#easo

  • Protezione altrove: ruolo e impatti dell’Agenzia europea per l’asilo

    Subentrata un anno fa all’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, anche Euaa, come Frontex, è sempre più un attore chiave nelle politiche dell’Ue alle frontiere. Tra “supporto” ed esternalizzazione. In Italia c’è dal 2013, con personale precario

    Nell’Europa dove la pratica dei respingimenti è diventata sistema ordinario di “governo” dei flussi migratori a scapito del diritto d’asilo, anche con il coinvolgimento di Frontex, opera un’altra Agenzia, meno nota e dibattuta, chiamata a “garantire l’applicazione efficace e uniforme” del diritto d’asilo europeo negli Stati membri, “rispettando pienamente i diritti fondamentali”. Si tratta dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), istituita con il Regolamento 2021/2303 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 2021 ed entrato in vigore il 19 gennaio 2022.

    È subentrata all’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (Easo), in attività dal febbraio 2011, ritenuto poi dalle istituzioni europee incapace di affermare un vero e proprio “Sistema europeo comune di asilo” (Ceas). Specie dopo quelli che il Regolamento di Euaa definisce “arrivi incontrollati e di massa di migranti e richiedenti asilo nell’Unione”, riproponendo la falsa retorica della “crisi dei rifugiati” che innerva il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione europea nel settembre 2020.

    Sta di fatto che Euaa nel suo nuovo mandato viene dotata dello status di vera e propria Agenzia, ne viene sancita l’indipendenza, si vede ampliati i compiti, assegnato personale e un budget iniziale di 172 milioni di euro (nemmeno un quarto di quello di Frontex, a ribadire le priorità dell’Ue). Quartier generale a Malta -tra i Paesi europei più refrattari all’auspicato sistema comune di asilo- e uffici ad Atene, Bruxelles, Roma, Nicosia, Madrid. Pure a Varsavia, dove ha “casa” Frontex, con la quale Euaa -oltre lavorarci “in stretta collaborazione”, trasmettendole anche i dati personali che tratta, come prevede il Regolamento-, condivide l’esser finita sotto la lente dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf), come ha confermato al Parlamento europeo a fine febbraio 2023 Johannes Hahn, parlando a nome della Commissione. Nel settembre 2022 il Financial Times aveva infatti dato conto delle accuse rivolte da personale interno all’Agenzia contro l’attuale direttrice esecutiva, la slovena Nina Gregori, e colleghi di vertice, per presunto nepotismo, report falsi forniti a Parlamento e Commissione nonché cattiva gestione di denunce di molestie.

    All’inizio del suo già travagliato percorso, poco più di un anno fa, l’Agenzia aveva in capo otto operazioni in Belgio, Cipro, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta e Spagna, ereditate da Easo. Al marzo di quest’anno sono salite a tredici, con l’aggiunta di Austria, Romania, Moldavia, Olanda, Repubblica Ceca e Slovenia.

    I “compiti” di Euaa definiti dal Regolamento sono molteplici e hanno un decisivo impatto sulla vita dei richiedenti asilo. Si va dal “facilitare, coordinare e rafforzare” la cooperazione e lo scambio di informazioni tra gli Stati membri sui loro sistemi di asilo e di accoglienza al fornire “un’efficace assistenza operativa e tecnica agli Stati membri, in particolare nei casi in cui i loro sistemi di asilo e di accoglienza siano sottoposti a pressioni sproporzionate”. Si occupa di costituire e inviare le cosiddette “squadre di sostegno per l’asilo”, assistere gli Stati Ue nelle azioni relative al reinsediamento e nella formazione di quelle amministrazioni od organismi “responsabili delle questioni attinenti all’asilo”. Ruolo chiave ha poi nello sviluppare “analisi comuni sulla situazione nei Paesi d’origine e note di orientamento” -importantissime nella valutazione delle domande di asilo- così come informazioni “sui Paesi terzi per quanto riguarda il concetto di Paese di origine sicuro” e quello di “Paese terzo sicuro”. L’Agenzia fa supporto: la competenza degli Stati di decidere in merito alle singole domande di protezione internazionale non è toccata.

    Accade anche in Italia, dove Euaa opera da dieci anni. Ora lo fa in forza di un Piano operativo di supporto triennale (2022-2024) e un budget previsionale sul 2023 di 12,7 milioni di euro: si tratta della seconda più grande operazione nell’Ue dopo la Grecia, che da sola assorbe oltre 36,4 milioni. I punti dove interviene l’organico di Euaa nel nostro Paese sono oltre 60, tra uffici immigrazione delle questure (per accelerare la registrazione delle domande di asilo o individuare casi di vulnerabilità), sezioni specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale dei tribunali (anche per fornire le “Country of origin information” o coordinare la presenza di mediatori in udienza), commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (fino al 2019), Unità Dublino presso il ministero dell’Interno, prefetture (per l’accesso al sistema di accoglienza), alcuni porti di sbarco. Si va da Lampedusa a Trento, da Crotone a Milano.

    Il personale impiegato al 28 febbraio di quest’anno -ci ha fatto sapere l’Agenzia- è pari a 193 unità: 86 lavorano con un contratto subordinato tramite agenzia interinale (Adecco), 80 sono consulenti esterni in regime di partita Iva -quindi senza ferie, malattie, permessi familiari o di studio, e con adempimenti fiscali a carico-, 26 sono i membri interni dello “staff” e infine un “esperto dello Stato membro”. L’assetto fotografa la strutturale condizione di precarietà di chi, quotidianamente e con un’alta formazione, incrocia situazioni fragilissime come quelle di richiedenti asilo, vittime di tratta o di sfruttamento. E che invece è mantenuto in una condizione di perenne intercambiabilità, sostituibilità, subalternità, come denunciano alcuni ex collaboratori di Euaa ad Altreconomia, preferendo rimanere anonimi. Già nell’ottobre 2019 la Corte dei conti europea aveva contestato irregolarità nell’assunzione del personale interinale dell’allora Easo in Italia, un paradosso per chi dovrebbe invece tutelare e implementare i diritti umani. Ne è scaturita nel 2020 la sindacalizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori con la categoria NIdiL della Cgil -unicum a livello europeo-, snobbata da Euaa che non li ha mai voluti riconoscere come interlocutori giocando sull’intermediazione di Adecco. L’esperienza sindacale si è conclusa nel 2022 con la “forte preoccupazione” per la parziale virata di Euaa sulle ancor più deboli e parcellizzate partite Iva.

    In tutto questo, chi controlla chi? Il Regolamento dell’Agenzia prevede un “Meccanismo di monitoraggio dell’applicazione operativa e tecnica del Sistema europeo comune di asilo”. Euaa, in stretta cooperazione con la Commissione, dovrebbe cioè prevenire o individuare “carenze dei sistemi di asilo e accoglienza degli Stati membri” e valutarne la “capacità e la preparazione a gestire situazioni di pressione sproporzionata”. Si pensi al caso italiano, con persone escluse dall’accoglienza nonostante posti vuoti, richiedenti asilo costretti a dormire la notte fuori dalle questure, respingimenti diretti o per procura, ostacoli di ogni tipo. L’entrata in vigore del monitoraggio è stata però rinviata al 2024 e quindi al momento non se ne parla. “E comunque è intesa come aiuto agli Stati”, ci tiene a precisare l’ufficio stampa di Euaa.

    Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, riflette sul tema della trasparenza. “Nel suo mandato la nuova Agenzia dovrebbe promuovere il diritto dell’Unione e il diritto internazionale in materia di asilo e le norme operative per garantire un alto grado di uniformità sulla base di norme di tutela elevate nelle procedure di protezione internazionale, nelle condizioni di accoglienza e nella valutazione delle esigenze di protezione in tutta l’Unione, consentendo una solidarietà reale e pratica tra Stati membri al fine di aiutare in generale i Paesi e in particolare i richiedenti asilo. Per svolgere questi ruoli in modo efficace sarebbe necessario prevedere forme strutturate di interazione e consultazione con enti di ricerca e associazioni di tutela dei diritti fondamentali dei rifugiati operanti a livello nazionale e a livello dell’Unione. È vero che l’articolo 51 del Regolamento istitutivo prevede un Forum di consultazione con le associazioni e gli organismi di tutela del diritto d’asilo, ma, anche sulla base delle prime esperienze, tali contesti appaiono più una formalità che una vera volontà di confronto. Non si comprende infatti se l’Agenzia sia tenuta o meno a dare riscontro concreto rispetto alle segnalazioni e ai report che possono giungerle dalle organizzazioni non governative, specie nel caso in cui queste segnalino gravi violazioni. L’Agenzia si presenta dunque come una sorta di mondo chiuso ed emerge con chiarezza il timore di interagire con realtà diverse dagli Stati o dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, in quanto potrebbero sollevare temi molto sgraditi. Penso ai sistematici e crescenti abusi sull’accesso alla protezione, sui respingimenti alle frontiere interne ed esterne e sul restringimento dei criteri di esame delle domande di asilo. L’unico minimo riferimento a un’attività trasparente di Euaa riguarda la previsione di ‘dover riferire al Parlamento europeo due volte all’anno in merito alla sua analisi’, ma si tratta di un impegno del tutto generico”.

    Intanto l’Agenzia non si limita a operare all’interno dei confini dell’Unione ma può spingersi anche fuori. Nel sostenere gli Stati membri “nella cooperazione con i Paesi terzi nelle materie attinenti alla dimensione esterna del Ceas”, infatti, può “impiegare” oltre confine dei “funzionari di collegamento”. A una condizione: che in quei Paesi le “prassi di gestione della migrazione e dell’asilo” risultino “conformi alle norme inderogabili in materia di diritti umani”. L’Agenzia si è dotata di una “Strategia di cooperazione esterna”, appena rinnovata nel marzo 2023 dal Consiglio di amministrazione, che prevede il ricorso a interventi ad hoc, “Roadmap”, ufficiali di collegamento e “Working arrangement”.

    Della natura di questi mezzi di cooperazione, della loro informalità e del ruolo che anche Euaa, come Frontex, possa giocare nella partita dell’esternalizzazione delle politiche d’asilo, si è occupata approfonditamente Marcella Cometti, dottoranda in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali dell’Università degli Studi di Ferrara. “Delle Roadmap non si trova alcun riscontro nel testo del Regolamento istitutivo di Euaa”, spiega. E questo è un problema perché sono proprio simili “accordi di soft law stipulati tra Paesi terzi e Agenzie” che “contribuiscono a erodere ancor più il principio del rispetto dello Stato di diritto”. Cometti lo dice mentre scorre l’elenco delle “Roadmap” in vigore: Turchia, Serbia, Macedonia del Nord, Montenegro, Kosovo, Egitto, Bosnia ed Erzegovina, Albania. Snodi chiave per la “gestione” dei flussi dove in questi anni le persone sono state confinate. “Guardando agli sviluppi che hanno interessato Frontex, per cui i Balcani occidentali sono stati il luogo di sperimentazione delle prime operazioni congiunte di controllo alle frontiere in Paesi terzi, non viene difficile immaginare uno sviluppo simile per Euaa -ha scritto la ricercatrice sulla rivista Euweb-; […] da mero rafforzamento delle capacità dei sistemi di asilo e accoglienza a una vera e propria cooperazione operativa sul campo attraverso il dispiegamento di personale dell’Agenzia sul territorio di tali Paesi.

    Questo permetterebbe all’Agenzia di avere una certa influenza sulle procedure di asilo, magari assimilabile a quella che ha già presso gli hotspot greci”. Non sono pregiudizi. Cometti cita i quesiti posti nell’estate 2022 a Euaa dalla stessa Mediatrice europea, Emily O’Reilly, che riguardavano proprio la tutela dei diritti fondamentali nel suo ruolo di “facilitatrice” nella cooperazione operativa tra Stati membri e Paesi terzi e rispetto al dispiegamento di ufficiali di collegamento. La criticità dell’operato dell’Agenzia riguarda anche missioni condotte dentro l’Unione europea e a supporto di Stati membri. È il caso ad esempio della Lituania, dove a partire dall’estate 2021, a seguito di flussi in ingresso di richiedenti asilo provenienti dalla Bielorussia, oltre alla dichiarazione dello stato di emergenza, sono state introdotte leggi contrarie al diritto dell’Unione europea: dall’ingiustificato trattenimento dei migranti alla frontiera alle limitazioni all’accesso alla procedura di asilo, comunque accelerata. La Commissione europea ha benedetto quello che Cometti definisce un sostanziale “abbassamento degli standard di tutela promosso a livello nazionale”, ed Euaa, invece di svolgere la “preziosa funzione di deterrenza/monitoraggio” che le spetta, sarebbe stata al gioco.

    https://altreconomia.it/protezione-altrove-ruolo-e-impatti-dellagenzia-europea-per-lasilo

    #asile #migrations #réfugiés #Euaa #union_européenne #European_Union_agency_for_asylum #easo #budget #Nina_Gregori

  • Le #Kosovo va-t-il rejoindre les normes européennes ?

    3 avril - 18h30 : #Frontex a récemment conduit une #évaluation des systèmes #IT au Kosovo, pour préparer la mise en place d’un système compatible avec #Eurodac dans le cadre du projet « #Regional_Support_to _Protection-Sensitive_Migration_Management in the WB and Turkey ». En effet, le Kosovo a déjà des systèmes de collectes de #données efficaces mais qui ont été mis en place par les Américains et qui ne respectent pas les normes européennes. Par ailleurs, Le Bureau européen d’appui en matière d’asile (#EASO) a préparé un plan pour la mise en place d’un #système_d’asile au Kosovo aligné sur les #normes_européennes.

    Enfin, du fait de son statut particulier, le Kosovo n’a que peu d’#accords_de_réadmission pour expulser les ressortissant.e.s de pays tiers sur son territoire. L’idée de l’UE serait de mutualiser les retours à l’échelle des Balkans pour contourner cette difficulté.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/refugies-balkans-les-dernieres-infos

    #asile #migrations #réfugiés #frontières #Balkans #route_des_Balkans #réadmission #retours #renvois

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749
    Et plus précisément :
    https://seenthis.net/messages/731749#message782649

  • OP-ed : La guerre faite aux migrants à la frontière grecque de l’Europe par #Vicky_Skoumbi

    La #honte de l’Europe : les #hotspots aux îles grecques
    Devant les Centres de Réception et d’Identification des îles grecques, devant cette ‘ignominie à ciel ouvert’ que sont les camps de Moria à Lesbos et de Vathy à Samos, nous sommes à court de mots ; en effet il est presque impossible de trouver des mots suffisamment forts pour dire l’horreur de l’enfermement dans les hot-spots d’hommes, femmes et enfants dans des conditions abjectes. Les hot-spots sont les Centres de Réception et d’Identification (CIR en français, RIC en anglais) qui ont été créés en 2015 à la demande de l’UE en Italie et en Grèce et plus particulièrement dans les îles grecques de Lesbos, Samos, Chios, Leros et Kos, afin d’identifier et enregistrer les personnes arrivantes. L’approche ‘hot-spots’ introduite par l’UE en mai 2015 était destinée à ‘faciliter’ l’enregistrement des arrivants en vue d’une relocalisation de ceux-ci vers d’autres pays européens que ceux de première entrée en Europe. Force est de constater que, pendant ces cinq années de fonctionnement, ils n’ont servi que le but contraire de celui initialement affiché, à savoir le confinement de personnes par la restriction géographique voire par la détention sur place.

    Actuellement, dans ces camps, des personnes vulnérables, fuyant la guerre et les persécutions, fragilisées par des voyages longs et éprouvants, parmi lesquels se trouvent des victimes de torture ou de naufrage, sont obligées de vivre dans une promiscuité effroyable et dans des conditions inhumaines. En fait, trois quart jusqu’à quatre cinquième des personnes confinées dans les îles grecques appartiennent à des catégories reconnues comme vulnérables, même aux yeux de critères stricts de vulnérabilité établis par l’UE et la législation grecque[1], tandis qu’un tiers des résidents des camps de Moria et de Vathy sont des enfants, qui n’ont aucun accès à un circuit scolaire. Les habitants de ces zones de non-droit que sont les hot-spots, passent leurs journées à attendre dans des files interminables : attendre pour la distribution d’une nourriture souvent avariée, pour aller aux toilettes, pour se laver, pour voir un médecin. Ils sont pris dans un suspens du temps, sans aucune perspective d’avenir de sorte que plusieurs d’entre eux finissent par perdre leurs repères au détriment de leur équilibre mental et de leur santé.

    Déjà avant l’épidémie de Covid 19, plusieurs organismes internationaux comme le UNHCR[2] avaient dénoncé les conditions indignes dans lesquelles étaient obligées de vivre les demandeurs d’asile dans les hot-spots, tandis que des ONG comme MSF[3] et Amnesty International[4] avaient à plusieurs reprises alerté sur le risque que représentent les conditions sanitaires si dégradées, en y pointant une situation propice au déclenchement des épidémies. De son côté, Jean Ziegler, dans son livre réquisitoire sorti en début 2020, désignait le camp de #Moria, le hot-spot de Lesbos, comme la ‘honte de l’Europe’[5].

    Début mars 2020, 43.000 personnes étaient bloquées dans les îles dont 20.000 à Moria et 7.700 à Samos pour une capacité d’accueil de 2.700 et 650 respectivement[6]. Avec les risques particulièrement accrus de contamination, à cause de l’impossibilité de respecter la distanciation sociale et les mesures d’hygiène, on aurait pu s’attendre à ce que des mesures urgentes de décongestion de ces camps soient prises, avec des transferts massifs vers la Grèce continentale et l’installation dans des logements touristiques vides. A vrai dire c’était l’évacuation complète de camps si insalubres qui s’imposait, mais étant donné la difficulté de trouver dans l’immédiat des alternatives d’hébergement pour 43.000 personnes, le transfert au moins des plus vulnérables à des structures plus petites offrant la possibilité d’isolement- comme les hôtels et autres logements touristiques vides dans le continent- aurait été une mesure minimale de protection. Au lieu de cela, le gouvernement Mitsotakis a décidé d’enfermer les résidents des camps dans les îles dans des conditions inhumaines, sans qu’aucune mesure d’amélioration des conditions sanitaires ne soit prévue[7].

    Car, les mesures prises le 17 mars par le gouvernement pour empêcher la propagation du virus dans les camps, consistaient uniquement en une restriction des déplacements au strict minimum nécessaire et même en deça de celui-ci : une seule personne par famille aura désormais le droit de sortir du camp pour faire des courses entre 7 heures et 19 heures, avec une autorisation fournie par la police, le nombre total de personnes ayant droit de sortir par heure restant limité. Parallèlement l’entrée des visiteurs a été interdite et celle des travailleurs humanitaires strictement limitée à ceux assurant des services vitaux. Une mesure supplémentaire qui a largement contribué à la détérioration de la situation des réfugiés dans les camps, a été la décision du ministère d’arrêter de créditer de fonds leur cartes prépayés (cash cards ) afin d’éviter toute sortie des camps, laissant ainsi les résidents des hot-spots dans l’impossibilité de s’approvisionner avec des produits de première nécessité et notamment de produits d’hygiène. Remarquez que ces mesures sont toujours en vigueur pour les hot-spots et toute autre structure accueillant des réfugiés et des migrants en Grèce, en un moment où toute restriction de mouvement a été déjà levée pour la population grecque. En effet, après une énième prolongation du confinement dans les camps, les mesures de restriction de mouvement ont été reconduites jusqu’au 5 juillet, une mesure d’autant plus discriminatoire que depuis cinq semaines déjà les autres habitants du pays ont retrouvé une entière liberté de mouvement. Etant donné qu’aucune donnée sanitaire ne justifie l’enfermement dans les hot-spots où pas un seul cas n’a été détecté, cette extension de restrictions transforme de facto les Centres de Réception et Identification (RIC) dans les îles en centres fermés ou semi-fermés, anticipant ainsi à la création de nouveaux centres fermés, à la place de hot-spots actuels –voir ici et ici. Il est fort à parier que le gouvernement va étendre de prolongation en prolongation le confinement de RIC pendant au moins toute la période touristique, ce qui risque de faire monter encore plus la tension dans les camps jusqu’à un niveau explosif.

    Ainsi les demandeurs d’asile ont été – et continuent toujours à être – obligés de vivre toute la période de l’épidémie, dans une très grande promiscuité et dans des conditions sanitaires qui suscitaient déjà l’effroi bien avant la menace du Covid-19[8]. Voyons de plus près quelles conditions de vie règnent dans ce drôle de ‘chez soi’, auquel le Ministre grec de la politique migratoire invitait les réfugiés à y passer une période de confinement sans cesse prolongée, en présentant le « Stay in camps » comme le strict équivalent du « Stay home », pour les citoyens grecs. Dans l’extension « hors les murs » du hotspot de Moria, vers l’oliveraie, repartie en Oliveraie I, II et III, il y a des quartiers où il n’existe qu’un seul robinet d’eau pour 1 500 personnes, ce qui rend le respect de règles d’hygiène absolument impossible. Dans le camp de Moria il n’y a qu’une seule toilette pour 167 personnes et une douche pour 242, alors que dans l’Oliveraie, 5 000 personnes n’ont aucun accès à l’électricité, à l’eau et aux toilettes. Selon le directeur des programmes de Médecins sans Frontières, Apostolos Veizis, au hot-spot de Samos à Vathy, il n’y a qu’une seule toilette pour 300 personnes, tandis que l’organisation MSF a installé 80 toilettes et elle fournit 60 000 litres d’eau par jour pour couvrir, ne serait-ce que partiellement- les besoins de résidents à l’extérieur du camp.

    Avec la restriction drastique de mouvement contre le Covid-19, non seulement les sorties du camp, même pour s’approvisionner ou pour aller consulter, étaient faites au compte-goutte, mais aussi les entrées, limitant ainsi dramatiquement les services que les ONG et les collectifs solidaires offraient aux réfugiés. La réduction du nombre des ONG et l’absence de solidaires a créé un manque cruel d’effectifs qui s’est traduit par une désorganisation complète de divers services et notamment de la distribution de la nourriture. Ainsi, dans le camp de Moria en pleine pandémie, ont eu lieu des scènes honteuses de bousculade effroyable où les réfugiés étaient obligés de se battre pour une portion de nourriture- voir la vidéo et l’article de quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn. Ces scènes indignes ne sauraient que se multiplier dans la mesure où le gouvernement en imposant aux ONG un procédé d’enregistrement très complexe et coûteux a réussi à exclure plus que la moitié de celles qui s’activent dans les camps. Car, par le processus de ‘régulation’ d’un domaine censément opaque, imposé par la récente loi sur l’asile, n’ont réussi à passer que 18 ONG qui elles seules auront désormais droit d’entrée dans les hot-spots[9]. En fait, l’inscription des ONG dans le registre du Ministère s’avère un procédé plein d’embûches bureaucratiques. Qui plus est le Ministre peut décider à son gré de refuser l’inscription des organisations qui remplissent tous les critères requis, ce qui serait une ingérence flagrante du pouvoir dans le domaine humanitaire.

    Car, il faudrait aussi savoir que les réfugiés enfermés dans les camps se trouvent à la limite de la survie, après la décision du Ministère de leur couper, à partir du début mars, les aides –déjà très maigres, 90 euros par mois pour une personne seule- auxquelles ils avaient droit jusqu’à maintenant. En ce qui concerne la couverture sociale de santé, à partir de juillet dernier les demandeurs ne pouvaient plus obtenir un numéro de sécurité sociale et étaient ainsi privés de toute couverture santé. Après des mois de tergiversation et sous la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a enfin décidé de leur accorder un numéro provisoire de sécurité sociale, mais cette mesure reste pour l’instant en attente de sa pleine réalisation. Entretemps, l’exclusion des demandeurs d’asile du système national de santé a fait son effet : non seulement, elle a conduit à une détérioration significative de la santé des requérant, mais elle a également privé des enfants réfugiés de scolarisation, car, faute de carnet de vaccination à jour, ceux-ci ne pouvaient pas s’inscrire à l’école.

    En d’autres termes, au lieu de déployer pendant l’épidémie une politique de décongestion avec transferts massifs à des structures sécurisées, le gouvernement a traité les demandeurs d’asile comme porteurs virtuels du virus, à tenir coûte que coûte à l’écart de la société ; non seulement les réfugiés et les migrants n’ont pas été protégés par un confinement sécurisé, mais ils ont été enfermés dans des conditions sanitaires mettant leur santé et leur vie en danger. La preuve, si besoin est, ce sont les mesures prises par le gouvernement dans des structures d’accueil du continent où des cas de coronavirus ont été détectés ; par ex. la gestion catastrophique de la quarantaine dans une structure d’accueil hôtelière à Kranidi en Péloponnèse où une femme enceinte a été testée positive en avril. Dans cet hôtel géré par l’IOM qui accueille 470 réfugiés de l’Afrique sub-saharienne, après l’indentification de deux cas (une employée et une résidente), un dépistage généralisé a été effectué et le 21 avril 150 cas ont été détectés ; très probablement le virus a été ‘importé’ dans la structure par les contacts des réfugiés et du personnel avec les propriétaires de villas voisines installés dans la région pour la période de confinement et qui les employaient pour divers services. Après une quarantaine de trois semaines, trois nouveaux cas ont été détectés avec comme résultat que toutes les personnes testées négatives ont été placées en quarantaine avec celles testées positives au même endroit[10].

    Exactement la même tactique a été adoptée dans les camps de Ritsona (au nord d’Athènes) et de Malakassa (à l’est d’Attique), où des cas ont été détectés. Au lieu d’isoler les porteurs du virus et d’effectuer un dépistage exhaustif de toute la population du camp, travailleurs compris, ce qui aurait pu permettre d’isoler tout porteur non-symptomatique, les camps avec tous leurs résidents ont été mis en quarantaine. Les autorités « ont imposé ces mesures sans prendre de dispositions nécessaires …pour isoler les personnes atteintes du virus à l’intérieur des camps, ont déclaré deux travailleurs humanitaires et un résident du camp. Dans un troisième cas, les autorités ont fermé le camp sans aucune preuve de la présence du virus à l’intérieur, simplement parce qu’elles soupçonnaient les résidents du camp d’avoir eu des contacts avec une communauté voisine de Roms où des gens avaient été testés positifs [11] » [il s’agit du camp de Koutsohero, près de Larissa, qui accueille 1.500 personnes][12].

    Un travailleur humanitaire a déclaré à Human Rights Watch : « Aussi scandaleux que cela puisse paraître, l’approche des autorités lorsqu’elles soupçonnent qu’il pourrait y avoir un cas de virus dans un camp consiste simplement à enfermer tout le monde dans le camp, potentiellement des milliers de personnes, dont certaines très vulnérables, et à jeter la clé, sans prendre les mesures appropriées pour retracer les contacts de porteurs du virus, ni pour isoler les personnes touchées ».

    Il va de soi qu’une telle tactique ne vise nullement à protéger les résidents de camp, mais à les isoler tous, porteurs et non-porteurs, ensemble, au risque de leur santé et de leur vie. Au fond, la stratégie du gouvernement a été simple : retrancher complètement les réfugiés du reste de la population, tout en les excluant de mesures de protection efficiantes. Bref, les réfugiés ont été abandonnés à leur sort, quitte à se contaminer les uns les autres, pourvu qu’ils ne soient plus en contact avec les habitants de la région.

    La gestion par les autorités de la quarantaine à l’ancien camp de Malakasa est également révélatrice de la volonté des autorités non pas de protéger les résidents des camps mais de les isoler à tout prix de la population locale. Une quarantaine a été imposée le 5 avril suite à la détection d’un cas. A l’expiration du délai réglementaire de deux semaines, la quarantaine n’a été que très partiellement levée. Pendant la durée de la quarantaine l’ancien camp de Malakasa abritant 2.500 personnes a été approvisionné en quantité insuffisante en nourriture de basse valeur nutritionnelle, et pratiquement pas du tout en médicaments et aliments pour bébés. Le 22 avril un nouveau cas a été détecté et la quarantaine a été de nouveau imposée à l’ensemble de 2.500 résidents du camp. Entretemps quelques tests de dépistage ont été faits par-ci et par-là, mais aucune mesure spécifique n’a été prise pour les cas détectés afin de les isoler du reste de la population du camp. Pendant cette nouvelle période de quarantaine, la seule mesure prise par les autorités a été de redoubler les effectifs de police à l’entrée du camp, afin d’empêcher toute sortie, et ceci à un moment critique où des produits de première nécessité manquaient cruellement dans le camp. Ni dépistage généralisé, ni visite d’équipes médicales spécialisées, ni non plus séparation spatiale stricte entre porteurs et non-porteurs du virus n’ont été mises en place. La quarantaine, avec une courte période d’allégement de mesures de restriction, dure déjà depuis deux mois et demi. Car, le 20 juin elle a été prolongée jusqu’au 5 juillet, transformant ainsi de facto les résidents du camp en détenus[13].

    La façon aussi dont ont été traités les nouveaux arrivants dans les îles depuis le début de la période du confinement et jusqu’à maintenant est également révélatrice de la volonté du gouvernement de ne pas faire le nécessaire pour assurer la protection des demandeurs d’asile. Non seulement ceux qui sont arrivés après le début mars n’ont pas été mis à l’abri pour y passer la période de quarantaine de 14 jours dans des conditions sécurisées, mais ils ont été systématiquement ‘confinés en plein air’ à la proximité de l’endroit où ils ont débarqué : les nouveaux arrivants, femmes enceintes et enfants compris, ont été obligés de vivre en plein air, exposés aux intempéries dans une zone circonscrite placée sous la surveillance de la police, pendant deux, trois voire quatre semaines et sans aucun accès à des infrastructures sanitaires. Le cas de 450 personnes arrivées début mars est caractéristique : après avoir été gardées en « quarantaine » dans une zone entourée de barrières au port de Mytilène, elles ont été enfermées pendant 13 jours dans des conditions inimaginables dans un navire militaire grec, où ils ont été obligés de dormir sur le sol en fer du navire, vivant littéralement les uns sur les autres, sans même qu’on ne leur fournisse du savon pour se laver les mains.

    Cet enfermement prolongé dans des conditions abjectes, en contre-pied du confinement sécurisé à la maison, que la plupart d’entre nous, citoyens européens, avons connu, transforme de fait les demandeurs en détenus et crée inévitablement des situations explosives avec une montée des incidents violents, des affrontements entre groupes ethniques, des départs d’incendies à Lesbos, à Chios et à Samos. Ne serait-ce qu’à Moria, et surtout dans l’Oliveraie qui entoure le camp officiel, dès la tombée de la nuit l’insécurité règne : depuis le début de l’année on y dénombre au moins 14 agressions à l’arme blanche qui ont fait quatre morts et 14 blessés[14]. Bref aux conditions de vie indignes et dangereuses pour la santé, il faudrait ajouter l’insécurité croissante, encore plus pesante pour les femmes, les personnes LGBT+ et les mineurs isolés.

    Affronté aux réactions des sociétés locales et à la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a fini par reconnaître la nécessité de la décongestion des îles par le biais du transfert de réfugiés et des demandeurs d’asile vulnérables au continent. Mais il s’en est rendu compte trop tard ; entretemps le discours haineux qui présente les migrants comme une menace pour la sécurité nationale voire pour l’identité de la nation, ce poison qu’elle-même a administré à la population, a fait son effet. Aujourd’hui, le ministre de la politique migratoire a été pris au piège de sa propre rhétorique xénophobe haineuse ; c’est au nom justement de celle-ci que les autorités régionales et locales (et plus particulièrement celles proches à la majorité actuelle), opposent un refus catégorique à la perspective d’accueillir dans leur région des réfugiés venant des hot-spots des îles. Des hôtels où des familles en provenance de Moria auraient dû être logées ont été en partie brûlés, des cars transportant des femmes et des enfants ont été attaqués à coup de pierres, des tenanciers d’établissements qui s’apprêtaient à les accueillir, ont reçu des menaces, la liste des actes honteux ne prend pas fin[15].

    Mais le ministre grec de la politique migratoire n’est jamais en court de moyens : il a un plan pour libérer plus que 10.000 places dans les structures d’accueil et les appartements en Grèce continentale. A partir du 1 juin, les autorités ont commencé à mettre dans la rue 11.237 réfugiés reconnus comme bénéficiaires de protection internationale, un mois après l’obtention de leur carte de réfugiés ! Evincés de leurs logements, ces réfugiés, femmes, enfants et personnes vulnérables compris, se retrouveront dans la rue et sans ressources, car ils n’ont plus le droit de recevoir les aides qui ne leur sont destinées que pendant les 30 jours qui suivent l’obtention de leur carte[16]. Cette décision du ministre Mitarakis a été mise sur le compte d’une politique moins accueillante, car selon lui, les aides, assez maigres, par ailleurs, constituaient un « appel d’air » trop attractif pour les candidats à l’exil ! Le comble de l’affaire est que tant le programme d’hébergement en appartements et hôtels ESTIA que les aides accordées aux réfugiés et demandeurs d’asile sont financées par l’UE et des organismes internationaux, et ne coûtent strictement rien au budget de l’Etat. Le désastre qui se dessine à l’horizon a déjà pointé son nez : une centaine de réfugiés dont une quarantaine d’enfants, transférés de Lesbos à Athènes, ont été abandonnés sans ressources et sans toit en pleine rue. Ils campent actuellement à la place Victoria, à Athènes.

    Le dernier cercle de l’enfer : les PROKEKA

    Au moment où est écrit cet article, les camps dans les îles fonctionnent cinq, six voire dix fois au-dessus de leur capacité d’accueil. 34.000 personnes sont actuellement entassées dans les îles, dont 30.220 confinées dans les conditions abjectes de hot-spots prévus pour accueillir 6 000 personnes au grand maximum ; 750 en détention dans les centres de détention fermés avant renvoi (PROΚEΚA), et le restant dans d’autres structures[17].

    Plusieurs agents du terrain ont qualifié à juste titre les camps de Moria à Lesbos et celui de Vathy à Samos[18] comme l’enfer sur terre. Car, comment désigner autrement un endroit comme Moria où les enfants – un tiers des habitants du camp- jouent parmi les ordures et les déjections et où plusieurs d’entre eux touchent un tel fond de désespoir qu’ils finissent par s’automutiler et/ou par commettre de tentatives de suicide[19], tandis que d’autres tombent dans un état de prostration et de mutisme ? Comment dire autrement l’horreur d’un endroit comme le camp de Vathy où femmes enceintes et enfants de bas âge côtoient des serpents, des rats et autres scorpions ?

    Cependant, il y a pire, en l’occurrence le dernier cercle de l’Enfer, les ‘Centres de Détention fermés avant renvoi’ (Pre-moval Detention Centers, PROKEKA en grec), l’équivalent grec des CRA (Centre de Rétention Administrative) en France[20]. Aux huit centres fermés de détention et aux postes de police disséminés partout en Grèce, plusieurs milliers de demandeurs d’asile et d’étrangers sans-papiers sont actuellement détenus dans des conditions terrifiantes. Privés même des droits les plus élémentaires de prisonniers, les détenus restent presque sans soins médicaux, sans contact régulier avec l’extérieur, sans droit de visite ni accès assuré à une aide judiciaire. Ces détenus qui sont souvent victimes de mauvais traitements de la part de leurs gardiens, n’ont pas de perspective de sortie, dans la mesure où, en vertu de la nouvelle loi sur l’asile, leur détention peut être prolongée jusqu’à 36 mois. Leur maintien en détention est ‘justifié’ en vue d’une déportation devenue plus qu’improbable – qu’il s’agisse d’une expulsion vers le pays d’origine ou d’une réadmission vers un tiers pays « sûr ». Dans ces conditions il n’est pas étonnant qu’en désespoir de cause, des détenus finissent par attenter à leur jours, en commettant des suicides ou des tentatives de suicide.

    Ce qui est encore plus alarmant est qu’à la fin 2018, à peu près 28% des détenus au sein de ces centres fermés étaient des mineurs[21]. Plus récemment et notamment fin avril dernier, Arsis dans un communiqué de presse du 27 avril 2020, a dénoncé la détention en tout point de vue illégale d’une centaine de mineurs dans un seul centre de détention, celui d’Amygdaleza en Attique. D’après les témoignages, c’est avant tout dans les préfectures et les postes de police où sont gardés plus que 28% de détenus que les conditions de détention virent à un cauchemar, qui rivalise avec celui dépeint dans le film Midnight Express. Les cellules des commissariats où s’entassent souvent des dizaines de personnes sont conçus pour une détention provisoire de quelques heures, les infrastructures sanitaires sont défaillantes, et il n’y a pas de cour pour la promenade quotidienne. Quant aux policiers, ils se comportent comme s’ ils étaient au-dessus de la loi face à des détenus livrés à leur merci : ils leur font subir des humiliations systématiques, des mauvais traitements, des violences voire des tortures.

    Plusieurs témoignages concordants dénoncent des conditions horribles dans les préfectures et les commissariats : les détenus peuvent être privés de nourriture et d’eau pendant des journées entières, plusieurs entre eux sont battus et peuvent rester entravés et ligotés pendant des jours, privés de soins médicaux, même pour des cas urgents. En mars 2017, Ariel Rickel (fondatrice d’Advocates Abroad) avait découvert dans le commissariat du hot-spot de Samos, un mineur de 15 ans, ligoté sur une chaise. Le jeune homme qui avait été violement battu par les policiers, avait eu des côtes cassées et une blessure ouverte au ventre ; il était resté dans cet état ligoté trois jours durant, et ce n’est qu’après l’intervention de l’ombudsman, sollicité par l’avocate, qu’il a fini par être libéré.[22] Le cas rapporté par Ariel Rickel à Valeria Hänsel n’est malheureusement pas exceptionnel. Car, ces conditions inhumaines de détention dans les PROKEKA ont été à plusieurs reprises dénoncées comme un traitement inhumain et dégradant par la Cour Européenne de droits de l’homme[23] et par le Comité Européen pour la prévention de la torture du Conseil de l’Europe (CPT).

    Il faudrait aussi noter qu’au sein de hot-spot de Lesbos et de Kos, il y a de tels centres de détention fermés, ‘de prison dans les prisons à ciel ouvert’ que sont ces camps. Un rapport récent de HIAS Greece décrit les conditions inhumaines qui règnent dans le PROKEKA de Moria où sont détenus en toute illégalité des demandeurs d’asile n’ayant commis d’autre délit que le fait d’être originaire d’un pays dont les ressortissants obtiennent en moyenne en UE moins de 25% de réponses positives à leurs demandes d’asile (low profile scheme). Il est évident que la détention d’un demandeur d’asile sur la seule base de son pays d’origine constitue une mesure de ségrégation discriminatoire qui expose les requérants à des mauvais traitements, vu la quasi inexistence de services médicaux et la très grande difficulté voire l’impossibilité d’avoir accès à l’aide juridique gratuite pendant la détention arbitraire. Ainsi, p.ex. des personnes ressortissant de pays comme le Pakistan ou l’Algérie, même si ils/elles sont LGBT+, ce qui les exposent à des dangers graves dans leur pays d’origine, seront automatiquement détenus dans le PROKEKA de Moria, étant ainsi empêchés d’étayer suffisamment leur demande d’asile, en faisant appel à l’aide juridique gratuite et en la documentant. Début avril, dans deux centres de détention fermés, celui au sein du camp de Moria et celui de Paranesti, près de la ville de Drama au nord de la Grèce, les détenus avaient commencés une grève de la faim pour protester contre la promiscuité effroyable et réclamer leur libération ; dans les deux cas les protestations ont été très violemment réprimées par les forces de l’ordre.

    La déclaration commune UE-Turquie

    Cependant il faudrait garder à l’esprit qu’à l’origine de cette situation infernale se trouve la décision de l’UE en 2016 de fermer ses frontières et d’externaliser en Turquie la prise en charge de réfugiés, tout en bloquant ceux qui arrivent à passer en Grèce. C’est bien l’accord UE-Turquie du 18 mars 2016[24] – en fait une Déclaration commune dépourvue d’un statut juridique équivalent à celui d’un accord en bonne et due forme- qui a transformé les îles grecques en prison à ciel ouvert. En fait, cette Déclaration est un troc avec la Turquie où celle-ci s’engageait non seulement à fermer ses frontières en gardant sur son sol des millions de réfugiés mais aussi à accepte les réadmissions de ceux qui ont réussi à atteindre l’Europe ; en échange une aide de 6 milliards lui serait octroyée afin de couvrir une partie de frais générés par le maintien de 3 millions de réfugiés sur son sol, tandis que les ressortissants turcs n’auraient plus besoin de visa pour voyager en Europe. En fait, comme le dit un rapport de GISTI, la nature juridique de la Déclaration du 18 mars a beau être douteuse, elle ne produit pas moins les « effets d’un accord international sans en respecter les règles d’élaboration ». C’est justement le statut douteux de cette déclaration commune, que certains analystes n’hésitent pas de désigner comme un simple ‘communiqué de presse’, qui a fait que la Cour Européenne a refusé de se prononcer sur la légalité, en se déclarant incompétente, face à un accord d’un statut juridique indéterminé.

    Or, dans le cadre de la mise en œuvre de cet accord a été introduite par l’article 60(4) de la loi grecque L 4375/2016, la procédure d’asile dite ‘accélérée’ dans les îles grecques (fast-track border procedure) qui non seulement réduisaient les garanties de la procédure au plus bas possible en UE, mais qui impliquait aussi comme corrélat l’imposition de la restriction géographique de demandeurs d’asile dans les îles de première arrivée. Celle-ci fut officiellement imposée par la décision 10464/31-5-2017 de la Directrice du Service d’Asile, qui instaurait la restriction de circulation des requérant, afin de garantir le renvoi en Turquie de ceux-ci, en cas de rejet de leurs demandes. Rappelons que ces renvois s’appuient sur la reconnaissance -tout à fait infondée-, de la Turquie comme ‘pays tiers sûr’. Même des réfugiés Syriens ont été renvoyés en Turquie dans le cadre de la mise en application de cette déclaration commune.

    La restriction géographique qui contraint les demandeurs d’asile de ne quitter sous aucun prétexte l’île où ils ont déposé leur demande, jusqu’à l’examen complet de celle-ci, conduit inévitablement au point où nous sommes aujourd’hui à savoir à ce surpeuplement inhumain qui non seulement crée une situation invivable pour les demandeurs, mais a aussi un effet toxique sur les sociétés locales. Déjà en mai 2016, François Crépeau, rapporteur spécial de NU aux droits de l’homme de migrants, soulignait que « la fermeture de frontières de pays au nord de la Grèce, ainsi que le nouvel accord UE-Turquie a abouti à une augmentation exponentielle du nombre de migrants irréguliers dans ce pays ». Et il ajoutait que « le grand nombre de migrants irréguliers bloqués en Grèce est principalement le résultat de la politique migratoire de l’UE et des pays membres de l’UE fondée exclusivement sur la sécurisation des frontières ».

    Gisti, dans un rapport sur les hotspots de Chios et de Lesbos notait également depuis 2016 que, étant donné l’accord UE-Turquie, « ce sont les Etats membres de l’UE et l’Union elle-même qui portent l’essentiel de la responsabilité́ des mauvais traitements et des violations de leurs droits subis par les migrants enfermés dans les hotspots grecs.

    La présence des agences européennes à l’intérieur des hotspots ne fait que souligner cette responsabilité ». On le verra, le rôle de l’EASO est crucial dans la décision finale du service d’asile grec. Quant au rôle joué par Frontex, plusieurs témoignages attestent sa pratique quotidienne de non-assistance à personnes en danger en mer voire sa participation à des refoulements illégaux. Remarquons que c’est bien cette déclaration commune UE-Turquie qui stipule que les demandeurs déboutés doivent être renvoyés en Turquie et à cette fin être maintenus en détention, d’où la situation actuelle dans les centres de détention fermés.

    Enfin la situation dans les hot-spots s’est encore plus aggravée, en raison de la décision du gouvernement Mitsotakis de geler pendant plusieurs mois tout transfert vers la péninsule grecque, bloquant ainsi même les plus vulnérables sur place. Sous le gouvernement précédent, ces derniers étaient exceptés de la restriction géographique dans les hot-spots. Mais à partir du juillet 2020 les transferts de catégories vulnérables -femmes enceintes, mineurs isolés, victimes de torture ou de naufrages, personnes handicapées ou souffrant d’une maladie chronique, victimes de ségrégations à cause de leur orientation sexuelle, – avaient cessé et n’avaient repris qu’au compte-goutte début janvier, plusieurs mois après leurs suspension.

    Le dogme de la ‘surveillance agressive’ des frontières

    Les refoulements groupés sont de plus en plus fréquents, tant à la frontière maritime qu’à la frontière terrestre. A Evros cette pratique était assez courante bien avant la crise à la frontière gréco-turque de mars dernier. Elle consistait non seulement à refouler ceux qui essayaient de passer la frontière, mais aussi à renvoyer en toute clandestinité ceux qui étaient déjà entrés dans le territoire grec. Les faits sont attestés par plusieurs témoignages récoltés par Human Rights 360 dans un rapport publié fin 2018 : "The new normality : Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river" (https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e). Les « intrus » qui ont réussi à passer la frontière sont arrêtés et dépouillés de leur biens, téléphone portable compris, pour être ensuite déportés vers la Turquie, soit par des forces de l’ordre en tenue, soit par des groupes masqués et cagoulés difficiles à identifier. En effet, il n’est pas exclu que des patrouilles paramilitaires, qui s’activent dans la région en se prenant violemment aux migrants au vu et au su des autorités, soient impliquées à ses opérations. Les réfugiés peuvent être gardés non seulement dans des postes de police et de centres de détention fermés, mais aussi dans des lieux secrets, sans qu’ils n’aient la moindre possibilité de contact avec un avocat, le service d’asile, ou leurs proches. Par la suite ils sont embarqués de force sur des canots pneumatiques en direction de la Turquie.

    Cette situation qui fut dénoncée par les ONG comme instaurant une nouvelle ‘normalité’, tout sauf normale, s’est dramatiquement aggravée avec la crise à la frontière terrestre fin février et début mars dernier[25]. Non seulement la frontière fut hermétiquement fermée et des refoulements groupés effectués par la police anti-émeute et l’armée, mais, dans le cadre de la soi-disant défense de l’intégrité territoriale, il y a eu plusieurs cas où des balles réelles ont été tirées par les forces grecques contre les migrants, faisant quatre morts et plusieurs blessés[26].

    Cependant ces pratiques criminelles ne sont pas le seul fait des autorités grecques. Depuis le 13 mars dernier, des équipes d’Intervention Rapide à la Frontière de Frontex, les Rapid Border Intervention Teams (RABIT) ont été déployées à la frontière gréco-turque d’Evros, afin d’assurer la ‘protection’ de la frontière européenne. Leur intervention qui aurait dû initialement durer deux mois, a été entretemps prolongée. Ces équipes participent elles, et si oui dans quelle mesure, aux opérations de refoulement ? Il faudrait rappeler ici que, d’après plusieurs témoignages récoltés par le Greek Council for Refugees, les équipes qui opéraient les refoulements en 2017 et 2018 illégaux étaient déjà mixtes, composées des agents grecs et des officiers étrangers parlant soit l’allemand soit l’anglais. Il n’y a aucune raison de penser que cette coopération en bonne entente en matière de refoulement, entre forces grecques et celles de Frontex ait cessé depuis, d’autant plus que début mars la Grèce fut désignée par les dirigeants européens pour assurer la protection de l’Europe, censément menacée par les migrants à sa frontière.

    Plusieurs témoignages de réfugiés refoulés à la frontière d’Evros ainsi que des documents vidéo attestent l’existence d’un centre de détention secret destiné aux nouveaux arrivants ; celui-ci n’est répertorié nulle part et son fonctionnement ne respecte aucune procédure légale, concernant l’identification et l’enregistrement des arrivants. Ce centre, fonctionnant au noir, dont l’existence fut révélée par un article du 10 mars 2020 de NYT, se situe à la proximité de la frontière gréco-turque, près du village grec Poros. Les malheureux qui y échouent, restent détenus dans cette zone de non-droit absolu[27], car, non seulement leur existence n’est enregistrée nulle part mais le centre même n’apparaît sur aucun registre de camps et de centres de détention fermés. Au bout de quelques jours de détention dans des conditions inhumaines, les détenus dépouillés de leurs biens sont renvoyés de force vers la Turquie, tandis que plusieurs d’entre eux ont été auparavant battus par la police.

    La situation est aussi alarmante en mer Egée, où les rapports dénonçant des refoulements maritimes violents mettant en danger la vie de réfugiés, ne cessent de se multiplier depuis le début mars. D’après les témoignages il y aurait au moins deux modes opératoires que les garde-côtes grecs ont adoptés : enlever le moteur et le bidon de gasoil d’une embarcation surchargée et fragile, tout en la repoussant vers les eaux territoriaux turques, et/ou créer des vagues, en passant en grande vitesse tout près du bateau, afin d’empêcher l’embarcation de s’approcher à la côte grecque (voir l’incident du 4 juin dernier, dénoncé par Alarm Phone). Cette dernière méthode de dissuasion ne connaît pas de limites ; des vidéos montrent des incidents violents où les garde-côtes n’hésitent pas à tirer des balles réelles dans l’eau à côté des embarcations de réfugiés ou même dans leurs directions ; il y a même des vidéos qui montrent les garde-côtes essayant de percer le canot pneumatique avec des perches.

    Néanmoins, l’arsenal de garde-côtes grecs ne se limite pas à ces méthodes extrêmement dangereuses ; ils recourent à des procédés semblables à ceux employés en 2013 par l’Australie pour renvoyer les migrants arrivés sur son sol : ils obligent des demandeurs d’asile à embarquer sur des life rafts -des canots de survie qui se présentent comme des tentes gonflables flottant sur l’eau-, et ils les repoussent vers la Turquie, en les laissant dériver sans moteur ni gouvernail[28].

    Des incidents de ce type ne cessent de se multiplier depuis le début mars. Victimes de ce type de refoulement qui mettent en danger la vie des passagers, peuvent être même des femmes enceintes, des enfants ou même des bébés –voir la vidéo glaçante tournée sur un tel life raft le 25 mai dernier et les photographies respectives de la garde côtière turque.

    Ce mode opératoire va beaucoup plus loin qu’un refoulement illégal, car il arrive assez souvent que les personnes concernées aient déjà débarqué sur le territoire grec, et dans ce cas ils avaient le droit de déposer une demande d’asile. Cela veut dire que les garde-côtes grecs ne se contentent pas de faire des refoulements maritimes qui violent le droit national et international ainsi que le principe de non-refoulement de la convention de Genève[29]. Ioannis Stevis, responsable du média local Astraparis à Chios, avait déclaré au Guardian « En mer Egée nous pouvions voir se dérouler cette guerre non-déclarée. Nous pouvions apercevoir les embarcations qui ne pouvaient pas atteindre la Grèce, parce qu’elles en étaient empêchées. De push-backs étaient devenus un lot quotidien dans les îles. Ce que nous n’avions pas vu auparavant, c’était de voir les bateaux arriver et les gens disparaître ».

    Cette pratique illégale va beaucoup plus loin, dans la mesure où les garde-côtes s’appliquent à renvoyer en Turquie ceux qui ont réussi à fouler le sol grec, sans qu’aucun protocole ni procédure légale ne soient respectés. Car, ces personnes embarquées sur les life rafts, ne sont pas à strictement parler refoulées – et déjà le refoulement est en soi illégal de tout point de vue-, mais déportées manu militari et en toute illégalité en Turquie, sans enregistrement ni identification préalable. C’est bien cette méthode qui explique comment des réfugiés dont l’arrivée sur les côtes de Samos et de Chios est attestée par des vidéos et des témoignages de riverains, se sont évaporés dans la nature, n’apparaissant sur aucun registre de la police ou des autorités portuaires[30]. Malgré l’existence de documents photos et vidéos attestant l’arrivée des embarcations des jours où aucune arrivée n’a été enregistrée par les autorités, le ministre persiste et signe : pour lui il ne s’agirait que de la propagande turque reproduite par quelques esprits malveillants qui voudraient diffamer la Grèce. Néanmoins les photographies horodatées publiées sur Astraparis, dans un article intitulé « les personnes que nous voyons sur la côte Monolia à Chios seraient-ils des extraterrestres, M. le Ministre ? », constituent un démenti flagrant du discours complotiste du Ministre.

    Question cruciale : quelle est le rôle exact joué par Frontex dans ces refoulements ? Est-ce que les quelques 600 officiers de Frontex qui opèrent en mer Egée dans le cadre de l’opération Poséidon, y participent d’une façon ou d’une autre ? Ce qui est sûr est qu’il est quasi impossible qu’ils n’aient pas été de près ou de loin témoins des opérations de push-back. Le fait est confirmé par un article du Spiegel sur un incident du 13 mai, un push-back de 27 réfugiés effectué par la garde côtière grecque laquelle, après avoir embarqué les réfugiés sur un canot de sauvetage, a remorqué celui-ci en haute mer. Or, l’embarcation de réfugiés a été initialement repéré près de Samos par les hommes du bateau allemand Uckermark faisant partie des forces de Frontex, qui l’ont ensuite signalé aux officiers grecs ; le fait que cette embarcation ait par la suite disparu sans laisser de trace et qu’aucune arrivée de réfugiés n’ait été enregistrée à Samos ce jour-là, n’a pas inquiété outre-mesure les officiers allemands.

    Nous savons par ailleurs, grâce à l’attitude remarquable d’un équipage danois, que les hommes de Frontex reçoivent l’ordre de ne pas porter secours aux réfugiés navigant sur des canots pneumatiques, mais de les repousser ; au cas où les réfugiés ont déjà été secourus et embarqués à bord d’un navire de Frontex, celui-ci reçoit l’ordre de les remettre sur des embarcations peu fiables et à peine navigables. C’est exactement ce qui est arrivé début mars à un patrouilleur danois participant à l’opération Poséidon, « l’équipage a reçu un appel radio du commandement de Poséidon leur ordonnant de remettre les [33 migrants qu’ils avaient secourus] dans leur canot et de les remorquer hors des eaux grecques »[31], ordre, que le commandant du navire danois Jan Niegsch a refusé d’exécuter, estimant “que celui-ci n’était pas justifiable”, la manœuvre demandée mettant en danger la vie des migrants. Or, il n’y aucune raison de penser que l’ordre reçu -et fort heureusement non exécuté grâce au courage du capitaine Niegsch et du chargé de l’unité danoise de Frontex, Jens Moller- soit un ordre exceptionnel que les autres patrouilleurs de Frontex n’ont jamais reçu. Les officiers danois ont d’ailleurs confirmé que les garde-côtes grecs reçoivent des ordres de repousser les bateaux qui arrivent de Turquie, et ils ont été témoins de plusieurs opérations de push-back. Mais si l’ordre de remettre les réfugiés en une embarcation non-navigable émanait du quartier général de l’opération Poséidon, qui l’avait donc donné [32] ? Des officiers grecs coordonnant l’opération, ou bien des officiers de Frontex ?

    Remarquons que les prérogatives de Frontex ne se limitent pas à la surveillance et la ‘protection’ de la frontière européenne : dans une interview que Fabrice Leggeri avait donné en mars dernier à un quotidien grec, il a révélé que Frontex était en train d’envisager avec le gouvernement grec les modalités d’une action communes pour effectuer les retours forcés des migrants dits ‘irréguliers’ à leurs pays d’origine. « Je m’attends à ce que nous ayons bientôt un plan d’action en commun. D’après mes contacts avec les officiers grecs, j’ai compris que la Grèce est sérieusement intéressée à augmenter le nombre de retours », avait-il déclaré.

    Tout démontre qu’actuellement les sauvetages en mer sont devenus l’exception et les refoulements violents et dangereux la règle. « Depuis des années, Alarm Phone a documenté des opérations de renvois menées par des garde-côtes grecs. Mais ces pratiques ont considérablement augmenté ces dernières semaines et deviennent la norme en mer Égée », signale un membre d’Alarm Phone à InfoMigrants. De sorte que nous pouvons affirmer que le dogme du gouvernement Mitsotakis consiste en une inversion complète du principe du non-refoulement : ne laisser passer personne en refoulant coûte que coûte. D’ailleurs, ce nouveau dogme a été revendiqué publiquement par le ministre de Migration et de l’Asile Mitarakis, qui s’est vanté à plusieurs reprises d’avoir réussi à créer une frontière maritime quasi-étanche. Les quatre volets de l’approche gouvernementale ont été résumés ainsi par le ministre : « protection des frontières, retours forcés, centres fermés pour les arrivants, et internationalisation des frontières »[33]. Dans une émission télévisée du 13 avril, le même ministre a déclaré que la frontière était bien gardée, de sorte qu’aujourd’hui, les flux sont quasi nuls, et il a ajouté que “l’armée et des unités spéciaux, la marine nationale et les garde-côtes sont prêts à opérer pour empêcher les migrants en situation irrégulière d’entrer dans notre pays’’. Bref, des forces militaires sont appelées de se déployer sur le front de guerre maritime et terrestre contre les migrants. Voilà comment est appliqué le dogme de zéro flux dont se réclame le Ministre.

    Le Conseil de l’Europe a publié une déclaration très percutante à ce sujet le 19 juin. Sous le titre Il faut mettre fin aux refoulements et à la violence aux frontières contre les réfugiés, la commissaire aux droits de l’homme Dunja Mijatović met tous les états membres du Conseil de l’Europe devant leurs responsabilités, en premier lieu les états qui commettent de telles violations de droits des demandeurs d’asile. Loin de considérer que les refoulements et les violences à la frontière de l’Europe sont le seul fait de quelques états dont la plupart sont situés à la frontière externe de l’UE, la commissaire attire l’attention sur la tolérance tacite de ces pratiques illégales, voire l’assistance à celles-ci de la part de la plupart d’autres états membres. Est responsable non seulement celui qui commet de telles violations des droits mais aussi celui qui les tolère voire les encourage.

    Asile : ‘‘mission impossible’’ pour les nouveaux arrivants ?

    Actuellement en Grèce plusieurs dizaines de milliers de demandes d’asile sont en attente de traitement. Pour donner la pleine mesure de la surcharge d’un service d’asile qui fonctionne actuellement à effectifs réduits, il faudrait savoir qu’il y a des demandeurs qui ont reçu une convocation pour un entretien en…2022 –voir le témoignage d’un requérant actuellement au camp de Vagiohori. En février dernier il y avait 126.000 demandes en attente d’être examinées en première et deuxième instance. Entretemps, par des procédures expéditives, 7.000 demandes ont été traitées en mars et 15 000 en avril, avec en moyenne 24 jours par demande pour leur traitement[34]. Il devient évident qu’il s’agit de procédures expéditives et bâclées. En même temps le pourcentage de réponses négatives en première instance ne cesse d’augmenter ; de 45 à 50% qu’il était jusqu’à juillet dernier, il s’est élevé à 66% en février[35], et il a dû avoir encore augmenté entre temps.

    Ce qui est encore plus inquiétant est l’ambition affichée du Ministre de la Migration de réaliser 11000 déportations d’ici la fin de l’année. A Lesbos, à la réouverture du service d’asile, le 18 mai dernier, 1.789 demandeurs ont reçu une réponse négative, dont au moins 1400 en première instance[36]. Or, ces derniers n’ont eu que cinq jours ouvrables pour déposer un recours et, étant toujours confinés dans l’enceinte de Moria, ils ont été dans l’impossibilité d’avoir accès à une aide judiciaire. Ceux d’entre eux qui ont osé se déplacer à Mytilène, chef-lieu de Lesbos, pour y chercher de l’aide auprès du Legal Center of Lesbos ont écopé des amendes de 150€ pour violation de restrictions de mouvement[37] !

    Jusqu’à la nouvelle loi votée il y a six semaines au Parlement Hellénique, la procédure d’asile était un véritable parcours du combattant pour les requérants : un parcours plein d’embûches et de pièges, entaché par plusieurs clauses qui violent les lois communautaires et nationales ainsi que les conventions internationales. L’ancienne loi, entrée en vigueur seulement en janvier 2020, introduisait des restrictions de droits et un raccourcissement de délais en vue de procédures encore plus expéditives que celles dites ‘fast-track’ appliquées dans les îles (voir ci-dessous). Avant la toute nouvelle loi adoptée le 8 mai dernier, Gisti constatait déjà des atteintes au droit national et communautaire, concernant « en particulier le droit d’asile, les droits spécifiques qui doivent être reconnus aux personnes mineures et aux autres personnes vulnérables, et le droit à une assistance juridique ainsi qu’à une procédure de recours effectif »[38]. Avec la nouvelle mouture de la loi du 8 mai, les restrictions et la réduction de délais est telle que par ex. la procédure de recours devient vraiment une mission impossible pour les demandeurs déboutés, même pour les plus avertis et les mieux renseignés parmi eux. Les délais pour déposer une demande de recours se réduisent en peau de chagrin, alors que l’aide juridique au demandeur, de même que l’interprétariat en une langue que celui-ci maîtrise ne sont plus assurés, laissant ainsi le demandeur seul face à des démarches complexes qui doivent être faites dans une langue autre que la sienne[39]. De même l’entretien personnel du requérant, pierre angulaire de la procédure d’asile, peut être omis, si le service ne trouve pas d’interprète qui parle sa langue et si le demandeur vit loin du siège de la commission de recours, par ex. dans un hot-spot dans les îles ou loin de l’Attique. Le 13 mai, le ministre Mitarakis avait déclaré que 11.000 demandes ont été rejetées pendant les mois de mars et avril, et que ceux demandeurs déboutés « doivent repartir »[40], laissant entendre que des renvois massifs vers la Turquie pourraient avoir lieu, perspective plus qu’improbable, étant donné la détérioration grandissante de rapport entre les deux pays. Ces demandeurs déboutés ont été sommés de déposer un recours dans l’espace de 5 jours ouvrables après notification, sans assistance juridique et sous un régime de restrictions de mouvements très contraignant.

    En vertu de la nouvelle loi, les personnes déboutées peuvent être automatiquement placées en détention, la détention devenant ainsi la règle et non plus l’exception comme le stipule le droit européen. Ceci est encore plus vrai pour les îles. Qui plus est, selon le droit international et communautaire, la mesure de détention ne devrait être appliquée qu’en dernier ressort et seulement s’il y a une perspective dans un laps de temps raisonnable d’effectuer le renvoi forcé de l’intéressé. Or, aujourd’hui et depuis quatre mois, il n’y a aucune perspective de cet ordre. Car les chances d’une réadmission en Turquie ou d’une expulsion vers le pays d’origine sont pratiquement inexistantes, pendant la période actuelle. Si on tient compte que plusieurs dizaines de milliers de demandes restent en attente d’être traitées et que le pourcentage de rejet ne cesse d’augmenter, on voit avec effroi s’esquisser la perspective d’un maintien en détention de dizaines de milliers de personnes pour un laps de temps indéfini. La Grèce compte-t-elle créer de centres de détention pour des dizaines de milliers de personnes, qui s’apparenteraient par plusieurs traits à des véritables camps de concentration ? Le fera-t-elle avec le financement de l’UE ?

    Nous savons que le rôle de EASO, dont la présence en Grèce s’est significativement accrue récemment,[41] est crucial dans ces procédures d’asile : c’est cet organisme européen qui mène le pré-enregistrement de la demande d’asile et qui se prononce sur sa recevabilité ou pas. Jusqu’à maintenant il intervenait uniquement dans les îles dans le cadre de la procédure dite accélérée. Car, depuis la Déclaration de mars 2016, dans les îles est appliquée une procédure d’asile spécifique, dite procédure fast-track à la frontière (fast-track border procedure). Il s’agit d’une procédure « accélérée », qui s’applique dans le cadre de la « restriction géographique » spécifique aux hotspots »,[42] en application de l’accord UE-Turquie de mars 2016. Dans le cadre de cette procédure accélérée, c’est bien l’EASO qui se charge de faire le premier ‘tri’ entre les demandeurs en enregistrant la demande et en effectuant un premier entretien. La procédure ‘fast-track’ aurait dû rester une mesure exceptionnelle de courte durée pour faire face à des arrivées massives. Or, elle est toujours en vigueur quatre ans après son instauration, tandis qu’initialement sa validité n’aurait pas dû dépasser neuf mois – six mois suivis d’une prolongation possible de trois mois. Depuis, de prolongation en prolongation cette mesure d’exception s’est installée dans la permanence.

    La procédure accélérée qui, au détriment du respect des droits des réfugiés, aurait pu aboutir à un raccourcissement significatif de délais d’attente très longs, n’a même pas réussi à obtenir ce résultat : une partie des réfugiés arrivés à Samos en août 2019, avaient reçu une notification de rendez-vous pour l’entretien d’asile (et d’admissibilité) pour 2021 voire 2022[43] ! Mais si les procédures fast-track ne raccourcissent pas les délais d’attente, elles raccourcissent drastiquement et notamment à une seule journée le temps que dispose un requérant pour qu’il se prépare et consulte si besoin un conseiller juridique qui pourrait l’assister durant la procédure[44]. Dans le cas d’un rejet de la demande en première instance, le demandeur débouté ne dispose que de cinq jours après la notification de la décision négative pour déposer un recours en deuxième instance. Bref, le raccourcissement très important de délais introduits par la procédure accélérée n’affectait jusqu’à maintenant que les réfugiés qui sont dans l’impossibilité d’exercer pleinement leurs droits, et non pas le service qui pouvait imposer un temps interminable d’attente entre les différentes étapes de la procédure.

    Cependant l’implication d’EASO dépasse et de loin le pré-enregistrement, car ce sont bien ses fonctionnaires qui, suite à un entretien de l’intéressé, dit « interview d’admission », établissent le dossier qui sera transmis aux autorités grecques pour examen[45]. Or, nous savons par la plainte déposée contre l’EASO par les avocats de l’ONG European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), en 2017, que les agents d’EASO ne consacrait à l’interrogatoire du requérant que 15 minutes en moyenne,[46] et ceci bien avant que ne monte en flèche la pression exercée par le gouvernement actuel pour accélérer encore plus les procédures. La même plainte dénonçait également le fait que la qualité de l’interprétation n’était point assurée, dans la mesure où, au lieu d’employer des interprètes professionnels, cet organisme européen faisait souvent recours à des réfugiés, pour faire des économies. A vrai dire, l’EASO, après avoir réalisé un entretien, rédige « un avis (« remarques conclusives ») et recommande une décision à destination des services grecs de l’asile, qui vont statuer sur la demande, sans avoir jamais rencontré » les requérants[47]. Mais, même si en théorie la décision revient de plein droit au Service d’Asile grec, en pratique « une large majorité des recommandations transmises par EASO aux services grecs de l’asile est adoptée par ces derniers »[48]. Or, depuis 2018 les compétences d’EASO ont été étendues à tout le territoire grec, ce qui veut dire que les officiers grecs de cet organisme européen ont le droit d’intervenir même dans le cadre de la procédure régulière d’asile et non plus seulement dans celui de la procédure accélérée. Désormais, avec le quadruplication des effectifs en Grèce continentale prévue pour 2020, et le dédoublement de ceux opérant dans les îles, l’avis ‘consultatif’ de l’EASO va peser encore plus sur les décisions finales. De sorte qu’on pourrait dire, que le constat que faisait Gisti, bien avant l’extension du domaine d’intervention d’EASO, est encore plus vrai aujourd’hui : l’UE, à travers ses agences, exerce « une forme de contrôle et d’ingérence dans la politique grecque en matière d’asile ». Si avant 2017, l’entretien et la constitution du dossier sur la base duquel le service grec d’asile se prononce étaient faits de façon si bâclée, que va—t-il se passer maintenant avec l’énorme pression des autorités pour des procédures fast-track encore plus expéditives, qui ne respectent nullement les droits des requérants ? Enfin, une fois la nouvelle loi mise en vigueur, les fonctionnaires européens vont-ils rédiger leurs « remarques conclusives » en fonction de celle-ci ou bien en respectant la législation européenne ? Car la première comporte des clauses qui ne respectent point la deuxième.

    La suspension provisoire de la procédure d’asile et ses effets à long terme

    Début mars, afin de dissuader les migrants qui se rassemblaient à la frontière gréco-turque d’Evros, le gouvernement grec a décidé de suspendre provisoirement la procédure d’asile pendant la durée d’un mois[49]. L’acte législatif respectif stipule qu’à partir du 1 mars et jusqu’au 30 du même mois, ceux qui traversent la frontière n’auront plus le droit de déposer une demande d’asile. Sans procédure d’identification et d’enregistrement préalable ils seront automatiquement maintenus en détention jusqu’à leur expulsion ou leur réadmission en Turquie. Après une cohorte de protestations de la part du Haut-Commissariat, des ONG, et même d’Ylva Johansson, commissaire aux affaires internes de l’UE, la procédure d’asile suspendue a été rétablie début avril et ceux qui sont arrivés pendant la durée de sa suspension ont rétroactivement obtenu le droit de demander la protection internationale. « Le décret a cessé de produire des effets juridiques à la fin du mois de mars 2020. Cependant, il a eu des effets très néfastes sur un nombre important de personnes ayant besoin de protection. Selon les statistiques du HCR, 2 927 personnes sont entrées en Grèce par voie terrestre et maritime au cours du mois de mars[50]. Ces personnes automatiquement placées en détention dans des conditions horribles, continuent à séjourner dans des établissements fermés ou semi-fermés. Bien qu’elles aient finalement été autorisées à exprimer leur intention de déposer une demande d’asile auprès du service d’asile, elles sont de fait privées de toute aide judiciaire effective. La plus grande partie de leurs demandes d’asile n’a cependant pas encore été enregistrée. Le préjudice causé par les conditions de détention inhumaines est aggravé par les risques sanitaires graves, voire mortels, découlant de l’apparition de la pandémie COVID-19, qui n’ont malheureusement pas conduit à un réexamen de la politique de détention en Grèce ».[51]

    En effet, les arrivants du mois de mars ont été jusqu’à il y a peu traités comme des criminels enfreignant la loi et menaçant l’intégrité du territoire grec ; ils ont été dans un premier temps mis en quarantaine dans des conditions inconcevables, gardés par la police en zones circonscrites, sans un abri ni la moindre infrastructure sanitaire. Après une période de quarantaine qui la plupart du temps durait plus longtemps que les deux semaines réglementaires, ceux qui sont arrivés pendant la suspension de la procédure, étaient transférés, en vue d’une réadmission en Turquie, à Malakassa en Attique, où un nouveau camp fermé, dit ‘le camp de tentes’, fut créé à proximité de de l’ancien camp avec les containeurs.

    700 d’entre eux ont été transférés au camp fermé de Klidi, à Serres, au nord de la Grèce, construit sur un terrain inondable au milieu de nulle part. Ces deux camps fermés présentent des affinités troublantes avec des camps de concentration. Les conditions de vie inhumaines au sein de ces camps s’aggravaient encore plus par le risque de contamination accru du fait de la très grande promiscuité et des conditions sanitaires effrayantes (coupures d’eau sporadiques à Malakassa, manque de produits d’hygiène, et approvisionnement en eau courante seulement deux heures par jour à Klidi)[52]. Or, après le rétablissement de la procédure d’asile, les 2.927 personnes arrivées en mars, ont obtenu–au moins en théorie- le droit de déposer une demande, mais n’ont toujours ni l’assistance juridique nécessaire, ni interprètes, ni accès effectif au service d’asile. Celui-ci a rouvert depuis le 18 mars, mais fonctionne toujours à effectif réduit, et est submergé par les demandes de renouvellement des cartes. Actuellement les réfugiés placés en détention sont toujours retenus dans les même camps qui sont devenus des camps semi-fermés sans pour autant que les conditions de vie dégradantes et dangereuses pour la santé des résidents aient vraiment changé. Ceci est d’autant plus vrai que le confinement de réfugiés et de demandeurs d’asile a été prolongé jusqu’au 5 juillet, ce qui ne leur permet de circuler que seulement avec une autorisation de la police, tandis que la population grecque est déjà tout à fait libre de ses mouvements. Dans ces conditions, il est pratiquement impossible d’accomplir des démarches nécessaires pour le dépôt d’une demande bien documentée.

    Refugee Support Aegean a raison de souligner que « les répercussions d’une violation aussi flagrante des principes fondamentaux du droit des réfugiés et des droits de l’homme ne disparaissent pas avec la fin de validité du décret, les demandeurs d’asile concernés restant en détention arbitraire dans des conditions qui ne sont aucunement adaptées pour garantir leur vie et leur dignité. Le décret de suspension crée un précédent dangereux pour la crédibilité du droit international et l’intégrité des procédures d’asile en Grèce et au-delà ».

    Cependant, nous ne pouvons pas savoir jusqu’où pourrait aller cette escalade d’horreurs. Aussi inimaginable que cela puisse paraître , il y a pire, même par rapport au camp fermé de Klidi à Serres, que Maria Malagardis, journaliste à Libération, avait à juste titre désigné comme ‘un camp quasi-militaire’. Car les malheureux arrêtés à Evros fin février et début mars, ont été jugés en procédure de flagrant délit, et condamnés pour l’exemple à des peines de prison de quatre ans ferme et des amendes de 10.000 euros -comme quoi, les autorités grecques peuvent revendiquer le record en matière de peine pour entrée irrégulière, car même la Hongrie de Orban, ne condamne les migrants qui ont osé traverser ses frontières qu’à trois ans de prison. Au moins une cinquantaine de personnes ont été condamnées ainsi pour « entrée irrégulière dans le territoire grec dans le cadre d’une menace asymétrique portant sur l’intégrité du pays », et ont été immédiatement incarcérées. Et il est fort à parier qu’aujourd’hui, ces personnes restent toujours en prison, sans que le rétablissement de la procédure ait changé quoi que ce soit à leur sort.

    Eriger l’exception en règle

    Qui plus est la suspension provisoire de la procédure laisse derrière elle des marques non seulement aux personnes ayant vécu sous la menace de déportation imminente, et qui continuent à vivre dans des conditions indignes, mais opère aussi une brèche dans la validité universelle du droit international et de la Convention de Genève, en créant un précédent dangereux. Or, c’est justement ce précédent que M. Mitarakis veut ériger en règle européenne en proposant l’introduction d’une clause de force majeure dans la législation européenne de l’asile[53] : dans le débat pour la création d’un système européen commun pour l’asile, le Ministre grec de la politique migratoire a plaidé pour l’intégration de la notion de force majeure dans l’acquis européen : celle-ci permettrait de contourner la législation sur l’asile dans des cas où la sécurité territoriale ou sanitaire d’un pays serait menacée, sans que la violation des droits de requérants expose le pays responsable à des poursuites. Pour convaincre ses interlocuteurs, il a justement évoqué le cas de la suspension par le gouvernement de la procédure pendant un mois, qu’il compte ériger en paradigme pour la législation communautaire. Cette demande fut réitérée le 5 juin dernier, par une lettre envoyée par le vice-ministre des Migrations et de l’Asile, Giorgos Koumoutsakos, au vice-président Margaritis Schinas et au commissaire aux affaires intérieures, Ylva Johansson. Il s’agit de la dite « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile », une initiative cosignée par Chypre et la Bulgarie. Par cette lettre, les trois pays demandent l’inclusion au Pacte européen d’une clause qui « devrait prévoir la possibilité d’activer les mécanismes d’exception pour prévenir et répondre à des situations d’urgence, ainsi que des déviations [sous-entendu des dérogations au droit européen] dans les modes d’action si nécessaire ».[54] Nous le voyons, la Grèce souhaite, non seulement poursuivre sa politique de « surveillance agressive » des frontières et de violation des droits de migrants, mais veut aussi ériger ces pratiques de tout point de vue illégales en règle d’action européenne. Il nous faudrait donc prendre la mesure de ce que laisse derrière elle la fracture dans l’universalité de droit d’asile opérée par la suspension provisoire de la procédure. Même si celle-ci a été bon an mal an rétablie, les effets de ce geste inédit restent toujours d’actualité. L’état d’exception est en train de devenir permanent.

    Une rhétorique de la haine

    Le discours officiel a changé de fond en comble depuis l’arrivée au pouvoir du gouvernement Mitsotakis. Des termes, comme « clandestins » ont fait un retour en force, accompagnés d’une véritable stratégie de stigmatisation visant à persuader la population que les arrivants ne sont point des réfugiés mais des immigrés économiques censés profiter du laxisme du gouvernement précédent pour envahir le pays et l’islamiser. Cette rhétorique haineuse qui promeut l’image des hordes d’étrangers envahisseurs menaçant la nation et ses traditions, ne cesse d’enfler malgré le fait qu’elle soit démentie d’une façon flagrante par les faits : les arrivants, dans leur grande majorité, ne veulent pas rester en Grèce mais juste passer par celle-ci pour aller ailleurs en Europe, là où ils ont des attaches familiales, communautaires etc. Ce discours xénophobe aux relents racistes dont le paroxysme a été atteint avec la mise en avant de l’épouvantail du ‘clandestin’ porteur du virus venant contaminer et décimer la nation, a été employé d’une façon délibérée afin de justifier la politique dite de la « surveillance agressive » des frontières grecques. Il sert également à légitimer la transformation programmée des actuels CIR (RIC en anglais) en centres fermés ‘contrôlés’, où les demandeurs n’auront qu’un droit de sortie restreint et contrôlé par la police. Le ministre Mitarakis a déjà annoncé la transformation du nouveau camp de Malakasa, où étaient détenus ceux qui sont arrivés pendant la durée de la suspension d’asile, un camp qui était censé s’ouvrir après la fin de validité du décret, en camp fermé ‘contrôlé’ où toute entrée et sortie seraient gérées par la police[55].

    Révélateur des intentions du gouvernement grec, est le projet du Ministre de la politique migratoire d’étendre les compétences du Service d’Asile bien au-delà de la protection internationale, et notamment aux …expulsions ! D’après le quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn, le ministre serait en train de prospecter pour la création de trois nouvelles sections au sein du Service d’Asile : Coordination de retours forcés depuis le continent et retours volontaires, Coordination des retours depuis les îles, Appels et exclusions. Bref, le Service d’Asile grec qui a déjà perdu son autonomie, depuis qu’il a été attaché au Secrétariat général de la politique de l’Immigration du Ministère, risque de devenir – et cela serait une première mondiale- un service d’asile et d’expulsions. Voilà comment se met en œuvre la consolidation du rôle de la Grèce en tant que « bouclier de l’Europe », comme l’avait désigné début mars Ursula von der Leyden. Voilà ce qu’est en train d’ériger l’Europe qui soutient et finance la Grèce face à des personnes persécutées fuyant de guerres et de conflits armés : un mur fait de barbelés, de patrouilles armés jusqu’aux dents et d’une flotte de navires militaires. Quant à ceux qui arrivent à passer malgré tout, ils seront condamnés à rester dans les camps de la honte.

    Que faire ?

    Certaines analyses convoquent la position géopolitique de la Grèce et le rapport de forces dans l’UE, afin de présenter cette situation intolérable comme une fatalité dont on ne saurait vraiment échapper. Mais face à l’ignominie, dire qu’il n’y aurait rien ou presque à faire, serait une excuse inacceptable. Car, même dans le cadre actuel, des solutions il y en a et elles sont à portée de main. La déclaration commune UE-Turquie mise en application le 20 mars 2016, n’est plus respectée par les différentes parties. Déjà avant février 2020, l’accord ne fut jamais appliqué à la lettre, autant par les Européens qui n’ont pas fait les relocalisations promises ni respecté leurs engagements concernant la procédure d’intégration de la Turquie en UE, que par la Turquie qui, au lieu d’employer les 6 milliards qu’elle a reçus pour améliorer les conditions de vie des réfugiés sur son sol, s’est servi de cet argent pour construire un mur de 750 km dans sa frontière avec la Syrie, afin d’empêcher les réfugiés de passer. Cependant ce sont les récents développements de mars 2020 et notamment l’afflux organisé par les autorités turques de réfugiés à la frontière d’Evros qui ont sonné le glas de l’accord du 18 mars 2016. Dans la mesure où cet accord est devenu caduc, avec l’ouverture de frontières de la Turquie le 28 février dernier, il n’y plus aucune obligation officielle du gouvernement grec de continuer à imposer le confinement géographique dans les îles des demandeurs d’asile. Leur transfert sécurisé vers la péninsule pourrait s’effectuer à court terme vers des structures hôtelières de taille moyenne dont plusieurs vont rester fermées cet été. L’appel international Évacuez immédiatement les centres d’accueil – louez des logements touristiques vides et des maisons pour les réfugiés et les migrants ! qui a déjà récolté 11.500 signatures, détaille un tel projet. Ajoutons, que sa réalisation pourrait profiter aussi à la société locale, car elle créerait des postes de travail en boostant ainsi l’économie de régions qui souvent ne dépendent que du tourisme pour vivre.

    A court et à moyen terme, il faudrait qu’enfin les pays européens honorent leurs engagements concernant les relocalisations et se mettent à faciliter au lieu d’entraver le regroupement familial. Quelques timides transferts de mineurs ont été déjà faits vers l’Allemagne et le Luxembourg, mais le nombre d’enfants concernés est si petit que nous pouvons nous pouvons nous demander s’il ne s’agirait pas plutôt d’une tentative de se racheter une conscience à peu de frais. Car, sans un plan large et équitable de relocalisations, le transfert massif de requérants en Grèce continentale, risque de déplacer le problème des îles vers la péninsule, sans améliorer significativement les conditions de vie de réfugiés.

    Si les requérants qui ont déjà derrière eux l’expérience traumatisante de Moria et de Vathy, sont transférés à un endroit aussi désolé et isolé de tout que le camp de Nea Kavala (au nord de la Grèce) qui a été décrit comme un Enfer au Nord de la Grèce, nous ne faisons que déplacer géographiquement le problème. Toute la question est de savoir dans quelles conditions les requérants seront invités à vivre et dans quelles conditions les réfugiés seront transférés.

    Les solutions déjà mentionnées sont réalisables dans l’immédiat ; leur réalisation ne se heurte qu’au fait qu’elles impliquent une politique courageuse à contre-pied de la militarisation actuelle des frontières. C’est bien la volonté politique qui manque cruellement dans la mise en œuvre d’un plan d’urgence pour l’évacuation des hot-spots dans les îles. L’Europe-Forteresse ne saurait se montrer accueillante. Tant du côté grec que du côté européen la nécessité de créer des conditions dignes pour l’accueil de réfugiés n’entre nullement en ligne de compte.

    Car, même le financement d’un tel projet est déjà disponible. Début mars l’UE s’est engagé de donner à la Grèce 700 millions pour qu’elle gère la crise de réfugiés, dont 350 millions sont immédiatement disponibles. Or, comme l’a révélé Ylva Johansson pendant son intervention au comité LIBE du 2 avril dernier, les 350 millions déjà libérés doivent principalement servir pour assurer la continuation et l’élargissement du programme d’hébergement dans le continent et le fonctionnement des structures d’accueil continentales, tandis que 35 millions sont destinés à assurer le transfert des plus vulnérables dans des logements provisoires en chambres d’hôtel. Néanmoins la plus grande somme (220 millions) des 350 millions restant est destinée à financer de nouveaux centres de réception et d’identification dans les îles (les dits ‘multi-purpose centers’) qui vont fonctionner comme des centres semi-fermés où toute sortie sera règlementée par la police. Les 130 millions restant seront consacrés à financer le renforcement des contrôles – et des refoulements – à la frontière terrestres et maritime, avec augmentation des effectifs et équipement de la garde côtière, de Frontex, et des forces qui assurent l’étanchéité des frontières terrestres. Il aurait suffi de réorienter la somme destinée à financer la construction des centres semi-fermés dans les îles, et de la consacrer au transfert sécurisé au continent pour que l’installation des requérants et des réfugiés en hôtels et appartements devienne possible.

    Mais que faire pour stopper la multiplication exponentielle des refoulements à la frontière ? Si Frontex, comme Fabrice Leggeri le prétend, n’a aucune implication dans les opérations de refoulement, si ses agents n’y participent pas de près ou de loin, alors ces officiers doivent immédiatement exercer leur droit de retrait chaque fois qu’ils sont témoins d’un tel incident ; ils pouvaient même recevoir la directive de ne refuser d’appliquer tout ordre de refoulement, comme l’avait fait début mars le capitaine danois Jan Niegsch. Dans la mesure où non seulement les témoignages mais aussi des documents vidéo et des audio attestent l’existence de ces pratiques en tous points illégales, les instances européennes doivent mettre une condition sine qua non à la poursuite du financement de la Grèce pour l’accueil de migrants : la cessation immédiate de ces types de pratiques et l’ouverture sans délai d’une enquête indépendante sur les faits dénoncés. Si l’Europe ne le fait pas -il est fort à parier qu’elle n’en fera rien-, elle se rend entièrement responsable de ce qui se passe à nos frontières.

    Car,on le voit, l’UE persiste dans la politique de la restriction géographique qui oblige réfugiés et migrants à rester sur les îles pour y attendre la réponse définitive à leur demande, tandis qu’elle cautionne et finance la pratique illégale des refoulements violents à la frontière. Les intentions d’Ylva Johansson ont beau être sincères : une politique qui érige la Grèce en ‘bouclier de l’Europe’, ne saurait accueillir, mais au contraire repousser les arrivants, même au risque de leur vie.

    Quant au gouvernement grec, force est de constater que sa politique migratoire du va dans le sens opposé d’un large projet d’hébergement dans des structures touristiques hors emploi actuellement. Révélatrice des intentions du gouvernement actuel est la décision du ministre Mitarakis de fermer 55 à 60 structures hôtelières d’accueil parmi les 92 existantes d’ici fin 2020. Il s’agit de structures fonctionnant dans le continent qui offrent un niveau de vie largement supérieur à celui des camps. Or, le ministre invoque un argument économique qui ne tient pas la route un seul instant, pour justifier cette décision : pour lui, les structures hôtelières seraient trop coûteuses. Mais ce type de structure n’est pas financé par l’Etat grec mais par l’IOM, ou par l’UE, ou encore par d’autres organismes internationaux. La fermeture imminente des hôtels comme centres d’accueil a une visée autre qu’économique : il faudrait retrancher complètement les requérants et les réfugiés de la société grecque, en les obligeant à vivre dans des camps semi-fermés où les sorties seront limitées et contrôlées. Cette politique d’enfermement vise à faire sentir tant aux réfugiés qu’à la population locale que ceux-ci sont et doivent rester un corps étranger à la société grecque ; à cette fin il vaut mieux les exclure et les garder hors de vue.

    Qui plus est la fermeture de deux tiers de structures hôtelières actuelles ne pourra qu’aggraver encore plus le manque de places en Grèce continentale, rendant ainsi quasiment impossible la décongestion des îles. Sauf si on raisonne comme le Ministre : le seul moyen pour créer des places est de chasser les uns – en l’occurrence des familles de réfugiés reconnus- pour loger provisoirement les autres. La preuve, les mesures récentes de restrictions drastiques des droits aux allocations et à l’hébergement des réfugiés, reconnus comme tels, par le service de l’asile. Ceux-ci n’ont le droit de séjourner aux appartements loués par l’UNHCR dans le cadre du programme ESTIA, et aux structures d’accueil que pendant un mois (et non pas comme auparavant six) après l’obtention de leur titre, et ils ne recevront plus que pendant cette période très courte les aides alloués aux réfugiés qui leur permettraient de survivre pendant leur période d’adaptation, d’apprentissage de la langue, de formation etc. Depuis la fin du mois de mai, les autorités ont entrepris de mettre dans la rue 11.237 personnes, dont la grande majorité de réfugiés reconnus, afin de libérer des places pour la supposée imminente décongestion des îles. Au moins 10.000 autres connaîtront le même sort en juillet, car en ce moment le délai de grâce d’un mois aura expiré pour eux aussi. Ce qui veut dire que le gouvernement grec non seulement impose des conditions de vie inhumaines et de confinements prolongés aux résidants de hot-spots et aux détenus en PROKEKA (les CRA grecs), mais a entrepris à réduire les familles de réfugiés ayant obtenu la protection internationale en sans-abri, errant sans toit ni ressources dans les villes.

    La dissuasion par l’horreur

    De tout ce qui précède, nous pouvons aisément déduire que la stratégie du gouvernement grec, une stratégie soutenue par les instances européennes et mise en application en partie par des moyens que celles-ci mettent à la disposition de celui-là, consiste à rendre la vie invivable aux réfugiés et aux demandeurs d’asile vivant dans le pays. Qui plus est, dans le cadre de cette politique, la dérogation systématique aux règles du droit et notamment au principe de non-refoulement, instauré par la Convention de Genève est érigée en principe régulateur de la sécurisation des frontières. Le maintien de camps comme Moria à Lesbos et Vathy à Samos témoignent de la volonté de créer des lieux terrifiants d’une telle notoriété sinistre que l’évocation même de leurs noms puisse avoir un effet de dissuasion sur les candidats à l’exil. On ne saurait expliquer autrement la persistance de la restriction géographique de séjour dans les îles de dizaines de milliers de requérants dans des conditions abjectes.

    Nous savons que l’Europe déploie depuis plusieurs années en Méditerranée centrale la politique de dissuasion par la noyade, une stratégie qui a atteint son summum avec la criminalisation des ONG qui essaient de sauver les passagers en péril ; l’autre face de cette stratégie de la terreur se déploie à ma frontière sud-est, où l’Europe met en œuvre une autre forme de dissuasion, celle effectuée par l’horreur des hot-spots. Aux crimes contre l’humanité qui se perpétuent en toute impunité en Méditerranée centrale, entre la Libye et l’Europe, s’ajoutent d’autres crimes commis à la frontière grecque[56]. Car il s’agit bien de crimes : poursuivre des personnes fuyant les guerres et les conflits armés par des opérations de refoulement particulièrement violentes qui mettent en danger leurs vies est un crime. Obliger des personnes dont la plus grande majorité est vulnérable à vivoter dans des conditions si indignes et dégradantes en les privant de leurs droits, est un acte criminel. Ceux qui subissent de tels traitement n’en sortent pas indemnes : leur santé physique et mentale en est marquée. Il est impossible de méconnaître qu’un séjour – et qui plus est un séjour prolongé- dans de telles conditions est une expérience traumatisante en soi, même pour des personnes bien portantes, et à plus forte raison pour celles et ceux qui ont déjà subi des traumatismes divers : violences, persécutions, tortures, viols, naufrages, pour ne pas mentionner les traumas causés par des guerres et de conflits armés.

    Gisti, dans son rapport récent sur le hotspot de Samos, soulignait que loin « d’être des centres d’accueil et de prise en charge des personnes en fonction de leurs besoins, les hotspots grecs, à l’image de celui de Samos, sont en réalité des camps de détention, soustraits au regard de la société civile, qui pourraient n’avoir pour finalité que de dissuader et faire peur ». Dans son rapport de l’année dernière, le Conseil Danois pour les réfugiés (Danish Refugee Council) ne disait pas autre chose : « le système des hot spots est une forme de dissuasion »[57]. Que celle-ci se traduise par des conditions de vie inhumaines où des personnes vulnérables sont réduites à vivre comme des bêtes[58], peu importe, pourvu que cette horreur fonctionne comme un repoussoir. Néanmoins, aussi effrayant que puisse être l’épouvantail des hot-spots, il n’est pas sûr qu’il puisse vraiment remplir sa fonction de stopper les ‘flux’. Car les personnes qui prennent le risque d’une traversée si périlleuse ne le font pas de gaité de cœur, mais parce qu’ils n’ont pas d’autre issue, s’ils veulent préserver leur vie menacée par la guerre, les attentats et la faim tout en construisant un projet d’avenir.

    Quoi qu’il en soit, nous aurions tort de croire que tout cela n’est qu’une affaire grecque qui ne nous atteint pas toutes et tous, en tout cas pas dans l’immédiat. Car, la stratégie de « surveillance agressive » des frontières, de dissuasion par l’imposition de conditions de vie inhumaines et de dérogation au droit d’asile pour des raisons de « force majeure », est non seulement financée par l’UE, mais aussi proposée comme un nouveau modèle de politique migratoire pour le cadre européen commun de l’asile en cours d’élaboration. La preuve, la récente « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile » lancée par la Grèce, la Bulgarie et Chypre.

    Il devient clair, je crois, que la stratégie du gouvernement grec s’inscrit dans le cadre d’une véritable guerre aux migrants que l’UE non seulement cautionne mais soutient activement, en octroyant les moyens financiers et les effectifs nécessaires à sa réalisation. Car, les appels répétés, par ailleurs tout à fait justifiés et nécessaires, de la commissaire Ylva Johansson[59] et de la commissaire au Conseil de l’Europe Dunja Mijatović[60] de respecter les droits des demandeurs d’asile et de migrants, ne servent finalement que comme moyen de se racheter une conscience, devant le fait que cette guerre menée contre les migrants à nos frontières est rendue possible par la présence entre autres des unités RABIT à Evros et des patrouilleurs et des avions de Frontex et de l’OTAN en mer Egée. La question à laquelle tout citoyen européen serait appelé en son âme et conscience à répondre, est la suivante : sommes-nous disposés à tolérer une telle politique qui instaure un état d’exception permanent pour les réfugiés ? Car, comment désigner autrement cette ‘situation de non-droit absolu’[61] dans laquelle la Grèce sous la pression et avec l’aide active de l’Europe maintient les demandeurs d’asile ? Sommes-nous disposés à la financer par nos impôts ?

    Car le choix de traiter une partie de la population comme des miasmes à repousser coûte que coûte ou à exclure et enfermer, « ne saurait laisser intacte notre société tout entière. Ce n’est pas une question d’humanisme, c’est une question qui touche aux fondements de notre vivre-ensemble : dans quel type de société voulons-nous vivre ? Dans une société qui non seulement laisse mourir mais qui fait mourir ceux et celles qui sont les plus vulnérables ? Serions-nous à l’abri dans un monde transformé en une énorme colonie pénitentiaire, même si le rôle qui nous y est réservé serait celui, relativement privilégié, de geôliers ? [62] » La commissaire aux droits de l’homme au Conseil de l’Europe, avait à juste titre souligné que les « refoulements et la violence aux frontières enfreignent les droits des réfugiés et des migrants comme ceux des citoyens des États européens. Lorsque la police ou d’autres forces de l’ordre peuvent agir impunément de façon illégale et violente, leur devoir de rendre des comptes est érodé et la protection des citoyens est compromise. L’impunité d’actes illégaux commis par la police est une négation du principe d’égalité en droit et en dignité de tous les citoyens... »[63]. A n’importe quel moment, nous pourrions nous aussi nous trouver du mauvais côté de la barrière.

    Il serait plus que temps de nous lever pour dire haut et fort :

    Pas en notre nom ! Not in our name !

    https://migration-control.info/?post_type=post&p=63932
    #guerre_aux_migrants #asile #migrations #réfugiés #Grèce #îles #Evros #frontières #hotspot #Lesbos #accord_UE-Turquie #Vathy #Samos #covid-19 #coronavirus #confinement #ESTIA #PROKEKA #rétention #détention_administrative #procédure_accélérée #asile #procédure_d'asile #EASO #Frontex #surveillance_des_frontières #violence #push-backs #refoulement #refoulements #décès #mourir_aux_frontières #morts #life_rafts #canots_de_survie #life-raft #Mer_Egée #Méditerranée #opération_Poséidon #Uckermark #Klidi #Serres

    ping @isskein

    • The new normality: Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river

      The Greek Council for Refugees, ARSIS-Association for the Social Support of Youth and HumanRights360 publish this report containing 39 testimonies of people who attempted to enter Greece from the Evros border with Turkey, in order to draw the attention of the responsible authorities and public bodies to the frequent practice of push-backs that take place in violation of national, EU law and international law.

      The frequency and repeated nature of the testimonies that come to our attention by people in detention centres, under protective custody, and in reception and identification centres, constitutes evidence of the practice of pushbacks being used extensively and not decreasing, regardless of the silence and denial by the responsible public bodies and authorities, and despite reports and complaints denouncements that have come to light in the recent past.
      The testimonies that follow substantiate a continuous and uninterrupted use of the illegal practice of push-backs. They also reveal an even more alarming array of practices and patterns calling for further investigation; it is particularly alarming that the persons involved in implementing the practice of push-backs speak Greek, as well as other languages, while reportedly wearing either police or military clothing. In short, we observe that the practice of push-backs constitutes a particularly wide-spread practice, often employing violence in the process, leaving the State exposed and posing a threat for the rule of law in the country.
      Τhe organizations signing this report urge the competent authorities to investigate the incidents described, and to refrain from engaging in any similar action that violates Greek, EU law, and International law.

      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e

      Pour télécharger le #rapport:


      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/download/492_22e904e22458d13aa76e3dce82d4dd23

  • Asylum Outsourced : McKinsey’s Secret Role in Europe’s Refugee Crisis

    In 2016 and 2017, US management consultancy giant #McKinsey was at the heart of efforts in Europe to accelerate the processing of asylum applications on over-crowded Greek islands and salvage a controversial deal with Turkey, raising concerns over the outsourcing of public policy on refugees.

    The language was more corporate boardroom than humanitarian crisis – promises of ‘targeted strategies’, ‘maximising productivity’ and a ‘streamlined end-to-end asylum process.’

    But in 2016 this was precisely what the men and women of McKinsey&Company, the elite US management consultancy, were offering the European Union bureaucrats struggling to set in motion a pact with Turkey to stem the flow of asylum seekers to the continent’s shores.

    In March of that year, the EU had agreed to pay Turkey six billion euros if it would take back asylum seekers who had reached Greece – many of them fleeing fighting in Syria, Iraq and Afghanistan – and prevent others from trying to cross its borders.

    The pact – which human rights groups said put at risk the very right to seek refuge – was deeply controversial, but so too is the previously unknown extent of McKinsey’s influence over its implementation, and the lengths some EU bodies went to conceal that role.

    According to the findings of this investigation, months of ‘pro bono’ fieldwork by McKinsey fed, sometimes verbatim, into the highest levels of EU policy-making regarding how to make the pact work on the ground, and earned the consultancy a contract – awarded directly, without competition – worth almost one million euros to help enact that very same policy.

    The bloc’s own internal procurement watchdog later deemed the contract “irregular”.

    Questions have already been asked about McKinsey’s input in 2015 into German efforts to speed up its own turnover of asylum applications, with concerns expressed about rights being denied to those applying.

    This investigation, based on documents sought since November 2017, sheds new light on the extent to which private management consultants shaped Europe’s handling of the crisis on the ground, and how bureaucrats tried to keep that role under wraps.

    “If some companies develop programs which then turn into political decisions, this is a political issue of concern that should be examined carefully,” said German MEP Daniel Freund, a member of the European Parliament’s budget committee and a former Head of Advocacy for EU Integrity at Transparency International.

    “Especially if the same companies have afterwards been awarded with follow-up contracts not following due procedures.”

    Deal too important to fail

    The March 2016 deal was the culmination of an epic geopolitical thriller played out in Brussels, Ankara and a host of European capitals after more than 850,000 people – mainly Syrians, Iraqis and Afghans – took to the Aegean by boat and dinghy from Turkey to Greece the previous year.

    Turkey, which hosts some 3.5 million refugees from the nine-year-old war in neighbouring Syria, committed to take back all irregular asylum seekers who travelled across its territory in return for billions of euros in aid, EU visa liberalisation for Turkish citizens and revived negotiations on Turkish accession to the bloc. It also provided for the resettlement in Europe of one Syrian refugee from Turkey for each Syrian returned to Turkey from Greece.

    The EU hailed it as a blueprint, but rights groups said it set a dangerous precedent, resting on the premise that Turkey is a ‘safe third country’ to which asylum seekers can be returned, despite a host of rights that it denies foreigners seeking protection.

    The deal helped cut crossings over the Aegean, but it soon became clear that other parts were not delivering; the centrepiece was an accelerated border procedure for handling asylum applications within 15 days, including appeal. This wasn’t working, while new movement restrictions meant asylum seekers were stuck on Greek islands.

    But for the EU, the deal was too important to be derailed.

    “The directions from the European Commission, and those behind it, was that Greece had to implement the EU-Turkey deal full-stop, no matter the legal arguments or procedural issue you might raise,” said Marianna Tzeferakou, a lawyer who was part of a legal challenge to the notion that Turkey is a safe place to seek refuge.

    “Someone gave an order that this deal will start being implemented. Ambiguity and regulatory arbitrage led to a collapse of procedural guarantees. It was a political decision and could not be allowed to fail.”

    Enter McKinsey.

    Action plans emerge simultaneously

    Fresh from advising Germany on how to speed up the processing of asylum applications, the firm’s consultants were already on the ground doing research in Greece in the summer of 2016, according to two sources working with the Greek asylum service, GAS, at the time but who did not wish to be named.

    Documents seen by BIRN show that the consultancy was already in “initial discussions” with an EU body called the ‘Structural Reform Support Service’, SRSS, which aids member states in designing and implementing structural reforms and was at the time headed by Dutchman Maarten Verwey. Verwey was simultaneously EU coordinator for the EU-Turkey deal and is now the EU’s director general of economic and financial affairs, though he also remains acting head of SRSS.

    Asked for details of these ‘discussions’, Verwey responded that the European Commission – the EU’s executive arm – “does not hold any other documents” concerning the matter.

    Nevertheless, by September 2016, McKinsey had a pro bono proposal on the table for how it could help out, entitled ‘Supporting the European Commission through integrated refugee management.’ Verwey signed off on it in October.

    Minutes of management board meetings of the European Asylum Support Office, EASO – the EU’s asylum agency – show McKinsey was tasked by the Commission to “analyse the situation on the Greek islands and come up with an action plan that would result in an elimination of the backlog” of asylum cases by April 2017.

    A spokesperson for the Commission told BIRN: “McKinsey volunteered to work free of charge to improve the functioning of the Greek asylum and reception system.”

    Over the next 12 weeks, according to other redacted documents, McKinsey worked with all the major actors involved – the SRSS, EASO, the EU border agency Frontex as well as Greek authorities.

    At bi-weekly stakeholder meetings, McKinsey identified “bottlenecks” in the asylum process and began to outline a series of measures to reduce the backlog, some of which were already being tested in a “mini-pilot” on the Greek island of Chios.

    At a first meeting in mid-October, McKinsey consultants told those present that “processing rates” of asylum cases by the EASO and the Greek asylum service, as well as appeals bodies, would need to significantly increase.

    By December, McKinsey’s “action plan” was ready, involving “targeted strategies and recommendations” for each actor involved.

    The same month, on December 8, Verwey released the EU’s own Joint Action Plan for implementing the EU-Turkey deal, which was endorsed by the EU’s heads of government on December 15.

    There was no mention of any McKinsey involvement and when asked about the company’s role the Commission told BIRN the plan was “a document elaborated together between the Commission and the Greek authorities.”

    However, buried in the EASO’s 2017 Annual Report is a reference to European Council endorsement of “the consultancy action plan” to clear the asylum backlog.

    Indeed, the similarities between McKinsey’s plan and the EU’s Joint Action Plan are uncanny, particularly in terms of increasing detention capacity on the islands, “segmentation” of cases, ramping up numbers of EASO and GAS caseworkers and interpreters and Frontex escort officers, limiting the number of appeal steps in the asylum process and changing the way appeals are processed and opinions drafted.

    In several instances, they are almost identical: where McKinsey recommends introducing “overarching segmentation by case types to increase speed and quality”, for example, the EU’s Joint Action Plan calls for “segmentation by case categories to increase speed and quality”.

    Much of what McKinsey did for the SRSS remains redacted.

    In June 2019, the Commission justified the non-disclosure on the basis that the information would pose a “risk” to “public security” as it could allegedly “be exploited by third parties (for example smuggling networks)”.

    Full disclosure, it argued, would risk “seriously undermining the commercial interests” of McKinsey.

    “While I understand that there could indeed be a private and public interest in the subject matter covered by the documents requested, I consider that such a public interest in transparency would not, in this case, outweigh the need to protect the commercial interests of the company concerned,” Martin Selmayr, then secretary-general of the European Commission, wrote.

    SRSS rejected the suggestion that the fact that Verwey refused to fully disclose the McKinsey proposal he had signed off on in October 2016 represented a possible conflict of interest, according to internal documents obtained during this investigation.

    Once Europe’s leaders had endorsed the Joint Action Plan, EASO was asked to “conclude a direct contract with McKinsey” to assist in its implementation, according to EASO management board minutes.

    ‘Political pressure’

    The contract, worth 992,000 euros, came with an attached ‘exception note’ signed on January 20, 2017, by EASO’s Executive Director at the time, Jose Carreira, and Joanna Darmanin, the agency’s then head of operations. The note stated that “due to the time constraints and the political pressure it was deemed necessary to proceed with the contract to be signed without following the necessary procurement procedure”.

    The following year, an audit of EASO yearly accounts by the European Court of Auditors, ECA, which audits EU finances, found that “a single pre-selected economic operator” had been awarded work without the application of “any of the procurement procedures” laid down under EU regulations, designed to encourage transparency and competition.

    “Therefore, the public procurement procedure and all related payments (992,000 euros) were irregular,” it said.

    The auditor’s report does not name McKinsey. But it does specify that the “irregular” contract concerned the EASO’s hiring of a consultancy for implementation of the action plan in Greece; the amount cited by the auditor exactly matches the one in the McKinsey contract, while a spokesman for the EASO indirectly confirmed the contracts concerned were one and the same.

    When asked about the McKinsey contract, the spokesman, Anis Cassar, said: “EASO does not comment on specifics relating to individual contracts, particularly where the ECA is concerned. However, as you note, ECA found that the particular procurement procedure was irregular (not illegal).”

    “The procurement was carried under [sic] exceptional procurement rules in the context of the pressing requests by the relevant EU Institutions and Member States,” said EASO spokesman Anis Cassar.

    McKinsey’s deputy head of Global Media Relations, Graham Ackerman, said the company was unable to provide any further details.

    “In line with our firm’s values and confidentiality policy, we do not publicly discuss our clients or details of our client service,” Ackerman told BIRN.

    ‘Evaluation, feedback, goal-setting’

    It was not the first time questions had been asked of the EASO’s procurement record.

    In October 2017, the EU’s fraud watchdog, OLAF, launched a probe into the agency (https://www.politico.eu/article/jose-carreira-olaf-anti-fraud-office-investigates-eu-asylum-agency-director), chiefly concerning irregularities identified in 2016. It contributed to the resignation in June 2018 of Carreira (https://www.politico.eu/article/jose-carreira-easo-under-investigation-director-of-eu-asylum-agency-steps-d), who co-signed the ‘exception note’ on the McKinsey contract. The investigation eventually uncovered wrongdoings ranging from breaches of procurement rules to staff harassment (https://www.politico.eu/article/watchdog-finds-misconduct-at-european-asylum-support-office-harassment), Politico reported in November 2018.

    According to the EASO, the McKinsey contract was not part of OLAF’s investigation. OLAF said it could not comment.

    McKinsey’s work went ahead, running from January until April 2017, the point by which the EU wanted the backlog of asylum cases “eliminated” and the burden on overcrowded Greek islands lifted.

    Overseeing the project was a steering committee comprised of Verwey, Carreira, McKinsey staff and senior Greek and European Commission officials.

    The details of McKinsey’s operation are contained in a report it submitted in May 2017.

    The EASO initially refused to release the report, citing its “sensitive and restrictive nature”. Its disclosure, the agency said, would “undermine the protection of public security and international relations, as well as the commercial interests and intellectual property of McKinsey & Company.”

    The response was signed by Carreira.

    Only after a reporter on this story complained to the EU Ombudsman, did the EASO agree to disclose several sections of the report.

    Running to over 1,500 pages, the disclosed material provides a unique insight into the role of a major private consultancy in what has traditionally been the realm of public policy – the right to asylum.

    In the jargon of management consultancy, the driving logic of McKinsey’s intervention was “maximising productivity” – getting as many asylum cases processed as quickly as possible, whether they result in transfers to the Greek mainland, in the case of approved applications, or the deportation of “returnable migrants” to Turkey.

    “Performance management systems” were introduced to encourage speed, while mechanisms were created to “monitor” the weekly “output” of committees hearing the appeals of rejected asylum seekers.

    Time spent training caseworkers and interviewers before they were deployed was to be reduced, IT support for the Greek bureaucracy was stepped up and police were instructed to “detain migrants immediately after they are notified of returnable status,” i.e. as soon as their asylum applications were rejected.

    Four employees of the Greek asylum agency at the time told BIRN that McKinsey had access to agency staff, but said the consultancy’s approach jarred with the reality of the situation on the ground.

    Taking part in a “leadership training” course held by McKinsey, one former employee, who spoke on condition of anonymity, told BIRN: “It felt so incompatible with the mentality of a public service operating in a camp for asylum seekers.”

    The official said much of what McKinsey was proposing had already been considered and either implemented or rejected by GAS.

    “The main ideas of how to organise our work had already been initiated by the HQ of GAS,” the official said. “The only thing McKinsey added were corporate methods of evaluation, feedback, setting goals, and initiatives that didn’t add anything meaningful.”

    Indeed, the backlog was proving hard to budge.

    Throughout successive “progress updates”, McKinsey repeatedly warned the steering committee that productivity “levels are insufficient to reach target”. By its own admission, deportations never surpassed 50 a week during the period of its contract. The target was 340.

    In its final May 2017 report, McKinsey touted its success in “reducing total process duration” of the asylum procedure to a mere 11 days, down from an average of 170 days in February 2017.

    Yet thousands of asylum seekers remained trapped in overcrowded island camps for months on end.

    While McKinsey claimed that the population of asylum seekers on the island was cut to 6,000 by April 2017, pending “data verification” by Greek authorities, Greek government figures put the number at 12,822, just around 1,500 fewer than in January when McKinsey got its contract.

    The winter was harsh; organisations working with asylum seekers documented a series of accidents in which a number of people were harmed or killed, with insufficient or no investigation undertaken by Greek authorities (https://www.proasyl.de/en/news/greek-hotspots-deaths-not-to-be-forgotten).

    McKinsey’s final report tallied 40 field visits and more than 200 meetings and workshops on the islands. It also, interestingly, counted 21 weekly steering committee meetings “since October 2016” – connecting McKinsey’s 2016 pro bono work and the 2017 period it worked under contract with the EASO. Indeed, in its “project summary”, McKinsey states it was “invited” to work on both the “development” and “implementation” of the action plan in Greece.

    The Commission, however, in its response to this investigation, insisted it did not “pre-select” McKinsey for the 2017 work or ask EASO to sign a contract with the firm.

    Smarting from military losses in Syria and political setbacks at home, Turkish President Recep Tayyip Erdogan tore up the deal with the EU in late February this year, accusing Brussels of failing to fulfil its side of the bargain. But even before the deal’s collapse, 7,000 refugees and migrants reached Greek shores in the first two months of 2020, according to the United Nations refugee agency.

    German link

    This was not the first time that the famed consultancy firm had left its mark on Europe’s handling of the crisis.

    In what became a political scandal (https://www.focus.de/politik/deutschland/bamf-skandal-im-news-ticker-jetzt-muessen-sich-seehofer-und-cordt-den-fragen-d), the German Federal Office for Migration and Refugees, according to reports, paid McKinsey more than €45 million (https://www.augsburger-allgemeine.de/politik/Millionenzahlungen-Was-hat-McKinsey-beim-Bamf-gemacht-id512950) to help clear a backlog of more than 270,000 asylum applications and to shorten the asylum process.

    German media reports said the sum included 3.9 million euros for “Integrated Refugee Management”, the same phrase McKinsey pitched to the EU in September 2016.

    The parallels don’t end there.

    Much like the contract McKinsey clinched with the EASO in January 2017, German media reports have revealed that more than half of the sum paid to the consultancy for its work in Germany was awarded outside of normal public procurement procedures on the grounds of “urgency”. Der Spiegel (https://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/fluechtlinge-in-deutschland-mckinsey-erhielt-mehr-als-20-millionen-euro-a-11) reported that the firm also did hundreds of hours of pro bono work prior to clinching the contract. McKinsey denied that it worked for free in order to win future federal contracts.

    Again, the details were classified as confidential.

    Arne Semsrott, director of the German transparency NGO FragdenStaat, which investigated McKinsey’s work in Germany, said the lack of transparency in such cases was costing European taxpayers money and control.

    Asked about German and EU efforts to keep the details of such outsourcing secret, Semsrott told BIRN: “The lack of transparency means the public spending more money on McKinsey and other consulting firms. And this lack of transparency also means that we have a lack of public control over what is actually happening.”

    Sources familiar with the decision-making in Athens identified Solveigh Hieronimus, a McKinsey partner based in Munich, as the coordinator of the company’s team on the EASO contract in Greece. Hieronimus was central in pitching the company’s services to the German government, according to German media reports (https://www.spiegel.de/spiegel/print/d-147594782.html).

    Hieronimus did not respond to BIRN questions submitted by email.

    Freund, the German MEP formerly of Transparency International, said McKinsey’s role in Greece was a cause for concern.

    “It is not ideal if positions adopted by the [European] Council are in any way affected by outside businesses,” he told BIRN. “These decisions should be made by politicians based on legal analysis and competent independent advice.”

    A reporter on this story again complained to the EU Ombudsman in July 2019 regarding the Commission’s refusal to disclose further details of its dealings with McKinsey.

    In November, the Ombudsman told the Commission that “the substance of the funded project, especially the work packages and deliverable of the project[…] should be fully disclosed”, citing the principle that “the public has a right to be informed about the content of projects that are financed by public money.” The Ombudsman rejected the Commission’s argument that partial disclosure would undermine the commercial interests of McKinsey.

    Commission President Ursula von Der Leyen responded that the Commission “respectfully disagrees” with the Ombudsman. The material concerned, she wrote, “contains sensitive information on the business strategies and the commercial relations of the company concerned.”

    The president of the Commission has had dealings with McKinsey before; in February, von der Leyen testified before a special Bundestag committee concerning contracts worth tens of millions of euros that were awarded to external consultants, including McKinsey, during her time as German defence minister in 2013-2019.

    In 2018, Germany’s Federal Audit Office said procedures for the award of some contracts had not been strictly lawful or cost-effective. Von der Leyen acknowledged irregularities had occurred but said that much had been done to fix the shortcomings (https://www.ft.com/content/4634a3ea-4e71-11ea-95a0-43d18ec715f5).

    She was also questioned about her 2014 appointment of Katrin Suder, a McKinsey executive, as state secretary tasked with reforming the Bundeswehr’s system of procurement. Asked if Suder, who left the ministry in 2018, had influenced the process of awarding contracts, von der Leyen said she assumed not. Decisions like that were taken “way below my pay level,” she said.

    In its report, Germany’s governing parties absolved von der Leyen of blame, Politico reported on June 9 (https://www.politico.eu/article/ursula-von-der-leyen-german-governing-parties-contracting-scandal).

    The EU Ombudsman is yet to respond to the Commission’s refusal to grant further access to the McKinsey documents.

    https://balkaninsight.com/2020/06/22/asylum-outsourced-mckinseys-secret-role-in-europes-refugee-crisis
    #accord_UE-Turquie #asile #migrations #réfugiés #externalisation #privatisation #sous-traitance #Turquie #EU #UE #Union_européenne #Grèce #frontières #Allemagne #EASO #Structural_Reform_Support_Service (#SRSS) #Maarten_Verwey #Frontex #Chios #consultancy #Joint_Action_Plan #Martin_Selmayr #chronologie #Jose_Carreira #Joanna_Darmanin #privatisation #management #productivité #leadership_training #îles #Mer_Egée #Integrated_Refugee_Management #pro_bono #transparence #Solveigh_Hieronimus #Katrin_Suder

    ping @_kg_ @karine4 @isskein @rhoumour @reka

  • Monitoring being pitched to fight Covid-19 was tested on refugees

    The pandemic has given a boost to controversial data-driven initiatives to track population movements

    In Italy, social media monitoring companies have been scouring Instagram to see who’s breaking the nationwide lockdown. In Israel, the government has made plans to “sift through geolocation data” collected by the Shin Bet intelligence agency and text people who have been in contact with an infected person. And in the UK, the government has asked mobile operators to share phone users’ aggregate location data to “help to predict broadly how the virus might move”.

    These efforts are just the most visible tip of a rapidly evolving industry combining the exploitation of data from the internet and mobile phones and the increasing number of sensors embedded on Earth and in space. Data scientists are intrigued by the new possibilities for behavioural prediction that such data offers. But they are also coming to terms with the complexity of actually using these data sets, and the ethical and practical problems that lurk within them.

    In the wake of the refugee crisis of 2015, tech companies and research consortiums pushed to develop projects using new data sources to predict movements of migrants into Europe. These ranged from broad efforts to extract intelligence from public social media profiles by hand, to more complex automated manipulation of big data sets through image recognition and machine learning. Two recent efforts have just been shut down, however, and others are yet to produce operational results.

    While IT companies and some areas of the humanitarian sector have applauded new possibilities, critics cite human rights concerns, or point to limitations in what such technological solutions can actually achieve.

    In September last year Frontex, the European border security agency, published a tender for “social media analysis services concerning irregular migration trends and forecasts”. The agency was offering the winning bidder up to €400,000 for “improved risk analysis regarding future irregular migratory movements” and support of Frontex’s anti-immigration operations.

    Frontex “wants to embrace” opportunities arising from the rapid growth of social media platforms, a contracting document outlined. The border agency believes that social media interactions drastically change the way people plan their routes, and thus examining would-be migrants’ online behaviour could help it get ahead of the curve, since these interactions typically occur “well before persons reach the external borders of the EU”.

    Frontex asked bidders to develop lists of key words that could be mined from platforms like Twitter, Facebook, Instagram and YouTube. The winning company would produce a monthly report containing “predictive intelligence ... of irregular flows”.

    Early this year, however, Frontex cancelled the opportunity. It followed swiftly on from another shutdown; Frontex’s sister agency, the European Asylum Support Office (EASO), had fallen foul of the European data protection watchdog, the EDPS, for searching social media content from would-be migrants.

    The EASO had been using the data to flag “shifts in asylum and migration routes, smuggling offers and the discourse among social media community users on key issues – flights, human trafficking and asylum systems/processes”. The search covered a broad range of languages, including Arabic, Pashto, Dari, Urdu, Tigrinya, Amharic, Edo, Pidgin English, Russian, Kurmanji Kurdish, Hausa and French.

    Although the EASO’s mission, as its name suggests, is centred around support for the asylum system, its reports were widely circulated, including to organisations that attempt to limit illegal immigration – Europol, Interpol, member states and Frontex itself.

    In shutting down the EASO’s social media monitoring project, the watchdog cited numerous concerns about process, the impact on fundamental rights and the lack of a legal basis for the work.

    “This processing operation concerns a vast number of social media users,” the EDPS pointed out. Because EASO’s reports are read by border security forces, there was a significant risk that data shared by asylum seekers to help others travel safely to Europe could instead be unfairly used against them without their knowledge.

    Social media monitoring “poses high risks to individuals’ rights and freedoms,” the regulator concluded in an assessment it delivered last November. “It involves the use of personal data in a way that goes beyond their initial purpose, their initial context of publication and in ways that individuals could not reasonably anticipate. This may have a chilling effect on people’s ability and willingness to express themselves and form relationships freely.”

    EASO told the Bureau that the ban had “negative consequences” on “the ability of EU member states to adapt the preparedness, and increase the effectiveness, of their asylum systems” and also noted a “potential harmful impact on the safety of migrants and asylum seekers”.

    Frontex said that its social media analysis tender was cancelled after new European border regulations came into force, but added that it was considering modifying the tender in response to these rules.
    Coronavirus

    Drug shortages put worst-hit Covid-19 patients at risk
    European doctors running low on drugs needed to treat Covid-19 patients
    Big Tobacco criticised for ’coronavirus publicity stunt’ after donating ventilators

    The two shutdowns represented a stumbling block for efforts to track population movements via new technologies and sources of data. But the public health crisis precipitated by the Covid-19 virus has brought such efforts abruptly to wider attention. In doing so it has cast a spotlight on a complex knot of issues. What information is personal, and legally protected? How does that protection work? What do concepts like anonymisation, privacy and consent mean in an age of big data?
    The shape of things to come

    International humanitarian organisations have long been interested in whether they can use nontraditional data sources to help plan disaster responses. As they often operate in inaccessible regions with little available or accurate official data about population sizes and movements, they can benefit from using new big data sources to estimate how many people are moving where. In particular, as well as using social media, recent efforts have sought to combine insights from mobile phones – a vital possession for a refugee or disaster survivor – with images generated by “Earth observation” satellites.

    “Mobiles, satellites and social media are the holy trinity of movement prediction,” said Linnet Taylor, professor at the Tilburg Institute for Law, Technology and Society in the Netherlands, who has been studying the privacy implications of such new data sources. “It’s the shape of things to come.”

    As the devastating impact of the Syrian civil war worsened in 2015, Europe saw itself in crisis. Refugee movements dominated the headlines and while some countries, notably Germany, opened up to more arrivals than usual, others shut down. European agencies and tech companies started to team up with a new offering: a migration hotspot predictor.

    Controversially, they were importing a concept drawn from distant catastrophe zones into decision-making on what should happen within the borders of the EU.

    “Here’s the heart of the matter,” said Nathaniel Raymond, a lecturer at the Yale Jackson Institute for Global Affairs who focuses on the security implications of information communication technologies for vulnerable populations. “In ungoverned frontier cases [European data protection law] doesn’t apply. Use of these technologies might be ethically safer there, and in any case it’s the only thing that is available. When you enter governed space, data volume and ease of manipulation go up. Putting this technology to work in the EU is a total inversion.”
    “Mobiles, satellites and social media are the holy trinity of movement prediction”

    Justin Ginnetti, head of data and analysis at the Internal Displacement Monitoring Centre in Switzerland, made a similar point. His organisation monitors movements to help humanitarian groups provide food, shelter and aid to those forced from their homes, but he casts a skeptical eye on governments using the same technology in the context of migration.

    “Many governments – within the EU and elsewhere – are very interested in these technologies, for reasons that are not the same as ours,” he told the Bureau. He called such technologies “a nuclear fly swatter,” adding: “The key question is: What problem are you really trying to solve with it? For many governments, it’s not preparing to ‘better respond to inflow of people’ – it’s raising red flags, to identify those en route and prevent them from arriving.”
    Eye in the sky

    A key player in marketing this concept was the European Space Agency (ESA) – an organisation based in Paris, with a major spaceport in French Guiana. The ESA’s pitch was to combine its space assets with other people’s data. “Could you be leveraging space technology and data for the benefit of life on Earth?” a recent presentation from the organisation on “disruptive smart technologies” asked. “We’ll work together to make your idea commercially viable.”

    By 2016, technologists at the ESA had spotted an opportunity. “Europe is being confronted with the most significant influxes of migrants and refugees in its history,” a presentation for their Advanced Research in Telecommunications Systems Programme stated. “One burning issue is the lack of timely information on migration trends, flows and rates. Big data applications have been recognised as a potentially powerful tool.” It decided to assess how it could harness such data.

    The ESA reached out to various European agencies, including EASO and Frontex, to offer a stake in what it called “big data applications to boost preparedness and response to migration”. The space agency would fund initial feasibility stages, but wanted any operational work to be jointly funded.

    One such feasibility study was carried out by GMV, a privately owned tech group covering banking, defence, health, telecommunications and satellites. GMV announced in a press release in August 2017 that the study would “assess the added value of big data solutions in the migration sector, namely the reduction of safety risks for migrants, the enhancement of border controls, as well as prevention and response to security issues related with unexpected migration movements”. It would do this by integrating “multiple space assets” with other sources including mobile phones and social media.

    When contacted by the Bureau, a spokeswoman from GMV said that, contrary to the press release, “nothing in the feasibility study related to the enhancement of border controls”.

    In the same year, the technology multinational CGI teamed up with the Dutch Statistics Office to explore similar questions. They started by looking at data around asylum flows from Syria and at how satellite images and social media could indicate changes in migration patterns in Niger, a key route into Europe. Following this experiment, they approached EASO in October 2017. CGI’s presentation of the work noted that at the time EASO was looking for a social media analysis tool that could monitor Facebook groups, predict arrivals of migrants at EU borders, and determine the number of “hotspots” and migrant shelters. CGI pitched a combined project, co-funded by the ESA, to start in 2019 and expand to serve more organisations in 2020.
    The proposal was to identify “hotspot activities”, using phone data to group individuals “according to where they spend the night”

    The idea was called Migration Radar 2.0. The ESA wrote that “analysing social media data allows for better understanding of the behaviour and sentiments of crowds at a particular geographic location and a specific moment in time, which can be indicators of possible migration movements in the immediate future”. Combined with continuous monitoring from space, the result would be an “early warning system” that offered potential future movements and routes, “as well as information about the composition of people in terms of origin, age, gender”.

    Internal notes released by EASO to the Bureau show the sheer range of companies trying to get a slice of the action. The agency had considered offers of services not only from the ESA, GMV, the Dutch Statistics Office and CGI, but also from BIP, a consulting firm, the aerospace group Thales Alenia, the geoinformation specialist EGEOS and Vodafone.

    Some of the pitches were better received than others. An EASO analyst who took notes on the various proposals remarked that “most oversell a bit”. They went on: “Some claimed they could trace GSM [ie mobile networks] but then clarified they could do it for Venezuelans only, and maybe one or two countries in Africa.” Financial implications were not always clearly provided. On the other hand, the official noted, the ESA and its consortium would pay 80% of costs and “we can get collaboration on something we plan to do anyway”.

    The features on offer included automatic alerts, a social media timeline, sentiment analysis, “animated bubbles with asylum applications from countries of origin over time”, the detection and monitoring of smuggling sites, hotspot maps, change detection and border monitoring.

    The document notes a group of services available from Vodafone, for example, in the context of a proposed project to monitor asylum centres in Italy. The proposal was to identify “hotspot activities”, using phone data to group individuals either by nationality or “according to where they spend the night”, and also to test if their movements into the country from abroad could be back-tracked. A tentative estimate for the cost of a pilot project, spread over four municipalities, came to €250,000 – of which an unspecified amount was for “regulatory (privacy) issues”.

    Stumbling blocks

    Elsewhere, efforts to harness social media data for similar purposes were proving problematic. A September 2017 UN study tried to establish whether analysing social media posts, specifically on Twitter, “could provide insights into ... altered routes, or the conversations PoC [“persons of concern”] are having with service providers, including smugglers”. The hypothesis was that this could “better inform the orientation of resource allocations, and advocacy efforts” - but the study was unable to conclude either way, after failing to identify enough relevant data on Twitter.

    The ESA pressed ahead, with four feasibility studies concluding in 2018 and 2019. The Migration Radar project produced a dashboard that showcased the use of satellite imagery for automatically detecting changes in temporary settlement, as well as tools to analyse sentiment on social media. The prototype received positive reviews, its backers wrote, encouraging them to keep developing the product.

    CGI was effusive about the predictive power of its technology, which could automatically detect “groups of people, traces of trucks at unexpected places, tent camps, waste heaps and boats” while offering insight into “the sentiments of migrants at certain moments” and “information that is shared about routes and motives for taking certain routes”. Armed with this data, the company argued that it could create a service which could predict the possible outcomes of migration movements before they happened.

    The ESA’s other “big data applications” study had identified a demand among EU agencies and other potential customers for predictive analyses to ensure “preparedness” and alert systems for migration events. A package of services was proposed, using data drawn from social media and satellites.

    Both projects were slated to evolve into a second, operational phase. But this seems to have never become reality. CGI told the Bureau that “since the completion of the [Migration Radar] project, we have not carried out any extra activities in this domain”.

    The ESA told the Bureau that its studies had “confirmed the usefulness” of combining space technology and big data for monitoring migration movements. The agency added that its corporate partners were working on follow-on projects despite “internal delays”.

    EASO itself told the Bureau that it “took a decision not to get involved” in the various proposals it had received.

    Specialists found a “striking absence” of agreed upon core principles when using the new technologies

    But even as these efforts slowed, others have been pursuing similar goals. The European Commission’s Knowledge Centre on Migration and Demography has proposed a “Big Data for Migration Alliance” to address data access, security and ethics concerns. A new partnership between the ESA and GMV – “Bigmig" – aims to support “migration management and prevention” through a combination of satellite observation and machine-learning techniques (the company emphasised to the Bureau that its focus was humanitarian). And a consortium of universities and private sector partners – GMV among them – has just launched a €3 million EU-funded project, named Hummingbird, to improve predictions of migration patterns, including through analysing phone call records, satellite imagery and social media.

    At a conference in Berlin in October 2019, dozens of specialists from academia, government and the humanitarian sector debated the use of these new technologies for “forecasting human mobility in contexts of crises”. Their conclusions raised numerous red flags. They found a “striking absence” of agreed upon core principles. It was hard to balance the potential good with ethical concerns, because the most useful data tended to be more specific, leading to greater risks of misuse and even, in the worst case scenario, weaponisation of the data. Partnerships with corporations introduced transparency complications. Communication of predictive findings to decision makers, and particularly the “miscommunication of the scope and limitations associated with such findings”, was identified as a particular problem.

    The full consequences of relying on artificial intelligence and “employing large scale, automated, and combined analysis of datasets of different sources” to predict movements in a crisis could not be foreseen, the workshop report concluded. “Humanitarian and political actors who base their decisions on such analytics must therefore carefully reflect on the potential risks.”

    A fresh crisis

    Until recently, discussion of such risks remained mostly confined to scientific papers and NGO workshops. The Covid-19 pandemic has brought it crashing into the mainstream.

    Some see critical advantages to using call data records to trace movements and map the spread of the virus. “Using our mobile technology, we have the potential to build models that help to predict broadly how the virus might move,” an O2 spokesperson said in March. But others believe that it is too late for this to be useful. The UK’s chief scientific officer, Patrick Vallance, told a press conference in March that using this type of data “would have been a good idea in January”.

    Like the 2015 refugee crisis, the global emergency offers an opportunity for industry to get ahead of the curve with innovative uses of big data. At a summit in Downing Street on 11 March, Dominic Cummings asked tech firms “what [they] could bring to the table” to help the fight against Covid-19.

    Human rights advocates worry about the longer term effects of such efforts, however. “Right now, we’re seeing states around the world roll out powerful new surveillance measures and strike up hasty partnerships with tech companies,” Anna Bacciarelli, a technology researcher at Amnesty International, told the Bureau. “While states must act to protect people in this pandemic, it is vital that we ensure that invasive surveillance measures do not become normalised and permanent, beyond their emergency status.”

    More creative methods of surveillance and prediction are not necessarily answering the right question, others warn.

    “The single largest determinant of Covid-19 mortality is healthcare system capacity,” said Sean McDonald, a senior fellow at the Centre for International Governance Innovation, who studied the use of phone data in the west African Ebola outbreak of 2014-5. “But governments are focusing on the pandemic as a problem of people management rather than a problem of building response capacity. More broadly, there is nowhere near enough proof that the science or math underlying the technologies being deployed meaningfully contribute to controlling the virus at all.”

    Legally, this type of data processing raises complicated questions. While European data protection law - the GDPR - generally prohibits processing of “special categories of personal data”, including ethnicity, beliefs, sexual orientation, biometrics and health, it allows such processing in a number of instances (among them public health emergencies). In the case of refugee movement prediction, there are signs that the law is cracking at the seams.
    “There is nowhere near enough proof that the science or math underlying the technologies being deployed meaningfully contribute to controlling the virus at all.”

    Under GDPR, researchers are supposed to make “impact assessments” of how their data processing can affect fundamental rights. If they find potential for concern they should consult their national information commissioner. There is no simple way to know whether such assessments have been produced, however, or whether they were thoroughly carried out.

    Researchers engaged with crunching mobile phone data point to anonymisation and aggregation as effective tools for ensuring privacy is maintained. But the solution is not straightforward, either technically or legally.

    “If telcos are using individual call records or location data to provide intel on the whereabouts, movements or activities of migrants and refugees, they still need a legal basis to use that data for that purpose in the first place – even if the final intelligence report itself does not contain any personal data,” said Ben Hayes, director of AWO, a data rights law firm and consultancy. “The more likely it is that the people concerned may be identified or affected, the more serious this matter becomes.”

    More broadly, experts worry that, faced with the potential of big data technology to illuminate movements of groups of people, the law’s provisions on privacy begin to seem outdated.

    “We’re paying more attention now to privacy under its traditional definition,” Nathaniel Raymond said. “But privacy is not the same as group legibility.” Simply put, while issues around the sensitivity of personal data can be obvious, the combinations of seemingly unrelated data that offer insights about what small groups of people are doing can be hard to foresee, and hard to mitigate. Raymond argues that the concept of privacy as enshrined in the newly minted data protection law is anachronistic. As he puts it, “GDPR is already dead, stuffed and mounted. We’re increasing vulnerability under the colour of law.”

    https://www.thebureauinvestigates.com/stories/2020-04-28/monitoring-being-pitched-to-fight-covid-19-was-first-tested-o
    #cobaye #surveillance #réfugiés #covid-19 #coronavirus #test #smartphone #téléphones_portables #Frontex #frontières #contrôles_frontaliers #Shin_Bet #internet #big_data #droits_humains #réseaux_sociaux #intelligence_prédictive #European_Asylum_Support_Office (#EASO) #EDPS #protection_des_données #humanitaire #images_satellites #technologie #European_Space_Agency (#ESA) #GMV #CGI #Niger #Facebook #Migration_Radar_2.0 #early_warning_system #BIP #Thales_Alenia #EGEOS #complexe_militaro-industriel #Vodafone #GSM #Italie #twitter #détection #routes_migratoires #systèmes_d'alerte #satellites #Knowledge_Centre_on_Migration_and_Demography #Big_Data for_Migration_Alliance #Bigmig #machine-learning #Hummingbird #weaponisation_of_the_data #IA #intelligence_artificielle #données_personnelles

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    • Greece quarantines Ritsona migrant camp after finding 20 corona cases

      A migrant camp north of the Greek capital Athens has been placed under quarantine after 20 asylum seekers there tested positive for the novel coronavirus.

      The developments occurred after a 19-year-old female migrant from the camp gave birth in hospital in Athens, where she was found to be infected. Authorities then conducted tests on a total of 63 people also staying at the government-run Ritsona camp outside Athens, deciding to place the facility under quarantine after nearly a third of the tests came back positive. Meanwhile, health officials will continue to conduct tests on residents of the camp.

      The infections observed at Ritsona camp are now the first known cases among thousands of asylum seekers living across Greece, with most staying in overcrowded camps mainly on the Aegean islands. The Ritsona camp, however, is located on the Greek mainland, roughly 75 kilometers northeast of Athens, housing about 3,000 migrants.

      Quarantine and isolation at Ritsona

      The Greek migration ministry said that none of the confirmed cases at Ritsona had showed any symptoms thus far. However, in a bid to protect others, movement in and out of the Ritsona camp, will be restricted for at least 14 days; police forces will monitor the implementation of the measures.

      According to the Reuters news agency, the camp has also created an isolation area for those coronavirus patients who might still develop symptoms.

      ’Ticking health bomb’

      Greece recorded its first coronavirus case in late February, reporting more than 1,400 cases so far and 50 deaths. The country’s official population is 11 million. Compared to other EU countries at the forefront of the migration trend into Europe such as Italy and Spain, Greece has thus far kept its corona case numbers relatively low.

      However, with more than 40,000 refugees and migrant presently stuck in refugee camps on the Greek islands alone, the Greek government has described the current situation as a “ticking health bomb.”

      Aid organisations stress that conditions in the overcrowded camps are inhumane, calling for migrants to be evacuated from the Greek islands. Greek Prime Minister Kyriakos Mitsotakis that Greece was ready to “protect” its islands, where no case has been recorded so far, while adding that he expects the EU to do more to help improve overall conditions in migrant camps and to assist relocate people to other EU countries.

      “Thank God, we haven’t had a single case of Covid-19 on the island of Lesbos or any other island,” Mitsotakis told CNN. “The conditions are far from being ideal but I should also point out that Greece is dealing with this problem basically on its own. (…) We haven’t had as much support from the European Union as we want.”

      https://www.infomigrants.net/en/post/23826/greece-quarantines-ritsona-migrant-camp-after-finding-20-corona-cases

      #camp_de_réfugiés #asile #migrations #Athènes #coronavirus

    • Greece quarantines camp after migrants test coronavirus positive

      Greece has quarantined a migrant camp after 23 asylum seekers tested positive for the coronavirus, authorities said on Thursday, its first such facility to be hit since the outbreak of the disease.

      Tests were conducted after a 19-year-old female migrant living in the camp in central Greece was found infected after giving birth at an Athens hospital last week. She was the first recorded case among thousands of asylum seekers living in overcrowded camps across Greece.

      None of the confirmed cases showed any symptoms, the ministry said, adding that it was continuing its tests.

      Authorities said 119 of 380 people on board a ferry which authorities said had been prevented from docking in Turkey and was now anchored off Athens, had tested positive for the virus.

      Greece recorded its first coronavirus case at the end of February. It has reported 1,425 cases and 53 deaths, excluding the cases on the ferry.

      It is the gateway to Europe for people fleeing conflicts and poverty in the Middle East and beyond, with more than a million passing through Greece during the migrant crisis of 2015-2016.

      Any movement in and out of the once-open Ritsona camp, which is 75 km (45 miles) northeast of Athens and hosts hundreds of people, will be restricted for 14 days, the ministry said. Police would monitor movements.

      The camp has an isolation area for coronavirus patients should the need arise, sources have said.

      Aid agencies renewed their call for more concerted action at the European level to tackle the migration crisis.

      “It is urgently needed to evacuate migrants out of the Greek islands to EU countries,” said Leila Bodeux, policy and advocacy officer for Caritas Europa, an aid agency.

      EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson said it was a stark “warning signal” of what might happen if the virus spilled over into less organised facilities on the Greek islands.

      “(This) may result in a massive humanitarian crisis. This is a danger both for refugees hosted in certain countries outside the EU and for those living in unbearable conditions on the Greek islands,” she said during a European Parliament debate conducted by video link.

      More than 40,000 asylum-seekers are stuck in overcrowded refugee camps on the Greek islands, in conditions which the government itself has described as a “ticking health bomb”.

      Prime Minister Kyriakos Mitsotakis has said Greece is ready to protect its islands, where no case has been recorded so far, but urged the EU to provide more help.

      “The conditions are far from ideal but I should also point out that Greece is dealing with this problem basically on its own... We haven’t had as much support from the European Union as we wanted,” he told CNN.

      https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-greece-camp/greece-quarantines-camp-after-migrants-test-coronavirus-positive-idUSKBN21K

    • EU : Athens can handle Covid outbreak at Greek camp

      The European Commission says Greece will be able to manage a Covid-19 outbreak at a refugee camp near Athens.

      “I think they can manage,” Ylva Johansson, the European Commissioner for home affairs, told MEPs on Thursday (2 April).

      The outbreak is linked to the Ritsona camp of some 2,700 people who are all now under quarantine.

      At least 23 have been tested positive without showing any symptoms. Greek authorities had identified the first case after a woman from the camp gave birth at a hospital earlier this week.

      “This development confirms the fact that this fast-moving virus does not discriminate and can affect both migrant and local communities,” Gianluca Rocco, who heads the International Organization for Migration (IOM) in Greece, said in a statement.

      Another six cases linked to local residents have also been identified on the Greek islands.

      Notis Mitarachi, Greece’s minister of migration and asylum, said there are no confirmed cases of the disease in any of the island refugee camps.

      “We have only one affected camp, that is on the mainland, very close to Athens where 20 people have tested positive,” he said.

      Over 40,000 migrants, refugees and asylum seekers are stuck on the islands. Of those, some 20,000 are in Moria, a camp on Lesbos island that is designed to house only 3,000.

      It is unlikely conditions will improve any time soon with Mitarachi noting major changes will only take place before the year’s end. He said the construction of new camps on the mainland first have to be completed.

      “We do not have rooms in the mainland,” he said, when pressed on why there have been no mass evacuations from the islands.

      He placed some of the blame on the EU-Turkey deal, noting anyone transferred to the mainland cannot be returned to Turkey. Turkey has since the start of March refused to accept any returns given the coronavirus pandemic.

      Despite the deal, Mitarachi noted 10,000 people had still been transferred to the mainland so far this year. He also insisted all measures are being taken to ensure the safety of the Greek island camp refugees.

      In reality, Moria has one functioning faucet per 1,300 people. A lockdown also has been imposed, making any notions of social distancing impossible.

      He said all new arrivals from Turkey are separated and kept away from the camps. Special health units will also be dispatched into the camps to test for cases, he said.

      Mitarachi is demanding other EU states help take in people, to ease the pressure.

      Eight EU states had in early March pledged to take in 1,600 unaccompanied minors. The Commission says it expects the first relocations to take place before Easter at the latest.
      The money

      Greece has also been earmarked some €700m of EU funds to help in the efforts.

      The first €350m has already been divided up.

      Around €190m will go to paying rental accommodation for 25,000 beds on the mainland and provide cash assistance to 90,000 people under the aegis of the UN refugee agency (UNHCR).

      Another €100m will go to 31 camps run by the International Organization for Migration. Approximately €25m will go to help families and kids on the islands through the UNHCR.

      And €35m is set to help relocate others out of the camps and into hotels.

      The remaining €350m will go to building five new migrant centres (€220m), help pay for returns (€10m), support the Greek asylum service (€50m), enforce borders (€50m), and give an additional €10m each to Frontex and the EU’s asylum agency, Easo.

      https://euobserver.com/coronavirus/147973

      –-----

      Avec ce commentaire de Marie Martin, reçu via la mailing-list Migreurop, le 03.04.2020 :

      Des informations intéressantes issues de l’article de Nikolak Nielsen, paru dans EuObserver aujourd’hui sur les fonds de l’UE dédiés à l’accueil et aux transferts depuis les hotspots.

      C’est assez paradoxal de voir la #Commissaire_européenne affirmer que le Grèce pourra gérer un éruption du Covid19, laissant presque penser à un esseulement de la Grèce.

      En vérité, l’article indique, chiffres à l’appui, que plusieurs actions sont financées (700M euros dédiés dont 190M pour le UNHCR afin de payer des hébergements à hauteur de 25 000 lits sur la péninsule et de l’assistance financières à 90 000 personnes réfugiées).
      Ces #financements s’ajoutent aux engagements début mars membres de relocaliser des mineurs isolés dans d’autres pays de l’UE (8 Etats membres).

      Toutefois, si l’UE ne fait donc pas « rien », les limites habituelles au processus peuvent être invoquées avec raison : #aide_d'urgence qui va essentiellement au #HCR et à l’#OIM (100M pour l’OIM et les 31 camps qu’elle gère et 25M d’aide pour les familles et les enfants dispatchés sur les îles, via le UNHCR), 35M serviront à soutenir la relocalisation hors des camps dans des #hôtels.

      Le reste des financements octroyés s’intègrent dans la logique de gestion des #hotspots :

      350M euros serviront à construire 5 nouveaux centres
      10M pour financer les retours
      50M pour soutenir l’administration grecque dédiée à l’asile (sans précision s’il s’agit de soutien à l’aide juridique pour les demandeurs d’asile, d’aide en ressources humaines pour l’administration et l’examen des demandes, ou du soutien matériel dû dans le cadre de l’accueil des demandeurs d’asile)
      10M pour #Frontex
      10M pour #EASO

      #retour #aide_au_retour #renvois #expulsions #argent #aide_financière #IOM

  • Irregular migration into EU at lowest level since 2013

    The number of irregular border crossings detected on the European Union’s external borders last year fell to the lowest level since 2013 due to a drop in the number of people reaching European shores via the Central and Western Mediterranean routes.

    Preliminary 2019 data collected by Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, showed a 6% fall in illegal border crossings along the EU’s external borders to just over 139 000. This is 92% below the record number set in 2015.

    The number of irregular migrants crossing the Central Mediterranean fell roughly 41% to around 14 000. Nationals of Tunisia and Sudan accounted for the largest share of detections on this route.

    The total number of irregular migrants detected in the Western Mediterranean dropped approximately 58% to around 24 000, with Moroccans and Algerians making up the largest percentage.

    Eeastern Mediterranean and Western Balkans

    Despite the general downward trend, the Eastern Mediterranean saw growing migratory pressure starting in the spring. It peaked in September and then started falling in accordance with the seasonal trend. In all of 2019, there were more than 82 000 irregular migrants detected on this route, roughly 46% more than in the previous year.

    In the second half of 2019, irregular arrivals in the region were at the highest since the implementation of the EU-Turkey Statement in March 2016, although still well below the figures recorded in 2015 and early 2016 with the situation before the Statement.

    Some persons transferred from the Greek islands to the mainland appear to have continued on the Western Balkan migratory route. There has been an increase in detections on the Greek-Albanian border after the start of the Frontex joint operation in May. In the second half of the year, a significant number of detections was reported on the EU borders with Serbia.

    In total, around 14 000 irregular crossings were detected at the EU’s borders on the Western Balkan route last year – more than double the 2018 figure.

    On the Eastern Mediterranean route and the related Western Balkan route, nationals of Afghanistan and Syria accounted for over half of all registered irregular arrivals.

    Top nationality

    Overall, Afghans were the main nationality of newly arrived irregular migrants in 2019, representing almost a quarter of all arrivals. The number of Afghan migrants was nearly three times (+167%) the figure from the previous year. Roughly four out of five were registered on the Eastern Mediterranean route, while nearly all the rest on the Western Balkan route.

    The most recent available data also suggest a higher percentage of women among the newly arrived migrants in 2019. In the first ten months of last year, around 23% of migrants were women compared with 19% in 2018. EU countries counted approximately 14 600 migrant children younger than 14 in the January-October period, almost one thousand more than in all of 2018.

    https://frontex.europa.eu/media-centre/news-release/flash-report-irregular-migration-into-eu-at-lowest-level-since-2013-n

    ......

    Et comme dit Catherine Teule via la mailing-list Migreurop, qui a signalé cette info :

    Bravo Frontex !!!! ( et ses partenaires des pays tiers).
    Enfin, pas tout à fait puisque certaines « routes » ont enregistré des augmentations de flux à la fin de l’année 2019...

    #statistiques #chiffres #asile #migrations #réfugiés #Europe #2019 #frontières_extérieures #Frontex #Méditerranée #Balkans #route_des_Balkans #réfugiés_afghans

    • Parallèlement...
      Migrants : l’Europe va doubler ses opérations d’aide en matière d’asile

      Le bureau européen d’appui en matière d’asile « va voir ses déploiements opérationnels doubler en 2020 » pour atteindre 2000 personnes sur le terrain.

      L’agence européenne de l’asile a annoncé ce mardi le doublement de ses opérations en 2020, en particulier pour renforcer sa présence en #Grèce, à #Chypre et à #Malte, où l’afflux de migrants a explosé en 2019.

      Le #bureau_européen_d'appui_en_matière_d'asile (#EASO) « va voir ses déploiements opérationnels doubler en 2020 » pour atteindre 2000 personnes sur le terrain, fruit d’un #accord signé en décembre avec ces pays ainsi que l’#Italie, a souligné l’agence dans un communiqué.

      « Chypre, la Grèce et Malte verront un doublement du #personnel_EASO tandis que les déploiements en Italie seront réduits à la lumière des changements de besoins de la part des autorités » de ce pays où, à l’inverse, les arrivées par la Méditerranée ont été divisées par deux entre 2018 et 2019.

      Très loin des flux migratoires au plus fort de la crise en 2015, 110 669 migrants et réfugiés ont rallié l’Europe après avoir traversé la mer en 2019 selon les chiffres publiés par l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) de l’ONU. Soit dix fois moins que le million de personnes arrivées en 2015.

      L’an dernier, la Grèce a accueilli 62 445 de ces exilés, contre 32 742 l’année précédente. Le petit État insulaire de Malte a vu débarquer 3405 personnes, soit deux fois plus que les 1445 de 2018, tandis que 7647 migrants sont arrivés à Chypre (4307 en 2018).

      Avec quelque 550 agents en Grèce, EASO prévoit donc « trois fois plus d’assistants sociaux » et une aide plus ciblée « pour aider à la réception dans les #hotspots » comme celui de #Lesbos, où plus de 37 000 personnes s’entassent dans des conditions souvent indignes. À Chypre, les 120 personnels européens auront surtout pour mission d’aider les autorités à enregistrer et traiter les demandes d’asile.

      « Le corridor le plus meurtrier »

      La réduction du soutien européen en Italie s’explique par la chute des arrivées dans ce pays (11 471 en 2019, 23 370 en 2018, 181 000 en 2016) qui avait un temps fermé ses ports aux bateaux secourant les migrants en mer en 2019.

      Cette route de Méditerranée centrale entre l’Afrique du Nord et l’Italie « reste le corridor le plus meurtrier », a encore précisé l’OIM, qui a recensé 1283 décès connus en Méditerranée (centrale, orientale et occidentale) l’an dernier, contre près de 2.300 l’année précédente. « Comme pour Malte, EASO restera fortement impliqué dans (le processus de) #débarquement ad hoc » des bateaux portant secours aux migrants sur cette route, a ajouté le bureau européen.

      https://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/migrants-l-europe-va-doubler-ses-operations-d-aide-en-matiere-d-asile_21136

  • EU-Asylbehörde beschattete Flüchtende in sozialen Medien

    Die EU-Agentur EASO überwachte jahrelang soziale Netzwerke, um Flüchtende auf dem Weg nach Europa zu stoppen. Der oberste Datenschützer der EU setzte dem Projekt nun ein Ende.

    Das EU-Asylunterstützungsbüro EASO hat jahrelang in sozialen Medien Informationen über Flüchtende, Migrationsrouten und Schleuser gesammelt. Ihre Erkenntnisse meldete die Behörde mit Sitz in Malta an EU-Staaten, die Kommission und andere EU-Agenturen. Die Ermittlungen auf eigene Faust sorgen nun für Ärger mit EU-Datenschützern.

    Mitarbeiter von EASO durchforsteten soziale Medien seit Januar 2017. Ihr Hauptziel waren Hinweise auf neue Migrationsbewegungen nach Europa. Die EU-Behörde übernahm das Projekt von der UN-Organisation UNHCR, berichtete EASO damals in einem Newsletter.

    Die Agentur durchsuchte einschlägige Seiten, Kanäle und Gruppen mit der Hilfe von Stichwortlisten. Im Fokus standen Fluchtrouten, aber auch die Angebote von Schleusern, gefälschte Dokumente und die Stimmung unter den Geflüchteten, schrieb ein EASO-Sprecher an netzpolitik.org.

    Das Vorläuferprojekt untersuchte ab März 2016 Falschinformationen, mit denen Schleuser Menschen nach Europa locken. Es entstand als Folge der Flüchtlingsbewegung 2015, im Fokus der UN-Mitarbeiter standen Geflüchtete aus Syrien, dem Irak und Afghanistan.

    Flüchtende informierten sich auf dem Weg nach Europa über soziale Netzwerke, heißt es im Abschlussbericht des UNHCR. In Facebook-Gruppen und Youtube-Kanälen bewerben demnach Schleuser offen ihr Angebot. Sie veröffentlichten auf Facebook-Seiten sogar Rezensionen von zufriedenen „Kunden“, sagten Projektmitarbeiter damals den Medien.
    Fluchtrouten und Fälschungen

    Die wöchentlichen Berichte von EASO landeten bei den EU-Staaten und Institutionen, außerdem bei UNHCR und der Weltpolizeiorganisation Interpol. Die EU-Staaten forderten EASO bereits 2018 auf, Hinweise auf Schleuser an Europol zu übermitteln.

    Die EU-Agentur überwachte Menschen aus zahlreichen Ländern. Beobachtet wurden Sprecher des Arabischen und von afghanischen Sprachen wie Paschtunisch und Dari, aber auch von in Äthiopien und Eritrea verbreiteten Sprachen wie Tigrinya und Amharisch, das in Nigeria gesprochene Edo sowie etwa des Türkischen und Kurdischen.

    „Das Ziel der Aktivitäten war es, die Mitgliedsstaaten zu informieren und den Missbrauch von Schutzbedürftigen zu verhindern“, schrieb der EASO-Sprecher Anis Cassar.
    Als Beispiel nannte der Sprecher den „Konvoi der Hoffnung“. So nannte sich eine Gruppe von hunderte Menschen aus Afghanistan, Iran und Pakistan, die im Frühjahr 2019 an der griechisch-bulgarischen Grenze auf Weiterreise nach Europa hofften.

    Die griechische Polizei hinderte den „Konvoi“ mit Tränengasgranaten am Grenzübertritt. Die „sehr frühe Entdeckung“ der Gruppe sei ein Erfolg des Einsatzes, sagte der EASO-Sprecher.
    Kein Schutzschirm gegen Gräueltaten

    Gräueltaten gegen Flüchtende standen hingegen nicht im Fokus von EASO. In Libyen werden tausende Flüchtende unter „KZ-ähnlichen Zuständen“ in Lagern festgehalten, befand ein interner Bericht der Auswärtigen Amtes bereits Ende 2017.

    Über die Lage in Libyen dringen über soziale Medien und Messengerdienste immer wieder erschreckende Details nach außen.

    Die EU-Agentur antwortete ausweichend auf unsere Frage, ob ihre Mitarbeiter bei ihrem Monitoring Hinweise auf Menschenrechtsverletzungen gefunden hätten.

    „Ich bin nicht in der Lage, Details über die Inhalte der tatsächlichen Berichte zu geben“, schrieb der EASO-Sprecher. „Die Berichte haben aber sicherlich dazu beigetragen, den zuständigen nationalen Behörden zu helfen, Schleuser ins Visier zu nehmen und Menschen zu retten.“

    Der Sprecher betonte, das EU-Asylunterstützungsbüro sei keine Strafverfolgungsbehörde oder Küstenwache. Der Einsatz habe bloß zur Information der Partnerbehörden gedient.
    Datenschützer: Rechtsgrundlage fehlt

    Der oberste EU-Datenschützer übte heftige Kritik an dem Projekt. Die Behörde kritisiert, die EU-Agentur habe sensible persönliche Daten von Flüchtenden gesammelt, etwa über deren Religion, ohne dass diese informiert worden seien oder zugestimmt hätten.

    Die Asylbehörde habe für solche Datensammelei keinerlei Rechtsgrundlage, urteilte der EU-Datenschutzbeauftragte Wojciech Wiewiórowski in einem Brief an EASO im November.

    Die Datenschutzbehörde prüfte die Asylagentur nach neuen, strengeren Regeln für die EU-Institutionen, die etwa zeitgleich mit der Datenschutzgrundverordnung zu gelten begannen.

    In dem Schreiben warnt der EU-Datenschutzbeauftragte, einzelne Sprachen und Schlüsselwörter zu überwachen, könne zu falschen Annahmen über Gruppen führen. Dies wirke unter Umständen diskriminierend.

    Die Datenschutzbehörde ordnete die sofortigen Suspendierung des Projektes an. Es gebe vorerst keine Pläne, die Überwachung sozialer Medien wieder aufzunehmen, schrieb der EASO-Sprecher an netzpolitik.org.

    Die Asylbehörde widersprach indes den Vorwürfen. EASO habe großen Aufwand betrieben, damit keinerlei persönliche Daten in ihren Berichten landeten, schrieb der Sprecher.

    Anders sieht das der EU-Datenschutzbeauftragte. In einem einzigen Bericht, der den Datenschützern als Beispiel übermittelt wurde, fanden sie mehrere E-Mailadressen und die Telefonnummer eines Betroffenen, schrieben sie in dem Brief an EASO.

    EASO klagte indes gegenüber netzpolitik.org über die „negativen Konsequenzen“ des Projekt-Stopps. Dies schade den EU-Staaten in der Effektivität ihrer Asylsysteme und habe womöglich schädliche Auswirkungen auf die Sicherheit von Migranten und Asylsuchenden.
    Frontex stoppte Monitoring-Projekt

    Die EU-Asylagentur geriet bereits zuvor mit Aufsehern in Konflikt. Im Vorjahr ermittelte die Antikorruptionsbehörde OLAF wegen Mobbing-Vorwürfen, Verfehlungen bei Großeinkäufen und Datenschutzverstößen.

    Auf Anfrage von netzpolitik.org bestätigte OLAF, dass „Unregelmäßigkeiten“ in den genannten Bereichen gefunden wurden. Die Behörde wollte aber keine näheren Details nennen.

    EASO ist nicht die einzige EU-Behörde, die soziale Netzwerke überwachen möchte. Die Grenzagentur Frontex schrieb im September einen Auftrag über 400.000 Euro aus. Ziel sei die Überwachung von sozialen Netzwerken auf „irreguläre Migrationsbewegungen“.

    Kritische Nachfragen bremsten das Projekt aber schon vor dem Start. Nach kritischen Nachfragen der NGO Privacy International blies Frontex das Projekt ab. Frontex habe nicht erklären können, wie sich die Überwachung mit dem Datenschutz und dem rechtlichen Mandat der Organisation vereinen lässt, kritisierte die NGO.

    https://netzpolitik.org/2019/eu-asylbehoerde-beschattete-fluechtende-in-sozialen-medien#spendenleist
    #EASO #asile #migrations #réfugiés #surveillance #réseaux_sociaux #protection_des_données #Frontex #données

    –->

    « Les rapports hebdomadaires de l’EASO ont été envoyés aux pays et institutions de l’UE, au #HCR et à l’Organisation mondiale de la police d’#Interpol. Les États de l’UE ont demandé à l’EASO en 2018 de fournir à #Europol des informations sur les passeurs »

    ping @etraces

  • The Role of EASO Operations in National Asylum Systems: ECRE Report

    In a comparative report published today, ECRE analyses the operations of the European Asylum Support Office (EASO) involving deployment of experts in the asylum procedures of Italy, Greece, Cyprus and Malta.

    The Agency currently has ongoing operations and over 900 staff members present in the four countries. The aims of the operations are agreed in Operating Plans with the respective Member States.

    The report gives an overview of the different areas of the asylum procedure in which the Agency supports Member State authorities, namely the registration of asylum applications, the implementation of the Dublin Regulation, the examination of asylum applications at first instance, and appeals. It also provides observations on the effectiveness of EASO operations in meeting their objectives and the impact of the Agency’s presence on the efficiency and quality of asylum procedures in the host Member States, particularly as regards the enhancement of staff capacity, the quality of decisions and the contribution to compliance with the EU asylum acquis.

    The report follows a series of fact-finding missions in Cyprus, Italy, Greece and Malta in 2018 and 2019, discussions with authorities and relevant stakeholders, as well as analysis of a small sample of decisions in selected countries.

    https://www.ecre.org/the-role-of-easo-operations-in-national-asylum-systems-ecre-report
    #EASO #Italie #Chypre #Malte #Grèce #asile #migrations #réfugiés #procédure_d'asile

    ping @isskein

  • EASO | La situation de l’asile dans l’UE en 2018
    https://asile.ch/2019/06/25/easo-la-situation-de-lasile-dans-lue-en-2018

    Le rapport annuel de l’EASO sur la situation en matière d’asile dans l’Union européenne en 2018 offre une vue d’ensemble complète des évolutions dans le domaine de la protection internationale à l’échelle européenne et au niveau des régimes d’asile nationaux. À partir d’un large éventail de sources, le rapport examine les principales tendances statistiques et […]

  • Quand l’#Union_europeénne se met au #fact-checking... et que du coup, elle véhicule elle-même des #préjugés...
    Et les mythes sont pensés à la fois pour les personnes qui portent un discours anti-migrants ("L’UE ne protège pas ses frontières"), comme pour ceux qui portent des discours pro-migrants ("L’UE veut créer une #forteresse_Europe")...
    Le résultat ne peut être que mauvais, surtout vu les pratiques de l’UE...

    Je copie-colle ici les mythes et les réponses de l’UE à ce mythe...


    #crise_migratoire


    #frontières #protection_des_frontières


    #Libye #IOM #OIM #évacuation #détention #détention_arbitraire #centres #retours_volontaires #retour_volontaire #droits_humains


    #push-back #refoulement #Libye


    #aide_financière #Espagne #Grèce #Italie #Frontex #gardes-frontière #EASO


    #Forteresse_européenne


    #global_compact


    #frontières_intérieures #Schengen #Espace_Schengen


    #ONG #sauvetage #mer #Méditerranée


    #maladies #contamination


    #criminels #criminalité


    #économie #coût #bénéfice


    #externalisation #externalisation_des_frontières


    #Fonds_fiduciaire #dictature #dictatures #régimes_autoritaires

    https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20190306_managing-migration-factsheet-debunking-myths-about-migration_en.p
    #préjugés #mythes #migrations #asile #réfugiés
    #hypocrisie #on_n'est_pas_sorti_de_l'auberge
    ping @reka @isskein

  • EASO Annual Report on the Situation of Asylum in the EU and latest asylum figures


    https://www.easo.europa.eu/sites/default/files/Annual-Report-2017-Final.pdf
    #EASO #rapport #apatridie #statistiques #chiffres #loterie_de_l'asile #taux_de_reconnaissance #EU #UE #Europe #2017 #arrivées #MNA #mineurs_non_accompagnés

    Concernant #Dublin:

    In 2017, the 26 repor ting countries implemented just over 25 000 transfers ( 174 ) , an increase of a third compared to 2016. Three quarters of all transfers in 2017 stemmed from five EU+ countries: Germany, Greece, Austria, France, and the Netherlands. More than half of the transf erees were received by Germany and Italy. The remainder were spread among the remaining Dublin MSs, with the highest shares occupied by Sweden, France, and Poland ( 175 ) . Generally, those Dublin MSs which implemented the most transfers also had a wider range of recipients. Just under half of all transfers were conducted between contiguous countries, i.e. with a common land border ( 176 ) . This means that the remaining half of the transfers pertained to individuals who had crossed at least one intra - Schengen border . A narrow majority of the transfers were conducted on the basis of take - back requests (53 % of the transfers with reported legal basis) ( 177 ) .

    (p.60)

  • Croatian media report new ‘Balkan route’

    Croatian media have reported the emergence of a new ’Balkan route’ used by migrants to reach western Europe without passing through Macedonia and Serbia.

    Middle Eastern migrants have opened up a new ’Balkan route’ in their attempt to find a better life in western Europe after the traditional route through Macedonia and Serbia was closed. This is according to a report by Zagreb newspaper Jutarnji list.

    From Greece, the new route takes them through Albania, Montenegro, Bosnia Herzegovina, Croatia and Slovenia.

    http://www.infomigrants.net/en/post/7522/croatian-media-report-new-balkan-route?ref=tw
    #parcours_migratoires #route_migratoire #Balkans #ex-Yougoslavie #route_des_balkans #Albanie #Monténégro #Bosnie #Croatie #Slovénie #migrations #asile #réfugiés

    • Bosnia and the new Balkan Route: increased arrivals strain the country’s resources

      Over the past few months, the number of refugees and asylum seekers arriving to Bosnia has steadily increased. Border closures – both political and physical – in other Balkan states have pushed greater numbers of people to travel through Bosnia, in their attempt to reach the European Union.

      In 2017, authorities registered 755 people; this year, in January and February alone, 520 people arrived. The trend has continued into March; and in the coming weeks another 1000 people are expected to arrive from Serbia and Montenegro. Resources are already strained, as the small country struggles to meet the needs of the new arrivals.

      https://helprefugees.org/bosnia-new-balkan-route

    • Le Monténégro, nouveau pays de transit sur la route des migrants et des réfugiés

      Ils arrivent d’#Albanie et veulent passer en #Bosnie-Herzégovine, étape suivante sur la longue route menant vers l’Europe occidentale, mais des milliers de réfugiés sont ballotés, rejetés d’une frontière à l’autre. Parmi eux, de nombreuses familles, des femmes et des enfants. Au Monténégro, la solidarité des citoyens supplée les carences de l’État. Reportage.

      Au mois de février, Sabina Talović a vu un groupe de jeunes hommes arriver à la gare routière de Pljevlja, dans le nord du Monténégro. En s’approchant, elle a vite compris qu’il s’agissait de réfugiés syriens qui, après avoir traversé la Turquie, la Grèce et l’Albanie, se dirigeaient vers la Bosnie-Herzégovine en espérant rejoindre l’Europe occidentale. Elle les a conduits au local de son organisation féministe, Bona Fide, pour leur donner à manger, des vêtements, des chaussures, un endroit pour se reposer, des soins médicaux. Depuis la fin du mois d’avril, 389 personnes ont trouvé un refuge temporaire auprès de Bona Fide. L’organisation travaille d’une manière indépendante, mais qu’après quatre mois de bénévolat, Sabina veut faire appel aux dons pour pouvoir nourrir ces migrants. Elle ajoute que le nombre de migrants au Monténégro est en augmentation constante et qu’il faut s’attendre à un été difficile.

      Au cours des trois premiers mois de l’année 2018, 458 demandes d’asiles ont été enregistrées au Monténégro, plus que la totalité des demandes pour l’année 2016 et plus de la moitié des 849 demandes enregistrées pour toute l’année 2017. Il est peu vraisemblable que ceux qui demandent l’asile au Monténégro veuillent y rester, parce le pays offre rarement une telle protection. En 2017, sur 800 demandes, seules sept personnes ont reçu un statut de protection et une seule a obtenu le statut de réfugié. Cette année, personne n’a encore reçu de réponse positive. Il suffit néanmoins de déposer une demande pour avoir le droit de séjourner à titre provisoire dans le pays. C’est un rude défi pour le Monténégro de loger tous ces gens arrivés depuis le mois d’août 2017, explique Milanka Baković, cadre du ministère de l’Intérieur. Les capacités d’accueil du pays sont largement dépassées. Selon les sources du ministère, un camp d’accueil devrait bientôt ouvrir à la frontière avec l’Albanie.

      “Nous prenons un taxi pour passer les frontières. Ensuite, nous marchons. Quand nous arrivons dans un nouveau pays, nous demandons de l’aide à la Croix Rouge.”

      Ali a quitté la Syrie il y a trois mois avec sa femme et ses enfants mineurs. Ils vivent maintenant à Spuž, dans un centre pour demandeurs d’asile établi en 2015. Avant d’arriver au Monténégro, la famille a traversé quatre pays et elle est bien décidée à poursuivre sa route jusqu’en Allemagne, pour rejoindre d’autres membres de leur famille. « Nous prenons un taxi pour passer les frontières. Ensuite, nous marchons. Quand nous arrivons dans un nouveau pays, nous demandons de l’aide à la Croix Rouge ou à qui peut pour trouver un endroit où nous pouvons rester quelques jours… Nous avons peur de ce qui peut nous arriver sur la route mais nous sommes optimistes et, si Dieu le veut, nous atteindrons notre but. »

      Comme tant d’autres avant eux, Ali et sa famille ont traversé la Grèce. Certains ont franchi la frontière entre l’Albanie et le Monténégro en camionnette en payant 250 euros des passeurs. Les autres ont emprunté une route de montagnes sinueuse et des chemins de traverse difficiles avant de traverser la frontière et de redescendre jusqu’à la route de Tuzi, sur les bords du lac de Skadar. Là, il y a une mosquée où les voyageurs peuvent passer la nuit. Certains poursuivent leur route et tentent de traverser les frontières de la Bosnie-Herzégovine, en évitant de se faire enregistrer.

      S’ils sont appréhendés par la police, les migrants et réfugiés peuvent demander l’asile et le Monténégro, comme n’importe quel autre pays, est obligé d’accueillir dans des conditions correctes et en sécurité tous les demandeurs jusqu’à ce qu’une décision finale soit prise sur leur requête. Dejan Andrić, chef du service des migrations illégales auprès de la police des frontières, pense que la police monténégrine a réussi à enregistrer toutes les personnes entrées sur le territoire. « Ils restent ici quelques jours, font une demande d’asile et peuvent circuler librement dans le pays », précise-t-il. Toutefois des experts contestent que tous les migrants traversant le pays puissent être enregistrés, ce qui veut dire qu’il est difficile d’établir le nombre exact de personnes traversant le Monténégro. La mission locale du Haut commissariat des Nations Unies aux réfugiés (UNHCR) se méfie également des chiffres officiels, et souligne « qu’on peut s’attendre à ce qu’un certain nombre de personnes traversent le Monténégro sans aucun enregistrement ».

      Repoussés d’un pays à l’autre

      Z. vient du Moyen-Orient, et il a entamé son voyage voici cinq ans. Il a passé beaucoup de temps en Grèce, mais il a décidé de poursuivre sa route vers l’Europe du nord. Pour le moment, il vit au centre d’hébergement de Spuž, qui peut recevoir 80 personnes, ce qui est bien insuffisant pour accueillir tous les demandeurs d’asile. Z. a essayé de passer du Monténégro en Bosnie-Herzégovine et en Croatie mais, comme beaucoup, il a été repoussé par la police. Selon la Déclaration universelle des droits humains, chaque individu a pourtant le droit de demander l’asile dans un autre pays. Chaque pays doit mettre en place des instruments pour garantir ce droit d’asile, les procédures étant laissées à la discrétion de chaque Etat. Cependant, les accords de réadmission signés entre Etats voisins donnent la possibilité de renvoyer les gens d’un pays à l’autre.

      Dejan Andrić affirme néanmoins que beaucoup de migrants arrivent au Monténégro sans document prouvant qu’ils proviennent d’Albanie. « Dans quelques cas, nous avons des preuves mais la plupart du temps, nous ne pouvons pas les renvoyer en Albanie, et même quand nous avons des preuves de leur passage en Albanie, les autorités de ce pays ne répondent pas de manière positive à nos demandes. » Ceux qui sont repoussés en tentant de traverser la frontière de Bosnie-Herzégovine finissent par échouer à Spuž, mais plus souvent dans la prison de la ville qu’au centre d’accueil. « Si les réfugiés sont pris à traverser la frontière, ils sont ramenés au Monténégro selon l’accord de réadmission. Nous notifions alors au Bureau pour l’asile que cette personne a illégalement essayé de quitter le territoire du Monténégro », explique Dejan Andrić.

      Selon la loi, en tel cas, les autorités monténégrines sont dans l’obligation de verbaliser les personnes pour franchissement illégal de la frontière. Cela se termine devant le Tribunal, qui inflige une amende d’au moins 200 euros. Comme les gens n’ont pas d’argent pour payer l’amende, ils sont expédiés pour trois ou quatre jours dans la prison de Spuž, où les conditions sont très mauvaises. Des Algériens qui se sont retrouvés en prison affirment qu’on ne leur a donné ni lit, ni draps. En dépit de ces accusations portées par plusieurs demandeurs d’asile, le bureau monténégrin du HCR réfute toutes les accusations de mauvais traitements. « Le HCR rend visite à ces gens et les invite à déposer une demande d’asile pour obtenir de l’aide, jamais nous n’avons eu de plainte concernant la façon dont ils étaient traités. »

      Néanmoins, un grand nombre de personnes qui veulent poursuivre leur route parviennent à gagner la Bosnie-Herzégovine. La route la plus fréquentée passe entre les villes de Nikšić et Trebinje. Du 1er janvier au 31 mars, la police a intercepté 92 personnes qui avaient pénétré dans la zone frontalière orientale en provenant du Monténégro, alors que 595 personnes ont été empêchées d’entrer en Bosnie par la frontière sud du pays. Des Monténégrins affirment avoir vu des gens qui marchaient vers la frontière durant les mois d’hiver, cherchant à se protéger du froid dans des maisons abandonnées. La police des frontières de Bosnie-Herzégovine explique que depuis le début de l’année 2018, les familles, les femmes et les enfants sont de plus en plus nombreux à pénétrer dans le pays, alors qu’auparavant, il s’agissait principalement de jeunes hommes célibataires.

      Violences sur les frontières croates

      Farbut Farmani vient d’Iran, il que son ami a tenté à cinq ou six reprises de franchir la frontière de la Bosnie-Herzégovine, et lui-même deux fois. « Une fois en Bosnie, j’ai contacté le bureau du HCR. Ils m’ont dit qu’ils allaient m’aider. J’étais épuisé parce que j’avais marché 55 kms dans les bois et la neige, c’était très dur. Le HCR de Sarajevo a promis qu’il allait s’occuper de nous et nous emmener à Sarajevo. Au lieu de cela, la police est venue et nous a renvoyé au Monténégro ». Parmi les personnes interpelées, beaucoup viennent du Moyen Orient et de zones touchées par la guerre, mais aussi d’Albanie, du Kosovo ou encore de Turquie.

      La police des frontières de Croatie affirme qu’elle fait son devoir conformément à l’accord avec l’accord passé entre les gouvernements de Croatie et du Monténégro. Pourtant, depuis l’été dernier, les frontières monténégrino-croates ont été le théâtre de scènes de violences. Des volontaires ont rapporté, documents à l’appui, des scènes similaires à celles que l’on observe aux frontières serbo-croates ou serbo-hongroises, alors que personne n’a encore fait état de violences à la frontière serbo-monténégrine.

      La frontière croate n’est d’ailleurs pas la seule à se fermer. En février, l’Albanie a signé un accord avec Frontex, l’agence européenne pour la protection des frontières, qui doit entrer en vigueur au mois de juin. L’accord prévoit l’arrivée de policiers européens, des formation et de l’équipement supplémentaire pour la police locale, afin de mieux protéger les frontières. Pour sa part, le gouvernement hongrois a annoncé qu’il allait offrir au Monténégro des fils de fer barbelés afin de protéger 25 kilomètres de frontière – on ne sait pas encore quel segment de la frontière sera ainsi renforcé. Selon le contrat, le fil de fer sera considéré comme un don, exempté de frais de douanes et de taxes, et la Hongrie enverra des experts pour l’installer.

      Pratiquement aucun migrant n’imagine son avenir dans les Balkans, mais si les frontières se ferment, ils risquent d’être bloqués, et pourraient connaître le même sort que les réfugiés du Kosovo qui sont venus au Monténégro pendant les bombardements de l’OTAN en 1999. D’ailleurs, beaucoup de Roms, d’Egyptiens ou d’Ashkali du Kosovo vivent toujours à Podgorica, souvent dans des conditions abominables comme à Vrela Ribnička, près de la décharge de la ville. L’été risque de voir beaucoup de réfugiés affluer dans les Balkans. Il est donc urgent de créer des moyens d’accueil dignes de ce nom.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Migrants-le-trou-noir-des-Balkans

    • Cittadini di Bosnia Erzegovina: solidali coi migranti

      La nuova ondata di migranti che passano dalla Bosnia Erzegovina per poter raggiungere l’UE ha trovato riluttanti e impreparate le autorità ma non la gente. I bosniaco-erzegovesi, memori del loro calvario, si sono subito prodigati in gesti di aiuto


      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Cittadini-di-Bosnia-Erzegovina-solidali-coi-migranti-188155
      #solidarité

    • La Bosnie-Herzégovine s’indigne des réfugiés iraniens qui arrivent de Serbie

      Les autorités de Sarajevo ne cachent pas leur colère. Depuis que Belgrade autorise l’entrée des Iraniens sur son sol sans visas, ceux-ci sont de plus en plus nombreux à passer illégalement par la Bosnie-Herzégovine pour tenter de rejoindre l’Union européenne.

      Par la rédaction

      (Avec Radio Slobodna Evropa) - Selon le Commissaire serbe aux migrations, Vladimir Cucić, à peine quelques centaines de réfugiés en provenance d’Iran auraient « abusé » du régime sans visa introduit en août 2017 pour quitter la Serbie et tenter de rejoindre l’Europe occidentale. « Environ 9000 Iraniens sont entrés légalement en Serbie depuis le début de l’année 2018. Il n’agit donc que d’un petit pourcentage », explique-t-il à Radio Slobodna Evropa.

      Pourtant, selon le ministre bosnien de la Sécurité, le nombre d’Iraniens arrivant en Bosnie-Herzégovine a considérablement grimpé après l’abolition par Belgrade du régime des visas avec Téhéran. Le 31 mai, Dragan Mektić a mis en garde contre un nombre croissant d’arrivées clandestines d’Iraniens en Bosnie-Herzégovine via la frontière serbe, dans la région de Zvornik et de Višegrad.

      Depuis le mois de mars 2018, quatre vol hebdomadaires directs relient Téhéran et Belgrade. Pour Vladimir Cucić, la plupart des visiteurs iraniens sont des touristes à la découverte de la Serbie. « Les Iraniens figurent à la septième place des nationalités représentées dans les centres d’accueils serbes », ajoute-t-il, où sont hébergées 3270 personnes. « Nous comptons actuellement un peu moins de 400 réfugiés iraniens dans les camps d’accueil. Rien de dramatique ».

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-Herzegovine-de-plus-en-plus-de-refugies-iraniens-en-proven
      #Iran #réfugiés_iraniens

    • Bosnie : à Sarajevo, des migrants épuisés face à des bénévoles impuissants (1/4)

      Depuis plusieurs mois, des dizaines de migrants affluent chaque jour en Bosnie, petit État pauvre des Balkans. En traversant le pays, les exilés entendent gagner la Croatie tout proche, et ainsi rejoindre l’Union européenne. L’État bosnien se dit dépassé et peu armé pour répondre à ce défi migratoire. Les ONG et la société civile craignent une imminente « crise humanitaire ». InfoMigrants a rencontré de jeunes bénévoles à Sarajevo, devant la gare centrale, unique lieu de distribution de repas pour les migrants de passage dans la capitale bosnienne.


      http://www.infomigrants.net/fr/post/10148/bosnie-a-sarajevo-des-migrants-epuises-face-a-des-benevoles-impuissant

    • Réfugiés : bientôt des centres d’accueil en Bosnie-Herzégovine ?

      Au moins 5000 réfugiés sont présents en Bosnie-Herzégovine, principalement à Bihać et Velika Kladuša, dans l’ouest du pays, et leur nombre ne cesse d’augmenter. Débordés, les autorités se renvoient la patate chaude, tandis que l’Union européenne songe à financer des camps d’accueil dans le pays.

      La Fédération de Bosnie-Herzégovine possède à ce jour trois centres d’accueils, à Sarajevo, Delijaš, près de Trnovo, et Salakovac, près de Mostar, mais leur capacité d’accueil est bien insuffisante pour répondre aux besoins. Pour sa part, la Republika Sprska a catégoriquement affirmé qu’elle s’opposait à l’ouverture du moindre centre sur son territoire.

      Les réfugiés se concentrent principalement dans le canton d’Una-Sava, près des frontières (fermées) de la Croatie, où rien n’est prévu pour les accueillir. Jeudi, le ministre de la Sécurité de l’État, le Serbe Dragan Mektić (SDS), a rencontré à Bihać le Premier ministre du canton, Husein Rošić, ainsi que les maires de Bihać et de Cazin, tandis que celui de Velika Kladuša a boycotté le rencontre. Aucun accord n’a pu être trouvé.

      La mairie de Velika Kladuša, où 2000 réfugiés au moins séjournent dans des conditions extrêmement précaires, s’oppose en effet à l’édification d’un centre d’accueil sur son territoire. Pour leur part, les autorités centrales envisageaient d’utiliser à cette fin les anciens bâtiments industriels du groupe Agrokomerc, mais l’Union européenne refuse également de financer un tel projet, car ce centre d’accueil se trouverait à moins de cinq kilomètres des frontières de l’Union.

      « Nous allons quand même ouvrir ce centre », a déclaré aux journalistes le ministre Mektić. « Et ce sera à l’Union européenne de décider si elle veut laisser mourir de faim les gens qui s’y trouveront ». Pour Dragan Mektić, l’objectif est que la Bosnie-Herzégovine demeure un pays de transit. « Nous ne voulons pas que la Bosnie devienne un hot spot, et les routes des migrants sont telles qu’il faut que les centres d’accueil soient près des frontières, car c’est là que les migrants se dirigent », explique-t-il.

      “Nous ne voulons pas que la Bosnie devienne un hot spot, et les routes des migrants sont telles qu’il faut que les centres d’accueil soient près des frontières.”

      Une autre option serait de loger les familles avec enfants dans l’hôtel Sedra de Cazin, mais les autorités locales s’y opposent, estimant que cela nuirait au tourisme dans la commune. Une manifestation hostile à ce projet, prévue vendredi, n’a toutefois rassemblé qu’une poignée de personnes. Les autorités municipales et cantonales de Bihać demandent l’évacuation du pensionnat où quelques 700 personnes ont trouvé un refuge provisoire, dans des conditions totalement insalubres, mais avec un repas chaud quotidien servi par la Croix-Rouge du canton. Elles réclament également la fermeture des frontières de la Bosnie-Herzégovine, qui serait, selon elles, la seule manière de dissuader les réfugiés de se diriger vers le canton dans l’espoir de passer en Croatie.

      Le président du Conseil des ministres de Bosnie-Herzégovine, Denis Zvizdić (SDA), a lui aussi mis en garde contre tout projet « de l’Union européenne, notamment de la Croatie », de faire de la Bosnie-Herzégovine « une impasse pour les migrants ». Les réfugiés continuent néanmoins à affluer vers ce pays depuis la Serbie, et surtout depuis le Monténégro. Pour sa part, le gouvernement autrichien a annoncé l’envoi de 56 tentes en Bosnie-Herzégovine.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Crise-des-migrants-bientot-des-centres-d-accueil-en-Bosnie-Herzeg

    • Migrants : la Bosnie refuse de devenir la sentinelle de l’Europe

      La Bosnie refuse de devenir la sentinelle de l’Union européenne, qui ferme ses frontières aux milliers de migrants bloqués sur son territoire.

      Le ministre de la Sécurité de ce pays pauvre et fragile Dragan Mektic, a du mal à cacher son agacement face à Bruxelles.

      « Nous ne pouvons pas transformer la Bosnie en +hotspot+. Nous pouvons être uniquement un territoire de transit », a-t-il averti lors d’une visite la semaine dernière à Bihac (ouest).

      La majorité des migrants bloqués en Bosnie se regroupent dans cette commune de 65.000 habitants, proche de la Croatie, pays membre de l’UE.

      Le ministre a récemment regretté le refus de Bruxelles de financer un centre d’accueil dans une autre commune de l’ouest bosnien, Velika Kladusa. Selon lui, l’UE le juge trop proche de sa frontière et souhaite des centres plus éloignés, comme celui prévu près de Sarajevo.

      Le Premier ministre Denis Zvizdic a lui mis en garde contre tout projet « de l’Union européenne, notamment de la Croatie », de faire de la Bosnie « une impasse pour les migrants ».

      Ceux-ci « pourront entrer en Bosnie proportionnellement au nombre de sorties dans la direction de l’Europe », a-t-il encore prévenu.

      – ’Finir le voyage’ -

      Malgré des conditions de vie « très mauvaises » dans le campement de fortune où il s’est installé à Velika Kladusa, Malik, Irakien de 19 ans qui a quitté Bagdad il y a huit mois avec sa famille, n’ira pas dans un camp l’éloignant de la frontière : « Les gens ne veulent pas rester ici, ils veulent finir leur voyage. »

      Dans ce camp, chaque jour des tentes sont ajoutées sur l’ancien marché aux bestiaux où plus de 300 personnes survivent au bord d’une route poussiéreuse, à trois kilomètres d’une frontière que Malik et sa famille ont déjà tenté deux fois de franchir.

      La municipalité a installé l’eau courante, quelques robinets, mis en place un éclairage nocturne et posé quelques toilettes mobiles.

      Pour le reste, les gens se débrouillent, explique Zehida Bihorac, directrice d’une école primaire qui, avec plusieurs enseignants bénévoles, organise des ateliers pour les enfants, aide les femmes à préparer à manger.

      « C’est une situation vraiment désespérée. Personne ne mérite de vivre dans de telles conditions. Il y a maintenant beaucoup de familles avec des enfants, entre 50 et 60 enfants, dont des bébés qui ont besoin de lait, de nourriture appropriée », dit-elle.

      « Ces gens sont nourris par les habitants, mais les habitants ne pourront pas tenir encore longtemps parce qu’ils sont de plus en plus nombreux », met-elle en garde, déplorant l’absence de l’État.

      Selon le ministère de la Sécurité, plus de 7.700 migrants ont été enregistrés en Bosnie depuis le début de l’année. Plus de 3.000 seraient toujours dans le pays, la majorité à Bihac, où l’un d’eux s’est noyé dans l’Una la semaine dernière.

      Dans cette ville, 800 à 900 déjeuners sont désormais servis chaque jour dans la cité universitaire désaffectée investie par les migrants depuis plusieurs mois, selon le responsable local de la Croix Rouge Selam Midzic.

      Le bâtiment étant désormais trop petit, des tentes sont plantées dans un bosquet proche. D’autres squats sont apparus. « Le nombre de migrants augmente chaque jour », dit Selam Midzic.

      – Motif supplémentaire de zizanie -

      Le maire, Suhret Fazlic, accuse le gouvernement de l’abandonner. « Nous ne voulons pas être xénophobes, nous souhaitons aider les gens, et c’est ce qu’on fait au quotidien. Mais cette situation dépasse nos capacités », dit-il.

      La question s’est invitée dans la campagne des élections générales d’octobre, dans un pays divisé aux institutions fragiles. Le chef politique des Serbes de Bosnie, Milorad Dodik, a plusieurs fois prévenu que son entité n’accueillerait pas de migrants.

      Il a même accusé des dirigeants Bosniaques (musulmans) de vouloir modifier l’équilibre démographique du pays en y faisant venir 150.000 migrants pour la plupart musulmans.

      La Bosnie est peuplée pour moitié de Bosniaques musulmans, pour un tiers de Serbes orthodoxes et pour environ 15% de Croates catholiques.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/07/09/migrants-la-bosnie-refuse-de-devenir-la-sentinelle-de-l-europe_1665144

    • Migrants : en Bosnie, la peur de « devenir Calais »

      De plus en plus de #réfugiés_pakistanais, afghans et syriens tentent de rejoindre l’Europe en passant par la frontière bosno-croate. Alors que les structures d’accueil manquent, cet afflux ravive des tensions dans un pays divisé en deux sur des bases ethniques.

      Le soir tombé, ils sont des dizaines à arriver par bus ou taxi. Samir Alicic, le tenancier du café Cazablanka à Izacic, un petit village situé à la frontière entre la Bosnie et la Croatie, les observe depuis trois mois faire et refaire des tentatives pour passer côté croate dans l’espoir de rejoindre l’Europe de l’Ouest. En 2017, ces voyageurs clandestins en provenance du Pakistan, de la Syrie et de l’Afghanistan étaient seulement 755 en Bosnie-Herzégovine, selon les chiffres officiels. Ils sont plus de 8 000 à la mi-juillet 2018 et leur nombre va sans doute exploser : d’après les autorités, ils pourraient être plus de 50 000 à tenter de transiter par le pays dans les prochains mois.

      Depuis le début de l’année, un nouvel itinéraire les a menés en Bosnie, un pays pauvre au relief accidenté qu’ils évitaient jusqu’ici et qui ne dispose que de deux centres d’accueil officiels, saturés, près de Sarajevo et de Mostar. Désormais, ils arrivent - chose inédite - par l’Albanie et le Monténégro. La route des Balkans par laquelle plus d’un million de migrants sont passés en 2015 et 2016 est fermée depuis mars 2016. Et les frontières entre la Serbie et la Hongrie et la Serbie et la Croatie sont devenues infranchissables.

      Catastrophe humanitaire

      Le nouvel itinéraire est ardu. D’abord, il faudrait franchir la frontière bosno-croate. Elle s’étale sur plus de 1 000 kilomètres, mais on y est facilement repérable. Plusieurs centaines de migrants auraient été renvoyés de Croatie vers la Bosnie sans même avoir pu déposer une demande d’asile. « On les voit revenir le visage tuméfié. Ils nous racontent qu’ils ont été tabassés et volés par les flics croates », raconte Alija Halilagic, un paysan dont la maison se trouve à quelques encablures de la frontière. Ici, ils essaient de passer par les champs, la forêt, la rivière ou même par une ancienne douane éloignée seulement d’une cinquantaine de mètres de l’actuelle. Pour qu’ils ne tombent pas sur les champs de mines, encore nombreux en Bosnie, la Croix-Rouge leur distribue un plan.

      Entre la Croatie et la Slovénie, la frontière est une bande étroite : la franchir sans être repéré est quasi impossible. Ce qui fait le jeu des passeurs qui demandent jusqu’à 5 000 euros pour faire l’itinéraire depuis la Bosnie, selon des sources rencontrées à Sarajevo. Parmi ces migrants bloqués en Bosnie, seuls 684 ont demandé l’asile politique depuis le début de l’année. Les Etats balkaniques restent perçus comme des pays de transit.

      La majorité s’est massée dans le nord-ouest du pays. Surtout à Bihac, une ville de 60 000 habitants à une dizaine de kilomètres d’Izacic, où sont concentrés 4 000 migrants. Ils sont rejoints par une cinquantaine de nouveaux arrivants chaque jour.

      Sur les hauteurs de la ville, ce jour-là à 13 heures passées, des centaines de personnes patientent sous un soleil de plomb. La distribution du repas durera deux heures et demie. Ils sont plus d’un millier à être hébergés dans cet ancien internat sans toit ni fenêtre. Le sol boueux, jonché de détritus, est inondé par endroits par l’eau de pluie. Le bâtiment désaffecté sent l’urine. Entre 15 et 40 personnes dorment dans chaque pièce, sur des matelas, des couvertures, quelques lits superposés. De grandes tentes sont installées dans un champ boisé, à côté du bâtiment. « Cet endroit n’est pas safe la nuit, raconte un migrant kurde. Il y a des bagarres, des couteaux qui circulent. La police refuse d’intervenir. » Une centaine d’enfants et une cinquantaine de femmes sont hébergés ici. Le lendemain, huit familles seront relogées dans un hôtel de la région.

      « Nous manquons de tout : de vêtements, de chaussures, de couvertures, de sacs de couchage, de tentes, de lits de camp. Chaque jour, nous courons pour aller chercher et rendre aux pompiers de la ville le camion qu’ils nous prêtent pour qu’on puisse livrer les repas », raconte le responsable de la Croix-Rouge locale, Selam Midzic. Les ONG craignent que le prochain hiver ne tourne à la catastrophe humanitaire. Pour tenter de l’éviter, le bâtiment devrait être rénové à l’automne. Les migrants pourraient être déplacés vers un centre d’accueil qui serait monté dans la région. Mais aucune ville des alentours n’en veut pour l’instant.

      L’afflux de migrants, souvent en provenance de pays musulmans, ravive des tensions. Depuis la fin de la guerre, la Bosnie est divisée sur des bases ethniques en deux entités : la République serbe de Bosnie (la Republika Srpska, RS) et la Fédération croato-musulmane. Elle est composée de trois peuples constituants : les Bosniaques musulmans (50 % de la population), les Serbes orthodoxes (30 %) et les Croates catholiques (15 %). Des migrants, le président de l’entité serbe, qui parle d’« invasion », n’en veut pas. « En Republika Srpska, nous n’avons pas d’espace pour créer des centres pour les migrants. Mais nous sommes obligés de subir leur transit. Nos organes de sécurité font leur travail de surveillance », a déclaré Milorad Dodik dans une interview au journal de référence serbe, Politika.

      Vols par effraction

      « La police de la République serbe expulse vers la Fédération tous ces gens dès qu’ils arrivent. Il y a des villes de la RS qui sont aussi frontalières avec la Croatie. Et pourtant, tout le monde vient à Bihac », s’indigne le maire de la ville, Suhret Fazlic. L’élu local estime que les institutions centrales sont trop faibles pour faire face à l’afflux de migrants. En outre, le gouvernement, via son ministère de la Sécurité, « se défausse sur les autorités locales. Et les laisse tous venir à Bihac en espérant qu’ils vont réussir à passer en Croatie. Nous avons peur de devenir Calais, d’être submergés ».

      A Izacic, les esprits sont échauffés. On reproche à des migrants de s’être introduits par effraction dans plusieurs maisons, appartenant souvent à des émigrés bosniens installés en Allemagne ou en Autriche. Ils y auraient pris des douches et volé des vêtements. Quelques dizaines d’hommes se sont organisés pour patrouiller la nuit. Des migrants auraient également menacé les chauffeurs de taxi qui les conduisaient jusqu’au village et tabassé un groupe qui descendait du bus, la semaine dernière. « Moi, ils ne m’embêtent pas. Mais ce qui me dérange, c’est qu’ils détruisent nos champs de maïs, de pommes de terre, de haricots quand ils les traversent à trente ou à cinquante. On en a besoin pour vivre. Ma mère âgée de 76 ans, elle les a plantés, ces légumes », se désole Alija Halilagic, attablé au Cazablanka. Certains habitants, comme Samir Alicic, aimeraient voir leurs voisins relativiser. « Les années précédentes, les récoltes étaient détruites par la sécheresse et la grêle. A qui pourrait-on le faire payer ? » fait mine de s’interroger le patron du bar.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/07/29/migrants-en-bosnie-la-peur-de-devenir-calais_1669607
      #réfugiés_afghans #réfugiés_syriens

    • A contre-courant, #Sarajevo affiche sa solidarité

      Quelque 600 migrants parmi les 8 000 entrés dans le pays depuis le début de l’année sont actuellement en transit dans la capitale.

      La scène est devenue familière. Sur le parking de la gare de Sarajevo, ils sont environ 300 à former une longue file en cette soirée chaude de juillet. S’y garera bientôt une camionnette blanche d’où jailliront des portions des incontournables cevapcici bosniens, quelques rouleaux de viande grillée servis dans du pain rond, accompagnés d’un yaourt. Une poignée de femmes et quelques enfants se mêlent à ces jeunes hommes, venus de Syrie, d’Irak, du Pakistan ou d’Afghanistan et de passage en Bosnie sur la route vers l’Europe de l’Ouest. Environ 600 des 8 000 migrants entrés dans le pays depuis le début de l’année sont actuellement en transit dans la capitale. La majorité est bloquée dans le nord-ouest, en tentant de passer en Croatie.

      « Ici, l’accueil est différent de tous les pays par lesquels nous sommes passés. Les gens nous aident. Ils essaient de nous trouver un endroit où prendre une douche, dormir. Les flics sont corrects aussi. Ils ne nous tabassent pas », raconte un Syrien sur les routes depuis un an. Plus qu’ailleurs, dans la capitale bosnienne, les habitants tentent de redonner à ces voyageurs clandestins un peu de dignité humaine, de chaleur. « Les Sarajéviens n’ont pas oublié que certains ont été eux-mêmes des réfugiés pendant la guerre en Bosnie[1992-1995, ndlr]. Les pouvoirs publics ont mis du temps à réagir face à l’arrivée des migrants, contrairement aux habitants de Sarajevo qui ont d’emblée affiché une solidarité fantastique. Grâce à eux, une crise humanitaire a été évitée au printemps », affirme Neven Crvenkovic, porte-parole pour l’Europe du Sud-Est du Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés.

      En avril, 250 migrants avaient mis en place un campement de fortune, quelques dizaines de tentes, dans un parc du centre touristique de Sarajevo. L’Etat qui paraissait démuni face à cette situation inédite ne leur fournissait rien. « Dès que nous avons vu venir des familles, nous nous sommes organisés. Des gens ont proposé des chambres chez eux, ont payé des locations », raconte une bénévole de Pomozi.ba, la plus importante association humanitaire de Sarajevo. L’organisation, qui ne vit que des dons des particuliers en argent ou en nature, sert actuellement un millier de repas par jour dans la capitale bosnienne et distribue vêtements et couvertures. Lors du ramadan en mai, 700 dîners avaient été servis. Des nappes blanches avaient été disposées sur le bitume du parking de la gare de Sarajevo.

      Non loin de la gare, un petit restaurant de grillades, « le Broadway », est tenu par Mirsad Suceska. Bientôt la soixantaine, cet homme discret apporte souvent des repas aux migrants. Ses clients leur en offrent aussi. Il y a quelques semaines, ils étaient quelques-uns à camper devant son établissement. Un groupe d’habitués, des cadres qui travaillent dans le quartier, en sont restés sidérés. L’un d’eux a demandé à Mirsad de donner aux migrants toute la nourriture qui restait dans sa cuisine. « Quand je les vois, je pense aux nôtres qui sont passés par là et je prends soin de ne pas les heurter, les blesser en lançant une remarque maladroite ou un mauvais regard », explique Mirsad. Dans le reste du pays, la population réserve un accueil plus mitigé à ces voyageurs.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/07/29/a-contre-courant-sarajevo-affiche-sa-solidarite_1669608

    • La région de #Bihać attend une réponse des autorités de Bosnie-Herzégovine

      10 août - 17h30 : Le Premier ministre du canton d’#Una-Sava et les représentants de communes de Bihać et #Velika_Kladuša ont fixé à ce jour un ultimatum au Conseil des ministres de Bosnie-Herzégovine, pour qu’il trouve une solution pour le logement des réfugiés qui s’entassent dans l’ouest de la Bosnie. « Nous ne pouvons plus tolérer que la situation se poursuive au-delà de vendredi. Nous avions décidé que les réfugiés qui squattent le Pensionnat devaient être relogés dans un camp de tentes à Donja Vidovska, mais rien n’a été fait », dénonce le Premier ministre cantonal Husein Rošić.

      A ce jour, 5500 migrants et réfugiés se trouveraient dans l’ouest de la Bosnie-Herzégovine, dont 4000 dans la seule commune de Bihać, et leur nombre ne cesse de croître.


      https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-police-renforts-frontieres
      #Bihac ##Velika_Kladusa

    • EASO assesses potential support to Bosnia Herzegovina on registration, access to procedure, identification of persons with special needs and reception

      Due to an increased number of mixed migration flows in Bosnia and Herzegovina, the European Commission has been in contact with #EASO and the project partners 1 of the IPA funded Regional Programme “Regional Support to Protection-Sensitive Migration Management in the Western Balkans and Turkey” on how to best support the Bosnian ‘Action Plan to Combat Illegal Migration’ 2 within the scope of the project and possibly beyond.

      Within that framework, an assessment mission with six EASO staff from the Department for Asylum Support and Operations took place from 30 July to 3 August in Bosnia and Herzegovina. The objective of the mission was to further assess the situation in the country and discuss the scope and modalities of EASO’s support, in cooperation with #Frontex, #IOM, #UNHCR and EU Delegation.
      #OIM

      After a meeting with the Bosnian authorities, UNHCR and IOM in Sarajevo, the EASO reception team travelled throughout Bosnia to visit current and future reception facilities in #Delijas and #Usivak (Sarajevo Canton), #Salakovac (Herzegovina-Neretva Canton), #Bihac and #Velika_Kladusa (Una-Sana Canton, at the country`s western border with Croatia). The aim of the visit was to assess the conditions on the ground, the feasibility of an increase of reception capacity in Bosnia and Herzegovina and the potential for dedicated support to the Bosnian authorities by EASO on the topic of reception conditions. EASO experts met with Bosnian officials, mobile teams from IOM, field coordinators from UNHCR and various NGO partners active in reception centres.

      The reception mission visited #Hotel_Sedra near Bihac, which since the end of July has started to host families with children relocated from informal settlements (an abandoned dormitory in Bihac and an open field in Velika Kladusa) within the Una-Sana Canton. It will soon reach a capacity of 400, while the overall capacity in the country is expected to reach 3500 before winter. A former military camp in Usivak (near Sarajevo) will also start to host families with children from September onward after the necessary work and rehabilitation is completed by IOM.

      The EASO reception team is currently assessing the modalities of its intervention, which will focus on expert support based on EASO standards and indicators for reception for the capacity building and operational running of the reception facilities in Bihac (Hotel Sedra) and Ušivak.

      In parallel, the EASO experts participating in the mission focusing on registration, access to asylum procedure and identification or persons with special needs visited reception facilities in Delijas and Salakovac as well as two terrain centres of the Service for Foreigners’ Affairs, namely in Sarajevo and Pale. Meetings with the Ministry of Security’s asylum sector allowed for discussions on possible upcoming actions and capacity building support. The aim would be to increase registration and build staff capacity and expertise in these areas.

      Currently, the support provided by EASO within the current IPA project is limited to participation to regional activities on asylum and the roll-out of national training module sessions on Inclusion and Interview Techniques. This assessment mission would allow EASO to deliver more operational and tailor made capacity building and technical support to Bosnia and Herzegovina in managing migration flows. These potential additional actions would have an impact on the capacity of the country for registration, reception and referral of third-country nationals crossing the border and will complement the special measure adopted by the European Commission in August 2018. The scope and modalities of the actions are now under discussions with the relevant stakeholders and will be implemented swiftly, once agreed by the Bosnian authorities and the EU Delegation.

      https://www.easo.europa.eu/easo-assessment-potential-support-bosnia-herzegovina

      Avec cette image postée sur le compte twitter de EASO:


      https://twitter.com/EASO/status/1038804225642438656

    • No man’s land. Un reportage sulla nuova rotta balcanica

      Nel 2018 sono state circa 100.000 le persone che hanno attraversato i Balcani nel tentativo di raggiungere lo spazio Schengen. Esaurite le rotte migratorie che nel 2015 erano raccontate da tutti mass media i profughi hanno aperto nuove vie, sempre più pericolose e precarie. Il cuore nevralgico della rotta è ora la Bosnia Erzegovina. No man’s land il reportage di William Bonapace e Maria Perino lo racconta.

      Dopo la chiusura di frontiere e l’innalzamento di muri e recinti il flusso migratorio da unico e compatto si è disciolto in una serie di vie parallele e trasversali che, partendo dalla Grecia puntano in parte ancora verso la Serbia (nel tentativo questa volta di passare attraverso la Croazia), in parte verso la Bulgaria e, in altri casi, direttamente dalla Turchia imbarcandosi sul mar Nero per raggiungere la Romania. Ma oggi la via più rilevante passa attraverso l’Albania e il Montenegro per giungere in Bosnia Erzegovina e, quindi, puntare verso nord-ovest, nel cantone bosniaco di Una Sana, dove il tratto croato da dover superare, oltre il confine bosniaco, per raggiungere la Slovenia è più breve.

      In Bosnia Erzegovina nel corso del 2018 secondo l’UNHCR sono transitati circa 22.400 migranti, 20 volte in più rispetto a quelli che transitarono nel 2017 (circa 1.166). Questi numeri, nonostante non facciano la stessa impressione di quelli del 2015, vanno rapportati alla situazione che vive il piccolo paese balcanico che “si è trovato coinvolto in una vicenda di proporzioni internazionali senza reali capacità di reagire a una tale emergenza, a causa della sua disastrata situazione economica e di una politica lacerata da contrapposizioni etnico-nazionali gestite in modo spregiudicato da parte di gruppi di potere che stanno spingendo il paese in un vortice di povertà e di disperazione, sempre più ai margini dell’Europa stessa.”

      La risposta europea è stata quella di inviare soldi (in aiuti umanitari), in una misura talmente ridotta che le tensioni interne stanno aumentando e molti profughi hanno deciso di rientrare nei campi serbi per passare l’inverno viste le precarie e drammatiche condizioni delle strutture di fortuna allestite in Bosnia Erzegovina.

      http://viedifuga.org/no-mans-land-un-reportage-sulla-nuova-rotta-balcanica

      –-> Per approfondire e leggere integralmente il reportage No man’s land si può consultare il sito (http://www.dossierimmigrazione.it/comunicati.php?tipo=schede&qc=179) di Dossier Statistico Immigrazione (IDOS).

    • People on the Move in Bosnia and Herzegovina in 2018: Stuck in the corridors to the EU

      Bosnia and Herzegovina (BiH) has been part of the “Balkan route” for smuggling people, arms and drugs for decades, but also a migrant route for people who have been trying to reach Western Europe and the countries of the EU in order to save their lives and secure a future for themselves. While in 2015, when millions of people arrived in Europe over a short period of time, BiH was bypassed by mass movements, the situation started changing after the closure of the EU borders in 2016, and later on, in 2017, with the increase of violence and push backs in Croatia, and other countries at the EU borders. This report offers insight into the situation on the field: is there a system responsible for protection, security, and upholding fundamental human rights? What has the state response been like? What is the role of the international community?


      https://ba.boell.org/en/2019/02/21/people-move-bosnia-and-herzegovina-2018-stuck-corridors-eu
      #rapport #limbe #attente

  • Greece: Europe’s laboratory. An idea for Europe

    report “Greece: Europe’s laboratory. An idea for Europe” written after a field research made by legal operators and lawyers from ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione - Association for Juridical Studies on Migration) conducted in march 2017.

    The research aims to analyze the juridical effects that the Eu-Turkey deal had on the Greek asylum system after one year from its approval. Through this observation and the contemporary study on the European ongoing reforms of the European asylum system we can say that Greece can be considered as a laboratory for the newest European immigration governmental policies which clearly focuses on stopping the fluxes also despite the respect of fundamental principles of the European rule of law.

    http://www.statewatch.org/news/2017/aug/greece-an-idea-for-europe.pdf

    #Grèce #accord_UE-Turquie #asile #migrations #réfugiés #laboratoire #rapport #EASO

  • I circuiti dell’umanitario-finanziario tra il filo spinato di Moria

    In particolare, la Grecia è diventato il primo paese UE in cui si sta sperimentando un progetto europeo di finanziarizzazione delle misure di supporto ai richiedenti asilo in cooperazione con UNHCR. #Refugee_cash_assistance programme è il nome della piattaforma unica con cui vengono distribuite carte di debito ai richiedenti asilo dallo scorso aprile; progetto in cui sono state incluse tutte le ONG che operano nei campi di rifugiati o negli hotspot in Grecia. Per parlarne parto dalle gabbie di Moria, l’hotspot più narrato dai media europei e anche quello maggiormente sotto accusa per il sovraffollamento costante e la permanenza forzata di migranti al suo interno, in attesa che le domande di asilo vengano processate. L’ hotspot di Moria, in cui al momento sono bloccate circa 3200 persone, costituisce punto nevralgico delle politiche migratorie europee e, al contempo, lente attraverso cui guardare l’ Europa, è un luogo di confinamento noto per i livelli concentrici di filo spinato, ben visibili anche dall’esterno, che dividono in modo gerarchico i migranti all’interno, in base alla nazionalità. Dall’esterno tuttavia non si riesce a cogliere molto più che questo, oltre ad osservare la complessa economia del campo, che sconfina rispetto al muro esterno dell’hotspot, in particolare da quando ai migranti è stato concesso di uscire durante il giorno.

    L’hotspot, luogo ad accesso ristretto per eccellenza, ha tuttavia i suoi canali di ingresso possibili, in particolare quando si riesce a vestire una casacca di una ONG, che ho indossato per un giorno, con l’obiettivo di assistere alla distribuzione mensile delle #debit_cards ai migranti effettuata dall’organizzazione americana #Mercy_Corps. Appena varcato il cancello principale, l’economia spaziale dell’hotspot è visibilmente scandita dalle gabbie concentriche e dal filo spinato che avvolge ogni settore del campo. Le zone A, B e C, sono destinate ai “soggetti vulnerabili” in maggioranza famiglie siriane, e a donne sole. L’etichetta “vulnerabili” comporta che al cancello di ognuna di queste gabbie-settori vi sia un volontario, dell’ONG #Eurorelief che impedisce ai rifugiati degli altri settori del campo di entrare, e, in nome della protezione, respinge con forza all’interno un minore che prova ad uscire nel cortile antistante. Vulnerabilità che tuttavia, come spiegano gli operatori di MSF, spesso non viene riconosciuta da UNHCR quando resta non-visibile, come nel caso di torture e violenze sessuali subite dalle e dai migranti.

    Oltre ai settori “protetti” anche le altre zone dell’hotspot sono ad accesso limitato: per accedervi, ogni residente dell’hotspot deve mostrare un braccialetto che accerta la propria apparenza a quell’area di tende o containers. I nomi di queste zone del campo – “#Pakistani_sector” e “#African_compound” e “#North_African_sector” – indicano di fatto i criteri di diniego, ovvero di chi, tra gli abitanti di Moria, ha quasi la certezza di non ricevere lo status di rifugiato. Come si può evincere, a giocare un ruolo determinante nelle “selezioni” effettuate dallo European Asylum Support Office (EASO), sono le nazionalità: i cittadini di nazionalità pakistana sono tra i più soggetti alle deportazioni verso la Turchia, e l’aumento visibile di migranti algerini a Lesvos ha significato per loro un tasso diniego pressoché totale Il filo spinato avvolge anche l’ area in cui si trovano i containers di EASO e UNHCR: un filo di protezione, lo definisce il poliziotto che sorveglia la lunga fila di migranti fuori dall’ufficio di #EASO, in seguito alle numerose rivolte avvenute nell’hotspot a fronte delle attese infinite prima che le domande di asilo vengano processate, o addirittura per depositare la domanda di asilo.

    Con l’implementazione dello EU-Turkey Deal, chi viene dichiarato “inammissibile”, e dunque preventivamente escluso dai canali dell’asilo, così come chi riceve il diniego della protezione internazionale, viene trasferito nel #pre-removal_center interno a #Moria, in attesa di essere deportato in Turchia. Una prigione nella prigione, dove si perdono le tracce di chi entra: non ci sono numeri ufficiali sulle persone detenute: richiedenti asilo che venivano seguiti per assistenza medica o che ricevevano la ricarica mensile della carta di debito, improvvisamente spariscono.

    Tuttavia, in parallelo ai circuiti di filo spinato che delimitano i gradi di esclusione differenziale dai canali dell’asilo, vi sono altri circuiti non-visibili e immateriali che convergono negli hotspots e nei centri di accoglienza in Grecia. Questi sono circuiti di dati e informazioni che prendono forma a partire da una presa umanitario-finanziaria sulle vite dei e delle migranti, e in particolare su ciò che UNHCR stesso definisce le “popolazioni transnazionali in transito”. Gli stessi migranti che sono bloccati a Moria da un anno o più e a cui sarà molto probabilmente negata la protezione internazionale e dunque il diritto di restare in Europa, sono al contempo oggetto di misure di estrazione di valore dal loro stesso permanere in quel luogo. Non mi riferisco qui a ciò che in letteratura è stata definita la “migration industry”, ovvero l’economia che ruota attorno alla gestione dei centri di detenzione e di accoglienza, né al profitto ricavato dalle grandi corporation che producono nuove tecnologie per rafforzare i confini o identificare i migranti. I circuiti di cui parlo sono piuttosto l’esito dell’introduzione di nuovi modi di digitalizzazione e finanziarizzazione delle forme di intervento umanitario e di supporto monetario nei confronti dei richiedenti asilo. Questo si concretizza nell’erogazione di carte di debito Mastercard, con il logo di UNHCR e di ECHO, a tutti coloro che all’interno degli hotspots e dei campi greci vengono dichiarati da UNHCR “people of concern”. L’attore finanziario coinvolto è #Pre-Paid_Financial_Services con sede a Londra. Per ogni carta rilasciata, UNHCR paga una commissione di 6 euro a Pre-Paid Financial Services, e una tassa è prevista anche ogni transazione effettuata da ciascun richiedente asilo, cosi come per ogni ricarica mensile. Solo sulle isole, ogni mese vengono rilasciate circa 500 nuove carte, e a Lesvos si ricaricano circa 2500 carte ogni volta.

    90 euro a persona, 340 per nucleo familiare: queste sono le cifre fissate da UNHCR in accordo con le autorità greche, della ricarica mensile delle carte di debito. La cifra sale da 90 a 150 in alcuni campi di rifugiati o centri di accoglienza dove, a differenza di Moria, non viene fornito cibo. Tuttavia, anche nell’hotspot di Moria questa sembra essere la prossima tappa: interrompere la distribuzione di cibo e vestiti e far si che i richiedenti asilo cucinino autonomamente.

    All’interno di Moria una signora siriana mostra la sua asylum card, per ottenere la ricarica mensile della carta di debito: sul suo documento non compare, per sua fortuna, il timbro rosso, che indica le restrizioni geografiche (“geographical restrictions” ) imposte dallo EU-Turkey Deal, secondo cui tutta la procedura di asilo deve essere svolta sulle isole. Per la maggioranza delle persone bloccate da mesi a Moria, quel timbro significa non solo immobilità ma anche alto rischio di trasferimento forzato in Turchia. Mentre procede la registrazione mensile delle carte, tra tende e containers, nella prigione interna all’hotspot 35 dei migranti accusati di aver partecipato alle proteste del 18 luglio contro la lentezza nell’esame delle domande di asilo scompaiono dalla lista di Mercy Corps. La #Fast_Track_Procedure, concepita per espellere più velocemente i migranti dalle isole greche, si scontra e si articola con altri confini temporali che producono contenimento a oltranza, sulle isole.

    http://www.euronomade.info/?p=6338
    #Moria #asile #migrations #hotspots #réfugiés #business #Lesbos #Grèce #camps_de_réfugiés #économie #vulnérabilité #accord_UE-Turquie #expulsions #renvois #migration_industry #argent #cartes_de_crédit #financial_inclusion #nourriture #geographical_restrictions #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation #restrictions_géographiques #confinement #îles

    cc @albertocampiphoto

  • Thousands of refugees on Greek islands risk losing vital services as charities prepare to withdraw

    ’Who’s going to do child protection services on the island? Who’s going to do education? Who’s going to do the food?’

    http://www.independent.co.uk/news/refugees-latest-greek-islands-government-unhcr-humanitarian-crisis-fe
    #île #Grèce #asile #migrations #réfugiés #accueil #hotspots #financement #sous-financement #bénévolat #aide

  • ’Serious Fundamental Rights Violations’ at Hotspots in Italy and Greece

    Current EU policies and practices regarding refugees “has led to instances of serious fundamental rights violations in both Italy and Greece,” a new study by the EP concluded. It points out that countries failed to meet their commitments under the relocation scheme, threatening the rule of law in the EU. On hotspots, it notes, “they have not helped in alleviating pressure on the Italian and Greek systems. On the contrary, they increase burdens, because of structural shortcomings in their design and implementation and due to continuing applications, exacerbating the flaws of the Dublin system.”

    https://www.liberties.eu/en/short-news/18068
    #rapport #migrations #asile #réfugiés #hotspots #Dublin #Italie #Grèce #Dublin_IV #relocalisation #Frontex #EASO

    Lien vers le rapport:
    http://www.statewatch.org/news/2017/mar/ep-study-implementation-of-refugee-relocation-schemes-3-17.pdf

  • New Security on Greek Islands Reduces Access

    European migration commentator Apostolis Fotiadis probes the legality of the European Asylum Support Office’s decision to limit access to asylum proceedings as part of new security measures on the Greek islands.

    On June 9, the Lawyers Association of Mitilini (Lesvos) sued the European Asylum Support Office (EASO) for obstructing access to asylum proceedings by its members. The lawyers claim that #EASO officials and private security guards are prohibiting access to specific areas of the holding centers, also called hotspots, that host the EASO offices and the asylum proceedings.


    https://www.newsdeeply.com/refugees/op-eds/2016/06/15/new-security-on-greek-islands-reduces-access
    #asile #migrations #réfugiés #procédure_d'asile #Grèce #île #sécurité #mesures_de_sécurité #accès_à_la_procédure_d'asile

    cc @reka

  • #Lampedusa, «Mandateci via da questa prigione»

    Scesi in piazza ieri, nel centro di Lampedusa, per chiedere di poter lasciare l’isola, dove sono bloccati da mesi, più di 70 rifugiati sono in sciopero della fame e della sete contro le identificazioni e il “sistema hotspot”. Altri 400 persone sono sbarcati sull’isola in 24 ore

    http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2016/05/07/news/lampedusa-139305423
    #hotspots #asile #migrations #réfugiés #grève_de_la_faim #résistance #manifestation #Italie

    • Mais l’agence #EASO en parle comme si c’était le plus beau endroit du monde... #hypocrisie

      The Cultural Mediators of Lampedusa

      Every EASO Asylum Support Team is made up by national experts coming from the European Member States and cultural mediators to interpret several languages. In the small island of Lampedusa, Italy, migrants can disembark at any time, even at night or during the weekend. EASO’s Asylum Support Team is always ready to receive them, providing not only information on the EU Relocation and family reunification procedures, but also the first assistance and care they need after their long journey.

      https://www.easo.europa.eu/stories-hotspot-lampeduss

  • In tre mesi fotosegnalati all’#hotspot di #Trapani #Milo 2492 migranti

    I profughi, quasi tutti provenienti dall’Africa sub-sahariana, sono stati informati, accompagnati e assistiti e poi accolti nei Cas locali o di altre parti d’Italia, avviando la pratica per la richiesta d’asilo. C’e’, quindi, un lavoro sinergico tra le organizzazioni internazionali presenti nell’ampia struttura (#Unhcr ed #Easo) e le forze dell’ordine nazionali e internazionali (#Frontex). Di questo ne e’ soddisfatto il prefetto di Trapani Leopoldo Falco che dice: “Il sistema sta reggendo molto bene e c’e’ un buon lavoro di squadra”.

    http://www.tp24.it/resizer/resize.php?url=http://www.tp24.it/immagini_articoli/28-03-2016/1459175247-0-in-tre-mesi-fotosegnalati-all-hotspot-di-trapani-milo-2492-migrant
    http://www.tp24.it/2016/03/31/immigrazione/in-tre-mesi-fotosegnalati-all-hotspot-di-trapani-milo-2492-migranti/99110

  • #réfugiés : à #Lesbos, des solidarités contre la honte européenne
    https://www.mediapart.fr/journal/international/020316/refugies-lesbos-des-solidarites-contre-la-honte-europeenne

    Chaque jour, les gilets de sauvetage abandonnés sur les plages sont ramassés et déversés dans une décharge de l’île. © Amélie Poinssot Ils sont plus de 500 000 à être passés par cette île grecque en 2015, déjà plus de 70 000 depuis le début de l’année et de plus en plus de femmes et de jeunes enfants. Lesbos, en mer Égée, est le principal point d’arrivée des #migrants qui quittent la #turquie sur de pauvres embarcations. Sur l’île s’invente toutes toutes sortes de solidarités qui contrastent avec l’égoïsme européen.

    #International #asile #EASO #europe #Frontex #Grèce #mer_Egée #Prix_Nobel_de_la_Paix #relocalisation #union_européenne

  • Explanatory note on the “#Hotspot” approach

    The aim of the Hotspot approach is to provide a platform for the agencies to intervene, rapidly and in an integrated manner, in frontline Member States when there is a crisis due to specific and disproportionate migratory pressure at their external borders, consisting of mixed migratory flows and the Member State concerned might request support and assistance to better cope with that pressure. The support offered and the duration of assistance to the Member State concerned would depend on its needsand the development of the situation. This is intended to be a flexible tool that can be applied in a tailored manner.

    http://www.statewatch.org/news/2015/jul/eu-com-hotsposts.pdf
    #migration #asile #réfugiés #Politique_d'asile #UE #Europe #Frontex #EASO #Europol #Eurojust

    Est-ce la nouvelle configuration des #RABIT ?
    cc @reka

    • Avec les « hotspots », l’UE renforce sa politique de refoulement des boat people

      Depuis le printemps dernier, devant la médiatisation des milliers de naufrages de migrants en Méditerranée, l’Union européenne (UE) a tenté d’apporter des réponses qui masquent ses responsabilités en matière de non sauvetage en mer et de non respect du droit à demander l’asile. Elle use pour cela d’un jargon spécifique qui vient de s’enrichir d’un nouveau terme : les hotspots.La novlangue européenne, riche d’un lexique conçu pour suggérer que le « problème migratoire » est pris en compte dans le respect des « principes fondamentaux » dont l’UE se gargarise, s’est ainsi enrichie d’un nouveau terme : les hotspots. La signification de cette expression n’étant pas évidente, la Commission européenne en a même proposé une explication dans un des glossaires rédigés afin d’aider au décryptage de son jargon. De fait, ce lexique obscurcit plus qu’il n’éclaircit (« The proposal would allow establishing dedicated hotspot teams from all the Agencies concerned to provide comprehensive support in dealing with mixed migratory flows ») et tel est sans doute son véritable objectif. Comprendre ce que recouvre un tel mot-valise implique à la fois de rappeler le contexte de son apparition et de pointer quelles significations et quels usages ont conduit à ce nouveau signifié. Il s’agit surtout de replacer ce qui est présenté comme une innovation (pas seulement sémantique) dans la longue durée des politiques européennes de contrôle des frontières externes (dans le glossaire précédemment cité, l’expression hotspots est présentée dans la section « Save lives and secure the external borders »).

      http://blogs.mediapart.fr/blog/migreurop/210715/avec-les-hotspots-l-ue-renforce-sa-politique-de-refoulement-des-boat

    • International Meeting “Hotspots” and “processing centres” : The new forms of the European policy of externalisation, encampment and sorting of exiles, #Calais (12/12/2015)

      In spring 2015, after the arrival and shipwrecks of thousands peoples on its coasts, the European Union (EU) adopted the “hotspot approach” and “processing centres”,“new” tools and terminology supposedly able to address the poorly named “migration crisis”.

      http://www.migreurop.org/article2759.html?lang=en

      #Emmanuel_Blanchard #Philippe_Wannesson #Agadez #Amadou_M’Bow #Nazli_Bilgekay #Turquie #Efi_Latsoudi #Grèce #Sara_Prestianni #Italie

    • Migrants : Agadez sous pression des hotspots de Macron

      « #Hotspots », « #missions_de_protection », voilà deux mots avec lesquels il va falloir s’habituer à chaque fois qu’il sera question de parler des migrants notamment africains. Dans le dessein d’éviter que ceux-ci arrivent en Europe en prenant des risques inconsidérés dans le désert du Sahara, mais aussi en mer Méditerranée, le président français, Emmanuel Macron, a émis l’idée de recevoir les candidats à une migration vers l’Europe dans des centres installés en Afrique. Autrement dit, faire en sorte que la décision de recevoir un migrant au titre de l’asile soit prise dans ces centres appelés « hotspots » par les uns et « missions de protection » par les autres. Ville située au nord du Niger, aux portes du désert, Agadez est devenue au fil des ans un carrefour de migrants. Autant dire donc qu’elle est en première ligne dans le dispositif que la France veut mettre en place pour contenir les migrants en terre africaine. Il n’y a bien sûr pas qu’Agadez qui est concernée. Nombre d’autres villes au Tchad et ailleurs ne manqueront pas de servir de hotspots. Sur place, au-delà de la question de souveraineté qui est posée avec une sorte de police des frontières françaises et Européennes installées au cœur de pays africains, il y a la crainte des conséquences économiques, sociales et politiques qu’ils ne manqueront pas d’entraîner. Le président français s’est engagé à accueillir 3 000 personnes parmi celles identifiées comme pouvant bénéficier de l’asile d’ici 2019. À Agadez, on sait que beaucoup de migrants ne seront pas acceptés à ce titre. De quoi alimenter bien des interrogations sur ce qui va advenir demain.

      http://afrique.lepoint.fr/actualites/migrants-agadez-sous-pression-des-hotspots-de-macron-18-10-2017-2165

  • Asylum applications from the Western Balkans. Comparative analysis of trends, push-pull factors and responses

    EASO has today published a comparative analysis of trends, push-pull factors and responses to the flow of asylum-seekers from Western Balkan countries to EU Member States and Associated Countries, which has consistently represented the largest proportion of asylum-seekers dealt with in the EU in recent years. This analysis provides decision - and policy-makers - with tools for understanding and better managing situations in which they are confronted with large numbers of applications for international protection from Western Balkans citizens and other flows with similar characteristics. It also attempts to identify the measures which have proved to be the most effective in reducing the impact of some of the pull factors and in processing large numbers of applications for international protection where many may be unfounded, while ensuring full consideration of each individual claim and ensuring protection for those who need it.

    http://easo.europa.eu/wp-content/uploads/EASO-Report-Western-Balkans.pdf

    #asile #réfugié #migration #Balkans #route_migratoire #EASO