tselem en 1989, nous documentons, recherchons et publions des statistiques, des témoignages, des séquences vidéo, des prises de position et des rapports sur les violations des droits humains commises par Israël dans les territoires occupés.”, peut-on lire sur le site internet de l’ONG. Une position énoncée dans le nom même de l’association puisque B’Tselem signifie en Hébreu “à l’image de” selon un verset de la Genèse (premier livre de la Torah juive et de la Bible chrétienne) qui considère : “Le nom exprime l’attendu moral universel et juif de respecter et de faire respecter les droits humains de tous”.

    Un enjeu qui rappelle celui de la disparition de personnes migrantes anonymes en Méditerranée. Des corps avalés par la mer que la médecin légiste italienne #Cristina_Cattaneo et son équipe tentent, elles-aussi, d’identifier. Son livre Naufragés sans visage a été traduit en français en 2019. Une manière de lutter contre la figure du migrant qui devient parfois une entité abstraite, notamment dans les discours politiques des extrêmes en Europe. “Lorsque l’on identifie ces gens, il est aussi plus difficile de détourner les yeux de la situation”, expliquait-elle au micro de France Culture. Un travail qu’elle réalise au sein de l’université de Milan depuis 1995 au début à propos des inconnus de la rue décédés. En 2013, les inconnus de la migration prennent de plus en plus de place dans son travail du fait de la catastrophe grandissante en haute mer.

    Comme à Gaza, les personnes migrantes sont conscientes de la possibilité de disparaître sans laisser de #traces. Dans son travail à la frontière entre l’Espagne et le Maroc, l’anthropologue #Carolina_Kobelinsky relève : « Toutes les personnes rencontrées parlent de la mort, des morts laissés en route, des stratégies pour y faire face. De l’éventualité de sa propre mort. La mort est présente dans les discours quotidiennement, autant que la musique, le foot,… ». Elle décide donc d’intégrer à son terrain de recherche l’omniprésence de la mort comme potentialité dans les #récits des personnes qui traversent la frontière. A la frontière entre le Maroc et l’Espagne au niveau de Melilla et Nador, il est aussi question de la disparition des corps à la « barrière », notamment lors des confrontations avec la gendarmerie marocaine ou la guardia civile espagnole.

    « Ces #corps disparaissent : enterrés dans des #fosses_communes, avalés par la terre, toutes sortes de théories circulent parmi les migrants. Cela renforce l’idée qu’il s’agit non seulement d’une #peur de la mort mais encore plus celle de la #disparition_totale. Ils sont partis comme anonymes socialement, et ils atteignent l’#anonymat de la mort avec la #volatilisation du corps. »

    « Le plus important pour les jeunes rencontrés est de mettre en place une #stratégie pour faire en sorte que les familles reçoivent la nouvelle du décès. Interviennent alors de véritables « #pactes », où l’on apprend le numéro de téléphone par cœur de la famille de l’autre pour faire passer ce message : « J’ai fait tout ce que j’ai pu pour avoir une vie meilleure », jusqu’à la mort.

    https://www.1538mediterranee.com/rehumaniser-les-personnes-decedees-en-mediterranee
    #décès #humanisation #réhumanisation #migrations #guerre #mort #morts #identification

  • Thousands of Palestinian Workers Have Gone Missing in Israel

    Thousands of Palestinian day laborers from Gaza are stranded in Israel amid the explosion in #violence. Israel has revoked their work permits, and their families fear they may be imprisoned — or worse.

    There are few groups in history who have suffered as many waves of dispossession and displacement in such a short period as the Palestinian people. On May 15, 1948, over 700,000 Palestinians were driven out of their homeland and over 500 Palestinian villages were destroyed in what is known as the Nakba or “catastrophe.”

    The Nakba isn’t a fixed historical event but an ongoing phenomenon characterized by seventy-five years of occupation, colonial violence, and displacement. The Gaza Strip, one of the most densely populated places on earth, is home to many of these refugees — some still have the keys to their former homes. The past three weeks have been particularly difficult; over 8,000 Palestinians have been killed by Israeli bombardments on mosques, schools, hospitals, and residential buildings.

    Since 2007, Gaza has been economically suffocated by a siege that stops food, medicine, and construction materials from getting in. The unemployment rate stands at 47 percent. It’s why so many have jumped at the opportunity since October 2021 to access work permits to earn a living as day laborers in Israel. The process of applying for a work permit is arduous and unpredictable. Israel issues these permits through a quota system, and many applicants are denied. Those who secure permits face daily challenges, including long waits at border crossings, strict security checks, and grueling commutes. There are 19,000 Palestinians from Gaza in this position.

    Yasmin, a Palestinian trade union organizer, says these workers work the most undesirable, dangerous, and physically demanding jobs. “You go in, give your labor and go out. You are not considered part of the country. Permits are conditional on Palestinians working in specific industries where there is a lack of an Israeli workforce.”

    Those industries include construction, agriculture, and manufacturing. Serious injury rates are much higher than average, but the desperation to provide for your family means there is no luxury of choice.

    “It is intensive labor with high levels of precarity. There are many deaths in the construction sector. And there is an internal division of labor and power dynamic at play with Palestinian workers the lowest paid and most exploited.”
    Disappeared Workers

    When the latest wave of violence began three weeks ago, the Erez crossing into Gaza was completely closed off. Thousands of Palestinian laborers were stranded on the Israeli side, far from their families and with no source of income. Their work permits were revoked, leaving their lives in flux. It is a familiar pattern for Palestinians: displacement, dispossession, and uncertainty.

    “Some are missing, some are stranded, some have been arrested, and others have been deported to the West Bank,” explains Shaher Saed, general secretary of the Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU). Saed and his colleagues in Ramallah have been attempting to support Palestinians from Gaza who have been estranged from their families, made homeless, and internally displaced yet again.

    Muhammad Aruri, head of legal affairs for the General Union of Palestinian Workers, tells us that Palestinian families are particularly worried about the condition of their loved ones who have gone missing. “There’s 5,000 that we don’t have any information about. We don’t know if they are dead or alive.”

    Locating these workers isn’t difficult for the Israeli state. As Yasmin explains, “The whole permit system is a surveillance system done in a specific kind of way to help the state locate people in these kinds of scenarios. The last report I heard is that there are 4,000 workers at the moment detained and being interrogated. The state is not letting these workers go back to their families. They are being detained and interrogated or are in the West Bank having to fend for themselves.”

    It is impossible to know how many Palestinian workers are in Israel and how many are detained, as Israeli authorities have failed to respond to enquiries by NGOs. It is estimated that at least 4,000 Palestinian workers from Gaza are currently held by Israeli authorities in undetermined locations, with little to no information about their condition, unclear legal status, and denied their right to legal representation.

    “In the middle of this horrible situation, the Israeli occupation army did not hesitate in inflicting all kinds of harm against the workers, especially those from Gaza who work in Israel,” says Saeed. “They were prevented from returning to their homes, expelled from their workplaces, and transferred to the West Bank without any shelters. This was done after they had been physically assaulted and had their personal belongings confiscated, such as their money, identity cards, and entry permits to Israel.”

    Saeed says the Palestinian General Federation of Trade Unions has received thousands of calls from concerned family members who have lost contact with relatives. “We were informed that many of the workers are under detention in Anatout military camp in northern occupied Jerusalem, under degrading and inhumane conditions. The PGFTU demands to release our workers and take steps to guarantee their safe return to their families. We appeal and call our colleagues and partners in the international trade unions for support and solidarity with the workers to eliminate injustice against them. We demand the Red Cross international make an immediate visit to Anatout detention to check on our workers’ conditions.”

    Some workers were allegedly dumped at West Bank checkpoints, went into nearby cities, and took shelter there. Many workers in Israel fled and sought to make their way to the West Bank, fearing for their safety.

    The detention of Palestinian workers could be unlawful, and Israeli human rights organizations such as Gisha have petitioned for further information on their location and condition.
    Economic Dependency

    In 2017, the Israeli government declassified thousands of pages of meeting transcripts from 1967. In the aftermath of the six-day war, where Israel captured the Gaza Strip, the Golan Heights, the Sinai Peninsula, and the West Bank, a great deal of discussion went on about what to do with these new territories. Using these documents, Dr Omri Shafer Raviv drew attention to how Israeli leaders sought to expand their control over newly occupied populations by bringing Palestinian workers into Israel.

    While the work permit system may provide temporary economic relief to Palestinians, it has created a cycle of dependency with which Israel can access a cheap supply of labor and exercise greater control over Palestinians. Coupled with a siege that prevents sustainable economic development, access to resources, and trade, Palestinians in Gaza are economically subjugated.

    The mobility of Palestinian workers is often restricted at checkpoints where they face frequent interrogation and are often late or miss shifts altogether, incurring significant financial loss. All Palestinian trade passes through Israeli borders and checkpoints. It means much higher logistics costs — crippling Palestinian businesses and forcing many to close.

    The small proportion of workers who are granted work permits have no legal recourse or medical cover and work in industries with a high risk of accidents. They are frequently mistreated by employers who are well aware that Palestinian workers are without the most basic rights and protections.

    The plight of these workers is emblematic of the broader challenges Palestinians face. The economic hardships, insecurity, and exploitation they endure serve as a stark reminder of the urgent need to end the siege on Gaza and the occupation more broadly.

    https://jacobin.com/2023/10/palestinian-workers-missing-detained-israel-occupation-gaza

    #disparus #travailleurs_palestiniens #Palestine #Israël #disparitions #7_octobre_2023 #travail #permis_de_travail

  • Violences faites aux enfants : 101 professionnels du droit, de la santé et du monde associatif répliquent à l’Ordre des Médecins
    https://www.nouvelobs.com/opinions/20231020.OBS79768/violences-faites-aux-enfants-101-professionnels-du-droit-de-la-sante-et-d

    - L’Ordre a condamné à de lourdes interdictions d’exercice des médecins qui n’avaient fait que signaler des enfants en danger. Ce faisant, il n’a pas respecté l’article 226-14 du Code pénal qui précise que dans ces cas la responsabilité civile, pénale ou disciplinaire du médecin ne peut être engagée.

    – L’Ordre interdit paradoxalement au médecin de mettre en cause dans ses écrits un parent maltraitant alors que plus de 80 % des violences faites aux enfants le sont dans le cadre de la famille.

    – L’Ordre quand il ne soutient pas des accusés applique aux médecins l’interdiction d’immixtion dans les affaires de famille. Et ce au lieu de privilégier la règle déontologique du devoir de protection des enfants. Récemment encore un médecin (appuyé par le Conseil départemental de l’Ordre) a poursuivi un confrère généraliste. Son seul tort ? Avoir voulu protéger la fille du plaignant. Une enfant de 12 ans qui se scarifiait, ne mangeait plus, ne dormait plus, souffrait de céphalées et de douleurs abdominales. Son père (déchu de son autorité parentale, sous le coup d’une interdiction de détention et de port d’armes, en cours de procédure pour viols sur plusieurs ex-conjointes) tentait de prendre contact avec elle.

    #inceste #ordre_des_médecins_dissolution

  • Face à la folie du monde
    https://reporterre.net/Face-a-la-folie-du-monde

    Cela m’avait échappé, j’ai appris à l’occasion de cette audience que la représentante du ministère de l’Intérieur avait indiqué que les 155 000 signataires se revendiquant des Soulèvements de la Terre entraient de facto dans le scope des renseignements territoriaux . Les implications d’une éventuelle dissolution sont vertigineuses, tant du point de vue de la jurisprudence, que des effets en termes de surveillance et du champ encore élargi de la répression. Où se situent les limites, que deviennent les libertés publiques, si le fait de signer un appel autorise le gouvernement à vous mettre sur écoute ?

  • 🏳️‍🌈 Sénégal : la dépouille d’un « homosexuel » exhumée et brûlée en place publique - Association STOP Homophobie

    Le corps d’un jeune homme d’une trentaine d’année, « C. Fall », enterré la veille « en toute discrétion » par sa famille au cimetière de Léona Niassène, à Kaolack, dans l’ouest du Sénégal, a été exhumé de son caveau puis brûlé, ce samedi 28 octobre, par une foule de jeunes fanatisés et « en liesse », qui s’était déjà opposée à son inhumation pour « présomption d’homosexualité ». Ils étaient même allés jusqu’à « assiéger » la maison mortuaire, provoquant une émeute et des affrontements avec la police.
    Initialement, la famille du défunt espérait enterrer le corps à Touba, fief de la confrérie musulmane des mourides, considérée comme ville sainte, à quelque 200 km de Dakar, conformément aux volontés de sa mère. Mais les administrateurs de la mosquée et des cimetières (Dahira Moukhadimatoul Khidma) ont refusé parce que, selon les rumeurs, « le décédé était homosexuel ».
    Tout a été filmé, diffusé sur les réseaux et relayé par la presse locale. Les images sont insoutenables. STOP homophobie a été alertée par ses militants sur place, qui connaissaient C. Fall, et par de nombreux témoignages sidérés, tristes et indignés (...)

    #Sénégal #LGBT #homophobie #discrimination #barbarie

    https://www.stophomophobie.com/senegal-la-depouille-dun-homosexuel-exhumee-et-brulee-en-place-publi

  • La Question d’Israël, Olivier Tonneau
    https://blogs.mediapart.fr/olivier-tonneau/blog/161023/la-question-disrael

    La violence qui s’abat sur Gaza appelle à une condamnation sans faille d’Israël. Elle suscite également pour l’Etat hébreu une haine qui exige, en revanche, d’être soumise à l’analyse.

    Ce texte mûrit depuis des années. J’aurais préféré ne pas l’écrire en des temps de fureur et de sang mais sans l’effroi de ces derniers jours, je ne m’y serais peut-être jamais décidé.
    Effroi devant les crimes du #Hamas : j’ai repris contact avec Noam, mon témoin de mariage perdu de vue depuis des années qui vit à Tel Aviv, pour m’assurer qu’il allait bien ainsi que ses proches. Effroi devant les cris de joie poussés par tout ce que mon fil Facebook compte d’ « #antisionistes », puis par le communiqué du #NPA accordant son soutien à la résistance palestinienne quelques moyens qu’elle choisisse – comme si la #guerre justifiait tout et qu’il n’existait pas de #crimes_de_guerre.
    Effroi, ensuite, face aux réactions des #médias français qui, refusant absolument toute contextualisation de ces crimes, préparaient idéologiquement l’acceptation de la répression qui s’annonçait. Effroi face à cette répression même, à la dévastation de #Gaza. Effroi d’entendre Netanyahou se vanter d’initier une opération punitive visant à marquer les esprits et les corps pour des décennies, puis son ministre qualifier les #Gazaouis d’animaux. Ainsi les crimes commis par le Hamas, que seule une mauvaise foi éhontée peut séparer des violences infligées par le gouvernement d’extrême-droite israélien aux #Palestiniens, servent de prétexte au durcissement de l’oppression qui les a engendrés. Effroi, enfin, face au concert d’approbation des puissances occidentales unanimes : les acteurs qui seuls auraient le pouvoir de ramener #Israël à la raison, qui d’ailleurs en ont la responsabilité morale pour avoir porté l’Etat Hébreu sur les fonts baptismaux, l’encouragent au contraire dans sa démence suicidaire.

    Je veux dans ce texte dire trois choses. Les deux premières tiennent en peu de mots. D’abord, ceux qui hurlent de joie face au #meurtre_de_civils ont perdu l’esprit. Je n’ose imaginer ce qui se passe dans celui de victimes d’une oppression soutenue ; quant aux #militants regardant tout cela de France, ils ont en revanche perdu toute mon estime. Cependant – c’est la deuxième chose – si la qualification des actes du #Hamas ne fait aucun doute, un crime s’analyse, même en droit, dans son contexte. Or si la responsabilité des agents est toujours engagée, elle ne délie nullement Israël de sa responsabilité écrasante dans la mise en œuvre d’occupations, de répressions, de violences propres à susciter la haine et la folie meurtrière. Qui plus est, Israël étant dans l’affaire la puissance dominante a seule les moyens de transformer son environnement. Le gouvernement Israélien est cause première de la folie meurtrière et premier responsable de l’accélération du cycle infernal. Qu’il y eût une troisième chose à dire, c’est ce qui m’est apparu en lisant dans un tweet de Louis Boyard : 
    « Il est hors de question que je me penche sur la question d’Israël (…). L’Etat d’Israël est une terre « volée » à la Palestine qu’ils le veuillent ou non ».

    Ce sont là propos parfaitement banals de la part des antisionistes d’aujourd’hui. Ils ont le mérite de dire crûment que la critique d’Israël, au-delà des actes barbares commis par son gouvernement, porte sur le fondement même de l’Etat hébreu dont on aurait tout dit une fois rappelé qu’il s’est fondé sur le « vol » d’une terre. Cette attitude est à mes yeux irresponsable et même choquante. Comment ne pas entendre l’écho assourdissant de la vieille « question juive » dans la formule « question d’Israël » ? Aussi l’enjeu principal de ce texte, qui exige un développement d’une certaine longueur, est cette question même.

    ... « la #colonisation travaille à déciviliser le #colonisateur, à l’abrutir au sens propre du mot, à le dégrader, à le réveiller aux instincts enfouis, à la convoitise, à la violence, à la #haine_raciale, au relativisme moral » (Aimé Césaire)

    ... « La référence permanente au génocide des Juifs d’Europe et l’omniprésence de ces terribles images fait que, si la réalité du rapport de forces rend impossible l’adoption des comportements des victimes juives, alors on adopte, inconsciemment ou en général, les comportements des massacreurs du peuple juif : on marque les Palestiniens sur les bras, on les fait courir nus, on les parque derrière des barbelés et des miradors, on s’est même servi pendant un cours moment de Bergers Allemands. » #Michel_Warschawski

    ... le gouvernement israélien ne fonde pas sa sécurité sur le désarmement du Hamas mais sur le traumatisme des Palestiniens dans leur ensemble, ces « animaux » auxquels on promet un châtiment qui rentrera dans l’histoire – comme s’il était temps de leur offrir, à eux aussi, l’impérissable souvenir d’un holocauste....

    ... « Encore une victoire comme celle-là et nous sommes perdus » (Ahron Bregman)

    ... si deux millions de pieds-noirs ont pu retraverser la Méditerranée, deux cent cinquante mille colons peuvent repasser la ligne verte : c’est une question de volonté politique.

    #toctoc #nationalisme #génocide #déshumanisation_de_l’autre #juifs #israéliens #Intifada #11_septembre_2001 #Patriot_Act #histoire #utopie #paix #Henry_Laurens #Edward_Saïd #Maxime_Rodinson #Ahron_Bregman #Henryk_Erlich #Emmanuel_Szerer #Bund #POSDR #URSS #fascisme #nazisme #Vladimir_Jabotinsky #sionisme #Etats-Unis #Grande-Bretagne #ONU #Nakba #Arthur_Koestler #Albert_Memmi #libération_nationale #Shlomo_Sand #Ilan_Pappe #apartheid #loi_militaire #antisémitisme #diaspora_juive #disapora #religion #fascisme_ethniciste

  • من فمهم نُدينهم.. محللٌ إسرائيليٌّ : الأغلبية الساحقة حتى من (اليسار) تُريد تصعيد الحرب.. النزعة الفاشيّة سيطرت وباتت الموقف السائد الوحيد والرأي الآخر يُقمَع.. حماس ليست نازيّةً.. الإعلام العبريّ : دمِّروا غزّة نهائيًا | رأي اليوم
    https://www.raialyoum.com/%d9%85%d9%86-%d9%81%d9%85%d9%87%d9%85-%d9%86%d9%8f%d8%af%d9%8a%d9%86%d9%8

    A part le chapô, il s’agit pour l’essentiel de la reprise en arabe d’un article du Haaretz sur la gauche israélienne, l’opinion publique et Gaza.

    بات الإعلام العبريّ على مختلف مشاربه كاثوليكيًا أكثر من بابا روما وصهيونيًا أكثر من هرتسل، وأصبح رأس الحربة في عملية تحريض منهجيّة وشيطنة الفلسطينيين واستئساد على الأمّة العربيّة، دون كوابح أوْ جوامح، ورغم الرقابة العسكريّة الصارمة المفروضة، فإنّ الإعلام عينه يفرض على نفسه رقابةً لخدمة الرواية الإسرائيليّة الرسميّة.

    وعلى الرغم من ذلك، بقي المُحلِّل اليساريّ في صحيفة (هآرتس) العبريّة الصوت الوحيد، الذي ما زال يُغرِّد خارج السرب، فقد نشر مقالاً أشار فيه إلى أنّ “هجوم حماس المباغت قلب اليسار الإسرائيليّ رأسًا على عقب، ليصبح غير مبالٍ بالجرائم الوحشية التي تحدث في قطاع غزة، بل حتى إنّ الأغلبية تريد تصعيد الحرب“.

    وأضاف: “من الآن فصاعدًا، يسمح لإسرائيل بفعل أيّ شيءٍ لغزة، وسيعطي اليسار حتى مباركته، كما يمنع حتى التعاطف مع سكان غزة“.

    وأضاف أنّ “اليساريين، كانوا أوّل مَنْ فقدوا صوابهم وعادوا إلى رشدهم، وبات أولئك الذين قبل الحرب خرجوا بعزم للدفاع على الديمقراطية الآن يعرقلونها بأيديهم. ويتبنى أولئك الذين قبل الحرب اعتبروا أنفسهم ليبراليين، أشخاصًا محبين للسلام وحقوق الإنسان، الآن لا يبالون بالجرائم في غزة“.

    وتابع: “لماذا؟ لأنهم ارتكبوا فظائع ضدنا. إلى متى؟ حتى النهاية. بكم التكلفة؟ بأيّ ثمنٍ. وأضحى اليسار يفكر الآن في غزة تمامًا كما يفكر اليمين، ويعتقد أنّ الخيار الوحيد يتمثل في عدم التوقّف عن توجيه الضربات“.

    علاوة على ذلك أوضح أنّه “في الوقت الراهن، يعتقد الذين قللوا قبل الحرب من أهمية التعامل مع نظام الفصل العنصري ومصير الشعب الفلسطيني، أنّ اللعنة عليها أنْ تصيب الجميع، ويقولون فليخسأ الخاسئون، دعهم جميعًا يختنقون ويموتون ويُطردون، أولئك الذين قبل الحرب اعتبروا أنفسهم يتسِّمون بالوعي باتوا يدعمون توافق الآراء حول مصير غزة“.

    وقال إنّ “قلب اليسار ظل متحجرًا رغم مقتل أكثر من 2360 طفلا في غزة بحسب وزارة الصحة الفلسطينية، وقد كان اليسار مع بداية كلّ حربٍ مؤيدًا لها، قبل أنْ يصحو ويعود إلى رشده، ولكن يبدو ذلك غير مرجح هذه المرة“.

    وشدّدّ المُحلِّل على أنّ “الوضع الآن أسوأ خارج أروقة اليسار، فلقد انتشرت النزعة الفاشيّة على جميع المستويات وباتت هي الموقف السائد الوحيد. وساندت محطات التلفزيون المحلية أجندة القناة 14 التي تفيد أنّه عندما يتعلق الأمر بغزة، لا يوجد أي اختلاف، ويطلق المراسلون والمذيعون على حماس اسم النازيين في عرضٍ مقززٍ لتقليل أهمية الهولوكوست والإنكار، والجماهير تصفق على ذلك، ومن المحتمل أنّ حماس فعلت أشياء مشينة، ولكنها ليست نازيةً“.

    وذكر أنّ أيّ رأيٍ آخرٍ مخالفٍ الآن يُحكم بالقمع، ولقد تحدث الأمين العام للأمم المتحدة أنطونيو غوتيريش بصدق وشجاعة عن سياق الفظائع التي ارتكبت في 7 تشرين الأول (أكتوبر)، وسارع إلى التأكيد أنه لا يوجد شيء يمكن أن يبرر الهجمات المروعة التي ارتكبتها حماس، وردت إسرائيل بهجوم مسعور على غوتيريش، ضخمته وسائل الإعلام.

    وأوضح كاتب المقال أنّ “الشرطة احتجزت الممثلة ميساء عبد الهادي، من الناصرة، طوال الليل، بسبب منشورٍ على مواقع التواصل الاجتماعي لم ينتهك أيّ قانونٍ، وتقوم القنوات التلفزيونيّة الإسرائيليّة بإزالة أفلامها من أرشيف البث المباشر. عند مشاهدة كل هذه الإجراءات، يمكن للمرء أنْ يعتقد أنّ المكارثية بحدّ ذاتها كانت شعرت بالخزي ممّا يحدث في الوقت الحالي“.

    وأشار إلى أنّ “الأسيرة يوخيفيد ليفشيتس، التي أطلق سراحها، قدمت عرضًا مؤثرًا، واشتكى الصحفيون الرئيسيون لأنّها صرحت بالحقيقة. في السياق ذاته، كتب مستشار العلاقات العامة والشخصية المعروفة على شبكة الإنترنت راني رهاف وهو يشاهد فيديو الدمار في غزة: “هكذا يعجبني !!!” (مع كل علامات التعجب هذه)“.

    وأضاف أنّ “الصحفي تسفي يحزقيلي يحُثّ بدوره على تدمير غزة كلّ ليلة وقطاع غزة بأكمله، وترى زميلته في أخبار القناة 13، نتالي شيم طوف، أنّ الكثير من المباني لا تزال قائمة في غزة. وهذا هو الشرّ بعينه في مواجهة الكارثة في غزة، التي لا يكاد يطلع الإسرائيليون على فظائعها“.

    وخلُص المُحلِّل ليفي إلى القول “إسرائيل تمُرّ بفترةٍ عصيبةٍ تتميّز أبرز معالمها بهجمات حماس وفقدان الضمير والحكمة“.
    يُشار إلى أنّ وزير القضاء قدّم مشروع قانون بموجبه يتّم سحب الجنسيّة من فلسطينيي الداخل، الذين يؤيّدون حركة حماس، في ظلّ ارتفاع عدد المعتقلين من صفوفهم على هذه الخلفية.

  • #Rima_Hassan : « Nous subissons une #punition_collective »

    Pour Rima Hassan, juriste et fondatrice de l’Observatoire des camps de réfugiés, ce qui se passe à #Gaza est un « #carnage », qui relève d’une logique de « #génocide ». Elle dénonce le #cynisme de #Nétanyahou et la #récupération du #Hamas.

    Rima Hassan, 30 ans, est une Palestinienne dont toute la vie s’est déroulée en exil. Apatride jusqu’à ses 18 ans, aujourd’hui française, elle suit la guerre depuis la Jordanie, où elle séjourne actuellement pour une recherche à travers plusieurs pays sur les camps de réfugié·es palestinien·nes. Juriste autrice d’un mémoire de master en droit international sur la qualification du crime d’apartheid en Israël, dans une approche comparative avec l’Afrique du Sud, cette fondatrice de l’Observatoire des camps de réfugiés dénonce aujourd’hui un « génocide » et la #responsabilité d’#Israël dans la création du Hamas. Elle répond par téléphone à Mediapart samedi après-midi, alors que toutes les communications avec Gaza étaient coupées depuis la veille au soir.

    Mediapart : Qu’avez-vous comme informations sur ce qu’il se passe depuis vendredi soir à Gaza ?

    Rima Hassan : Les seules informations dont je dispose sont celles des journalistes d’Al Jazeera. C’est un carnage qui est en train de se passer. Jusqu’ici, l’#armée_israélienne prévenait tout de même avant de bombarder : #Tsahal larguait des centaines de petits coupons de papier sur la population gazaouie, pour avertir et donner quelques heures aux civils pour évacuer. Mais cette nuit-là, d’après Al Jazeera, il n’y a même pas eu d’annonce. Ce sont des #attaques_indiscriminées, par tous les moyens dont dispose l’armée israélienne. Il faudra mettre en perspective le nombre de responsables du Hamas tués par rapport au nombre de #victimes_civiles. D’après l’UNRWA, l’agence de l’ONU d’aide aux réfugiés palestiniens, 1,2 million de personnes de la bande Gaza ont par ailleurs déjà été déplacées.

    Ce qui se passe est inédit, paralysant, il est très compliqué de réfléchir. Depuis vendredi en fin de journée, on ne peut plus joindre personne dans la bande de Gaza.

    Comment qualifier les événements ?

    Cela relève du génocide. On n’a pas encore les chiffres précis, les Palestiniens ne sont plus en mesure de compter leurs morts. Ce vendredi 27 octobre était de toute façon une nuit sans précédent en termes d’intensification des #bombardements, dans l’un des territoires les plus densément peuplés au monde.

    Mais au-delà des morts, c’est tout ce qui entoure cette offensive qui caractérise le génocide : le fait de ne pas laisser de passages sûrs accessibles aux civils pour pouvoir fuir les combat, d’empêcher les humanitaires de passer, de ne pas prévenir les lieux qu’on cible, et le #blackout. En coupant toutes les communications, les autorités israéliennes veulent minimiser l’écho international de ce qui s’est passé dans la nuit de vendredi à samedi à Gaza. Je rappelle que 34 journalistes ont été tués dans le territoire depuis le 7 octobre.

    On fait tout pour concentrer une population sur un même espace, et précisément au moment où une résolution est adoptée à la majorité à l’ONU en faveur d’un cessez-le feu, on intensifie les bombardements, tout en bloquant tous les canaux de #communication : tout est mobilisé pour que les dégâts soient maximaux.

    Israël a tué bien plus à Gaza depuis le 7 octobre qu’au cours des vingt dernières années.

    Estimez-vous qu’il y a une intention génocidaire ?

    Il suffit d’écouter les déclarations des officiels israéliens. L’#animalisation du sujet palestinien est constante, de la même manière que les Juifs et les Tutsis étaient comparés à des animaux. Toutes les catégories des groupes ayant fait l’objet de #massacres ont été déshumanisées dans le but de justifier leur exclusion de la communauté humaine ; c’était un préalable à leur #extermination. « Nous combattons des #animaux_humains », a dit le ministre israélien de la défense #Yoav_Gallant le 9 octobre…

    Les médias israéliens répandent en outre l’idée qu’il n’y a pas d’innocents à Gaza : les civils tués sont assimilés au Hamas, à des terroristes – dans ces circonstances, un #dommage_collatéral n’est pas très grave. Les propos tenus sont sans ambiguïté : « #incinération_totale », « Gaza doit revenir à Dresde », « annihiler Gaza maintenant », etc. Voilà ce qu’a pu dire jeudi #Moshe_Feiglinun, ancien membre de la Knesset, sur un plateau télé.

    On a entendu dire également par #Benyamin_Nétanyahou que les Palestiniens pouvaient être accueillis dans le #Sinaï [territoire égyptien frontalier d’Israël et de la bande de Gaza – ndlr], ce qui renvoie, là aussi, à une logique de #disparition : c’est une population indésirable que l’on souhaite exclure.

    Toute cela s’inscrit dans une logique colonialiste de la part d’Israël, depuis sa création. Depuis longtemps on observe, chez les officiels israéliens, une constante à déshumaniser les Palestiniens, qui, bien avant le 7 octobre 2023, ont été comparés à des #cafards ou à des #sauterelles. « Les Palestiniens seront écrasés comme des sauterelles (…) leurs têtes éclatées contre les rochers et les murs », disait le premier ministre israélien #Yitzhak_Shamir en 1988. « Lorsque nous aurons colonisé le pays, il ne restera plus aux Arabes qu’à tourner en rond comme des cafards drogués dans une bouteille », avait déclaré le chef d’état-major #Raphael_Eitan en 1983 d’après le New York Times.

    Les massacres du 7 octobre ont été perçus comme quelque chose d’explosif. En termes de vies civiles perdues, c’est sans précédent. Mais il faut rappeler que cela s’inscrit dans un #conflit_colonial_asymétrique, où les #réfugiés_palestiniens ont vu l’abolition de leur #droit_au_retour, où les Palestiniens de #Cisjordanie vivent sous #colonisation et sous #occupation, où les Palestiniens citoyens d’Israël se sont vu octroyer un statut de seconde zone après un régime militaire jusqu’en 1967, et où les Palestiniens de Gaza vivent un #blocus illégal depuis dix-sept ans.

    Quelle est l’importance du facteur religieux ?

    Ce n’est pas un #conflit_religieux. Même si l’on a au pouvoir des gens liés à une #radicalité_religieuse, du côté du pouvoir israélien comme du Hamas. On observe une #dérive_religieuse dans les extrêmes des deux sociétés.

    La population palestinienne ne fait pas de reproche aux Israéliens pour ce qu’ils sont – des Juifs –, mais pour ce qu’ils font : la colonisation.

    Rappelons que les personnes à l’origine de la fondation de l’État d’Israël étaient des laïques, et non pas des religieux. L’identité palestinienne a par ailleurs toujours été multiconfessionnelle.

    Il est inconcevable de confisquer une souffrance palestinienne vieille de 75 ans avec la #récupération qui est faite aujourd’hui par le Hamas. Pour nous, c’est la #double_peine.

    Côté israélien, c’est d’un #cynisme sans nom : c’est Nétanyahou lui-même qui a soutenu le Hamas, car l’organisation islamiste était perçue comme rivale du #Fatah [parti nationaliste palestinien fondé par Yasser Arafat – ndlr]. Voilà ce qu’il déclarait par exemple en mars 2019, comme l’a rappelé récemment un article d’Haaretz : « Quiconque veut contrecarrer la création d’un État palestinien doit soutenir le renforcement du Hamas et transférer de l’argent au Hamas. » Israël a une responsabilité majeure dans la création de l’organisation islamiste. Ce sont les autorités israéliennes qui ont nourri le monstre.

    Nous subissons avec ce blocus une punition collective. Nous qui utilisons le droit international et la voie diplomatique, qui nous battons depuis des dizaines d’années pour un État laïque, nous nous trouvons face à des autorités qui ont soutenu le Hamas... et qui aujourd’hui nous bombardent.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/291023/rima-hassan-nous-subissons-une-punition-collective
    #Palestine #7_octobre_2023 #déshumanisation #religion #à_lire

  • #Dispak_Dispac’h

    Quelles vies valent d’être pleurées  ? Comment s’ouvrir et comment résister  ? Installons-nous dans l’#agora de Dispak Dispac’h avec les protagonistes et écoutons le magistral #acte_d’accusation émis en 2018 par le Groupe d’information et de soutien des immigrés (GISTI) lors du #Tribunal_permanent_des_peuples qui met l’Europe face aux violations des droits des personnes migrantes et réfugiées que notre continent laisse commettre. Les interprètes et membres de la société civile vont tour à tour prendre la parole, s’écouter, se regarder, danser et créer avec nous un espace propre à éveiller nos envies d’agir. C’est le dispositif imaginé par #Patricia_Allio, autrice, metteuse en scène et réalisatrice bretonne, dont le regard et la pratique bouleversent nos sensibilités et visent notre Europe et ses abdications

    https://festival-avignon.com/fr/edition-2023/programmation/dispak-dispac-h-332016
    #théâtre #migrations #réfugiés #droits_fondamentaux #art_et_politique #justice_transformatrice #politiques_migratoires #accusation

  • Usbek & Rica - Ariane Lavrilleux : « Une dictature se construit brique par brique »
    https://usbeketrica.com/fr/article/ariane-lavrilleux-on-risque-d-entrer-dans-une-ere-tres-sombre

    La France se targue d’être l’un des pays les plus libertaires au monde, mais est-ce vraiment le cas en 2023  ? Pour la journaliste Ariane Lavrilleux, perquisitionnée et détenue trente-neuf heures suite à des enquêtes pour le média indépendant Disclose, l’état de santé de notre démocratie est à surveiller de près. Entretien.

  • « Contrôler » les migrations : entre laisser-mourir et permis de tuer

    À l’heure où le Conseil européen se réunit à Bruxelles, les 26 et 27 octobre 2023, pour évoquer, dans un monde en plein bouleversement, le renforcement des frontières européennes, le réseau Migreurop rappelle le prix exorbitant de cette #surenchère_sécuritaire et la #responsabilité accablante des États européens dans la #mise_en_danger constante des personnes en migration, qui tentent d’exercer leur #droit_à_la_mobilité au prix de leur vie.

    Depuis plus de 30 ans, la lutte contre l’immigration dite « clandestine » est la priorité des États européens, qui ont adopté diverses stratégies visant au fil des années à renforcer les #contrôles_migratoires et la sécuritisation des frontières des pays de destination, de transit et de départ. Quoi qu’il en coûte. Y compris au prix de vies humaines, les #morts_en_migration étant perçues par les autorités comme une conséquence dommageable de cette même « lutte ».

    Comme le dénonçait déjà Migreurop en 2009, « nombreuses sont les #frontières où tombent des dizaines de migrants, parfois tués par les #forces_de_l’ordre : des soldats égyptiens tirant à vue sur des Soudanais et des Érythréens à la frontière israélienne ; des soldats turcs abattant des Iraniens et des Afghans ; la marine marocaine provoquant sur les côtes d’Al Hoceima le naufrage de 36 personnes en partance pour l’Espagne (…) en perforant leur zodiac à coups de couteaux ; des policiers français à Mayotte faisant échouer volontairement des embarcations (Kwassa-kwassa) pour arrêter des migrants, engendrant ainsi la noyade de plusieurs d’entre eux. En Algérie, au Maroc, des migrants africains sont refoulés et abandonnés dans le désert, parfois miné, sans aucun moyen de subsistance » [1].

    Si l’objectif sécuritaire de #surveillance et #militarisation_des_frontières européennes reste le même, la stratégie mise en œuvre par les États européens pour ne pas répondre à l’impératif d’accueil des populations exilées a évolué au fil des années. Depuis des décennies, les « drames » se répètent sur le parcours migratoire. Ils ne relèvent en aucun cas de la #fatalité, de l’#irresponsabilité des exilé·e·s (ou de leurs proches [2]), du climat ou de l’environnement, de l’état de la mer, ou même d’abus de faiblesse de quelconques trafiquants, mais bien d’une politique étatique hostile aux personnes exilées, développée en toute conscience à l’échelle européenne, se traduisant par des législations et des pratiques attentatoires aux droits et mortifères : systématisation à l’échelle européenne des #refoulements aux portes de l’Europe [3], déploiement de dispositifs « anti-migrants » le long des frontières et littoraux (murs et clôtures [4], canons sonores [5], barrages flottants [6], barbelés à lames de rasoir [7], …), conditionnement de l’aide au développement à la lutte contre les migrations [8], #criminalisation du sauvetage civil [9]... Une stratégie qualifiée, en référence au concept créé par Achille Mbembe [10], de « #nécro-politique » lors de la sentence rendue par le Tribunal Permanent des Peuples en France, en 2018 [11].

    Déjà en août 2017, le rapport relatif à « la mort illégale de réfugiés et de migrants » de la rapporteuse spéciale du Conseil des droits de l’Homme onusien sur les exécutions extrajudiciaires, sommaires ou arbitraires, mettait en évidence « de multiples manquements des États en matière de respect et de protection du #droit_à_la_vie des réfugiés et des migrants, tels que des homicides illégaux, y compris par l’emploi excessif de la force et du fait de politiques et pratiques de #dissuasion aggravant le #danger_de_mort » [12].

    Mettant en place une véritable stratégie du #laisser-mourir, les États européens ont favorisé l’errance en mer en interdisant les débarquements des bateaux en détresse (Italie 2018 [13]), ont retiré de la mer Méditerranée les patrouilles navales au bénéfice d’une surveillance aérienne (2019 [14]), signe du renoncement au secours et au sauvetage en mer, ou en se considérant subitement « ports non-sûrs » (Italie et Malte 2020 [15]). Migreurop a également pointé du doigt la responsabilité directe des autorités et/ou des forces de l’ordre coupables d’exactions à l’égard des exilé·e·s (Balkans 2021 [16]), ou encore leur franche complicité (UE/Libye 2019 [17]).

    Le naufrage d’au moins 27 personnes dans la Manche le 24 novembre 2021 [18], fruit de la non-assistance à personnes en danger des deux côtés de la frontière franco-britannique, est une illustration de cette politique de dissuasion et du laisser-mourir. Le #naufrage de #Pylos, le 14 juin 2023, en mer Ionienne [19], est quant à lui un exemple d’action directe ayant provoqué la mort de personnes exilées. La manœuvre tardive (accrocher une corde puis tirer le bateau à grande vitesse) des garde-côtes grecs pour « remorquer » le chalutier sur lequel se trouvaient environ 700 exilé·e·s parti·e·s de Libye pour atteindre les côtes européennes, a probablement causé les remous qui ont fait chavirer le bateau en détresse et provoqué la noyade d’au moins 80 personnes, la mer ayant englouti les centaines de passager·e·s disparu·e·s.

    Le rapport des Nations unies de 2017 [20] pointe également les conséquences de l’#externalisation des politiques migratoires européennes et indique que « les autres violations du droit à la vie résultent de politiques d’extraterritorialité revenant à fournir aide et assistance à la privation arbitraire de la vie, de l’incapacité à empêcher les morts évitables et prévisibles et du faible nombre d’enquêtes sur ces morts illégales ». Le massacre du 24 juin 2022 aux frontières de Nador/Melilla [21], ayant coûté la vie à au moins 23 exilés en partance pour l’Espagne depuis le Maroc, désignés comme des « assaillants », 17 ans après le premier massacre documenté aux portes de Ceuta et Melilla [22], est un clair exemple de cette externalisation pernicieuse ayant entraîné la mort de civils. Tout comme les exactions subies en toute impunité ces derniers mois par les exilé·e·s Noir·e·s en Tunisie, en pleine dérive autoritaire, fruits du #racisme_structurel et du #marchandage européen pour le #contrôle_des_frontières [23].

    Nous assistons ainsi ces dernières années à un processus social et juridique de légitimation de législations et pratiques étatiques illégales visant à bloquer les mouvements migratoires, coûte que coûte, ayant pour conséquence l’abaissement des standards en matière de respect des droits. Un effritement considérable du droit d’asile, une légitimation confondante des refoulements – « légalisés » par l’Espagne (2015 [24]), la Pologne (2021 [25]) et la Lituanie (2023 [26]) –, une violation constante de l’obligation de secours en mer, et enfin, un permis de tuer rendu possible par la progressive #déshumanisation des personne exilées racisées, criminalisées pour ce qu’elles sont et représentent [27].

    Les frontières sont assassines [28] mais les États tuent également, en toute #impunité. Ces dernières années, il est manifeste que les acteurs du contrôle migratoire oscillent entre #inaction et action coupables, entre laisser-mourir (« let them drown, this is a good deterrence » [29]) et permis de tuer donné aux acteurs du contrôle frontalier, au nom de la guerre aux migrant·e·s, ces dernier·e·s étant érigé·e·s en menace(s) dont il faudrait se protéger.

    Les arguments avancés de longue date par les autorités nationales et européennes pour se dédouaner de ces si nombreux décès en migration sont toujours les mêmes : la défense d’une frontière, d’un territoire ou de l’ordre public. Les #décès survenus sur le parcours migratoire ne seraient ainsi que des « dommages collatéraux » d’une #stratégie_de_dissuasion dans laquelle la #violence, en tant que moyen corrélé à l’objectif de non-accueil et de mise à distance, est érigée en norme. L’agence européenne #Frontex contribue par sa mission de surveillance des frontières européennes à la mise en danger des personnes exilées [30]. Elle est une composante sécuritaire essentielle de cette #politique_migratoire violente et impunie [31], et de cette stratégie d’« irresponsabilité organisée » de l’Europe [32].

    Dans cet #apartheid_des_mobilités [33], où la hiérarchisation des droits au nom de la protection des frontières européennes est la règle, les décès des personnes exilées constituent des #risques assumés de part et d’autre, la responsabilité de ces morts étant transférée aux premier·e·s concerné·e·s et leurs proches, coupables d’avoir voulu braver l’interdiction de se déplacer, d’avoir exercé leur droit à la mobilité… A leurs risques et périls.

    Au fond, le recul que nous donne ces dernières décennies permet de mettre en lumière que ces décès en migration, passés de « évitables » à « tolérables », puis à « nécessaires » au nom de la protection des frontières européennes, ne sont pas des #cas_isolés, mais bien la conséquence logique de l’extraordinaire latitude donnée aux acteurs du contrôle frontalier au nom de la guerre aux migrant·e·s 2.0. Une dérive qui se banalise dans une #indifférence sidérante, et qui reste impunie à ce jour...

    Le réseau Migreurop continuera d’œuvrer en faveur de la liberté de circulation et d’installation [34] de toutes et tous, seule alternative permettant d’échapper à cette logique criminelle, documentée par nos organisations depuis bien trop longtemps.

    https://migreurop.org/article3211.html
    #nécropolitique #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #guerre_aux_migrants

    • Ils sont devenus fou même la gendarmerie s’inquiète de cette nouvelle autorisation de tirer au LBD à bout portant. Ce lanceur de balles de défense crache des balles de caoutchouc à 250 km/h. Le ministère de l’Intérieur donne l’autorisation de tuer à ses supplétifs. C’était déjà le cas mais cette décision doit venir des multiples recours des précédentes victimes survivantes aux violences policières. La gueule ravagée de Hedi à Marseille ne leur a pas suffit. Ils auraient sans doute préféré qu’il soit mort. Voici la réponse de ce gouvernement de fou furieux à la condamnation des violences policières. Il change la loi. Si ça continu, la france va finir comme les states avec plus de flingues que d’habitants.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

    • [Liberté de la police] Le ministère de l’intérieur réduit la distance de tir des LBD malgré leur dangerosité
      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

      Ces cinq dernières années, plus de 35 personnes ont été blessées et une tuée par des tirs de lanceur de balles de défense. Pourtant, dans ses instructions, le ministère de l’intérieur a abaissé la distance réglementaire. Une décision que la gendarmerie conseille de ne pas suivre.

      La liste des blessés ne cesse de s’allonger. Hedi à Marseille, Virgil à Nanterre, Nathaniel à Montreuil, Mehdi à Saint-Denis, Abdel à Angers : tous ont été grièvement touchés par un tir de lanceur de balles de défense après les révoltes suscitées par la mort de Nahel en juin dernier. Mediapart a cherché à savoir quelle était la distance minimum de sécurité que les policiers doivent respecter lorsqu’ils tirent au LBD.

      Le ministère de l’intérieur et la Direction générale de la police nationale ont mis un mois à nous répondre. Et pour cause, cette distance réglementaire a tout simplement été supprimée des récentes instructions, remplacée par une distance dite « opérationnelle » correspondant à celle du fabricant de munitions. Auparavant, pour tirer, un policier devait respecter une distance minimum de 10 mètres. Selon les informations collectées par Mediapart, elle est désormais passée à 3 mètres.

      Une décision dangereuse que la gendarmerie nationale déconseille de suivre.

      Gravement touché au cerveau par un tir de LBD dans la nuit du 1er au 2 juillet, à Marseille, Hedi, 22 ans, subit depuis de multiples interventions chirurgicales. C’est le cas encore en octobre, alors que la prochaine est prévue en novembre. À ce jour, déjà confronté à une potentielle paralysie, Hedi ne sait toujours pas s’il pourra conserver l’usage de son œil gauche.
      Il fait partie des nombreuses victimes du LBD, une arme utilisée par la police et les gendarmes depuis le début des années 2000 (en remplacement du #flashball, apparu à la fin des années 1990). Muni d’un canon de 40 millimètres, ce fusil tire des balles de caoutchouc à plus de 250 km/heure (plus de 73 m/seconde). Le ministère de l’intérieur qualifie le LBD_« d’arme de force intermédiaire », alors même qu’elle est classée « catégorie A2 », c’est-à-dire #matériel_de_guerre, aux côtés notamment des lance-roquettes. Une classification qui laisse peu de doute sur sa létalité.

      Des instructions ministérielles d’août 2017 précisent que « le tireur vise de façon privilégiée le torse ainsi que les membres inférieurs », cibler la tête étant interdit. Lorsqu’une personne est touchée, le policier doit s’assurer de son état de santé et la garder sous surveillance permanente.
      Comme le rappelle une note du ministère de l’intérieur adressée à l’ensemble des forces de l’ordre, en février 2019, les fonctionnaires habilités doivent faire usage du LBD, selon le cadre prévu par le Code pénal et celui de la sécurité intérieure,
      « dans le strict respect des principes de nécessité et de proportionnalité »_.

      Hormis en cas de légitime défense, c’est-à-dire lorsque l’agent, un de ses collègues ou une tierce personne est physiquement menacée, des sommations doivent précéder le tir, qui doit se faire à une distance réglementaire, en deçà de laquelle les risques de lésions sont irréversibles. Mais quelle est cette distance ?

      Une nouvelle munition pas moins dangereuse

      Notre enquête nous a conduits à compulser les instructions ministérielles que nous avons pu nous procurer. Il faut remonter à 2013 pour voir figurer que le LBD « ne doit pas être utilisé envers une personne se trouvant à moins de 10 mètres ».
      Depuis, dans les notes de 2017, 2018 ou 2019, nulle trace de recommandations concernant la distance minimum de sécurité. Seul le règlement de l’armement de dotation de la gendarmerie nationale, mis à jour le 1er septembre 2023, rappelle que « le tir en deçà de 10 mètres, uniquement possible en cas de légitime défense, peut générer des risques lésionnels importants ».
      Interrogée, la Direction générale de la police nationale (#DGPN) n’a pas su nous répondre sur la distance réglementaire, arguant que la doctrine d’emploi du LBD 40 faisait « actuellement l’objet d’une réécriture ». Seule précision, les unités de police utilisent une nouvelle munition, appelée la munition de défense unique (MDU), « moins impactante » que l’ancienne, nommée la Combined tactical systems (CTS).
      Certes, depuis 2019, la MDU, moins rigide et légèrement moins puissante, est majoritairement utilisée par les policiers. Pour autant, elle n’en reste pas moins dangereuse, comme l’attestent les graves blessures qu’elle a pu occasionner, notamment sur Hedi ou sur plusieurs jeunes qui ont perdu un œil lors des révoltes à la suite du décès de Nahel.

      Ce qui est dangereux, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD.
      Un commissaire de police

      C’est d’ailleurs la raison pour laquelle le Centre national d’entraînement des forces de gendarmerie (CNEFG) conseille de conserver, avec cette nouvelle munition, une distance minimum de 10 mètres. En effet, dans une note interne, datée du 12 septembre 2022, adressée à la Direction générale de la gendarmerie nationale (#DGGN), et que Mediapart a pu consulter, il est stipulé que « par principe de sécurité et de déontologie », il doit être rendu obligatoire pour les gendarmes de ne pas tirer au LBD à moins de 10 mètres.
      Selon un officier, « au sein de la gendarmerie, nous privilégions l’usage du LBD pour une distance de 30 mètres pour faire cesser une infraction s’il n’y a pas d’autres moyens de le faire. Lorsque le danger est plus près de nous, à quelques mètres, nous tentons de neutraliser l’individu autrement qu’en ayant recours au LBD ».
      Quand bien même la nouvelle munition représente une certaine avancée, étant « moins dure et donc susceptible de faire moins de blessures », « elle reste néanmoins puissante et dangereuse. Évidemment, d’autant plus si elle est tirée de près ».

      Un haut gradé de la gendarmerie spécialisé dans le #maintien_de_l’ordre insiste : « Cette nouvelle munition ne doit pas conduire à modifier la doctrine d’emploi du LBD, ni à un débridage dans les comportements. » Il rappelle que le LBD est « l’ultime recours avant l’usage du 9 mm. Son usage ne doit pas être la règle. Ce n’est pas une arme de dispersion dans les manifestations ».

      Information inexacte

      Nous avons donc recontacté la police nationale pour qu’elle nous transmette les dernières directives mentionnant la distance minimum qu’un policier doit respecter. Le cabinet du ministre a, lui, répondu qu’une « distance minimum de sécurité serait communiquée. Il n’y a pas de raison que ce soit différent des gendarmes ». Et pourtant...
      Après moult relances, la Direction générale de la police a déclaré qu’il fallait prendre en compte « la distance opérationnelle des munitions » et « qu’en deçà de 3 mètres, le risque lésionnel est important », assurant que « les doctrines en ce domaine sont communes pour les forces de sécurité intérieures, police nationale et gendarmerie nationale ».
      Une information inexacte puisque la gendarmerie interdit de tirer au-dessous de 10 mètres.

      « Ce qui est dangereux, explique auprès de Mediapart un commissaire de police, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD, qui devait initialement être utilisé en cas d’extrême danger, comme ultime recours avant l’usage de l’arme. »

      Un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près.
      Un commandant, spécialisé dans le maintien de l’ordre

      Depuis, après avoir été « expérimenté dans les banlieues, il a été utilisé, depuis 2016 [en fait, depuis le début des années 2000, ndc], dans les manifestations et les mobilisations contre la loi Travail [où la pratique s’est généralisée, ndc]. En enlevant toute notion de distance minimum de sécurité, le ministère gomme la dangerosité de cette arme et des blessures qu’elle cause ».
      Pour ce commissaire, « c’est un nouveau verrou qui saute. On peut toujours contester cette distance, qui était déjà peu respectée, mais elle introduisait néanmoins un garde-fou, aussi ténu soit-il ».
      Avec l’apparition des nouvelles munitions « présentées comme moins impactantes, un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près », nous explique un commandant spécialisé dans le maintien de l’ordre. Ainsi, dans les nouvelles instructions du ministère, « la distance minimum n’existe plus ». « Pire, poursuit ce commandant, on a vu apparaître les termes employés par le fabricant de la munition qui parle de “distance opérationnelle”. »
      En effet, dans une instruction relative à l’usage des armes de force intermédiaire, datée du 2 août 2017 et adressée à l’ensemble des fonctionnaires, sont précisées les « distances opérationnelles », allant de 10 à 50 mètres pour l’ancienne munition, et de 3 à 35 mètres pour la nouvelle. C’est sur cette instruction que s’appuie aujourd’hui la DGPN.
      Selon ce gradé, « même d’un point de vue purement opérationnel, c’est absurde. Car le point touché par le tireur est égal au point qu’il a visé à environ 25 mètres et pas en deçà. Donc il faudrait donner cette distance et non une fourchette ».
      « Avec une distance aussi courte que 3 mètres, c’est presque tirer à bout portant. Et c’est inviter, davantage qu’ils ne le faisaient déjà, les policiers à tirer de près avec des risques gravissimes de blessures. Non seulement les agents manquent de formation, mais avec ces directives, ils vont avoir tendance à sortir leur LBD comme une simple matraque et dans le plus grand flou », conclut-il, rappelant « le tir absolument injustifié de la BAC sur le jeune qui a eu le cerveau fracassé à Marseille [en référence à Hedi – ndlr] ».

      Les déclarations faites à la juge d’instruction du policier Christophe I., auteur du tir de LBD, qui a grièvement blessé Hedi à la tête, en juillet, révèlent l’ampleur des conséquences de la banalisation d’une telle arme.
      Le policier explique que le soir des faits, « il n’y avait pas de consignes particulières sur l’utilisation des armes ». Que Hedi ait pu être atteint à la tête ne le surprend pas. Une erreur aux conséquences dramatiques qui ne semble pas lui poser problème : « J’ai tiré sur un individu en mouvement, dit-il. Le fait de viser le tronc, le temps que la munition arrive, c’est ce qui a pu expliquer qu’il soit touché à la tête. » En revanche, il nie que les blessures d’Hedi aient pu être occasionnées par le LBD, allant même jusqu’à avancer qu’elles peuvent « être liées à sa chute » au sol [moment ou des bouts du projectile se sont incrustés dans sa tête avant d’être découvert par le personnel soignant, obvisously, ndc]

      Dans d’autres enquêtes mettant en cause des tirs de LBD, les déclarations des policiers auteurs des tirs affichent à la fois la dangerosité de cette arme et la banalisation de son usage. L’augmentation du nombre de #manifestants blessés, en particulier lors des mobilisations des gilets jaunes, avait d’ailleurs conduit le Défenseur des droits, Jacques Toubon, à demander, en janvier 2019, la « suspension » du recours au LBD dans les manifestations.
      La France, un des rares pays européens à autoriser le LBD
      Depuis, plusieurs organisations non gouvernementales, parmi lesquelles le Syndicat des avocats de France, la Confédération générale du travail ou le Syndicat de la magistrature, ont saisi la justice pour en demander l’interdiction. En vain. Après avoir essuyé un refus du Conseil d’État de suspendre cette arme, les organisations syndicales ont vu leur requête jugée irrecevable par la Cour européenne des droits de l’homme en avril 2020, estimant que les « faits dénoncés ne relèvent aucune apparence de violation des droits et libertés garanties par la Convention et […] que les critères de recevabilité n’ont pas été satisfaits ».

      À l’annonce du refus du Conseil d’État d’interdire le LBD, le syndicat de police majoritaire, Alliance, avait salué « une sage décision ». Son secrétaire général adjoint, qui était alors Frédéric Lagache, avait précisé auprès de l’AFP que « si le Conseil d’État avait prononcé l’interdiction, il aurait fallu à nouveau changer de doctrine et revenir à un maintien de l’ordre avec une mise à distance ».
      Un discours bien différent de celui de ses homologues allemands, qui ont refusé d’avoir recours au LBD (utilisé dans deux Länder sur seize). En effet, comme le rappelle le politiste Sebastian Roché dans son livre La police contre la Rue, en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »
      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      #LBD #LBD_de_proximité #armes_de_la_police #Darmanin #à_bout_portant #terroriser #mutiler #police #impunité_policière #militarisation #permis de_mutiler #permis_de_tuer

    • Ni oubli, ni pardon
      https://piaille.fr/@LDH_Fr/111308175763689939

      Le 27 octobre 2005, Zyed & Bouna 17&15 ans meurent à l’issue d’une course poursuite avec des policiers qui seront relaxés. Ils font partie d’une liste trop longue des victimes d’une violence ordinaire dont les auteurs ne sont jamais poursuivis. Cette impunité doit cesser.

    • en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »

      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      La fin de l’article de Mediapart, dont est extrait le passage ci dessus, a part, dans son seen à elle : https://seenthis.net/messages/1023468

    • Quelques nuances de LBD
      https://lundi.am/Quelques-nuances-de-LBD

      Dans une enquête parue ce vendredi, Médiapart révèle que les policiers devaient jusqu’à présent respecter une distance de 10 à 15 mètres pour tirer sur un individu. Cette distance minimale aurait été supprimée des récentes instructions du ministère de l’Intérieur. Elle est désormais passée à seulement trois mètres. Laurent Thines, neurochirugien et poète engagé contre les armes (sub)létales, nous a transmis ces impressions.

    • @sombre je dirais bien #oupas moi aussi : la pratique récente du LBD en fRance semble indiquer que les policiers, préfets et le ministre ont bien lu la notice en détail et estimé que la couleur rouge était un indicateur de zones à viser en priorité, pour faire respecter l’ordre.

    • @PaulRocher10
      https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

      Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

      Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

      Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

      Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

      Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police
      https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • « l’ordre, l’ordre, l’ordre », E.M, 24 juillet 2023

    Nord : le gouvernement annonce le déploiement d’une #force_d'action_républicaine à Maubeuge
    https://www.bfmtv.com/grand-lille/nord-le-gouvernement-annonce-le-deploiement-d-une-force-d-action-republicaine

    Policiers, officiers de police judiciaire, fonctionnaires des finances, personnels éducatifs ou encore travailleurs sociaux aideront à la sécurisation des quartiers à Maubeuge.
    Le gouvernement a dévoilé ce jeudi 26 octobre son plan d’action en réponse aux émeutes qui ont eu lieu dans toute la France après la mort de Nahel, en juin et juillet dernier.

    Élisabeth Borne a annoncé devant un parterre d’élus des villes les plus touchées le déploiement de plusieurs forces d’action républicaines sur le territoire. Un groupe arrivera notamment bientôt à Maubeuge.

    Ce qu’il faut retenir des mesures annoncées par Elisabeth Borne à la suite des émeutes urbaines de cet été, selon Le Monde
    https://www.lemonde.fr/societe/live/2023/10/26/en-direct-elisabeth-borne-devoile-le-plan-du-gouvernement-pour-repondre-aux-

    Comme « réponse pénale exemplaire et refus total de l’impunité » attendue par les élus locaux, Elisabeth Borne annonce soumettre au vote des parlementaires, sans donner la date, la possibilité de placer « des jeunes délinquants, de manière obligatoire, dans des unités éducatives de la protection judiciaire de la jeunesse » jusqu’à « envisager un encadrement de jeunes délinquants par des #militaires ».

    La responsabilité parentale a aussi été évoquée par la cheffe du gouvernement. Toujours dans un projet de loi, l’exécutif souhaite sanctionner de « stages de responsabilité parentale ou [de] peines de travaux d’intérêt général (…) des parents qui se soustraient à leurs devoirs éducatifs ». Aussi, le gouvernement a annoncé créer une contribution financière citoyenne et familiale que les mineurs et leurs parents devront payer à des associations de victimes et qu’en cas de dégradation Elisabeth Borne veut « s’assurer » que les parents paient les dommages causés.

    Le gouvernement veut donner la possibilité aux polices municipales d’accomplir certains actes de police judiciaire. _[ à tout seigneur tout honneur, commençons par Mantes-la-Ville, Hayange, Hénin-Beaumont, Perpignan, Fréjus, Bruay-la-Buissière, Orange, Cogolin, ...]

    Quant aux réseaux sociaux, dont la première ministre a estimé qu’ils ont joué un « rôlé-clé (…) pour encourager les violences et créer l’escalade », une suspension d’un compte de six mois sera mise en place.

    #jeunes #parents #villes #sécurité #police #police_municipale #PJJ #enfermement #discipline #bannissement_numérique #stages_de_responsabilité_parentale #TIG_parentaux

  • Les glaciers pyrénéens fondent inexorablement, constate le glaciologue Pierre René
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-biais-d-heidi-sevestre/les-glaciers-pyreneens-ont-perdu-90-de-leur-volume-depuis-1850-constate-

    [...]Trop tard pour sauver les glaciers des Pyrénées

    Il est trop tard pour sauver les glaciers des Pyrénées. Pierre vient tout juste de finir la campagne de mesure de l’automne 2023, et les déficits glaciaires sont extrêmes. Cette année, le glacier d’Ossoue connaît un record de fonte vertigineux avec -5m de glace, soit plus du double de la moyenne annuelle qui est de -2m par an !

    Malgré le travail exemplaire de l’association Moraine et de ses alertes répétées, ces glaciers vont tous disparaitre dans les prochaines décennies, voire peut-être dans les prochaines années. Voilà ce qu’il se passe lorsqu’on pense que les ressources terrestres sont infinies, que la technologie nous sauvera contre le péril du changement climatique et de la perte de la biodiversité, voilà ce qu’il se passe lorsque l’on n’écoute pas les scientifiques. Ce que l’on perd, c’est bien plus que des paysages de carte postale et leurs neiges éternelles. C’est une partie de nous, c’est notre fierté, notre identité.[...]

  • Tout fout le camp chez Bandcamp – #Gonzaï
    http://gonzai.com/tout-fout-le-camp-chez-bandcamp

    Le rachat de #Bandcamp par le magnat du jeu vidéo Epic Games (notamment développeur de Fortnite) n’aura pas fait long feu : un an et demi après son acquisition, la plateforme est maintenant cédée à #Songtradr. Et moins d’un mois après l’annonce, le nouvel acquéreur vient de licencier la moitié des effectifs de Bandcamp. De quoi retracer les grandeurs et l’improbable décadence du plus grand disquaire en ligne au monde.

    • quelle tristesse… MAIS en même temps, c’est une suite logique de la plateformisation du net, où les gens (artistes ou autres) ne veulent plus faire l’effort d’avoir leur propre site internet quand ils en ont pourtant besoin

      avec les logiciels libres, tout artiste peut avoir son propre site mettant en ligne sa discographie en streaming, mais évidemment c’est moins simple que d’uploader sur Bandcamp… et puis ya aussi tout l’aspect social recommandation, curation radio etc, qui fait découvrir des milliers de choses chaque mois… bref c’est pas si simple que de juste avoir son site perso même en ayant de ecommerce de disques dessus…

    • @rastapopoulos ça fait partie des grandes inutilités de l’ouvrage politique de SPIP : créer des outils libres pour des personnes qui ne peuvent/veulent pas comprendre ni se poser de questions sur leurs usages numériques et préfèrent le confort des plateformes commerciales.

      Passer sa vie et son temps à construire des chateaux de sable contre la marée capitaliste peut fatiguer.

      Le chemin du RSS partagé est loin maintenant, celui qui permettait d’avoir son propre site avec des outils libres et un rassemblement de sites par thématiques via des #portails (ce truc d’un autre siècle) !

    • Je ne sais pas ce que ça va donner pour la suite mais j’ai bien peur que Bandcamp versus Songtradr ne sera plus aussi proche des artistes et de la découverte de toutes les #musiques. Je me suis beaucoup cultivé avec les bandcamp daily (pourvu que ça dure) mais le meilleur moyen de supporter un groupe c’est d’aller le voir en live et en dehors des goodies d’acheter leur production sur place le jour du concert. J’ai constitué une bonne partie de ma #discothèque comme ça. Un autre bon moyen de découverte ce sont les médiathèques. Mon dernier coup de cœur et celui des bibliothécaires c’est le magnifique SUBHANA de Ahmed Ben Ali du label Habibifunk qui ne t’as pas échappé @rastapopoulos
      https://seenthis.net/messages/1003940
      L’arabe c’est de l’anglais pour moi et viceversa mais sa musique me réjouit face à l’horreur de l’actualité.
      Je ne suis pas trop roots/reggae/dub mais on ne peut pas passer à côté du légendaire label VP Records.
      https://daily.bandcamp.com/label-profile/vp-records-label-profile
      Et sinon comme le déclarait Viviane Albertine, la guitariste des SLITS, en 1976 à Vivien Goldman :

      « Tous les garçons de mon entourage formaient des groupes, et ils avaient des héros à admirer. Mais moi, je n’en avais pas. Je n’avais pas envie d’être Joni Mitchell ou de lui ressembler. Je n’avais pas besoin d’avoir une héroïne à moi ; je pouvais tout simplement m’emparer d’une guitare et en jouer. Pourquoi je me suis mise à faire de la musique est sans grande importance. La vraie question, c’est pourquoi je ne l’ai pas fait plus tôt. »

  • Dans les #Alpes, des #obsèques pour les #glaciers disparus

    L’#hécatombe se poursuit parmi les glaciers. Leur fonte s’accélère à une vitesse « hallucinante », alertent les experts. Celui de #Sarenne, en #Isère, vient de disparaître.

    Il a officiellement disparu. Le glacier de Sarenne, près de l’Alpe d’Huez (Isère), mesure désormais moins de 1 000 m2 pour 2 à 3 mètres d’épaisseur de glace. D’après les mesures des chercheurs de l’Institut des géosciences de l’environnement (IGE) de Grenoble, il a perdu plus d’1 mètre d’épaisseur entre le 19 septembre et le 16 octobre. Sa surface est devenue si dérisoire que l’IGE, qui l’étudie depuis soixante-quinze ans via l’observatoire Glacioclim, a décidé d’arrêter de le suivre.

    Cette disparition est une mauvaise nouvelle de plus dans une interminable liste noire. La Mer de glace, le plus grand glacier français accessible depuis Chamonix (Haute-Savoie), a perdu 16 mètres de hauteur en 2022. La même année, le glacier de Saint-Sorlin (Savoie), dans les Grandes Rousses, s’est coupé en deux sous l’effet de la canicule. Sa partie aval, réduite à des blocs de glace morte, est vouée à disparaître. Les glaciers Blanc et de la Girose dans les Écrins (Hautes-Alpes), celui de Taconnaz dans le massif du mont Blanc (Haute-Savoie) ou de la Grande Motte dans le massif de la Vanoise (Savoie)… tous fondent à vue d’œil.

    Les glaciers des Alpes françaises perdent de la masse depuis presque deux siècles, mais la fonte s’accélère de plus en plus sous l’effet du changement climatique. Ils reculaient d’1,50 mètre par an en moyenne la dernière décennie, contre 40 centimètres par an au siècle dernier. L’année 2022, marquée par une intense canicule, a marqué un tournant, avec 3,50 mètres perdus en moyenne. Le recul devrait être à peine moins marqué cette année : 2,50 mètres pour les gros glaciers.

    À ce rythme, les trois quarts des glaciers alpins auront disparu en 2050, d’après les estimations de l’IGE. Aucun glacier situé à moins de 3 400 mètres d’altitude ne devrait résister. D’ici la fin du siècle, 90 % de ces monuments de glace seront réduits à néant.
    Des hommages aux quatre coins de l’Europe

    Face à ce cataclysme, des montagnards crient leur tristesse et leur colère lors de rassemblements d’hommage. Plusieurs personnes se sont rassemblées le 2 septembre sous le glacier de Sarenne pour lui dire adieu. Parmi eux, le glaciologue à la retraite François Valla, 81 ans dont 30 passées à mesurer le glacier : « Quand j’ai commencé, jamais je n’aurais imaginé qu’il pourrait disparaître de mon vivant. »

    L’initiative n’est pas isolée. Trois jours après, en Autriche, des associatifs et des religieux enfouissaient un cercueil de glace près du sommet du Grossglockner, en hommage au glacier Pasterze voué à disparaître dans les prochaines années. En 2019 déjà, des Islandais se réunissaient pour célébrer les funérailles du glacier disparu Okjökull.

    « C’est une émotion extrêmement forte, confie le vice-président de l’association Mountain Wilderness Frédi Meignan, présent aux obsèques du glacier de Sarenne. Au-delà de l’émotion, il y a clairement de l’inquiétude. Les glaciers comme Sarenne n’étaient pas de petits glaciers. Deux photos circulent, l’une de 1906, où l’on voit un immense glacier millénaire, et l’autre de 2016, où il est microscopique et n’existe déjà quasiment plus. C’est hallucinant, cette rapidité. Les conséquences sur l’eau, les écosystèmes, vont être colossales. »

    Avec le glacier, c’est aussi tout l’âge d’or du ski de piste qui s’éteint. « Il y a le glacier de Sarenne, et il y a la mythique piste de la Sarenne de l’Alpe d’Huez, la plus longue piste noire d’Europe, rappelle à Benoît Chanas, vice-président de la Société internationale de glaciologie (IGS). De ce fait, sur le plan médiatique comme sur le plan psychologique, la station a beaucoup de mal à accepter la disparition du glacier. »

    https://reporterre.net/Dans-les-Alpes-des-obseques-pour-les-glaciers-disparus
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