• Eritrea in caduta libera sui diritti umani

    L’Eritrea di #Isaias_Afewerki è oggi uno dei peggiori regimi al mondo. Dove la guerra con l’Etiopia è usata per giustificare un servizio militare a tempo indeterminato. E dove avere un passaporto è quasi un miraggio. Gli ultimi attacchi sono stati rivolti agli ospedali cattolici.

    Il rispetto dei diritti umani in Eritrea è solo un ricordo che si perde nei tempi. La lista di violazioni è lunga e gli esempi recenti non mancano. L’ultima mossa del regime di Isaias Afewerki, al potere dal 1991, è stata quella di ordinare la chiusura dei centri sanitari gestiti dalla Chiesa cattolica nel paese, responsabile di una quarantina tra ospedali e scuole in zone rurali che garantiscono sanità e istruzione alle fette più povere della popolazione. Ebbene, qualche giorno fa in questi luoghi si sono presentati militari armati che hanno sfondato porte e cacciato fuori malati, vecchi e bambini. E preteso l’esproprio coatto degli immobili.

    Il 29 aprile, quattro vescovi avevano chiesto di aprire un dialogo con il governo per cercare una soluzione alla crescente povertà e mancanza di futuro per il popolo. Mentre il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi ultrasettantenni.

    Daniela Kravetz, responsabile dei rapporti tra Nazioni Unite e Africa, ha riportato che il 17 maggio «trenta cristiani sono stati arrestati durante un incontro di preghiera, mentre qualche giorno prima erano finiti in cella 141 fedeli, tra cui donne e bambini». L’Onu chiede ora che «con urgenza il Governo eritreo torni a permettere la libera scelta di espressione religiosa».

    Guerra Eritrea-Etiopia usata come scusa per il servizio militare a tempo indeterminato

    L’ex colonia italiana ha ottenuto di fatto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991, dopo un conflitto durato trent’anni. E nonostante la recente distensione tra Asmara e Addis Abeba, la guerra tra le due nazioni continua a singhiozzo lungo i confini.

    Sono ancora i rapporti con la vicina Etiopia, del resto, ad essere usati dal dittatore Afewerki per giustificare l’imposizione del servizio militare a tempo indeterminato. I ragazzi, infatti, sono arruolati verso i 17 anni e il servizio militare può durare anche trent’anni, con paghe miserabili e strazianti separazioni. Le famiglie si vedono portare via i figli maschi senza conoscerne la destinazione e i ragazzi spesso non tornano più.

    Le città sono prevalentemente abitate da donne, anziani e bambini. E per chi si oppone le alternative sono la prigione, se non la tortura. Uno dei sistemi più usati dai carcerieri è la cosiddetta Pratica del Gesù, che consiste nell’appendere chi si rifiuta di collaborare, con corde legate ai polsi, a due tronchi d’albero, in modo che il corpo assuma la forma di una croce. A volte restano appesi per giorni, con le guardie che di tanto in tanto inumidiscono le labbra con l’acqua.

    Eritrea: storia di un popolo a cui è vietato viaggiare

    l passaporto, che solo i più cari amici del regime ottengono una volta raggiunta la maggiore età, per la popolazione normale è un miraggio. Il prezioso documento viene consegnato alle donne quando compiono 40 anni e agli uomini all’alba dei 50. A quell’età si spera che ormai siano passate forza e voglia di lasciare il paese.

    Oggi l’Eritrea è un inferno dove tutti spiano tuttti. Un paese sospettoso e nemico d chiunque, diventato sotto la guida di Afewerki uno dei regimi più totalitari al mondo, dove anche parlare al telefono è rischioso.

    E pensare che negli anni ’90, quando l’Eritrea si separò dall’Etiopia, era vista come la speranza dell’Africa. Un paese attivo, pieno di potenziale, che si era liberato da solo senza chiedere aiuto a nessuno. Il mondo si aspettava che diventasse la Taiwan del Corno d’Africa, grazie anche a una cultura economica che gli altri stati se la sognavano.

    L’Ue investe in Etiopia ed Eritrea

    L’Unione europea sta per erogare 312 milioni di euro di aiuti al Corno d’Africa per la costruzione di infrastrutture che consentiranno di far transitare merci dall’Etiopia al mare, attraversando quindi l’Eritrea. Una decisione su cui ha preso posizione Reportes sans frontières, che chiede la sospensione di questo finanziamento ad un paese che, si legge in una nota, «continua a violare i diritti umani, la libertà di espressione e e di informazione e detiene arbitrariamente, spesso senza sottoporli ad alcun processo, decine di prigionieri politici, tra cui molti giornalisti».

    Cléa Kahn-Sriber, responsabile di Reporter sans frontières in Africa, ha dichiarato essere «sbalorditivo che l’Unione europea sostenga il regime di Afeweki con tutti questi aiuti senza chiedere nulla in cambio in materia di diritti umani e libertà d’espressione. Il regime ha più giornalisti in carcere di qualsiasi altro paese africano. Le condizioni dei diritti umani sono assolutamente vergognose».

    La Fondazione di difesa dei Diritti umani per l’Eritrea con sede in Olanda e composta da eritrei esiliati sta intraprendendo azioni legali contro l’Unione europea. Secondo la ricercatrice universitaria eritrea Makeda Saba, «l’Ue collaborerà e finanzierà la #Red_Sea_Trading_Corporation, interamente gestita e posseduta dal governo, società che il gruppo di monitoraggio dell’Onu su Somalia ed Eritrea definisce coinvolta in attività illegali e grigie nel Corno d’africa, compreso il traffico d’armi, attraverso una rete labirintica multinazionale di società, privati e conti bancari». Un bel pasticcio, insomma.

    Pericoloso lasciare l’Eritrea: il ruolo delle ambasciate

    Chi trova asilo in altre nazioni vive spiato e minacciato dai propri connazionali. Lo ha denunciato Amnesty International, secondo cui le nazioni dove i difensori dei diritti umani eritrei corrono i maggiori rischi sono Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Nel mirino del potere eritreo ora c’è anche un prete candidato al Nobel per la pace nel 2015, Mussie Zerai.

    «I rappresentanti del governo eritreo nelle ambasciate impiegano tutte le tattiche per impaurire chi critica l’amministrazione del presidente Afewerki, spiano, minacciano di morte. Chi è scappato viene considerato traditore della patria, sovversivo e terrorista».

    In aprile il ministro dell’Informazione, #Yemane_Gebre_Meskel, e gli ambasciatori di Giappone e Kenia hanno scritto su Twitter post minacciosi contro gli organizzatori e i partecipanti ad una conferenza svoltasi a Londra dal titolo “Costruire la democrazia in Eritrea”. Nel tweet, #Meskel ha definito gli organizzatori «collaborazionisti».

    Non va meglio agli esiliati in Kenya. Nel 2013, a seguito del tentativo di registrare un’organizzazione della società civile chiamata #Diaspora_eritrea_per_l’Africa_orientale, l’ambasciata eritrea ha immediatamente revocato il passaporto del presidente e co-fondatore, #Hussein_Osman_Said, organizzandone l’arresto in Sud Sudan. L’accusa? Partecipare al terrorismo, intento a sabotare il governo in carica.

    Amnesty chiede quindi «che venga immediatamente sospeso l’uso delle ambasciate all’estero per intimidire e reprimere le voci critiche».

    Parlando delle ragioni che hanno scatenato l’ultimo atto di forza contro gli ospedali, padre Zerai ha detto che «il regime si è giustificato facendo riferimento a una legge del 1995, secondo cui le strutture sociali strategiche come ospedali e scuole devono essere gestite dallo stato».

    Tuttavia, questa legge non era mai stata applicata e non si conoscono i motivi per cui all’improvviso è cominciata la repressione. Padre Zerai la vede così: «La Chiesa cattolica eritrea è indipendente e molto attiva nella società, offre supporto alle donne, sostegno ai poveri e ai malati di Aids ed è molto ascoltata». A preoccupare il padre, e non solo lui, sono ora «il silenzio dell’Unione europea e della comunità internzionale. Siamo davati a crimini gravissimi e il mondo tace».

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/07/04/eritrea-news-etiopia-guerra
    #droits_humains #Erythrée #COI #Afewerki #service_militaire #guerre #Ethiopie #religion #passeport #torture #totalitarisme #dictature #externalisation #UE #EU #aide_au_développement #coopération_au_développement #répression #Eglise_catholique

  • L’externalisation des politiques européennes en matière de migration

    L’externalisation des politiques européennes en matière de migration : échanges de vue entre la société civile, les décideurs politiques et le monde académique

    Cette publication, produite par le CIRÉ dans le cadre du projet “Challenging deprivation of liberty and externalisation as tools for migration management and advocating for dignified reception in the EU”, vise à dénoncer les politiques migratoires européennes d’externalisation du contrôle des frontières.

    Quelles sont les mesures d’externalisation mises en œuvre par l’Union européenne afin de retenir les migrants le plus loin possible de ses frontières ? Avec quels pays tiers l’Union européenne négocie-t-elle, et quel est le contrôle démocratique et parlementaire sur ces accords ? Quelle est la réalité des hotspots et quelles sont les atteintes au droit d’asile et d’accueil ?

    Sur base de cette publication, nous interrogeons la compatibilité de ces mesures d’externalisation du contrôle des frontières et du droit d’asile avec le respect des droits des personnes migrantes et réfugiées et questionnons fondamentalement leur légitimité. Nous en appelons au respect des principes fondamentaux et à l’interdiction des traitements inhumains et dégradants.

    Nous demandons à l’Union européenne et à ses pays membres d’œuvrer pour garantir la protection des droits des personnes migrantes et réfugiées et pour réaffirmer la primauté du droit d’asile et d’accueil sur la détention des migrants.

    https://www.cire.be/lexternalisation-des-politiques-europeennes-en-matiere-de-migration

    #UE #EU #Europe #externalisation #frontières #asile #migrations #hotspots #droits_fondamentaux #droits_humains #rapport

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    https://seenthis.net/messages/731749

  • ICC submission calls for prosecution of EU over migrant deaths

    Member states should face punitive action over deaths in Mediterranean, say lawyers.

    The EU and member states should be prosecuted for the deaths of thousands of migrants who drowned in the Mediterranean fleeing Libya, according to a detailed legal submission to the international criminal court (ICC).

    The 245-page document calls for punitive action over the EU’s deterrence-based migration policy after 2014, which allegedly “intended to sacrifice the lives of migrants in distress at sea, with the sole objective of dissuading others in similar situation from seeking safe haven in Europe”.

    The indictment is aimed at the EU and the member states that played a prominent role in the refugee crisis: Italy, Germany and France.

    The stark accusation, that officials and politicians knowingly created the “world’s deadliest migration route” resulting in more than 12,000 people losing their lives, is made by experienced international lawyers.

    The two main authors of the submission are Juan Branco, who formerly worked at the ICC as well as at France’s foreign affairs ministry, and Omer Shatz, an Israeli lawyer who teaches at Sciences Po university in Paris.
    Most refugees in Libyan detention centres at risk – UN
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    The allegation of “crimes against humanity” draws partially on internal papers from Frontex, the EU organisation charged with protecting the EU’s external borders, which, the lawyers say, warned that moving from the successful Italian rescue policy of Mare Nostrum could result in a “higher number of fatalities”.

    The submission states that: “In order to stem migration flows from Libya at all costs … and in lieu of operating safe rescue and disembarkation as the law commands, the EU is orchestrating a policy of forced transfer to concentration camps-like detention facilities [in Libya] where atrocious crimes are committed.”

    The switch from Mare Nostrum to a new policy from 2014, known as Triton (named after the Greek messenger god of the sea), is identified as a crucial moment “establishing undisputed mens rea [mental intention] for the alleged offences”.

    It is claimed that the evidence in the dossier establishes criminal liability within the jurisdiction of the ICC for “causing the death of thousands of human beings per year, the refoulement [forcible return] of tens of thousands migrants attempting to flee Libya and the subsequent commission of murder, deportation, imprisonment, enslavement, torture, rape, persecution and other inhuman acts against them”.

    The Triton policy introduced the “most lethal and organised attack against civilian population the ICC had jurisdiction over in its entire history,” the legal document asserts. “European Union and Member States’ officials had foreknowledge and full awareness of the lethal consequences of their conduct.”

    The submission does not single out individual politicians or officials for specific responsibility but does quote diplomatic cables and comments from national leaders, including Angela Merkel and Emmanuel Macron.

    The office of the prosecutor at the ICC is already investigating crimes in Libya but the main focus has been on the Libyan civil war, which erupted in 2011 and led to the removal of Muammar Gaddafi. Fatou Bensouda, the ICC prosecutor, has, however, already mentioned inquiries into “alleged crimes against migrants transiting through Libya”.

    The Mare Nostrum search and rescue policy launched in October 2013, the submission says, was “in many ways hugely successful, rescuing 150,810 migrants over a 364-day period”.

    Criticism of the policy began in mid-2014 on the grounds, it is said, that it was not having a sufficient humanitarian impact and that there was a desire to move from assistance at sea to assistance on land.

    “EU officials sought to end Mare Nostrum to allegedly reduce the number of crossings and deaths,” the lawyers maintain. “However, these reasons should not be considered valid as the crossings were not reduced. And the death toll was 30-fold higher.”

    The subsequent policy, Triton, only covered an “area up to 30 nautical miles from the Italian coastline of Lampedusa, leaving around 40 nautical miles of key distress area off the coast of Libya uncovered,” the submission states. It also deployed fewer vessels.

    It is alleged EU officials “did not shy away from acknowledging that Triton was an inadequate replacement for Mare Nostrum”. An internal Frontex report from 28 August 2014, quoted by the lawyers, acknowledged that “the withdrawal of naval assets from the area, if not properly planned and announced well in advance – would likely result in a higher number of fatalities.”

    The first mass drownings cited came on 22 January and 8 February 2015, which resulted in 365 deaths nearer to the Libyan coast. It is alleged that in one case, 29 of the deaths occurred from hypothermia during the 12-hour-long transport back to the Italian island of Lampedusa. During the “black week” of 12 to 18 April 2015, the submission says, two successive shipwrecks led to the deaths of 1,200 migrants.

    As well as drownings, the forced return of an estimated 40,000 refugees allegedly left them at risk of “executions, torture and other systematic rights abuses” in militia-controlled camps in Libya.

    “European Union officials were fully aware of the treatment of the migrants by the Libyan Coastguard and the fact that migrants would be taken ... to an unsafe port in Libya, where they would face immediate detention in the detention centers, a form of unlawful imprisonment in which murder, sexual assault, torture and other crimes were known by the European Union agents and officials to be common,” the submission states.

    Overall, EU migration policies caused the deaths of “thousands civilians per year in the past five years and produced about 40,000 victims of crimes within the jurisdiction of the court in the past three years”, the report states.

    The submission will be handed in to the ICC on Monday 3 June.

    An EU spokesperson said the union could not comment on “non-existing” legal actions but added: “Our priority has always been and will continue to be protecting lives and ensuring humane and dignified treatment of everyone throughout the migratory routes. It’s a task where no single actor can ensure decisive change alone.

    “All our action is based on international and European law. The European Union dialogue with Libyan authorities focuses on the respect for human rights of migrants and refugees, on promoting the work of UNHCR and IOM on the ground, and on pushing for the development of alternatives to detention, such as the setting up of safe spaces, to end the systematic and arbitrary detention system of migrants and refugees in Libya.

    “Search and Rescue operations in the Mediterranean need to follow international law, and responsibility depends on where they take place. EU operations cannot enter Libya waters, they operate in international waters. SAR operations in Libyan territorial waters are Libyan responsibility.”

    The spokesperson added that the EU has “pushed Libyan authorities to put in place mechanisms improving the treatment of the migrants rescued by the Libyan Coast Guard.”

    https://www.theguardian.com/law/2019/jun/03/icc-submission-calls-for-prosecution-of-eu-over-migrant-deaths
    #justice #décès #CPI #mourir_en_mer #CPI #cour_pénale_internationale

    ping @reka @isskein @karine4

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    • L’Union Européenne devra-t-elle un jour répondre de « crimes contre l’Humanité » devant la Cour Pénale Internationale ?

      #Crimes_contre_l'humanité, et #responsabilité dans la mort de 14 000 migrants en 5 années : voilà ce dont il est question dans cette enquête menée par plusieurs avocats internationaux spécialisés dans les Droits de l’homme, déposée aujourd’hui à la CPI de la Haye, et qui pourrait donc donner lieu à des #poursuites contre des responsables actuels des institutions européennes.

      La démarche fait l’objet d’articles coordonnés ce matin aussi bien dans le Spiegel Allemand (https://www.spiegel.de/politik/ausland/fluechtlinge-in-libyen-rechtsanwaelte-zeigen-eu-in-den-haag-an-a-1270301.htm), The Washington Post aux Etats-Unis (https://www.spiegel.de/politik/ausland/fluechtlinge-in-libyen-rechtsanwaelte-zeigen-eu-in-den-haag-an-a-1270301.htm), El Pais en Espagne (https://elpais.com/internacional/2019/06/02/actualidad/1559497654_560556.html), The Guardian en Grande-Bretagne, et le Monde, cet après-midi en France... bref, ce qui se fait de plus retentissant dans la presse mondiale.

      Les auteurs de ce #plaidoyer, parmi lesquels on retrouve le français #Juan_Branco ou l’israélien #Omer_Shatz, affirment que Bruxelles, Paris, Berlin et Rome ont pris des décisions qui ont mené directement, et en connaissance de cause, à la mort de milliers de personnes. En #Méditerrannée, bien sûr, mais aussi en #Libye, où la politique migratoire concertée des 28 est accusée d’avoir « cautionné l’existence de centres de détention, de lieux de tortures, et d’une politique de la terreur, du viol et de l’esclavagisme généralisé » contre ceux qui traversaient la Libye pour tenter ensuite de rejoindre l’Europe.

      Aucun dirigeant européen n’est directement nommé par ce réquisitoire, mais le rapport des avocats cite des discours entre autres d’#Emmanuel_Macron, d’#Angela_Merkel. Il évoque aussi, selon The Guardian, des alertes qui auraient été clairement formulées, en interne par l’agence #Frontex en particulier, sur le fait que le changement de politique européenne en 2014 en Méditerranée « allait conduire à une augmentation des décès en mer ». C’est ce qui s’est passé : 2014, c’est l’année-bascule, celle où le plan Mare Nostrum qui consistait à organiser les secours en mer autour de l’Italie, a été remplacé par ce partenariat UE-Libye qui, selon les auteurs de l’enquête, a ouvert la voix aux exactions que l’on sait, et qui ont été documentées par Der Spiegel dans son reportage publié début mai, et titré « Libye : l’enfer sur terre ».

      A présent, dit Juan Branco dans The Washington Post (et dans ce style qui lui vaut tant d’ennemis en France), c’est aux procureurs de la CPI de dire « s’ils oseront ou non » remonter aux sommet des responsabilités européennes. J’en terminerai pour ma part sur les doutes de cet expert en droit européen cité par El Pais et qui « ne prédit pas un grand succès devant la Cour » à cette action.

      https://www.franceculture.fr/emissions/revue-de-presse-internationale/la-revue-de-presse-internationale-emission-du-lundi-03-juin-2019


      #UE #Europe #EU #droits_humains

    • Submission to ICC condemns EU for ‘crimes against humanity’

      EU Commission migration spokesperson Natasha Bertaud gave an official statement regarding a recently submitted 245-page document to the International Criminal Court by human rights lawyers Juan Branco and Omer Shatz on June 3, 2019. The case claimed the EU and its member states should face punitive action for Libyan migrant deaths in the Mediterranean. The EU says these deaths are not a result of EU camps, rather the dangerous and cruel routes on which smugglers take immigrants. Bertaud said the EU’s track record on saving lives “has been our top priority, and we have been working relentlessly to this end.” Bertaud said an increase in EU operations in the Mediterranean have resulted in a decrease in deaths in the past 4 years. The accusation claims that EU member states created the “world’s deadliest migration route,” which has led to more than 12,000 migrant deaths since its inception. Branco and Shatz wrote that the forcible return of migrants to Libyan camps and the “subsequent commission of murder, deportation, imprisonment, enslavement, torture, rape, persecution and other inhuman acts against them,” are the grounds for this indictment. Angela Merkel and Emmanuel Macron were named specifically as those knowingly supporting these refugee camps, which the lawyers explicitly condemned in their report. The EU intends to maintain its presence on the Libyan coast and aims to create safer alternatives to detention centers.

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=28&v=AMGaKDNxcDg

    • Migration in the Mediterranean: why it’s time to put European leaders on trial

      In June this year two lawyers filed a complaint at the International Criminal Court (ICC) naming European Union member states’ migration policies in the Mediterranean as crimes against humanity.

      The court’s Prosecutor, Fatou Bensouda, must decide whether she wants to open a preliminary investigation into the criminality of Europe’s treatment of migrants.

      The challenge against the EU’s Mediterranean migrant policy is set out in a 245-page document prepared by Juan Branco and Omer Shatz, two lawyer-activists working and teaching in Paris. They argue that EU migration policy is founded in deterrence and that drowned migrants are a deliberate element of this policy. The international law that they allege has been violated – crimes against humanity – applies to state policies practiced even outside of armed conflict.

      Doctrinally and juridically, the ICC can proceed. The question that remains is political: can and should the ICC come after its founders on their own turf?

      There are two reasons why the answer is emphatically yes. First, the complaint addresses what has become a rights impasse in the EU. By taking on an area stymying other supranational courts, the ICC can fulfil its role as a judicial institution of last resort. Second, by turning its sights on its founders (and funders), the ICC can redress the charges of neocolonialism in and around Africa that have dogged it for the past decade.
      ICC legitimacy

      The ICC is the world’s first permanent international criminal court. Founded in 2002, it currently has 122 member states.

      So far, it has only prosecuted Africans. This has led to persistent critiques that it is a neocolonial institution that “only chases Africans” and only tries rebels. In turn, this has led to pushback against the court from powerful actors like the African Union, which urges its members to leave the court.

      The first departure from the court occurred in 2017, when Burundi left. The Philippines followed suit in March of this year. Both countries are currently under investigation by the ICC for state sponsored atrocities. South Africa threatened withdrawal, but this seems to have blown over.

      In this climate, many cheered the news of the ICC Prosecutor’s 2017 request to investigate crimes committed in Afghanistan. As a member of the ICC, Afghanistan is within the ICC’s jurisdiction. The investigation included atrocities committed by the Taliban and foreign military forces active in Afghanistan, including members of the US armed forces.

      The US, which is not a member of the ICC, violently opposes any possibility that its military personnel might be caught up in ICC charges. In April 2019 the ICC announced that a pre-trial chamber had shut down the investigation because US opposition made ICC action impossible.

      Court watchers reacted with frustration and disgust.
      EU migration

      An estimated 30,000 migrants have drowned in the Mediterranean in the past three decades. International attention was drawn to their plight during the migration surge of 2015, when the image of 3-year-old Alan Kurdi face-down on a Turkish beach circulated the globe. More than one million people entered Europe that year. This led the EU and its member states to close land and sea borders in the east by erecting fences and completing a Euro 3 billion deal with Turkey to keep migrants there. NATO ships were posted in the Aegean to catch and return migrants.

      Migrant-saving projects, such as the Italian Mare Nostrum programme that collected 150,000 migrants in 2013-2014, were replaced by border guarding projects. Political pressure designed to reduce the number of migrants who made it to European shores led to the revocation and non-renewal of licenses for boats registered to NGOs whose purpose was to rescue migrants at sea. This has led to the current situation, where there is only one boat patrolling the Mediterranean.

      The EU has handed search and rescue duties over to the Libyan coast guard, which has been accused repeatedly of atrocities against migrants. European countries now negotiate Mediterranean migrant reception on a case-by-case basis.
      A rights impasse

      International and supranational law applies to migrants, but so far it has inadequately protected them. The law of the sea mandates that ships collect people in need. A series of refusals to allow ships to disembark collected migrants has imperilled this international doctrine.

      In the EU, the Court of Justice oversees migration and refugee policies. Such oversight now includes a two-year-old deal with Libya that some claim is tantamount to “sentencing migrants to death.”

      For its part, the European Court of Human Rights has established itself as “no friend to migrants.” Although the court’s 2012 decision in Hirsi was celebrated for a progressive stance regarding the rights of migrants at sea, it is unclear how expansively that ruling applies.

      European courts are being invoked and making rulings, yet the journey for migrants has only grown more desperate and deadly over the past few years. Existing European mechanisms, policies, and international rights commitments are not producing change.

      In this rights impasse, the introduction of a new legal paradigm is essential.
      Fulfilling its role

      A foundational element of ICC procedure is complementarity. This holds that the court only intervenes when states cannot or will not act on their own.

      Complementarity has played an unexpectedly central role in the cases before the ICC to date, as African states have self-referred defendants claiming that they do not have the resources to try them themselves. This has greatly contributed to the ICC’s political failure in Africa, as rights-abusing governments have handed over political adversaries to the ICC for prosecution in bad faith, enjoying the benefits of a domestic political sphere relieved of these adversaries while simultaneously complaining of ICC meddling in domestic affairs.

      This isn’t how complementarity was supposed to work.

      The present rights impasse in the EU regarding migration showcases what complementarity was intended to do – granting sovereign states primacy over law enforcement and stepping in only when states both violate humanitarian law and refuse to act. The past decade of deadly migration coupled with a deliberately wastrel refugee policy in Europe qualifies as just such a situation.

      Would-be migrants don’t vote and cannot garner political representation in the EU. This leaves only human rights norms, and the international commitments in which they are enshrined, to protect them. These norms are not being enforced, in part because questions of citizenship and border security have remained largely the domain of sovereign states. Those policies are resulting in an ongoing crime against humanity.

      The ICC may be the only institution capable of breaking the current impasse by threatening to bring Europe’s leaders to criminal account. This is the work of last resort for which international criminal law is designed. The ICC should embrace the progressive ideals that drove its construction, and engage.

      https://theconversation.com/migration-in-the-mediterranean-why-its-time-to-put-european-leaders
      #procès

    • Naufrages en Méditerranée : l’UE coupable de #crimes_contre_l’humanité ?

      Deux avocats – #Omer_Shatz membre de l’ONG #Global_Legal_Action_Network et #Juan_Branco, dont le livre Crépuscule a récemment créé la polémique en France – ont déposé une plainte auprès de la Cour pénale internationale (CPI) à Paris le 3 juin dernier.

      Cette plainte qualifie de crimes contre l’humanité les politiques migratoires des États membres de l’Union européenne (UE) en Méditerranée.

      Selon le journal Le Monde :
      Pour les deux avocats, en permettant le refoulement des migrants en Libye, les responsables de l’UE se seraient rendus complices « d’expulsion, de meurtre, d’emprisonnement, d’asservissement, de torture, de viol, de persécution et d’autres actes inhumains, [commis] dans des camps de détention et les centres de torture libyens ».

      Les deux avocats ont transmis un rapport d’enquête (https://www.la-croix.com/Monde/Europe/Deces-migrants-Mediterranee-lUnion-europeenne-poursuivie-crimes-contre-lhu) de 245 pages sur la politique méditerranéenne de l’UE en matière de migration, à la procureure de la Cour, Fatou Bensouda, qui doit décider si elle souhaite ouvrir une enquête préliminaire sur la criminalité liée au traitement des migrants en Europe.

      Ils démontrent que la politique migratoire de l’UE est fondée sur la dissuasion et que les migrants noyés sont un élément délibéré de cette politique. Le droit international qu’ils allèguent avoir été violé – les crimes contre l’humanité – s’applique aux politiques étatiques pratiquées même en dehors des conflits armés.

      Sur les plans doctrinal et juridique, la CPI peut agir. La question qui demeure est politique : la CPI peut-elle et doit-elle s’en prendre à ses fondateurs sur leurs propres territoires ?

      Il y a deux raisons pour lesquelles la réponse est catégoriquement oui. Premièrement, la plainte porte sur ce qui est devenu une impasse en matière de droits au sein de l’UE. En s’attaquant à un domaine qui paralyse d’autres cours supranationales, la CPI peut remplir son rôle d’institution judiciaire de dernier ressort. Deuxièmement, en se tournant vers ses fondateurs (et ses bailleurs de fonds), la CPI peut répliquer à ses détracteurs qui l’accusent d’avoir adopté une posture néocolonialiste vis-à-vis du continent africain, une image qui la poursuit depuis au moins la dernière décennie.
      La légitimité de la cour pénale

      La CPI est la première cour pénale internationale permanente au monde. Fondée en 2002, elle compte actuellement 122 états membres.

      Jusqu’à présent, la cour n’a poursuivi que des ressortissants issus de pays africains. Cela a conduit à des critiques persistantes selon lesquelles il s’agit d’une institution néocoloniale qui « ne poursuit que les Africains », ne jugeant que les adversaires politiques de certains leaders ayant fait appel à la CPI.

      En retour, cela a conduit à des pressions à l’encontre de la cour de la part d’acteurs puissants comme l’Union africaine, qui exhorte ses membres à quitter la cour.

      Le premier départ du tribunal a eu lieu en 2017, avec le Burundi. Les Philippines en est sorti en mars 2019.

      Les deux états font actuellement l’objet d’enquêtes au sein de la CPI : respectivement au sujet d’exactions commises au Burundi depuis 2015 et aux Philippines concernant la campagne de lutte contre la drogue menée par le président Duterte. L’Afrique du Sud avait menacé de se retirer, avant de faire machine arrière.

      C’est dans ce contexte sensible que le procureur de la CPI avait décidé en 2017 d’enquêter sur les exactions commises en Afghanistan par les talibans, mais aussi par les forces militaires étrangères actives en Afghanistan, y compris les forces armées américaines. Si l’acte avait été alors salué, le projet n’a pu aboutir.

      Les États-Unis, qui ne sont pas membres de la CPI, se sont violemment opposés à toute possibilité d’investigation. En avril 2019, la CPI a annoncé qu’une chambre préliminaire avait mis fin à l’enquête car l’opposition américaine rendait toute action de la CPI impossible. Une décision qui a suscité de vives réactions et beaucoup de frustrations au sein des organisations internationales.

      La CPI connaît une période de forte turbulence et de crise de légitimité face à des états récalcitrants. Un autre scénario est-il envisageable dans un contexte où les états mis en cause sont des états membres de l’Union européenne ?
      Migrations vers l’Union européene

      On estime que plus de 30 000 personnes migrantes se sont noyées en Méditerranée au cours des trois dernières décennies. L’attention internationale s’est attardée sur leur sort lors de la vague migratoire de 2015, lorsque l’image du jeune Alan Kurdi, 3 ans, face contre terre sur une plage turque, a circulé dans le monde.

      Plus d’un million de personnes sont entrées en Europe cette année-là. Cela a conduit l’UE et ses États membres à fermer les frontières terrestres et maritimes à l’Est en érigeant des clôtures et en concluant un accord de 3 milliards d’euros avec la Turquie pour y maintenir les migrants. Des navires de l’OTAN ont été positionnés dans la mer Égée pour capturer et rapatrier les migrants.

      Les projets de sauvetage des migrants, tels que le programme italien Mare Nostrum – qui a permis de sauver 150 000 migrants en 2013-2014,- ont été remplacés par des projets de garde-frontières. Les pressions politiques visant à réduire le nombre de migrants qui ont atteint les côtes européennes ont conduit à la révocation et non-renouvellement des licences pour les bateaux enregistrés auprès d’ONG dont l’objectif était de sauver les migrants en mer. Cela a conduit à la situation actuelle, où il n’y a qu’un seul bateau de patrouille la Méditerranée.

      L’UE a confié des missions de recherche et de sauvetage aux garde-côtes libyens, qui ont été accusés à plusieurs reprises d’atrocités contre les migrants. Les pays européens négocient désormais l’accueil des migrants méditerranéens au cas par cas et s’appuyant sur des réseaux associatifs et bénévoles.

      Une impasse juridique

      Le droit international et supranational s’applique aux migrants, mais jusqu’à présent, il ne les a pas suffisamment protégés. Le droit de la mer est par ailleurs régulièrement invoqué.

      Il exige que les navires recueillent les personnes dans le besoin.

      Une série de refus d’autoriser les navires à débarquer des migrants sauvés en mer a mis en péril cette doctrine internationale.

      Au sein de l’UE, la Cour de justice supervise les politiques relatives aux migrations et aux réfugiés.

      Mais cette responsabilité semble avoir été écartée au profit d’un accord conclu il y a déjà deux ans avec la Libye. Cet accord est pour certains une dont certains l’équivalent d’une « condamnation à morts » vis-à-vis des migrants.

      De son côté, la Cour européenne des droits de l’homme a été perçue comme une institution ne soutenant pas spécialement la cause des migrants.

      Certes, en 2012 ce tribunal avait mis en avant la situation de ressortissants somaliens et érythréens. Interceptés en mer par les autorités italiennes, ils avaient été forcés avec 200 autres à retourner en Libye où leurs droits civiques et physiques n’étaient pas respectés, et leurs vies en danger. Portée par des organisations humanitaires, l’affaire avait conduit à un jugement de la cour stipulant :

      « que quand des individus sont interceptés dans des eaux internationales, les autorités gouvernementales sont obligées de s’aligner sur les lois internationales régulant les droits de l’Homme. »

      Cette position avait été célébrée dans ce qui semblait constituer une avancée pour les droits des migrants en mer. Il n’est cependant pas clair dans quelle mesure cette affaire peut s’appliquer dans d’autres cas et faire jurisprudence.

      Si les tribunaux européens sont invoqués et rendent leurs avis, le contexte migratoire empire, or les mécanismes, les politiques et les engagements européens et internationaux existants en matière de droits ne produisent pas de changement.

      Dans cette impasse juridique, l’introduction d’un nouveau paradigme semble essentielle.
      Remplir pleinement son rôle

      Dans ce contexte complexe, un élément fondateur de la CPI peut jouer un rôle : le principe de complémentarité.

      Elle [la complémentarité] crée une relation inédite entre les juridictions nationales et la Cour permettant un équilibre entre leurs compétences respectives.

      Cela signifie que le tribunal n’intervient que lorsque les États ne peuvent ou ne veulent pas agir de leur propre chef.

      Jusqu’à présent, la complémentarité a joué un rôle central inattendu dans les affaires dont la CPI a été saisie jusqu’à présent, les États africains s’étant autoproclamés incompétents, invoquant le manque de ressources (notamment juridiques) nécessaires.

      Cela a cependant grandement contribué à l’échec politique de la CPI sur le continent africain. Des gouvernements abusifs ont ainsi profité de ce système pour remettre à la CPI des adversaires politiques tout en se plaignant simultanément de l’ingérence de la CPI dans leurs affaires internes.

      Ce n’est pas ainsi que la complémentarité devait fonctionner.
      Le refus d’action de l’UE doit pousser la CPI à agir

      L’impasse dans laquelle se trouve actuellement l’UE en ce qui concerne les droits en matière de migration montre ce que la complémentarité est censée faire – accorder la primauté aux États souverains sur l’application de la loi et intervenir uniquement lorsque les États violent le droit humanitaire et refusent d’agir.

      La dernière décennie de migrations meurtrières, conjuguée à une politique de réfugiés délibérément délaissée en Europe, constitue une telle situation.

      Les migrants potentiels ne votent pas et ne peuvent pas être représentés politiquement dans l’UE.

      Leur protection ne dépend donc que des normes relatives aux droits de l’Homme et des engagements internationaux qui les entérinent. Ces normes ne sont pas appliquées, en partie parce que les questions de citoyenneté et de sécurité des frontières sont restées largement du ressort des États souverains. Ces politiques se traduisent aujourd’hui par un « crime contre l’humanité » continu.

      La CPI est peut-être l’institution qui sera capable de dénouer la situation complexe et l’impasse actuelle en menaçant de traduire les dirigeants européens en justice, faisant ainsi écho avec les idéaux progressistes qui ont nourri sa construction.

      https://theconversation.com/naufrages-en-mediterranee-lue-coupable-de-crimes-contre-lhumanite-1

  • Hundreds of Europeans ‘criminalised’ for helping migrants – as far right aims to win big in European elections

    Elderly women, priests and firefighters among those arrested, charged or ‘harassed’ by police for supporting migrants, with numbers soaring in the past 18 months.

    These cases – compiled from news reports and other records from researchers, NGOs and activist groups, as well as new interviews across Europe – suggest a sharp increase in the number of people targeted since the start of 2018. At least 100 people were arrested, charged or investigated last year (a doubling of that figure for the preceding year).


    https://www.opendemocracy.net/en/5050/hundreds-of-europeans-criminalised-for-helping-migrants-new-data-show
    #délit_de_solidarité #solidarité #asile #migrations #réfugiés #Europe
    #Allemagne #criminalisation #statistiques #chiffres #Suisse #Danemark #Espagne #France #journalisme #journalistes #presse #Grèce #Calais

    #Norbert_Valley #Christian_Hartung #Miguel_Roldan #Lise_Ramslog #Claire_Marsol #Anouk_Van_Gestel #Lisbeth_Zornig_Andersen #Daphne_Vloumidi #Mikael_Lindholm #Fernand_Bosson #Benoit_Duclois #Mussie_Zerai #Manuel_Blanco #Tom_Ciotkowski #Rob_Lawrie

    ping @isskein @karine4

    • The creeping criminalisation of humanitarian aid

      At the heart of the trial of a volunteer with American migrant aid group No More Deaths that began in Arizona last week lies the question of when humanitarian aid crosses the line and becomes a criminal offence.

      Scott Warren, 37, faces three felony charges after he helped two undocumented migrants by providing them food, shelter, and transportation over three days in January 2018 – his crime, prosecutors say, wasn’t helping people but hiding them from law enforcement officers.

      Whichever way the case goes, humanitarian work appears to be under growing threat of criminalisation by certain governments.

      Aid organisations have long faced suspensions in difficult operating environments due to geopolitical or domestic political concerns – from Pakistan to Sudan to Burundi – but they now face a new criminalisation challenge from Western governments, whether it’s rescue missions in the Mediterranean or toeing the US counter-terror line in the Middle East.

      As aid workers increasingly find themselves in the legal crosshairs, here’s a collection of our reporting to draw attention to this emerging trend.

      http://www.thenewhumanitarian.org/news/2019/06/07/creeping-criminalisation-humanitarian-aid

      Dans l’article une liste d’articles poubliés dans The New Humanitarian sur le délit de solidarité un peu partout dans le #monde...

    • European activists fight back against ‘criminalisation’ of aid for migrants and refugees

      More and more people are being arrested across Europe for helping migrants and refugees. Now, civil society groups are fighting back against the 17-year-old EU policy they say lies at the root of what activists and NGOs have dubbed the “criminalisation of solidarity”.

      http://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2019/06/20/european-activists-fight-criminalisation-aid-migrants-refugees

      Et le #rapport:
      Crackdown on NGOs and volunteers helping refugees and other migrants


      http://www.resoma.eu/sites/resoma/resoma/files/policy_brief/pdf/Final%20Synthetic%20Report%20-%20Crackdown%20on%20NGOs%20and%20volunteers%20h

    • Documentan incremento de amenazas contra defensores de migrantes tras acuerdo con EU

      Tras el acuerdo migratorio que México y los Estados Unidos firmaron el pasado junio, se han incrementado los riesgos y amenazas que sufren las y los activistas que defienden a migrantes en Centroamérica, México y Estados Unidos. Esa es la conclusión del informe “Defensores sin muros: personas defensoras de Derechos Humanos criminalizadas en Centroamérica, México y Estados Unidos”, elaborado por la ONG Frontline Defenders, el Programa de Asuntos Migratorios de la Universidad Iberoamericana y la Red Nacional de Organismos Civiles Todos los Derechos para Todas y Todos. El documento identifica 69 eventos de detención, amenazas, acoso, difamación, agresión, deportación, vigilancia o negación de entrada a un país. La mayoría de ellos, 41, tuvieron lugar durante 2019, según un listado que acompaña al informe. Uno de los grandes hallazgos: la existencia de colaboración entre México y Estados Unidos para cerrar el paso a los migrantes y perseguir a los activistas. “Los gobiernos tienen relaciones tensas, difíciles, complicadas. México y Estados Unidos están pasando por uno de sus peores momentos en bilaterales, pero cuando se trata de cooperar para restringir Derechos Humanos hay colaboración absoluta”, dijo Carolina Jiménez, de Amnistía Internacional. Entre estas colaboraciones destaca un trabajo conjunto de ambos países para identificar a activistas y periodistas que quedaron fichados en un registro secreto. El informe se presentó ayer en la Ciudad de México, al mismo tiempo en el que el presidente estadounidense, Donald Trump, habló ante la asamblea general de las Naciones Unidas, agradeciendo al presidente Andrés Manuel López Obrador “por la gran cooperación que estamos recibiendo y por poner a 27 mil soldados en nuestra frontera sur”.

      https://www.educaoaxaca.org/documentan-incremento-de-amenazas-contra-defensores-de-migrantes-tras-a
      #Amérique_centrale #Mexique

    • Migration and the Shrinking Humanitarian Space in Europe

      As of October 10th, 1071 deaths of migrants were recorded in the Mediterranean in 2019.[1] In their attempt to save lives, civilian maritime search and rescue organisations like Sea Watch or Proactive Open Arms have gained high levels of media attention over the last years. Cases such as the arrest of the captain of the Sea Watch 3, Carola Rackete, in June 2019 or the three weeks odyssey of Open Arms in August 2019 dominate the media and public discourse in Europe. The closing of ports in Italy, Spain and Malta, the confiscation of vessels, legal proceedings against crew members alongside tight migration policies and anti-trafficking laws have led to a shrinking space for principled humanitarian action in Europe. While maritime search and rescue (SAR) activities receive most of the attention, focusing solely on them prevents one from seeing the bigger picture: a general shrinking of humanitarian space in Europe. In the following, the analysis will shed some light on patterns in which the space for assisting and protecting people on the move is shrinking both on land and at sea.
      Migration and Humanitarian Action

      Migration is not a new phenomenon. Throughout history people have left their homes to seek safety and pursue a better life. Yet, due to increasing human mobility and mounting crisis migration the number of people on the move is consistently rising (Martin, Weerasinghe, and Taylor 2014). In 2019, The International Organisation for Migration (IOM) documents more than 258 million international migrants worldwide, compared to 214 million in 2009.[2]

      This number is composed of a variety of different migrant groups, such as students, international labour migrants or registered refugees. Based on a distinction between voluntary and involuntary migration, not all these groups are considered people in need of international protection and humanitarian assistance (Léon 2018). Accordingly, unlike refugees or internally displaced persons (IDPs) migrants generally fall out of the humanitarian architecture.[3] Yet, notwithstanding the reasons for migrating, people on the move can become vulnerable to human trafficking, sexual exploitation and other forms of abuse during their journey. They strand at borders and live in deplorable conditions (Léon 2018).

      The UN Secretary General’s Agenda for Humanity therefore stresses the importance of addressing the vulnerabilities of migrants. This entails providing more regular and legal pathways for migration but also requires “a collective and comprehensive response to displacement, migration and mobility”, including the provision of humanitarian visas and protection for people on the move who do not fall under the narrow confines of the 1951 Refugee Convention.[4] The view that specific vulnerabilities of migrants are to be integrated into humanitarian response plans is reflected in the International Red Cross and Red Crescent Movement’s approach to migration, which is strictly humanitarian and focuses on the needs and vulnerabilities of migrants irrespective of their legal status, type, or category (Linde 2009).

      Thereby, the term ‘migrant’ is deliberately kept broad to include the needs of labour migrants, vulnerabilities due to statelessness or being considered irregular by public authorities (ibid.). Despite this clear commitment to the protection of people on the move, migrants remain a vulnerable group with a high number losing their lives on migratory routes or going missing. Home to three main migratory routes, the Mediterranean is considered one of the world’s deadliest migration routes.[5]

      When in 2015 an unprecedented number of people made their way into Europe this exposed the unpreparedness of the EU and its member states in reacting quickly and effectively to the needs of people on the move. A report by the Overseas Development Institute (ODI) on refugees and vulnerable migrants in Europe concludes that “Europe’s actual humanitarian response must be judged a failure in many respects; basic needs have not been met and vulnerable people have not been protected” (De Largy 2016).

      For humanitarian organisations with experience in setting up and managing camps in countries of the Global South, managing the humanitarian response in their own backyard seems to have posed significant challenges. When more than one million people arrived in 2015, most international humanitarian organisations had no operational agreement with European states, no presences in affected areas, no funding lines for European activities and no established channels to mobilise resources (ibid.). This has led to protection gaps in the humanitarian response, which, in many cases, have been filled by activists, volunteers and civil society actors. Despite a number of factors, including the EU-Turkey deal, arrangements with Libya and toughening border controls, have since lead to a decline in the number of people arriving in Europe, sustained humanitarian action is needed and these actors continue to provide essential services to refugees and vulnerable migrants. However, with hostile attitudes towards migrants on the rise, and the marked effects of several successful smear campaigns, a number of organisations and civil society actors have taken it upon themselves to bring much needed attention to the shrinking space for civil society.
      Shrinking Humanitarian Space in Europe

      The shrinking space for civil society action is also impacting on the space for principled humanitarian action in Europe. While no agreed upon definition of humanitarian space[6] exists, the concept is used in reference to the physical access that humanitarian organisations have to the affected population, the nature of the operating environment for the humanitarian response including security conditions, and the ability of humanitarian actors to adhere to the core principles of humanitarian action (Collinson and Elhawary 2012: 2). Moreover, the concept includes the ability of affected people to reach lifesaving assistance and protection. The independence of humanitarian action from politics is central to this definition of humanitarian space, emphasising the need to adhere to the principles of humanity, neutrality, impartiality and independence as well as to maintain a clear distinction between the roles and functions of humanitarian in contrast to those of military and political actors (OCHA, 2003). Humanitarian actors within this space strive to achieve their mission of saving lives and alleviating suffering by seeking ongoing access to the affected population.

      Though the many organisations, volunteers and individuals that work on migration issues in Europe would not all self-identify or be considered purely humanitarian organisations, many of them provide life-saving services to people on the move. Thus, the humanitarian space is occupied by a diversity of actors, including human rights organisations, solidarity networks, and concerned individuals alongside more traditional humanitarian actors (Léon 2018).

      Referring to the limited room for agency and restricted access to the affected population, the shrinking humanitarian space in Europe has been linked to the spreading of populism, restrictive migration policies, the securitisation of migration and the criminalisation of humanitarian action (Hammerl 2019). These developments are by no means limited to Europe. Other regions of the world witness a similar shrinking of the humanitarian space for assisting people on the move. In Europe and elsewhere migration and asylum policies have to a great extent determined the humanitarian space. Indeed, EU migration policies have negatively affected the ways in which humanitarian actors are able to carry out their work along the migration routes, limiting the space for principled humanitarian action (Atger 2019). These policies are primarily directed at combatting human trafficking and smuggling, protecting European borders and national security interests. Through prioritising security over humanitarian action, they have contributed to the criminalisation of individuals and organisations that work with people on the move (ibid.). As has been particularly visible in the context of civilian maritime SAR activities, the criminalisation of humanitarian action, bureaucratic hurdles, and attacks on and harassment of aid workers and volunteers have limited the access to the affected population in Europe.
      Criminalisation

      The criminalisation of migration that has limited the space for principled humanitarian action is a process that occurs along three interrelated lines: first, the discursive criminalisation of migration; second, the interweaving of criminal law and policing for migration management purposes; and finally, the use of detention as a way of controlling people on the move (Hammerl 2019, citing Parkin). With media and public discourse asserting that migrants are ‘illegal’, people assisting them have been prosecuted on the grounds of facilitating illegal entry, human trafficking and smuggling.

      Already back in 2002, the Cypriot NGO Action for Equality, Support and Anti-Racism (KISA) was prosecuted under criminal law after it had launched a financial appeal to cover healthcare costs for a migrant worker (Fekete 2009). This is just been one of six cases in which the Director of an organisation has been arrested for his work with migrants.[7] While KISA takes a clear human rights stance, these trends are also observable for humanitarian activities such as providing food or shelter. Individuals and organisations providing assistance and transportation to migrants have faced legal prosecution in France and Belgium for human smuggling in 2018. Offering shelter to migrants in transit has led to arrests of individuals accused of human trafficking (Atger 2019).[8] The criminalisation of civilian maritime SAR activities has led to the arrest and prosecution of crew members and the seizing of rescue vessels.

      The tension between anti-smuggling and anti-trafficking laws and humanitarian action is a result of the European ‘Facilitators’ Package’ from 2002 that defines the facilitation of unauthorised entry, transit and residence.[9] Though the Directive and its implementation in national legislatures foresees humanitarian exemptions[10], the impact of these laws and regulations on the humanitarian space has been critical. Lacking clarity, these laws have been implemented differently by EU member states and created a sense of uncertainty for individuals and organisations assisting migrants, who now risk criminal prosecution (Carrera et al. 2018). In several EU member states with humanitarian exemptions, humanitarian actors were reportedly prosecuted (ibid.). A case in point is Greece, which has a specific humanitarian exemption applying to maritime SAR activities and the facilitation of entry for asylum seekers rescued at sea. Despite sounding promising at first, this has not prevented the prosecution of volunteer crew members of the Emergency Response Centre International (ERCI) due to the existence of two legal loopholes. The first of these works on the basis that rescuers are not able to identify who is in need of international protection, and second, the legal framework contains an exemption from punishment, but not prosecution.[11]
      Bureaucratic Hurdles

      Besides the criminalisation of humanitarian activities, across Europe – predominantly at borders – administrative decisions and rules have narrowed the space for humanitarian action (Atger 2019). In countries such as France, Germany, Hungary, Spain and Italy, laws and regulations prevent organisations from accessing reception centres or transit zones between borders (Hammerl 2019, Amnesty 2019). A reduction of financial support and tighter legal requirements for operation further hinder organisations to assist people on the move (Atger 2019). In the case of maritime SAR operations, NGOs had to stop their operations due to de-flagging of rescue ships as ordered by EU member state authorities.[12]

      Access to people on the move is obstructed in manifold ways and organisations face a mix of intimidations strategies and bureaucratic obstacles in their mission to deliver aid (Léon 2018). In Germany, new asylum policies in 2015 changed the provision of the previous cash-based assistance to in-kind aid.[13] This is inconsistent with German humanitarian policy in other migrant and refugee hosting countries, where the German Foreign Ministry promotes cash-based programming as an efficient, effective and dignified way of assisting people in need.

      Apart from instructions and orders by public authorities and law enforcement entities, other tactics range from frequent ID checks, parking fines to threats of arrest (Amnesty 2019). In Calais, humanitarian action was obstructed when the municipality of Calais prohibited the distribution of food as well as the delivery of temporary showers to the site by a local charity with two municipal orders in March 2017 (Amnesty 2019). In 2017, the Hungarian Parliament passed the so-called LEX NGO. Like the foreign agent law in Russia, it includes provisions for NGOs that receive more than EUR 23 000 per year from abroad (including EU member states) to register as “organisations receiving foreign funding”. Coupled with a draft bill of a new Tax Law that establishes a 25% punitive tax to be paid for “propaganda activities that indicate positive aspects of migration”, these attempts to curtail work with migrants has a chilling effect both on NGOs and donors. As the punitive tax is to be paid by the donor organisation, or by the NGO itself in case the donor fails to do so, organisations risk bankruptcy.[14]
      Policing Humanitarianism[15]

      An increasingly hostile environment towards migration, fuelled by anti-immigrant sentiments and public discourse, has led to suspicion, intimidation and harassment of individuals and organisations working to assist and protect them. The securitisation of migration (Lazaridis and Wadia 2015), in which migrants are constructed as a potential security threat and a general atmosphere of fear is created, has given impetus to a general policing of humanitarian action. Even when not criminalised, humanitarian actors have been hindered in their work by a whole range of dissuasion and intimidation strategies. Civilian maritime SAR organisations in particular have been targets of defamation and anti-immigration rhetoric. Though analyses of migratory trends have proved that a correlation between SAR operations and an increase of migrant crossings was indeed erroneous (Cusumano and Pattison, Crawley et al. 2016, Cummings et al. 2015), organisations are still being accused of both constituting a pull-factor for migration (Fekete 2018) and of working together with human traffickers. In some instances, this has led to them being labelled as taxis for ‘illegal’ migrants (Hammerl 2019). In Greece, and elsewhere, volunteers assisting migrants have been subject to police harassment. Smear campaigns, especially in the context of SAR operations in the Mediterranean, have affected the humanitarian sector as a whole “by creating suspicion towards the work of humanitarians” (Atger 2019). Consequently, organisations have encountered difficulties in recruiting volunteers and seen a decline in donations. This prevented some organisations from publicly announcing their participation in maritime SAR or their work with migrants.[16] In severe cases, humanitarian actors suffered physical threats by security personnel or “self-proclaimed vigilante groups” (Hammerl 2019).

      Moreover, having to work alongside security forces and within a policy framework that primarily aims at border policing and migration deterrence (justified on humanitarian grounds), humanitarian actors risk being associated with migration control techniques in the management of ‘humanitarian borders’ (Moreno-Lax 2018, Pallister-Wilkins 2018). When Italy in 2017 urged search and rescue organisations to sign a controversial Code of Conduct in order to continue disembarkation at Italian ports, some organisations refused to do so. The Code of Conduct endangered humanitarian principles by making life-saving activities conditional on collaborating in the fight against smugglers and the presence of law enforcement personnel on board (Cusumano 2019).

      Beyond the maritime space, the politicisation of EU aid jeopardises the neutrality of humanitarian actors, forcing them to either disengage or be associated with a political agenda of migration deterrence. Humanitarian organisations are increasingly requested to grant immigration authorities access to their premises, services and data (Atger 2019). In Greece, a legislation was introduced in 2016 which entailed the close monitoring of, and restrictive access for, volunteers and NGOs assisting asylum seekers, thereby placing humanitarian action under the supervision of security forces (Hammerl 2019). As a consequence of the EU-Turkey Deal in 2016, MSF announced[17] that it would no longer accept funding by EU states and institutions “only to treat the victims of their policies” (Atger 2019).
      The Way Ahead

      The shrinking space poses a fundamental challenge for principled humanitarian action in Europe. The shrinking humanitarian space can only be understood against the backdrop of a general shrinking civil space in Europe (Strachwitz 2019, Wachsmann and Bouchet 2019). However, the ways in which the shrinking space affects humanitarian action in Europe has so far received little attention in the humanitarian sector. The problem goes well beyond the widely discussed obstacles to civilian maritime SAR operations.

      Humanitarian organisations across Europe assist people arriving at ports, staying in official or unofficial camps or being in transit. An increasingly hostile environment that is fuelled by populist and securitisation discourses limits access to, and protection of, people on the move both on land and at sea. The criminalisation of aid, bureaucratic hurdles and harassment of individuals and organisations assisting migrants are just some of the ways in which humanitarian access is obstructed in Europe.

      A defining feature of humanitarian action in Europe has been the important and essential role of volunteers, civil society organisations and solidarity networks both at the grassroots’ level and across national borders. Large humanitarian actors, on the other hand, took time to position themselves (Léon 2018) or have shied away from a situation that is unfamiliar and could also jeopardize the financial support of their main donors – EU member states.

      Since then, the humanitarian space has been encroached upon in many ways and it has become increasingly difficult for volunteers or (small) humanitarian organisations to assist and protect people on the move. The criminalisation of humanitarian action is particularly visible in the context of civilian maritime SAR activities in the Mediterranean, but also bureaucratic hurdles and the co-optation of the humanitarian response into other political objectives have limited the space for principled humanitarian action. In order to protect people on the move, national, regional and international responses are needed to offer protection and assistance to migrants in countries of origin, transit and destination. Thereby, the humanitarian response needs to be in line with the principles of impartiality, neutrality, and independence to ensure access to the affected population. While the interests of states to counter organised crime, including human trafficking, is legitimate, this should not restrict humanitarian access to vulnerable migrants and refugees.

      In Europe, the biggest obstacle for effective humanitarian action is a lacking political will and the inability of the EU to achieve consensus on migration policies (DeLargy 2016). The Malta Agreement, a result of the latest EU Summit of Home Affairs Ministers in September 2019 and subsequent negotiations in Luxembourg in October of the same year, has failed to address the shortcomings of current migration policies and to remove the obstacles standing in the way of principled humanitarian action in the Mediterranean. For this, new alliances are warranted between humanitarian, human rights and migration focussed organizations to defend the humanitarian space for principled action to provide crucial support to people on the move both on land and at sea.

      http://chaberlin.org/en/publications/migration-and-the-shrinking-humanitarian-space-in-europe-2

      Pour télécharger le rapport:
      http://chaberlin.org/wp-content/uploads/2019/10/2019-10-debattenbeitrag-migration-shrinking-humanitarian-space-roepstorff
      #CHA #Centre_for_humanitarian_action

  • Counter-mapping: cartography that lets the powerless speak | Science | The Guardian
    https://www.theguardian.com/science/blog/2018/mar/06/counter-mapping-cartography-that-lets-the-powerless-speak

    Sara is a 32-year-old mother of four from Honduras. After leaving her children in the care of relatives, she travelled across three state borders on her way to the US, where she hoped to find work and send money home to her family. She was kidnapped in Mexico and held captive for three months, and was finally released when her family paid a ransom of $190.

    Her story is not uncommon. The UN estimates that there are 258 million migrants in the world. In Mexico alone, 1,600 migrants are thought to be kidnapped every month. What is unusual is that Sara’s story has been documented in a recent academic paper that includes a map of her journey that she herself drew. Her map appears alongside four others – also drawn by migrants. These maps include legends and scales not found on orthodox maps – unnamed river crossings, locations of kidnapping and places of refuge such as a “casa de emigrante” where officials cannot enter. Since 2011, such shelters have been identified by Mexican law as “spaces of exception”.

    #cartographie_radicale #contre_cartographie #cartographie_participative #cartoexperiment

  • Why are so many people dying in US prisons and jails? | US news | The Guardian

    https://www.theguardian.com/us-news/2019/may/26/us-prisons-jails-inmate-deaths

    On 10 July 2015, 28-year-old Sandra Bland was pulled over in Prairie View, Texas, for what she was told by Texas state trooper Brian Encinia was failing to use her turn signal.

    Three days after Bland’s arrest, she was found dead in her jail cell. The death was ruled a suicide but remains shrouded in mystery over how a wrongful arrest stemming from a minor traffic violation resulted in death.

    “She was arrested and alleged to have put this officer’s life and safety in jeopardy. Really what happened is he didn’t like that his authority was questioned,” attorney Cannon Lambert, who represented Bland’s family, told the Guardian.

    #états-unis #prison #droits_humains

  • Tout ce qui brille n’est pas #or : la branche de l’or sous le feu des critiques

    La #Suisse occupe une position de leader mondial dans le commerce de l’or. Mais l’#or_brut raffiné dans notre pays provient parfois de #mines douteuses. La pression augmente pour plus de #responsabilité éthique au sein de la branche des #matières_premières.

    « Il ne peut être totalement exclu que de l’or produit en violation des #droits_de_l’homme soit importé en Suisse. » Voilà la conclusion explosive à laquelle parvient le Conseil fédéral dans un #rapport portant sur le marché de l’or et les droits humains, publié en novembre dernier. Donnant suite à un postulat parlementaire, ce rapport a permis de faire quelque peu la lumière sur une branche qui privilégie la discrétion.

    Le secteur de l’or joue un rôle important pour la Suisse, qui concentre 40 % des capacités de #raffinage mondiales et héberge les activités de quatre des neuf leaders mondiaux du secteur. Les raffineries d’or telles qu’#Argor-Heraeus, #Metalor, #Pamp ou #Valcambi travaillent l’or brut importé ou refondent des ouvrages en or déjà existants. En 2017, plus de 2400 tonnes d’or ont été importées pour un montant de presque 70 milliards de francs, ce qui correspond à environ 70 % de la production mondiale. L’or brut provient de quelque 90 pays, y compris des pays en développement tels que le #Burkina_Faso, le #Ghana ou le #Mali, qui dépendent fortement de ces exportations.

    Des conditions précaires dans les petites mines

    À l’échelle mondiale, environ 80 % de l’or brut est extrait dans des mines industrielles. 15 % à 20 % proviennent de petites mines artisanales, dans lesquelles les conditions de #travail et la protection de l’#environnement s’avèrent souvent précaires. Néanmoins, les mines assurent l’existence de millions de familles : dans le monde entier, ces mines artisanales emploient plus de 15 millions de personnes, dont 4,5 millions de femmes et 600 000 enfants, particulièrement exposés aux violations des droits humains. Certains pays comme le #Pérou ou l’#Éthiopie tentent pourtant de réguler le secteur, par exemple en accordant des licences d’#extraction. Mais la mise en œuvre n’est pas simple et les contrôles sur place tendent à manquer.

    Il y a peu, un cas de commerce illégal d’or au Pérou a fait la une des médias. En mars 2018, les autorités douanières locales ont confisqué près de 100 kg d’or de l’entreprise exportatrice #Minerales_del_Sur. Cet or aurait dû parvenir à la raffinerie suisse Metalor. Le cas est désormais entre les mains de la #justice péruvienne. Le ministère public suspecte Minerales del Sur, qui comptait parfois plus de 900 fournisseurs, d’avoir acheté de l’or de mines illégales. Aucune procédure pénale n’a encore été ouverte. Metalor indique avoir bloqué toute importation d’or péruvien depuis la #confiscation et soutient qu’elle n’a acquis ce métal précieux qu’auprès de mines agissant en toute légalité.

    Une origine difficilement identifiable

    Selon le rapport du Conseil fédéral, l’or brut raffiné en Suisse provient en majeure partie de mines industrielles. Néanmoins, les détails restent flous. En effet, les statistiques d’importation disponibles ne permettent d’identifier clairement ni la provenance, ni la méthode de production. Ainsi, le Conseil fédéral conseille à la branche de se montrer plus transparente au niveau de l’origine, par exemple dans la #déclaration_douanière. Par contre, notre gouvernement ne voit aucune raison d’agir quant à l’obligation de diligence et renvoie aux standards de durabilité volontaires de la branche. De plus, la Suisse soutient la mise en œuvre des principes de l’OCDE sur la promotion de chaînes d’approvisionnement responsables pour les #minerais provenant de zones de conflit ou à haut risque. Cela doit permettre d’éviter que le commerce de l’or alimente des #conflits_armés, par exemple en #RDC. Enfin, le Conseil fédéral souhaite examiner si la technologie de la #blockchain – soit des banques de données décentralisées –, pourrait améliorer la #traçabilité de l’or.

    Les #multinationales ciblées par l’initiative

    Pour le Conseil fédéral, inutile de renforcer les bases légales. Il mise plutôt sur l’auto-régulation de la branche qui, selon lui, est soumise à une forte concurrence internationale. Les organisations non gouvernementales (ONG) ne sont pas les seules à ne pas approuver cette attitude pro-économie. Ainsi, dans un commentaire sur swissinfo.ch, le professeur de droit pénal et expert anti-corruption bâlois Mark Pieth parle d’un véritable autogoal. Selon lui, le Conseil fédéral accorde plus d’importance aux affaires qu’aux droits humains et fournit des armes supplémentaires aux partisans de l’Initiative multinationales responsables. Celle-ci, soumise en 2016 par quelque 50 ONG, a pour but que les entreprises suisses et leurs fournisseurs étrangers soient tenus responsables des violations des droits humains et des atteintes à l’environnement. Pieth reproche surtout aux auteurs du rapport de rejeter l’entière responsabilité des problèmes directement sur le secteur des petites mines artisanales. Pour lui, les multinationales sont souvent responsables de l’accumulation de #déchets toxiques, de la #contamination des eaux et de l’appropriation des #terres des communautés locales.

    Les sondages montrent que cette initiative bénéficie d’un fort capital de sympathie auprès de la population. Le Conseil national a tenté de mettre des bâtons dans les roues des initiants en lançant un contre-projet. Il prévoyait ainsi de compléter le droit des sociétés par des dispositions relatives à la responsabilité. Le Conseil des États n’a néanmoins rien voulu entendre. En mars, une majorité de la petite chambre du Parlement a rejeté l’initiative sans pour autant entrer en matière sur une contre-proposition. Le conseiller aux États Ruedi Noser (PLR, Zurich) a, par exemple, averti que ces dispositions relatives à la responsabilité entraîneraient des inconvénients de taille pour les entreprises suisses. Pour lui, l’économie suisse pourrait même devoir se retirer de nombreux pays. Le Conseil national a remis l’ouvrage sur le métier. Si les deux chambres ne parviennent pas à un accord, l’initiative pourrait être soumise au peuple sans contre-projet. Aucune date n’a encore été fixée.

    Le « Vreneli d’or » populaire

    La pièce d’or la plus connue de Suisse est le « #Vreneli_d’or ». Cette pièce de monnaie arborant le buste d’Helvetia a été émise entre 1887 et 1949. L’or utilisé à l’époque provenait de pays européens. En tout, 58,6 millions de pièces avec une valeur nominale de 20 francs furent mises en circulation. S’y ajoutèrent 2,6 millions de pièces de dix francs et 5000 avec une valeur nominale de 100 francs.

    Jusqu’à aujourd’hui, le Vreneli d’or est resté un cadeau populaire et un placement simple. De nos jours, la pièce de 20 francs avec une part d’or de 5,8 grammes a une valeur d’environ 270 francs et peut être échangée dans n’importe quelle banque de Suisse. Bien évidemment, les éditions rares sont aussi plus précieuses. Ainsi, un Vreneli datant de 1926 vaut jusqu’à 400 francs. Les collectionneurs acquièrent aussi volontiers des pièces frappées entre 1904 et 1906 pour environ 300 francs. Le Vreneli d’or doit probablement son nom à l’ancienne représentation d’Helvetia. En effet, avec ses cheveux tressés, elle rappelait plutôt une jeune paysanne qu’une solide mère patrie.


    https://www.revue.ch/fr/editions/2019/03/detail/news/detail/News/tout-ce-qui-brille-nest-pas-or-la-branche-de-lor-sous-le-feu-des-critiques
    #extractivisme #droits_humains #transparence

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    • #Metalor cuts ties with small mines over sustainable gold

      Swiss gold refinery Metalor Technologies has announced it will no longer deal with artisanal mining operations. The company cites the increasing cost of ensuring that gold is being produced by small mines in compliance with human rights and environmental standards.

      Metalor has come under repeated fire for doing business with gold mines in South America that care neither for their workers or surrounding habitat. Some of the gold being refined has also been linked by NGOs to money laundering.

      The company has refuted many of the charges being levelled at it by human rights groups. But it had nevertheless already ceased doing business with artisanal mines in Peru last year whilst declaring self-regulated measures to combat abuses in the gold trade. Monday’s announcement also signals the end to its artisanal activities in Colombia.

      Pressure groups has complained that Metalor’s due diligence was failing to spot back doors through which “dirty gold” was allegedly reaching the refinery.

      “The increasing complexity of the supply chain in this sector makes it increasingly difficult for Metalor to continue its commercial relations with artisanal mining operations,” said Metalor CEO, Antoine de Montmollin, in a statement.

      “Metalor regrets this well-considered decision, but we will not compromise on defending a more sustainable value chain in the gold sector.”
      ’Skirting the issue’

      Mark Pieth, a champion for greater accountability in the Swiss commodities sector, slammed the refinery’s decision. He believes that cutting ties with trouble spots in response to criticism is not the answer because it strips entire communities of their livelihood.

      “It’s really skirting the issue because in fact the refineries should take responsibility and they should be helping to clean up rather than just cutting and running,” Pieth, who is publishing a book on gold laundering this month, told swissinfo.ch.

      Pieth also points that sourcing gold exclusively from large-scale mining is no guarantee of a problem free supply chain. Large-scale mining has been associated with environmental pollution, as well as with the displacement and expropriation of indigenous communities.

      Hosting four of the world’s major refineries, Switzerland has virtually cornered the market in gold processing. In 2017, the country imported 2,404 tonnes of gold (worth a total of CHF69.6 billion or $69.7 billion) while 1,684 tonnes were exported (CHF66.6 billion).

      Last year, the government issued a report of the gold sector and said it was working with the industry to improve “sustainability standards”.

      If Swiss refineries shun artisanal gold, this will likely be snatched up by refineries in the United Arab Emirates or India that care even less about following good practices, noted Pieth.


      https://www.swissinfo.ch/eng/business/compliance-costs_swiss-gold-refinery-turns-back-on-artisanal-miners/45036052

      ping @albertocampiphoto

    • Boycotting artisanal gold miners is not the answer

      Switzerland’s anti-corruption champion #Mark_Pieth thinks Metalor was wrong to drop artisanal miners.
      The sudden decision by the giant Swiss refinery Metalor to throw a blanket ban on gold from small-scale mines in Colombia and Peru is an understandable knee-jerk reaction to growing public horror at the human rights, environmental and organised crime issues linked to artisanal mining.

      Yet it is a short-sighted business decision, or rather, wilfully blind.

      It is true that conditions in many artisanal mines and their surrounding communities can be appalling and dangerous – particularly illegal mines hijacked by organised criminals rather than traditional mining communities where the activity is merely informal.

      I have seen with my own eyes women handling mercury with their bare hands and men working 28-day shifts in slave-like conditions in precarious tunnels carved into the rockface, surviving in shanty towns notorious for gun violence, forced prostitution and hijacking like Peru’s La Rinconada.

      But – and it’s a big but – if other refineries follow suit rather than engaging with the issues and trying to solve them, it will be catastrophic for the 100 million people worldwide who rely on artisanal mining for their livelihoods.

      About 80% of miners work in small-scale mines, but generate only 20% of the 3,200 tonnes of newly mined gold that is refined worldwide every year. The remaining 80% of our gold comes from sprawling industrial mines owned by powerful corporations like US-based Newmont Mining and the Canadian multinational Barrick Gold.

      Firstly, it is simply not economically possible to disregard 20% of the world’s gold production. If responsible refineries refuse artisanal gold, it will instead end up in the cauldrons of poorly regulated refineries with zero care for compliance in the United Arab Emirates or India.

      Secondly, it is a basic factual mistake to believe that gold from large-scale industrial mines is any cleaner than artisanal gold.

      Toxic substances leech into drinking water supplies and major rivers with fatal consequences, through the collapse of cyanide pools (such as the Baia Mare disaster in Romania) or toxic mine drainage after the mines are abandoned. Huge piles of contaminated waste rubble, or tailings, turn landscapes into no-go wastelands.

      Violent land-grabbing facilitated by corruption is common: in Ghana, there is even a word, galamsey, for traditional miners pushed into illegality through forced displacement without compensation.

      Most importantly, the Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) in its Alignment Assessment 2018 deplores the “risk-averse approach to sourcing” that Metalor has been panicked into taking, and this form of “internal embargo” on artisanal mining. It’s not hard to see why: it doesn’t solve the problems faced by artisanal miners, but instead takes away their only source of livelihood while allowing the refinery to tick a box and turn a blind eye.

      So, what should Metalor and other responsible gold refineries with the collective power to change the industry do?

      First, acknowledge the scale of the problems and show willingness to engage – with the problems and with others trying to solve them.

      Second, pinpoint the obvious no-go areas. Gold coming from conflict areas (like Sudan) or mined by children (child miners are common in many countries, including Burkina Faso, Niger and Côte d’Ivoire), for example.

      And third, work together with other refineries to jointly tackle the issues of artisanal mining and help raise standards for those 100 million impoverished people who rely on it.

      Metalor cites “resources to secure compliance” as a reason for its blanket ban on artisanally mined gold. But the cost of proper, transparent audits tracing back through the entire gold supply chain is mere pocket money for a refinery of this size – and if the refineries engage in collective action, it’s a matter of gold dust.

      https://www.swissinfo.ch/eng/opinion_metalor--mark-pieth-gold/45037966
      #boycott

    • Il processo di esternalizzazione delle frontiere europee. Tra interessi economici e violazioni dei diritti fondamentali

      Dalla normalizzazione e banalizzazione della violazione sistematica delle Convenzioni Internazionali fino al rischio democratico per una sempre più diffusa opacità dell’uso dei fondi italiani ed europei. L’ultimo rapporto Arci sull’esternalizzazione delle frontiere europee fa luce su un processo che sembra sempre più rispondere agli interessi dell’industria della sicurezza, per la quale la frontiera altro non è che l’ennesimo mercato su cui investire e fare profitto. Ce ne parla Sara Prestianni, coordinatrice del progetto #externalisationpolicieswatch

      Diventata già nel 2015 pilastro dell’agenda europea e italiana sull’immigrazione, l’esternalizzazione – ovvero la collaborazione con i paesi di origine e transito con l’obbiettivo di espellere facilmente i migranti dal territorio europeo o di bloccarli prima di raggiungere le nostre coste – si articola oggi, nel continente africano, nella logica strumentale di un legame tra migrazione, sviluppo e sicurezza. La sua combinazione con pratica costante di criminalizzazione della solidarietà porta ad un aumento, inaccettabile, dei morti per mare e per terra. L’azione del Governo Italiano s’iscrive perfettamente nella logica europea, sia nei proclami politici che nella creazione e gestione di fondi sull’esternalizzazione. Gli obiettivi sono chiari: bloccare gli arrivi via mare collaborando con i vicini Niger, Libia e Tunisia, oltre che facilitare le espulsioni strizzando l’occhio a Tunisi e a Il Cairo senza preoccuparsi del carico umano di vite che questa politica porta con sé.

      Arci, impegnata sul territorio italiano nell’accoglienza e in campagne di denuncia e sensibilizzazione, porta negli ultimi anni un’attenzione particolare alle conseguenze della dimensione esterna dell’asilo e la migrazione attraverso il progetto #externalisationpolicieswatch.

      Nel suo terzo rapporto, appena pubblicato, si concentra sulla moltiplicazione degli strumenti finanziari adottati a questo fine con un interesse particolare sull’impatto in Libia, Niger ed Egitto. Il capitolo italiano ed europeo dei fondi sulla sicurezza aumenta vorticosamente ed interessa sempre più la gestione delle frontiere all’interno e all’esterno dello spazio europeo: sistemi biometrici, moltiplicazione di missioni civili e militari impegnate nel controllo delle frontiere dalla Libia al Niger, rafforzamento del ruolo dell’Agenzia Frontex nelle operazioni di rimpatrio, meccanismi di interoperabilità dei sistemi di identificazione, elaborazioni di strumenti di sorveglianza sempre più elaborati. La gestione delle frontiere diventa un business, spingendo sempre più la politica europea e nazionale sulla migrazione verso una logica repressiva del fenomeno migratorio.

      Esternalizzare il controllo delle frontiere in Libia significa concretamente rafforzare il ruolo della Guardia Costiera Libica perché intervenga per rinviare i migranti intercettati in mare nell’inferno da cui, disperatamente, scappano. Per fare questo l’Italia ha ricevuto due tranche di contributi provenienti dal Fondo Fiduciario per l’Africa – la prima, di 46 milioni di euro, nel luglio 2017, la seconda di 45 milioni di euro nel 2018 – a cui si aggiunge il contributo annuale di 50 milioni di euro che finanziano annualmente la presenza dei nostri militari sul territorio. In Egitto la logica è simile, attraverso il supporto di competenza del Ministero dell’Interno per l’istituzione di un centro internazionale di formazione (progetto I.T.E.P.A) che prevede la “formazione della Polizia di frontiera di 22 Paesi africani per contrastare l’immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani” in un Egitto che sta, ogni giorno di più, rafforzando il suo regime autoritario. Con il Cairo l’interesse è molteplice e riguarda anche il fronte espulsione. In flagrante violazione dell’articolo 16 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata che prevede, ratificandolo come ha fatto l’Italia, di non “espellere, respingere, consegnare o estradare una persona verso uno Stato qualora esistano fondate ragioni per credere che, in tale Stato, correrebbe il pericolo di essere vittima di una sparizione forzata”. Impegno che è stato violato dall’Italia per le 294 espulsioni di cittadini egiziani nel 2018, rimandati in un paese dove le sparizioni forzate sono all’ordine del giorno.

      A farne le spese sono i migranti – obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe – a beneficio di imprese nazionali, che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e proprio business, e di politici che sull’immaginario dell’invasione basano i loro successi elettorali. L’esempio di come la politica risponda sempre di più alle esigenze delle lobby dell’industria della sicurezza risulta evidente nei corridoi e nei saloni espositivi dei congressi che da Madrid a Bruxelles, da Roma a Casablanca, sono dedicati alla sicurezza e alle frontiere come nuovo settore d’investimenti. Dal “Security Research Event” al “World Border Security Congress”, rappresentanti della Commissione Europea e delle principali industrie del settore della sicurezza si incontrano e si confrontano con l’obiettivo prioritario di “ingrandire il mercato europeo della sicurezza”, come gli stessi partecipanti al SRE di Bruxelles hanno annunciato dal palco.

      Gravissime sono le conseguenze di questa deriva delle politiche italiane ed europee: dalla normalizzazione e banalizzazione della violazione sistematica delle Convenzioni Internazionali fino ad un rischio democratico per una sempre più diffusa opacità dell’uso dei fondi. La politica sembra più interessata a rispondere agli interessi dell’industria della sicurezza, per la quale la frontiera altro non è che l’ennesimo mercato su cui investire e fare profitto -cosi come lo è da tempo la guerra- dimenticandosi del costo in termine di vite umane che ne consegue.

      https://openmigration.org/idee/il-processo-di-esternalizzazione-delle-frontiere-europee-tra-interess
      #droits_humains #droits_fondamentaux

      https://www.youtube.com/watch?v=_74gU8Fo12E

  • « Sortir du placard » quand on est gay en Russie - Russia Beyond FR
    https://fr.rbth.com/lifestyle/82905-etre-gay-russie

    Partout dans le monde, il est difficile pour des personnes nées différentes de parler de leur sexualité - en particulier en Russie, pays ayant des valeurs patriarcales très fortes. Néanmoins, les gens bravent la peur et sortent du placard.

    Selon un rapport publié en 2017 par le Centre Levada, 35% des Russes décrivent leur attitude à l’égard des homosexuels comme « très mauvaise » et 20% comme « suspicieuse ». Cela ne veut pas dire que l’homophobie est enracinée chez tous les Russes - une multitude de Russes traitent la communauté LGBT avec respect. Cependant, l’homophobie existe et pose encore de nombreux problèmes en Russie.

    #homosexualité #russie #discrimination #droits_humains

  • Le maire de #Genève rappelle qu’il est obligatoire de sauver les migrants en mer

    Sami Kanaan a signé mardi 21 mai la #Déclaration_de_Genève_sur_les_droits_de_l’Homme_en_mer. Le texte, porté par des associations, rappelle les principes de défense des droits humains. Les auteurs espèrent que la Déclaration sera signée par le plus grand nombre de maires en Europe, et qu’il provoquera une mobilisation internationale en faveur des migrants en #Méditerranée.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/17087/le-maire-de-geneve-rappelle-qu-il-est-obligatoire-de-sauver-les-migran
    #asile #migrations #sauvetage #droits_humains #droits_fondamentaux #Geneva_Declaration_on_Human_Rights_at_Sea

    ping @reka @isskein @karine4

  • Poland’s abortion ban proposal near collapse after mass protests | World news | The Guardian

    https://www.theguardian.com/world/2016/oct/05/polish-government-performs-u-turn-on-total-abortion-ban

    A controversial proposal to ban abortion in Poland appears to have collapsed after senior politicians from the ruling Law and Justice party (PiS) backed away from it after a parliamentary committee urged MPs to vote it down following mass protests.

    The justice and human rights committee, which reviews proposed legislation, recommended that parliament reject the bill following a wave of protests earlier in the week that appear to have caught the rightwing government off guard.

    In a humiliating climbdown, PiS members who had referred the legislation to the committee less than two weeks ago threw it out.

    #droits_humains #droits_des_femmes #avortement #santé

  • Comment le droit à l’avortement recule dans l’Amérique de Trump
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2019/05/17/le-droit-a-l-avortement-perd-du-terrain-aux-etats-unis_5463554_4355770.html

    Depuis le début de l’année, quatorze Etats ont signé des lois pour limiter l’accès à l’avortement quand trois Etats ont signé une loi pour protéger ce droit. L’Alabama a voté, le 14 mai, la loi la plus restrictive du pays en la matière. Elle interdit l’#avortement après six semaines de grossesse et ne prévoit pas d’exception en cas de viol ou d’inceste. Le texte a été promulgué dans la foulée par la gouverneure, Kay Ivey ; néanmoins, il n’entrera pas en application avant six mois, délai que les #anti-avortements comptent mettre à profit pour l’attaquer en justice, ce qui devrait bloquer son application pour une période indéterminée, mais sans doute pendant des années.


    #femmes #ivg #États-Unis

  • Le régime saoudien décapite 37 prisonniers politiques - World Socialist Web Site

    https://www.wsws.org/fr/articles/2019/04/26/saou-a26.html

    La dictature monarchique d’Arabie saoudite a annoncé mardi qu’elle avait procédé à un nouveau massacre, exécutant 37 personnes en public. Les exécutions avaient lieu dans les villes de Riyad, Medina et La Mecque, mais aussi dans la province centrale de Qassim et dans la province orientale du royaume.

    Ensuite, l’un des cadavres sans tête a été crucifié et laissé pendu en public comme un avertissement hideux à quiconque envisagerait même de s’opposer au pouvoir absolu de la famille royale au pouvoir.

    #arabie_saoudite #peine_de_mort #droits_humains

  • Un tribunal israélien approuve l’#expulsion du directeur de #HRW

    Un tribunal israélien a approuvé mardi une décision du ministère de l’Intérieur d’expulser le directeur local de Human Rights Watch (HRW), accusé de « soutenir le boycott d’Israël ».

    Le tribunal de Jérusalem a accordé à #Omar_Shakir, un citoyen américain, jusqu’au 1er mai prochain pour quitter le territoire, après avoir rejeté son appel contre un ordre d’expulsion. Il peut toutefois faire appel devant la cour suprême.

    le tribunal avait reporté son expulsion en mai 2018 après un recours de l’organisation de défense des droits humains contre une décision du ministère de l’Intérieur.

    Dans sa déclaration mardi, le tribunal de Jérusalem a affirmé qu’il « a été prouvé » que M. Shakir « continue à appeler publiquement au boycottage d’Israël et en même temps demander qu’il (l’Etat hébreu) lui ouvre ses portes ».

    Le ministre des Affaires stratégiques Gilad Erdan a salué la décision de la justice israélienne, précisant que c’est son ministère qui avait fourni les éléments à charge pour incriminer le directeur du HRW et recommander son expulsion.

    « Les activistes du BDS doivent réaliser qu’il y a un prix à payer pour leur activité contre Israël et ses citoyens », a ajouté le ministre.

    Les autorités israéliennes avaient indiqué en 2018 que M. Shakir était depuis des années un militant du BDS soutenant le boycott d’Israël de manière active.

    Le BDS (Boycott, désinvestissement et sanctions), l’une des bêtes noires des autorités israéliennes, est une campagne mondiale de boycott économique, culturel ou scientifique d’Israël destinée à obtenir la fin de l’occupation et de la colonisation des Territoires palestiniens.

    Le gouvernement israélien combat farouchement tout ce qui ressemble à une entreprise de boycott et en 2017, il a adopté une loi interdisant à tout militant BDS d’entrer en Israël.

    HRW a démenti que son directeur ait soutenu le BDS, et affirmé mardi vouloir saisir la cour suprême israélienne.

    Tom Porteous, adjoint au directeur des programmes de HRW, a affirmé dans un communiqué que la décision de justice constituait une « nouvelle et dangereuse interprétation de la loi » car elle assimilait la critique des entreprises opérant en Cisjordanie à un boycott d’Israël.

    https://www.lorientlejour.com/article/1166762/un-tribunal-israelien-approuve-lexpulsion-du-directeur-de-hrw.html
    #Israël
    ping @nepthys @reka

  • Une Déclaration pas si universelle

    La lutte pour les droits humains ne conduit pas toujours à l’#émancipation et à #la liberté. C’est même souvent le contraire qui est vrai, estime la chercheuse indienne #Ratna_Kapur.


    Les droits humains sont-il universels ? La question était au centre d’un débat organisé en mars dans le cadre du Festival du film et forum international sur les droits humains (FIFDH) de Genève. Parmi les intervenants, l’universitaire indienne Ratna Kapur a développé un point de vue résolument critique et féministe qui souligne les limites de luttes basées sur les droits humains.

    Professeure de droit international et chercheuse à l’université Mary Queen de Londres, elle vit entre la capitale anglaise et l’Inde, et s’intéresse en particulier aux questions de genre et d’altérité1. Ratna Kapur soutient que les droits humains ont, dès le départ, davantage servi des objectifs politiques et culturels que la condition des groupes opprimés, et ce partout dans le monde. Interview.

    Les droits humains sont-ils universels ?

    Ratna Kapur : Clairement pas. Relisez la #Déclaration_universelle_des_droits_de_l’homme et vous serez frappé par l’utilisation du pronom masculin, par une certaine conception de la #famille (nucléaire et dépendante) et du #mariage qui exclut d’emblée d’autres modèles, par exemple.

    Rappelons par ailleurs que le comité de rédacteurs de la Déclaration [adoptée en 1948] n’incluait pas de représentants des gros deux tiers de la planète qui étaient encore sous le règne colonial ou sous le joug de la ségrégation ou de son héritage. Dans certaines parties du monde, les #femmes n’avaient pas accès à la propriété ni au droit de vote. Ces auteurs portaient une perspective paternaliste, en affirmant savoir ce qui est bon pour les autres, qui remonte au #colonialisme : « Nous, les pays civilisés, savons ce qui est bon pour vous. »

    Pourtant, la plupart des droits contenus dans la Déclaration paraissent couler de source. Le droit à la vie, le droit à la santé ou à la liberté d’expression ne seraient pas universels ?

    Le droit à la vie, pour ne prendre que celui-ci, est très contesté : il y a différents points de vue sur l’avortement et la peine de mort. Plus fondamentalement, si nous pensions vraiment que les droits humains étaient universels, les migrants qui traversent la Méditerranée pour se rendre en Europe auraient le droit à la vie, n’est-ce pas ? En réalité, on conditionne les droits, on bricole des justifications pour ne pas les octroyer à certains groupes – les réfugiés et les homosexuels, par exemple. Les droits sont toujours négociés selon certains critères. Tant que nous nous conformons à ces critères, tout va bien, mais s’ils apparaissent remis en cause ou menacés, les droits ne s’appliquent plus. Il y aura toujours une justification pour dénier des droits. Pour en bénéficier, les « non-Blancs », par exemple, doivent prouver leur capacité à s’assimiler.

    Vous faites référence à cet égard à l’exemple de l’interdiction du voile intégral en France…

    Oui, certaines féministes ont décrété que c’était un signe de soumission. Pourtant, selon des musulmanes qui désiraient porter ce voile, le fait de ne pas montrer son visage est un moyen de tourner son attention vers l’intérieur de soi-même. C’est une toute autre philosophie et une éthique de vie. Pourquoi ne pas les écouter ?

    Après l’interdiction en 2011, des femmes sont allées voilées dans l’espace public, dans le but ensuite de pouvoir saisir la Cour européenne des droits de l’homme pour faire valoir leur droit. En 2014, la Cour a statué que le port du voile intégral contrevenait aux politiques démocratiques de cohésion sociale et au vivre-ensemble. Pourtant, il n’existe rien de tel dans la Convention européenne des droits humains. Il s’agit donc bien là d’une décision politique. De même, quand des policiers armés et vêtus de gilets pare-balles ont envahi les plages pour ordonner à des femmes en burkini de se dévêtir, ce ne sont pas les droits humains qui sont en jeu.

    Est-ce les droits humains eux-mêmes que vous mettez en cause ? Ou leur instrumentalisation ?

    Aucune loi, aucun droit, ne peut être appréhendé hors de son contexte historique. Invariablement, les droits humains, façonnés par l’homme blanc, ont fonctionné en dénigrant certaines communautés, en les faisant passer pour « non civilisées ». Cet aspect est constitutif des droits humains, la raison pour laquelle ils ont été façonnés.

    Prenons un autre exemple : l’égalité entre femmes et hommes. Il s’agit de définir ce qu’est l’égalité. Surgit alors la question conflictuelle : sont-ils différents ? Et ensuite, s’ils le sont : différents par rapport à qui ? Aux hommes hétérosexuels ? Aux hommes blancs ? Aux hommes mariés ? Qui représente le standard de la similitude ?

    Longtemps, on a justifié le refus d’accorder le droit de vote aux femmes avec l’argument qu’elles étaient différentes des hommes. Idem pour les personnes homosexuelles qui réclament le droit à l’égalité. Si vous ne pouvez prouver que vous appartenez à la catégorie de référence, vous êtes traités différemment. Je constate que l’universalité cache en réalité cette conception sous le couvert de la neutralité.

    A vos yeux, les droits humains ne sont-ils pas un instrument utile ?

    Si, nous en avons besoin, et ils peuvent être des outils radicaux. Je dis simplement que nous devons leur porter un autre regard : comprendre que les droits sont une construction politique et un lieu de pouvoir. Tout le monde peut les manier. Ils peuvent donner plus de pouvoir à l’Etat, à la police ou aux ONG, et pas forcément aux personnes qui en ont besoin – ils peuvent même être exploités pour les affaiblir. Ce ne sont pas toujours les « gentils » qui gagnent.

    Par conséquent, nous devons nous ôter de la tête que les droits humains sont nécessairement progressistes en eux-mêmes et nous engager politiquement avec eux. C’est parce que les droits humains sont trop souvent utilisés dans une perspective quelque peu naïve que nous perdons sans cesse.

    #droits_humains #universalité #universalisme #paternalisme #néo-colonialisme #droit_à_la_vie #avortement #peine_de_mort #droits #voile #burkini #civilisation #égalité #neutralité #pouvoir

  • L’ONU condamne la Suisse pour l’examen lacunaire de la demande d’asile d’un ressortissant érythréen
    https://asile.ch/2019/04/09/lonu-condamne-la-suisse-pour-lexamen-lacunaire-de-la-demande-dasile-dun-ressor

    Le 7 décembre 2018, le Comité contre la torture (CAT) a déclaré que la décision de renvoi prise par la Suisse envers un requérant érythréen violait la Convention de l’ONU contre la torture (M.G. c. Suisse, Communication n° 811/2017). Dans sa plainte au CAT, le requérant invoque le risque de subir des mauvais traitements (violation […]

    • Renvois impossibles vers l’Érythrée, des solutions pragmatiques s’imposent

      Aujourd’hui une manifestation a eu lieu à l’occasion de la remise d’une Pétition adressée au Grand Conseil et au Conseil d’Etat de Genève. Cette pétition, signée par près de 4’000 personnes, soutient les requérants Érythréens déboutés de l’asile et démis de leur permis F (Admission provisoire).

      Les signataires comme moi considèrent que les conditions ne sont pas réunies pour organiser des renvois vers l’Érythrée et que cette politique ne fait que grossir le nombre de personnes à l’aide d’urgence encourageant la clandestinité de jeunes dont beaucoup ont déjà fait leurs preuves dans le monde professionnel en Suisse.

      La pétition “Droit de rester pour les Érythréen-e-s” demande aux autorités politiques genevoises de ne pas exclure de l’aide sociale cette population et d’éviter leur précarisation. Elle demande aussi d’autoriser les Érythréens déboutés à poursuivre leur formation dans le canton et de leur permettre de travailler à Genève. Elle prie les autorités cantonales d’intervenir auprès du Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) pour qu’il suspende les levées d’admissions provisoires et pour qu’il accorde aux Érythréens le droit de rester en Suisse en mettant en place une action de régularisation extraordinaire.

      Gardons à l’esprit que le SEM est dans l’incapacité d’organiser des renvois vers l’Érythrée. La Suisse est aussi le seul pays à rendre des décisions de renvoi à l’égard des ressortissants Érythréens.

      Revirement politique vis-à-vis des requérants Érythréens

      En s’appuyant sur plusieurs jugements du Tribunal administratif fédéral (TAF) en 2017 et en 2018 (1) et sur des informations impossibles à vérifier sérieusement sur le terrain, le Secrétariat d’État aux migrations (SEM) a modifié drastiquement sa politique vis-à-vis des requérants d’asile originaires de ce pays connu pour avoir l’un des pires bilans en matière de violations des droits humains.

      Depuis, beaucoup d’Érythréens ont reçu des décisions de renvoi et le SEM réexamine aussi depuis avril 2018 les dossiers de 3000 personnes admis à titre provisoire (Permis F) qui résident en Suisse depuis déjà quelques années.

      Un rapport de l’Observatoire romand du droit d’asile et des étrangers (ODAE) explique ce durcissement en se basant sur des cas concrets. Le rapport intitulé “Durcissement à l’encontre des Érythréen·ne·s : une communauté sous pression“ explique la dérive juridique que cette politique pose sur le droit d’asile en général.

      Trouver des solutions pragmatiques

      La protection des requérants d’asile et des réfugiés à Genève et en Suisse est trop souvent abordée de manière partisane ce qui nuit aux requérants d’asile en général mais aussi aux contribuables suisses et étrangers résidents dans notre pays. Pourquoi ? Parce que les décisions des autorités d’asile peuvent s’avérer incohérentes, inefficaces, dangereuses pour les personnes concernées et finalement coûteuses pour les PME en Suisse qui ont commencé à former des apprentis performants et appliqués. Ces décisions ont aussi un impact négatif sur les cantons qui allouent des subventions importantes dans des programmes d’intégration de personnes maintenant déboutées et pourtant utiles au développement économique de la Suisse.

      Faire disparaître ces personnes dans la clandestinité n’est pas une option intelligente. En ce qui concerne les personnes érythréennes déboutées de l’asile et en ce qui concerne les personnes érythréennes démises de leur permis F (admission provisoire) qui ne peuvent plus travailler ou continuer leurs formations, les femmes et les hommes politiques de Genève ont l’occasion de décider s’il est préférable que les Érythréens restent dans la lumière et ne soient pas forcés à la clandestinité en Suisse. Elles et ils ont l’opportunité de décider en faveur de la continuation de leur formation et de leur emploi puisque les renvois vers l’Érythrée sont impossibles.

      Pas besoin de montrer une quelconque humanité ou même une fibre sociale. Il suffit d’être pragmatique et penser aux rentrées fiscales, à la baisse des coûts, aux futurs talents qui feront la joie des Suisses.

      https://blogs.letemps.ch/jasmine-caye/2019/04/10/renvois-impossibles-vers-lerythree-des-solutions-pragmatiques-simposen

    • Près de 4’000 signatures pour le droit de rester des Erythréennes et des Erythréens

      Les milieux de défense du droit d’asile déposent aujourd’hui une pétition adressée au Grand Conseil et au Conseil d’Etat en faveur du droit de rester des Erythréennes et des Erythréens. Lancée à la mi-décembre, celle-ci a récolté près de 4’000 signatures en moins de quatre mois. Un rassemblement a lieu aujourd’hui à 16h devant l’UIT, où se réunit le Grand Conseil, suivi d’un cortège vers la Place des Nations. Il est organisé par des jeunes hommes et femmes érythréen-ne-s en demande d’asile, épaulé-e-s par des bénévoles et les associations de la Coordination asile.ge. Les manifestants iront ensuite jusqu’à la place des Nations, rappelant que le Comité onusien contre la Torture a récemment condamné la Suisse pour une décision de renvoi vers l’Erythrée.

      Ces dernières années, de nombreux-ses Érythréennes et Érythréens ont demandé l’asile à la Suisse. La plupart d’entre eux sont jeunes, beaucoup sont arrivé-e-s mineur-e-s sur le sol helvétique. Nombreux sont ceux-celles qui voient désormais leur demande d’asile rejetée. Or, cela les condamne non seulement à l’angoisse d’un renvoi (même si aucun renvoi forcé vers l’Érythrée n’est aujourd’hui possible en l’absence d’accord de réadmission), mais cela les plonge également dans la précarité, du fait de l’exclusion de l’aide sociale qui frappe les débouté-e-s de l’asile. Tous leurs efforts d’intégration sont alors anéantis.

      Quelque 3’890 signataires (dont 1’417 signatures électroniques), demandent aux autorités politiques cantonales genevoises compétentes :

      De ne pas exclure de l’aide sociale cette population jeune et pleine de perspectives. L’aide d’urgence les précarisera, quel que soit l’issue de leur procédure.
      D’autoriser les Érythréennes et Érythréens déboutés à poursuivre leur formation dans le canton.
      De permettre aux Érythréennes et Érythréens déboutés de pouvoir exercer un travail rémunéré à Genève.

      De s’engager auprès du Secrétariat d’Etat aux Migrations afin :

      qu’il suspende les levées d’admissions provisoires
      qu’il accorde aux Érythréennes et Érythréens le droit de rester en Suisse, avec un permis F ou un permis B, avec effet immédiat et rétroactif.
      qu’il sollicite le SEM pour mettre en place une action de régularisation extraordinaire.

      De son côté, le Comité contre la torture des Nations unies, dans une décision datée du 7 décembre 2018, a estimé que le renvoi d’un requérant érythréen dans son pays constitue « une violation de la Convention contre la torture ». La décision ne concerne qu’un seul cas, celui d’un réfugié érythréen à qui la Suisse a refusé l’asile, et le Comité ne demande pas à la Suisse de lui octroyer l’asile mais uniquement de « réexaminer le dossier ». Cependant, les considérants de la décision sont clairs : le CAT conteste la vision angélique de la Suisse sur le régime érythréen et s’oppose à la pratique helvétique de renvoi des réfugiés érythréens ; il cite notamment la Rapporteuse spéciale de l’ONU sur les droits de l’homme en Erythrée, pour laquelle « la situation reste sombre » dans ce pays.

      Le Comité se base aussi sur la Commission d’enquête sur les droits de l’homme en Erythrée, qui rappelle que « la durée du service militaire (…) reste indéterminée » et qui suspecte cette pratique de « constituer pas moins que l’asservissement d’une population entière, et donc un crime contre l’humanité ». Manifestement, l’ONU, par la voix de sa Commission d’enquête, juge la situation des droits de l’homme en Erythrée pour le moins problématique. Relevons qu’avec sa pratique, la Suisse est le seul pays européen qui prend des décisions de renvoi pour les Érythréennes et Érythréens. Les pays européens octroient tous une protection aux demandeurs d’asile érythréens, conformément aux recommandations du HCR.

      La Suisse n’exécutera aucun renvoi vers l’Erythrée avant d’avoir signé un improbable accord de réadmission avec cette dictature. Elle s’enfonce donc dans une situation absurde et pernicieuse : elle refuse l’asile aux requérants érythréens, ordonne leurs renvois mais ne les exécute pas. Elle alimente ainsi une nouvelle catégorie de réfugiés sans aucuns droits, qui ne peuvent ni voyager, ni travailler, ni étudier, tout juste respirer.

      https://mailchi.mp/87f6559070a8/restructuration-de-lasile-le-csp-genve-plus-que-jamais-engag-auprs-des-rfugi

    • CSDM | Requérant.e.s d’asile erythréen.ne.s : la Suisse viole le droit international

      Le Centre Suisse pour la défense des Droits des Migrants (CSDM) a saisi les procédures spéciales du #Conseil_des_droits_de_l’homme des Nations Unies à propos de la pratique des autorités suisses de nier la protection internationale aux ressortissant-e-s érythréen-ne-s. Dans leur #Appel_Urgent (https://asile.ch/wp/wp-content/uploads/2019/05/Appel-Urgent-Erythree-CSDM-14.05.2019.pdf), ils demandent aux Rapporteurs spéciaux, sur la situation des droits humains en Érythrée, sur la torture et sur les droits humains des migrants, d’intervenir en urgence auprès des autorités suisses pour prévenir les violations graves des droits fondamentaux ainsi que la précarisation sociale des demandeur-e-s d’asile érythréen-ne-s. Par le biais de cette démarche, le CSDM soutient les revendications du réseau de Familles-relais/familles de parrainages pour les requérants d’asile qui a récemment interpellé les Rapporteurs spéciaux au sujet de cette problématique.


      https://asile.ch/2019/05/23/csdm-requerant-e-s-dasile-erythreen-ne-s-la-suisse-viole-le-droit-internationa
      #justice #ONU #droits_fondamentaux #droits_humains #appel

    • Le #Mouvement_érythréen de #Genève appelle à manifester
      https://renverse.co/home/chroot_ml/ml-geneve/ml-geneve/public_html/local/cache-gd2/40/5469f7729bcf3651daa233cfb75ae1.png?1569796643

      Le Mouvement érythréen de Genève appelle à un rassemblement de solidarité avec les personnes sur les routes de l’exil, bloquées en Libye, aux portes de l’Europe. Rendez-vous le vendredi 4 octobre 2019 de 12h à 16h à la Place des Nations, Genève.

      Aujourd’hui des gens côtoient des cadavres du matin au soir

      De nos sœurs et de nos frères bloqué.e.s en Libye, nous, établi.e.s ici en Europe et en Suisse, recevons des récits d’une telle violence et des images tellement choquantes. Des personnes érythréennes, somaliennes, éthiopiennes, soudanaises et provenant d’autres régions d’Afrique survivent captives en Libye, dans des zones où l’insécurité permanente règne. Même les camps mis en place par le HCR (High Commissioner for Refugees) pour offrir une protection ne sont plus des espaces où trouver la sécurité. Le degré de misère, de détresse et de violence auquel ces personnes bloquées aux portes de l’Europe sont soumises, nul ne pourrait le souhaiter à des êtres humains. Capturées par des passeurs ou des milices, leur souffrance prend trop de formes : des viols et des tortures ont lieu jours et nuits. Dans une vidéo reçue cet été, des femmes captives en Libye nous suppliaient : « Parlez de nous ! On est torturées. On est violées. On est vos sœurs et vos filles ! » La douleur que cela engendre chez nous est difficile à décrire. Cela en devient irréel.

      Aujourd’hui des gens côtoient des cadavres du matin au soir. Les corps de certaines personnes mortes en essayant de traverser la Méditerranée reviennent sur les rives libyennes où d’autres personnes en exil sont encore captives. Lorsque ces dernières ont la permission d’aller faire leurs besoins aux bords de la mer, il n’est pas rare qu’elles côtoient des cadavres échoués. Elles n’ont pas de quoi enterrer ces morts et les passeurs ou les milices - difficile de comprendre de qui il s’agit précisément - ne laissent pas nos frères et nos sœurs enterrer ces corps. Des paroles remontent à nous par téléphone, par vidéo, par messages : « Sauvez nous ! Ne nous laissez pas vivre à côté des cadavres des nôtres ! Au moins, laissez-nous enterrer nos morts ! »

      Responsabilités

      Comment est-ce possible qu’au 21e siècle des personnes ayant pris les chemins de l’exil subissent encore maltraitances, tortures et viols ? Comment être témoin de cela et ne rien faire ? Comment assumerons-nous cela devant les générations futures ? Notre responsabilité est de ne pas fermer nos yeux et de dénoncer cette situation.

      Ces pratiques d’une violence inouïe sont en train d’être banalisées par le silence complice des pays européens et des organisations internationales impliquées dans la migration. Ces mêmes acteurs portent une responsabilité indéniable dans ce qui a mené à créer cette situation. Leur responsabilité prend plusieurs formes. Les politiques migratoires des États européens ont mené à la fermeture de leurs frontières et aux drames humains en Méditerranée. Leur financement de la gestion par le gouvernement libyen des routes d’accès à l’Europe engendre les atrocités perpétrées actuellement dans les terres et sur les côtes libyennes. On normalise ces faits. Devenons-nous aveugles ?

      Si des milliers de personnes quittent leur pays pour différentes raisons et empruntent une route dangereuse et meurtrière en connaissance du danger, c’est bien parce qu’elles n’ont plus d’espoir de mener une vie humaine dans le lieu qu’elles fuient. Et dans leur recherche de dignité humaine, elles sont soumises à la barbarie, frappées, humiliées, enfermées, sauvagement torturées et violées. Les frontières de l’Europe s’étant fermées, ces personnes en exil sont les proies des passeurs et des milices.

      L’Europe ne peut pas refuser l’entrée à des êtres humains qui ne demandent qu’à vivre une existence digne.

      Nous appelons

      la communauté internationale, à accorder un couloir humanitaire de toute urgence jusqu’à ce que ces personnes en exil trouvent refuge dans d’autres pays. La communauté internationale doit prendre sa responsabilité face à ces populations.

      la Suisse et les pays européens à ouvrir leurs portes aux personnes fuyant la persécution et cherchant une vie digne. La Suisse et l’Europe doivent cesser de fermer les yeux sur ce qui se passe en Libye.

      les gouvernements européens à cesser de soutenir le gouvernement libyen en lui sous-traitant leur politique migratoire, car ce faisant ils sont responsables des atrocités qui ont lieu là-bas.

      Rassemblons-nous à la place des Nations à Genève le vendredi 4 octobre 2019 entre 12h et 16h pour manifester notre solidarité envers les personnes en exil bloquées en Libye et pour exiger la fin de cette situation dramatique aux portes de l’Europe.

      https://renverse.co/Le-Mouvement-erythreen-de-Geneve-appelle-a-manifester-2215
      #résistance #manifestation

    • NCCR | Durcissements à l’encontre des Érythréen·ne·s : une communauté sous pression

      Dans un rapport publié en novembre 2018, et une actualisation de celui-ci à paraître cet hiver, l’Observatoire romand du droit d’asile et des étrangers (l’ODAE romand) met en lumière les durcissements du droit d’asile qui visent actuellement les Érythréen·ne·s, le groupe le plus représenté dans le domaine de l’asile en Suisse et en proie à des attaques politiques depuis plusieurs années.

      Après que les autorités suisses ont durci leur pratique à l’encontre des Érythréen·ne·s en 2017, nombreux·euses sont ceux et celles qui reçoivent des décisions négatives à leurs demandes d’asile. Dans un rapport publié en novembre 2018, et une actualisation de celui-ci à paraître cet hiver, l’Observatoire romand du droit d’asile et des étrangers (l’ODAE romand) met en lumière les durcissements du droit d’asile qui visent actuellement les Érythréen·ne·s, le groupe le plus représenté dans le domaine de l’asile en Suisse et en proie à des attaques politiques depuis plusieurs années.

      De la politisation au durcissement légal

      La situation des Érythréen·nes occupe une place importante sur la scène politique suisse, notamment depuis un arrêt de la Commission suisse de recours en matière d’asile (CRA) (JICRA 2006/3 du 20 décembre 2005) selon lequel les objecteurs·rices de conscience et les déserteurs·ses érythréen·ne·s doivent se voir en général accorder l’asile. Dans les années qui suivent, près de 70% des Érythréen·ne·s obtiennent l’asile et l’Érythrée devient le premier pays d’origine des personnes requérantes d’asile en Suisse. Dès 2007, Christoph Blocher (l’Union démocratique du centre – UDC), alors conseiller fédéral en charge du Département fédéral de justice et police (DFJP), estime qu’il faut réagir à cette situation et demande des mesures rigoureuses pour lutter contre l’« effet d’attraction » de l’arrêt précité.

      En 2007 et 2008, l’UDC dépose devant le Parlement deux interpellations (07.3178 et 08.3353) qui présentent « l’augmentation massive » de la population érythréenne comme une « tendance effrayante » et « un abus du système de l’asile » devant être stoppés. Les années suivantes, la politisation de la question érythréenne prend de l’ampleur : de nombreuses questions, interpellations et autres motions sont lancées par des parlementaires de différents horizons politiques. L’UDC en dépose une trentaine et le PLR une dizaine, remettant en cause l’octroi d’une protection aux Érythréen·ne·s, demandant de réduire l’« attractivité de la Suisse » pour cette communauté et réclamant l’exécution des renvois vers l’Érythrée (voir par exemple la motion 15.3566 ou encore l’interpellation 18.3406). Les Érythréen·ne·s y sont souvent décrit∙e∙s comme des « abuseurs » qui mettent en danger la politique d’asile et le système social suisse.

      Dans ce contexte et dans le cadre des modifications urgentes de la loi sur l’asile (LAsi) qui prennent effet en 2012, les autorités introduisent une modification de l’article 3 LAsi qui exclut la désertion et l’objection de conscience comme motifs d’asile. La disposition, surnommée « lex Eritrea » dans le débat public, vise avant tout les requérant∙e∙s érythréen∙ne∙s et a une grande portée symbolique, selon plusieurs analystes.

      Des durcissements juridiques progressifs

      La pression politique exercée sur les personnes demandeuses d’asile érythréennes, le discours de « lutte contre les abus » et de « réduction de l’attractivité de la Suisse » auront également un impact sur la pratique des autorités en charge de la mise en œuvre du droit d’asile. En 2016, suite à son rapport Focus Eritrea sur le service national érythréen et la sortie illégale du pays, le Secrétariat d’État aux migrations (SEM) durcit sa pratique, en décidant que la sortie illégale du pays n’est plus suffisante en soi pour obtenir la qualité de refugié·e. Un durcissement qui sera confirmé par le Tribunal administratif fédéral (TAF) dans trois arrêts de référence. Le premier (D-7898/2015), de janvier 2017, confirme la pratique du SEM concernant la sortie illégale. En août 2017, le TAF se penche sur la question de l’exigibilité de l’exécution du renvoi pour les per­sonnes ayant déjà répondu à leurs obligations militaires et conclut que ces personnes ne risquent pas de traitement inhumain en cas de renvoi. Dans cet arrêt (D-2311/2016), le TAF estime aussi que l’Érythrée ne se trouve pas en proie à une situation de violence généralisée qui dicterait de présumer une inexigibilité générale de l’exécution du renvoi. Dans un troisième arrêt (ATAF 2018 VI/4) de juillet 2018, le TAF conclut à la licéité et à l’exigibilité des renvois y compris pour des personnes n’ayant pas encore effectué leur service militaire national. Le TAF estime que les conditions du service national sont difficiles en raison de sa durée et des mauvais traitements qui y prévalent, mais conclut que les violations ne sont pas suffisamment systématiques pour qualifier le service national de contraire à la Convention européenne des droits de l’homme (CEDH).

      La situation a-t-elle vraiment changé en Érythrée ces dernières années ? En dépit d’un accord de paix signé avec l’Éthiopie voisine, rien ne montre que la situation des droits humains se soit améliorée. Un certain nombre de rapports, que ce soit celui de l’European Asylum Support Office (EASO) ou ceux de la rapporteuse spéciale sur la situation des droits humains en Érythrée, confirment que la situation érythréenne n’a pas évolué. Mais c’est surtout la difficulté à trouver des informations fiables et indépendantes sur ce qu’il s’y passe réellement qui persiste. Une incertitude elle-même reconnue par le TAF dans son arrêt de janvier 2017 qui qualifie l’Érythrée de « boîte noire ». Quant à l’analyse de la situation qui est présentée dans les trois arrêts du TAF, elle « aurait aussi bien pu amener à prendre des décisions diamétralement opposées à celles retenues par les juges du TAF », selon une chercheuse et un chercheur de l’Université de Neuchâtel (Mariotti et Rosset 2020).

      Des exigences accrues en matière de vraisemblance

      Dans la pratique, les durcissements se traduisent également par une appréciation toujours plus exigeante des motifs d’asile invoqués par les personnes. Le changement de pratique institutionnelle demande aux fonctionnaires et aux juges chargé·e·s d’appliquer le droit d’asile d’être plus attentifs·ves à la possibilité d’un retour en Érythrée, et donc plus suspicieux∙ses vis-à-vis des dires des requérant·e·s. Notre lecture des arrêts du TAF publiés en français en 2019 pour les ressortissant·e·s érythréen·ne·s montre ainsi que plus de deux tiers des arrêts négatifs ont été rendus sur la base de l’invraisemblance des motifs d’asile. En d’autres termes, les Érythréen·ne·s se retrouvent davantage confronté·e·s à la « politique institutionnalisée du soupçon » qui caractérise l’examen des demandes d’asile (Affolter 2017 ; Miaz 2020). Et comme toutes les personnes demandeuses d’asile, ils et elles rencontrent de grandes difficultés à remplir les exigences de vraisemblance, pour diverses raisons : départ à un âge très jeune, traumatismes liés à la route de l’exil, paranoïa et méfiance vis-à-vis de l’autorité, méconnaissance de ses droits et du déroulement d’une procédure administrative, temps écoulé entre les faits et le moment des auditions sur les motifs d’asile, etc.

      Des conséquences dramatiques

      Malgré l’absence d’accord de réadmission avec l’Érythrée et donc l’impossibilité d’effectuer des renvois forcés, les décisions de renvois continuent de tomber, avec différentes conséquences pour les personnes concernées. Pour celles et ceux qui décident de rester en Suisse, leur seule perspective réside alors dans la précarité du régime de l’aide d’urgence. Parfois depuis plusieurs années en Suisse, ces personnes sont interdites de séjour, privées d’aide sociale, de mesure d’intégration, du droit de travailler ou de se former. Au vu de cette situation, certain·e·s décident de tenter leur chance ailleurs en Europe. Un phénomène qui entraîne, d’une part, un report de l’accueil sur les autres pays européens, et d’autre part une plongée dans l’incertitude et l’errance, car le risque d’un refoulement vers la Suisse n’est jamais absent.

      Ce résumé de la situation permet non seulement de questionner le coût humain et social de ces durcissements visant une communauté particulière. Mais plus généralement, l’exemple érythréen montre la force des discours de « lutte contre les abus » et de « réduction de l’attractivité de la Suisse » sur les pouvoirs législatifs, judiciaires et exécutifs dans le domaine de l’asile (Leyvraz et al. 2020). Il est frappant de constater comment différents instruments juridiques et pratiques des autorités – réserve à la définition de réfugié·e, appréciation de la situation dans le pays d’origine, examen de la vraisemblance, régime d’aide d’urgence – se conjuguent pour répondre à une volonté de contrôle migratoire, au risque d’en mépriser les conséquences humaines et le besoin de protection des personnes concernées.

      Références :

      – Affolter, Laura (2017). Protecting the System. Decision-Making in a Swiss Asylum Administration, thèse de doctorat en anthropologie, Université de Berne.
      – Leyvraz, Anne-Cécile et al. (dir.) (2020). Asile et abus : regards pluridisciplinaires sur un discours dominant, Zurich et Genève, Seismo, 193-218.
      – Mariotti, Aurélie et Rosset, Damian (2020). « L’analyse-pays et les “précédents factuels” dans la jurisprudence du Tribunal administratif fédéral sur l’Érythrée : entre ombre et lumière », Asyl,vol. 2/2020, 3-9.
      –Miaz, Jonathan (2020). « De la “lutte contre les abus” aux dispositifs et pratiques de contrôle des demandes d’asile », in Leyvraz, Anne-Cécile et al. (dir.), Asile et abus : regards pluridisciplinaires sur un discours dominant, Zurich et Genève, Seismo, 193-218.

      https://asile.ch/2020/10/30/nccr-durcissements-a-lencontre-des-erythreen%c2%b7ne%c2%b7s-une-communaute-sou

  • First #Geneva_Declaration_on_Human_Rights_at_Sea published

    The first version of the inaugural ‘Geneva Declaration on Human Rights at Sea‘ is today published by Human Rights at Sea after the initial drafting session was held in Switzerland on 20-21 March 2019 at the Graduate Instiute of International and Development Studies, Geneva.

    The Declaration was first announced to students in Malta on 4 April at the IMO International Maritime Law Institute (IMLI) during the second Human Rights and the Law of the Sea workshop held in co-ordination with the Stockton Centre for International Law; and today will be briefed at the World Maritime University, Malmo, Sweden during the Empowering Women in the Maritime Community conference by the charity’s Iranian researcher, Sayedeh Hajar Hejazi.

    The principal aim of the Declaration is to raise global awareness of the abuse of human rights at sea and to mobilise a concerted international effort to put an end to it.

    It recognises established International Human Rights Law and International Maritime Law, highlights the applicable legal assumptions, and reflects the emerging development and customary use of the increased cross-over of the two bodies of law.

    The concept of human rights at sea rests on four fundamental principles: 1. Human rights apply at sea to exactly the same degree and extent that they do on land. 2. All persons at sea, without any distinction, enjoy human rights at sea. 3. There are no maritime specific rules allowing derogation from human rights standards. 4. All human rights established under treaty and customary international law must be respected at sea.

    The core drafting team comprises: Professor Anna Petrig, LL.M. (Harvard), University of Basel, Switzerland, Professor Irini Papanicolopulu, University of Milano-Bicocca, Italy, Professor Steven Haines, Greenwich University, United Kingdom and David Hammond Esq. BSc (Hons), PgDL, Human Rights at Sea, United Kingdom. It is supported by Elisabeth Mavropoulou LL.M. (Westminster), Sayedeh Hajar Hejazi LL.M. (Symbiosis India).

    The first drafting round was supported with input and observers from multiple UN agencies, leading human rights lawyers, international and civil society organisations.

    The second drafting session will be held in Geneva in May.


    https://www.humanrightsatsea.org/2019/04/05/first-geneva-declaration-on-human-rights-at-sea-published
    #mer #droits_humains #déclaration
    ping @reka @simplicissimus

    Pour télécharger la déclaration :
    https://www.humanrightsatsea.org/wp-content/uploads/2019/04/HRAS_GENEVA_DECLARATION_ON_HUMAN_RIGHTS_AT_SEA_5_April_2019_Versio

  • Votes for Women : A Portrait of Persistence | National Portrait Gallery

    https://npg.si.edu/exhibition/votes-for-women

    https://artsandculture.google.com/exhibit/2AKyZX3r7pZoJA

    Votes for Women: A Portrait of Persistence” will outline the more than 80-year movement for women to obtain the right to vote as part of the larger struggle for equality that continued through the 1965 Civil Rights Act and arguably lingers today. The presentation is divided chronologically and thematically to address “Radical Women: 1832–1869,” “Women Activists: 1870–1892,” “The New Woman: 1893–1912,” “Compelling Tactics: 1913–1916,” “Militancy in the American Suffragist Movement: 1917–1919” and “The Nineteenth Amendment and Its Legacy.” These thematic explorations are complemented by a chronological narrative of visual biographies of some of the movement’s most influential leaders.

    On view will be portraits of the movement’s pioneers, notably Susan B. Anthony and abolitionist Sojourner Truth, and 1848 Seneca Falls participants, including Elizabeth Cady Stanton and Lucy Stone. Other portraits of activists will represent such figures as Victoria Woodhull, the first woman to run for President; Carrie Chapman Catt, who devised successful state-by-state persuasion efforts; Alice Paul, who organized the first-ever march on Washington’s National Mall; and Lucy Burns, who served six different prison sentences for picketing the White House.

    Avec trois documents très intéressants dans cette remarquable exposition :

    Et cette carte thématique commentée

    #droits_civiques #droits_humains #droit_de_vote #droit_des_femmes #féminisme #états-unis

  • L’ONG #Sea-Eye va identifier les embarcations en détresse grâce aux #images_satellites

    L’ONG allemande Sea-Eye se lance dans un nouveau projet : le #Space-Eye. Objectif : utiliser les images satellites d’une société privée pour alerter sur la présence de migrants en détresse au large de la Libye, et documenter d’éventuelles violations des droits de l’Homme.

    Après les navires humanitaires et les avions de reconnaissance qui sillonnent les côtes libyennes à la recherche d’embarcations de migrants en détresse, Sea-Eye s’intéresse désormais aux images satellite avec un nouveau projet, Space-Eye. L’ONG allemande vient de signer un contrat avec Planet, une société privée américaine de fournisseur d’images satellites, afin de surveiller les côtes libyennes.

    Les images satellites fournies permettront à Sea-Eye d’alerter les ONG présentes au large de la Libye ou le MRCC italien et maltais, lorsqu’un navire est en difficulté.

    Mais ce n’est pas la seule mission que s’est donné Space-Eye. L’ONG cherche aussi à recenser les canots qui n’ont pas pu être secourus ; comment ? En comparant les images satellites actuelles à celles plus anciennes. En effet, #Planet peut fournir des images remontant sur plusieurs années, qu’elle garde en stock.

    « On veut ainsi vérifier si Frontex [garde-côtes européens, ndlr] vient secourir les migrants ou non lorsqu’ils reçoivent un appel de détresse. On a des doutes. Avec les images satellites et les signaux émis par Frontex, on pourra y voir plus clair », explique à InfoMigrants Hans-Peter Buschheuer, chargé de la communication de Space-Eye.

    La zone de surveillance définie englobe 4 500 kilomètres, au large des côtes libyennes. Elle s’étend sur 100 km de long et 30 km de large, au plus près de la région où les départs sont les plus importants.

    Pour l’ONG, ce projet est nécessaire car la politique européenne les inquiète. En effet, l’Italie n’accueille plus aucun navire sur son sol depuis l’arrivée au pouvoir de Matteo Salvini l’année dernière. Pire, les navires humanitaires sont régulièrement maintenus à quai dans les ports européens. « On pense qu’à terme il n’y aura plus aucun navire humanitaire dans la zone et que les avions comme le #Moonbird seront cloués au sol. Les images satellites seront le seul moyen de surveiller ce qu’il se passe le long des côtes libyennes », précise encore Hans-Peter Buschheuer.
    Space-Eye espère publier un rapport sur d’éventuelles violations des droits de l’Homme au large de la Libye dans les prochains mois.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/15933/l-ong-sea-eye-va-identifier-les-embarcations-en-detresse-grace-aux-ima
    #sauvetage #Méditerranée #ONG #asile #migrations #réfugiés #nouvelle_stratégie #droits_humains #forensic_architecture

    métaliste ici :
    https://seenthis.net/messages/706177

  • EU to end ship patrols in scaled down Operation Sophia

    The European Union will cease the maritime patrols that have rescued thousands of migrants making the perilous Mediterranean Sea crossing from North Africa to Europe, but it will extend air missions, two diplomats said on Tuesday (26 March).

    A new agreement on the EU’s Operation Sophia was hammered out after Italy, where anti-migrant sentiment is rising, said it would no longer receive those rescued at sea.

    Operation Sophia’s mandate was due to expire on Sunday but should now continue for another six months with the same aim of deterring people smugglers in the Mediterranean. But it will no longer deploy ships, instead relying on air patrols and closer coordination with Libya, the diplomats said.

    “It is awkward, but this was the only way forward given Italy’s position, because nobody wanted the Sophia mission completely shut down,” one EU diplomat said.

    A second diplomat confirmed a deal had been reached and said it must be endorsed by all EU governments on Wednesday.

    The tentative deal, however, could weaken Operation Sophia’s role in saving lives in the sea where nearly 2,300 people perished last year, according to United Nations figures.

    From the more than one million refugees and migrants who made it to the bloc during a 2015 crisis, sea arrivals dropped to 141,500 people in 2018, according to the United Nations.

    Still, Italy’s deputy prime minister Matteo Salvini, has said his country would no longer be the main point of disembarkation for people trying to cross the Mediterranean by boat and rescued by Sophia’s patrol ships.

    Rome called for other countries to open up their ports instead, but no other EU states came forward. Diplomats said countries including Spain, France and Germany signalled they were not willing to host more rescued people – most of whom are fleeing wars and poverty in Africa and the Middle East.

    However, EU governments did want the mission to continue because they felt it had been effective in dissuading smugglers.

    The compromise discussion in Brussels did not discuss military aspects of the role of air patrols. But the new arrangement will involve more training of the coast guard in Libya, where lawlessness has allowed smugglers to openly operate sending people to Europe by sea.

    But it would be in line with the EU’s policy of turning increasingly restrictive on Mediterranean immigration since the surge in 2015 and discouraging people from risking their lives in the sea in trying to cross to Europe where governments do not want them.

    The bloc has already curbed operations of EU aid groups in the part of the Mediterranean in question and moved its own ships further north where fewer rescues take place.

    https://www.euractiv.com/section/justice-home-affairs/news/eu-to-end-ship-patrols-in-scaled-down-operation-sophia
    #opération_sophia #méditerranée #asile #réfugiés #sauvetage #missions_aériennes #migrations #frontières #contrôles_frontaliers #mer_Méditerranée #sauvetages

    • Commissioner calls for more rescue capacity in the Mediterranean

      I take note of the decision taken by the EU’s Political and Security Committee with regards to Operation Sophia. I regret that this will lead to even fewer naval assets in the Mediterranean, which could assist the rescue of persons in distress at sea. Lives are continuing to be lost in the Mediterranean. This should remind states of the urgency to adopt a different approach, one that should ensure a sufficiently resourced and fully operational system for saving human lives at sea and to safeguard rescued migrants’ dignity.

      Whilst coastal states have the responsibility to ensure effective coordination of search and rescue operations, protecting lives in the Mediterranean requires concerted efforts of other states as well, to begin with the provision of naval assets specifically dedicated to search and rescue activities, deployed in those areas where they can make an effective contribution to saving human lives. Furthermore, I reiterate my call to all states to refrain from hindering and criminalising the work of NGOs who are trying to fill the ever-increasing gap in rescue capacity. States should rather support and co-operate with them, including by ensuring that they can use ports for their life-saving activities.

      Finally, the decision to continue only with aerial surveillance and training of the Libyan Coast Guard further increases the risks that EU member states, directly or indirectly, contribute to the return of migrants and asylum seekers to Libya, where it is well-documented, in particular recently by the United Nations, that they face serious human rights violations. So far, calls to ensure more transparency and accountability in this area, including by publishing human rights risk assessments and setting up independent monitoring mechanisms, have not been heeded. The onus is now on EU member states to show urgently that the support to the Libyan Coast Guard is not contributing to human rights violations, and to suspend this support if they cannot do so.

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/-/commissioner-calls-for-more-rescue-capacity-in-the-mediterranean
      #droits_humains #gardes-côtes_libyens #Libye

    • EU to end ship patrols in scaled down migrant rescue operation: diplomats

      The European Union will cease the maritime patrols that have rescued thousands of migrants making the perilous Mediterranean Sea crossing from North Africa to Europe, but it will extend air missions, two diplomats said on Tuesday.
      A new agreement on the EU’s Operation Sophia was hammered out after Italy, where anti-migrant sentiment is rising, said it would no longer receive those rescued at sea.

      Operation Sophia’s mandate was due to expire on Sunday but should now continue for another six months with the same aim of detering people smugglers in the Mediterranean. But it will no longer deploy ships, instead relying on air patrols and closer coordination with Libya, the diplomats said.

      “It is awkward, but this was the only way forward given Italy’s position, because nobody wanted the Sophia mission completely shut down,” one EU diplomat said.

      A second diplomat confirmed a deal had been reached and said it must be endorsed by all EU governments on Wednesday.

      The tentative deal, however, could weaken Operation Sophia’s role in saving lives in the sea where nearly 2,300 people perished last year, according to United Nations figures.

      From the more than one million refugees and migrants who made it to the bloc during a 2015 crisis, sea arrivals dropped to 141,500 people in 2018, according to the United Nations.

      Still, Italy’s deputy prime minister Matteo Salvini, has said his country would no longer be the main point of disembarkation for people trying to cross the Mediterranean by boat and rescued by Sophia’s patrol ships.

      Rome called for other countries to open up their ports instead, but no other EU states came forward. Diplomats said countries including Spain, France and Germany signaled they were not willing to host more rescued people - most of whom are fleeing wars and poverty in Africa and the Middle East.

      However, EU governments did want the mission to continue because they felt it had been effective in dissuading smugglers.

      The compromise discussion in Brussels did not discuss military aspects of the role of air patrols. But the new arrangement will involve more training of the coast guard in Libya, where lawlessness has allowed smugglers to openly operate sending people to Europe by sea.

      But it would be in line with the EU’s policy of turning increasingly restrictive on Mediterranean immigration since the surge in 2015 and discouraging people from risking their lives in the sea in trying to cross to Europe where governments do not want them.

      The bloc has already curbed operations of EU aid groups in the part of the Mediterranean in question and moved its own ships further north where fewer rescues take place.

      https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-sophia/eu-weighs-up-awkward-migration-compromise-on-mediterranean-mission-idUSKCN1

    • En Méditerranée, l’UE retire ses navires militaires qui ont sauvé 45.000 migrants

      Les États membres de l’Union européenne ont décidé, mercredi 27 mars, de retirer leurs navires militaires engagés en Méditerranée dans le cadre de l’opération militaire dite « Sophia », au moins temporairement. Depuis 2015, ces bateaux ont pourtant permis de sauver 45 000 migrants environ.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/280319/en-mediterranee-l-ue-retire-ses-navires-militaires-qui-ont-sauve-45000-mig

    • #EUNAVFOR_MED Operation Sophia : mandate extended until 30 September 2019

      The Council today extended the mandate of EUNAVFOR MED Operation Sophia until 30 September 2019.

      The Operation Commander has been instructed to suspend temporarily the deployment of the Operation’s naval assets for the duration of this extension for operational reasons. EU member states will continue to work in the appropriate fora on a solution on disembarkation as part of the follow-up to the June 2018 European Council conclusions.

      The Operation will continue to implement its mandate accordingly, strengthening surveillance by air assets as well as reinforcing support to the Libyan Coastguard and Navy in law enforcement tasks at sea through enhanced monitoring, including ashore, and continuation of training.

      The operation’s core mandate is to contribute to the EU’s work to disrupt the business model of migrant smugglers and human traffickers in the Southern Central Mediterranean. The operation has also supporting tasks. It trains the Libyan Coastguard and Navy and monitors the long-term efficiency of the training and it contributes to the implementation of the UN arms embargo on the high seas off the coast of Libya. In addition, the operation also conducts surveillance activities and gathers information on illegal trafficking of oil exports from Libya, in accordance with the UN Security Council resolutions. As such, the operation contributes to EU efforts for the return of stability and security in Libya and to maritime security in the Central Mediterranean region.

      EUNAVFOR MED Operation Sophia was launched on 22 June 2015. It is part of the EU’s comprehensive approach to migration. The Operation Commander is Rear Admiral Credendino, from Italy. The headquarters of the operation are located in Rome.

      Today’s decision was adopted by the Council by written procedure.

      https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2019/03/29/eunavfor-med-operation-sophia-mandate-extended-until-30-september-2

  • #Tchétchénie : #Oïoub_Titiev en prison, les droits de l’Homme bâillonnés

    En Tchétchénie, le responsable de l’organisation de défense des droits de l’Homme Mémorial, Oïoub Titiev, a été condamné cette semaine à quatre ans de prison dans une colonie pénitentiaire pour détention illicite de stupéfiants. Des preuves fabriquées de toutes pièces selon l’ONG qui a de plus en plus de difficultés à travailler en Tchétchénie, petite république de la Fédération de Russie aux mains du tout puissant président Ramzan Kadyrov, soutenu sans faille par Vladimir Poutine.


    http://www.rfi.fr/emission/20190323-tchetchenie-oioub-titiev-prison-droits-homme-baillonnes?ref=tw
    #droits_humains #prison #emprisonnement

  • Commune hospitalière ?

    Une commune hospitalière est une commune qui, par le vote d’une motion, s’engage à améliorer l’information et l’accueil des personnes migrantes, quel que soit leur statut.

    Elle facilite les démarches pour tous les migrants. Les demandeurs d’asile, donc, mais aussi les autres personnes en situation parfois plus précaire encore, comme les sans papiers.

    Elle s’engage à minima à deux niveaux : sensibiliser sa population aux questions migratoires, et améliorer concrètement l’accueil des migrants dans le respect des droits.

    Une commune hospitalière s’engage, à son échelle, pour une politique migratoire basée sur l’#hospitalité, le respect des #droits_humains et les valeurs de #solidarité.

    https://www.communehospitaliere.be
    #commune_hospitalière #villes-refuge #asile #migrations #réfugiés #Belgique #sensibilisation #information #accueil

    métaliste sur les villes-refuge :
    https://seenthis.net/messages/759145

  • (Dé)passer la frontière

    En ce début de 21e siècle, l’heure est à la #fermeture_des_frontières. Si ce durcissement des #politiques_migratoires peine à produire les résultats escomptés, il participe à la multiplication de situations de violations des #droits_humains, partout dans le monde.

    Les frontières, leur gestion et leur actualité traversent les débats publics et médiatiques sur les #migrations, attisant les controverses et les fantasmes, en particulier en Europe et en Amérique du Nord. Les frontières cristallisent un grand nombre d’enjeux – sociaux, (géo)politiques, économiques, historiques – et mobilisent une grande diversité d’idées, de projets de société et d’acteur·rices. Étudier, questionner la frontière et tout ce qu’elle véhicule comme #symboles est donc indispensable pour penser l’avenir des territoires et de leurs populations dans une perspective de respect de la #dignité_humaine, autrement que sous le seul angle d’analyse de « la crise migratoire ».

    L’objectif principal de ce nouveau numéro de la collection Passerelle est donc de proposer des pistes d’analyse et de réflexion sur les enjeux autour des frontières : dans un monde globalisé, entre territorialisation et dématérialisation, qu’est-ce qu’une frontière aujourd’hui ? Quels sont les intérêts politiques et économiques qui régissent les mouvements d’ouverture pour certain·es, et de fermeture pour d’autres ? Cette publication invite également à explorer les multiples formes de #résistance à travers la voix de celles et ceux qui défient les politiques de fermeture, mais aussi les idées et propositions qui remettent en cause le régime des frontières actuel.

    Il s’agit donc bien d’établir des liens entre ce sujet d’une actualité brûlante et des dynamiques de long terme dans les différentes parties du monde, d’en éclairer les différents enjeux et de donner de la visibilité aux luttes actives d’hier et d’aujourd’hui. C’est cette perspective qui est au cœur du débat à travers les articles compilés ici : des réflexions, des témoignages et des pistes d’horizons politiques qui nous permettront de mieux saisir les enjeux des frontières, afin de nous armer de meilleurs outils de solidarité internationale pour la #justice_sociale et la garantie des droits fondamentaux de toutes et tous.


    https://www.coredem.info/IMG/pdf/_de_passer_la_frontiere-2.pdf

    Sommaire :


    #souveraineté_nationale #symbole #murs #Israël #barrières_frontalières #externalisation #externalisation_des_frontières #spectacle #victimisation #business #tunnel #Roya_Citoyenne #frontière_sud-alpine #La_Roya #caravane #Amérique_centrale #disparitions #mères #justice #passeport_aborigène #internationalisme #liberté_de_circulation #Touaregs #nomadisme #nomades #confédéralisme_démocratique #membrane

    ping @isskein @reka

    #frontières

  • Alors on commence : en direct, quelque part dans le sud de la vallée du Jourdain en territoire palestinien occupé.

    Une partie d’un village bédouin après le passage de l’armée israélienne il y a deux ou trois ans.

    A proximité, une grosse pompe hydraulique et deux réservoirs... pour l’alimentation de deux colonies israéliennes voisines. En face des structures détruites, il y a une jolie petite école peinte de dessins poétiques et ensoleillés. Mais l’école est un peu en sursis et risque aussi d’être détruite à tout moment.

    La ligne électrique qui passe aux dessus des maisons alimente la pompe à eau. De l’eau donc et de l’électricité mais pas pour le village... (interdiction de se connecter)


    

    #bedouins #palestine #droits_humains #vallée_du_jourdain #discrimination #racisme

  • Ces #femmes qui ont façonné la #Déclaration_universelle_des_droits_de_l'homme

    Eleanor Roosevelt est reconnue dans le monde entier pour le rôle prépondérant qu’elle a joué en tant que Présidente du Comité de rédaction de la Déclaration universelle des droits de l’homme. Mais d’autres femmes de différents pays ont également contribué de manière substantielle à façonner la Déclaration universelle ainsi qu’à la prise en compte des droits des femmes dans ce texte qui fête aujourd’hui ses 70 ans.

    https://news.un.org/fr/story/2018/12/1031351
    #historicisation #droits_humains

    Et pourtant on a choisi de l’appeler Déclaration universelle des droits de l’homme... et on continue à le faire.
    Comme on continue de parler de « droits de l’homme »
    SIC