• #Taimur_Shinwari, 07.08.2015

      IN MEMORIA DI TAIMUR SHINWARI

      Martedì 11 Agosto alla sera a Gorizia nel parco della Rimembranza si è tenuta una veglia di preghiera per Taimur Shinwari, un ragazzo pakistano di 25 anni.

      Venerdì scorso è morto tragicamente nelle acque dell’#Isonzo goriziano.

      Taimur aveva percorso un lungo tragitto da migrante per tutto il Medio Oriente e i Balcani come tanti suoi connazionali e coetanei, ma purtroppo è affogato in modo banale nel fiume di #Gorizia.

      Per ricordarlo e per raccogliere fondi, affinché il suo corpo possa ritornare a casa dalla sua famiglia, il movimento dei Focolarini ha organizzato una liturgia assieme agli altri rifugiati alternando preghiere musulmane a quelle cristiane. Oltre ai cittadini italiani vi era un numeroso gruppo di ragazzi richiedenti asilo di Gorizia che hanno mostrato molta solidarietà per il compagno morto.

      Tante erano le candele accese per Taimur e tanti sono stati i ringraziamenti da parte dei suoi compagni per il rispetto dimostrato durante la loro funzione. I Giovani per la Pace hanno partecipato a questo momento di raccoglimento.

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      http://www.giovaniperlapace.it/2015/08/13/per-taimur-shinwari

      –-> mort de « non-accueil », comme exprimé par la personne qui m’a signalé sa mort par mail.

    • #Zarzai_Mirwais, juillet 2016
      La morte di Zarzai Mirwais, oggi il lavaggio del corpo

      GRADISCA. Si avvicina il momento del rimpatrio in Afghanistan della salma di Zarzai Mirwais, il 35enne afghano ospite del #Cara annegato nell’#Isonzo, sul versante della sponda sagradina del fiume. Le procedure burocratiche, seguite dalla Prefettura e da un’associazione triestina di mediazione culturale che hanno mantenuto i contatti con l’ambasciata afghana a Roma, sono state quasi del tutto ultimate. I costi, ingenti, per il rimpatrio del corpo del povero Mirwais saranno sostenuti interamente dagli amici dell’uomo. Questa mattina, intanto, in una camera mortuaria del nosocomio di Monfalcone verrà celebrato, secondo il costume islamico, il rito del lavaggio del corpo. A celebrarlo, alle 10, sarà un imam proveniente dalla Germania e messo a disposizione dai parenti di Zarzai Mirwais, che già nelle ore immediatamente successive alla tragedia avevano raggiunto Gradisca. Al rito, che per la sua intimità si svolgerà comprensibilmente a porte chiuse, parteciperanno gli ospiti del Cara che più avevano legato con l’afghano, che in patria ha lasciato due figli e una consorte. Molti altri richiedenti asilo del centro gradiscano hanno manifestato l’intenzione di essere presenti in questo momento di dolore per la non piccola comunità del Cara, che conta attualmente circa 400 ospiti. La celebrazione del rito del lavaggio della salma sblocca, fra l’altro, anche lo svolgimento della veglia di preghiera interreligiosa che la Caritas diocesana, l’amministrazione comunale della Fortezza, la parrocchia di Gradisca e tante altre associazioni di volontariato avevano pensato per onorare la memoria di Zarzai. La tradizione islamica prevede infatti che non possa essere svolta una preghiera funebre prima che sia stato ultimato il simbolico rito del lavaggio del corpo del defunto. La veglia interconfessionale sarà organizzata con tutta probabilità domani sera alle 20 negli spazi esterni della parrocchia di San Valeriano, nella cittadina della Fortezza.

      https://necrologie.ilpiccolo.gelocal.it/news/34814

    • #Sajid_Hussain, 14.06.2019
      COMUNICATO PER LA MORTE DI SAJID HUSSAIN

      Sajid Hussain aveva 30 anni ed era originario del Parachinar, in Pakistan. Era arrivato in Europa qualche anno fa. Dalla Germania, dove aveva chiesto l’asilo politico e aveva vissuto alcuni anni, si era poi spostato in Italia, come molti suoi connazionali: tuttavia la sua richiesta d’asilo in Italia si era arenata in quanto il Paese di competenza – secondo il regolamento di Dublino II (2003/343/CE) – era la Germania, dove però le persone originarie del Parachinar difficilmente ricevono la protezione, al contrario di quanto avviene nel resto dell’Unione europea. In Italia, era entrato nel sistema di accoglienza a Staranzano (GO): era stato seguito dal Centro di Salute Mentale di Monfalcone. A seguito del cosiddetto Decreto Sicurezza e del conseguente smantellamento del sistema SPRAR di accoglienza diffusa, era stato trasferito, insieme ai suoi compagni, nel CARA di Gradisca d’Isonzo, gestito dalla cooperativa Minerva.

      Otto mesi fa, aveva chiesto di avviare la procedura per il cosiddetto rimpatrio volontario assistito, gestito dall’agenzia dell’ONU per le migrazioni (IOM/OIM): il rimpatrio volontario è una misura di controllo e contrasto all’immigrazione, attraverso la quale uno Stato (o un’organizzazione internazionale) danno un sostegno economico alle persone che decidono di rientrare nel loro Paese di provenienza. Il processo di rimpatrio assistito di Sajid Hussain era bloccato per mancanza di fondi, come è stato per mesi per tutti quelli gestiti da IOM/OIM. Sajid chiedeva insistentemente di essere rimpatriato o rimandato in Germania: per dimostrare questo suo desiderio, circa quattro mesi fa aveva stracciato i suoi documenti.

      Sajid si è annegato nell’Isonzo a Gorizia il 14 giugno, dopo essere stato in Questura a chiedere se si fosse sbloccata la sua procedura di rimpatrio.

      La vita di Sajid Hussain interseca in più punti l’insostenibilità del governo europeo delle migrazioni: un sistema che l’ha costretto a un ingresso pericoloso e illegale; che l’ha inserito in un database di sorveglianza (Eurodac); che gli ha vietato di scegliere il Paese dove vivere e l’ha costretto a tentare la procedura di asilo in Italia; che l’ha sottoposto a un processo per la richiesta d’asilo lungo e precarizzante; che lo ha costretto a vivere in una struttura affollata e non adatta alla vita delle persone; che non l’ha tutelato per i suoi problemi psichici; che non gli ha permesso di scegliere di tornare indietro, ingabbiandolo in una strada senza uscita. Il suicidio di Sajid è anche una conseguenza diretta di questo sistema: è la scelta di una persona senza possibilità di scelta; è la scelta di una persona che, come tante altre, viveva le condizioni materiali di invisibilità e disumanizzazione alle quali è sottoposta/o chi entra in Europa illegalmente. Il suicidio di Sajid è una morte di Stato.

      Se il Decreto sicurezza, con lo smantellamento del sistema SPRAR e l’eliminazione della protezione umanitaria, ha reso la vita in Italia dei/lle richiedenti asilo ancora più dura, è anche vero che in Italia l’immigrazione è sempre stata gestita come un fenomeno da controllare, incanalare e reprimere, secondo le necessità del mercato del lavoro. In questo razzismo istituzionale, che fonda lo Stato italiano come è oggi, sta l’origine dello sfruttamento delle migrazioni e dell’accettabilità dell’idea stessa che le persone richiedenti asilo possano essere ammassate in una struttura come il CARA di Gradisca, isolate, infantilizzate e costrette a un’attesa lunga mesi. A fianco a quel luogo, il CARA, dovrebbe essere presto aperta una prigione per persone irregolari: il Centro Permanente per il Rimpatrio (CPR), voluto dal Decreto Minniti-Orlando. L’apertura del CPR – di fatto un lager per le persone rinchiuse – porterebbe anche a un aumento del controllo poliziesco sulle vite delle persone che vivono nel CARA, oltre a essere per loro una minaccia visibile di espulsione e rimpatrio.

      Il suicidio di Sajid, morto di Stato, segue (almeno) altri quattro suicidi che sono avvenuti negli ultimi due anni tra i richiedenti asilo in Friuli-Venezia Giulia. Questa invisibilità che si fa visibile per un giorno come notizia di cronaca nera è un richiamo potente all’evidenza della brutalità del sistema delle frontiere, che crea una gerarchia mortale tra gli abitanti del mondo. La lotta per la distruzione di tutti i confini è una lotta per la libertà di tutt*.

      https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2019/06/20/comunicato-per-la-morte-di-sajid-hussain

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      Storia di Sajid, che voleva ritornare a casa

      Si chiamava Sajid Hussain il migrante pakistano annegato nel fiume Isonzo, a Gorizia, lo scorso 14 giugno. Sajid aveva trent’anni, proveniva dalla regione del Parachinar, dove aveva tre figli piccoli. Era in Europa da tre anni, prima in Germania e poi in Italia, da poco meno di un anno e mezzo. Nel nostro paese la sua richiesta di protezione si era però arenata a causa del trattato di Dublino. Lo stato competente, che per primo aveva identificato e ricevuto la domanda d’asilo di Sajid, era infatti la Germania.

      Sajid era ospitato da qualche tempo nel Centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, in seguito alla chiusura dei progetti di accoglienza diffusa dello Sprar, per effetto del decreto Salvini. Prima divideva con alcuni connazionali un alloggio nel vicino paese di Staranzano.

      Sajid però non è morto per un incidente, nell’Isonzo si è gettato volontariamente. Aveva deciso di tornare a casa, in Pakistan, o intanto in Germania, per poi partire da lì. Per questo aveva chiesto il rimpatrio, ma anche quella procedura era ferma da otto mesi, bloccata per la mancanza di fondi. Il rimpatrio volontario assistito è gestito dai governi con l’aiuto di organizzazioni internazionali come l’IOM (International Organization for Migration), o da ong come l’italiana Cefa. Il rimpatrio assistito prevede che il migrante riceva una somma, oltre i costi del viaggio, per aiutarlo a reinserirsi nel suo paese d’origine, trovare un lavoro o avviare un’attività. Questa soluzione è meno costosa per lo stato del rimpatrio coatto. L’Italia però ci investe meno di altri paesi europei come Francia e Germania.

      Come Sajid, chiedono il rimpatrio volontario molti migranti che non vedono nessuna prospettiva nel paese in cui si trovano. Per lui, però, il limbo in cui era finito era diventato insostenibile: quattro mesi fa aveva perfino strappato i suoi documenti per protesta. Negli ultimi mesi si era chiuso nel silenzio e chi lo conosceva bene è sicuro soffrisse di depressione. Sajid si è buttato nell’Isonzo dopo un’ultima visita alla questura di Gorizia. Era andato a controllare se la sua situazione si fosse sbloccata.

      Il suicidio di Sajid non è purtroppo un fatto isolato. Solo nelle strutture di accoglienza del Friuli-Venezia Giulia si sono registrati altri quattro casi negli ultimi anni. Sintomo di un sistema che funziona male, con strutture affollate e sempre meno tutele per la salute, anche psicologica, dei migranti.

      Per fare in modo che almeno la salma di Sajid possa tornare in Pakistan, amici e familiari si sono già mobilitati, promuovendo una raccolta fondi su internet.

      http://www.coopforwords.it/works/view/5647

      #Dublin #Staranzano #Cara #Gradisca #retour_volontaire #santé_mentale #suicide

    • juillet 2019:

      juillet 2019:
      Tentative de suicide, selon des informations reçues par mail il s’agit d’un pakistanais:

      All’inizio di luglio, un altro giovane migrante ospite del centro aveva tentato il suicidio, provando a buttarsi nell’Isonzo tra #Gradisca e #Poggio_Terza_Armata, ma era stato bloccato da un passante.

      https://www.dinamopress.it/news/gradisca-la-gestione-dellimmigrazione-uccide

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      Tomasinsig porta il caso del migrante in Prefettura

      Il caso del 30enne pakistano che ha tentato di gettarsi dalla passerella fra Gradisca e Poggio Terza Armata, e che ha rischiato di bissare la tragica fine di un connazionale annegato nell’Isonzo a Gorizia appena 20 giorni prima, sarà portato dal sindaco della Fortezza, Linda Tomasinsig, al Tavolo per l’Accoglienza convocato per oggi in Prefettura a Gorizia.

      I due cittadini pakistani, entrambi ospiti del Cara, sognavano entrambi il rimpatrio. All’incontro parteciperanno anche i vertici di Prefettura e Questura, le forze dell’ordine e le associazioni locali impegnate nel campo dell’immigrazione. «Fra i temi all’ordine del giorno, è ipotizzabile che vi saranno novità sulle tempistiche di apertura del Cpr – spiega Tomasinsig – ma chiederò lumi anche sull’annunciato piano trasferimenti di migranti ad altre regioni, ed illustrerò i contenuti dell’ordinanza anti-bivacchi nelle aree fluviali redatta assieme al collega Vittori di Sagrado».

      https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2019/07/11/news/tomasinsig-porta-il-caso-del-migrante-in-prefettura-1.36965

    • 18.12.2019

      Mercoledì 18 dicembre #Atif, che viveva nel Cara di Gradisca, proprio a fianco del Cpr, è morto annegato nell’Isonzo.

      https://radioblackout.org/2020/01/gradisca-proteste-evasioni-solidarieta

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      Il corpo di Atif se l’è preso l’Isonzo, la sua vita gli è stata rubata da un confine assurdo e da una legge ingiusta

      Mercoledì 18 dicembre Atif è caduto nell’Isonzo. Assieme ad altri ragazzi che come lui sono ospitati nel vicino CARA di Gradisca stava ingannando il tempo sulla riva del fiume.

      Alcuni articoli giornalistici lasciano intendere che la colpa è di un gioco avventato, di una stupida scommessa tra amici.

      Ma prima di lui l’Isonzo si è portato via Taimur nel 2015, e Zarzai nel 2016. Nel giugno di quest’anno Sajid nel fiume ha deciso di far finire la sua vita.

      Tutti loro hanno avuto la sfortuna di nascere in quello che secondo le nostre leggi è il lato “sbagliato” del mondo. Chi vi nasce se vuole cercare fortuna altrove non può, come facciamo noi europei, semplicemente comprare un biglietto d’aereo. Deve affidarsi ai trafficanti, affrontare un viaggio lungo e massacrante, pagare cifre astronomiche, solamente per poter mettere un piede oltre al confine della fortezza Europa.

      Atif vi era riuscito in ottobre, fermato nei pressi della frontiera con la Slovenia, e stava attendendo da allora l’esito della sua richiesta d’asilo.

      Era quindi entrato nel gorgo della legge sull’immigrazione italiana, quella che costringe ad attendere per mesi e mesi e in alcuni casi anni un colloquio con una “commissione” il cui esito sembra più l’estrazione di una lotteria che il frutto di una qualche valutazione.

      Nel frattempo la vita alienante al CARA di Gradisca, distante da tutto e tutti, nessun tipo di attività per far passare le giornate, nemmeno uno straccio di marciapiede per raggiungere il bar più vicino o le sponde dell’Isonzo.

      Quelle sponde dove i ragazzi del CARA vanno a consumare o cucinare il cibo che si comperano, per sfuggire all’immangiabile pasta o riso che all’infinito ripropone il “menu” della mensa della struttura.

      Quelle sponde dove a volte sono inseguiti dai solerti tutori delle forze dell’ordine pronti a comminare multe da 300€ a seguito dell’ordinanza della “democratica” amministrazione di Gradisca che vieta di bivaccarvi. La stessa amministrazione che non ha mai pensato di offrire nessuna alternativa degna per trascorrere il tempo, un posto al coperto dove poter stare assieme, magari leggere qualche libro, prepararsi il the o semplicemente stare in pace in un luogo sicuro.

      Chi ha conosciuto Atif racconta di un ragazzo solare, che seguiva un corso d’italiano organizzato da volontari fuori dal CARA, che voleva aiutare la madre e le quattro sorelle rimaste sole in Pakistan dopo la morte del padre.

      Atif non realizzerà i sui progetti: la sua vita gli è stata rubata da un confine assurdo e da una legge ingiusta.

      https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2019/12/22/il-corpo-di-atif-se-le-preso-lisonzo-la-sua-vita-gli-e-stata

    • 07.03.2016

      #Tarvisio, migrante nigeriano stroncato da un malore

      Dramma in stazione nel tardo pomeriggio di ieri a Boscoverde, dove un giovane immigrato è morto, pare per cause del tutto naturali. È stato probabilmente, infatti, un infarto a stroncare la giovane esistenza di un cittadino nigeriano di poco più di vent’anni, morto nell’atrio della stazione, dove sono locati i distributori di bevande e di cibi. Era stato rintracciato durante la notte sul treno in arrivo dall’Austria, assieme ad altri migranti di diverse nazionalità, poi, dopo la pratica del riconoscimento al comando del settore della Polizia di frontiera, il giovane, nella mattinata, era stato nuovamente indirizzato alla stazione ferroviaria. Di prassi, si provvede anche a rifocillare i migranti grazie alla Caritas quando vengono fermati. Si può quindi pensare che il giovane non avesse dato segno di sofferenza, altrimenti la stessa polizia avrebbe provveduto ad assicurare l’assistenza sanitaria. Il malore che l’ha colpito è stato inaspettato. Immediati i soccorsi, ma nonostante tutti i tentativi fatti anche da parte del medico di guardia del poliambulatorio, per il giovane non c’è stato nulla da fare. La salma è stata ricomposta nella cella mortuaria del cimitero di Plezzut.

      https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/03/06/news/tarvisio-migrante-nigeriano-stroncato-da-un-malore-1.130815

      –-> j’ajoute à la liste, mais cette personne serait morte d’un arrêt cardiaque, et donc non pas en lien avec la traversée de la frontière

  • Migrants en Libye, les oubliés de l’exil

    Venus le plus souvent d’Érythrée, les migrants sont détenus dans des conditions lamentables, et souvent les victimes de milices qui les torturent et les rançonnent. Les Nations unies et l’Union européenne préfèrent détourner le regard. Témoignages.

    L’odeur d’excréments s’accentue à mesure que nous approchons de l’entrepôt qui constitue le bâtiment principal du centre de détention de #Dhar-El-Djebel, dans les montagnes du #djebel_Nefoussa. Un problème de plomberie, précise le directeur, confus.

    Il ouvre le portail métallique du hangar en béton, qui abrite environ 500 détenus, presque tous érythréens. Les demandeurs d’asile reposent sur des matelas gris à même le sol. Au bout d’une allée ouverte entre les matelas, des hommes font la queue pour uriner dans l’un des onze seaux prévus à cet effet.

    Personne dans cette pièce, m’avait expliqué un détenu lors de ma première visite en mai 2019, n’a vu la lumière du jour depuis septembre 2018, quand un millier de migrants détenus à Tripoli ont été évacués ici. #Zintan, la ville la plus proche, est éloignée des combats de la capitale libyenne, mais aussi des yeux des agences internationales. Les migrants disent avoir été oubliés.

    En Libye, quelque 5 000 migrants sont toujours détenus pour une durée indéterminée dans une dizaine de #centres_de_détention principaux, officiellement gérés par la #Direction_pour_combattre_la_migration_illégale (#Directorate_for_Combatting_Illegal_Migration, #DCIM) du gouvernement d’entente nationale (#GEN) reconnu internationalement. En réalité, depuis la chute de Mouammar Kadhafi en 2011, la Libye ne dispose pas d’un gouvernement stable, et ces centres sont souvent contrôlés par des #milices. En l’absence d’un gouvernement fonctionnel, les migrants en Libye sont régulièrement kidnappés, réduits en esclavage et torturés contre rançon.

    L’Europe finance les garde-côtes

    Depuis 2017, l’Union européenne (UE) finance les #garde-côtes_libyens pour empêcher les migrants d’atteindre les côtes européennes. Des forces libyennes, certaines équipées et entraînées par l’UE, capturent et enferment ainsi des migrants dans des centres de détention, dont certains se trouvent dans des zones de guerre, ou sont gardés par des milices connues pour vendre les migrants à des trafiquants.

    Contrairement à d’autres centres de détention que j’ai visités en Libye, celui de Dhar-El-Djebel ne ressemble pas à une prison. Avant 2011, cet ensemble de bâtiments en pleine campagne était, selon les termes officiels, un centre d’entraînement pour « les bourgeons, les lionceaux et les avant-bras du Grand Libérateur » — les enfants à qui l’on enseignait le Livre vert de Kadhafi. Quand le GEN, basé à Tripoli, a été formé en 2016, le centre a été placé sous l’autorité du DCIM.

    En avril, Médecins sans frontières (MSF) pour lequel je travaillais a commencé à faire des consultations à Dhar-El-Djebel. Le centre retenait alors 700 migrants. La plupart étaient enregistrés comme demandeurs d’asile par l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés (UNHCR), mais selon la loi libyenne, ce sont des migrants « illégaux » et ils peuvent être détenus pour une durée indéterminée.

    N’ayant que peu d’espoir de sortir, plusieurs ont tenté de se suicider au contact de fils électriques. D’autres avaient placé leur foi en Dieu, mais aussi dans les réseaux sociaux et leurs talents de bricoleurs. La plupart des détenus érythréens sont chrétiens : sur le mur face à la porte, ils ont construit une église orthodoxe abyssine au moyen de cartons colorés de nourriture et de matelas verts du HCR, avec des croix en cire de bougie. Sur d’autres matelas, ils ont écrit, avec du concentré de tomates et du piment rouge, des slogans tels que « Nous sommes victimes du HCR en Libye ». Avec leurs smartphones, ils ont posté des photos sur les réseaux sociaux, posant avec les bras croisés pour montrer qu’ils étaient prisonniers.

    Leurs efforts avaient attiré l’attention. Le 3 juin, le HCR évacuait 96 demandeurs d’asile à Tripoli. Une semaine plus tard, l’entrepôt bondé dans lequel j’avais d’abord rencontré les migrants était enfin vidé. Mais 450 Érythréens restaient enfermés dans le centre, entassés dans d’autres bâtiments, à plus de vingt dans une vingtaine de cellules, bien que de nombreux détenus préfèrent dormir dans les cours, sous des tentes de fortune faites de couvertures.

    « Ils nous appellent Dollars et Euros »

    La plupart des Érythréens de Dhar-El-Djebel racontent une histoire proche : avant d’être piégés dans le système de détention libyen, ils ont fui la dictature érythréenne, où le service militaire est obligatoire et tout aussi arbitraire. En 2017, Gebray, âgé d’un peu plus de 30 ans, a laissé sa femme et son fils dans un camp de réfugiés en Éthiopie et payé des passeurs 1 600 dollars (1 443 euros) pour traverser le désert soudanais vers la Libye avec des dizaines d’autres migrants. Mais les passeurs les ont vendus à des trafiquants libyens qui les ont détenus et torturés à l’électricité jusqu’à ce qu’ils téléphonent à leurs proches pour leur demander une #rançon. Après 10 mois en prison, la famille de Gebray avait envoyé près de 10 000 dollars (9 000 euros) pour sa libération : « Ma mère et mes sœurs ont dû vendre leurs bijoux. Je dois maintenant les rembourser. C’est très dur de parler de ça ».

    Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.

    Après avoir survécu à la #torture, beaucoup comme Gebray ont de nouveau payé pour traverser la mer, mais ont été interceptés par les garde-côtes libyens et enfermés en centre de détention. Certains compagnons de cellule de Gebray ont été détenus depuis plus de deux ans dans cinq centres successifs. Alors que la traversée de la Méditerranée devenait plus risquée, certains se sont rendus d’eux-mêmes dans des centres de détention dans l’espoir d’y être enregistrés par le HCR.

    Les ravages de la tuberculose

    Dans l’entrepôt de Dhar-El-Djebel, Gebray a retrouvé un ancien camarade d’école, Habtom, qui est devenu dentiste. Grâce à ses connaissances médicales, Habtom s’est rendu compte qu’il avait la tuberculose. Après quatre mois à tousser, il a été transféré de l’entrepôt dans un plus petit bâtiment pour les Érythréens les plus malades. Gebray, qui explique qu’à ce moment-là, il ne pouvait « plus marcher, même pour aller aux toilettes », l’y a rapidement suivi. Quand j’ai visité la « maison des malades », quelque 90 Érythréens, la plupart suspectés d’avoir la tuberculose, y étaient confinés et ne recevaient aucun traitement adapté.

    Autrefois peu répandue en Libye, la tuberculose s’est rapidement propagée parmi les migrants dans les prisons bondées. Tandis que je parlais à Gebray, il m’a conseillé de mettre un masque : « J’ai dormi et mangé avec des tuberculeux, y compris Habtom ».

    Habtom est mort en décembre 2018. « Si j’ai la chance d’arriver en Europe, j’aiderai sa famille, c’est mon devoir », promet Gebray. De septembre 2018 à mai 2019, au moins 22 détenus de Dhar-El-Djebel sont morts, principalement de la tuberculose. Des médecins étaient pourtant présents dans le centre de détention, certains de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), et d’autres d’#International_Medical_Corps (#IMC), une ONG américaine financée par le HCR et l’UE. Selon un responsable libyen, « nous les avons suppliés d’envoyer des détenus à l’hôpital, mais ils ont dit qu’ils n’avaient pas de budget pour ça ». Les transferts à l’hôpital ont été rares. En revanche, une quarantaine des détenus les plus malades, la plupart chrétiens, ont été transférés dans un autre centre de détention à Gharyan, plus proche d’un cimetière chrétien. « Ils ont été envoyés à Gharyan pour mourir », explique Gebray. Huit d’entre eux sont morts entre janvier et mai.

    Contrairement à Dhar-El-Djebel, #Gharyan ressemble à un centre de détention : une série de containers entourés de hauts grillages métalliques. Yemane a été transféré ici en janvier : « Le directeur de Dhar-El-Djebel et le personnel d’IMC nous ont dit qu’ils allaient nous conduire à l’hôpital à Tripoli. Ils n’ont pas parlé de Gharyan... Quand on est arrivés, on a été immédiatement enfermés dans un container ».
    Des migrants vendus et torturés

    Selon Yemane, une femme a tenté de se pendre quand elle a compris qu’elle était à Gharyan, et non dans un hôpital, comme le leur avaient promis les médecins d’IMC. Beaucoup gardaient de mauvais souvenirs de Gharyan : en 2018, des hommes armés masqués y ont kidnappé quelque 150 migrants détenus dans le centre et les ont vendus à des centres de torture. Le centre a alors brièvement fermé, puis rouvert, avec à sa tête un nouveau directeur, qui m’a expliqué que des trafiquants l’appelaient régulièrement pour tenter de lui acheter des migrants détenus.

    En avril 2019, des forces de Khalifa Haftar, l’homme fort de l’est de la Libye, ont lancé une offensive contre les forces pro-GEN à Tripoli et se sont emparées de Gharyan. Les troupes d’Haftar se sont installées à proximité du centre de détention et les avions du GEN ont régulièrement bombardé la zone. Effrayés par les frappes aériennes autant que par les migrants tuberculeux, les gardes ont déserté. Chaque fois que je me suis rendu sur place, nous sommes allés chercher le directeur dans sa maison en ville, puis l’avons conduit jusqu’au portail du centre, où il appelait un migrant pour qu’il lui ouvre. Les détenus lui avaient demandé un cadenas pour pouvoir s’enfermer et se protéger des incursions. De fait, des forces pro-Haftar venaient demander aux migrants de travailler pour eux. Yemane indique qu’un jour, ils ont enlevé quinze hommes, dont on est sans nouvelles.

    MSF a demandé au HCR d’évacuer les détenus de Gharyan. L’agence de l’ONU a d’abord nié que Gharyan était en zone de guerre, avant de l’admettre et de suggérer le transfert des détenus au centre de détention #Al-Nasr, à #Zawiya, à l’ouest de Tripoli. Pourtant, le Conseil de sécurité de l’ONU a accusé les forces qui contrôlent ce centre de trafic de migrants, et placé deux de leurs dirigeants sous sanctions.

    « Si vous êtes malades, vous devez mourir ! »

    Les détenus étaient toujours à Gharyan quand, le 26 juin, les forces du GEN ont repris la zone. Le jour suivant, ils ont forcé le portail du centre de détention avec une voiture et demandé aux migrants de se battre à leurs côtés. Les détenus effrayés ont montré leurs médicaments contre la tuberculose en répétant des mots d’arabe que des employés du HCR leur avaient appris − kaha (#toux) et darn (#tuberculose). Les miliciens sont repartis, l’un d’eux lançant aux migrants : « Si vous êtes malades, on reviendra vous tuer. Vous devez mourir ! ».

    Le 4 juillet, le HCR a enfin évacué les détenus restants vers Tripoli. L’agence a donné à chacun d’eux 450 dinars (100 euros) pour qu’ils subvenir à leurs besoins dans une ville qu’ils ne connaissaient pas. L’abri où ils étaient censés loger s’avérant trop coûteux, ils ont déménagé vers un endroit moins cher, jadis une bergerie. « Le HCR dit qu’on sera en sécurité dans cette ville, mais pour nous, la Libye n’offre ni liberté ni sécurité », explique Yemane.

    La plupart des 29 migrants évacués de Gharyan sont maintenant bloqués, et en danger, dans les rues de Tripoli, mais espèrent toujours obtenir l’asile en dehors de Libye. Les combats se poursuivant à Tripoli, des miliciens ont proposé à Yemane de s’enrôler pour 1 000 dollars (901 euros) par mois. « J’ai vu beaucoup de migrants qui ont été recrutés ainsi, puis blessés », m’a-t-il raconté récemment sur WhatsApp. Deux de ses colocataires ont été à nouveau emprisonnés par des milices, qui leur ont demandé 200 dollars (180 euros) chacun.

    Les migrants de Gharyan ont si peur dans les rues de Tripoli qu’ils ont demandé à retourner en détention ; l’un d’entre eux est même parvenu à entrer dans le centre de détention d’Abou Salim. Nombre d’entre eux ont la tuberculose. Fin octobre, Yemane lui-même a découvert qu’il en était porteur, mais n’a pas encore de traitement.
    « Ils nous ont donné de faux espoirs »

    Contrairement à Gharyan, Dhar-El-Djebel est loin des combats. Mais depuis avril, des migrants détenus à Tripoli refusent d’y être transférés car ils craignent d’être oubliés dans le djebel Nefoussa. Selon un responsable de la zone, « notre seul problème ici, c’est que le HCR ne fait pas son travail. Cela fait deux ans qu’ils font de fausses promesses à ces gens ». La plupart des détenus de Dhar-El-Djebel ont été enregistrés comme demandeurs d’asile par le HCR, et espèrent donc être relocalisés dans des pays d’accueil sûr. Gebray a été enregistré en octobre 2018 à Dhar-El-Djebel : « Depuis, je n’ai pas vu le HCR. Ils nous ont donné de faux espoirs en nous disant qu’ils allaient revenir bientôt pour nous interviewer et nous évacuer de Libye ».

    Les 96 Érythréens et Somaliens transférés en juin de Dhar-El-Djebel au « centre de rassemblement et de départ » du HCR à Tripoli étaient convaincus qu’ils feraient partie des chanceux prioritaires pour une évacuation vers l’Europe ou l’Amérique du Nord. Mais en octobre, le HCR aurait rejeté une soixantaine d’entre eux, dont 23 femmes et 6 enfants. Ils n’ont plus d’autre choix que de tenter de survivre dans les rues de Tripoli ou d’accepter un « retour volontaire » vers les pays dont ils ont fui la violence.

    Le rapport de la visite de l’ONU à Dhar-El-Djebel en juin, durant ce même transfert, avait prévenu que « le nombre de personnes que le HCR sera en mesure d’évacuer sera très faible par rapport à la population restante [à Dhar-El-Djebel] en raison du nombre de places limité offert la communauté internationale ».

    De fait, le HCR a enregistré près de 60 000 demandeurs d’asile en Libye, mais n’a pu en évacuer qu’environ 2 000 par an. La capacité de l’agence à évacuer des demandeurs d’asile de Libye dépend des offres des pays d’accueil, principalement européens. Les plus ouverts n’accueillent chaque année que quelques centaines des réfugiés bloqués en Libye. Les détenus de Dhar-El-Djebel le savent. Lors d’une de leurs manifestations, leurs slogans écrits à la sauce tomate visaient directement l’Europe : « Nous condamnons la politique de l’UE envers les réfugiés innocents détenus en Libye ».

    « L’Europe dit qu’elle nous renvoie en Libye pour notre propre sécurité, explique Gebray. Pourquoi ne nous laissent-ils pas mourir en mer, sans souffrance ? Cela vaut mieux que de nous laisser dépérir ici ».

    https://orientxxi.info/magazine/migrants-en-libye-les-oublies-de-l-exil,3460
    #Libye #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_érythréens #santé #maladie #externalisation

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    Et pour la liste de @sinehebdo, deux nouveaux #mots : #Dollars et #Euros

    Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.

    #terminologie #vocabulaire

    • Libye : que se passe-t-il dans le « #centre_d’investigations » de #Tripoli ?

      La semaine dernière, environ 300 migrants interceptés en mer par les garde-côtes libyens ont été transférés dans le centre de #Sharah_Zawiya, au sud de la capitale libyenne. Ouvert depuis au moins un an – avec une fermeture de quelques mois fin 2019 – le lieu est depuis peu contrôlé par le #DCIM et accessible à l’Organisation internationale des migrations (#OIM).

      #Centre_de_détention « caché », #centre_de_transit ou centre « d’investigations » ? Le centre de Sharah Zawiya, dans le sud de Tripoli, est l’objet d’interrogations pour nombre d’observateurs des questions migratoires en Libye.

      Selon l’Organisation internationale des migrations (OIM), contactée par InfoMigrants, le lieu est supposé être un centre de transit : les migrants interceptés en mer sont envoyés dans cette structure afin d’y subir un interrogatoire avant leur transfert vers un centre de détention officiel.

      « Théoriquement, ils [les migrants] ne restent pas plus de 48 heures à Sharah Zawiya », précise l’OIM.

      « Je suis resté au moins trois mois dans ce centre »

      Or plusieurs migrants, avec qui InfoMigrants est en contact et qui sont passés par ce centre, affirment avoir été enfermés plus que deux jours et disent n’avoir jamais été interrogés. « Je suis resté au moins trois mois là-bas l’été dernier, avant de réussir à m’en échapper », indique Ali, un Guinéen de 18 ans qui vit toujours en Libye. « Durant toute cette période, on ne m’a posé aucune question ».

      Ce dernier explique qu’à leur arrivée, les gardiens dépouillent les migrants. « Ils prennent tout ce qu’on a, le plus souvent nos téléphones et de l’argent ». Ibrahim, un Guinéen de 17 ans qui a – lui aussi - réussi à s’échapper du centre ce week-end après avoir été intercepté en mer, raconte la même histoire. « Ils m’ont forcé à leur donner mon téléphone et les 100 euros que j’avais sur moi », soupire-t-il.

      Ali assure également que les Libyens demandent une #rançon pour sortir du centre, avoisinant les 3 000 dinars libyens (environ 1 950 euros). « Un monsieur, un Africain, nous amenait des téléphones pour qu’on contacte nos familles et qu’on leur demande de l’argent. Un autre, un Arabe, récupérait la somme due ». Il détaille également les #coups portés sur les migrants « sans aucune raison » et le #rationnement_de_la_nourriture – « un morceau de pain pour trois personnes le matin, et un plat de pâtes pour six le soir ».

      D’après des informations recueillies et vérifiées par InfoMigrants, le centre est ouvert depuis au moins un an et a fermé quelques mois fin 2019 avant de rouvrir la semaine dernière avec l’arrivée d’environ 300 migrants. Un changement de chefferie à la tête du centre serait à l’origine de cette fermeture temporaire.

      Changement d’organisation ?

      Ce changement de responsable a-t-il été accompagné d’un changement de fonctionnement ? Ali explique qu’il s’est enfui vers le mois d’octobre, après trois mois de détention, avec l’aide de l’ancienne équipe. « Les Libyens qui contrôlaient le centre nous ont dit de partir car un nouveau chef devait arriver. L’ancien et le nouveau responsable n’étaient d’ailleurs pas d’accord entre eux, à tel point que leurs équipes ont tirés les uns sur les autres pendant que nous prenions la fuite ».
      L’OIM signale de son côté n’avoir reçu l’autorisation d’entrer dans le centre que depuis la semaine dernière. « Avant, le lieu était géré par le ministère de l’Intérieur, mais depuis quelques jours c’est le DCIM [le département de lutte contre la migration illégale, NDLR] qui a repris le contrôle », explique l’agence onusienne à InfoMigrants.

      Ibrahim assure, lui, qu’aucune somme d’argent n’a été demandée par les gardiens pour quitter le centre. Les personnes interceptées en mer, mardi 18 février, ont en revanche été transférées samedi vers le centre de détention de #Zaouia, où une rançon de 2 000 dinars (environ 1 300 euros) leur a été réclamée pour pouvoir en sortir.
      Ce genre de centre n’est pas une exception en Libye, prévient une source qui souhaite garder l’anonymat. « Il existe d’autres centres de ce type en Libye où on ne sait pas vraiment ce qu’il s’y passe. Et de toute façon, #centre_d’investigation, de transit ou de détention c’est pareil. Les migrants y sont toujours détenus de manière arbitraire pour une période indéfinie ».

      https://www.infomigrants.net/fr/post/22991/libye-que-se-passe-t-il-dans-le-centre-d-investigations-de-tripoli
      #Zawiya #IOM #détention

  • Des #pêcheurs pris dans un étau

    « La mer c’est la liberté. Aujourd’hui nous sommes emprisonnés à même l’eau » déplore Slah Eddine Mcharek, président de l’Association Le Pêcheur pour le développement et l’environnement[1] à #Zarzis. Leurs projets sont ambitieux : protection des ressources aquatiques, développement d’une pêche durable et responsable et défense de la pêche artisanale. Mais les obstacles sont de taille : pris entre la raréfaction des ressources halieutiques, les menaces à leur sécurité, la réduction de leur zone de pêche et la criminalisation du sauvetage des migrants en mer, les pêcheurs se retrouvent enserrés dans un véritable étau.

    Au-delà de la petite ville de Zarzis et de ses plages où se côtoient hôtels de luxe, corps de naufragés et pêcheurs en lutte, le récit de Slah Eddine rappelle l’importance de la justice migratoire et environnementale.

    La mer, déchetterie nationale

    Depuis quelques années, un phénomène prend de l’ampleur : les rejets de déchets plastiques envahissent les rives et encombrent les zones où travaillent les pêcheurs. Faute d’un système opérationnel de collecte des ordures ménagères et de sensibilisation aux risques liés à la pollution des eaux par le plastique, ces déchets s’entassent dans les canaux de la ville avant de se disperser dans la mer, au point que les pêcheurs réclament l’interdiction des sacs plastiques.

    Aux déchets ménagers s’ajoute le problème des rejets industriels. Slah Eddine déploie une carte du bassin méditerranéen et pointe du doigt le sebkhet el melah (marais salant) des côtes de Zarzis. Le salin appartient à Cotusal, vestige colonial d’une filiale française qui a exploité pendant longtemps les ressources salines de la Tunisie, dans le cadre de concessions avantageuses qui n’ont pas été renégociées depuis l’indépendance[2]. L’exploitation du sel dans cette région, en plus de saliniser les terres agricoles, rejette des produits de traitement du sel dans la mer. Surtout, les eaux zarzisiennes sont polluées par les rejets du Groupe Chimique Tunisien, notamment le phosphogypse, et par les eaux usées non traitées par l’ONAS (Office National de l’Assainissement). Cette dernière ne remplit pas sa mission de traitement des eaux industrielles et ménagères, notamment sur l’île de Djerba. Une partie des eaux est traitée de manière inefficace et insuffisante, l’autre non traitée du tout.

    Un équilibre écologique rompu

    Pour les êtres vivants qui habitent ces eaux, les rejets industriels mêlés aux déchets et eaux usées ne peuvent faire que mauvais mélange. « La mer est devenue des toilettes à ciel ouvert » s’indigne Slah Eddine, pointant cette fois du doigt deux poissons dessinés sur une affiche. L’un est le loup de mer et l’autre la dorade. « Là où les usines rejettent leurs eaux, ces poissons n’y vivent plus » explique-t-il. La contamination de ces eaux rompt un équilibre essentiel à la survie de la faune et la flore maritimes.

    Dans ces eaux, la reproduction marine est difficile sinon impossible, entraînant la disparition de plusieurs espèces de poissons et notamment les espèces cartilagineuses. Les éponges souffrent quant à elles du réchauffement climatique et présentent depuis quelques années des signes de maladies, au désespoir des familles qui vivent de leur commerce. Ainsi, en 2017, suite à la montée des températures (24°C à 67m de profondeur !), de nombreuses éponges sont mortes, par leur fragilité aux changements du milieu ou par une épidémie favorisée par cette augmentation de température[3].

    L’accumulation des pollutions a fini par asphyxier toute forme de vie dans les eaux proches de Djerba et Zarzis et notamment dans le golfe quasi fermé de Boughrara. Les pêcheurs estiment que 90 % des poissons et mollusques auraient disparu en dix ou vingt ans, privant beaucoup de personnes, notamment des jeunes et des femmes, d’un revenu stable. Mais alors que les pêcheurs de Gabès reçoivent des compensations à cause de la pollution et viennent pêcher sur les côtes de Zarzis, les pêcheurs zarzisiens ne reçoivent rien alors qu’ils sont aussi affectés.

    Plus au nord, sur les côtes sfaxiennes, c’est un autre phénomène qui s’est produit deux fois cette année, en juin puis en novembre, notamment à Jbeniana : la mer est devenue rouge, entrainant une forte mortalité de poissons. Le phénomène a été expliqué par la présence de microalgues eutrophisant la mer, c’est-à-dire la privant de son oxygène. Mais la version officielle s’arrête là[4], la prolifération de ces microalgues n’a pas été expliquée. Or, des phénomènes similaires sont connus à d’autres endroits de la planète, notamment dans le golfe du Mexique où la prolifération des algues est due à l’excès d’engrais phosphaté et azoté qui se retrouve dans la mer, ou du rejet d’eaux usées, qui produisent des concentrations trop importantes de matières organiques[5]. Il est donc fort probable que les rejets concentrés en phosphate du Groupe Chimique Tunisien à Gabès et Sfax, d’autres rejets industriels et ménagers et/ou des rejets d’engrais agricoles par les oueds soient à l’origine du phénomène.

    Le coût de Daesh

    Alors que certaines espèces disparaissent, d’autres se multiplient en trop grand nombre. Le crabe bleu, surnommé « Daesh » par les pêcheurs de la région du fait de son potentiel invasif et destructeur, en est le meilleur exemple. Cette espèce, apparue fin 2014 dans le golfe de Gabès[6], a rapidement proliféré au large des côtes, se nourrissant des poissons qui jusque-là constituaient le gagne-pain des pêcheurs du coin. « Daesh détruit tout : les dorades, les crevettes, les seiches …. Tous les bons poissons ! » s’exclame-t-il. La voracité du crabe bleu a aggravé les problèmes économiques de bien des pêcheurs. Si la chair de cette espèce invasive fait le bonheur de certains palais et qu’un marché à l’export est en plein développement en direction de l’Asie et du Golfe, les habitants de Zarzis qui vivent de la pêche artisanale, eux, ne s’y retrouvent pas. « Un kilo de loup ou de dorade se vend 40 dinars. Un kilo de crabe bleu, c’est seulement 2 dinars ! » affirme un pêcheur de l’association.

    Le calcul est vite fait, d’autant plus que les crabes bleus font assumer aux pêcheurs un coût du renouvellement du matériel beaucoup plus important, leurs pinces ayant tendance à cisailler les filets. « Avant l’arrivée de Daesh, nous changions les filets environ deux fois par an, maintenant c’est quatre à cinq fois par ans ! » se désole l’un d’entre eux.

    Bloqués dans un Sahara marin

    Comme le martèlent les pêcheurs, « la zone de pêche de Zarzis est devenue un Sahara, un véritable désert ». Suite au partage international de la Méditerranée, les pêcheurs zarzisiens sont cantonnés dans des eaux côtières, qui se vident de poisson suite aux désastres écologiques et à la surpêche.

    « Avant 2005 et le dialogue 5+5[7] on pouvait accéder à des zones de pêche intéressantes, mais depuis les autres pays ont agrandi leur territoire marin ». En effet, c’est en 2005 que la Libye met en place sa zone de pêche exclusive, interdisant ainsi l’accès aux pêcheurs tunisiens. La Tunisie met elle aussi en place sa zone économique exclusive[8], mais, à la différence de la zone libyenne[9], elle autorise des navires étrangers à y pêcher. Les chalutiers égyptiens sont particulièrement présents, et s’ajoutent aux chalutiers tunisiens (de Sfax notamment) qui ne peuvent plus pêcher dans les eaux poissonneuses libyennes. Il arrive même que ces chalutiers pénètrent dans les eaux territoriales, en toute impunité. En plus des désastres écologiques, les eaux du sud tunisien se vident ainsi de leurs poissons à cause de la surpêche.

    Limites des différentes zones maritimes tunisiennes[10] :

    Or, les frontières officielles ne semblent pas délimiter la zone où les pêcheurs tunisiens peuvent réellement travailler, cette dernière étant manifestement beaucoup plus restreinte et empiétée par la zone libyenne. Sur la carte maritime qu’il a déployée devant lui, Slah Eddine matérialise la zone où les pêcheurs de Zarzis peuvent pêcher de manière effective et montre en resserrant ses doigts l’évolution de la zone de pêche libyenne au détriment de la zone tunisienne. Mais alors, pourquoi ce déplacement de frontière maritime n’apparaît dans aucun texte ou accord international[11] ? Y a-t-il des accords cachés ? Les garde-côtes libyens s’arrogent-ils le droit de pénétrer les eaux tunisiennes ? Ou les pêcheurs tunisiens auraient-ils intégré l’obligation de ne pas pénétrer une zone tampon pour ne pas craindre pour leur sécurité ?

    Les pêcheurs sous les feux des groupes armés libyens

    Au-delà des problèmes économiques auxquels ils doivent faire face, les pêcheurs de Zarzis sont confrontés à de graves problèmes de sécurité dans les eaux où ils naviguent. Alors que les bateaux de pêche libyens ne se gênent pas, selon Slah Eddine, pour venir exploiter les eaux tunisiennes, il n’existe aucune tolérance pour les pêcheurs tunisiens qui s’aventurent en dehors de leur zone. Ces dernières années, le pêcheur ne compte plus les cas d’agressions, de saisies de bateaux, de menaces et prises d’otages, par les groupes armés, et parmi eux les gardes côtes officiels libyens, équipés par les programmes européens de lutte contre la migration non réglementaire.

    En 2012, un pêcheur tunisien mourrait ainsi sous les balles tirées d’une vedette côtière libyenne tandis que les 18 autres membres de l’équipage étaient faits prisonniers à Tripoli[12]. En 2015, quatre bateaux de pêche tunisiens qui avaient pénétré les eaux libyennes étaient également pris en otage par des groupes armés libyens et acheminés au port d’El Zaouira[13]. Les attaques ont eu lieu jusque dans les eaux tunisiennes, comme en février 2016 lorsque treize chalutiers tunisiens avec soixante-dix marins à bord ont été arraisonnés et emmenés dans le même port, la partie libyenne exigeant alors une rançon contre leur libération[14]. L’année suivante, en 2017, des pêcheurs libyens de Zaouira menaçaient de kidnapper tous les marins tunisiens qu’ils rencontreraient en mer en représailles au contrôle d’un chalutier libyen dans le port de Sfax par la garde maritime tunisienne. Depuis, les prises d’otage se multiplient. Enième épisode d’une saga sans fin, la dernière attaque libyenne date de septembre dernier.

    L’insécurité ne touche pas que les pêcheurs de Zarzis, mais tous les pêcheurs tunisiens qui naviguent à proximité des zones frontalières : au Sud-Est, ce sont les feux des groupes libyens qui les menacent ; au Nord-Ouest, ceux de la garde côtière algérienne. Le 31 janvier de cette année, un pêcheur originaire de Tabarka et âgé de 33 ans a été tué par les autorités algériennes alors que son bateau avait pénétré les eaux territoriales de l’Algérie[15]. « Le danger est partout ! », « on se fait tirer dessus ! », s’exclament les pêcheurs de l’Association. Entre deuil et colère, ils dénoncent l’absence de réponse ferme des autorités tunisiennes contre ces agressions et se font difficilement à l’idée qu’à chaque départ en mer leur vie puisse être menacée.

    Les autres damnés de la mer

    Comme tout marin, les pêcheurs de Zarzis doivent porter assistance aux bateaux en détresse qu’ils croisent sur leur chemin. Et des bateaux en détresse, ce n’est pas ce qui manque au large de Zarzis. Le hasard a fait que leur zone de pêche se trouve sur la route des migrants qui fuient la Libye sur des embarcations de fortune et les accidents sont fréquents dans ces eaux dangereuses. Porter secours aux survivants, prendre contact avec le Centre de Coordination des Sauvetages en Mer, ramener les corps de ceux pour lesquels ils arrivent trop tard afin de leur offrir une sépulture digne, c’est aussi cela, le quotidien des pêcheurs de Zarzis. L’effroi et la colère de l’impuissance lorsque des cadavres se prennent dans les filets pêche, l’inquiétude et le soulagement lorsque le pire est évité et que tout le monde arrive à bon port.

    Sauver des vies lorsqu’il est encore temps, c’est avant tout un devoir d’humanité pour ces hommes et ces femmes de la mer. La question ne se pose même pas, malgré les heures de travail et l’argent perdus. Pour être plus efficaces dans leurs gestes et secourir le plus grand nombre, plus d’une centaine de pêcheurs de Zarzis ont suivi en 2015 une formation de 6 jours sur le secours en mer organisée par Médecins sans frontières[16]. Alors que les politiques européennes de criminalisation des ONG menant des opérations de recherche et de secours en mer ont laissé un grand vide en Méditerranée, les pêcheurs tunisiens se retrouvent en première ligne pour les opérations de sauvetage. Aussi, quand ils partent en mer, prévoient-ils toujours de l’eau et de la nourriture en plus, des fois qu’un bateau à la dérive croise leur chemin.

    Des sauveurs que l’Europe veut faire passer pour des criminels

    Au-delà d’un devoir d’humanité, porter secours aux embarcations en détresse est une obligation inscrite dans le droit international maritime et en particulier dans la Convention internationale sur la Sauvegarde de la vie humaine en mer (SOLAS), qui s’applique à tous les navires. Le texte prévoit l’obligation pour tous les Etats de coordonner leurs secours et de coopérer pour acheminer les personnes dans un lieu sûr[17], où la vie des survivants n’est plus menacée et où l’on peut subvenir à leurs besoins fondamentaux.

    Aussi, lorsque l’équipage de Chameseddine Bourrasine croise lors l’été 2018 une embarcation avec 14 migrants à la dérive, c’est sans hésitation qu’il décide de leur porter secours. Mais alors que les rescapés menacent de se suicider s’ils sont ramenés en Tunisie et qu’il ne saurait être question de les livrer aux garde-côtes de Libye où c’est l’enfer des geôles qui les attend, le capitaine décide d’appeler la garde côtière du pays sûr le plus proche, à savoir l’Italie. Après plusieurs tentatives de contact restées sans réponse, il décide alors de remorquer le bateau vers l’Italie pour débarquer les migrants dans un lieu où ils seront en sécurité[18]. Accusé avec son équipage de s’être rendu coupable d’aide à l’immigration dite « clandestine », ce sauvetage coûtera aux 7 marins-pêcheurs 22 jours d’incarcération en Sicile.

    Si le procès s’est résolu par un non-lieu, les pêcheurs de Zarzis restent dans le collimateur des autorités italiennes. « Nous les pêcheurs tunisiens, l’Italie voudrait nous contrôler et encore limiter la zone dans laquelle nous pouvons pêcher » se désole Slah Eddine, « les Italiens nous surveillent ! ». Il évoque aussi la surveillance d’EUNAVFOR Med, également appelée Sophia, opération militaire lancée par l’Union européenne en 2015 en Méditerranée pour, selon les mots de la Commission « démanteler le modèle économique des passeurs et des trafiquants d’êtres humains »[19]. Si l’opération militaire les surveille de près lorsqu’il s’agit du secours en mer, lorsqu’il est question d’attaques par des milices libyennes, Sophia détourne le regard et abandonne les pêcheurs tunisiens à leur sort.

    Les harraga de demain ? [20]

    « On ne peut plus, ce n’est plus possible, il n’y a plus rien », répètent les pêcheurs, acquiesçant les paroles par lesquelles Slah Eddine vient de présenter leur situation. Entre les eaux polluées, les problèmes économiques, le fléau de Daesh, les poissons qui ne se reproduisent plus, les éponges malades, les attaques libyennes, les pressions italiennes et européennes, être un pêcheur en Tunisie, « ce n’est plus une vie ». Leurs fils à eux sont partis pour la plupart, en Europe, après avoir « brûlé » la mer. Ils savent que dans cette région qui vit surtout de la pêche, il n’y a pas d’avenir pour eux.

    Et puis il y a ceux qui, privés de toute autre source de revenus, sont contraints à se reconvertir dans des activités de passeurs. Nés dans des familles où la pêche se transmet de père en fils, ils connaissent la mer, ses vents, tempêtes, marées et courants. Ils savent où se procurer des bateaux. Lorsque ces loups de mer sont à la barre, le voyage est plus sûr pour celles et ceux risquent la traversée vers l’Europe à bord d’un rafiot. Alors que les harragas tunisiens sont de plus en plus systématiquement déportés lorsqu’ils sont arrêtés par les autorités italiennes[21], certains passeurs ont troqué leur clientèle tunisienne pour une clientèle subsaharienne, de plus en plus nombreuse à mesure que leur situation en Libye se dégrade. Faute de voies régulières pour les migrants, la demande de passage vers l’Europe augmente. Et faute de ressources alternatives pour les pêcheurs, l’offre se développe.

    Or ce n’est ni la « main invisible » ni une quelconque fatalité qui poussent ces pêcheurs au départ ou à la diversification de leurs activités, mais le mélange entre le modèle de développement polluant et incontrôlé, l’inaction des autorités tunisiennes en matière de protection de l’environnement, et le cynisme des politiques migratoires sécuritaires et meurtrières de l’Union européenne.

    https://ftdes.net/des-pecheurs-pris-dans-un-etau
    #environnement #sauvetage #Méditerranée #pêche #développement #émigration #Cotusal #pollution #plastique #colonialisme #sel #salines #phosphogypse #Groupe_Chimique_Tunisien #eaux_usées #reproduction_marine #poissons #éponges #Djerba #mollusques #Gabès #Jbeniana #microalgues #phosphate #crabe_bleu #Libye #différend_territorial #zone_économique_exclusive #surpêche #asile #migrations #réfugiés #criminalisation #Chameseddine_Bourrasine #EUNAVFOR_Med #Operation_Sophia #harraga

    #ressources_pédagogiques #dynamiques_des_suds

  • La Sirocco meets Jan Vorst
    https://www.nova-cinema.org/prog/2019/175-decembre/ear-you-are/article/la-sirocco-meets-jan-vorst

    DJ à diffusion multidirectionnelle, la Sirocco (Radio Panik) souffle un vent torride sur tous les dancefloors qu’elle agite, de Bruxelles à El Jadida, de Firenze à Istanbul, de Doomkerke à l’île de Tinos... Globe-trotteuse du beat, activiste du « Global Bon Goût », elle jongle entre afro-disco, female hip-hop, cumbia digitale, rumba congolaise, musique chaâbi et bien d’autres joyaux musicaux. Pour ce set cinématique au Nova, elle invite le VJ Jan Vorst pour vous faire valser, tournoyer, sauter, les yeux grands ouverts.

    samedi 7 décembre 2019 à 23h

    #DJ_set

  • DJ Rokia Bamba + DJ Syl
    https://www.nova-cinema.org/prog/2019/175-decembre/africa-is-in-the-future/article/dj-rokia-bamba-guests

    Après le concert des frères Teichmann & Wura Samba, c’est le bar du Nova qui sera le club le plus chaud de cette froide et dernière nuit bruxelloise de novembre. C’est donc tout naturel que nous invitions Rokia Bamba et Syl, qui font vibrer de nombreuses soirées de la ville. Syl avait brillamment tenu le dance floor en ebullition pour la seconde édition, alors que la connaissance de Rokia des musiques hybrides africaines et afro-descendantes et son enthousiasme derrière les platines, devraient garantir une folle nuit pour clôturer cet Africa is/in the Future 2019.

    samedi 30 novembre 2019 à 23h

    #DJ_set

  • Yémen : à marche forcée - ARTE Reportage | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/090427-000-A/yemen-a-marche-forcee

    Chez eux, en #Éthiopie, les Oromos n’ont rien. Par centaines de milliers, ils migrent vers l’Arabie Saoudite, richissime contrée où ils s’imaginent un avenir.

    Mais la route est longue, périlleuse, impossible. Elle se pratique à pied, faute de pouvoir payer les passeurs et elle est semée d’embuches. Les montagnes de Galafi, à la frontière de #Djibouti, irradiées par un soleil brûlant, mettent à terre les plus vaillants, terrassés par la soif.

    A Obock, un petit port sans charme, les migrants sont convoyés de nuit vers des boutres surchargés qui affrontent les vagues de la #Mer_Rouge. Et, ultime danger : au #Yémen, l’industrie migratoire est infiltrée par les mafias locales. Là-bas, les #migrants #oromos deviennent des proies. Les plus pauvres sont les plus vulnérables. Déviés de la route, aux prises avec des #passeurs sans scrupules, ils sont torturés jusqu’à ce que leurs familles paient la rançon, parfois ruinées par la vente de toutes leurs terres pour tirer un fils ou une fille de l’enfer des maisons de torture.

    D’une rive à l’autre du Golfe d’Aden, Charles Emptaz et Olivier Jobard ont marché avec ces migrants éthiopiens, animés par une idée fixe et lancinante : gagner un jour son pain.

    Des bribes de cette odyssée, ils tentent de reconstituer le récit d’une traversée mortelle, dessinant en creux le portrait d’un peuple transfiguré par l’épreuve, les Oromos.

  • Liban. Ce soulèvement qu’on n’attendait plus contre un édifice vermoulu
    Doha Chams > 22 octobre 2019 > Traduit de l’arabe par Adan Badha.
    https://orientxxi.info/magazine/liban-un-soulevement-contre-les-dirigeants-et-le-systeme,3359
    https://orientxxi.info/local/cache-vignettes/L800xH399/d60020e57b2d6c71ba3d20f013efa5-b7ad0.jpg?1571690875

    Les premiers jeunes descendus spontanément dans la rue le 17 octobre pour protester contre le projet de nouvelles taxes, notamment sur les services WhatsApp n’auraient jamais imaginé que des milliers d’autres allaient suivre le mouvement avec une telle rapidité. Et déclencher la plus importante contestation du « système libanais » depuis plus de dix ans, que le discours du premier ministre Saad Hariri le lundi 21 octobre, avec ses promesses de réformes, ne semble pas en mesure de stopper. (...)

    #Liban

  • « Les Kurdes nous ont dit "sortez, courez !" » : le témoignage de djihadistes françaises

    Prises sous le feu de l’armée turque, les forces kurdes ouvrent les portes des camps de #prisonniers #djihadistes. Témoignages recueillis par deux journalistes qui les avaient suivies dans le cadre d’un livre.

    Dix Françaises, membres de l’organisation Etat islamique (EI), sont libres en Syrie, après avoir pu sortir du camp d’Aïn Issa, à 50 km au nord de Raqqa. Selon nos informations, les forces kurdes, qui les détenaient, ne pouvaient plus les garder.

    Ces dix Françaises et leurs 25 enfants ont été sortis du camp, dimanche 13 octobre au matin, alors que l’armée turque prenait pour cible Aïn Issa, ville sous contrôle kurde dans le nord de la #Syrie. Dans l’incapacité de gérer ces centaines de femmes djihadistes étrangères retenues dans cette prison, les gardes kurdes ont quitté les lieux, les laissant libres.

    Comme les autres, les dix Françaises sont donc sorties dans la précipitation avec leurs enfants. Toutes sont connues des services de renseignement et sont sous le coup d’un mandat international pour avoir rejoint #Daech.

    http://www.leparisien.fr/international/en-syrie-les-kurdes-laissent-s-echapper-des-djihadistes-francaises-14-10-
    #femmes #camps #Kurdistan #EI #ISIS #Etat_islamique #prison #Aïn_Issa #France #françaises #fuite

  • Intervention turque en Syrie
    La révolution politique du Rojava menacée de toute part

    Stéphane Ortega

    https://lavoiedujaguar.net/Intervention-turque-en-Syrie-La-revolution-politique-du-Rojava-menac

    Pour la troisième fois en trois ans, l’armée turque pénètre dans le nord de la Syrie, menaçant l’auto-organisation démocratique, féministe et multiethnique créée par les Kurdes au Rojava.

    Pour les forces kurdes du nord de la Syrie, il y a d’abord les ennemis acharnés. Ce qu’il reste de Daech bien sûr, mais aussi la Turquie associée aux milices djihadistes qu’elle soutient et pilote. Et puis, il y a tous les autres : vrais adversaires ou faux amis. De la coalition internationale à la Russie, en passant par l’Iran ou le régime syrien, ils sont nombreux à jouer leur propre partition qui passe pour beaucoup par la fin de la tentative révolutionnaire au Rojava, nom de la région autoadministrée par les Kurdes au nord de la Syrie.

    Profitant du déplacement des troupes de Bashar al-Assad de leur région vers Alep à l’été 2012, les Kurdes ont entamé un processus d’autogouvernement dans les cantons d’Afrine, Kobané et Djézireh. Le Parti pour l’unité démocratique (PYD), proche du PKK, et les milices de protection du peuple (YPG/YPJ) supplantent les partis concurrents pour devenir la force dominante. Ils s’appuient sur l’auto-organisation des communes, pensées comme une alternative à la création d’un État-nation (...)

    #Syrie #Rojava #Turquie #Kurdistan #autogouvernement #Erdogan #djihadistes #offensive #résistance #Russie #USA #Europe

  • La controverse autour des drones chinois en cinq questions
    https://www.lemonde.fr/la-foire-du-drone/article/2019/09/30/la-controverse-autour-des-drones-chinois-en-cinq-questions_6013640_5037916.h

    Les données des drones DJI sont-elles en sécurité ou risquent-elles d’échouer dans les mains de Pékin ? L’entreprise déplore de « fausses accusations » provenant des Etats-Unis. La question est posée depuis 2017, lorsque l’armée américaine a diffusé une note intimant à ses troupes l’ordre de ne plus utiliser les produits du chinois DJI. Les drones du numéro un mondial sont-ils susceptibles de laisser fuiter leurs données à destination des autorités de Pékin ? Lors de sa conférence annuelle AirWorks, (...)

    #DJI #drone #aérien #vidéo-surveillance #concurrence

  • Le fabricant de drones DJI pris dans la guerre commerciale entre les Etats-Unis et la Chine
    https://www.lesechos.fr/tech-medias/hightech/le-fabricant-de-drones-dji-pris-dans-la-guerre-commerciale-entre-les-etats-

    Plusieurs responsables politiques américains accusent DJI de transférer des informations sensibles vers la Chine alors que les agences gouvernementales recourent de plus en plus à ses services. Pour tenter d’éviter le sort de Huawei, le numéro 1 des quadricoptères riposte en améliorant le contrôle de ses clients sur leurs données. Après Huawei , DJI va-t-il devenir la prochaine entreprise chinoise à faire les frais de la guerre commerciale entre les Etats-Unis et la Chine ? Le premier fabricant de (...)

    #DJI #drone #aérien #vidéo-surveillance #surveillance #concurrence

  • #Histoire de l’#Afrique_de_l’Ouest en un clin d’œil

    De toutes les régions du continent africain, c’est l’Afrique de l’Ouest qui a eu la plus grande concentration d’anciens royaumes et empires dans son histoire précoloniale.

    Ce n’est pas une tâche facile que de tenter de prendre des clichés de l’Afrique de l’Ouest à divers moments de son évolution. Même les royaumes les plus importants de l’histoire de la région — les empires du Mali, Songhai, du Ghana, Ashanti, etc. —, avec leurs frontières toujours changeantes, ne donnent que des images troubles. Les petites communautés et les territoires tribaux, qui ont toujours parsemé le paysage, sont encore plus flous et, bien qu’ils aient eu, sans aucun doute, un impact sur l’histoire culturelle de l’Afrique de l’Ouest, ils ont dû être omis.


    ... et ainsi de suite...

    Pour voir les cartes en une animation vidéo (j’ai pas réussi à l’extraire de twitter pour le mettre ici) :
    https://twitter.com/i/status/1144289420071321602

    #Tékrour

    Établi par le peuple #toucouleur de la vallée du #fleuve_Sénégal, le royaume de Tékrour a été le premier État de la région à adopter l’#Islam. Bien que devenu un État islamique robuste, Tékrour n’a jamais pu se défaire pour très longtemps du contrôle de ses puissants voisins : d’abord sous l’emprise de l’empire du Ghana, il a ensuite été conquis par celui du Mali.

    Écrivant bien plus tard, en 1270, Ibn Saïd a dépeint les aristocrates de Tékrour et leur affinité avec les commerçants blancs du Maghreb, dont ils imitaient les tenues et la cuisine. Il a aussi décrit deux sections distinctes de la population de Tékrour : les sédentaires, ancêtres des actuels Toucouleurs, et les nomades, qui deviendront les Peuls.

    #Gao (ou #Kaw-Kaw)

    Les débuts de la ville de Gao sont obscurs. Elle a été fondée pendant le VIIe siècle, soit comme village pêcheur des #Songhaïs, soit pour servir d’étape aux commerçants d’or berbères. Quoiqu’il en soit, la ville a rapidement fleurit et elle est devenue un centre majeur de commerce en Afrique de l’Ouest. L’empire de Gao s’est étendu depuis la ville le long du Niger sous la direction des Songhaïs. Au IXe siècle, Gao était déjà une puissance régionale.

    La culture de #Nok

    Parmi les sociétés du Néolithique et de l’Âge de Fer en Afrique de l’Ouest, la culture de Nok est peut-être la toute première et la plus connue, datant de 1000 av. J.-C. Cette société très développée s’est épanouie sur le plateau de #Jos qui surplombe la confluence des fleuves Niger et Bénoué, et a exercé une influence considérable sur une vaste étendue. La terre des sites archéologiques de #Taruga et de Jos était parfaite pour préserver les anciennes poteries et statues en terre cuite du peuple de Nok ; leurs sculptures détaillées d’humains et d’animaux varient en échelle de grandeur nature à 2,5 cm.

    Grâce à la découverte d’outils et d’objets en fer à Nok, les chercheurs savent que l’Âge de Fer a commencé en Afrique de l’Ouest aux alentours de 500 av. J.-C., alors que même en Egypte et en Afrique du Nord, l’usage du fer n’était pas encore généralisé. Contrairement à la plupart des autres cultures qui sont passées du #Néolithique à l’#Âge_de_Fer, la culture de Nok a évolué directement de la #pierre au #fer, sans connaître les étapes des âges du bronze et du cuivre. Ceci a amené les chercheurs à se demander si la technologie de production de fer a été apportée d’une autre région, ou si les Nok l’ont découverte par eux-mêmes.

    #Djenné-Djenno

    L’ancienne ville de Djenné-Djenno comptait une population considérable, comme l’indiquent les cimetières bondés qui ont été déterrés. Les habitants faisaient probablement pousser leur propre nourriture : comparé aux conditions arides de la région aujourd’hui, les précipitations auraient été abondantes à leur époque. Les habitants de Djenné-Djenno étaient des forgerons habiles qui créaient des outils et des bijoux en fer.

    La ville faisait partie d’un réseau commercial bien développé, quoique son étendue fasse toujours débat. L’absence de toute source de fer dans les environs pour leur industrie métallurgique, ainsi que la présence de perles romaines et hellénistiques sur le site suggèrent à certains chercheurs que la ville avait des relations avec des terres distantes.

    Les émigrations

    Le peuple #bantou est originaire du centre de l’actuel #Nigeria, mais a commencé son émigration vers le centre, et plus tard, le sud de l’Afrique vers 1000 av. J.-C. À cette époque, il reste peu de #Bantous, voire aucun, dans la région, mais les échos de leurs culture et traditions résonnent encore à travers l’Afrique de l’Ouest.

    Vers 200 av. J.-C., des groupes #akan ont commencé à se déplacer vers l’ouest, depuis la région située autour du #Lac_Tchad. Au cours des siècles suivants, ils traversèrent des rivières et des forêts denses pour atteindre la côte de l’actuel #Ghana.
    https://www.culturesofwestafrica.com/fr/histoire-afrique-de-l-ouest
    #archéologie #chronologie #cartographie #visualisation

  • #Boko_Haram : 40% des armes saisies sont de fabrication française

    Le #Tchad a révélé que près de 40% des armes saisies par son armée aux membres de Boko Haram sont de fabrication française.

    Le ministre tchadien de la Communication, Hassan Sylla Ben Bakari a indiqué qu’autour de « 40% des armes saisies par les forces armées du Tchad aux combattants de Boko Haram sont de fabrication française », rapporte Anadolu Agency. L’annonce a été faite par l’officiel, ce mercredi 4 mars 2015, à Yaoundé, à l’occasion d’une visite de travail au Cameroun.

    Hassan Sylla Ben Bakari a indiqué qu’il ne désignait pas la France comme un fournisseur d’armes de la secte Boko Haram. Il s’agit d’un avertissement afin que Paris contrôle mieux les circuits de vente de matériel militaire. « Mon pays montre ces images et continuera de les montrer afin que ceux qui les fabriquent sachent que ces armes ne se retrouvent pas là où elles doivent être », a poursuivi le ministre tchadien de la Communication.

    http://africa24.info/2016/01/01/boko-haram-40-des-armes-saisies-sont-de-fabrication-francaise
    #armes #armement #France #terrorisme #djihadisme

  • #Exit

    #Karen_Winther est passée d’un extrême à l’autre : membre d’un groupe de la gauche radicale à l’adolescence, elle a ensuite viré de bord pour rejoindre la mouvance néonazie. Après avoir définitivement rompu avec l’extrémisme, la réalisatrice norvégienne, encore hantée par son passé violent, est allée à la rencontre de personnes du monde entier qui, après avoir connu une « déradicalisation » similaire, ont souhaité témoigner de leur parcours. En Floride, Angela, ex-membre de l’organisation d’extrême droite Aryan Nations, passée par la case prison, s’engage aujourd’hui pour prévenir ces dérives. Manuel, l’un des anciens visages du mouvement néonazi allemand, vit aujourd’hui reclus pour sa propre sécurité. Quant au Français David, hier aspirant djihadiste de l’État islamique, il a quitté la mouvance après sa sortie de prison. Comment ces personnes d’horizons divers ont-elles réussi à tourner la page ? Un documentaire intimiste qui met en lumière les racines de leurs engagements, mais aussi les soutiens et les perspectives qui les ont aidées à s’en détourner.


    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/55267_1

    #David_Vallat, ex-djihadiste :

    « On pense que la violence, l’usage de la #violence peut changer les choses, mais à partir du moment où vous l’utilisez c’est la violence qui vous change parce vous changez le regard sur le monde »

    #film #documentaire #extrême_droite #néo-nazis #haine #Ingo_Hasselbach #témoignage #honte #peur #Tore_Bjørg (chercheur sur la police) #djihadisme #GIA #groupe_islamiste_armé #Exit (association) #idéologie #vide #Life_after_hate (association) #colère #viol #traumatisme #pardon #culpabilité #radicalisation

  • SNPVSFIESTA PART 2 - Saturday Night it’s #Fiesta_Panik Part 1
    http://www.radiopanik.org/emissions/saturday-night-panik/snp-vs-fiesta-panik-

    Tonight les amis on vous attend sur les ondes à partir de 21h30 ! Et oui c’est le 5ème et dernier week end du mois ! L’occase de faire une émission spéciale Bonus entre Fiesta Panik et Saturday Night Panik sur les ondes du 105.4 FM ! Au programme, de la musique, des chroniques, le #SNP Live Session, SNP scratch Session avec Dj Bust ! le Stup & Sex, Phil moi le micro, Pourquoi tu dors ? Deux émissions en une pour le plaisir de vos oreilles ! Stay Tuned !

    #radio_panik #Radio #Saturday_Night_Live #La_Brute #Dj_Mix #Max_Montagne #Acoustic_Session #Show #radio_panik,Radio,SNP,Saturday_Night_Live,La_Brute,Dj_Mix,Max_Montagne,Acoustic_Session,Show,Fiesta_Panik
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/saturday-night-panik/snp-vs-fiesta-panik-_06541__0.mp3

  • Saturday Night Panik Present : #Dj_Angela - #SNP Saison 2 épisode 12 Invites : #Alcheme, Dj Angela, #Régine_Labarre & #Pascale_Snoeck
    http://www.radiopanik.org/emissions/saturday-night-panik/snp-saison-2-episode-12-invites-dj-angela-regine-labarre-alcheme

    8+8 ? Ben Ben ben ? ça fait 16 ! La journée des droits de la femme étant passé depuis bientôt une bonne semaine, on vous donne rendez vous ce samedi à partir de 23h30 pour une belle soirée ! Et oui, demain les femmes seront à l’honneur car oui à Saturday Night Panik, nous avons décidé de faire la soirée de la femme ! Une programmation 100% féminine pour le plaisir de vos oreilles sur les ondes du 105.4 FM de Radio Panik ! On vous attend nombreu(x)se

    SNP Saison 2 Episode 12 Invites : Régine Labarre (Studio Pyramide) #ALCHEME : SNP Live Session’s

    Mais en attendant, l’heure fatidique, voici en dessous l’interview de ALCHEME !

    https://www.youtube.com/watch?v=XIpBDN77tgk

    Régine Labarre (Studio Pyramide)

    https://www.youtube.com/watch?v=1vrvk2zB6sg

    Dj Angela (...)

    #MULTIKULTI #SNP,Régine_Labarre,Dj_Angela,Alcheme,MULTIKULTI,Pascale_Snoeck
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/saturday-night-panik/snp-saison-2-episode-12-invites-dj-angela-regine-labarre-alcheme_06436__

    • source : F. Arfi (twitter) : « Dans ce premier entretien télévisé, Alexandre Djouhri s’en prend à deux reprises à Mediapart, adoube Alexandre Benalla et montre un rapport pour le moins instable avec les faits dans l’affaire des financements libyens. »

  • Deploying on #aws Free Tire with #docker and Fabric
    https://hackernoon.com/deploying-on-aws-free-tire-with-docker-and-fabric-d9eca7c629e6?source=rs

    In this article i want to summarize all things that u will need to make good dev environment and deployment for a small application. To make this happen we will use AWS Free Tire and Docker containers and orchestration and #django app as a typical projectLink on this project github: https://github.com/creotiv/aws-docker-exampleBefore go farther please install Docker first: https://docs.docker.com/install/linux/docker-ce/ubuntu/All code running under Python 3.6DockerDocker is a container virtualization engine that gives u ability to create cheap and fast environments for production and development use. Containers are not virtual machines. Key idea of containers is to make them as thin as possible. So you cant run Windows container on Linus system. Here is good image to see the (...)

    #devops #aws-free-tire

  • Finding High-impact Performance Bottlenecks — #django Tips
    https://hackernoon.com/finding-high-impact-performance-bottlenecks-django-tips-237a896e0f91?sou

    Finding High-impact Performance Bottlenecks In DjangoPhoto from Pexels.comHow to find bottlenecks in Django which have a high impact on the application performance.Originally published at https://avilpage.com/2018/12/django-bottleneck-performance-scaling.htmlIntroductionWhen optimizing the performance of web application, a common mistake is to start with optimizing the slowest page(or API). In addition to considering response time, we should also consider the traffic it is receiving to prioritize the order of optimization.In this article, we will profile a Django web app, find high-impact performance bottlenecks and then start optimizing them to yield better performance.Profilingdjango-silk is an open source profiling tool which intercepts and stores HTTP requests data. Install it with (...)

    #python #apm #django-tricks #django-tips

  • Electro palestinienne : levant en poupe
    Guillaume Gendron, Libération, le 25 février 2019
    https://next.liberation.fr/musique/2019/02/24/electro-palestinienne-levant-en-poupe_1711373

    A l’occasion de la carte blanche donnée à Electrosteen à Paris, rencontre avec les figures majeures de « l’Arab Touch », une scène qui ne cesse de grandir et de s’exporter avec succès, donnant une visibilité inédite aux diverses facettes de l’identité palestinienne.

    Aux oreilles non arabisantes, le nom du club, Kabareet, sonne anodinement exotique. Confusion savamment pensée entre « cabaret » et le mot arabe pour « allumette ». Ce n’est pas tant que ce club soit un brasier mais plutôt une lueur : l’épicentre de la scène électronique palestinienne, ici à Haïfa, au nord d’Israël, dans cette ville mixte où les juifs vivent en haut de la colline et les Arabes au bord de la mer. Un refuge où tout le monde peut venir danser, boire et s’oublier. Y compris les Palestiniens de Cisjordanie entrés sans permis, parfois en escaladant les huit mètres de béton du mur de séparation.

    Nimbé dans une lumière pourpre, sous les voûtes d’une vieille bâtisse aux pierres apparentes, Ayed Fadel, cheveux ras à l’exception d’un luxuriant chignon de dreadlocks, annonce au micro le prochain DJ, venu spécialement de Londres. Le charismatique pilier du collectif Jazar Crew, maître des lieux, appelle la foule - piercée, tatouée, surlookée - à « s’aimer, à refuser le racisme, le sexisme et l’homophobie ». Dans une pièce attenante, à côté d’une tireuse à bière, Nasser Halahlih est d’humeur rétrospective. Ce lieu, ce n’est pas tant qu’il en avait rêvé, c’est que longtemps, il n’avait jamais songé qu’il puisse exister. « Il fallait un public, dit-il. Quand j’ai commencé, j’étais putain de seul. Il y a encore dix ans, avant le Jazar, t’aurais jamais pu ouvrir un tel endroit. Les choses ont beaucoup changé. »

    Nasser Halahlih, 37 ans (qui se produit le 1er mars à l’Institut du monde arabe (Paris Ve) dans le cadre des Arabofolies et de la carte blanche au projet « made in Palestine » Electrosteen) est souvent présenté comme le pionnier de cette scène palestinienne. Aussi protéiforme et éparpillée que soudée et cohérente, et désormais scrutée à l’échelle mondiale à l’heure où le microcosme techno se déchire sur la question du boycott culturel d’Israël. Le fiasco du Meteor Festival, en septembre, en a donné l’illustration flagrante, voyant la majorité des musiciens européens se retirer suite aux appels du collectif #DJsForPalestine, après des jours de débats houleux sur les réseaux.

    Bandes d’ados et raves sauvages
    Fils d’une figure du théâtre palestinien, Nasser Halahlih a grandi entre Nazareth et Haïfa, les deux grandes villes arabes d’Israël, avec un passeport affichant le chandelier à sept branches, comme tous ceux que l’Etat hébreu désigne comme la minorité « arabe-israélienne ». Les concernés se réfèrent généralement à eux-mêmes en tant que Palestiniens de « 48 », la date de création d’Israël. Et, du point de vue arabe, de la nakba (« la catastrophe »). Distinguo crucial, tant l’identité palestinienne est fragmentée - entre la diaspora, les réfugiés, les Gazaouis, les habitants de Cisjordanie sous occupation et donc « ceux de 48 ».

    Les années, l’isolation et la séparation des communautés ont creusé les différences sociales et culturelles, que ce mouvement cherche à enjamber, si ce n’est combler. D’où le nom du combo electro-pop emblématique de la diaspora, 47Soul (« l’âme de 47 »), quatuor faisant la navette entre la Jordanie et Londres et dont le tube de 2015 Intro to Shamstep (sham signifiant le Levant en arabe) constitue le climax des soirées de Ramallah à Jaffa (ville arabe accolée à Tel-Aviv). En 2018, The Guardian a même listé le shamstep comme l’un des sons de l’année.

    Les choses ainsi posées, Halahlih se gratte la tête et refait, à travers son parcours, l’archéologie du mouvement. Fan de rap, « comme tout le monde en Palestine dans les années 90-2000 », il s’inscrit à un atelier de DJing à 15 ans. Les autres participants sont juifs israéliens. Ils l’initient à la house, la trance, l’EDM. Les choses s’enchaînent : à Nazareth et Haïfa, il joue dans les mariages (« seule façon de vivre de la musique ici ») et s’aguerrit en parallèle à New York et Tel-Aviv. En 2008, il sort sur un label berlinois son premier EP, Checkpoint, avec le mur de séparation entre Israël et la Cisjordanie sur la pochette. « De la progressive psytrance », précise-t-il, même s’il se sent alors mal à l’aise dans ce milieu « bouffé par la drogue », sans référence à sa culture. « A l’époque, pour les Arabes, l’electro, c’était un truc tombé de l’espace, ils y pigeaient rien ! Partout, je cherchais des producteurs arabes et j’en trouvais jamais. »

    Cascades harmoniques
    Il finit par abandonner l’idée d’en vivre et part « bosser dans un bureau ». Jusqu’à ce que le Jazar Crew, à l’origine une bande d’ados de Haïfa organisant des raves sauvages, le sorte de sa retraite, au milieu des années 2010. Suivront les projets Fawda, en 2014 (des beats agrémentés d’oud électrifié et de slams politisés d’Ayed Fadel) et aujourd’hui Zenobia, en duo avec le claviériste Isam Elias, 27 ans. Halahlih espère en faire le « Daft Punk palestinien ». Moins de la mégalomanie qu’une volonté de se définir populaire et exigeant, audible partout mais fidèle au terreau originel. « Comme il y a eu la French Touch, voici l’Arab Touch, plaisante-t-il. Zenobia, c’était une reine, dont le royaume s’étendait de Palmyre jusqu’en Egypte. Le Levant, c’est notre ADN musical. Comme elle, on veut conquérir le monde et mélanger cet ADN à tous les genres, faire quelque chose sur lequel tu peux danser, du Brésil au Japon. »

    La formule de Zenobia se rattache à la mouvance electro-chaâbi, abusivement qualifiée de bande-son du printemps arabe et symbolisée par l’improbable trajectoire du chanteur de mariages syrien Omar Souleyman, devenu collaborateur de Diplo et adulé par les lecteurs de Pitchfork - Souleyman, de par son allégeance à Bachar al-Assad, est controversé au Moyen-Orient : le Jazar Crew, par exemple, refuse de jouer ses morceaux.

    Si, en live, Nasser Halahlih et Isam Elias revêtent un keffieh comme Souleyman, ils préfèrent citer le succès de 47Soul comme catalyseur de ce retour aux mélodies folkloriques. Pendant que Halahlih sculpte des nappes électroniques léchées, alternant vibe éthérée et kick martelant le rythme du dabké (la danse levantine du « coup de pied »), Elias laisse sa main droite de jazzeux marathonien broder en cascades les gammes mineures harmoniques, typiquement orientales, sur synthé acide. Le tandem, qui doit sortir un premier EP début avril, a signé à l’automne sur le label d’Acid Arab, duo français défricheur de l’orientalisme techno et ainsi aux premières loges pour voir le mouvement éclore.

    « Il y a toujours eu des gens qui faisaient du son dans les Territoires occupés, observe Guido Minisky d’Acid Arab. Mais longtemps, c’était plutôt des choses pas passionnantes autour de l’abstract hip-hop. La vague actuelle est plus popisante. Le risque serait qu’elle tombe dans les clichés avec la derbouka, les violonades et un sample de muezzin, mais eux cherchent à construire un truc intelligent, jouant de leurs codes culturels tout en adoptant une production moderne. C’est l’expertise qu’on leur apporte pendant qu’eux nous mettent à l’amende sur les mélodies au clavier. Quand il y a cette sincérité des deux côtés, Orient et Occident, on sort de la "recette" bête et méchante. »

    Ainsi, Acid Arab s’est aligné sur les convictions de cette scène émergente. A l’instar de Nicolas Jaar, icône électronique d’origine palestino-chilienne, les Français évitent désormais Tel-Aviv pour privilégier les clubs tenus par des « Palestiniens de 48 » ou dans les Territoires, sous l’égide du Jazar Crew. Las, leur premier concert à Ramallah en décembre a dû être annulé, les forces israéliennes ayant ce jour-là bouclé tous les accès au siège de l’Autorité palestinienne. Exemple des obstacles constitutifs de cet underground palestinien.

    Dynamique panarabe
    L’organisation l’été dernier d’un événement estampillé Boiler Room [1] à Ramallah, doublée du tournage d’un documentaire-manifeste, a achevé de mettre sur la carte sonique cette simili-capitale en Cisjordanie occupée, mal aimée mais berceau de créativité. Elle complète une sorte de triangle par-delà le mur et les check-points avec Haïfa et Jaffa - bien que ce dernier point soit en danger, le club phare Anna Loulou ayant récemment fermé, victime de la gentrification.

    La figure de proue est une jeune femme de 28 ans, Sama Abdulhadi, dite SAMA’ - sans doute l’étoile la plus brillante du mouvement, on pourra aussi l’entendre à l’IMA à Paris. Née en Jordanie et élevée dans une famille aisée à Ramallah, pianiste classique rompue à Chopin, la « première DJ de Palestine » a choisi une voie à l’opposé de l’electro-chaâbi. Sa techno sombre est dépouillée de références orientales (« cinq notes de oud sur un track, c’est pas de la musique arabe, c’est de la paresse », cingle-t-elle) et privilégie une sécheresse minérale. « J’ai découvert la techno à Beyrouth, pendant la Deuxième Intifada, raconte-t-elle. J’avais beaucoup de colère en moi, et ça m’a libérée. J’ai toujours mixé ce que je ressentais. Puis un jour, on m’a dit : "T’as un son berlinois." J’avais jamais mis les pieds en Allemagne… »

    Ingé-son nomade (formée en Grande-Bretagne, installée un temps au Caire et désormais partagée entre Paris et Ramallah), SAMA’ inscrit le mouvement dans une dynamique panarabe plus large, incluant l’Egypte et le Liban, mais ne perd pas de vue sa spécificité. « J’aime comparer cette musique à ce qui se jouait à Berlin avant la chute du Mur. En tant que Palestinien, où que tu sois, tu transportes le conflit. Pour moi, la techno, ce n’est pas une échappatoire liée aux drogues, mais plutôt quelque chose qui tient de la science-fiction : un lien avec le futur, un endroit sans politique, sans frontière, sans occupation. » Surtout, la musique lui a permis de créer des liens : « Avec les gars de Haïfa, de Jaffa, la diaspora, on est à nouveau une famille. »

    Au cœur du réacteur, le Jazar Crew joue les entremetteurs et les influenceurs. « A la base, la philosophie électronique a toujours été "rave against the machine", de Berlin à Detroit, prêche Ayed Fadel entre deux sets. Aujourd’hui, tu peux faire entendre le message palestinien en bookant SAMA’ dans ton festival ou en jouant à Kabareet. » Mais le plus important pour lui, c’est d’avoir créé « notre propre dancefloor. "Safe", ouvert à tous, même aux Israéliens. Du moins ceux qui respectent et comprennent que ce dancefloor vient autant de l’amour que de la colère ». Pour cette voix du mouvement, « il est très important que la scène électronique internationale comprenne que tout ne se limite plus à la bulle de Tel-Aviv, où le conflit est invisible. Cette bulle n’est pas underground, elle n’unit personne : elle ignore. Notre monde parallèle, lui, n’exclut pas : il montre qu’on peut faire les choses autrement. »

    [1] Collectif londonien qui organise de très suivies soirées branchées retransmises sur le Web.

    #Palestine #Sama #Musique #Musique_et_politique #Underground #Electro #Techno #Rap #Rave

    Sur le même sujet :
    https://seenthis.net/messages/752617
    https://seenthis.net/messages/760253

  • Integrating #bokeh visualisations into #django Projects.
    https://hackernoon.com/integrating-bokeh-visualisations-into-django-projects-a1c01a16b67a?sourc

    Integrating Bokeh Visualisations Into Django Projects.Despite being a python developer for years only recently have I needed to interact with Django. While exploring Django, I decided I wanted to learn a little more about Bokeh the visualisation library. I tried to integrate it into my django project and found it challenging to find a complete tutorial. I thought I would create a post outlining the steps to integrate Bokeh into Django in case anyone finds it useful.Pre-Requisties:Python — I used python 3PipI developed the project on a Mac using Sublime Text 3. This may mean if you are using another OS, we may have slightly different commands.Setting Up Django ProjectBefore we can work with bokeh, we need to setup our django project. If you are already familiar with setting up django (...)

    #data-visualization #web-development #data-science

  • Un #JACCUSE glaçant venu du Rap demande la démission de Castaner.
    https://nantes.indymedia.org/articles/44488

    Le titre #JACCUSE et son clip venu de l’underground hip hop militant est un florilège de violences policières filmées lors des manifestations des #gilets_jaunes, le texte librement adapté du J’accuse de Zola un pamphlet contre le président de la République E.Macron et son Ministre de l’intérieur C.Castaner.

    #Répression #Resistances #/ #quartiers #populaires #culture #anti-repression #art #paris #Répression,Resistances,/,quartiers,populaires,culture,anti-repression,art,gilets_jaunes

  • 10 Popular Websites Built With #django Framework
    https://hackernoon.com/10-popular-websites-built-with-django-framework-d0116ad3117d?source=rss-

    What is the frameworkRegardless of the sphere you work in, one of your most important tasks is to create a fast, good-looking website. Today, almost every business needs a website, which acts as a sort of business card for a company or online service. It helps you engage with customers, promote your business, increase sales and so on. In every case, the website should be fast, scalable and dynamic.When creating a website, you typically need to work with roughly the same set of basic components: ways to manage user authorizations (account creation, login); a user dashboard; file downloading and uploading, etc. If the tasks are the same, why not make them easier, and thereby reduce the cost of development? With this in mind, web frameworks appeared on the scene as a set of components (...)

    #web-development #django-framework #websites-for-startups #python

  • Exit - La vie après la haine | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/072672-000-A/exit-la-vie-apres-la-haine

    Rencontre avec d’anciens djihadistes, ex-militants néonazis ou anciens suprématistes blancs, qui ont tourné la page et renoncé à la haine.

    Karen Winther est passée d’un extrême à l’autre : membre d’un groupe de la gauche radicale à l’adolescence, elle a ensuite viré de bord pour rejoindre la mouvance #néonazie. Après avoir définitivement rompu avec l’extrémisme, la réalisatrice norvégienne, encore hantée par son passé violent, est allée à la rencontre de personnes du monde entier qui, après avoir connu une « #déradicalisation » similaire, ont souhaité témoigner de leur parcours. En Floride, Angela, ex-membre de l’organisation d’extrême droite Aryan Nations, passée par la case prison, s’engage aujourd’hui pour prévenir ces dérives. Manuel, l’un des anciens visages du mouvement néonazi allemand, vit aujourd’hui reclus pour sa propre sécurité. Quant au Français David, hier aspirant djihadiste de l’État islamique, il a quitté la mouvance après sa sortie de prison. Comment ces personnes d’horizons divers ont-elles réussi à tourner la page ? Un documentaire intimiste qui met en lumière les racines de leurs engagements, mais aussi les soutiens et les perspectives qui les ont aidées à s’en détourner.

    #extreme_droite #neonazi