• Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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  • Avant qu’il ne passe à l’acte, l’errance du réfugié syrien à #Annecy

    L’assaillant de l’#attaque au couteau d’Annecy a été mis en examen pour « tentatives d’assassinats » et « rébellion avec armes ». Pour l’heure, ses motivations restent sans explication. Depuis quelques mois, ce réfugié syrien chrétien venu de Suède passait ses nuits dans une rue du centre-ville et ses journées près du lac. De nombreux témoins décrivent un homme marginalisé, « calme » et « discret ».

    Les caméras des chaînes de télévision ont défilé, au lendemain du drame, rue Royale à Annecy, attirant les regards des curieux venus se promener ou faire des achats. C’est ici, sous le porche d’un immeuble situé entre deux magasins de vêtements, que l’assaillant de l’attaque au couteau ayant blessé six personnes, dont quatre enfants en bas âge, jeudi au Pâquier, avait ses habitudes à la nuit tombée. Le jour de l’attaque, les forces de l’ordre sont venues en nombre pour interroger les commerçant·es et habitant·es du secteur.

    « On le voyait tous les soirs et il avait ses rituels, il venait à 19 heures à la fermeture », confie le responsable d’un magasin situé en face de l’immeuble. L’homme se couchait sur des cartons et disposait d’un sac de couchage, poursuit-il, mettait ses écouteurs dans les oreilles avant de s’endormir, assez tôt. Le commerçant se dit encore « choqué » de savoir qu’il a pu commettre une telle horreur la veille. « Il était très propre. Je n’ai jamais remarqué un comportement étrange. Je me suis demandé plusieurs fois comment il en était arrivé là car il avait l’air jeune. »

    En fin de matinée, Paul*, un habitant de l’immeuble, peine toujours à croire que le sans-abri de 32 ans qui dormait en bas de chez lui et avec lequel il avait des « échanges cordiaux » ait pu commettre l’innommable. Alors qu’il rentre à son domicile, il raconte l’avoir vu chaque soir sous ce porche, depuis l’hiver dernier. Il décrit un homme « assez poli et très discret », solitaire, souvent sur son téléphone. « Il était respectueux, ne laissait pas ses affaires traîner et gardait l’endroit propre. Je ne l’ai jamais vu alcoolisé ou drogué, il ne montrait aucun signe religieux. »

    Lorsqu’il lui arrivait de ressortir après 19 h 30 ou 20 heures, le réfugié syrien dormait déjà. « [Le matin], je pense qu’il partait assez tôt car il n’était plus là quand je partais au boulot. » Constatant qu’il ne venait là que pour dormir, Paul était persuadé qu’il était en parcours d’insertion, voire qu’il travaillait. « Il s’entretenait, aussi. Il se brossait les dents et recrachait l’eau dans la bouche d’égouts, se coupait les ongles… » Parmi tous les sans-abris présents dans le quartier, lui était « celui qui ne faisait pas de bruit ». Son acte en est d’autant plus incompréhensible. « On est complètement sous le choc, c’est glaçant », confie-t-il en précisant avoir un petit enfant.
    Repéré par de nombreux habitants

    L’un des voisins de Paul a tenté de créer du lien avec le réfugié syrien chrétien venu de Suède. Il savait qu’il avait une famille là-bas. « On savait qu’il était en demande d’asile. Mais si on laisse les gens sept mois à la rue, si on ne s’en occupe pas, c’est une machine à drames… Surtout pour des personnes ayant un passé en Syrie, qui viennent potentiellement avec des traumatismes », estime Paul sans pour autant justifier l’acte de l’assaillant.

    Thierry, un habitant d’Annecy, partage lui aussi son incompréhension face à l’horreur. Son père avait repéré l’homme depuis une dizaine de jours, sur le secteur du Pâquier en journée, tout comme les patrons de location de pédalos situés au bord du lac ou les vendeurs de glaces postés près du pont des Amours. « Mon père est cycliste et emprunte ce trajet un jour sur deux, il l’a vu à chaque fois. Il était assis sur un banc avec son sac, il regardait en direction du lac. Il se lavait dans le lac. » Encore en état de choc, ce dernier a préféré ne pas témoigner.

    Il aurait éprouvé une forme de culpabilité à n’avoir pas agi. Mais pour quoi faire ? Signaler un homme dont le comportement n’était pas problématique ? « Il s’est posé beaucoup de questions, s’étonnant d’être parfois arrêté et contrôlé à vélo et lui pas. » La folie humaine ne doit pas « nous diviser », ajoute Thierry, et un acte comme celui-ci ne doit pas remettre en cause « notre accueil des réfugiés ». Il suggère la création d’une brigade spécialisée au sein de la police municipale, qui serait chargée des personnes en situation de rue et irait à leur rencontre.

    « On ne peut pas attendre que ces gens viennent à nous puisqu’ils sont isolés. Leur état psychologique fait parfois qu’ils se replient sur eux-mêmes. Il faut des capacités d’écoute pour créer du lien », dit encore Thierry. Une tendance que confirme Bertrand de Fleurian, délégué départemental de l’Ordre de Malte et chef de maraudes à Annecy, qui a lui aussi repéré l’homme syrien lors de distributions au centre-ville. Ce dernier ne figurait pas parmi leurs « habitués », mais une aide lui avait été proposée lors de différentes maraudes.

    « Il ne voulait jamais rien, il répondait de manière calme et polie le soir bien qu’il dormait parfois. » Certains refusent le contact, soit parce qu’il y a un problème « psy », soit parce qu’ils reçoivent déjà de l’aide en journée. « Dans ces cas-là, poursuit Bertrand, on n’insiste pas, on repasse le lendemain. » A-t-il été pris par un coup de folie ?, s’interroge-t-il. « On pouvait difficilement s’attendre à un tel acte venant de ce profil. » D’autres associations venant en aide aux sans-abris, comme les Suspendus d’Annecy, n’ont pas croisé sa route.
    Précarité matérielle et déclassement social

    Pour l’heure, les raisons et la motivation de la terrible attaque de jeudi matin restent sans explication. Alors que sa garde à vue s’achevait samedi 10 juin, le réfugié syrien a été mis en examen pour « tentatives d’assassinats » et « rébellion avec armes » après avoir été déféré devant deux juges d’instruction, a annoncé la procureure de la République, Line Bonnet-Mathis. L’homme, qui a également été présenté à un juge des libertés et de la détention samedi matin, a été placé en détention provisoire.

    La garde à vue du réfugié syrien n’a pas permis d’en savoir davantage sur son mobile, l’intéressé se montrant très agité et peu coopératif avec les enquêteurs. On en sait toutefois un peu plus sur son parcours depuis le dépôt de sa demande d’asile en France, en novembre 2022.

    Reconnu réfugié en Suède depuis dix ans, où il a une femme et un enfant, il aurait quitté le pays après avoir essuyé deux refus pour une demande de naturalisation. Libre de circuler dans l’espace Schengen, il serait passé par l’Italie et la Suisse avant de gagner la France, et aurait déposé une nouvelle demande d’asile à Grenoble, bien qu’on en ignore encore le motif. « Il y a un côté un peu bizarre » à cela, a souligné le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, sur BFMTV. Le 4 juin, sa demande a été jugée irrecevable.

    Karine Gatelier, anthropologue chargée d’action recherche dans l’association Modus Operandi (Modop), tente de « comprendre pourquoi, à un moment donné, des personnes se saisissent de [la] violence ». Elle envisage qu’après dix ans en Suède, l’assaillant ait pu ensuite être projeté dans une précarité matérielle et un déclassement social très forts. Un phénomène courant pour les demandeurs et demandeuses d’asile.

    « On leur réserve une certaine misère », analyse celle qui est aussi bénévole auprès de l’association Accueil demandeurs d’asile (ADA) à Grenoble. « Cette misère ne correspond pas à la vie qu’ils et elles avaient au pays. On observe depuis plusieurs années que la santé mentale des personnes en demande d’asile se dégrade, des rapports d’associations en témoignent. Et le suivi est très insuffisant. »

    Non-hébergement, interdiction de travail, perte d’autonomie, allocation pour demandeur d’asile en deçà du seuil de pauvreté qui n’est pas toujours versée… Même avec une prise en charge, de nombreux acteurs pointent souvent une forme de « contrôle social », qui limite les mouvements et la prise de décision des demandeurs d’asile.

    Pour Nicolas*, un travailleur social dans la demande d’asile, les réfugiés survivent parfois à la rue après avoir vécu la route de l’exil, les violences physiques et sexuelles, la torture ou l’esclavagisme, charriant des séquelles non soignées, et font un « grand plongeon dans la précarité », confrontés à un système administratif particulièrement complexe. « On peut voir des cas de dépression chronique ou de décompensation. »

    Que la réponse à leur demande de protection soit positive ou négative, les réactions peuvent varier : « Je compare souvent ça à un examen, avec un enjeu encore plus fort. Après avoir tout donné, le corps relâche et n’a plus d’énergie. Et s’il y a des fragilités psychiques chez quelqu’un, c’est là qu’elles s’expriment. » En cas de rejet, détaille-t-il, il peut y avoir beaucoup d’incompréhension, un fort sentiment de rejet, un gros passage à vide ou une remise en question du parcours.

    Dans le cas du réfugié syrien ayant commis l’attaque au couteau, Nicolas estime que les mois passés en situation de rue ont pu avoir une incidence sur son état physique et mental. « Il n’est jamais rentré dans le dispositif national d’accueil, ce qui montre un déficit lié au nombre de places d’hébergement. Les hommes isolés sont davantage laissés à la rue. » Selon la mère de l’assaillant, qui s’est confiée à l’AFP, celui-ci souffrait d’une « grave dépression » et ses échecs pour obtenir un passeport suédois avaient aggravé son état. Au moment du drame, il n’était « ni sous l’emprise de stupéfiant ni sous l’emprise d’alcool », a indiqué la procureure d’Annecy.

    Cela étant dit, tous ceux qui obtiennent un hébergement n’iront pas « forcément bien », poursuit Nicolas. « Ça reste un élément favorisant pour qu’ils aillent mieux. Mais le morcellement du parcours, la pression du système d’asile, la rupture avec la communauté de vie ou la non-prise en compte de besoins essentiels sont autant de facteurs qui peuvent jouer. » Cela pourrait être le cas, songe-t-il, du réfugié soudanais ayant tué deux personnes en avril 2020 lors d’un attentat à Romans-sur-Isère – le mobile terroriste avait été retenu. « Il allait bien jusqu’à ce qu’il se retrouve isolé, loin de ses amis. Il voulait aussi que sa femme puisse le rejoindre mais la procédure était trop longue. »
    D’autres exilés en situation d’errance à Annecy

    Vendredi après-midi, avenue du Stand à Annecy, un groupe de quatre jeunes Afghans patientent devant les bureaux de la Structure de premier accueil des demandeurs d’asile (Spada), gérée par la Fédération des œuvres laïques, mandatée par l’État pour cette mission. Les portes restent closes et pourtant, personne ne bouge. Ils disent avoir appris à « attendre » ; ce mot qui revient sans cesse lorsqu’ils réclament leur droit à l’hébergement ou l’état d’avancement de leur dossier.

    Depuis jeudi et l’attaque au couteau, ils sont inquiets. « Ce qu’il a fait est si terrible, on a peur que les gens n’aiment plus les réfugiés à cause de ça. De tels actes vont rendre la vie des immigrés très difficile en France », soupire l’un d’eux. À 28 ans et après avoir fui l’Afghanistan, il reconnaît du bout des lèvres survivre dans la rue, dormant dans les parcs ou la gare à la nuit tombée. « Que peut-on faire ? » Sa demande d’asile est toujours en cours.

    « Moi, c’est pareil », lâche son voisin, honteux, plongeant ses grands yeux verts dans le vide. Un troisième a vu sa demande d’asile définitivement rejetée. « Pas de logement, pas de travail, pas d’allocation, pas de papiers », résume-t-il.

    Non loin de là, en fin d’après-midi, Erwin, Junior et leurs amis tuent le temps, près de leur tente, en face du canal. Ils auraient préféré, disent-ils, que l’assaillant vienne les attaquer eux plutôt que les enfants. « C’est une grande faiblesse de s’en prendre à des gamins. On ne cautionne pas ça. »

    La veille, une bénévole du quartier est venue les prévenir que des groupes d’extrême droite se réuniraient à Annecy dans la soirée. « Donc on dort dans notre tente la nuit et ils peuvent venir nous faire du mal, juste parce qu’ils généralisent et qu’ils sont racistes », déplore Erwin. L’un de leurs amis, qui se surnomme Tupac, déboule complètement ivre.

    « Tous les jeunes isolés ici deviennent des légumes parce que les autorités refusent de les aider », commente son voisin, originaire de Seine-Saint-Denis, qui a tout perdu après un divorce. « Aujourd’hui, quelqu’un arrive et va bien, demain il rigole tout seul dans la rue. » Pour Junior, ancien mineur non accompagné pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance qui leur rend visite régulièrement, les gens « pètent un câble » parce qu’ils sacrifient tout ce qu’ils ont pour fuir leur pays. « Ils viennent en Europe et espèrent y avoir une certaine vie, mais ils se retrouvent à la rue, sans travail. Ils ne s’attendent pas à ça. »

    Ilham, une ancienne bénévole de la Ligue des droits de l’homme (LDH) d’Annecy, confirme que « de nombreuses personnes » sont en situation d’errance dans la ville, y compris des femmes avec enfants contraintes de vivre dans la rue. Elle est le contact de référence pour les demandeurs et demandeuses d’asile et réfugié·es, et bien qu’elle ait cessé ses activités auprès de la LDH, beaucoup de jeunes continuent de l’appeler en cas d’ennui. Elle confirme un déficit de places d’hébergement et de prise en charge pour ce public.

    Près de la gare en fin de journée, des réfugiés soudanais et érythréens partagent le même sentiment. Arrivé à Paris en 2018, Muhammad* a vécu dans la rue avant d’être réorienté par la préfecture vers la Haute-Savoie. Il explique avoir dû affronter le racisme. « Je demandais aux gens en anglais de m’aider, ils s’éloignaient de moi comme s’ils avaient peur. Leur chien avait plus de valeur que moi. »

    Il rencontre une assistante sociale qui mélange les papiers des uns et des autres parce qu’elle les confond. « J’ai mis quatre ans à avoir mes papiers. Et dès le départ, ils ont fait une erreur sur mon âge, me donnant dix ans de moins, ce qui m’a posé des problèmes pour tout. »

    Mais surtout, il désespère de ne pas pouvoir subvenir aux besoins de sa femme et de son fils coincés en Égypte, faute d’autorisation de travail jusqu’à l’obtention de son statut de réfugié. « Ça m’a rongé l’esprit. Tu ajoutes à ça le stress et le racisme, il y a de quoi te rendre fou. » Il dit avoir appris le français seul – « qu’est-ce qu’on peut faire avec 50 heures dispensées par l’Office français de l’immigration et de l’intégration ? » – et travailler là où il le peut : BTP, peinture, restauration… Aujourd’hui, le trentenaire fait aussi du bénévolat auprès de la LDH et d’une association qui vient en aide aux personnes âgées.

    Repenser à tout ce qu’il a traversé lui « serre le cœur », dit-il en arabe. Il espère pouvoir avancer sereinement, mais ne cache pas cette forme de ressentiment à l’égard d’un État qui a tout fait pour lui faire comprendre qu’il n’était pas le bienvenue. « On est venus légalement ici. Il y a des lois. S’ils ne veulent plus de ces lois, qu’ils les retirent, et on partira. »

    Muhammad dit avoir tout quitté – une belle villa, un hôtel dont il était propriétaire, un travail et des proches – pour fuir un dictateur et recouvrer la liberté qu’il chérissait tant. « Liberté, égalité, fraternité ; c’est uniquement sur le papier », regrette-t-il. Il ignore pourquoi l’auteur de l’attaque au couteau a agi ainsi. Lui et ses amis ne l’avaient jamais croisé. Mais, insiste-t-il, « il faut s’occuper des gens ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/100623/avant-qu-il-ne-passe-l-acte-l-errance-du-refugie-syrien-annecy

    #réfugiés #asile #migrations #marginalisation #précarisation #SDF #migrerrance #attaque_au_couteau #déclassement_social #précarité_matérielle #violence #misère #santé_mentale

    • Drame d’Annecy : une ville face au venin de la #xénophobie

      L’attaque de six personnes, dont quatre enfants, par un réfugié syrien à Annecy a libéré la parole raciste. Ciblée, la Ligue des droits de l’homme est contrainte d’annuler son prochain événement. Le maire écologiste #François_Astorg, également menacé parce que métis, annonce à Mediapart qu’il a porté plainte.

      Trois jours après le drame, Annecy a vécu, dimanche 11 juin, son moment « cathartique », résume son maire écologiste François Astorg. À l’appel de la municipalité, plusieurs milliers de personnes, dont beaucoup de familles, se sont rassemblées dans le calme sur l’esplanade du Pâquier, à quelques encablures du parc de jeu où un réfugié syrien de 31 ans, qui vivait seul et dans la rue depuis plusieurs mois, a blessé six personnes le 8 juin.

      Ses victimes – quatre enfants en bas âge et deux septuagénaires, de quatre nationalités différentes – sont toujours hospitalisées, mais leur pronostic vital n’est plus engagé. L’assaillant, qui n’a fourni aucune explication à son geste à ce jour, a lui été mis en examen samedi pour « tentatives d’assassinat » et « rébellion avec armes », et placé en détention provisoire.

      « On avait besoin de se retrouver, de mettre les mots sur ce qui s’est passé, de se parler, et aussi d’affirmer la ligne dans laquelle on compte avancer demain », synthétise François Astorg, après avoir proclamé un discours sobre et fortement applaudi. Sur scène, le maire était entouré de représentants des autorités civiles et militaires, mais aussi de personnels municipaux et d’anonymes intervenus sur les lieux du drame.

      Après avoir dénoncé la « barbarie » et la « lâcheté » de l’acte « inqualifiable » commis jeudi, l’élu s’est adressé à la foule : « Votre inquiétude, je la ressens, je la partage […], mais il n’y a pas d’autre réponse que la #communion, la #solidarité et l’#espoir. Pas d’autre choix que de bâtir plutôt qu’haïr. » Il a aussi invité la population à ce que la « vie reprenne ses droits ». Le festival international du film d’animation, événement culturel majeur dont la séance inaugurale a été décalée de quelques heures, va justement ouvrir ses portes dès lundi sur le site du Pâquier.

      Depuis jeudi, la ville était suspendue au sort des victimes, dont l’état de santé s’est amélioré au fil des jours, mais aussi imprégnée d’une atmosphère inhabituelle dans cet écrin calme et bourgeois de 135 000 habitant·es. François Astorg lui-même, élu en 2020 à la tête d’une alliance baroque entre Europe Écologie-Les Verts (EELV) et La République en marche (LREM), a été la cible d’attaques racistes auxquelles il n’avait jamais été confronté depuis son accession à la mairie.

      La raison ? Il est métis – sa mère est sénégalaise – et défend des positions – pourtant consensuelles – rappelant qu’Annecy est une terre d’accueil. Suffisant pour déchaîner la fachosphère, qui l’insulte et l’intimide massivement depuis trois jours. « J’ai vu ces attaques, mais le plus dur, cela reste ce qu’il s’est passé avec les enfants. D’avoir vu ces gamins dans le parc … Ça, c’est le plus prenant », recentre François Astorg, encore ému par la scène à laquelle il a été confronté en se rendant sur place juste après l’attaque.

      Le maire s’avoue toutefois « dégoûté » par les menaces qu’il reçoit depuis. « Je ne vais pas dire que j’ai l’habitude du racisme, mais quand même… Cela me rappelle quand j’étais à Paris, pendant les années Pasqua », ajoute l’élu, né il y a soixante-deux ans en Seine-Saint-Denis. Craignant une agression physique, il a porté plainte contre plusieurs auteurs de menaces en ligne. « La police a ouvert une enquête. » Sa fille est aussi été injuriée sur les réseaux sociaux. « Ma fille, ça, ça me… », lâche François Astorg, la gorge nouée, sans finir sa phrase.

      La présidente de l’agglomération violemment prise à partie

      Les attaques contre le maire et sa famille ont provoqué des débats, jusqu’au sein de sa propre majorité municipale. Faut-il y répondre à chaud, au risque d’amplifier les menaces ? Ou alors passer à autre chose, au risque de les banaliser ?

      La présidente de l’agglomération, l’ancienne députée LREM Frédérique Lardet, alliée de François Astorg, admet s’interroger sur le sujet. « On sait qu’il y a un soutien en interne, il n’y a pas de sujet là-dessus. Mais on s’est posé la question vendredi soir de ce qu’il fallait faire publiquement, en se disant qu’il fallait aussi faire attention aux réseaux sociaux, à ne pas justement alimenter les propos racistes », indique-t-elle à Mediapart.

      Elle aussi a d’ailleurs été violemment prise à partie après l’attaque. Son tort ? Avoir annoncé qu’il s’agissait d’un « acte isolé », et être une femme. « J’ai immédiatement reçu des tas d’insultes, témoigne-t-elle. Des “grosse salope”, “grosse pute”. Mon collaborateur m’a dit : “Il faut retirer le message [sur ses réseaux sociaux]”. Je lui ai répondu : “Non, ce qu’il faut retirer, ce sont les insultes.” » Depuis, l’élue dit faire « très attention à [elle] » : « Je regarde autour de moi, je vérifie que je ferme bien la porte chez moi. Cela ne m’était jamais arrivé avant, même quand j’étais députée. Je n’avais jamais eu peur. »

      Frédérique Lardet, « Annécienne pure souche » de 56 ans, reconnaît aussi avoir beaucoup hésité à intervenir dans les médias après l’attaque. « Pour moi, c’était trop intrusif, et j’avais peur que l’on pense que je voulais utiliser la situation à mon profit. » Mais rapidement, « on m’a donné un coup de pied aux fesses », indique la présidente de l’agglomération : « Il y avait une dissonance complète entre ce que l’on vivait et ce brouhaha dans les médias et sur les réseaux sociaux, avec des partis politiques qui dès la première heure se sont jetés comme des corbeaux sur ce drame. »

      « Je me suis dit que mon rôle était de remettre les choses en place », précise encore Frédérique Lardet. Depuis, la présidente de l’agglomération reconnaît être « perdue » face à un drame pour lequel elle estime qu’il est à ce stade complexe de tirer des conclusions. « En tant qu’élus, on n’a pas toujours les réponses non plus, justifie-t-elle. Je sais bien que ce n’est pas toujours entendable pour pas mal de personnes, mais c’est la réalité. »

      Les besoins de réponse simple et immédiate, associé à un discours de haine, Sabine*, Annécienne de 31 ans, en a été témoin dès les premiers moments après l’annonce du drame. Cette travailleuse sociale, qui effectuait des maraudes auprès de réfugié·es isolé·es il y a quelques années, se trouvait dans un bus de la ville quand l’information a commencé à circuler.

      « Il y avait plein d’ados qui regardaient les vidéos. Et au milieu, des adultes qui ne se connaissaient pas mais qui disaient fort : “Jusqu’où ça va aller ?!’’, “Jusqu’où on va les laisser ?!” » Un autre élément l’a stupéfaite : « On ne savait pas que le gars n’était pas musulman, mais dans les discussions, il l’était forcément. C’était automatique, on ne se pose même pas la question. » Sabine observe alors la scène : « Je me suis dit : “Là, maintenant, dans ce bus, on est en train de créer du racisme de toutes pièces…” »

      Deux heures plus tard, elle se retrouve dans une salle d’attente d’un cabinet médical. « Deux femmes, la soixantaine, partent dans un monologue sur l’immigration et sur le fait que le réfugié n’avait rien à faire là… J’ai eu beau dire que ça n’avait rien à voir, elles n’ont pas compris, elles ne s’imaginaient même pas que je ne puisse pas être d’accord. »

      D’après Sabine, « personne ne [lui] aurait parlé comme ça avant ». Ces dernières années, avec l’élection d’un écologiste dans un territoire historiquement à droite, elle « avai[t] même l’impression qu’on prenait le chemin inverse ici, d’autant que c’est une ville avec une grande mixité ». « Là, une brèche a été ouverte, je pense que ça va être très compliqué ensuite », craint-elle, en anticipant des conséquences néfastes pour les réfugié·es.

      Cette inquiétude est renforcée par le traitement médiatique de l’affaire. « Après l’attaque d’Annecy : le droit d’asile en question », titrait en une, dimanche, Le JDD (groupe Lagardère, bientôt absorbé par le groupe Vivendi de Bolloré), interview de l’ancien ministre de l’intérieur (1997-2000) Jean-Pierre Chevènement à la clé.

      « Pour moi, c’est vingt ans de travail qui s’écroulent », tranche également Yves La Barbera, 70 ans. Ce retraité, ancien directeur de la MJC (maison des jeunes et de la culture) d’un quartier d’Annecy, est toujours engagé dans la vie culturelle de la cité. « On travaille au cœur d’un quartier, on œuvre pour le vivre ensemble, on avance pas à pas, on réussit… Et puis, avec un drame comme ça, c’est le repli. Tout le monde a peur, c’est dramatique », déplore-t-il.
      Un climat inquiétant

      En relevant que l’extrême droite « fait 20 % [aux élections] dans des quartiers difficiles », Yves La Barbera sent qu’un « certain racisme s’est installé » ces dernières années. « Cet événement ne va faire que l’exacerber », considère-t-il, en se fiant aux réactions depuis jeudi. « Même des gens que je côtoie ont besoin de se défouler. Cela ne va pas se calmer tout de suite, c’est un traumatisme qui va s’installer. »

      Plus inquiétante encore, selon lui, est l’apparition de manifestant·es identitaires ces derniers temps. Après une première manifestation non déclarée le 18 mai — une première dans la ville —, des néonazis se sont également mobilisés, dès le soir de l’attaque. Les militants gravitent autour du « syndicat des fleuristes », à Annecy (en référence à la fleur de lys royaliste), mais aussi d’Edelweiss (Chambéry), comme l’a révélé Street Press, ou de groupuscules genevois ou lyonnais.

      Deux femmes du collectif d’extrême droite Nemesis se sont rendues à Annecy pour afficher dans l’aire de jeu, dès jeudi après-midi, des pancartes, dont l’une disait : « Ouvrir les frontières, c’est fermer nos cercueils. » Le soir, près de 50 personnes ont pris part à une manifestation identitaire.

      Yves La Barbera avoue son incrédulité face à ce phénomène : « Qu’est-ce que ça veut dire tout ça à Annecy ? C’est une ville tranquille. J’espère que c’est un mouvement extrêmement minoritaire qui ne va pas se développer, mais c’est aussi une petite graine qui peut pousser. »

      Au local de la Ligue des droits de l’homme (LDH) personne n’avait vu les signes avant-coureurs d’un tel climat. « Je les ai vus jeudi soir, leur regard, tous bodybuildés, des nazis sortis de la dernière guerre mondiale… C’est du jamais-vu. On savait qu’il y avait l’ultradroite mais on n’y était pas confronté », affirme Josette Tardivelle. La présidente de l’antenne locale de la LDH relève juste qu’il « y a eu beaucoup de collages du temps de la campagne de Zemmour ».

      Le représentant local de Reconquête, Vincent Lecaillon, ancien chef de fil du Rassemblement national (RN), est élu au conseil régional. Jeudi après-midi, il a vécu son heure de gloire en prenant à partie la première ministre Élisabeth Borne lors de son déplacement à la préfecture de Haute-Savoie.

      Depuis l’attaque, la LDH d’Annecy est prise à partie sur les réseaux sociaux, après un tweet du militant identitaire Damien Rieu ayant repéré l’organisation d’un apéro solidaire, le 19 juin, pour les mineurs étrangers isolés. « Ça faisait un moment qu’on l’avait annoncé, et ça ne posait de problème à personne », relève Josette Tardivelle. Mais après le drame, le sujet devient inflammable.

      Sur les réseaux sociaux, les messages pleuvent : « Je pense qu’il va falloir passer au stade suivant avec ces collabos », « À vos armes citoyens, faut éliminer ces associations qui font venir avec nos impôts nos assassins », « Les fils de pute, c’est immonde, c’est honteux, provocateur. Ils jubilent. Profitez-en bien ça ne va pas durer. On va s’occuper de vous. Avec précision, ciblé, et détermination nationale »…

      « Les gens ne se cachent même pas, certains le font avec leur photo, leur nom », s’étonne Josette Tardivelle, en faisant défiler sur son portable les messages archivés. Décision est alors rapidement prise en interne d’annuler l’événement. « On ne veut pas aller au clash avec ces gens-là et se mettre en danger », justifie la présidente. L’apéro sera organisé plus tard, avec une autre affiche, « plus neutre », ou même « en faisant passer l’information par téléphone ». « Effectivement, reconnaît la présidente de la LDH, cela signifie que l’on cède, et que leur méthode marche. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/110623/drame-d-annecy-une-ville-face-au-venin-de-la-xenophobie
      #racisme #extrême_droite #récupération #menace #syndicat_des_fleuristes #Edelweiss #Nemesis #néo-nazis

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

  • Les « Pirates » contre Hitler : la résistance des jeunes Allemands à l’ombre de La Rose blanche

    Refusant d’adhérer au national-socialisme de Hitler, une fraction de la jeunesse allemande de la fin des années 1930 se retrouve dans une contre-culture opposée au militarisme et à la croix gammée. Une jeunesse contestataire réprimée sévèrement par le pouvoir et qui a été longtemps la grande oubliée de l’histoire officielle...

    #Nazisme #RoseBlanche #Edelweisspiraten
    https://www.partage-noir.fr/les-pirates-contre-hitler-la-resistance-des-jeunes-allemands-a-l

  • #Pays-Bas : 10 ans après ! Actions contre l’interdiction de squatter
    https://fr.squat.net/2020/10/01/pays-bas-10-ans-apres-actions-contre-linterdiction-de-squatter

    Aujourd’hui, 1er octobre 2020, nous fêtons les 10 ans de la criminalisation des squats aux Pays-Bas. Même avec cette loi, des squats existent encore et d’autres s’ouvrent . La loi a été créée pour mettre fin à la fois aux ouvertures de squats et pour empêcher que des bâtiments soient vides. Elle a échoué des […]

    #Amsterdam #anti-squat #Ede-Wageningen #Enschede #Groningen #La_Haye #lois #Utrecht

  • #Pays-Bas : actions après 10 ans d’interdiction de squatter
    https://fr.squat.net/2020/10/01/pays-bas-actions-apres-10-ans-dinterdiction-de-squatter

    10 ans après ! Et vous ne pouvez toujours pas vivre dans une liste d’attente ! Aujourd’hui, 1er octobre 2020, nous fêtons les 10 ans de la criminalisation des squats aux Pays-Bas. Même avec cette loi, des squats existent encore et d’autres s’ouvrent . La loi a été créée pour mettre fin à la fois […]

    #Amsterdam #anti-squat #Ede-Wageningen #Enschede #Groningen #La_Haye #lois #Utrecht

  • Internet, cette révolution qui n’en était pas une : les désillusions de l’activisme numérique
    http://www.internetactu.net/2019/05/07/internet-cette-revolution-qui-nen-etait-pas-une-les-desillusions-de-la

    Le livre de la sociologue Jen Schradie (@schradie), The revolution that wasn’t : How digital activism favors conservatives (La révolution qui n’était pas : ou comment l’activisme numérique favorise les réactionnaires, Harvard University Press, 2019, non traduit) sonne comme un nouveau revers pour tout ceux qui pensaient que le numérique allait changer (...)

    #Articles #Recherches #économie_de_l'attention #eDémocratie #Participation #politique #réseaux_sociaux

    • [...] dans les groupes des classes moyennes et supérieures, les outils sont plus accessibles, tout comme les compétences, les ressources et la confiance en soi. Les individus qui composent ces mouvements sont plus éduqués, ont un peu plus de compétences et de moyens, et donc accèdent plus facilement aux outils numériques… mais surtout, ils n’ont pas connu la peur de la répression.

      Voilà le résultat le plus important du travail de Jen Schradie : les « activistes » les plus susceptibles de subir la répression ont tendance à limiter leur « surface d’exposition ». Ce phénomène n’a pas grand chose à voir avec les conseils prodigués dans les brochures militantes pour assurer un certain niveau de confidentialité de ses échanges numériques. Il s’agit de la méfiance spontanée de celles et ceux qui savent plus ou moins consciemment que lorsqu’on est du mauvais coté du manche, aucun moyen technique ne permet de rétablir l’équilibre. Le seul levier qui ne risque pas de vous revenir dans la gueule, c’est celui des rapports humains différents de ceux que les dominants ont tendance à penser comme universels.

    • Pour Jen Schradie, les coûts de la mobilisation n’ont pas baissé avec internet, comme on le lit souvent. En ligne, les mises à jour de sites et les mises à jour sur les réseaux sociaux sont bien plus fréquentes selon le niveau social des acteurs, mais également selon la structuration même des collectifs auxquels ils appartiennent. En étudiant les sites web et les réseaux sociaux, Schradie calcule la participation en ligne sous la forme d’un score d’activisme numérique, qui se révèle bien différent selon qu’on se situe à gauche ou à droite du jeu politique. Elle souligne que les groupes les plus actifs en ligne sont aussi les plus structurés et les plus hiérarchiques.

      Un constat bien loin des promesses d’horizontalité et de décentralisation pionnières du numérique.

      […]

      Il questionne les outils que nous utilisons… et montrent que leurs biais ne reposent peut-être pas seulement sur le miroir qu’ils nous tendent, mais peut-être plus profondément sur la structure même qu’ils organisent. À la lire, on pourrait se demander, assez légitimement, si le fait que les conservateurs réussissent mieux à utiliser ces outils n’est pas aussi lié à l’idéologie qui façonne ces outils. Le fait qu’ils favorisent la propagation de messages simples, leurs logiques agrégatives plutôt que disséminatrices, interrogent fondamentalement les biais cachés dans les fonctionnalités mêmes de nos outils.

      #internet #activisme #militantisme #politique #technologie #critique_techno

  • #Eden

    Quand la crise des migrants bouleverse les destins d’une galerie de personnages, entre la #Grèce, l’#Allemagne et la #France. Réalisé par #Dominik_Moll, une fresque lucide et humaniste en six épisodes, ancrée dans la réalité, avec notamment Sylvie Testud.

    Une frêle embarcation de migrants accoste sur une plage grecque. C’est le point de départ de plusieurs histoires qui s’entremêlent à travers l’Europe : à #Athènes, Amare et son frère Daniel sont accueillis dans un camp dirigé par Hélène, une femme d’affaires qui défend un projet de gestion privée des flux de réfugiés ; à #Mannheim, en Allemagne, Silke et Jürgen décident d’héberger un jeune Syrien, Bassam, ce qui contrarie leur fils Florian ; à #Paris, Hamid et Maryam demandent l’asile politique, aidés par un journaliste qui enquête sur les exactions du régime de Bachar el-Assad. Bientôt, Daniel et Amare tentent de s’évader pour gagner l’Angleterre…

    Exigence de véracité
    Fruit d’une collaboration entre les pôles français et allemand d’ARTE et le groupe ARD, Eden aborde la problématique de l’#accueil des réfugiés à travers cinq histoires et une douzaine de protagonistes répartis dans trois pays d’Europe. Cette diversité d’ambiances et de situations donne à la série une ampleur à la hauteur de son sujet. Comment accueillir ? Comment s’intégrer ? La fluidité du récit, soutenue par un intérêt égal pour tous les personnages, permet d’appréhender ces questions dans toute leur complexité. #Dominik_Moll, habitué des histoires inquiétantes à la limite du fantastique (Harry, un ami qui vous veut du bien, Lemming…), change de registre pour composer une fresque ancrée dans la réalité, qui s’autorise des envolées romanesques et quelques pointes d’humour grinçant. Le choix des comédiens, des décors, et la diversité des langues parlées témoignent d’une exigence de véracité exempte de tout moralisme, dans le sillage de personnages fragiles, courageux, émouvants, qui donnent vie à un constat lucide et plein d’humanité.

    https://www.arte.tv/fr/videos/070738-001-A/eden-1-6
    #film #série #asile #migrations #réfugiés #intégration
    ping @reka

  • Culture numérique : Fake news panic
    http://www.internetactu.net/2019/04/11/culture-numerique-fake-news-panic

    Le numérique a enfin son manuel ! En 400 p., le sociologue et directeur du Médialab de Sciences Po, Dominique Cardon (@karmacoma) livre avec Culture numérique qui vient de paraître aux Presses de SciencesPo, une somme d’une rare clarté, faite de courts chapitres très didactiques, qui pose les bases de l’histoire d’internet, (...)

    #Enjeux #Tribune #désinformation #eDémocratie #Médias

  • #Médias, plateformes sociales et citoyenneté
    http://www.internetactu.net/2019/04/09/medias-plateformes-sociales-et-citoyennete

    Le chercheur Ethan Zuckerman (blog, @ethanz), directeur du Centre pour les médias civiques au MIT (@civicMIT), publiait il y a peu avec plusieurs collègues une étude sur la manière dont les médias ont rendu compte de l’attentat de Christchurch en Nouvelle-Zélande. Fasse aux pratiques terroristes faut-il défendre des principes antijournalistiques ? (...)

    #Articles #Débats #algorithmes #eDémocratie #réseaux_sociaux

  • Comprendre la ségrégation urbaine
    http://www.internetactu.net/a-lire-ailleurs/comprendre-la-segregation-urbaine

    Le Groupe des dynamiques humaines du Media Lab du MIT vient de publier une carte interactive des inégalités pour la ville de Boston, premier volet d’un Atlas des inégalités qui vise à cartographier la réalité des inégalités des plus grandes villes américaines. Cette cartographie utilise des données provenant de téléphones (...)

    #A_lire_ailleurs #Recherches #algorithmes #big_data #eDémocratie #Mobilité #Territoires

  • L’inégalité est-elle au cœur des problèmes de société ?
    http://www.internetactu.net/2019/03/12/linegalite-est-elle-au-coeur-des-problemes-de-societe

    Les épidémiologistes britanniques Kate Pickett (@profkepickett) et Richard Wilkinson (@ProfRGWilkinson), cofondateurs de Equality Trust (@equalitytrust), publient Pour vivre heureux vivons égaux ! (Les liens qui libèrent, 2019), un imposant recueil d’arguments et d’études sur les effets de l’inégalité. C’est un livre qu’il faut certainement lire comme en contrepoint aux ouvrages de (...)

    #Articles #Enjeux #Economie_et_marchés #eDémocratie #inégalités

  • Technologies : la responsabilité suffira-t-elle ?
    http://www.internetactu.net/2019/02/13/technologies-la-responsabilite-suffira-t-elle

    Fin janvier, le think tank britannique DotEveryOne (@doteveryoneuk) organisait à Londres une conférence sur la responsabilité des technologies. « Aujourd’hui, trop de gens subissent des préjudices liés au manque de responsabilité des technologies », constate Catherine Miller responsable des politiques de DotEveryOne. « Nous avons besoin que la responsabilité technologique (...)

    #Articles #Débats #Enjeux #eDémocratie #éthique #innovation #politiques_publiques

  • Uberland : l’avenir du travail à l’heure des #algorithmes
    http://www.internetactu.net/2018/12/18/uberland-lavenir-du-travail-a-lheure-des-algorithmes

    Dans Uberland : comment les algorithmes réécrivent les règles du travail (2018, Presse universitaire de Californie, non traduit), la chercheuse Alex Rosenblat (@mawnikr) a synthétisé quatre années de recherche ethnographique avec les conducteurs d’Uber. Un livre où transparaît une vision dystopique du travail où des millions de conducteurs sont gérés par (...)

    #Articles #Services #Economie_et_marchés #eDémocratie #ubérisation

  • Technophorie : pourquoi les applications pour réfugiés ne répondent pas à leurs besoins ?
    http://www.internetactu.net/2018/11/19/technophorie-pourquoi-les-applications-pour-refugies-ne-repondent-pas-

    Depuis le début de la crise migratoire en 2015, de nombreuses applications pour les réfugiés ont vu le jour. Mais très peu sont réellement utilisées – car beaucoup relèvent d’une forme de solutionnisme ou d’idées erronées sur les besoins de migrants. C’est ce qu’explique la sociologue Dana Diminescu (@diminescu), enseignante-chercheuse (...)

    #Articles #Interviews #Usages #design #e-inclusion #eDémocratie #Interfaces

  • Réforme de la Sécurité sociale : version Start-up Nation ou tous contributeurs ?
    http://www.internetactu.net/2018/10/16/reforme-de-la-securite-sociale-version-start-up-nation-ou-tous-contrib

    Combien de fois avons-nous entendu parler de l’importance de réformer notre système de protection sociale ? Les propositions ne manquent pas : repousser l’âge du départ en retraite, augmenter la CSG de 2 %, ne plus verser d’allocations familiales aux ménages dépassant un certain revenu, diminuer le remboursement des médicaments considérés comme inefficaces, (...)

    #Articles #Enjeux #Economie_et_marchés #eDémocratie #politiques_publiques

  • De l’éthique dans les organisations : réduire le fossé entre pratiques et discours
    http://www.internetactu.net/2018/10/12/de-lethique-dans-les-organisations-reduire-le-fosse-entre-pratiques-et

    La conférence Ethics by Design (@designethique) qui se tenait à Saint-Denis début octobre était l’occasion de faire le point sur la conception #éthique dans ses multiples acceptions. L’un des fils rouges de ces rencontres, interrogeait la question de l’éthique dans les organisations… Retour sur quelques-unes des présentations, pour tenter de (...)

    #Articles #Usages #eDémocratie #politiques_publiques

  • Pourquoi la technologie n’est pas démocratique et comment peut-elle le devenir ?
    http://www.internetactu.net/2018/10/02/pourquoi-la-technologie-nest-pas-democratique-et-comment-peut-elle-le-

    Sur l’excellent Mais où va le web ? (@maisouvaleweb), Irénée Régnauld (@ireR1) cofondateur de l’association Le Mouton Numérique (@moutonnumerique) faisait récemment part de sa lecture de Choix technologies, choix de société (2003, éditions Charles Léopold Mayer, traduction de Democracy and Technology publié en 1995) de Richard Sclove, fondateur du Loka Institute, (...)

    #Enjeux #Gouvernance #Tribune #démocratie #eDémocratie

  • Technosciences : de la démocratie des chimères… aux chimères de la démocratie
    http://www.internetactu.net/2018/04/11/technosciences-de-la-democratie-des-chimeres-aux-chimeres-de-la-democr

    La question du Gouvernement des technosciences, c’est-à-dire de la #Participation démocratique au choix du progrès est un des sujets de fonds de l’histoire et de la sociologie des sciences. Loin d’être le seul mode de gouvernement des sciences, la participation des citoyens à définir une innovation responsable et démocratique, leur (...)

    #Articles #Enjeux #Gouvernance #biologie_synthétique #eDémocratie #science

  • Pourquoi mes #données_personnelles ne peuvent pas être à vendre !
    http://www.internetactu.net/2018/02/06/pourquoi-mes-donnees-personnelles-ne-peuvent-pas-etre-a-vendre

    Permettre à chacun de vendre ses données personnelles a toujours été une réponse simpliste, plusieurs fois avancée, toujours repoussée. Quand on entend un minimum ce que sont les données personnelles, on comprendra très vite qu’en fait, cette marchandisation des données, cette « patrimonisation » comme on l’appelle, est impossible. La dernière tribune (...)

    #Articles #Enjeux #Gouvernance #Opinions #confiance #Droits_numériques #eDémocratie #liberté

  • Vers le lobbying automatisé ?
    http://www.internetactu.net/a-lire-ailleurs/vers-le-lobbying-automatise

    Dans la grande famille des #CivicTech (les technologies au service de la citoyenneté, cf. « CivicTech : la démocratie a-t-elle un modèle économique ? » et « Les innovations démocratiques en questions »), on connaissait déjà les GovTech (technologies de gouvernement, c’est-à-dire les plateformes au service des autorités pour assurer leur développement numérique à l’image des (...)

    #eDémocratie #politiques_publiques

  • Aux origines de la post-vérité (2/2) : la destruction des Omphalos
    http://www.internetactu.net/2018/01/24/aux-origines-de-la-post-verite-22-la-destruction-des-omphalos

    Le livre d’Andersen a un mérite, incontestable celui de présenter les choses dans une perspective historique (voir la première partie de notre dossier). Non, les fake news ne sont pas un pur produit de Facebook et Twitter ; non, Trump n’est pas un pur accident. Mais peut-être, en se cantonnant dans (...)

    #Articles #Débats #culture #désinformation #eDémocratie

  • Aux origines de la post-vérité (1/2) : du Mayflower à Donald Trump
    http://www.internetactu.net/2018/01/16/aux-origines-de-la-post-verite-12-du-mayflower-a-donald-trump

    Quelle est la racine de cette ère de « post-vérité » dans laquelle nous sommes entrés ? Quelle est l’origine des « fake news » ? S’agit-il d’une conséquence inévitable des médias numériques et des réseaux sociaux, comme on le dit souvent ? Ou les causes sont-elles plus profondes ? Pour Kurt Andersen (Wikipédia, @KBAndersen), romancier et animateur (...)

    #Articles #Débats #désinformation #économie_de_l'attention #eDémocratie

    • « Hutchinson est totalement américaine parce qu’elle avait totalement confiance en elle-même, en ses intuitions et en sa compréhension idiosyncrasique et subjective de la réalité. Elle est complètement américaine parce que, contrairement aux experts pointilleux qui l’entouraient, elle n’acceptait pas l’ambiguïté et n’admettait pas le doute de soi. Ses perceptions et ses croyances étaient vraies parce qu’elles étaient les siennes et parce qu’elle les ressentait complètement comme vraies. »

      Et c’est là le fondement, selon lui, de la névrose américaine : « être Américain, cela veut dire que nous pouvons croire à n’importe quelle foutue chose que nous désirons, que nos croyances sont égales ou supérieures à celles des autres, et que les experts aillent se faire voir ».
      […]
      Le livre d’Andersen est passionnant et très agréable à lire, mais il reste deux questions qui méritent d’être posées et auxquelles l’auteur ne répond pas, ou peu : la post-vérité est elle vraiment un phénomène purement américano-américain, comme il le proclame ? Et ce alors que ce genre de croyance se répand de plus en plus dans la population mondiale, y compris en France ? Et ensuite, la post-vérité ne révèle-t-elle pas quelque chose de plus profond, que l’accident historique du puritanisme américain ne suffit pas à expliquer ?

      #post-vérité #fake_news