• iel

    Pronom personnel sujet de la troisième personne du singulier et du pluriel, employé pour évoquer une personne quel que soit son genre. L’usage du pronom iel dans la communication inclusive.

    https://dictionnaire.lerobert.com/definition/iel

    #écriture_inclusive #Petit_Robert #dictionnaire #dictionnaire_français #ielle #iel #iels

    Comme dit si bien @arno :

    Je crois que Darmanin s’apprête à signer l’arrêté de dissolution du Petit Robert.

    https://seenthis.net/messages/936827

  • L’écriture inclusive ou l’« aberration inclusive » ? Wittig et La pensée straight | Le Club de Mediapart
    https://blogs.mediapart.fr/maelissma/blog/141121/l-ecriture-inclusive-ou-l-aberration-inclusive-wittig-et-la-pensee-s

    La littérature est un espace où l’on peut envisager d’écrire autrement, de ne pas écrire comme le langage quotidien, avec l’usage commun. Wittig s’attèle à la tâche de détruire la catégorie de sexe puisqu’elle n’est que construction sociale et oppression pour les femmes. La langue s’avère être un outil pertinent dans la mesure où elle contribue à façonner le réel et peut ainsi permettre de le concevoir différemment, sans la catégorie de sexe. Néanmoins, la tendance actuelle tend à visibiliser les femmes dans l’immédiat, comme avec les noms de métiers par exemple. Comme Pascal Gygax l’avoue dans « L’écriture inclusive, pourquoi tant de haine ? », il y a intérêt à « genrer », à inclure, pour simplement que les petites filles se rendent compte que certains métiers sont aussi occupés par des femmes, en espérant que la prochaine étape sera de tout « dégenrer », de tout détruire.

    #genre #littérature #écriture_inclusive

  • Un asterisco sul genere

    È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola. Cercheremo in questo intervento di affrontare le diverse questioni.

    Risposta

    Premessa
    Le domande che ci sono state poste sono tante e toccano argomenti abbastanza diversi tra loro. Abbiamo preferito raccoglierle tutte insieme perché c’è un tema di fondo che le accomuna: la questione della distinzione di genere, anche al di là della tradizionale opposizione tra maschile e femminile. Anzitutto, due precisazioni: 1) tratteremo esclusivamente delle questioni poste dalle varie domande che ci sono pervenute, senza tener conto dei numerosissimi interventi sul tema, che ormai da vari mesi alimenta discussioni e polemiche anche molto accese sulla stampa e soprattutto in rete; 2) la nostra risposta investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano (non potrebbe essere che così, del resto, visto che le domande sono rivolte all’Accademia della Crusca, ma ci pare opportuno esplicitarlo). Ci sembra doveroso premettere ancora una cosa: la maggior parte di coloro che ci hanno scritto – anche chi esprime la propria contrarietà all’uso di asterischi o di altri segni estranei alla tradizionale ortografia italiana – si mostra non solo contraria al sessismo linguistico e rispettosa nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche sensibile alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante, che va messo in rilievo.

    Genere naturale e genere grammaticale
    Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. Lo rilevavano nel 1984, a proposito del francese, Georges Dumézil et Claude Lévi-Strauss, incaricati dall’Académie Française di predisporre un testo su “La féminisation des noms de métiers, fonctions, grades ou titres” (‘la femminilizzazione dei nomi di mestieri, funzioni, gradi o titoli’). Non entriamo qui nella tematica della distinzione tra sesso biologico e identità di genere, su cui torneremo, almeno marginalmente, più oltre; ci limitiamo a ricordare che negli studi di psicologia e di sociologia il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” (questa la definizione del GRADIT); tale accezione del termine, relativamente recente, è calcata su uno dei significati del corrispondente inglese gender, quello che indica appunto l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico (gli studi di genere o gender studies sono nati negli Stati Uniti negli anni Settanta, su impulso dei movimenti femministi).

    Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno; può inoltre prevedere, nei nomi, una differenziazione in classi che in certi casi non sfrutta e in altri va ben oltre la distinzione tra maschile e femminile propria dell’italiano (dove riguarda anche articoli, aggettivi, pronomi e participi passati) perché, oltre al neutro (citato in molte domande pervenuteci, evidentemente sulla base della conoscenza del latino), esistono, in altre lingue, vari altri generi grammaticali, determinati da criteri ora formali ora semantici; infine, come avviene in inglese, può limitarsi ai pronomi, senza comportare quell’alto grado di accordo grammaticale che l’italiano prevede.

    Neppure in italiano si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne. Arlecchino è una maschera, come Colombina (anche se Carlo Goldoni nelle Donne gelose gli fa usare il maschile màscaro e nei Rusteghi le donne in scena parlano di màscara omo per riferirsi al conte Riccardo e si rivolgono con siora màscara dona a Filippetto, entrato a casa di Lunardo in abiti femminili), mentre Mirandolina è un personaggio, come il Cavaliere di Ripafratta, che di lei si innamora. Vero è che nel parlato spostamenti di genere nell’àmbito dei nomi in rapporto al sesso del referente ci sono stati: da modello si è avuto modella (cfr. Anna M. Thornton, La datazione di modella, in “Lingua nostra”, LXXVI, 2015, pp. 25-27); si parla di un tipo ‘un tale’ ma anche di una tipa (Miriam Voghera, Da nome tassonomico a segnale discorsivo: una mappa delle costruzioni di tipo in italiano contemporaneo, in “Studi di Grammatica Italiana”, XXIII, 2014, pp. 197-221); accanto a membro si sta diffondendo membra (Anna M. Thornton, risposta nr. 7, in “La Crusca per voi”, 49, 2014, pp. 14-15); dall’altra parte, dal femminile figura deriva il maschile figuro (ma con una connotazione negativa). Abbiamo poi i cosiddetti nomi “di genere comune”, che non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantante, preside, custode, consorte, coniuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi). Passando al mondo animale, distinguiamo, è vero, il montone o ariete e la pecora (ma il plurale le pecore si riferisce spesso al gregge e comprende quindi anche i montoni), il gatto e la gatta, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, ma nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc., nomi che la tradizione grammaticale indica come “epiceni”; lasciamo da parte l’esistenza di formazioni occasionali come il tartarugo e il ricorso non alla flessione, ma alla tecnica analitica, come in la tartaruga maschio, che è sicuramente possibile, ma marginale all’interno del sistema). Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sedia, siepe, crisi e radio e il maschile di armadio, fiore, problema e brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno.

    Il neutro
    Chi, tra coloro che ci hanno scritto, propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani (accade con alcuni diminutivi di nomi propri) e neppure agli dei: venus, -eris ‘bellezza, fascino’ (da cui venustas), che era neutro come genus, -eris, diventò femminile come nome proprio di Venere, la dea della bellezza. D’altra parte, per venire all’attualità, anche in inglese il rifiuto dei pronomi he (maschile) e she (femminile) da parte delle persone non binarie non ha comportato l’adozione del pronome neutro it, presente in quella lingua ma evidentemente inutilizzabile con riferimento ad esseri umani, bensì l’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (e delle forme them, their, theirs e themself/themselves), come pronome singolare non marcato. Anche l’introduzione in svedese nel 2012, accanto al pronome maschile han e al femminile hon, del pronome hen, usato per esseri umani in cui il sesso non è definito o non è rilevante, si inserisce senza difficoltà nel sistema di quella lingua, in cui un genere “comune” (o “utro”), che non distingue tra maschile e femminile, si contrappone al genere neutro e l’opposizione tra maschile e femminile si ha solo nei pronomi personali di terza persona singolare.

    Il maschile plurale come genere grammaticale non marcato
    Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi” (cfr. l’intervento di Anna M. Thornton sul Magazine Treccani). Se in passato poteva capitare (oggi mi risulta che avvenga più di rado) che a un alunno indisciplinato si richiedesse di tornare a scuola il giorno dopo “accompagnato da uno dei genitori”, poteva essere sia il papà sia la mamma a farlo (e lo stesso valeva nel caso della dicitura al singolare, “da un genitore”, sebbene questo termine abbia anche il femminile genitrice, di uso peraltro assai più raro rispetto al maschile).

    Lingue naturali, processi di standardizzazione e dirigismo linguistico
    C’è poi un’altra questione di carattere generale che va tenuta presente: ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: è vero che molte lingue hanno subìto un processo di standardizzazione per cui, tra forme coesistenti in un certo arco temporale, alcune sono state selezionate, considerate corrette e destinate allo scritto e all’uso formale e altre censurate e giudicate erronee, o ammesse solo nel parlato o in registri informali e colloquiali; ma in questo processo la scelta (che può anche cambiare nel corso del tempo) avviene sempre nell’àmbito delle possibilità offerte dal sistema. Soltanto nel caso della scrittura (che infatti non si apprende naturalmente, ma va insegnata) è possibile imporre norme ortografiche che si discostino dalla pronuncia reale: per questo la stampa e la scuola hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nella costituzione della norma standard scritta. Non c’è dunque da meravigliarsi se alcune proposte di soluzione del problema della distinzione di genere abbiano riguardato, almeno in prima istanza, la grafia, più suscettibile di cambiamenti. Ma ormai da tempo l’ortografia italiana è da considerarsi stabilizzata, il rapporto tra grafia e pronuncia non presenta particolari difficoltà (basta prendere a confronto l’inglese e il francese) e i dubbi si concentrano quasi esclusivamente sull’uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi, ecc.). Questo non esclude che, almeno in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato. In ogni caso, la storia ci ha offerto non di rado, anche di recente (in altri Paesi), esempi di riforme ortografiche dovute a interventi dell’autorità pubblica. Ogni tanto, specie nei regimi totalitari, la politica è intervenuta anche ad altri livelli della lingua, ma quasi mai è andata a violare il sistema. E poi il “dirigismo linguistico” (di cui, secondo alcuni, anche il “politicamente corretto” raccomandato alla pubblica amministrazione costituirebbe una manifestazione) assai di rado ha avuto effetti duraturi. Al riguardo possiamo citare un caso che entra, se pure lateralmente, proprio nella questione che stiamo trattando: quello degli allocutivi.

    Gli allocutivi (tu, voi, lei) e la tematica del genere
    Il latino conosceva un unico pronome per rivolgersi a un singolo destinatario, maschio o femmina che fosse: tu (al nominativo e al vocativo; tui, al genitivo; tibi, al dativo; te, all’accusativo e ablativo) e l’uso si è conservato, praticamente senza soluzione di continuità, a Roma, nel Lazio e lungo la corrispondente dorsale appenninica. In età imperiale cominciò a diffondersi il vos come forma di rispetto, da cui il voi dell’italiano antico, vivo tuttora in area meridionale. In età rinascimentale, sull’onda della diffusione (per influsso dello spagnolo) di titoli come vostra eccellenza, vostra signoria, vostra maestà, ci fu un altro cambiamento e si iniziò a usare, come forma di cortesia, anche il lei (ella, per la verità, almeno all’inizio, come soggetto e nell’uso allocutivo), che prima affiancò (a un livello di maggiore formalità) il voi e poi, in età contemporanea, ha finito col sostituirlo. Il fascismo cercò invano di bandire l’uso del lei (considerato uno “stranierismo” proprio della “borghesia”) e di imporre l’“autoctono” voi. Col crollo del regime, il voi è restato, come si è detto, solo nell’uso meridionale (dove il lei aveva avuto minore diffusione) ed è piuttosto l’espansione del tu generalizzato a contrastare il lei di cortesia, che peraltro resiste benissimo in situazioni anche solo mediamente formali.

    Proprio il lei di cortesia ci documenta un’altra mancata corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. Lei è un pronome femminile, ma lo si dà anche a uomini (lei è un po’ pigro, signore!. come lei è un po’ pigra, signora!); non solo, ma quando si usano le corrispondenti forme atone la e le l’accordo al femminile investe spesso anche il participio o l’aggettivo. Se è normale, rivolgendosi a un docente di sesso maschile, dire professore, oggi vedo che è molto occupato, si dice però comunemente professore, l’ho vista ieri (e non l’ho visto ieri) entrare in biblioteca. Insomma, anche l’allocutivo di cortesia dello standard è un esempio di come il maschile e il femminile grammaticali non corrispondano sempre, neppure in italiano, ai generi naturali.

    La lingua tra norma, sistema e scelte individuali
    Chi si rivolge all’Accademia della Crusca (la quale peraltro non ha alcun potere di indirizzo politico, diversamente dall’Académie Française e dalla Real Academia Española, che hanno un ruolo ben diverso sul piano istituzionale) pensa alla lingua considerando la “norma” in senso prescrittivo (in molti quesiti ricorrono infatti parole come corretto e correttezza, propri della grammatica normativa e scolastica) oppure facendo riferimento agli usi istituzionali dell’italiano, non all’uso individuale di singoli o di gruppi ristretti. Ma neppure in questo secondo caso le scelte sono completamente libere, perché chi parla o scrive deve comunque far riferimento a un sistema di regole condiviso, in modo da farsi capire e accettare da chi ascolta o legge. Si può segnalare, per dimostrare la libertà che è concessa alle scelte individuali (specie nel caso della lingua letteraria), un passo di Luigi Pirandello che gioca sul genere grammaticale di una coppia di parole come moglie e marito (e non importa ora il suo possibile inserimento in una tradizione letteraria misogina ben nota). Il brano è citato in un importante studio della compianta accademica Maria Luisa Altieri Biagi (La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 173), una dei “maestri” della linguistica italiana (usiamo intenzionalmente il maschile plurale, che in questi casi, a nostro parere, è quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile):

    Il protagonista di Acqua amara ha le sue idee, in fatto di morfologia. Se toccasse a lui modificarla, la adeguerebbe a una sua sofferta esperienza di vita:

    Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile? Nossignore. La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte [...] Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatica ragionata, come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito. (Nov., I, p. 274).

    La mozione
    La norma dell’italiano contempla un’ampia gamma di possibilità nel caso della mozione, cioè del cambiamento di genere grammaticale di un nome in rapporto al sesso. È un tema che sulle pagine del sito della nostra Consulenza è stato spesso affrontato perché moltissime sono le domande che sono arrivate e che continuano ad arrivare a proposito dei femminili di professioni e cariche espresse al maschile dato che in passato erano riservate solo a uomini. La scelta per il femminile, che l’Accademia ha più volte caldeggiato, non viene sempre accolta dalle stesse donne, tra cui non mancano quelle che preferiscono definirsi architetto, avvocato, sindaco, ministro, assessore, professore ordinario, il e non la presidente, ecc. D’altra parte, se storicamente è indubitabile che molti nomi femminili di questo tipo siano derivati da preesistenti nomi maschili (ciò vale pure per signora rispetto a signore), abbiamo anche casi di nomi maschili come divo nel mondo dello spettacolo, prostituto, casalingo, che sono documentati dopo i corrispondenti femminili, di cui vanno considerati derivati (per un’esemplare trattazione del fenomeno rinvio ad Anna M. Thornton, Mozione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 218-227).

    Transessuale, transgenere e transizionante
    L’unico problema relativo alla scelta del genere di un nome che ci è stato sottoposto è quello di transessuale per indicare “chi ha assunto mediante interventi chirurgici i caratteri somatici del sesso opposto” (anche questa definizione è del GRADIT). Qui, in effetti, si assiste tuttora a un’oscillazione tra maschile e femminile (a partire dall’articolo che precede il nome). A nostro parere, sarebbe corretta (e rispettosa) una scelta conforme al genere sessuale “d’arrivo” e dunque una transessuale se si tratta di un maschio diventato femmina, un transessuale, se di una femmina diventata maschio, posto che proprio si debba sottolineare l’avvenuta “trasformazione”. Qualcuno ci ha fatto notare che sarebbe opportuno sostituire transessuale con transgenere, che non è propriamente l’equivalente dell’inglese transgender, perché ha implicazioni diverse sul piano medico e giuridico. È senz’altro così e pensiamo anche noi che questo termine (da usare tanto al maschile quanto al femminile con le avvertenze appena indicate per transessuale) sia più appropriato, ma sta di fatto che al momento risulta meno diffuso: stenta a trovare accoglienza anche nella lessicografia e comunque, nelle poche occasioni in cui è registrato, viene spiegato come un’italianizzazione della voce inglese, che, come capita spesso, viene ad esso preferita ed è infatti presente in molti più dizionari. Alcuni di essi registrano anche cisgender, nel senso di ‘individuo nel quale sesso biologico e identità di genere coincidono’, il cui corrispondente italiano, cisgenere, ha invece, al momento, soltanto attestazioni in rete.

    Ci è inoltre pervenuta una richiesta di sostituire gli aggettivi omosessuale, eterosessuale, bisessuale, pansessuale e transessuale con omoaffettivo, eteroaffettivo, biaffettivo, panaffettivo e transizionante e al riguardo, dopo aver fatto rilevare al richiedente che nessuna parola entra nei vocabolari per decisione di una istituzione, seppur prestigiosa come l’Accademia della Crusca, ma deve prima entrare nell’uso della comunità dei parlanti (non di un singolo parlante) e mettervi radici, segnaliamo che omoaffettivo è già presente nella lessicografia italiana (il GRADIT lo registra e lo data al 2004), come pure il verbo transizionare (documentato dal 1999), nel senso di «compiere un percorso di cambiamento del sesso attraverso terapie ormonali, forme di supporto psicologico, interventi di chirurgia estetica e di riassegnazione chirurgica del sesso» (ancora GRADIT).

    Quale pronome per chi si considera gender fluid?
    Tornando al genere grammaticale, diverso è il caso di chi si considera gender fluid, cioè, per usare la definizione dello Zingarelli 2022 (che include questa locuzione aggettivale s.v. gender, molto ampliata rispetto allo Zingarelli 2021), “di persona che rifiuta di identificarsi stabilmente con il genere maschile e femminile (comp. con fluid ‘mutevole’)”. Il problema che ci è stato sottoposto per queste persone riguarda prevalentemente il genere del pronome da utilizzare per riferirsi ad esse.

    Ebbene, di fronte a domande come la seguente: “Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?”, la nostra risposta è questa: l’italiano – anche se non ha un pronome “neutro” e non consente neppure l’uso di loro in corrispondenza di they/them dell’inglese (lingua in cui l’accordo ha un peso molto meno rilevante rispetto all’italiano e dove comunque l’uso di they al singolare per persone di cui si ignora il sesso costituiva una possibilità già prevista dal sistema, in quanto documentata da secoli) – offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro (come ben sanno coloro che hanno affrontato la tematica del sessismo linguistico) è certamente onerosa. In ogni caso, tanto il pronome io quanto l’allocutivo tu (e, come si è visto sopra, anche gli allocutivi di cortesia lei e voi) non specificano nessun genere. Analogamente, i pronomi di terza persona lui e lei in funzione di soggetto possono essere omessi (in italiano non è obbligatoria la loro espressione, a differenza dell’inglese e del francese) oppure sostituiti da nomi e cognomi, tanto più che oggi sono in uso accorciamenti ipocoristici ambigeneri come Fede (Federico o Federica), Vale (Valerio o Valeria), ecc., e che (anche sul modello dell’inglese e proprio in un’ottica non sessista) si tende a non premettere l’articolo femminile a cognomi che indicano donne (Bonino e non la Bonino). Si potrebbe aggiungere che il clitico gli, maschile singolare nello standard, nel parlato non formale si usa anche al posto del femminile le e che l’opposizione è neutralizzata per combinazioni di clitici come glielo, gliela, gliene; anche l’elisione, nel parlato più frequente che non nello scritto, ci consente spesso di eliminare la distinzione tra lo e la. Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie. Certamente l’accordo del participio passato costituisce un problema; ma non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla.

    Ancora sul maschile plurale come genere grammaticale non marcato
    Diverso è il caso dei plurali: qui, come, si è detto all’inizio, il maschile non marcato, proprio della grammatica italiana, potrebbe risolvere tutti i problemi, comprendendo anche le persone non binarie. A nostro parere, mentre è giusto che, per esempio, nei bandi di concorso, non compaia, al singolare, “il candidato” ma si scriva “il candidato o la candidata”, oppure “la candidata e il candidato” (per abbreviare si ricorre spesso anche alla barra, che tuttavia non raccomanderemmo: “il/la candidato/a”), il plurale “i candidati” è accettabile perché, sul piano della langue, non esclude affatto le donne. Niente tuttavia impedisce di optare anche al plurale per “i candidati e le candidate” o viceversa (oppure, anche in questo caso, “i/le candidati/e”); vero è che da queste formulazioni potrebbero sentirsi escluse le persone non binarie. Aggiungiamo, rispondendo così ad alcuni specifici quesiti, che la scelta del plurale maschile nello standard non dipende dalla numerosità dei maschi rispetto alle femmine all’interno di un gruppo: basta una sola presenza maschile a determinarlo, ma non si tratterebbe di una scelta sessista (come viene invece considerata da molte donne), bensì dell’opzione per una forma “non marcata” sul piano del genere grammaticale. Capita peraltro abbastanza spesso, come ha notato qualcuno, che “nel caso di infermiere e maestre d’asilo” (o di altri gruppi professionali in cui la presenza femminile è preponderante) “si dirà ‘salve a tutte!’ e i pochi maschi se ne fa[ra]nno una ragione”. E questo, a nostro parere, “ci sta”, anche se, di fatto, spesso i maschi presenti protestano. Da richiamare è anche il fatto che, soprattutto nel parlato, l’accordo del participio o dell’aggettivo può riferirsi al genere grammaticale del nome ad essi più vicino: quindi “le mamme e i papà sono pregati di aspettare i figli fuori” (e non “sono pregate”), ma “i papà e le mamme sono pregati”, ma anche “sono pregate”.

    La presenza del femminile plurale
    Affiancare al maschile il femminile è senz’altro lecito e anzi, in certi contesti, sembra l’opzione preferibile (per esempio quando si indicano categorie professionali in cui la mozione al femminile ha stentato a imporsi). Nelle forme allocutive, in particolare, rappresenta indubbiamente, specie se a parlare o a scrivere è un maschio, un segnale di attenzione per le donne: bene dunque, per formule come care amiche e cari amici, cari colleghi e care colleghe, cari soci e care socie, carissime e carissimi, ecc. Anche nella tradizione dello spettacolo, del resto, chi presenta si rivolge al pubblico con signore e signori e i politici, specie in vista delle elezioni, parlano di elettori ed elettrici, cittadini e cittadine, ecc. Si ha poi il caso di nomi “esclusivamente” maschili come fratelli, a cui – visto che l’italiano non dispone di un termine corrispondente all’inglese sibling – è sempre opportuno affiancare sorelle (lo ha fatto del resto di recente anche la Chiesa, nella liturgia). Lasciamo da parte, per non dilungarci ulteriormente, il caso di uomini, già ampiamente trattato negli studi, a cui, in una prospettiva non sessista, si preferisce persone (altro nome femminile che può indicare anche un maschio pure al singolare).

    Dall’asterisco...
    L’accostamento del femminile al maschile finisce spesso con l’allungare e appesantire il testo. Forse anche per evitare questo, ormai da vari anni, soprattutto da quando si è diffusa la scrittura al computer, ha gradualmente preso piede, in particolari àmbiti (tra cui la posta elettronica), l’uso dell’asterisco, che è andato progressivamente a sostituire la barra (già citata per candidati/e), il cui uso sembra ormai confinato ai testi burocratici.

    L’asterisco (dal gr. asterískos ‘stelletta’, dim. di astḗr ‘stella’) – che nel titolo di questa risposta abbiamo usato invece nel senso di ‘nota’, ‘stelloncino’, significato che è, o era, diffuso nel linguaggio giornalistico – è un «segno tipografico a forma di stelletta a cinque o più punte» (Zingarelli 2022) usato, sempre in esponente (“apice”, nella terminologia della videoscrittura), con varie funzioni. Anzitutto, serve a mettere in evidenza qualcosa, per esempio un nome o un termine in un elenco, contrassegnandolo così rispetto agli altri. L’asterisco può anche segnalare una nota (soprattutto se isolata) o ancora (per lo più ripetuto due o tre volte) indicare un’omissione volontaria da parte dell’autore, specialmente di un nome proprio: si incontra non di rado, per esempio, nei Promessi Sposi perché Alessandro Manzoni usa tre asterischi per non esplicitare il nome del paese dove vivono Renzo e Lucia, il casato dell’Innominato, ecc. Un uso per certi versi analogo si ha nei fumetti e in rete, dove gli asterischi o altri segni (chiocciola, cancelletto, punto) sostituiscono le lettere interne delle parolacce, che vengono così censurate. In linguistica, infine, l’asterisco contrassegna forme non attestate o agrammaticali.

    Nell’àmbito di cui ci stiamo occupando l’asterisco, in fine di parola, sostituisce spesso la terminazione di nomi e aggettivi per “neutralizzare” (o meglio “opacizzare”; in questo forse si può intravedere un sia pur tenue legame con la penultima funzione prima indicata) il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* collegh* e, particolarmente frequente, car* tutt*, probabile calco su dear all (che invece non ha bisogno di asterischi perché l’inglese non ha genere grammaticale né accordo su articoli e aggettivi). L’asterisco negli ultimi anni ha conquistato anche i sostenitori del cosiddetto linguaggio gender neutral e non c’è dubbio che anche sotto questo aspetto possa avere una sua funzionalità. Tuttavia coloro che ci hanno scritto, pur se disponibili alle innovazioni, si dichiarano per lo più ostili all’asterisco: c’è chi parla di “insulto” alla nostra lingua, chi di «storpiatura», chi lo ritiene “sgradevole”, chi addirittura “un’opzione terribile”.

    Di certo l’uso dell’asterisco è legato all’informatica, ma non ne rispetta i principi. È interessante, al riguardo, leggere quanto afferma un nostro lettore, docente appunto di informatica, che tratta della forma asteriscata (di cui, a suo parere si abusa), che è stata «presumibilmente mutuata dalle convenzioni dei linguaggi di comando dei sistemi operativi (Unix, ma anche DOS/Windows) per i quali la notazione indica una sequenza di zero o più caratteri qualunque [...]. Pertanto, nella sua semantica originaria “car tutt*” ha la valenza (anche) di “carini tuttologi” o di “carramba tuttora” oltre ai significati ricercati dai “gender-neutral” che, tuttavia, costituiscono una infima parte di quelli possibili».

    In effetti è così: in informatica l’asterisco segnala una qualunque sequenza di caratteri, mentre al posto di un solo carattere si usa il punto interrogativo, che (a parte gli altri problemi che comporterebbe) potrebbe andare bene per tutt? ma non per amic?, dove invece funzionerebbe meglio l’asterisco amic* perché nel femminile la -e è graficamente preceduta dall’h. Ma nessuno dei due simboli potrebbe essere usato in casi (che ci sono stati segnalati) come sostenitor* (o sostenitor?), che non include il femminile sostenitrici accanto al maschile sostenitori. E non è necessario né opportuno ricorrere all’asterisco (o al punto interrogativo) neppure per i plurali di nomi e aggettivi in cui la terminazione in -i vale per entrambi i generi (nomi citati sopra come cantanti, aggettivi plurali come forti, grandi, importanti, ecc.).

    Comunque sia, pur con tutti questi distinguo, se consideriamo che l’uso grafico dell’asterisco si concentra in comunicazioni scritte o trasmesse che sono destinate unicamente alla lettura silenziosa e che hanno carattere privato, professionale o sindacale all’interno di gruppi omogenei (spesso anche sul piano ideologico), in tali àmbiti (in cui sono presenti abbreviazioni convenzionali come sg., pagg., f.to, estranee all’uso comune) può essere considerato una semplice alternativa alla sbarretta sopra ricordata, rispetto alla quale presenterebbe il vantaggio di includere anche le persone non binarie. L’asterisco non è invece utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono una lettura ad alta voce.

    Resta, infatti, il problema dell’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio. Teniamo anche presente che nell’italiano tradizionale non esistono parole terminanti in -u atona (a parte cognomi sardi o friulani, come Lussu e Frau, il nome proprio Turiddu, diminutivo siciliano di Turi, ipocoristico di Salvatore, entrato anche in italiano grazie alla popolarità della Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e comunque ormai desueto, onomatopee come bau, sigle come ONU e IMU, forestierismi entrati di recente, come tofu o sudoku).

    ... allo #schwa
    In alternativa all’asterisco, specie con riferimento alle persone non binarie, è stato recentemente proposto di adottare lo schwa (o scevà), cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (#IPA) che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale (il termine, grammaticalmente maschile, è di origine ebraica). Questa proposta, che sarebbe da preferire all’asterisco perché offrirebbe anche una soluzione sul piano della lingua parlata, ha già trovato vari sostenitori (sembra che l’abbiano adottata, almeno in parte, una casa editrice e un comune dell’Emilia-Romagna). A nostro parere, invece, si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le ulteriori difficoltà di lettura che creerebbe nei casi di dislessia.

    Intanto, sul piano grafico va detto che mentre l’asterisco ha una pur limitata tradizione all’interno della scrittura, il segno per rappresentare lo schwa (la e rovesciata: ə, in corsivo ə, forse non di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano) è proprio, come si è detto, dell’IPA, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico. Non a caso, a parte linguisti e dialettologi, coloro che scrivono in uno dei dialetti italiani che hanno lo schwa nell’inventario dei loro foni lo rendono spesso con e (talvolta con ë) o, impropriamente, con l’apostrofo. Se guardiamo al napoletano, che nella sua lunga tradizione di scrittura per le vocali atone finali si è allineato all’italiano, vediamo che oggi nelle scritte murali in dialetto della città la vocale atona finale viene sistematicamente omessa.

    L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə, di cui pure ci è stato segnalato l’uso anche al singolare. C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta. C’è chi usa lo stesso segno, ingrandito, ma la differenza tra maiuscole e minuscole non è di corpo, ma di carattere e quindi accostare una E maiuscola all’inizio o nel corpo di una parola tutta scritta in maiuscolo a una ə alla fine della stessa non mi pare produca un bell’effetto. In alternativa, si potrebbe procedere per analogia e “rovesciare” la E, ma si tratterebbe di un ulteriore artificio, privo di riscontri – se non nella logica matematica, in cui il segno Ǝ significa ‘esiste’ (cosa che peraltro creerebbe, come nel caso dell’asterisco, un’altra “collisione” sul piano del significato) – e, presumibilmente, tutt’altro che chiaro per i lettori.

    Quanto al parlato, non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo o per accordare la preferenza a tuttə rispetto al tuttu che è stato sopra citato. Anche il riferimento ai sistemi dialettali ci sembra fallace perché nei dialetti spesso la presenza dello schwa limita, ma non esclude affatto la distinzione di genere grammaticale, che viene affidata alla vocale tonica, come risulta da coppie come, in napoletano, buόnə (maschile: ‘buono’ ma anche ‘buoni’) e bònə (femminile: ‘buona’ o ‘buone’), russə (‘rosso’ o ‘rossi’) e rόssə (‘rossa’ o ‘rosse’). Lo schwa opacizza invece spesso la differenza di numero, tanto che tra chi ne sostiene l’uso c’è stato chi ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere a un altro simbolo IPA, ɜ, come “schwa plurale” (altra scelta a nostro avviso discutibile, anche per la possibile confusione con la cifra 3).

    Conclusioni
    È giunto il momento di chiudere il discorso. È verissimo, come diceva Nanni Moretti in un suo film, che “le parole sono importanti” (ma lo sono anche la grafia, la fonetica, la morfologia, la sintassi) e denunciano spesso atteggiamenti sessisti o discriminatori, sia sul piano storico (per come le lingue si sono andate costituendo), sia sul piano individuale. Come abbiamo detto all’inizio, la quantità di richieste che abbiamo avuto, che ci hanno espresso dubbi e incertezze a proposito del genere e della distinzione di genere, ci rasserena, perché, soprattutto per come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti.

    https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-asterisco-sul-genere/4018
    #écriture_inclusive #Italie #italien #astérisque #langue #langue_italienne #accademia_della_crusca #schwa

  • Enquête sur l’#accessibilité des #écritures_inclusives

    Les résultats de l’enquête que j’ai mené sur l’accessibilité des écritures inclusives pour les personnes dyslexiques sont désormais disponibles. Ils sont présentés, ainsi que l’état de l’art et la méthodologie utilisée, dans un mémoire accessible sur cette page web. Ce mémoire marque l’aboutissement de mon stage et initie une suite de travaux qu’il semble nécessaire.

    Le mémoire se base sur une enquête en ligne testant la compréhension de plusieurs formes d’écriture genre-inclusives : #double_flexion totale, double flexion partielle (point médian), #néologie, #écriture_épicène et #genre_neutre (par Alpheratz). Le texte testé est une ré-écriture du conte « Les habits de l’Empereur » (celui où « le roi est nu »). Les résultats sont très différenciés - selon l’adhésion des répondant-e-s aux principe de l’écriture inclusive par exemple. Voici un extrait de la conclusion :

    « Il existe des grandes tendances de l’impact du contexte socio-politique sur l’accessibilité des écritures inclusives qui interfère avec la complexité des contextes personnels. Cela remet en question la pertinence de l’établissement d’une classification d’accessibilité entre les différentes formes d’écriture inclusive et montre le caractère contingent de l’accessibilité aux écritures inclusives. De plus, il est important de rappeler que cette étude montre aussi que la langue écrite française reste fondamentalement inaccessible aux personnes dyslexiques. »

    Pour télécharger le mémoire :
    https://inclusiviteetdyslexie.files.wordpress.com/2021/09/memoire-v1-4.pdf

    https://inclusiviteetdyslexie.wordpress.com
    #écriture_inclusive #enquête #dyslexie #langue_française #français

  • #CNews, première chaîne d’#intox de France… avec le soutien de l’Élysée

    La semaine dernière, CNews a pour la première fois dépassé #BFMTV en audience. Récompense suprême pour la chaîne qui propage des #fake_news sur des #controverses montées de toutes pièces : documentaire censuré à Orléans, #écriture_inclusive imposée à l’école, #Blanche-Neige victime de la “#cancel_culture”… Plus courageux encore, #Pascal_Praud désigne à la vindicte de la #fachosphère des responsables de services publics. Une action civique qui vaut à l’animateur d’être chouchouté par l’Élysée.

    « Merci à vous tous, chers téléspectateurs, salue #Sonia_Mabrouk mardi dernier. Vous avez placé hier CNews leader des chaînes d’information de France. » Devant BFMTV, et sans que cette dernière perde de part d’audience. La chaîne de #Bolloré a donc su attirer un nouveau public. « C’est une confiance qui nous honore, merci encore. » Une confiance de laquelle Sonia Mabrouk sait se rendre digne. « La guerre contre l’écriture inclusive menée par #Jean-Michel_Blanquer qui veut l’interdire à l’école, annonce-t-elle au sommaire de Midi news. L’écriture inclusive, une attaque contre notre langue et derrière, une idéologie. » Rappelons que Sonia Mabrouk, elle, est dépourvue d’idéologie. « Et puis nous parlerons de tags anti-police et donc anti-France d’une violence inouïe. » Ils ont causé des dizaines de blessés parmi les forces de l’ordre.

    « J’ai remercié les téléspectateurs qui ont placé hier CNews comme la chaîne leader des chaînes d’information, rappelle Sonia Mabrouk après le journal. Je remercie également les invités. De tous bords, c’est très important, chaque jour il y a la diversité des sujets et surtout des tendances. » De la droite extrême à l’extrême droite en passant par la gauche d’extrême droite, comme nous allons le vérifier. « Le ministre de l’Éducation a dit : Ça suffit ! Stop l’écriture inclusive à l’école !, relaie la présentatrice. — Il faut savoir l’enfer qu’on vit dans beaucoup de collectivités, gémit #Rudolph_Granier conseiller LR de Paris. À Grenoble, ils ont décidé de la rendre obligatoire dans les délibérations, c’est déjà le cas à la mairie de Paris. » Il faudrait mettre en place une cellule de soutien psychologique pour Rudolph Granier et ses collègues. « Moi, je pense aux personnes qui sont dyslexiques, qui sont aveugles. » Les aveugles ? Ils n’ont pas grand-chose à voir dans cette histoire.

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    « Ça concerne les universités, Sciences Po, l’EHESS, Normale Sup, énumère Élisabeth Lévy. La triade des sciences humaines s’adonne à ça. Et si des profs ne mettent pas leurs demandes de financement en écriture inclusive, ils ont toutes les chances de se faire retoquer. » Information inventée de source sûre. « On est encore l’otage de groupuscules. » Terroristes. Le seul invité de tous bords de gauche prend la parole. « Autant je suis pour qu’on dise “madame la ministre”, revendique #Philippe_Doucet, du PS, mais je suis contre cette histoire d’écriture inclusive. » Ouf, les « socialistes » ne cèdent pas à la pression des preneurs d’otages. « Mais pourquoi le ministre de l’Éducation fait cela ? » s’auto-interroge Sonia Mabrouk pour mieux s’auto-répondre : « L’écriture inclusive et la théorie du #genre ont pris le dessus par exemple au #CNRS, c’est ce que vise le ministre. » Philippe Doucet fait assaut de bonne volonté : « Je suis contre la #culture_woke et pour la République. » Rappelons que l’écriture inclusive menace la République, ses partisans étant notoirement friands de dictature militaire.

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    Sonia Mabrouk psalmodie : « Écriture inclusive, #femellisme, disent certains, mais aussi discours décoloniaux… » Sans oublier l’#islamo-gauchisme racialiste. « Il y a des militants, il faut les appeler ainsi, qui pensent tordre le cou au réel et changer la cité en corrigeant les #mots. » Rappelons que Sonia Mabrouk, elle, n’est pas militante. « Ces révolutionnaires de salon me font sourire, commente #Ludovic_Mendes, de LREM. Quand on dit à un gamin de CP qui a des difficultés parce qu’il est en apprentissage de la lecture qu’on va lui rajouter l’écriture inclusive… » Information fantasmée de source sûre : partout en France, les élèves de CP sont contraints par les professeurs des écoles d’apprendre l’écriture inclusive.

    Sonia Mabrouk résume : « En gros, vous êtes tous d’accord. » Magie de la « diversité des tendances » des « invités de tous bords ». « L’écriture inclusive, vous dites : absurdité et non-sens linguistique. Mais je voudrais vous pousser plus loin. » Un peu plus à droite, si c’est possible. Élisabeth Lévy ne se fait pas prier. « La question, c’est : de quelle minorité sommes-nous otages ? Y compris chez les socialistes, chez les Verts, dans toute l’extrême gauche 3décolonialo-indigéno-je-ne-sais-quoi. On est #otages de gens qui représentent des #groupuscules. — Oui mais parfois les #minorités font l’histoire, alerte Sonia Mabrouk. Quand vous êtes à des postes très élevés, ça peut ruisseler. — Ça peut infuser », confirme Philippe Doucet. C’est d’autant plus dangereux que, selon Élisabeth Lévy, « le combat de la place des femmes dans la société, il est gagné ». L’emploi de l’écriture inclusive conduirait tout droit à une #dictature_féminazie.

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    « Avant de parler de beaucoup d’informations sur la violence qui règne dans nos villes, annonce Pascal Praud la veille au soir, l’écriture inclusive. Vous savez qu’on essaye de mener modestement ce débat. » Cette #croisade. « Dans une interview au JDD, Jean-Michel Blanquer a rappelé l’existence de la circulaire d’Édouard Philippe qui en 2017 interdisait l’usage administratif de l’écriture dite “#épicène”. » Épicène, vraiment ? L’adjectif désigne un mot qui s’écrit au masculin comme au féminin. Blanquer va donc interdire l’emploi du mot « élève », un comble pour un ministre de l’Éducation… Mais puisque c’est une information vérifiée par Pascal Praud… « Et il demande que l’écriture inclusive ne soit pas utilisée à l’école. J’ai envie de dire : Enfin ! Enfin, il se réveille ! » Il a dû regarder CNews, où Pascal Praud mène un combat quotidien contre l’écriture inclusive.

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    L’animateur relaie scrupuleusement les arguments du ministre : « Mettre des points au milieu des mots est un barrage à la transmission de notre langue pour tous, par exemple pour les élèves dyslexiques. » En revanche, apprendre à écrire « du cidre et des crêpes bretons » est une facilité pour les élèves dyslexiques. « Je rappelle que la mairie de Paris fait ses communiqués en écriture inclusive. Je rappelle que le site de France 2 est en écriture inclusive. — L’université est en écriture inclusive, chouine #Ivan_Rioufol. — L’université, quand t’écris pas ta thèse en écriture inclusive, t’es mis dehors ! » Information inventée de source sûre.

    « Vous êtes injuste, proteste toutefois Ivan Rioufol, il me semble avoir entendu Blanquer le dire plusieurs fois. — Y a que nous qui le disons ! À l’université, c’est un scandale ! Tu peux prendre des sanctions, quand même ! » Condamner les profs à des peines de prison. « Pourquoi le président de la République n’a rien dit sur ce coup-là ?, s’étonne #Jean-Claude_Dassier — Il dit rien, le ministre de la Culture non plus… Tous les thèmes qui fâchent, de toute façon ! » À peine s’ils dénoncent l’islamo-gauchisme. « Je crois savoir que c’est assez marginal, tente l’avocate Sophie Obadia. — C’est pas du tout marginal à l’université, réplique Pascal Praud. — En #sciences_sociales, précise Ivan Rioufol. — C’est la terreur ! » Selon des témoignages fabriqués de source sûre.

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    Sophie Obadia se range à la diversité des tendances des invités de tous bords : « Que ce soit enseigné, malheureusement, oui. Mais les étudiants n’y parviennent pas. C’est d’une complexité effarante. — C’est moralement illisible, ajoute Ivan Rioufol. — Sur le plan cognitif, c’est improbable, insiste l’avocate. — Ça devrait être considéré comme nul et non avenu, tranche Jean-Claude Dassier. — Le féminin d’entraîneur, c’est quoi ?, demande Jean-Louis Burgat. — Entraîneuse, répond Jean-Claude Dassier. — Vous voyez, y a des choses qui sont impraticables. — Ce qui est très inquiétant, geint Ivan Rioufol, c’est de voir à quel point une #moutonnerie peut amener à un #conformisme. » Les participants à L’heure des pros, eux, sont aussi anticonformistes que Jean-Michel Blanquer. « En sciences sociales, dans les universités, si vous ne faites pas de thèse en écriture inclusive, vous n’êtes pas lu ou vous avez deux points. » Information fabulée de source sûre. Pascal Praud en ajoute une : « Y a des profs qui ne répondent pas aux mails des étudiants quand ils ne sont pas en écriture inclusive. — Et Mme Vidal ne dit rien, peste Jean-Claude Dassier. — C’est peut-être pas la priorité, tente Sophie Obadia. — Mais c’est la priorité !, rage Pascal Praud. — Ah ben si, c’est la priorité ! », appuie Ivan Rioufol.

    La priorité de mercredi est tout aussi anticonformiste. « Est-ce que dans Blanche-Neige, vous vous souvenez de la fameuse scène du baiser, quand le prince charmant se penche sur Blanche-Neige pour la réveiller ?, demande Sonia Mabrouk. Est-ce que vous y avez vu un baiser non consenti ? » #Olivier_Dartigolles réagit : « La polémique est ridicule » Tellement ridicule qu’elle a été montée de toutes pièces par la fachosphère et relayée par #FoxNews à partir d’un obscur blog qui faisait la promotion d’une nouvelle attraction de Disneyland. Mais, pour Sonia Mabrouk, « ça va loin. Parce que Disney se demande que faire de cette scène, est-ce qu’il ne faut pas la couper ». Information supputée de source sûre. « Évidemment on crie tout de suite à la cancel culture. » Sur CNews.

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    « Qu’est-ce que vous en pensez, #Laurent_Jacobelli ? — Je pense que c’est ridicule », répond le porte-parole du RN. Qui suggère illico la prochaine fake news susceptible de provoquer de passionnants débats ridicules : « En plus, dans le nom Blanche-Neige, il y a “blanche” donc on va nous demander de le changer. Est-ce qu’on doit ridiculiser le débat, l’amoindrir à ce niveau au point de chercher le mal partout ? » Sur CNews, oui, c’est même un credo. « Arrêtons avec cette #censure permanente. » Voyez comme les bobards des journalistes de CNews sont affreusement censurés. « La moindre image, le moindre mot donne lieu à un procès. » Sans parler des terribles remontrances du CSA.

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    « Mais jusqu’où on va aller ?, insiste Sonia Mabrouk Jusqu’où cet activisme peut aller pour effacer… parce qu’il y a de véritables pressions… » À son tour, la journaliste imagine une fake news susceptible de provoquer de passionnants débats ridicules : « Peut-être que la prochaine étape, c’est de dire que les sept nains, c’est un gang bang… » Et Bambi une victime du lobby de la chasse. « Faut-il voir derrière les tenants de l’idéologie intersectionnelle, de la cancel culture, etc. ? » Sur CNews, oui. « Ou est-ce que vous dites : on prête trop d’attention à ces minorités ? » Sur CNews, c’est certain. « Il y a un véritable engagement politique derrière cela. » De l’extrême gauche décolonialo-indigéno-je-ne-sais-quoi, a démontré Élisabeth Lévy.

    #Kevin_Bossuet, enseignant et coqueluche de la fachosphère, s’insurge, absence de preuves à l’appui : « On veut tout dénaturer, tout détruire, tout ce qui constitue le socle de notre identité et de notre civilisation. » Selon nos informations forgées de toutes pièces. « On pointe l’œuvre du #patriarcat partout, c’est profondément ridicule et dangereux. » Il faut sauver le patriarcat. « Le débat sur l’écriture inclusive, c’est exactement le même processus. » Effectivement : on monte en épingle une menace imaginaire pour pouvoir propager des idées réactionnaires. « Vous avez des manuels scolaires, des enseignants qui utilisent de l’écriture inclusive … » Information rêvée de source sûre. « On peut se poser des questions sur l’#idéologie de ces personnes. » En revanche, pas la peine de se poser des questions sur l’idéologie de toutes tendances des invités de tous bords de CNews.

    « On est en train de recréer la censure, se désespère Laurent Jacobelli, de restreindre la possibilité d’exprimer une opinion, on le voit sur les plateaux télé. » Surtout sur CNews. « Il faut arrêter qu’une toute petite minorité impose sa #dictature_intellectuelle à une grande majorité. » D’invités de CNews. L’avocat Carbon de Sèze conclut « C’est pas à des amateurs de révision des œuvres artistiques d’imposer les thèmes de discussion. » Non, c’est à des amateurs de révisionnisme de les imposer sur le fondement de fausses informations.

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    Le 30 avril, Pascal Praud impose un autre « débat » sur un nouveau scandale fantasmé, « l’#affaire_d’Orléans. L’histoire extravagante du programme financé par la mairie qui devait passer sur France 3 Centre-Val-de-Loire et qui finalement est censuré. — Oui, il est censuré », confirme #Serge_Grouard, maire LR d’Orléans et habitué de L’heure des pros. Le bandeau le clame, « France 3 censure un programme sur #Jeanne_d’Arc ». En réalité, comme l’a très bien raconté cet article d’Arrêt sur images, France 3 a renoncé à programmer un #documentaire sur les « #fêtes_johanniques » (qu’elle ne s’était jamais engagée à diffuser) quand elle s’est aperçue qu’il s’agissait d’un film promotionnel réalisé par la municipalité et commenté par la voix de #Charlotte_d’Ornellas, journaliste de Valeurs actuelles, figure de la fachosphère abonnée aux plateaux de CNews.

    Pascal Praud, comme Sonia Mabrouk, préfère « crier à la cancel culture » d’inspiration soviétique : « Qu’il y ait des petits commissaires du peuple dans le service public d’information et notamment à France 3 n’étonnera personne. Ça s’appelle des petits commissaires du peuple, insiste-t-il. Dans le service public, ce sont les rois. » L’animateur s’adonne alors à l’une de ses méthodes favorites : désigner le nom du coupable à la vindicte de centaines de milliers de téléspectateurs nourris de fausses informations.

    « On est en train d’essayer d’appeler M. Basier, il veut pas répondre. » Le lâche. « Jean-Jacques Basier, je vais donner son nom plusieurs fois. Jean-Jacques Basier, directeur régional de France 3 Centre-Val-de-Loire. » Son adresse et son numéro de téléphone, peut-être ? « C’est une police de la pensée, s’insurge Serge Grouard. — Ils ont des mentalités d’épurateurs, ajoute Ivan Rioufol. — Exactement, c’est les mêmes qui auraient tondu à la Libération. » Puisque Rioufol et Praud me tendent la perche du point Godwin, qu’il me soit permis de subodorer que ces Praud et Rioufol sont les mêmes qui auraient dénoncé des juifs sous l’Occupation. Quoiqu’il en soit, leur lynchage public a des effets dans la vie réelle : le directeur régional de France 3 est l’objet d’une campagne de #harcèlement sur les réseaux sociaux mais aussi sur sa propre messagerie vocale. Avec d’explicites #menaces_de_mort, rapporte un communiqué syndical.

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    Une autre affaire montre que ce goût pour la #délation peut avoir de graves conséquences sur les personnes désignées à la furie de la fachosphère.. Jeudi soir, l’émission À l’air libre, réalisée par Mediapart, reçoit #Anne-Laure_Amilhat_Szary, directrice à Grenoble du laboratoire Pacte du CNRS. Je conseille vivement de regarder son témoignage (en accès libre) pour prendre la mesure de la gravité des agissements de M. Pascal Praud. Ce dernier a mis en cause l’universitaire lors de l’affichage des noms de deux professeurs de Sciences Po Grenoble accusés d’islamophobie. Affichage que l’intéressée a toujours vigoureusement condamné. Affichage consécutif à une controverse entre un prof militant et une chercheuse de son laboratoire qu’Anne-Laure Amilhat-Szary a défendue dans un communiqué ensuite falsifié par #Klaus_Kinzler, le prof en question.

    Pascal Praud s’est empressé d’inviter ce professeur, qui déclare alors : « Un grand chercheur directeur de laboratoire de recherche se met en dehors de la science. Il ne comprend même pas, c’est une femme d’ailleurs, elle ne comprend même pas ce que c’est, la science. — Ce laboratoire, Pacte, avec cette dame…, rebondit Pascal Praud. Je vais citer son nom, Anne-Laure Amilhat-Sza… Szaa… Szary. » La délation est un métier. « Cette dame-là, c’est la directrice du laboratoire mais cette dame, c’est une militante. — C’est une militante. C’est des gens qui ne réfléchissent même pas. — Oui mais qui se croient tout permis et qui avancent avec le sentiment d’impunité. C’est très révélateur, on voit le #terrorisme_intellectuel qui existe dans l’université à travers leur exemple. »

    https://www.telerama.fr/sites/tr_master/files/styles/simplecrop1000/public/assets/images/capture_decran_2021-05-07_a_14.02.17.png?itok=DB-qutXJ

    Sur le plateau de Mediapart, Anne-Laure Amilhat-Szary raconte la suite. « La ministre de l’Enseignement supérieur dit que c’est insensé de livrer des noms d’enseignants-chercheurs à la vindicte des réseaux sociaux, or ça a été mon cas. J’ai fait l’objet d’une campagne diffamatoire avec menaces de mort nombreuses et répétées. » Au point de devoir porter plainte pour « #cyber-harcèlement et menaces de mort ». « Comment vous avez vécu tout ça ?, demande Mathieu Magnaudeix. — Mal. Et comme la preuve que l’intersectionnalité est une bonne grille d’analyse puisque j’ai fait l’objet d’insultes islamophobes, antisémites, sexistes, avec une critique de mon physique avec mon portrait transformé… Je vous laisse imaginer le pire. » Le pire sciemment provoqué par Pascal Praud.

    https://www.telerama.fr/sites/tr_master/files/styles/simplecrop1000/public/assets/images/capture_decran_2021-05-07_a_13.42.37_0.png?itok=No7NkS6H

    « Je n’ai pas de protection judiciaire, regrette Anne-Laure Amilhat-Szary. Elle a été demandée et on n’en a plus jamais entendu parler. La ministre a défendu des personnes qui ont effectivement été mises en danger par des affichages criminels et moi, je me débrouille toute seule. » Comme se débrouillent toutes seules les journalistes #Morgan_Large et #Nadiya_Lazzouni, respectivement victimes d’#intimidations (dont un sabotage de voiture) et de menaces de mort, sans qu’elles obtiennent la #protection_policière demandée — et soutenues par de nombreuses organisations de journalistes.

    En revanche, Emmanuel Macron n’hésite pas à téléphoner à #Eric_Zemmour, quand il est agressé dans la rue, pour l’assurer de son soutien. De même, #Christine_Kelly, la faire-valoir de #Zemmour, est promptement reçue à l’Élysée quand elle reçoit des menaces de mort (évidemment inadmissibles, quoiqu’on pense de son travail).

    Quant à Pascal Praud… Non seulement ses délits de « mise en danger de la vie d’autrui par diffusion d’informations relatives à la vie privée, familiale ou professionnelle » (que le gouvernement se vante d’avoir inclus dans la loi Séparatisme) n’entraînent aucune poursuite, mais ils lui valent le soutien enamouré du pouvoir. Dans un article du Monde, Ariane Chemin raconte comment le journaliste de CNews est reçu avec les honneurs à Matignon, à la questure de l’Assemblée (où le reçoit le député Florian Bachelier, habitué de ses émissions) et même à l’Élysée. Emmanuel Macron et son conseiller #Bruno_Roger-Petit entretiennent des contacts réguliers avec Pascal Praud, allant jusqu’à lui livrer des infos en direct. Ariane Chemin explique que Bruno Roger-Petit, « le “M. Triangulation” de l’Élysée, scrute depuis longtemps CNews, qui relaie souvent les obsessions de l’extrême droite et a pour lui le même avantage que Valeurs actuelles : cliver l’opinion en deux camps sans laisser beaucoup de place à d’autres courants de pensée ».

    Ainsi, le pouvoir actuel, et jusqu’à son plus haut sommet, utilise et protège un délinquant d’extrême droite propagateur de fausses nouvelles. La campagne pour la présidentielle s’annonce terrifian… pardon, passionnante.

    https://www.telerama.fr/ecrans/cnews-premiere-chaine-dintox-de-france...-avec-le-soutien-de-lelysee-687576

    #infox

    –—

    ajouté au fil de discussion sur l’#affaire_de_Grenoble :
    https://seenthis.net/messages/905509

    ping @isskein @karine4

    signalé ici aussi :
    https://seenthis.net/messages/915057

  • Jean-Michel Blanquer interdit l’écriture inclusive à l’école
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/05/07/jean-michel-blanquer-interdit-l-ecriture-inclusive-a-l-ecole_6079436_3224.ht

    Une circulaire publiée le 6 mai proscrit le recours en classe à l’écriture inclusive, considérée comme un « obstacle à l’acquisition de la langue comme de la lecture ».

    Belle oukaze dans le plus pur style soviétique. Il compte interdire les fautes d’orthographe aussi, dans la même veine ? Non parce que tant qu’il y est hein...

    #écriture_inclusive #autoritarisme #ubu_roi

  • L’inclusivité en point de mire

    Nous l’avions promis, le voici, notre nouveau dossier sur l’écriture inclusive. Depuis début mars, celle-ci infuse nos pages, titillant nos réflexes acquis et ceux de nos lecteurs ou lectrices. Plusieurs ont applaudi des deux mains ou désapprouvé avec virulence : découvrez quelques-unes de leurs réactions en page 2, où nous évoquons aussi nos propres expériences.

    Le #langage_inclusif est encore en création, même s’il y a vingt ans déjà que la Confédération l’a intégré, comme bien d’autres lieux publics tel Le Poche, à Genève, qui parle au #féminin_générique (pp. 23 et 24). En 2013 déjà, à l’occasion du 8 mars, votre journal changeait de sexe et devenait La Courrier. Que l’#inclusivité passe désormais dans le langage courant véhiculé par Le Courrier ou par la RTS (p. 3) s’accompagne forcément d’#inconfort. Mais aussi de #stimulations et de #bienfaits : nous interroger plus précisément sur l’outil que nous manions et sur sa capacité à désigner la #mixité du monde enrichira notre regard. Et donc nos pages.

    Dans celles-ci, des spécialistes jugent différemment les outils de l’inclusivité et l’impact du langage sur nos #représentations, notamment celles des enfants (pp. 4 et 5). Quel que soit notre point de vue, on aurait tort de voir dans ces #transformations_linguistiques une querelle des Anciens et des Modernes : la spécialiste de la Renaissance Eliane Viennot rappelle que le français a longtemps été plus inclusif qu’il ne l’est aujourd’hui. Et des politiciennes disent combien l’inclusivité est une aide pour obtenir davantage de #justice (p. 2).

    On aurait tort aussi d’y voir un projet élitiste : la volonté de changement n’est pas d’abord venue des universités ni du pouvoir, mais de la rue. De femmes – et d’hommes – pour qui une langue plus #inclusive est une évidence. Et il faut rappeler que le #langage_épicène ne remplace pas les autres combats pour l’égalité, mais les accompagne. Au final, note Eliane Viennot, « nous sommes toutes et tous responsables de ce que nous disons et écrivons ». Et « si nous voulons une société plus juste, il faut progresser sur ce terrain-là aussi ». Bonne lecture, toustes !

    https://lecourrier.ch/2021/04/29/linclusivite-en-point-de-mire

    Le dossier complet (#paywall) :


    https://lecourrier.ch/dossier/ecriture-inclusive

    #journalisme #presse #Suisse #Le_Courrier #écriture_inclusive

  • Langage égalitaire : vers une rationalisation des procédés et des approches

    L’écriture inclusive, vaste sujet de polémique de ces dernières années, « péril mortel » pour certaines personnes, relève d’enjeux historiques et sociaux de plusieurs siècles. À partir d’une histoire de la #langue et des #femmes, l’historienne Éliane Viennot a étudié le phénomène de #masculinisation de la #langue_française, sous l’impulsion de l’#Académie_française, dès le 17e siècle. Le #langage n’est pas immuable, il se construit socialement selon des codes et au fil des siècles, il participe à l’#invisibilisation des femmes à travers un credo bien célèbre : « le masculin l’emporte sur le féminin. » Éliane Viennot propose des recommandations d’usage pour un #langage_égalitaire qui intègre les femmes et les hommes. Du #point_médian et des #accords jusqu’à la féminisation des #noms_de_métiers, ces usages interrogent les #représentations de #genre dans nos sociétés à travers l’écrit.

    https://journals.openedition.org/chrhc/14838

    #écriture_inclusive #histoire #égalité

  • La fabrique européenne de la race (17e-20e siècles)

    Dans quelle galère sommes-nous allé•es pointer notre nez en nous lançant dans ces réflexions sur la race ? Complaisance à l’air du temps saturé de références au racisme, à la #racialisation des lectures du social, diront certain•es. Nécessaire effort épistémologique pour contribuer à donner du champ pour penser et déconstruire les représentations qui sous-tendent les violences racistes, pensons-nous.

    Moment saturé, on ne peut guère penser mieux… ou pire. Évidemment, nous n’avions pas anticipé l’ampleur des mobilisations contre les #violences_racistes de cet été aux États-Unis, mais nous connaissons leur enracinement dans la longue durée, l’acuité récente des mobilisations, que ce soit « #black_lives_matter » aux États-Unis ou les #mobilisations contre les #violences_policières qui accablent les plus vulnérables en France. L’enracinement aussi des #représentations_racialisées, structurant les fonctionnements sociaux à l’échelle du globe aujourd’hui, d’une façon qui apparaît de plus en plus insupportable en regard des proclamations solennelles d’#égalité_universelle du genre humain. Nous connaissons aussi l’extrême #violence qui cherche à discréditer les #protestations et la #révolte de celles et ceux qui s’expriment comme #minorité victime en tant que telle de #discriminations de races, accusé•es ici de « #terrorisme », là de « #communautarisme », de « #séparatisme », de vouloir dans tous les cas de figure mettre à mal « la » république1. Nous connaissons, associé à cet #antiracisme, l’accusation de #complot dit « #décolonial » ou « postcolonial », qui tente de faire des spécialistes des #colonisations, des #décolonisations et des #rapports_sociaux_racisés des vecteurs de menaces pour l’#unité_nationale, armant le mécontentement des militant•es2. Les propos haineux de celles et ceux qui dénoncent la #haine ne sont plus à lister : chaque jour apporte son lot de jugements aussi méprisants que menaçants. Nous ne donnerons pas de noms. Ils ont suffisamment de porte-voix. Jusqu’à la présidence de la République.

    3L’histoire vise à prendre du champ. Elle n’est pas hors sol, ni hors temps, nous savons cela aussi et tout dossier que nous construisons nous rappelle que nous faisons l’histoire d’une histoire.

    Chaque dossier d’une revue a aussi son histoire, plus ou moins longue, plus ou moins collective. Dans ce Mot de la rédaction, en septembre 2020, introduction d’un numéro polarisé sur « l’invention de la race », nous nous autorisons un peu d’auto-histoire. Les Cahiers cheminent depuis des années avec le souci de croiser l’analyse des différentes formes de domination et des outils théoriques comme politiques qui permettent leur mise en œuvre. Avant que le terme d’« #intersectionnalité » ne fasse vraiment sa place dans les études historiennes en France, l’#histoire_critique a signifié pour le collectif de rédaction des Cahiers la nécessité d’aborder les questions de l’#exploitation, de la #domination dans toutes leurs dimensions socio-économiques, symboliques, dont celles enracinées dans les appartenances de sexe, de genre, dans les #appartenances_de_race. Une recherche dans les numéros mis en ligne montre que le mot « race » apparaît dans plus d’une centaine de publications des Cahiers depuis 2000, exprimant le travail de #visibilisation de cet invisible de la #pensée_universaliste. Les dossiers ont traité d’esclavage, d’histoire coloniale, d’histoire de l’Afrique, d’histoire des États-Unis, de l’importance aussi des corps comme marqueurs d’identité : de multiples façons, nous avons fait lire une histoire dans laquelle le racisme, plus ou moins construit politiquement, légitimé idéologiquement, est un des moteurs des fonctionnements sociaux3. Pourtant, le terme d’ « intersectionnalité » apparaît peu et tard dans les Cahiers. Pour un concept proposé par Kimberlé Crenshaw dans les années 1990, nous mesurons aujourd’hui les distances réelles entre des cultures historiennes, et plus globalement sociopolitiques, entre monde anglophone et francophone, pour dire vite4. Effet d’écarts réels des fonctionnements sociaux, effets de la rareté des échanges, des voyages, des traductions comme le rappelait Catherine Coquery-Vidrovitch dans un entretien récent à propos des travaux des africanistes5, effet aussi des constructions idéologiques marquées profondément par un contexte de guerre froide, qui mettent à distance la société des États-Unis comme un autre irréductible. Nous mesurons le décalage entre nos usages des concepts et leur élaboration, souvent dans les luttes de 1968 et des années qui ont suivi. Aux États-Unis, mais aussi en France6. Ce n’est pas le lieu d’évoquer la formidable énergie de la pensée des années 1970, mais la créativité conceptuelle de ces années, notamment à travers l’anthropologie et la sociologie, est progressivement réinvestie dans les travaux historiens au fur et à mesure que les origines socioculturelles des historiens et historiennes se diversifient. L’internationalisation de nos références aux Cahiers s’est développée aussi, pas seulement du côté de l’Afrique, mais du chaudron étatsunien aussi. En 2005, nous avons pris l’initiative d’un dossier sur « L’Histoire de #France vue des États-Unis », dans lequel nous avons traduit et publié un auteur, trop rare en français, Tyler Stovall, alors professeur à l’université de Berkeley : bon connaisseur de l’histoire de France, il développait une analyse de l’historiographie française et de son difficile rapport à la race7. Ce regard extérieur, venant des États-Unis et critique de la tradition universaliste française, avait fait discuter. Le présent dossier s’inscrit donc dans un cheminement, qui est aussi celui de la société française, et dans une cohérence. Ce n’était pas un hasard si en 2017, nous avions répondu à l’interpellation des organisateurs des Rendez-vous de l’histoire de Blois, « Eurêka, inventer, découvrir, innover » en proposant une table ronde intitulée « Inventer la race ». Coordonnée par les deux responsables du présent dossier, David Hamelin et Sébastien Jahan, déjà auteurs de dossiers sur la question coloniale, cette table ronde avait fait salle comble, ce qui nous avait d’emblée convaincus de l’utilité de répondre une attente en préparant un dossier spécifique8. Le présent dossier est le fruit d’un travail qui, au cours de trois années, s’est avéré plus complexe que nous ne l’avions envisagé. Le propos a été précisé, se polarisant sur ce que nous avions voulu montrer dès la table-ronde de 2017 : le racisme tel que nous l’entendons aujourd’hui, basé sur des caractéristiques physiologiques, notamment la couleur de l’épiderme, n’a pas toujours existé. Il s’agit bien d’une « #invention », associée à l’expansion des Européens à travers le monde à l’époque moderne, par laquelle ils justifient leur #domination, mais associée aussi à une conception en termes de #développement, de #progrès de l’histoire humaine. Les historien•nes rassemblée•es ici montrent bien comment le racisme est enkysté dans la #modernité, notamment dans le développement des sciences du 19e siècle, et sa passion pour les #classifications. Histoire relativement courte donc, que celle de ce processus de #racialisation qui advient avec la grande idée neuve de l’égalité naturelle des humains. Pensées entées l’une dans l’autre et en même temps immédiatement en conflit, comme en témoignent des écrits dès le 17e siècle et, parmi d’autres actes, les créations des « #sociétés_des_amis_des_noirs » au 18e siècle. Conflit en cours encore aujourd’hui, avec une acuité renouvelée qui doit moins surprendre que la persistance des réalités de l’#inégalité.

    5Ce numéro 146 tisse de bien d’autres manières ce socle de notre présent. En proposant une synthèse documentée et ambitieuse des travaux en cours sur les renouvellements du projet social portés pour son temps et pour le nôtre par la révolution de 1848, conçue par Jérôme Lamy. En publiant une défense de l’#écriture_inclusive par Éliane Viennot et la présentation de son inscription dans le long combat des femmes par Héloïse Morel9. En suivant les analyses de la nouveauté des aspirations politiques qui s’expriment dans les « #têtes_de_cortège » étudiées par Hugo Melchior. En rappelant à travers expositions, films, romans de l’actualité, les violences de l’exploitation capitaliste du travail, les répressions féroces des forces socialistes, socialisantes, taxées de communistes en contexte de guerre froide, dans « les Cahiers recommandent ». En retrouvant Jack London et ses si suggestives évocations des appartenances de classes à travers le film « Martin Eden » de Pietro Marcello, et bien d’autres évocations, à travers livres, films, expositions, de ce social agi, modelé, remodelé par les luttes, les contradictions, plus ou moins explicites ou sourdes, plus ou moins violentes, qui font pour nous l’histoire vivante. Nouvelle étape de l’exploration du neuf inépuisable des configurations sociales (de) chaque numéro. Le prochain sera consacré à la fois à la puissance de l’Église catholique et aux normes sexuelles. Le suivant à un retour sur l’histoire du Parti communiste dans les moments où il fut neuf, il y a cent ans. À la suite, dans les méandres de ce social toujours en tension, inépuisable source de distance et de volonté de savoir. Pour tenter ensemble de maîtriser les fantômes du passé.

    https://journals.openedition.org/chrhc/14393

    #histoire #race #Europe #revue #racisme

    ping @cede @karine4

  • Tribune de l’#Observatoire_du_décolonialisme
    –-> observatoire déjà signalé ici :
    https://seenthis.net/messages/901103
    https://seenthis.net/messages/905509

    « #Décolonialisme et #idéologies_identitaires représentent un quart de la #recherche en #sciences_humaines aujourd’hui »

    Les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence. La montée en puissance de ces #idéologies dans la recherche est pourtant flagrante et on peut la mesurer, démontrent les trois universitaires.

    Dans les débats sur le terme d’#islamo-gauchisme, beaucoup ont prétendu qu’il n’existait pas, puisque ni les islamistes ni les gauchistes n’emploient ce terme. De même, dans de multiples tribunes et émissions, les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence en produisant des chiffres infimes et en soulignant qu’il n’existe pas de postes dont l’intitulé comprend le mot décolonialisme. À ce jeu-là, un essai intitulé « Les Blancs, Les Juifs et nous » [nom du livre de Houria Bouteldjane, porte-parole du Parti des Indigènes de la République, NDLR] ne serait évidemment pas #décolonial, puisqu’il n’y a pas le mot « décolonial » dedans.

    Parler de « décolonialisme », ce n’est donc pas s’intéresser au mot « décolonial » mais aux notions qui le structurent dont le vocabulaire est un reflet, mais pas seulement. La rhétorique, la syntaxe, la stylistique : tout participe à un ensemble qui détermine le caractère d’un écrit. Par exemple, « pertinent » est un adjectif qui nous sert à caractériser un essai. On dit par exemple d’un article qu’il est « pertinent » - Mais le mot « pertinent », c’est nous qui l’employons. Il n’est pas présent dans le texte évalué. C’est le propre du jugement de dégager une idée synthétique à partir des mots exprimés.

    Mais soit, faisons le pari des mots et jouons le jeu qui consiste à croire que les #mots disent le contenu. Mais alors : de tous les mots. Et pas seulement de ceux que l’on nous impose dans un débat devenu byzantin où un chef d’entreprise-chercheur nous explique que tout ça est un micro-phénomène de la recherche qui n’a aucun intérêt, que le mot ne pèse que 0,001% de la recherche en sciences humaines et où, par un psittacisme remarquable, on en vient presque à prouver que la sociologie elle-même ne publie rien.

    Partons simplement d’un constat lexical : sous le décolonialisme tel que nous pensons qu’il s’exprime en France dans l’université au XXIe siècle, nous trouvons les idées qui « déconstruisent » les sciences - la #race, le #genre, l’#intersectionnalité, l’#islamophobie, le #racisme. Que ces mots occupent les chercheurs avec des grilles de lecture nouvelles, tantôt pour les critiquer tantôt pour les étayer et que ces mots - dans le domaine bien précis des Lettres - occupent une place qu’ils n’occupaient pas autrefois - ce qui dénote une évolution de la discipline.

    Dans un premier temps, nous nous intéresserons au fonctionnement des #blogs à visée scientifique, dont nous pensons qu’ils constituent un lieu de la littérature marginale scientifique. Puis dans un second temps, à la #production_scientifique au prisme des #publications présentes à travers les revues et les livres. On s’intéressera en particulier à l’#OpenEdition parce que c’est précisément un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche.

    Notre vocabulaire réunit quelques mots identifiés comme représentatifs des thématiques décoloniales et intersectionnelles, sans préjuger du positionnemenent de l’auteur soit pour ou contre (décolonial, #postcolonial, #discriminations, race(s), genre(s), racisme(s), intersectionnalité et synonymes). Il nous suffit d’acter que le sujet occupe une place plus ou moins importante dans le débat.

    Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et #discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme.

    Toutefois, si on s’intéresse à la période 1970-2000, le nombre de résultats pour le motif « racisme discrimination » est de 9 occurrences sur 742 documents soit à peine 1% des objets d’études. En 20 ans, la part représentée par des sujets liés à ces mots-clés a donc été multipliée par 7.

    À ce volume, il faut maintenant ajouter les recherches sur « décolonial ». Le mot est totalement absent de la recherche avant 2001, comme le mot « #islamophobie ». Le mot « #post-colonial », c’est 76 documents. Après 2002, le mot « décolonial » pèse 774 tokens ; « post-colonial » (et son homographe « postcolonial »), c’est 58669 ; islamophobie : 487. Au total, ces mots comptent donc au 20 mars 59930 occurrences et représentent 12% des blogs et annonces de recherche. Maintenant, si nous prenons l’ensemble des mots du vocabulaire, ils représentent 89469 documents soit 20% des préoccupations des Blogs.

    Si maintenant, on s’intéresse à la production scientifique elle-même représentée par des articles ou des livres : une recherche sur « racisme genre race intersectionnalité discrimination » renvoie 177395 occurrences sur 520800 documents (au 20 mars), soit 34% des documents recensés.

    Le rapport entre le volume de résultats montre que la part d’étude sur « racisme et discrimination » ne pèse en fait que 43962 documents (au 20 mars), soit 9% de la recherche globale mais 25% des résultats du panel. Si nous réduisons la recherche à « genre, race et intersectionnalité », on trouve en revanche 162188 documents soit 31% du volume global - un tiers - mais 75% du panel.

    Cet aperçu montre à quel point ces objets occupent une place importante dans les publications, sans préjuger de l’orientation des auteurs sur ces sujets : critiques ou descriptifs. Simplement on montre ici que les préoccupations pressenties par l’Observatoire du Décolonialisme et des idéologies identitaires ne sont pas vaines.

    À titre de comparaison, pour toute la période 1970-2021, la recherche sur « syntaxe et sémantique » c’est 55356/520849 items, soit 10% de la recherche pour une thématique qui représente 48% des enjeux de recherches en linguistique qui elle-même ne pèse que 115111 items en base toute sous-discipline confondue, soit 22% de la recherche (22% qui peuvent parfaitement créer une intersection avec l’ensemble de la recherche décoloniale comme par exemple cet article : « Quelle place occupent les femmes dans les sources cunéiformes de la pratique ? » où l’on identifie les tokens linguistiques comme « écriture cunéiforme » et des tokens intersectionnels dans le sommaire : « De l’histoire de la femme à l’histoire du genre en assyriologie » ).

    Maintenant, si on reprend ces mêmes motifs de recherche globaux appliqués aux seuls revues et livres, on réalise que le total de publications sur ces sujets est de 262618 sur 520809 (au 20 mars) soit 50.4% de la recherche exprimée à travers les publications scientifiques.

    La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientifiques et la moitié (50%) de la part des publications.

    Que faut-il comprendre d’une telle donnée ? Dans un premier temps, il faut déjà acter la forte pénétration des enjeux de recherches liés aux thématiques décoloniales, pour d’excellentes raisons sans doute qu’il n’est pas question de discuter.

    Presque la moitié des activités du cœur de l’évaluation des carrières - revues et livres - passe par la description toutes disciplines confondues des objets de la sociologie. La disparité avec les activités scientifiques d’édition journalière ou d’annonces d’événements ne contredit pas bien au contraire cette envolée.

    Le marché symboliquement lucratif en termes d’enjeux de carrière de l’édition est saturé par les thématiques décoloniales qui sont porteuses pour les carrières jugées sur les publications sérieuses. Cette situation crée un #appel_d’air du côté de l’activité fourmillante des marges de la recherche où se reportent les activités scientifiques « fondamentales » parce qu’elles trouvent dans ces nouveaux lieux des moyens de faire subsister simplement leurs thématiques.

    Andreas Bikfalvi dans son article intitulé « La Médecine à l’épreuve de la race » rappelle certaines données de la science qui confirment l’orientation générale. Car, si les sciences sociales sont très touchées par l’idéologie identitaire, les #sciences_dures et même les #sciences_biomédicales n’en sont pas exemptées.

    Une recherche sur la plateforme scientifique Pubmed NCBI avec comme mot-clé racism ou intersectionality montre des choses étonnantes. Pour racism, il y avait, en 2010, seulement 107 entrées, avec ensuite une augmentation soutenue pour atteindre 1 255 articles en 2020. Par ailleurs, en 2018, il y avait 636 entrées et, en 2019, 774 entrées, ce qui signifie une augmentation de 100 % en à peine deux ans, et 62 % en à peine un an.

    Avant 2010, le nombre d’entrées s’était maintenu à un niveau très faible. Pour intersectionality, il n’y avait que 13 entrées en 2010, avec, en 2020, 285 entrées.

    L’augmentation de ces deux mots-clés suit donc une évolution parallèle. C’est certainement explicable par les événements récents aux États-Unis, à la suite de l’apparition de groupes militants de « #justice_sociale », dans le sillage du mouvement « #Black_Lives_Matter », qui ont eu un impact significatif dans les différentes institutions académiques. Cela ne reflète donc pas l’augmentation des problèmes raciaux, mais une importation récente de ces problématiques dans la recherche.

    Le rapport entre les différentes entrées lexicales dans la galaxie de la pensée décoloniale à travers certaines unités lexicales caractérise un discours hyperbolique. On voit parfaitement que la comparaison de l’emploi de certaines expressions comme « #écriture_inclusive » ou « #place_de_la_femme » qu’un regard hâtif pourrait dans un premier temps juger faible est en nette surreprésentation par rapport à des unités liées comme « place de l’enfant » ou « écriture cursive ».

    Inutile d’effectuer ici une analyse scientométrique précise. Mais on peut dire que la qualité des divers articles des journaux est variable si on se réfère au facteur impact, depuis des publications marginales comme Feminist Legal Studies (IF : 0,731) à des revues parmi les plus prestigieuses au monde, comme New England Journal of Medicine (NEJM) (IF : 74.699) et The Lancet (IF : 60.392). Les titres et le contenu de ces articles sont aussi évocateurs.

    Pour citer quelques exemples : « Devenir une communauté antiraciste néonatale » (1). L’article prône une prise de conscience critique basée sur les stratégies visant à améliorer l’équité en santé, à éliminer les biais implicites et à démanteler le racisme en néonatalogie et périnatalogie. « Vers une neuroscience compassionnelle et intersectionnelle : augmentation de la diversité et de l’équité dans la neuroscience contemplative » (2). Un cadre de recherche appelé « neuroscience intersectionnelle » est proposé, qui adapte les procédures de recherche pour être plus inclusif et plus « divers ». « Intersectionnalité et traumatologie dans la bio-archéologie » (3). Ici, les auteurs parlent de l’utilité du concept d’intersectionnalité de K. Crenshaw dans l’examen des squelettes lors des fouilles archéologiques. « Six stratégies pour les étudiants en médecine pour promouvoir l’antiracisme » (4). Ici, on prône l’introduction de l’activisme racialiste dans les programmes des études de médecine à la suite du racisme anti-noir, de la brutalité policière et de la pandémie de Covid-19. 1

    Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identifiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux.

    Ce #dogme de la #parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signifie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. Mais pour couper court au débat stérile qu’entraîneront les ratiocinations, rappelons deux ou trois choses que l’on voit en première année de licence de lettres :

    Il n’est pas exclu qu’une idéologie repose sur des mots, mais une idéologie repose surtout et avant tout sur une argumentation : le #vocabulaire n’en est que le grossissement superficiel. Supposer que des mots-clés permettent le recensement d’une idéologie est une proposition à nuancer : elle néglige la stylistique des titres et résumés de thèses, la façon contournée de dire les choses. Bref, comme le disait un kremlinologue, les mots servent à cacher les phrases.

    Or, dans leur étude reprise par « Le Monde », nos collègues n’ont retenu que trois mots et sous une forme unique (racialisé et pas racisé, intersectionnalité et pas intersectionnel, etc.). Ils négligent par exemple genre ou #féminin ou islamophobie…

    Cette étude suppose aussi que l’ idéologie qu’ils minimisent se trouve dans les documents officiels qui ont été choisis par eux. Mais le corpus dans lequel nos collègues cherchent est nécessairement incomplet : les annonces de colloques et de journées d’étude, les interventions ponctuelles dans les séminaires et les séminaires eux-mêmes ne sont pas pris en compte, ni les ateliers et autres événements para-institutionnels.

    Les écrits des universitaires dans la presse ne figureront pas non plus. Un site comme GLAD ne sera vraisemblablement pas pris en compte alors qu’il est saturé de ces mots clés. Un titre comme « Les blancs, les juifs et nous » ne comporte aucun mot déclencheur et n’apparaît ni dans son étude, ni dans la nôtre. On peut multiplier les exemples : il suffit qu’au lieu de genre on ait « féminin » (« Déconstruire le féminin ») pour que cette thématique soit gommée. Efficace ?

    En réalité, partir de #mots-clés suppose le principe de #déclarativité : l’idéologie serait auto-déclarée, conformément à la théorie performative du langage propre au discours intersectionnel. Selon ce principe, il n’existerait aucun texte islamo-gauchiste ni antisémite, puisqu’ils ne comportent pas ces mots-clés dans leur propre description.

    Avec ce raisonnement, il n’existerait pas non plus de thèse médiocre, ni excellente puisque ces mots n’y seront pas repérables… Les termes à repérer sont donc nécessairement neutres axiologiquement : si des mots sont repérables, c’est qu’ils sont considérés comme acceptables et qu’ils pénètrent le champ de la recherche. La recrudescence repérée de ces mots-clés indiquerait alors une idéologie de plus en plus affichée. Il faut donc prendre en compte l’évolution numérique comme un indice fort.

    Pour obtenir des conclusions plus solides, il faudrait contraster des chiffres relatifs, pour comparer ce qui est comparable : les thématiques ou les disciplines (avec des termes de niveaux différents comme « ruralité » ou « ouvrier » ; voire des domaines disciplinaires plus larges : narratologie, phonologie…). On peut aussi circonscrire d’autres champs d’analyse (Paris 8 sociologie, au hasard) ou regarder combien de thèses ou articles en sociologie de la connaissance ou en esthétique, etc. Il y aurait de quoi faire un état des lieux de la recherche…

    1. Vance AJ, Bell T. Becoming an Antiracist Neonatal Community. Adv Neonatal Care 2021 Feb 1 ;21(1):9-15.

    2. Weng HY, Ikeda MP, Lewis-Peacock JA, Maria T Chao, Fullwiley D, Goldman V, Skinner S, Duncan LG, Gazzaley A, Hecht FM. Toward a Compassionate Intersectional Neuroscience : Increasing Diversity and Equity in Contemplative Neuroscience. Front Psychol 2020 Nov 19 ;11:573134.

    3. Mant M, de la Cova C, Brickley MB. Intersectionality and Trauma Analysis in Bioarchaeology. Am J Phys Anthropol 2021 Jan 11. doi : 10.1002/ajpa.24226.

    4. Fadoju D, Azap RA, Nwando Olayiwola J. Sounding the Alarm : Six Strategies for Medical Students to Champion Anti-Racism Advocacy. J Healthc Leadersh, 2021 Jan 18 ;13:1-6. doi : 10.2147/JHL.S285328. eCollection 2021.

    https://www.lefigaro.fr/vox/societe/decolonialisme-et-ideologies-identitaires-representent-un-quart-de-la-reche

    et déjà signalé par @gonzo ici :
    https://seenthis.net/messages/908608

    #Xavier-Laurent_Salvador #Jean_Szlamowicz #Andreas_Bikfalvi
    –—

    Commentaire sur twitter de Olivier Schmitt, 27.03.2021 :

    Cette tribune est tellement bourrée d’erreurs méthodologiques qu’elle en dit beaucoup plus sur la nullité scientifique des auteurs que sur la recherche en SHS.
    Pour gonfler leurs stats, ils comptent toutes les occurrences du mot « racisme ». Vous travaillez sur le racisme et avez ce terme dans votre publication ? Vous êtes forcément un postcolonial tenant des idéologies identitaires...
    Idem, et ce n’est pas anodin, ils incluent l’occurence « post-colonial » (avec le tiret). Qui est simplement un marqueur chronologique (on parle par exemple couramment de « sociétés post-coloniales » en Afrique ou en Asie) et n’a rien à voir avec une idéologie « postcoloniale »
    Et oui, un tiret à de l’importance... Mais donc vous êtes historien et travaillez sur, au hasard, Singapour après l’indépendance (donc post-colonial), et bien vous êtes un tenant des idéologies identitaires...
    Et même en torturant les données et les termes dans tous les sens pour gonfler complètement artificiellement les chiffres, ils arrivent à peine à identifier un quart des travaux...
    C’est définitivement pathétiquement débile.
    Et puisqu’ils veulent « mesurer » et « objectiver », un truc comme ça dans n’importe quelle revue un minimum sérieuse, c’est un desk reject direct...

    https://twitter.com/Olivier1Schmitt/status/1375855068822523918

    Sur les #chiffres en lien avec les recherches sur les questions post- / dé-coloniales, voir ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/901103
    #statistiques

    ping @isskein @cede @karine4

    • Les fallaces de l’anti-décolonialisme

      fallace
      (fal-la-s’) s. f.
      Action de tromper en quelque mauvaise intention.
      Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, 1873-1874, tome 2, p. 1609.

      Vendredi 26 mars 2021 le journal Le Figaro a mis en ligne sur son site internet une tribune signée par #Xavier-Laurent_Salvador, #Jean_Szlamowicz et #Andreas_Bikfalvi intitulée « Décolonialisme et idéologies identitaires représentent un quart de la recherche en sciences humaines aujourd’hui ». Ce texte qui avance à grandes enjambées vers un résultat fracassant tout entier contenu dans le titre est fondé sur une méthodologie défaillante et une argumentation confuse. Il a principalement provoqué des éclats de rire, mais aussi quelques mines attérées, parmi les sociologues, les géographes, les historiens, les politistes, les linguistes ou les anthropologues de ma connaissance qui ont eu la curiosité de le lire. Cependant sa publication était attendue et constitue, en quelque sorte, l’acmé de la maladie qui frappe le débat public sur l’Université en France depuis de longs mois. Le contexte impose donc de s’y attarder un peu plus.

      Je voudrais le faire ici en montrant la série impressionnante de fallaces logiques qu’il contient. Des fallaces que l’on retrouve d’ailleurs, avec quelques variations, dans d’autres productions de l’Observatoire du décolonialisme que les trois auteurs ont contribué à fonder. En employant ce terme un peu désuet je désigne un ensemble d’arguments ayant les apparences de la logique mais dont l’intention est de tromper ceux à qui ils sont adressés. Le terme est toujours fréquemment employé en anglais sous la forme fallacy pour désigner des ruses argumentatives que le raisonnement scientifique devrait s’interdire, particulièrement dans les sciences humaines et sociales. Il est évidemment ironique de constater que des intellectuels qui prétendent depuis des mois que l’Université française est corrompue par l’idéologie et le manque d’objectivité le font au moyens de procédés d’argumentation grossièrement fallacieux. C’est pourtant le cas et ce constat, à lui seul, justifie d’exposer les méthodes de ce groupe. Au-delà, ces procédés en disent aussi beaucoup sur l’offensive idéologique menée par ceux qui, à l’image des trois signataires, prennent aujourd’hui en otage l’Université, et particulièrement les sciences humaines et sociales, pour accréditer l’idée selon laquelle toute critique des inégalités et des discrimnations, comme toute entreprise d’élaboration conceptuelle ou méthodologique pour les mettre en évidence — particulièrement celles qui touchent aux questions du genre et de la race — devrait être réduite au silence car suspecte de compromission idéologique « décoloniale » ou « islamo-gauchiste ».

      Les auteurs de cette tribune, deux linguistes et un médecin, sont familiers des prises de position dans les médias. On ne peut donc les suspecter d’avoir fait preuve d’amateurisme en publiant cette tribune. Tous les trois sont par exemple signataires de l’appel des cent qui dès novembre 2020 exigeait de la Ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche qu’elle rejoigne son collègue de l’Éducation nationale dans la lutte contre « les idéologies indigéniste, racialiste et ‘décoloniale’ » à l’Université. Si l’on doit au Ministre de l’Intérieur Géral Darmanin d’avoir le premier agité le spectre de l’islamo-gauchisme dans la société française à l’automne 2020, c’est en effet Jean-Michel Blanquer qui marqua les esprits au lendemain de l’assassinat de Samuel Paty en évoquant les « complices intellectuels » de ce crime et en déclarant que, je cite, « le poisson pourrit par la tête ». Il n’est évidemment pas possible de déterminer si l’activisme des cent, qui a conduit à la création de l’Observatoire du décolonialisme en janvier 2021 et à de très nombreuses interventions médiatiques de ses animateurs depuis, est à l’origine du changement de cap de Frédérique Vidal ou s’il n’a fait que l’accompagner, ce qui est plus probable. Il est certain, en revanche, que la Ministre de l’Enseignement supérieur, en évoquant à son tour la « gangrène » islamo-gauchiste à l’Université le 14 février 2021 et en annonçant une enquête sur le sujet, a satisfait les demandes de ces cent collègues. Ceux-ci sont d’ailleurs, de ce fait, les seuls à pouvoir se féliciter de l’action d’une ministre qui a réussi à fédérer contre elle en quelques mois — la polémique sur l’islamo-gauchisme étant la goutte d’eau qui fait déborder le vase — tout ce que le monde de la recherche compte de corps intermédiaires ou d’organismes de recherche ainsi que 23.000 signataires d’une pétition demandant sa démission.

      Que signifient exactement « décolonial » et « idéologies identitaires » pour ces auteurs ? Il n’est pas aisé de répondre à cette question car les définitions proposées sur le site de l’association sont assez sibyllines. On devine cependant que ces labels s’appliquent à tout un ensemble d’idées qui ont pour caractéristique commune de questionner la domination masculine et le racisme mais aussi la permanence du capitalisme et contribuent de ce fait, pour les membres de l’Observatoire, à une « guerre sainte menée contre l’occident ». Dans cette auberge espagnole conceptuelle il n’est cependant pas besoin d’être grand clerc pour comprendre que les convives ont quelques obsessions. L’écriture inclusive, l’identité, l’intersectionalité, le « wokisme », la racialisation, les études sur le genre ou l’analyse du fait « postcolonial » en font partie.

      À défaut d’une définition claire, concentrons-nous sur la stratégie d’argumentation des membres de l’Observatoire. Jusque là ceux-ci ont adopté une stratégie que l’on peut qualifier, sans jugement de valeur, d’anecdotique. Elle vise en effet à isoler dans le flot de l’actualité universitaire un événement, un livre ou une prise de position et à réagir à son propos de manière souvent brève ou ironique, voire sur le ton du pastiche que prisent ces observateurs. On trouve par exemple en ligne sur leur site un recueil de textes « décoloniaux », un générateur de titres de thèses « décoloniales », un lexique humoristique du « décolonialisme »… Quant aux interventions dans les médias elles se font l’écho des initiatives du gouvernement en soulignant leurs limites (par exemple en réfutant l’idée que le CNRS puisse mener l’enquête demandée par la ministre), ciblent des institutions soupçonnées de trop grande compromission avec le « décolonialisme » comme la CNCDH qui publie l’enquête la plus approfondie et la plus reconnue sur le racisme, l’antisémitisme et la xénophobie en France. Elles relaient aussi les positions d’intellectuels critiques des discriminations positives ou du « multiculturalisme ».

      Ces interventions privilégient un mode d’action singulier dans l’espace académique qui constitue la première fallace que nous pouvons attribuer à ce groupe, à savoir l’attaque ad hominem contre des chercheuses et des chercheurs (mais aussi contre des militantes et militants des mouvements anti-raciste et féministe). Nahema Hanafi, Nonna Mayer et plus récemment Albin Wagener en ont par exemple fait les frais. En soi, critiquer les arguments avancés par des personnes n’est évidemment pas un problème (c’est d’ailleurs ce que je fais ici). Mais critiquer, plus ou moins violemment, des personnes dont on ignore ou déforme les arguments en est bien un. On ne compte plus dans les textes ou interviews des membres de cet Observatoire les références à des ouvrages cités par leur quatrième de couverture, les allusions moqueuses à des recherches dont les auteur•es ne sont même pas cité•es et peut-être pas connu•es, les références à des saillies d’humoristes pour analyser des travaux de recherche ou les petites piques visant à disqualifier telle ou tel collègue. Cette fallace a d’autres variantes comme celle de l’homme de paille (on devrait d’ailleurs dire ici dela femme de paille tant il existe un biais genré dans le choix des cibles de cet Observatoire) qui consiste à fabriquer des individus imaginaires qui incarnent de manière stylisée la dangereuse chimère « décoloniale ». Le travail ethnographique de Nahema Hanafi est par exemple violemment attaqué au motif qu’il ferait « l’éloge d’un système criminel », rien de moins.

      Une autre variante de cette fallace consiste à suggérer des associations d’idées saugrenues par le détour du pastiche ou de l’ironie qui permettent aussi de critiquer sans lire mais qui remplissent un autre rôle, plus original : celui de détourner l’attention du public quant on est soi-même critiqué. Albin Wagener, qui a mené un travail d’objectivation précis de certains mots-clés considérés comme « décoloniaux » dans la production des sciences humaines et sociales (voir plus bas), est par exemple moqué dans une vidéo imitant la propagande nord-coréenne. Plus grave encore, les sciences sociales « décoloniales » et « intersectionnelles » selon l’Observatoire sont incarnées dans une autre vidéo sous les traits du personnage de Hitler joué par Bruno Ganz dans une scène très souvent détournée du film « La Chute » d’Oliver Hirschbiegel. La stratégie d’argumentation emprunte ici à la fallace du « hareng rouge » consistant pour ces auteurs à utiliser des arguments grotesques ou scandaleux pour détourner l’attention de critiques plus fondamentales qui leur sont faites. En l’occurrence, suggérer que les sciences sociales « décoloniales » ou l’analyse du phénomène raciste sont nazies est à la fois pathétique et insultant. Mais ce parallèle permet aussi de faire diversion — par l’absurde. Ce qu’il s’agit en effet de cacher c’est justement que la version du républicanisme « anti-décolonial » proposée par l’Observatoire reproduit dans ses modes d’intervention des pratiques de ce qu’il est désormais convenu d’appeler la droite « alternative » ou alt-right. Le paralogisme « c’est celui qui dit qui l’est » — aujourd’hui courant dans les milieux d’extrême-droite — fait donc son entrée, avec l’Observatoire du décolonialisme, dans le milieu académique.

      Une seconce fallace de l’argumentation est à l’oeuvre dans les prises de position des anti-décolonialistes : l’argumentation ad nauseam ou répétition sans fin des mêmes arguments. Au lieu de faire ce qui est attendu dans le monde académique, à savoir une enquête sérieuse et patiente sur chaque cas de « décolonialisme » que l’on voudrait critiquer, les membres de l’Observatoire emploient depuis des mois une stratégie consistant plutôt à distiller quelques éléments de langage sur de multiples supports en profitant des effets de caisse de résonance des réseaux sociaux. Le mécanisme est simple : tel article sur le site de l’Observatoire s’appuie sur une tribune du Point qui suscite elle-même un autre article dans le Figaro qui provoque un tweet d’une figure politique ou journalistique très suivie, lequel suscite des dizaines ou des centaines de réponses, mentions et autres retweets. De cette manière l’Observatoire et ses membres s’installent dans l’espace public sur la simple base de leur activisme de la visibilité. Ironie : un journal un peu plus sérieux cherchera alors à analyser ce phénomène et pour cela donnera la parole de manière disproportionnée aux membres de l’Observatoire ou ravivera le cliché éculé des « guerres de tranchées » universitaires qui laisse penser que tout cela, au lieu d’être une offensive inédite contre la liberté de l’enseignement et de la recherche est un effet pervers de la vie universitaire elle-même. À n’en pas douter, un autre journal trouvera bientôt ces personnalités singulières ou attachantes et se proposera d’en faire le portrait…

      Pourquoi, dès lors, des réactions plus nombreuses peinent-elles à émerger pour contrer cette logorrhée anti-décoloniale ? L’explication tient dans la loi dite de Brandolini, ou « bullshit asymmetry principle » : énoncer une ineptie ne prend que quelques minutes alors que la réfuter sérieusement prend du temps. Celles et ceux qui sont la cible des attaques de l’Observatoire ou qui envisagent de critiquer ses thèses déclarent donc souvent forfait par manque de temps mais aussi par manque d’intérêt pour la polémique en elle-même dont le niveau est accablant. Plus grave, critiquer les thèses de l’observatoire ou émettre des idées considérées comme lui par « décoloniales » expose de plus en plus souvent à des tirs de barrage considérables sur les réseaux sociaux et à des insultes et des menaces. La fallace de l’argumentation ad nauseam porte, en effet, bien son nom : dès lors que l’un des membres de l’observatoire, ou un influenceur qui se fait le relais de ses thèse, désigne aux réseaux de ses soutiens une cible à viser, celle-ci reçoit des centaines de messages infamant qui sont en soi un motif légitime d’inquiétude et supposent un surcroit de travail pour les signaler aux autorités, quand bien même il est très probable que rien ne sera fait pour les arrêter.

      La troisième fallace que l’on peut observer dans les prises de position de l’Observatoire du décolonialisme consiste évidemment à ne sélectionner dans l’ensemble de la production des sciences sociales que les quelques exemples de travaux susceptibles d’alimenter la thèse défendue, à savoir celle d’une augmentation de la production académique sur le genre, le racisme ou le « décolonialisme ». Cette fallace, que l’on qualifie souvent de « cueillette de cerises » (cherry picking) est inhérente à l’argumentation anecdotique. On ne s’attend évidemment pas à ce que les cas sélectionnés par l’Observatoire soient choisis autrement que parce qu’ils valident la thèse que celui-ci défend. Ceci étant dit on peut quand même faire remarquer que s’il existait un Observatoire de l’inégalitarisme celui-ci montrerait sans peine que la thématique du creusement des inégalités progresse fortement dans les SHS en ce moment. Un observatoire du pandémisme montrerait que de plus en plus d’articles s’intéressent récemment aux effets des structures sociales sur les pandémies et un observatoire du réseautisme que la métaphore du « réseau » a plus le vent en poupe que celle de la « classe ». En bref : le fait que des chercheurs inventent des concepts et les confrontent à la réalité sociale est inhérent à l’activité scientifique. Le fait qu’ils le fassent de manière obsessionnelle et à partir de ce qui constitue leur rapport aux valeurs, comme dirait Max Weber, aussi. La seule question qui vaille au sujet de ces recherches est : sont-elles convaincantes ? Et si l’on ne le croit pas, libre à chacun de les réfuter.

      Venons donc maintenant à l’originalité de la tribune du Figaro. Elle propose en effet un nouveau style argumentatif fondé sur une étude empirique aspirant à une telle quantification. Il s’agit en effet ni plus ni moins que d’évaluer la part des sciences humaines et sociales gangrénées par le « décolonialisme ». On imagine que les auteurs se sont appliqués puisque cette mesure est d’une certaine façon ce qui manquait jusque là à leur bagage et qu’elle répond à la demande de la ministre Frédérique Vidal tout en ambitionnant de contrer les arguments quantitatifs avancés par deux collègues qui ont au contraire montré la faiblesse de l’idée de conversion des sciences sociales au décolonialisme à partir d’analyses de corpus.

      Rappelons ces deux études dont nous disposons. D’un côté Albin Wagener a mesuré le poids quelques mots-clé dans un éventail assez large de sources (theses.fr, HAL, Cairn et Open Edition). Sa conclusion : les travaux employant des termes comme « décolonial », « intersectionnel », « racisé » ou « islamo-gauchisme » augmentent depuis les années 2010 mais restent marginaux (0,2% des thèses soutenues ou à venir en 2020, 3,5% du total des publications dans Open Editions et 0,06% dans HAL). D’un autre côté David Chavalarias a analysé le contenu de 11 millions de comptes Twitter pour mettre en évidence la marginalité du terme « islamo-gauchisme » et de ses variantes qui ne sont présents que dans 0,019% des tweets originaux analysés mais dont on peut caractériser l’origine dans des comptes de l’extrême-droite dont beaucoup ont été suspendus par Twitter parce qu’ils pratiquaient l’astroturfing, un ensemble de pratique visant à diffuser massivement des contenus en automatisant l’envoi de tweets ou les retweets de ces tweets. David Chavalarias a souligné la singularité de la stratégie du gouvernement français qui a contribué massivement en 2020 à faire sortir ce terme des cercles d’extrême-droite pour l’amener sur le devant de la scène, une stratégie proche de celle de l’alt-right américaine.

      La fallace la plus évidente que contient le texte du Figaro relève du domaine des conclusions hâtives (hasty conclusion). Les auteurs en arrivent en effet à une conclusion impressionnante (« La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientiques et la moitié (50%) de la part des publications. ») mais au prix de raccourcis logiques si évidents et grossiers qu’ils ont conduit la plupart des lecteurs de ce texte à déclarer forfait après quelques lignes et qu’ils auraient dû mettre la puce à l’oreille de tous ceux qui eurent à le lire jusqu’au bout, par exemple au Figaro (à moins que personne ne l’ait lu jusqu’au bout dans ce journal ?). Citons les quatre plus importants : le manque de spécificité de la méthode, son manque d’homogénéité, l’introduction de biais massifs d’échantillonnage et un problème confondant de mesure.

      La méthode retenue consiste d’abord à identifier quelques mots-clé considérés comme des signaux permettant de constituer un corpus de documents représentatifs des idées « décoloniales ». On en s’attardera pas sur un des problèmes possibles de ce type de méthodes qui est qu’elle conduisent à mêler dans le corpus des documents mentionnant ces mots-clés pour des raisons très différentes (pour adhérer à un chois de concept, pour le critiquer, pour le moquer…). Les auteurs évoquent ce défaut au début de l’article et ce n’est pas le plus grave. Beaucoup plus stupéfiante en effet est l’absence de prise en compte de la polysémie des termes choisis. Faisons-en la liste : « genre », « race » et « intersectionnalité » sont d’abord mentionnés mais la recherche a été vite élargie à « racisme » et « discrimination » puis à « décolonial », « post-colonial » et « islamophobie ». Les auteurs prennent la peine de signaler qu’ils ont inclus un « homographe » de « post-colonial » (à savoir « postcolonial ») mais il ne leur vient semble-t-il pas à l’esprit que certains de ces termes sont surtout polysémiques et peuvent être employés dans des contextes totalement étrangers aux questions idéologiques qui obsèdent l’Observatoire du décolonialisme. C’est notamment le cas de « genre » et de « discrimination » dont l’emploi conduit à compter dans le corpus des articles sur le genre romanesque ou la discrimination entre erreur et vérité. Un collègue m’a même fait remarquer que les trois auteurs se sont, de fait, inclus dans leur propre corpus dangereusement décolonial, sans doute par mégarde. L’un a en effet utilisé le mot « genre », pour décrire « un navigateur d’un genre un peu particulier », l’autre le même terme pour parler de de musique et le troisième — qui n’a pas de publications dans OpenEdition — mentionne quant à lui dans PubMed des méthodes permettant de « discriminer des échantillons ». Nos auteurs ont cru avoir trouvé avec leurs calculs l’arme fatale de l’anti-décolonialisme. Il semble que c’est une pétoire qui tire sur leurs propres pieds…

      Un autre problème mérite aussi d’être soulevé concernant les mots-clé choisis. Ceux-ci mélangent des concepts des sciences sociales et des termes décrivant des faits qui sont reconnus comme tels très largement. Ainsi, même si l’on laisse de côté la question de l’islamophobie, le « racisme » et les « discriminations » sont des faits reconnus par le droit et mesurés régulièrement dans quantité de documents. On pourrait comprendre que la méthode des auteurs consiste à cibler des concepts dont ils pensent qu’ils sont problématiques et dont il s’agirait dès lors de suivre l’expansion. Mais en incluant « racisme » et « discriminations » dans la sélection du corpus les auteurs trahissent une partie de l’obsession qui est la leur. Ils ne contestent en effet pas seulement le droit des sciences sociales à élaborer comme bon leur semble leur vocabulaire mais aussi leur droit à s’intéresser à certains faits comme le racisme ou les discriminations. Faudrait-il donc confier l’objectivation de ces faits à d’autres disciplines ? Ou bien tout simplement décider que ces faits n’existent pas comme le font certains régulièrement ?

      La méthode pose aussi un problème d’échantillonnage qui ne semble pas avoir vraiment effleuré les auteurs. Ceux-ci construisent un corpus fondé principalement sur la plateforme OpenEdition considérée comme « un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche » Il faut sans doute être assez éloigné de la recherche pour considérer ce choix comme pertinent, surtout lorsque l’on restreint encore le corpus en ne gardant que les blogs et événements scientifiques… Les instances d’évaluation de la recherche sont en effet — c’est d’ailleurs heureux — bien plus intéressées par les publications dans des revues de premier rang, qu’elles soient en accès libre ou pas, que par des billets de blog. Et il est de notorité commune que OpenEdition ne couvre pas tout le champ de la production scientifique et n’a pas été créé pour cela.

      Enfin, last but not least, les auteurs de ce texte utilisent pour mesurer le phénomène qui les intéresse une fallace très connue — mais dont beaucoup pensaient qu’elle avait été éradiquée de la recherche en sciences sociales — la fallace du juste milieu (ou golden mean fallacy). Celle-ci consiste à considérer que si l’on dispose de deux évaluations discordantes d’un même phénomène on peut utiliser la moyenne des deux comme solution. Essayons de suivre le raisonnement des auteurs de la tribune : « Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux. Ce dogme de la parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. » On admirera la logique qui consiste à déclarer le choix moyen — et pas médian d’ailleurs comme l’écrivent les auteurs (mais laissons cela de côté) — comme une « illusion rhétorique » (imputée à un étrange « dogme de la parité », encore un hareng rouge sans doute…) tout en faisant ce choix dans la même phrase à coups de tirets et de guillemets… On admirera aussi la logique qui assimile 0,01 à 1… À ce niveau de pifométrie, il est dommage que les auteurs ne soient pas allés jusqu’au bout de leur logique en déclarant que 100% de la recherche en sciences humaines et sociales est gangrénée par le décolonialisme. Ils auraient pu alors, comme le Dr Knock de Jules Romains, ériger en maxime le fait que, dans ces disciplines, « tout homme bien portant est un malade qui s’ignore ».

      On pourrait encore signaler au moins deux autres fallaces logiques dans ce texte. La première est l’absence de la moindre préoccupation pour la littérature pertinente sur le problème abordé. La bibliométrie (le fait de compter des publications) est pourtant une méthode reconnue de la sociologie comme de l’histoire des sciences et de nombreuses recherches l’ont appliquée au sciences sociales. Si les auteurs de ce texte avaient fait preuve d’un peu de modestie et s’étaient intéressés à cette littérature — ce qu’auraient fait des chercheurs — ils auraient évité de se fourvoyer à ce point. Ils auraient aussi découvert qu’un des résultats les plus fondamentaux de ces disciplines est que les « fronts de la recherche » progressent non pas à la mesure des occurrences de mots-clé dans la littérature scientifique mais à celle des citations des articles qui la composent.

      On peut dès lors invoquer une dernière fallace qui caractérise ce texte, celle du raisonnement circulaire : les résultats de la recherche étaient évidemment entièrement contenus dans ses prémisses et tout l’appareil méthodologique employé ne visait qu’à prouver des préjugés et à recouvrir ce tour de magie d’un voile de scientificité au moyen de divers artifices comme celui de l’argument d’autorité dont relèvent dans ce texte l’usage de mots compliqués employés à plus ou moins bon escient comme « panel », « token » ou « principe de déclarativité » et celui de raisonnements si manifestement confus qu’ils semblent forgés pour un canular scientifique. Le raisonnement établissant qu’en élargissant la recherche on arrive à baisser le nombre total d’articles décomptés est un modèle du genre : « Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme. » Tempête sous un crâne !

      À quoi peut donc bien servir ce texte si malhonnête dans son argumentation ? Il semble évident qu’il ne sert à rien pour l’avancement des connaissances sur l’évolution des sciences humaines et sociales. Reste donc son efficacité politique. En affirmant haut et fort que le quart de la recherche française en sciences humaines et sociales est gangréné par le « décolonialisme » (une affirmation que n’importe quel journaliste un peu au fait du monde de la recherche aurait dû trouver immédiatement ridicule, mais semble-t-il pas celles et ceux qui éditent les tribunes du Figaro) les auteurs de ce texte alimentent évidemment une panique morale dont l’Université est aujourd’hui la cible et qui vise à justifier des politiques de contrôle gouvernemental sur l’activité d’enseignement et de recherche et, pour faire bonne mesure, la baisse des budgets qui leur sont consacrés (tout ceci étant déjà en bonne voie). Une panique morale qui vise aussi à intimider et menacer celles et ceux qui travaillent sur les inégalités et les discriminations liées au genre et à l’expérience raciale dans notre société. Une panique morale qui vise enfin à polariser l’opinion en lui livrant — pour quel profit politique à venir ? — des boucs émissaires décoloniaux, intersectionnels et islamo-gauchistes à blâmer pour toutes les calamités qui affligent aujourd’hui notre société.

      https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

    • Leila Véron sur twitter

      Je vous résume l’"Observatoire" du décolonialisme en quatre points (les gens, le propos, la rhétorique, les méthodes)
      1) « observatoire » autoproclamé sans légitimité institutionnelle, composé de chercheuses et de chercheurs et de leur cercle amical bien au-delà de la recherche
      2) le propos. Propos proclamé : défendre la science, la rationalité, le débat contradictoire. Propos réel : en grande partie, des billets d’humeur sur la société, la politique, et leurs collègues.
      3) le ton : celui de la constatation indignée (ça me fait penser à ce que disait Angenot sur le style pamphlétaire, ça évite d’avoir à argumenter, genre c’est EVIDENT que c’est scandaleux), de l’insulte peu originale (ils aiment bcp liberté égalité débilité), tendance à la litanie
      La rhétorique : un peu de vrai, pas mal de faux, et beaucoup d’invérifiable/ fantasmé/ présenté de manière exagérée/tordue/de mauvaise foi. Ca me fait penser aux rhétoriques des théories du complot.
      Quand ces gens qui prétendent défendre la science ont essayé d’appuyer leurs propos sur une étude chiffrée argumentée, que croyez-vous qu’il arriva ? Ils racontèrent n’importe quoi, @gillesbastin a relevé leurs erreurs grotesques : https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

      Je ne sais pas ce que je préfère, le fait d’assimiler 0,01 à 1 ou de dire « certains disent que c’est 0,01% de la recherche qui est décoloniale, nous on disait 50%, ben on n’a qu’à choisir le milieu ma bonne dame ». La rigueur scientifique !

      4) la méthode : le contraire de l’argumentation scientifique et en plus ils l’assument : « On fait dans le pamphlet et dans l’ironie » déclare M. Salvador (co-fondateur). On pourrait rajouter le trollage, avec des vidéos et montages de collègues

      Je ne me remets pas de cette citation de XL Salvador « Si on est réduits à sortir un observatoire qui a ce ton, c’est bien parce qu’on n’arrive pas à mener ce débat. C’est un appel au secours d’amant éconduit »
      Bien vu pour l’incapacité à mener un débat scientifique...
      .. mais cette métaphore sérieusement ! J’ai envie de dire qu’il y a d’autres moyens que l’insulte et le pleurnichage pour gérer sa peine d’amant éconduit, non ?
      Conclusion : contradictions, les gens de l’observatoire hurlent au danger de la politisation dans la science et sont archi engagées politiquement dans des sujets divers qui excèdent largement la recherche (ce qui est leur droit, mais le niveau de mauvaise foi est énorme).
      J’ai oublié, stratégie : le matraquage. Les mêmes dénonciations, les mêmes textes vides, les mêmes pastiches, les mêmes vannes dans des bouquins, articles, site1, site2, site3... et sur twitter.
      Ca conduit à des situations où ces gens qui dénoncent l’écriture inclusive et la recherche sur l’écriture inclusive finissent par ne quasi plus parler que de l’écriture inclusive (alors que ce qu’ils et elles faisaient avant avait un autre niveau !) Marche aussi pour la race.
      On leur souhaite une bonne fin de carrière chez Causeur ou CNews, et un bon courage à toutes les chercheuses et chercheurs qui ont déjà assez de luttes à mener et qui se prendront leurs attaques. Par expérience : n’hésitez pas à porter plainte si besoin est (insulte, diffamation).

      https://twitter.com/Laelia_Ve/status/1405257470709317634

  • L’écriture inclusive : parlons faits et science – Bunker D
    https://www.bunkerd.fr/ecriture-inclusive

    Peggy Sastre a beau jeu de nous rappeler que «  le #langage n’est pas une baguette magique capable de modeler la société à sa guise  » , ou l’autrice de l’AFIS que «  ce n’est pas en supprimant certains mots du vocabulaire, tels que “mademoiselle” ou “manger”, que la faim n’existera plus ou qu’il n’y aura plus de femmes célibataires  !  » , le fait est que personne ou presque ne le prétend (et soit dit en passant, le célibat des femmes n’est pas le sujet de l’opposition à «  mademoiselle  »). En plus de caricaturer la défense de l’#écriture_inclusive (on parle d’#homme_de_paille), ce genre de #rhétorique agit comme s’il fallait qu’un outil ait à lui seul un impact majeur pour être digne d’intérêt (#sophisme_du_Nirvana), ou comme si l’absence d’effet majeur équivaudrait à l’absence d’effet tout court (#faux_dilemme).

  • Ecriture inclusive dans les administrations : savoir de quoi on parle – Libération
    https://www.liberation.fr/politique/ecriture-inclusive-dans-les-administrations-savoir-de-quoi-on-parle-20210

    Un député de la majorité vient de déposer une proposition de loi pour interdire l’écriture inclusive dans les administrations, au mépris des recherches en sciences sociales détaillant l’impact sexiste de l’utilisation du masculin comme neutre générique.

    Olivier Lebreton plagie les éructations idiotes de Raphaël Enthoven contre l’écriture inclusive.
    https://larotative.info/pour-s-opposer-a-l-ecriture-4008.html
    https://peertube.slat.org/videos/watch/fba79c2a-e9c1-496f-8173-88d482ac25f9
    #écriture_inclusive

  • #Laélia_Véron : « Des gens utilisent l’#écriture_inclusive sans le savoir »

    Laélia Véron, maîtresse en stylistique et langue françaises à l’université d’Orléans et militante féministe, s’étonne de la propositon de loi de François Jolivet qui veut interdire l’utilisation de l’écriture inclusive dans certaines conditions.

    Pouvez-vous définir ce qu’est l’écriture inclusive ? L’écriture inclusive désigne diverses modalités de représentation égale des femmes et des hommes dans la langue. Certaines ne font plus polémiques aujourd’hui, comme accorder les titres de métier au féminin, dire « la directrice », « la présidente », « la bouchère ». Il y a les mots épicènes, qui s’écrivent de la même manière au masculin et au féminin, comme « élève ». Il y a également la double flexion, comme « étudiantes, étudiants ». C’est aussi accorder à la majorité ou à la proximité plutôt que de suivre la règle du masculin qui l’emporte. Il y a enfin le point médian, qui concentre les critiques, qui est juste une abréviation à l’écrit de la double flexion : « étudiant.e.s ». Il s’agit donc d’un ensemble de modalités que l’on peut utiliser selon ses préférences, selon le contexte. Il paraît absurde de prétendre interdire l’écriture inclusive : faut-il interdire à Emmanuel Macron de dire « Françaises, Français » ou mettre une amende à un professeur qui dira « bonjour à toutes et à tous » ?
    Quel est l’intérêt de son utilisation ? Des gens utilisent l’écriture inclusive sans le savoir. Personnellement, j’emploie peu le point médian, je m’adapte selon les contextes. Ça peut être un souci de représentation égale des femmes et des hommes dans la langue ou par souci de précision. Certaines formules créent une ambiguïté. On peut essayer de la lever comme avec « les Droits de l’Homme » : parle-t-on des droits humains ou des droits qu’ont eu les hommes et pas les femmes ?
    Des inégalités ancrées jusque dans la langue ? La langue est un lieu de bataille politique mais la règle du masculin qui l’emporte sur le féminin n’existe pas depuis si longtemps, elle a mis du temps à s’imposer et a soulevé des controverses. Madame de Sévigné s’exprimait contre ces règles de masculinisation du français. Le mot « autrice » faisait déjà débat au 17e siècle. À cette époque, certains grammairiens ont voulu masculiniser le français pour des raisons idéologiques. L’un d’eux, Nicolas Beauzée, parlait du « genre noble » contre le « genre femelle ». Mais la règle de l’accord de proximité est encore utilisée naturellement, à l’oral notamment : on dit plutôt « des chants et des danses bretonnes », on accorde l’adjectif avec le mot le plus proche, plutôt que « des chants et des danses bretons ».
    François Jolivet propose de s’aligner sur l’Académie française, qu’en pensez-vous ? L’Académie française n’est pas une institution légitime en matière de langue ; elle ne comporte pas de linguistes. Elle s’était, par exemple, élevée contre la féminisation des noms de métier alors que l’usage s’est mis à le faire, dans tous les pays francophones. Elle ne l’a admis, que quarante ans après… Je tiens aussi à préciser que, concernant les problèmes de dyslexie, dyspraxie et cécité, la recherche n’a pas encore de résultat clair pour savoir si le point médian procure des difficultés de lecture et les associations elles-mêmes ont des avis différents.

    https://www.lanouvellerepublique.fr/chateauroux/des-gens-utilisent-l-ecriture-inclusive-sans-le-savoir

  • Les #discriminations liées au #genre dans la langue française

    Cet article a été rédigé dans le cadre du projet Plateforme. Plateforme est une initiative créée et menée conjointement par les équipes de l’éducation, du commissariat et de l’expérience du·de la visiteur·euse de la Fondation PHI. Par diverses activités de recherche, de création et de médiation, Plateforme favorise l’échange et la reconnaissance des différentes expertises des membres de l’équipe de l’expérience du·de la visiteur·euse, qui sont invité·e·s à explorer leurs propres voie/x et intérêts.

    Je me rappelle très clairement la première fois que j’ai entendu la règle grammaticale « le masculin l’emporte sur le féminin ». Alors en deuxième année du primaire, âgée de huit ans, je ne comprenais pas pourquoi cette règle existait et je la trouvais profondément frustrante. Mon enseignante était manifestement mal à l’aise avec cette leçon qu’elle devait nous donner et, à mon grand désespoir, je voyais que cette convention grammaticale réjouissait plusieurs de mes camarades masculins. Aujourd’hui, en tant que féministe queer, je suis encore plus choquée par cette règle car je connais les causes systémiques de son existence. Celle-ci trouve sa source dans la manière dont on nous force depuis des siècles à conceptualiser le genre en Occident, soit en se basant sur « la structure idéologique, morale, sociale, culturelle, politique qui consiste à figer les identités de genre des membres d’une société selon deux polarisations uniques et distinctes : les genres “homme” et “femme” » [1] et en décrétant que le genre est défini par les organes génitaux.

    Comme n’importe quel aspect d’une société, le langage est malléable. Il évolue au fil du temps et peut être mis au service de différentes idéologies. Le français est porteur de plusieurs problématiques, dont les discriminations liées au genre. Ces dernières sont fortement ancrées dans la langue française, qui enferme ses sujets dans les catégories socialement construites d’« homme » et de « femme » et rendent ainsi invisibles les personnes non binaires. Ces discriminations sont la résultante d’une extrême violence physique et psychologique qui a sévi partout sur la planète à cause du colonialisme européen. De nombreuses cultures respectaient et incluaient pourtant activement dans leurs sociétés des identités traditionnelles de genre non binaires depuis des temps immémoriaux, par exemple les personnes bispirituelles de l’Île de la Tortue (Amérique du Nord), les Quariwarmi de la société inca du Pérou précolonial et les Hijras en Asie du Sud [2], pour n’en citer que quelques-unes. Le terme « non binaire » est employé comme terme parapluie par celleux qui ne sont « ni exclusivement un homme ni exclusivement une femme [3] », ces personnes pouvant s’identifier partiellement à un genre, mais pas entièrement, à plusieurs genres, à aucun genre, etc [4]. Il y a autant d’expériences de genre qu’il y a d’individus, le genre étant plus qu’un spectrum mais bien une intersection unique que nous occupons comme une position mobile sur une carte, un univers abstrait et complexe qui ne se situe pas simplement entre deux pôles distincts. C’est un concept socialement et culturellement construit qui existe indépendamment de la biologie et qui est indissociablement lié avec différents types d’oppressions (classisme, racisme, validisme, etc.) qui influencent la manière dont il est vécu. Tout comme les femmes, les personnes non binaires sont effacées du discours francophone, car différentes règles grammaticales prônent la supériorité du genre masculin, un biais cognitif qui s’intègre inconsciemment dans l’imaginaire collectif. Appliquer la grammaire française à la lettre renforce le sexisme et la transphobie dans notre société. Heureusement, de nouvelles formes d’écriture viennent pallier la situation. Celles-ci seront présentées plus loin dans le texte.

    Historiquement, le français n’a pas toujours été dominé par le masculin. C’est au 17e siècle qu’il commence à se masculiniser, à la suite de la création de l’Académie française en 1635. Cette réforme de la langue n’est pas un choix linguistique, mais bien un choix politique. En effet, l’Académie française, alors formée exclusivement d’hommes, se base sur des arguments sexistes pour faire disparaître des termes comme peintresse, philosophesse, médecine, autrice et poétesse de l’usage courant [5]. Louis-Nicholas Bescherelle, créateur de l’ouvrage grammatical portant le même nom, l’énonce clairement : « on ne dit pas professeuse, graveuse, compositrice […] par la raison que ces mots n’ont été inventés que pour les hommes qui exercent ces professions [6] ». Pourtant, au Moyen Âge, les termes qui évoquaient des positions de pouvoir ou des métiers valorisés existaient tant au féminin qu’au masculin : c’est la preuve que la masculinisation de la langue a été un choix motivé par une idéologie patriarcale. Jusqu’au 17e siècle, il était également question de l’utilisation de l’accord de proximité. Par exemple, dans la phrase « les hommes et les femmes sont intelligentes », le mot « intelligent » s’accordait au féminin puisque le nom commun « femmes » est plus proche de l’adjectif que le nom commun « hommes ». Cependant, en 1647, Claude Favre de Vaugelas, un des premiers académiciens, déclare que « le genre masculin étant le plus noble [il] doit prédominer toutes les fois que le masculin et le féminin se trouvent ensemble [7] ». La règle fut donc changée pour que la forme masculine soit désignée comme la forme dite « neutre », communément appelée le masculin générique. Dans plusieurs langues, le genre neutre est présent, entre autres en anglais, en allemand et en suédois, ce qui peut faciliter l’inclusion des genres non binaires, chose plus difficile en français. Si on observe la phrase « il fait beau », on se rend vite compte que même l’impersonnel est régi par le masculin générique. Questionner la binarité rigide de notre grammaire nous permet de remettre en question bien plus que des accords et des mots, mais la construction même de notre organisation sociale.

    Heureusement, dans plusieurs pays francophones, on observe une évolution à partir du milieu des années 1980 quant à la place de la rédaction non sexiste dans la société, et ce, malgré la réticence de l’Académie française, qui opte pour une position réactionnaire et conservatrice. Le Québec est alors un précurseur en ce qui a trait à la féminisation du français, et c’est en 1979 que l’Office de la langue française présente un décret qui recommande la féminisation lexicale des titres et des métiers [8]. Bref, la langue française n’a pas toujours été ce qu’elle est aujourd’hui à cause de l’influence d’idéologies politiques oppressantes, mais elle continue, malgré les avancées, à avoir grand besoin d’être adaptée pour qu’on puisse y intégrer toutes les personnes qui composent la société, notamment en ne s’arrêtant pas à sa féminisation mais en visant sa neutralisation.

    Le langage inclusif est une forme d’activisme du quotidien, puisqu’il permet d’inclure la présence des femmes et des personnes non binaires dans notre corps social. Le langage est ce qui permet de concevoir la réalité qui nous entoure. Il influence notre façon de s’y projeter, car c’est par l’association de concepts et d’images qu’on peut se positionner dans le monde. Dans l’ouvrage Grammaire non sexiste de la langue française, l’autrice Suzanne Zaccour et l’auteur Michaël Lessard mentionnent une étude qui a comparé l’emploi d’une grammaire binairement inclusive et celui d’une grammaire exclusive. Dans cette étude, on a demandé aux participant·e·xs de s’imaginer une personne connue en utilisant le masculin générique, c’est-à-dire en utilisant des termes comme « un artiste », « un héros », etc. Les résultats sont les suivants : « En moyenne, 23% des représentations mentales sont féminines après l’utilisation d’un générique masculin, alors que ce même pourcentage est de 43% après l’utilisation d’un générique épicène » [9]. Cette étude appuie l’idée que d’omettre d’utiliser un langage inclusif contribue à maintenir les stéréotypes de genre dans l’imaginaire populaire. Ainsi, chaque fois qu’un terme est utilisé uniquement au masculin générique, on occulte la possibilité des femmes et des personnes non binaires de s’identifier à ce dont il est question. Pour ces raisons, rendre la langue française inclusive représente un projet important, c’est un projet politique de tous les jours qui permettra à toutes les personnes qui composent la société d’y trouver leur place et d’y participer activement.

    Les prochaines lignes se veulent un petit guide de rédaction inclusive. Il faut noter que le processus de transformation de la langue est dynamique. Les réalités sociales étant sujettes à évoluer rapidement, il se peut que les procédés à privilégier aujourd’hui évoluent avec le temps ou que de nouveaux procédés soient créés. Il n’existe pas encore de règles fixes pour encadrer l’utilisation de certaines des techniques qui suivent, car celles-ci résultent d’une grammaire émergente. Pour obtenir un texte fluide, il est recommandé d’écrire dès le départ de manière inclusive au lieu d’essayer de modifier des textes déjà écrits au masculin générique. On peut également varier les méthodes dans un même texte ou discours oral. Il est très important de noter que les méthodes de rédaction qui permettent l’inclusion des personnes non binaires sont à privilégier (un tableau récapitulatif se trouve à la suite de la liste des techniques).

    1. LES TERMES ÉPICÈNES

    – Cette technique consiste à employer des termes ayant la même forme au masculin et au féminin.

    – Exemples : le·a responsable, unE guide, des personnes, mon adelphe [10]

    2. LES TOURNURES GÉNÉRIQUES

    – C’est l’utilisation de noms collectifs pour désigner un groupe.

    – Exemples : la présidence, le public, la direction

    3. LES GRAPHIES TRONQUÉES

    – Avec l’aide d’un signe typographique, on ajoute les finales féminines et neutres aux termes masculins.

    Pour conclure, il est important que toutes les personnes composant la société prennent conscience de l’héritage sexiste et transphobe de la langue française et prennent une distance critique face à certaines règles qui la régissent. Il est aussi primordial de reconnaître l’impact que peut avoir l’emploi du masculin générique sur chaque individu, et de faire l’effort d’utiliser une grammaire inclusive pour toustes, que le contexte soit professionnel ou personnel. Il ne faut pas s’arrêter à la féminisation des termes, mais viser des changements plus radicaux en privilégiant la queerisation [13] (ou neutralisation) du français pour inclure les personnes non binaires dans le langage. Pour s’assurer de respecter l’identité de chacun·e·x, on peut aussi, lors d’un échange de vive voix ou par écrit, introduire ses pronoms (elle, il, iel, ielle, ul, al, etc.) et ensuite inviter son interlocuteur·trice·x à faire de même. Il ne faut pas présumer, par exemple, qu’une personne qui a « l’air d’une femme » selon les standards de notre société s’identifie nécessairement comme telle. Cette pratique simple gagne à être normalisée, tout comme l’utilisation de la grammaire inclusive.

    À propos de l’auteure

    Anna Hains-Lucht explore par une pratique pluridisciplinaire les thèmes de l’identité, du corps, de la temporalité, de la psyché et du militantisme. Intéressée par la justice sociale et la relation d’aide dans les milieux communautaires, elle aspire à devenir travailleuse de rue et d’inclure l’art comme outil thérapeutique dans ses interventions.

    Références :

    [1] Seinouille. 2016. « Décolonisons le genre. Genre et (post-)colonialisme : comment ces mots sont-ils liés ? »
    https://seinseya.wordpress.com/2016/04/12/decolonisons-le-genre-genre-et-post-colonialisme-comment-ces-mot
    [2] La vie en queer. 2018. « Genres en dehors de la binarité occidentale »
    https://lavieenqueer.wordpress.com/2018/05/06/genres-en-dehors-de-la-binarite-occidentale
    [3]La vie en queer. 2018. « Les erreurs d’utilisation du terme non-binaire. » https://lavieenqueer.wordpress.com/2018/06/02/les-erreurs-dutilisation-du-terme-non-binaire
    [4] La vie en queer. 2018. « Les identités de genres non-binaires. »
    https://lavieenqueer.wordpress.com/2018/06/02/les-identites-de-genres-non-binaires
    [5] Lessard, Michaël et Zaccour, Suzanne. 2017. Grammaire non sexiste de la langue française. Saint-Joseph-du-Lac : M Éditeur, p. 10
    [6] Lessard, Michaël et Zaccour, Suzanne. 2017. Grammaire non sexiste de la langue française. Saint-Joseph-du-Lac : M Éditeur, p. 11
    [7] Lessard, Michaël et Zaccour, Suzanne. 2017. Grammaire non sexiste de la langue française. Saint-Joseph-du-Lac : M Éditeur, p. 12
    [8] Lessard, Michaël et Zaccour, Suzanne. 2017. Grammaire non sexiste de la langue française. Saint-Joseph-du-Lac : M Éditeur, p. 181
    [9] Lessard, Michaël et Zaccour, Suzanne. 2017. Grammaire non sexiste de la langue française. Saint-Joseph-du-Lac : M Éditeur, p. 18
    [10] Martin, Gabriel. 2016. « La queerisation du français – De frère et soeur à adelphe (Tribune Libre). »
    http://www.lecollectif.ca/la-queerisation-du-francais-de-frere-et-soeur-a-adelphe-tribune-libre
    [11] Alpheratz, 2018. « Genre neutre »
    https://www.alpheratz.fr/linguistique/genre-neutre
    [12] Ashley, Florence. 2019. « Les personnes non-binaires en français : une perspective concernée et militante. » H-France Salon Volume 11, Issue 14, #5. https://www.florenceashley.com
    [13] Martin, Gabriel. 2016. « La queerisation du français – La création du genre épicène »
    http://www.lecollectif.ca/la-queerisation-du-francais-la-creation-du-genre-epicene

    https://fondation-phi.org/fr/article/discriminations-liees-genre-langue-francaise/#six

    #français #langue #écriture_inclusive

  • Contre la #récupération du #handicap par les personnes anti-#écriture_inclusive

    « billet pour dénoncer la récupération du handicap par les personnes qui s’opposent à l’écriture inclusive. Écrit par les personnes concernées par le validisme et le sexisme, ce billet demande aux personnes non concernées de cesser de brandir l’argument de la #cécité, de la #dyslexie ou de la #dyspraxie pour justifier leur position, et aux personnes concernées mais réactionnaires d’arrêter de parler au nom de toute la communauté handie » (Efigies Lyon, 15 décembre 2020 : https://efigies-ateliers.hypotheses.org/5274).

    –-> par les membres du Réseau d’Études HandiFéministes (REHF)
    Publié originellement sur Efigies, 15 décembre 2020

    Les membres du Réseau d’Études HandiFéministes (REHF), concernées pour la plupart par le sexisme et le validisme et chercheurses à l’université ou ailleurs, exprimons aujourd’hui notre désaccord et dénonçons la récupération du handicap pour justifier des positions anti- écriture inclusive, par des personnes généralement concernées ni par le sexisme, ni par le validisme. Au nom de la cécité, de la dyslexie ou de la dyspraxie, certain-e-x-s s’opposent à l’usage et au développement de l’écriture inclusive. Pour le REHF, il s’agit d’un argument doublement fallacieux.

    En premier lieu, cet argument tend à homogénéiser l’opinion de l’ensemble des personnes déficientes visuelles et avec des troubles dys. Il existe assurément des handi-e-x-s qui défendent l’écriture inclusive. Il est donc problématique que des personnes non concernées ne consultent pas ou s’expriment à la place des personnes concernées par le validisme, tout comme il est problématique que des personnes concernées ne considèrent pas la pluralité des discours sur ces débats. En effet, l’argumentation s’appuie parfois sur des textes publiés par des personnes handicapées, à l’instar de la lettre de la Fédération des Aveugles de France, intitulée « Les aveugles disent non au mélange des genres ». Le REHF doute fortement que l’ensemble des aveugles de France aient été interrogé-e-s sur la question. Par ailleurs, le REHF s’oppose aux points suivants1 :

    « […] Nous ne saurions pas mélanger les genres : si l’on peut dire et faire de la question de la construction de la langue un sujet qui aurait rapport avec une quelconque discrimination sexuelle, c’est là faire preuve d’une inculture incroyable et de confusion redoutable. »

    « C’est donc un bien pitoyable combat que celui de se battre à peu de frais contre une règle arbitraire, en la faisant passer pour le symbole d’une discrimination sociale. »

    Le mépris pour l’écriture inclusive dans ces deux extraits fait fi de toute une littérature scientifique sur la question. Tout d’abord, la sociolinguistique s’échine à montrer, depuis le XIXe siècle, qu’une langue est socialement construite et, à ce titre, qu’elle reflète les rapports sociaux dans leur ensemble. Donc lorsqu’il est dit que le masculin l’emporte sur le féminin, ce n’est pas sans raison, ni sans incidence. Loin d’être une règle arbitraire, cette oppression organisée discrimine et dissimule des populations dominées. Ensuite, l’histoire et la grammaire ont également révélé que cette hégémonie masculine au sein de la langue française est très récente (seconde moitié du XVIIe siècle), et qu’elle a entraîné une perte de vocabulaire, un vocabulaire aujourd’hui réinvesti par les défenseurses de l’écriture inclusive. Enfin, les études du discours ont expliqué que l’écriture inclusive n’est pas qu’une simple histoire de « mélange des genres ». Sur tous ces sujets, nous invitons nos interlocuteurices à se renseigner.

    En second lieu, l’argument du handicap pour les positions anti écriture inclusive n’est pas valide au niveau technique, et ce, à double titre. Premièrement, c’est placer le problème au mauvais endroit. Le souci, ce n’est pas l’écriture inclusive en tant que telle, mais, d’un côté, c’est la programmation des logiciels de synthèse vocale utilisés par les personnes déficientes visuelles, et, de l’autre, c’est l’absence d’éducation à ce sujet. De fait, lire un point médian avec un lecteur d’écran est, à l’heure actuelle, quelque chose de désagréable, voire d’incompréhensible. Mais si les programmateurices travaillaient à modifier cela, il n’y aurait plus de problème. Donc nous préférons condamner le sexisme qui préside à la programmation des logiciels, plutôt que l’antisexisme qui motive l’usage de l’écriture inclusive.

    Deuxièmement, il existe, dans l’état actuel des choses, de nombreux procédés qui permettent aux logiciels de synthèse vocale de lire confortablement l’écriture inclusive. Par exemple, il suffit d’intervenir dans le terminal du logiciel pour modifier la verbalisation du point médian, à condition d’avoir quelques compétences en informatique, ou d’avoir un·e valide sous la main qui daigne s’abaisser à cette tâche. Nous n’avons pas l’outrecuidance de dire que l’inculture n’est pas là où il paraît. Par exemple encore, il existe d’autres outils que le point médian, parfaitement lisibles par des lecteurs d’écran. C’est le cas des traits d’union (jusqu’à maintenant, nous croyons savoir que les déficient-e-s visuel-le-s n’ont pas demandé à supprimer les mots composés de la langue française), des points normaux ou des slashs, des répétitions de termes avec un accord en genre différent, des néologismes, etc. Nous pouvons donc écrire « auteurs et autrices », ou bien « auteurs-trices », ou encore « auteurices », et nos synthèses vocales, de même que nos oreilles, s’en portent très bien.

    Par ailleurs, la complexité de la langue française pour les dyslexiques (causée, en partie, par son opacité, c’est-à-dire par sa non-correspondance entre orthographe et phonologie) est une question qui doit être traitée dans son ensemble, et non pas à l’aune de l’écriture inclusive. Chercher à rendre la langue française accessible aux personnes dys est un travail qui, d’une part, mérite tout notre intérêt et, d’autre part, ne doit pas servir à évincer d’autres réformes linguistiques, telles que l’écriture inclusive, permettant de lutter contre d’autres discriminations, en l’occurrence le sexisme. Le REHF soutient donc la création de solutions ou alternatives non discriminantes.

    Nous notons aussi la manière dont les personnes neuro-atypiques (ou neuro-diverses), d’ordinaire évacuées de la plupart des discours dominants, se retrouvent souvent utilisées dès qu’il s’agit de contrarier l’utilisation de l’écriture inclusive ; notamment dans les sphères intellectuelles, scolaires ou encore universitaires, etc., et ce, malgré la méconnaissance évidente des enjeux neurologiques, neurocognitifs, neurocomportementaux, sociaux, de même que l’ignorance des précarités et des discriminations auxquels ces personnes font face au quotidien.

    Si l’utilisation de l’écriture inclusive et sa lecture représentent effectivement, pour les personnes dys et multi-dys, des enjeux et des efforts supplémentaires, c’est précisément parce que la langue française est sexiste. Et c’est pour pallier ces manquements qu’elle nous oblige à faire cette gymnastique, afin de faire exister, par les mots, celleux qu’elle oublie.

    Pour toutes ces raisons, le REHF défend l’usage d’une écriture inclusive pour toustes et par toustes. Pour une présentation détaillée des enjeux et des formes d’écriture inclusive, nous conseillons à nos interlocuteurices de cliquer sur le lien suivant : https://fondation-phi.org/fr/article/discriminations-liees-genre-langue-francaise

    Pour aller plus loin

    « Les discriminations liées au genre dans la langue française.Vers une plus grande inclusion des femmes et des personnes non binaires », par Anna Hains-Lucht, Fondation Phi, 2 novembre 2020 : https://fondation-phi.org/fr/article/discriminations-liees-genre-langue-francaise/#six

    https://academia.hypotheses.org/29829

  • Qu’est ce qui gêne dans le mot « humain » ?
    http://blog.plafonddeverre.fr/post/Comment-les-hommes-r%C3%A9sistent-ils

    Voici quelques titres d’articles que j’ai relevés ces derniers jours. On se demande bien à quoi s’occupent les femmes pendant que les hommes font face à des épidémies. Et je me demande pourquoi c’est si compliqué de mettre « les humains » ou « les gens » ou « les hommes et les femmes ». Cela fait partie d’une habitude à prendre, qui ne consomme aucun temps.

    Sur une page facebook de la Réserve sanitaire (organisme tout à fait officiel) j’ai commenté un post qui faisait le décompte de « jours hommes » mis à disposition des établissements de santé, en faisant remarquer qu’il y avait davantage de « jours femmes ». Je me suis prise une volée de bois verts au motif qu’on avait autre chose à penser.

    Des épidémies et des hommes. (France Culture)
    Comment les hommes ont résisté aux pires épidémies (Nouvel Obs)
    Des épidémies et des hommes. (Le monde)

    En cherchant sur votre moteur de recherche préféré « hommes et épidémie » vous en trouverez toute une kyrielle. Les seuls qui parlent d’hommes et de femmes sont ceux qui comparent comment le virus touche différemment les unes et les autres.

    #femmes #hommes #invisibilisation #male_gaze

    • Polémique dernièrement sur seenthis à propos des dires de paléoanthropologue de Pascal Picq sur les violences faites aux femmes et son gène … sa page WP qui le cite m’a fait tiquer sur sa distinction entre homme et humain.
      Y’a encore du chemin à faire pour que les femmes existent.

      Dans ce même texte, Picq répond à sa propre interrogation en affirmant que : « L’humain est bien une invention des hommes, qui repose sur notre héritage évolutif partagé, mais n’est pas une évidence pour autant. Homo sapiens n’est pas humain de fait. Il a inventé l’humain et il lui reste à devenir humain, ce qui sera fait lorsqu’il regardera le monde qui l’entoure avec humanité. »

      #pseudo_philosophe
      #lmsi

    • « Humain » ca reste au masculin, c’est moins affreux que « homme » et « Homme » mais c’est pas satisfaisant pour autant. « être humain » ça serait un peu mieux. « Femmes et hommes » ca me semble la meilleur tournure.

  • Un Genevois crée la première #typo inclusive

    Étudiant à la HEAD, #Tristan_Bartolini a inventé plus de 40 caractères typographiques non genrés. Il vient de recevoir le Prix Art Humanité 2020 de la Croix-Rouge.

    On aurait adoré ponctuer cet article de mots comprenant des signes typographiques inventés par Tristan Bartolini. Juste pour rendre le propos limpide et distrayant. Mais c’est impossible. Notre clavier ne connaît pas ces caractères-là. Notre clavier est vieux jeu. Mais dans dix ans peut-être, tous les rédacteurs de la planète utiliseront « l’inclusif-ve » pour taper leur prose.

    On notera au passage la mocheté de ce « sif-ve » à la fin d’« inclusif-ve ». C’est justement pour éviter ces acrobaties graphiques – et œuvrer pour un monde meilleur – que le jeune Tristan a créé une typo épicène. Et raflé conséquemment le Prix Art Humanité 2020 de la Croix Rouge la semaine dernière.
    Coup de foudre pour la typo

    Mais reprenons depuis le début. Un CFC de graphisme en poche, Tristan Bartolini se retrouve sur les bancs de la HEAD. Il y découvre les arcanes de la typographie. Coup de foudre. « C’est une activité sans fin, quasi méditative. Il y a toujours une courbe à rectifier. J’adore. On s’immerge corps et âme dans ce travail. D’abord, j’ai redessiné des lettres qui existaient déjà. Et puis j’ai voulu m’échapper de l’alphabet. »

    Le Genevois cherche un thème pour son travail de diplôme. « Un thème au service d’une cause, en accord avec mes engagements et convictions. » Une police de caractères inclusive s’impose comme une évidence. « L’idée m’est tombée du ciel. Il y avait beaucoup de débats autour de l’écriture épicène. Elle devenait de plus en plus fréquente dans les documents administratifs, les publicités. Je me suis dit que ce n’était pas qu’une affaire de linguistes, que l’on pouvait amener des solutions graphiques. »

    Le concept ? Simple et lumineux : la création de nouveaux caractères non genrés, en lovant deux ou plusieurs lettres. Oui, comme dans le joli bisou du O et du E dans notre vieux « Œ ». Tristan enlace donc le E et le A de Le et La ; le P et le M de Père et Mère ; voire le HO et FE de Homme et de Femme. Adieu barbants tirets, points et parenthèses. Voyez l’osmose typographique. Voyez l’ouverture du champ des possibles entre les deux pôles extrêmes que sont le masculin et le féminin.

    Encore fallait-il rendre cette étreinte élégante. C’est là que l’art du graphiste entre en scène. Après des mois de cogitations et préalables théoriques, Tristan se met à la création graphique proprement dite en mars dernier, alors que sonne le sinistre clairon du confinement. « Il me fallait une systématique. J’avais un critère de base : la visibilité. Je voulais des caractères évidents, pratiques, faciles d’utilisation. J’ai opéré d’interminables allers-retours, en poussant l’expérimentation au plus complexe pour souvent revenir au plus simple », sourit le jeune homme.
    Le début d’un grand chamboulement

    À l’orée de l’été, « l’inclusif-ve » déroule une quarantaine de nouveaux signes épicènes, superposables aux terminaisons genrées, pronoms et même à certains mots. C’est ingénieux. C’est poétique. C’est peut-être aussi le début d’un grand chamboulement graphique et sociétal.

    Et maintenant ? « J’aimerais que ce projet ne soit qu’un début. Ce système de caractères peut s’adapter à d’autres polices d’écriture. Dès lors, ce serait bien que des typographes intègrent mes signes dans leurs propres créations. J’ai simplement créé un outil de communication. D’autres pourraient l’utiliser pour faire passer un message. »

    https://www.tdg.ch/un-genevois-cree-la-premiere-typo-inclusive-168461901432
    #typographie #écriture_inclusive #écriture_épicène #français #langue #écriture #langue_française

    ping @reka @nepthys

  • Écriture inclusive : un premier bilan de la #controverse

    Le 18 septembre 2020, une tribune publiée dans Marianne (https://www.marianne.net/agora/tribunes-libres/une-ecriture-excluante-qui-s-impose-par-la-propagande-32-linguistes-listen) signée par 32 linguistes prenait clairement position contre l’écriture inclusive ou, plus exactement, contre l’utilisation des graphies abrégées (par exemple : les étudiant·e·s). Cette tribune se présentait comme une mise au point objective dénonçant une pratique qui, selon ses signataires, « s’affranchit des #faits_scientifiques ».

    Les réactions ne se sont pas fait attendre. Le 25 septembre 2020, une tribune signée par 65 linguistes (https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/250920/au-dela-de-l-e-criture-inclusive-un-programme-de-travail-pour-la-lin) prenait le contre-pied de la première, alors que paraissaient en même temps un texte signé par Éliane Viennot et Raphaël Haddad et diverses analyses critiques (https://sysdiscours.hypotheses.org/155). Cette controverse pourrait paraître anecdotique. En réalité, on peut en tirer quelques enseignements intéressants sur les langues et leur fonctionnement, ainsi que sur l’utilisation du discours scientifique expert pour fonder des discours prescriptifs (« il faut… il ne faut pas… ») (https://information.tv5monde.com/video/l-ecriture-inclusive-pour-mettre-fin-l-invisibilisation-des-fe).

    Quelques jalons historiques

    Il y a 30 ans, en #France, un mouvement a conduit à la #féminisation des noms de fonctions, de métiers, de titres et de grades. Très vite relayé par les instances politiques, il visait à « apporter une légitimation des #fonctions_sociales et des #professions exercées par les #femmes » (Décret du 29 février 1984). Il a réussi à imposer, dans les usages et jusque sous la coupole de l’#Académie_française (déclaration du 28 février 2019), l’emploi de #formes_féminines qui ont été tantôt créées (une ingénieure, une sapeuse-pompière), tantôt réhabilitées (une autrice, une officière) ou tantôt simplement plus largement diffusées (la présidente, la sénatrice).

    Cette #prise_de_conscience a permis de faire évoluer la #langue_française de manière à répondre aux besoins des personnes qui s’expriment en #français. La difficulté à laquelle les francophones font face aujourd’hui concerne les (bonnes) manières d’utiliser ces #noms_féminins dans tous les domaines de la vie : administration, enseignement, politique, création artistique, entreprise, vie quotidienne, etc. L’écriture inclusive désigne non plus la féminisation, mais l’usage de ces noms féminins à côté des noms masculins dans les textes.

    L’écriture inclusive, dite aussi #écriture_épicène (en Suisse et au Canada), #écriture_non_sexiste ou #écriture_égalitaire, représente un ensemble de #techniques qui visent à faire apparaître une #égalité, ou une #symétrie, entre les #femmes et les #hommes dans les textes et à adopter un langage non discriminant par rapport aux femmes. Nous choisissons ici de considérer l’écriture inclusive sans l’#écriture_non_genrée, dite aussi neutre ou #non_binaire, qui poursuit un objectif d’inclusion bien sûr, mais également très spécifique : ne pas choisir entre le féminin et le masculin et ne pas catégoriser les personnes selon leur genre.

    Les règles qui ne font (presque) pas polémique

    Certaines règles de l’écriture inclusive sont largement acceptées et figurent dans l’ensemble des guides. Il n’y a pratiquement pas de divergences concernant les éléments suivants :

    (1) Utiliser des noms féminins pour désigner des femmes dans leur fonction, métier, titre ou grade : dire « Madame la Présidente » et non « Madame le Président », « la chirurgienne » et non « le chirurgien », « l’officière de la Légion d’honneur » et non « l’officier de la Légion d’honneur ». Notons que certains noms, malgré des racines connues, ne sont pas encore accueillis sans retenue (par exemple : autrice ou professeuse).

    (2) Utiliser l’expression « les femmes » dès qu’on désigne un groupe de femmes et réserver l’expression « la femme » (ou « la Femme ») pour renvoyer à un stéréotype : dire « la journée internationale des droits des femmes » ou « la situation des femmes en Algérie » ; mais dire « cette actrice incarne la femme fatale ».

    (3) Utiliser « humain, humaine » plutôt que « homme » pour désigner une personne humaine, comme dans « les droits humains », « l’évolution humaine ».

    (4) Toujours utiliser le terme « Madame » lorsqu’on s’adresse à une femme (comme contrepartie féminine de « Monsieur » lorsqu’on s’adresse à un homme) et ne plus utiliser « #Mademoiselle », qui crée une asymétrie, puisque « #Mondamoiseau » est rarement utilisé.

    (5) Ne pas nommer une femme d’après la fonction ou le titre de son mari : dire « la femme de l’ambassadeur » et non « l’ambassadrice ».

    (6) Utiliser les noms propres des femmes comme on utilise ceux des hommes. Ne pas utiliser le prénom d’une femme lorsqu’on utilise le nom de famille d’un homme, par exemple dans un débat politique (ne pas dire « Ségolène contre Sarkozy », ni « Ségo contre Sarko »). Faire de même pour les noms communs (ne pas dire « les filles de la Fed Cup » et « les hommes de la Coupe Davis »).

    Les règles qui suscitent la polémique

    D’autres règles suscitent encore des polémiques (en France et en Belgique notamment), parce qu’elles créent des façons d’écrire ou de parler qui paraissent inhabituelles. Les arguments invoqués pour défendre ou pour refuser ces règles relèvent de l’histoire de la langue, de la linguistique, de la sociologie ou de la psychologie du langage, et parfois de l’idéologie. Les études actuelles (une bibliographie est disponible ici : https://osf.io/p648a/?view_only=a385a4820769497c93a9812d9ea34419) nous apportent pourtant un regard scientifique qui devrait nous aider à naviguer dans les méandres de ce sujet.

    (1) Utiliser le masculin pour désigner une personne dont on ne connaît pas le genre, comme dans une offre d’emploi : « recherche informaticien (H/F) ». Il est prouvé que cette règle ne favorise pas un traitement équitable des femmes et des hommes. De nombreuses études scientifiques ont montré que l’emploi de termes uniquement au masculin (« un mathématicien, un directeur commercial, un musicien ») engendrait des #représentations_mentales masculines chez les adultes d’une part, mais également chez les jeunes. Même si cet usage est permis par la grammaire française, il semble, par exemple, influencer les #aspirations_professionnelles des jeunes. Il a comme conséquence, notamment, de diminuer le degré de confiance des filles et leur sentiment d’auto-efficacité à entreprendre des études pour ces #métiers). Il donne également l’impression aux jeunes que les hommes ont plus de chances de réussir dans ces métiers : https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2015.01437/full). Dans des secteurs où l’on cherche à créer plus de mixité, comme les sciences et technologies, ou les soins infirmiers, le masculin dit générique devrait être évité.

    (2) Utiliser le #masculin_pluriel pour désigner des groupes qui contiennent des femmes et des hommes, comme « les musiciens » pour désigner un groupe mixte. Il est prouvé que cette règle ne favorise pas une interprétation qui correspond à la réalité désignée. Des scientifiques ont montré de manière répétée (et dans plusieurs langues) que, même si la grammaire autorise une interprétation « générique » du masculin pluriel, cette interprétation n’est pas aussi accessible ou fréquente que l’interprétation spécifique (masculin = homme) (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0388000120300619?dgcid=author). Cette différence d’accessibilité a été expliquée par différents facteurs), comme l’apprentissage du genre grammatical, qui suit invariablement la même séquence : nous apprenons le sens spécifique du masculin (masculin = homme) avant son sens générique. En d’autres termes, quand on dit « les musiciens », la représentation mentale qui se forme le plus aisément est celle d’un groupe d’hommes, le sens spécifique du masculin étant beaucoup plus simple et rapide à activer. La représentation mentale d’un groupe de femmes et d’hommes est plus longue à former et plus difficile d’accès. Le #biais_masculin induit par la forme grammaticale masculine a été démontré dans différents contextes et différents pays (par exemple, en France : https://www.persee.fr/doc/psy_0003-5033_2008_num_108_2_30971 ; en Suisse : https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/20445911.2011.642858 ; et récemment au Québec). Fait assez rare en sciences, il n’existe, à notre connaissance, aucune donnée contredisant la dominance automatique du sens spécifique du masculin.

    Si l’on souhaite activer l’image de groupes mixtes, il est préférable d’utiliser d’autres stratégies que le masculin, comme les doublons : « les chirurgiennes et les chirurgiens ». Malgré ces résultats, certaines personnes, parfois au travers de guides d’écriture, engagent à ne pas utiliser de doublons. Différentes raisons sont avancées, souvent sans réels fondements scientifiques. Par exemple, les #doublons entraveraient la lecture. À notre connaissance, aucune étude ne corrobore cette idée. Il existe une étude qui montre que même si à la première occurrence d’un doublon, la lecture est ralentie, dès la deuxième occurrence, la lecture redevient tout à fait normale (effet d’habituation : https://www.persee.fr/doc/psy_0003-5033_2007_num_107_2_30996)). L’idée que les personnes qui utilisent des doublons ne parviendraient pas à réaliser les accords grammaticaux dans les textes est également étonnante, surtout si l’on observe un retour de l’accord de proximité : https://journals-openedition-org.sid2nomade-2.grenet.fr/discours/9542), accord particulièrement adapté à l’utilisation des doublons.

    En revanche, des études scientifiques (https://doi.apa.org/doiLanding?doi=10.1037%2Fpspi0000094) montrent que l’#ordre choisi pour présenter chaque élément de la paire (« les boulangères et les boulangers » vs « les boulangers et les boulangères ») a un effet sur l’interprétation : l’élément présenté en premier est perçu comme plus central ou plus important : http://epubs.surrey.ac.uk/811895.

    (3) Certaines personnes engagent aussi à ne pas utiliser de #formes_abrégées qui permettent de présenter les doublons à l’écrit : « les étudiant·es », « les pharmacien-nes ». Les résultats actuels de la recherche scientifique sont trop limités pour se prononcer de manière définitive à ce sujet. Une étude : https://www.persee.fr/doc/psy_0003-5033_2007_num_107_2_30996) a mesuré l’effet des doublons sous forme abrégée sur la lecture. Elle concerne un public d’étudiantes et d’étudiants pour lesquels un léger ralentissement de la lecture était mesuré à la première apparition de ces formes, mais se normalisait ensuite. Pour autant, on ne peut pas conclure de cette étude que l’effet serait identique, ou différent, pour d’autres populations. Et les raisons de l’effet de ralentissement, comme de l’effet d’habituation, ne sont pas encore réellement connues.

    Il a également été montré que présenter des métiers sous une forme contractée (à l’époque avec une parenthèse) pouvait augmenter le degré de confiance des filles et le sentiment d’auto-efficacité à entreprendre des études pour ces métiers (https://www.persee.fr/doc/psy_0003-5033_2005_num_105_2_29694). La recherche doit néanmoins continuer de tester l’effet de ces #formes_abrégées : en fonction du signe typographique utilisé (tiret, point médian, etc.) ; en fonction des publics de différents âges, niveaux d’éducation, niveaux socio-économiques ; en fonction des types de textes. Seules des recherches complémentaires permettront de proposer des règles mieux informées pour réguler l’usage de ces formes, apparues principalement pour répondre aux limites de signes imposées dans différents domaines (journalisme, Internet…).

    (4) Enfin, certains guides recommandent plus de souplesse dans la gestion des #accords. À la règle établie de l’accord au masculin générique (« le frère et les sœurs sont arrivés »), ils suggèrent de laisser la possibilité d’appliquer l’#accord_de_proximité (avec le terme le plus proche : « le frère et les sœurs sont arrivées »), l’#accord_de_majorité (avec l’élément le plus important en nombre : « les sœurs et le frère sont arrivées »), ou un #accord_au_choix. L’argument historique est souvent invoqué, à juste titre : l’accord de proximité s’observe dans les textes anciens à hauteur de 45 % des cas (https://books.openedition.org/pusl/26517), mais il reste toujours moins fréquent que l’accord au masculin. L’argument historique ne permet ni de revendiquer un « retour » exclusif à l’accord de proximité, puisqu’il a toujours cohabité avec d’autres formes d’accords. Il ne permet pas non plus de l’exclure, puisqu’il a eu de l’importance. La recherche devrait montrer quels problèmes spécifiques, dans l’apprentissage, la rédaction ou la compréhension des textes, posent ces différents types d’accords.

    La guerre de l’écriture inclusive n’aura pas lieu

    Les connaissances scientifiques actuelles permettent de clarifier le #bien-fondé de certaines règles qui suscitent des #désaccords. Pour d’autres règles, pourtant défendues ou contestées de manière très assertive, il faut savoir reconnaître que les connaissances actuelles ne permettent pas encore de trancher. La recherche doit continuer à se faire afin d’apporter des arguments aux outils proposés.

    La #langue_française n’est pas seulement le domaine des scientifiques. En tant que scientifiques, nous pensons qu’il faut laisser les #usages se développer car ils répondent à des besoins communicatifs et sociaux fondamentaux. Tous les usages ne sont pas appropriés à tous les genres de l’écrit, mais la norme ne doit pas s’imposer de manière étouffante. Faisons confiance aussi aux francophones.

    https://theconversation.com/ecriture-inclusive-un-premier-bilan-de-la-controverse-147630

    #écriture_inclusive #choix #neutralité #catégorisation #masculin_générique

  • Le port du masque diminue-t-il le risque de forme sévère de COVID-19 ? De nouveaux éléments en faveur de cette hypothèse - Actualités - VIDAL
    https://www.vidal.fr/actualites/25739/le_port_du_masque_diminue_t_il_le_risque_de_forme_severe_de_covid_19_de_nouvea

    Au-delà de la prévention des contaminations, le respect systématique des mesures individuelles de protection, au premier chef le port du masque, pourrait-il diminuer significativement le nombre de cas de formes sévères de COVID-19 ? C’est ce que semble suggérer diverses études, chez l’animal comme chez l’homme.

    Chez l’homme, les résultats d’une étude suisse présentée ici sont renforcés par des observations faites à la suite de clusters où le port du masque a été immédiatement imposé. Celles-ci vont dans le sens des données obtenues dans les régions où cette mesure a été rapidement généralisée, comme à Hong Kong.

    Chez l’animal, une élégante étude a été menée chez le hamster doré qui montre à la fois la transmissibilité de SARS-CoV-2 par voie aérienne (aérosols) et l’effet du masque chirurgical en termes de diminution de la transmission, mais aussi en termes de réduction des symptômes chez les animaux contaminés malgré le masque.

    Une confirmation de l’effet des mesures de protection sur la sévérité de la COVID-19 serait considérable en termes de gestion sanitaire de l’hiver 2020-2021 et milite pour que tout soit mis en œuvre pour favoriser le respect de toutes les mesures de protection, en premier lieu le port systématique du masque. Dans l’attente d’un vaccin efficace, augmenter le pourcentage de personnes immunisées sans avoir présenté de symptômes est essentiel pour parvenir à une immunité de groupe suffisante sans pour autant surcharger le système de santé, ni risquer la vie des personnes infectées.

  • De l’écriture inclusive...

    J’aimerais partager avec mes ami·es seenthisien·nes deux pépites sur l’#écriture_inclusive.
    J’ai envoyé un petit texte à la Revue de géographie alpine, pour la rubrique « lieux-dits ». Je l’ai écrit en écriture inclusive... Et voici deux commentaires de deux enseignantes (femmes), l’une maîtresse de conférences (qui signe « maître de conférence ») et l’autre prof. émérite.

    La maîtresse de conférence :

    Je rejoins plutôt XX et YY, pour suivre les régles courantes, l’usage commun, et pas en définir qui seraient internes (à la RGA ?). Un langage pour le rester se doit d’être neutre et partageable. Le « minimum » est aussi qu’il soit lisible à voix haute. Sinon ces usages (certaines phrases de l’article de Cristina ou certains propos de la première vidéo envoyée) deviennent tout bonnement incompréhensibles pour le commun des personnes lectrices ou auditrices. Donc jouons avec le féminin et le masculin, difficiles à arracher aux langues latines, plutôt que de chercher à les extirper dans un combat stérile (au sens propre !). Ou bien utilisons l’anglais qui met tout le monde d’accord (avec quels effets pour la cause féminine ??).

    Certes, ce n’est que mon avis, et certes, le débat n’est pas nouveau.

    –-> pour info, la vidéo envoyée :
    "La Pérille Mortelle" de Typhaine D
    https://www.youtube.com/watch?v=4bJ9oNJPUW0

    La prof émérite :

    Par ailleurs (mais c’est un point de vue très personnel), je n’arrive pas à me faire à l’écriture inclusive : pour moi, tant que ce ne sera pas validé par l’Académie Française, je reste fidèle à la tradition du français classique. Je pense que les combats du féminisme se situent ailleurs.

    #académie_française #neutralité #langue_française #genre #no_comment