• Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

    Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

    L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.

    Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.

    Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.

    La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.

    Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”

    Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.

    È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.

    Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.

    I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.

    Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.

    I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei

    Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.

    Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.

    https://altreconomia.it/cosi-litalia-ha-svuotato-il-diritto-alla-trasparenza-sulle-frontiere
    #Tunisie #Egypte #transparence #Agenzia_industrie_difesa (#Aid) #Support_to_integrated_border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #gardes-côtes_libyens #Frontex

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Figure et #enigme dont les actions ont été enveloppées dans le voile de l’obscurité, Pierre Plantard est un personnage central du #mystere qui se trame à #RennesleChateau dans les profondeurs de l’ #esoterisme et du #holygrail. La survie de la lignée mérovingienne royale à travers #MarieMadeleine est-elle en jeu, qu’en dit l’ #eglise ?
    https://michelcampillo.com/blog/6192.html

  • Loi « immigration » : « Le Conseil a manqué l’occasion de se prononcer sur les limites constitutionnelles aux atteintes portées aux droits des étrangers »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/28/loi-immigration-le-conseil-a-manque-l-occasion-de-se-prononcer-sur-les-limit

    Loi « immigration » : « Le Conseil a manqué l’occasion de se prononcer sur les limites constitutionnelles aux atteintes portées aux droits des étrangers »
    Tribune Samy Benzina Constitutionnaliste
    En censurant essentiellement les « cavaliers législatifs », le Conseil constitutionnel a laissé en suspens la question de la conformité de la « préférence nationale » aux droits et libertés constitutionnels, explique, dans une tribune au « Monde », Samy Benzina, professeur de droit public à l’université de Poitiers.
    La décision du Conseil constitutionnel restera comme l’une des plus habiles qu’ait rendues l’institution de la rue de Montpensier : elle lui a permis de se sortir de la situation inextricable dans laquelle l’avait injustement placée la majorité présidentielle. Le juge constitutionnel n’a en principe vocation qu’à contrôler la constitutionnalité des dispositions d’une loi adoptée par la majorité et contestée par l’opposition. Or, il s’est trouvé saisi d’un texte, fruit d’un compromis entre le gouvernement et les parlementaires de droite, dont des ministres et des membres de la majorité ont pointé publiquement, de manière inédite, les potentiels vices de constitutionnalité.
    L’objet du contrôle de constitutionnalité a priori s’en trouvait dès lors détourné : la majorité présidentielle (relative) entendait en faire un mécanisme lui permettant de remporter juridiquement ce qu’elle n’avait pas su obtenir politiquement. Voilà pourquoi le gouvernement n’a pas pleinement exercé sa fonction de défenseur de la constitutionnalité de la loi devant le juge constitutionnel : il s’en est remis, de manière inhabituelle, « à la sagesse du Conseil constitutionnel » à propos du nombre de dispositions introduites par les sénateurs républicains avec lesquelles il était en désaccord.
    Le Conseil constitutionnel se trouvait dès lors placé dans une impasse présentant des risques significatifs pour sa légitimité. Une censure des dispositions les plus sensibles du texte au regard de leur contrariété à certains droits ou libertés aurait conduit à la vive mise en cause de l’institution et au retour de l’antienne sur le « gouvernement des juges » – un risque bien réel au vu des attaques dont il avait fait l’objet, en 1993, à la suite de sa décision de censure d’une loi relative à l’immigration. A l’inverse, une déclaration de conformité aurait provoqué des doutes sur sa capacité à être un véritable gardien des droits et libertés constitutionnels.
    En choisissant de qualifier l’essentiel des dispositions les plus controversées de la loi de « cavaliers législatifs », le Conseil constitutionnel a privilégié une solution ingénieuse : tout en se fondant sur une jurisprudence bien établie et sur un raisonnement juridique en apparence imparable, il évite de se prononcer sur l’atteinte éventuelle de ces dispositions aux droits et libertés constitutionnels. Cette habileté du Conseil constitutionnel ne le préservera cependant pas de certaines critiques légitimes.
    D’abord, si la jurisprudence relative aux « cavaliers législatifs » est ancienne, elle a en effet été appliquée avec un zèle particulier dans le cadre du contrôle de cette loi, et ce en dépit de la révision constitutionnelle de 2008 qui avait justement vocation à desserrer son contrôle. Rappelons qu’en l’état du droit, lorsqu’il contrôle une disposition qui a été ajoutée par voie d’amendement, le juge constitutionnel doit contrôler qu’elle présente un lien, même indirect, avec le contenu du projet de loi initialement déposé devant le Parlement.
    La décision sur la loi « immigration » montre que ce contrôle n’est pas toujours exercé avec la même vigilance ou cohérence : dans sa décision sur la loi du 10 septembre 2018 pour une immigration maîtrisée, il avait ainsi admis des dispositions relatives à la nationalité sans y voir de « cavalier » alors qu’il vient de faire le contraire sans qu’on puisse objectivement expliquer cette différence.
    Ensuite, ce choix de censurer une grande partie de la loi pour un motif procédural surprend d’autant plus quand on le met en parallèle avec sa décision du 14 avril 2023 sur la loi de réforme des retraites. Dans cette dernière, le Conseil constitutionnel avait refusé de voir un quelconque vice de constitutionnalité dans l’emploi, par le gouvernement, d’un projet de loi de financement rectificative de la Sécurité sociale et l’accumulation du recours aux mécanismes de rationalisation du parlementarisme, et ce alors même que cela avait largement tronqué les débats parlementaires.
    La décision de censurer plus d’un tiers des articles de la loi « immigration » largement issus d’amendements parlementaires donne de ce fait l’impression d’un deux poids, deux mesures : le Conseil paraît appliquer les règles procédurales de manière plus pointilleuse à l’égard des parlementaires que du gouvernement.
    Enfin, cette décision laisse en suspens la question de la conformité aux droits et libertés constitutionnels de certaines dispositions particulièrement controversées, comme l’article 19, qui instaure une « préférence nationale » en restreignant l’accès à certaines prestations sociales non contributives pour nombre d’étrangers. Certes, il y a peu de chance que ces articles soient de nouveau discutés à court terme : on imagine mal la majorité présidentielle soutenir la réintroduction de dispositions qu’elle a contestées publiquement et que le gouvernement n’a pas défendues devant le Conseil constitutionnel.
    La question de la constitutionnalité de certains dispositifs va cependant inévitablement se reposer, au moins dans le cadre des campagnes électorales, dès lors que certains partis défendent cette « préférence nationale ». Le juge constitutionnel a manqué l’occasion de se prononcer au fond sur les limites constitutionnelles aux atteintes portées aux droits des étrangers. Une telle décision aurait pu informer les citoyens sur la compatibilité du programme politique de certains partis avec la Constitution, information qui apparaît d’autant plus nécessaire que la révision de la Constitution n’est pas chose aisée. Ainsi, si la décision du Conseil constitutionnel a le mérite d’empêcher la promulgation de dispositions contestables, elle ne marque pas pour autant un progrès de l’Etat de droit.

    #Covid-19#migrant#migration#france#loiimmigration#constitution#preferencenationale#etranger#egalite#sante#droit

  • Quand Ramy Essam, et les manifestants de la place Tahrir, réclamaient le départ du dictateur Moubarak.

    "Le 11 février 2011, après 18 jours de mobilisation sans précédent, Moubarak est renversé, l’armée assurant la transition. Ramy remonte sur la scène pour célébrer la victoire du mouvement, adaptant pour l’occasion ses paroles, devenues obsolètes. Le chanteur appelle désormais de ses vœux un gouvernement civil, en lieu et place du pouvoir militaire. Plus que jamais, l’artiste se confond avec le reste des manifestants, dont il retranscrit les revendications en musique. Armé de ses mots et de sa seule guitare, il s’impose comme un des acteurs clefs de la révolution en marche. Avec le titre « Riez bien, c’est la révolution » (اضحكوا يا ثورة), il se moque de la propogande de Moubarak selon lequel les manifestants seraient des agents de l’étranger, responsables du marasme économique et payés en hamburgers. « On vous dit que nous mangeons des menus KFC ? Riez ! C’est la révolution ! »

    Essam interprète également لجحش قال للحمار, un poème écrit en 2008 par Ahmad Fouad Negm. « L’âne et le poulain » se réfère à Moubarak et à son fils Gamal, un temps pressenti pour succéder à son dictateur de papa. « Mon poulain, arrête d’être naïf, ne vis pas comme un prétentieux / Nos passagers [les Égyptiens] ne sont pas stupides et leurs os ne sont pas cassés / Demain, ils vont se réveiller, et ils vont faire trembler le chariot / Et tu vas trouver enfoncés dans tes fesses quatre-vingts khazouk ». Le khazouk est une sorte de bâton utilisé lors d’une torture et le chiffre quatre-vingts correspond aux 80 millions d’Egyptiens d’alors."

    https://lhistgeobox.blogspot.com/2024/01/quand-ramy-essam-et-les-manifestants-de.html

  • La Barre face au Sacré-Coeur Vidéo

    La FNLP a décidé de replacer d’une manière symbolique la statue originelle du chevalier de la Barre, martyre victime de l’Eglise, à sa place originelle face au Sacré-Coeur. Histoire de cette initiative.

    https://www.youtube.com/watch?v=ihMKClbS-8o

    Le Chevalier de la Barre est devenu le symbole de la liberté de conscience et de la Libre Pensée . Cette statue inaugurée, lors du Congrès mondial de la Libre Pensée en 1905 à Paris au moment du vote de la loi de Séparation des Églises et de l’État , devant une foule de 25 000 manifestants, a toujours été insupportable pour les suppôts de la Réaction .

    Ainsi l’ Evêché de Paris la fit déplacer en 1926 dans le square Nadar en contrebas de la Butte Montmartre . En 1941, les nazis avec le soutien du Régime de Vichy la déboulonnèrent avec toutes les statues des Humanistes, des Laïques, des Philosophes des Lumières , des Francs-Maçons, pour faire du bronze récupéré pour les canons. Mais les statues des « saints » et de _ Jeanne d’Arc _ furent épargnées par la furie fasciste et corporatiste.

    Un public important de libres penseurs et de laïques, devant une foule de touristes très intéressés et dûment informés par un dépliant de la Libre Pensée en plusieurs langues expliquant le sens du rassemblement, se pressait devant la statue à nouveau érigée en hommage à François-Jean Lefebvre de la Barre .

    Source : https://www.fnlp.fr/2024/01/21/le-7-avril-2023-la-fnlp-remettait-symboliquement-a-sa-place-originelle-la-statu

    #Histoire #paris #montparnasse #chevalier_de_la_Barre #commune #bucher #liberté_de_Penser #statues #Laïcité #religion #FNLP #LP #église #intolérance #statue

  • #Grain_à_moudre

    « L’#uniforme et l’#École : sortir des faux-semblants » - Fondation Res Publica
    https://fondation-res-publica.org/2024/01/18/luniforme-et-lecole-sortir-des-faux-semblants

    Extraits d’une note pro-uniforme publiée sur le site du laboratoire d’idées Fondation Res Publica.

    1/ Si l’École a perdu de son lustre, c’est aussi parce qu’elle a accepté de le perdre, au prix d’une normalisation de l’institution alors conçue comme continuation du foyer, un appendice diminué de l’#autorité_parentale, faisant du professeur un animateur. […] Une des solutions de la ré-institutionnalisation de l’École passe donc par le rehaussement des symboles qui la caractérisent. […] L’uniforme participerait donc à ce rôle de #ritualisation de la République, d’ancrage de cette dernière dans les esprits.[…] Il serait de nature à dissocier clairement l’École du reste de la vie du pays.

    2/ […] Au-delà de l’importance de faire renaître les #symboles qui démarquent l’École, l’uniforme peut aussi contribuer à rappeler l’idéal républicain d’égalité et tempérer le sacre de l’individu. […] Opter pour l’uniforme, c’est privilégier l’#égalité nationale et républicaine sur un conformisme marchand et individualiste.

    3/ Mais l’uniforme est aussi une barrière face aux polémiques et dérives communautaires qui prennent pour cible l’École. En effet, l’institution, parce que centrale, est devenue le lieu de mise en scène des provocations des divers groupes religieux et idéologiques. […] Un règlement strict et uniforme éviterait d’abandonner le corps enseignant face à ses responsabilités et permettrait d’assumer une position ferme. L’uniforme évite en effet l’application de règlements intérieurs différenciés, dont les largesses d’interprétation peuvent donner un arrière-goût d’arbitraire.

    4/ […] Le port de l’uniforme est aussi un rappel de la #discipline attendue dans l’enceinte de l’École. […] L’action conjuguée de la philosophie post-moderne, de la sociologie bourdieusienne et de la nouvelle pédagogie des années 1970 va alors délégitimer le rôle de l’École et la place de la discipline dans son fonctionnement. Le port de l’uniforme aurait ainsi pour vertu de rappeler, sans être néanmoins suffisant, que l’école est le lieu de l’apprentissage, ce qui sous-tend nécessairement le respect de l’autorité.

    5/ Indéniablement, le coût de l’uniforme est amené à peser sur les finances publiques alors que son apport est difficilement mesurable à l’aune des seuls indicateurs de performance. En effet, afin de satisfaire au principe d’égalité des citoyens devant la loi, son coût devra être pris en charge par l’État. Il est néanmoins possible, selon le principe d’#équité, de laisser un reste à charge plus ou moins important aux ménages selon leur revenu fiscal de référence. […]

    6/ Pour autant il ne faut pas se leurrer, l’uniforme n’est nullement une solution miracle aux problèmes rencontrés par l’École. Si les points soulevés précédemment sont d’une importance capitale, d’autres peut-être plus importants encore resteront en suspens. Contrairement, ainsi, à ce qui est souvent invoqué, l’uniforme ne représente nullement une réponse face au #harcèlement, qui se déportera sur d’autres marqueurs que l’accoutrement. Il en va de même pour la question de la #performance_scolaire. Il n’est aussi évidemment pas une solution face à la revalorisation nécessaire du traitement des professeurs dont la perte de pouvoir d’achat relative est massive avec la désindexation du point d’indice. Enfin, l’uniforme ne prend son sens pour restaurer l’autorité, la discipline et l’égalité que si d’autres mesures effectives sont mises en œuvre, à commencer par la mise à l’arrêt de l’intrusion des #parents_d’élèves dans les écoles à d’autres fins que celles de les responsabiliser vis-à-vis du respect des règles communes.

    C’est donc faire un faux procès à l’uniforme que de le rendre incapable de répondre à ces maux, il ne peut le prétendre. Ceux qui l’invoquent alors à tout-va ne font que trahir leur méconnaissance du sujet, ou bien leur manque cruel d’inspiration. Le poids des symboles, aujourd’hui souvent ignoré, reste néanmoins significatif : l’imaginaire collectif en est imprégné. Il importe alors de réinstituer l’école dans la psyché commune et l’uniforme peut, à ce titre, être une voie.

    #Bourdieu #Foucault #finances_publiques

  • Goodbye #Lénine ?... :-D :-D :-D

    #poltique #changement #société #liberté #égalité #fraternité #solidarité #laïcité #paix #monde #progrès #humanité #seenthis #vangauguin

    " Le 21 janvier sera célébré le centenaire de la mort de Lénine. Nous avons tous en tête cette figure du « dictateur » qui harangue les foules lorsqu’il prend le pouvoir, en 1917. Image fausse et monolithique puisqu’en 1921 il revient sur son « communisme de guerre » et glisse vers un socialisme économique.

    Quand Lénine prend le pouvoir, en octobre 1917, la situation de la Russie est effroyable. Les masses russes, qui vivent encore sous le joug de l’autocratie du tsar, souffrent de la faim, de la guerre contre l’Allemagne et revendiquent l’accès à la terre. Lénine leur promet du pain, la liberté, des terres. C’est dans ces conditions peu propices qu’il tente d’édifier le « communisme de guerre », assuré qu’il est d’une réussite rapide, croyant pouvoir compter sur une révolution mondiale ! (...)"

    https://www.marianne.net/agora/nouvelle-politique-economique-il-y-a-100-ans-le-21-janvier-1924-lenine-dis

  • « La loi “asile et immigration” réduit les personnes étrangères au statut d’une force de travail »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/la-loi-asile-et-immigration-reduit-les-personnes-etrangeres-au-statut-d-une-

    « La loi “asile et immigration” réduit les personnes étrangères au statut d’une force de travail »
    Johanna Dagorn Sociologue
    Corinne Luxembourg Géographe
    Mars 2020, 20 heures, les applaudissements aux balcons saluent l’engagement professionnel de femmes et d’hommes qui œuvrent pour que perdure la vie : soin, ravitaillement, hygiène, parfois même éducation… Le pays découvrait ces personnes indispensables à la solidité et au fonctionnement de notre société, à nos communs. Mais l’applaudimètre n’a pas signifié une reconnaissance sociale, et encore moins financière. Une fois cette parenthèse passée, le monde n’a pas changé : les invisibles ont été ramenés à leur ancienne invisibilité.
    Ces femmes et ces hommes nettoient les rues, les bureaux ou livrent des repas. Leur réalité est marquée par des horaires de travail fragmentés, rendant leur temps libre pratiquement inutilisable. Pour la plupart, ils appartiennent à ces minorités visibles, indépendamment de leur nationalité. En 2021, selon l’Insee, 14 % des immigrés en emploi ont le statut d’indépendant. Les jeunes hommes qui livrent des repas à domicile sont dans des conditions de travail extrêmement précaires. La contractualisation à travers des plates-formes électroniques et les discriminations à l’embauche les rendent particulièrement vulnérables.
    Les dangers de la circulation, les conditions météorologiques difficiles et la baisse de revenus de 10 % à 30 % actuellement constatée par les livreurs des plates-formes accentuent encore leur vulnérabilité. Les livreurs doivent couvrir des distances de plus en plus grandes pour tenter de maintenir leurs revenus. Dans ce contexte, le faible coût de livraison imposé par les plates-formes place les personnes consommatrices dans la position d’être servies presque instantanément, leur permettant d’employer de fait une domesticité systématiquement « invisibilisée ».
    Quant aux femmes, elles occupent une part significative des emplois liés au secteur des soins à la personne, le « care » : d’après une étude de la Dares, en 2021, 13 % des femmes immigrées en emploi travaillent comme agentes d’entretien. Ce chiffre est plus élevé que celui des femmes non immigrées en emploi, qui est de 6 %. Les femmes immigrées représentent par ailleurs 6 % des aides à domicile et aides ménagères et 9 % des aides-soignantes et assistantes maternelles.
    En utilisant comme base de l’octroi aux sans-papiers du titre de séjour « métiers en tension » la liste de ces métiers par région publiée au Journal officiel, la loi « asile et immigration » votée le 20 décembre 2023 réduit les personnes étrangères au statut d’une force de travail. Anonymes et réinvisibilisés, déchus de cette fugace reconnaissance nationale, ces femmes et ces hommes ne sont considérés que comme des bras et des corps dévolus à l’économie. Ils vivent de plus en plus souvent l’injonction à rejoindre un auto-entrepreneuriat aux allures de salariat déguisé pour les hommes, ou les métiers de service à la personne mal considérés et mal rémunérés pour les femmes immigrées, qui, au lieu de connaître le plafond de verre, butent sur un plancher collant.
    La loi « asile et immigration », si elle est promulguée, renforcera les inégalités sociales et discriminatoires entre les hommes, les femmes et les personnes désignées comme « éloignées de l’emploi » ou réduites à leur employabilité. Dans une logique adéquationniste, il reviendrait une nouvelle fois aux personnes les plus faibles de répondre aux exigences du marché. Au lieu de poser les bonnes questions, comme celle de la reconnaissance sociale et économique des métiers qui soutiennent nos sociétés, le « marché », soutenu par le législateur, va trier les « bons » et les « mauvais » immigrés, c’est-à-dire ceux qui s’adapteront ou non à cette logique adéquationniste. Cette approche, outre qu’elle pose des questions de justice sociale et économique, néglige une réflexion sur la véritable valeur de ces métiers pour nos sociétés.
    L’ambivalence de cette loi réside dans sa capacité à escamoter le besoin économique dans un tour de passe-passe idéologique tout en rendant visibles, mais sous un autre angle, ces personnes invisibles. Voilà les anciens « premiers de corvée » du Covid-19 à nouveau désignés comme la source principale des problèmes nationaux. Criminalisés par la loi « immigration », ils seront discriminés, au sens de la loi du 16 novembre 2001 sur les vingt-cinq critères de discrimination, puisque, au titre d’une origine nationale non communautaire, le droit pénal ne s’appliquera plus de la même façon sur le sol national.
    En pratique, cette loi interdira durant cinq ans l’obtention de prestations sociales, telles les allocations logement ou familiales. Elle établira des quotas annuels pour les entrées sur le territoire, durcira les conditions d’obtention du titre de séjour, exigera une caution pour les étudiants étrangers, donnant de fait la priorité aux étudiants ayant des ressources financières. De plus, elle vise à instaurer la primauté au droit du sang sur le droit du sol.
    Les législateurs ayant voté cette loi ont donc décidé de rendre ces personnes définitivement visibles d’un point de vue pénal. De plus, ils ont entaillé la lutte institutionnelle contre les discriminations en s’attaquant à l’un des critères de la loi de 2001. Cette approche soulève des préoccupations quant à l’équité et à la justice, remettant en question la protection des droits fondamentaux. Le vote de ce texte va au-delà d’un simple renforcement des frontières ethniques. Il représente une fissure dans le pacte républicain d’égalité.
    Johanna Dagorn est sociologue (université de Bordeaux) ; Corinne Luxembourg est géographe (université Sorbonne-Paris-Nord)

    #Covid-19#migrant#migration#france#loiimmigration#economie#maindoeuvre#discrimination#droit#travailleurmigrant#egalite

  • EU grants €87m to Egypt for migration management in 2024

    Over 2024, the EU will provide €87 million and new equipment to Egypt for a migration management project started in 2022, implemented by the UN migration agency and the French Interior Ministry operator Civipol, three sources close to the matter confirmed to Euractiv.

    The €87 million may increase up to €110 million after the next EU-Egypt Association Council meeting on 23 January, two sources confirmed to Euractiv.

    The European Commission is also conducting parallel negotiations with Cairo to make a raft of funding for other projects which regards a wide range of sectors, including migration, conditional under the International Monetary Fund requests for reforms, a source close to the negotiations told Euractiv.

    The €87 million will be dedicated to increasing the operation capacity of the Egyptian navy and border guards for border surveillance and search and rescue operations at sea.

    The EU-Egypt migration management project started in 2022 with an initial €23 million, with a further €115 million approved for 2023, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    The funds for 2022 and 2023 were used for border management, anti-smuggling and anti-trafficking activities, voluntary returns and reintegration projects.

    “With these EU funds, IOM [the UN’s migration agency, the International Organisation of Migration] is supporting Egyptian authorities through capacity building activities which promote rights-based border management and the respect of international law and standards, also with regard to search and rescue operations,” an official source from IOM told Euractiv. IOM is involved in the training and capacity building of the Egyptian authorities.

    French operator Civipol is working on the tendering, producing and delivering the search new rescue boats for 2024, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    However, according to the EU’s asylum agency’s (EUAA) 2023 migration report, there have been almost no irregular departures from the Egyptian coasts since 2016, with most Egyptian irregular migrants to the EU having departed from Libya.

    At the same time, there has been a significant increase in Egyptian citizens applying for visas in EU countries in recent years, the EUAA report said, mainly due to the deteriorating domestic situation in the country.
    Deepening crisis in Egypt

    Egypt, a strategic partner of the EU, is experiencing a deepening economic and political crisis, with the country’s population of 107 million facing increasing instability and a lack of human rights guarantees.

    In a letter to heads of state and EU institutions last December, the NGO Human Rights Watch asked the EU to “ensure that any recalibration of its partnership with Egypt and related macro-financial assistance provide[s] an opportunity to improve the civil, political, and economic rights of the Egyptian people”.

    “Its impact will only be long-lasting if linked to structural progress and reforms to address the government’s abuses and oppression, that have strangled people’s rights as much as the country’s economy,” the NGO wrote.

    The human rights crisis cannot be treated as separate from the economic crisis, Timothy E. Kaldas, deputy director of the Tahrir Institute for Middle East Policy, told Euractiv. “Political decisions and political practices of the regime play a central role in why Egypt’s economy is the way that it is,” he said.

    “The regime, in an exploitative manner, leverages the Egyptian state. For instance, it forces the making of contracts to regime-owned companies to do infrastructure projects that are extremely costly, and not necessarily contributing to the public good,” Kaldas argued, citing the construction of wholly new cities, or “new palaces for the president”.

    While such projects are making the Egyptian elites richer, the Egyptian people are increasingly poor, and in certain cases, forced to leave the country, Kaldas explained.

    With food and beverage inflation exceeding 70% in Egypt in 2023, the currency facing multiple shocks and collapses reducing Egyptians’ purchasing power and private investors not seeing the North African country as a good place to invest, “the situation is very bleak”, the expert said.

    The independence of the private sector was slammed in a report by Human Rights Watch in November 2018. In the case of Juhayna Owners, two Egyptian businessmen were detained for months after refusing to surrender their shares in their company to a state-owned business.

    Recent events at the Rafah crossing in Gaza, frictions in the Red Sea with Houthi rebels in Yemen and war in the border country of Sudan have compounded the instability.
    Past EU-Egypt relations

    During the last EU-Egypt Association Council in June 2022, the two partners outlined a list of partnership priorities “to promote joint interests, to guarantee long-term stability and sustainable development on both sides of the Mediterranean and to reinforce the cooperation and realise the untapped potential of the relationship”.

    The list of priorities regards a wide range of sectors that the EU is willing to help Egypt. Among others, the document which outlines the outcomes of the meeting, highlights the transition to digitalisation, sustainability and green economy, trade and investment, social development and social justice, energy, environment and climate action, the reform of the public sector, security and terrorism, and migration.

    https://www.euractiv.com/section/politics/news/eu-grants-e87m-to-egypt-for-migration-management-in-2024

    #Egypte #asile #migrations #réfugiés #externalisation #EU #aide_financière #Europe #UE #équipement #Civipol #gardes-frontières #surveillance #technologie #complexe_militaro-industriel #réintégration #retours_volontaires #IOM #OIM

    • L’UE offre à l’Egypte une aide économique contre un meilleur contrôle des migrants

      Les représentants de l’Union européenne signeront dimanche au Caire un partenariat avec le gouvernement d’Abdel Fattah Al-Sissi. Il apportera un soutien de plus de 7 milliards d’euros en échange d’une plus grande surveillance des frontières.

      Après la Tunisie, l’Egypte. Trois premiers ministres européens – Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien, Alexander De Croo et Kyriakos Mitsotakis, les premiers ministres belge et grec – et Ursula von der Leyen, la présidente de la Commission européenne, sont attendus dimanche 17 mars au Caire. Ils doivent parapher une « #déclaration_commune » avec Abdel Fattah #Al-Sissi, le président égyptien, pour la mise en place d’un #partenariat global avec l’Union européenne (UE). A la clé pour l’Egypte un chèque de 7,4 milliards d’euros, comme l’a révélé le Financial Times le 13 mars.

      Cet accord survient après l’annonce, au début de mars, d’un #prêt de 8 milliards de dollars (plus de 7,3 milliards d’euros) du #Fonds_monétaire_international à l’Egypte et, surtout, à la mi-février d’un vaste plan d’investissements de 35 milliards de dollars des #Emirats_arabes_unis. A cette aune, l’aide européenne semble plutôt chiche.

      Pour Bruxelles, l’urgence est d’éviter un écroulement de l’économie égyptienne, très dépendante de l’extérieur. Depuis le Covid-19 et la guerre en Ukraine, elle est plongée dans le marasme et les déficits budgétaires s’enchaînent. De surcroît, le pays doit faire face aux conséquences de la guerre à Gaza et, notamment, aux attaques houthistes en mer Rouge, qui ont entraîné une réduction du nombre de cargos dans le canal de Suez et fait chuter les revenus du pays. Enfin, le tourisme, qui avait atteint des records en 2023 avec plus de quinze millions de visiteurs, pourrait pâtir de la guerre aux portes du pays.

      Crainte d’une arrivée massive de Palestiniens

      Dans le détail, la Commission européenne devrait apporter 5 milliards d’euros de soutien budgétaire à l’Egypte, dont 1 milliard déboursé d’ici au mois de juin, selon une procédure d’urgence. Les 4 autres milliards suivront à plus long terme. Le ministre des finances égyptien, Mohamed Maait, a confirmé cette somme, évoquant une aide de « 5 milliards à 6 milliards de dollars » (4,5 milliards à 5,5 milliards d’euros).

      (#paywall)
      https://www.lemonde.fr/international/article/2024/03/16/l-ue-offre-a-l-egypte-une-aide-economique-contre-un-meilleur-controle-des-mi

    • Egitto-Ue, l’accoglienza? Tocca ai Paesi di transito

      La visita di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e altri leader nazionali dell’Ue in Egitto rilancia l’attenzione sulla dimensione esterna delle politiche migratorie. In ballo ci sono oltre 7 miliardi di euro di aiuti per il bilancio pubblico egiziano in affanno. Non si tratta di un’iniziativa estemporanea. Il nuovo patto Ue sull’immigrazione e l’asilo definito nel dicembre scorso dedica un capitolo all’argomento, con cinque obiettivi: sostenere i Paesi che ospitano rifugiati e comunità di accoglienza; creare opportunità economiche vicino a casa, in particolare per i giovani; lottare contro il traffico di migranti; migliorare il rimpatrio e la riammissione; sviluppare canali regolamentati per la migrazione legale.

      Le istituzioni europee adottano un linguaggio felpato, ma esprimono una linea politica molto netta: l’Ue intende far sì che i profughi vengano accolti lungo la rotta, nei Paesi di transito. Parla di sviluppo dei luoghi di provenienza, facendo mostra d’ignorare sia l’impatto di guerre e repressioni (si pensi al Sudan e all’Etiopia), sia le evidenze circa i legami tra la prima fase di un processo di sviluppo e l’aumento delle partenze. Insiste molto sui rimpatri, volontari e forzati, e sul reinserimento in patria. Rilancia la criminalizzazione dei trasportatori, assemblati sotto l’etichetta di trafficanti, nascondendo il fatto che per i profughi dal Sud del mondo non vi sono alternative: la lotta ai trafficanti è in realtà una lotta contro i rifugiati. In cambio, le istituzioni europee e i governi nazionali offrono una cauta apertura agli ingressi per lavoro, guardando a paesi amici o presunti tali, come appunto l’Egitto, non paesi in guerra o sotto regimi brutali come la Siria o l’Afghanistan.

      Non si tratta peraltro di una novità. L’Ue ha già sottoscritto numerosi accordi con vari Stati che la attorniano o che sono collocati sulle rotte delle migrazioni spontanee: dalle operazioni di Frontex nei Balcani Occidentali, alle intese con i governi dei paesi rivieraschi, dal Marocco alla Turchia, spingendosi anche all’interno dell’Africa in casi come quello del Niger, posto sulla rotta che dall’Africa occidentale arriva al Mediterraneo. Quando si discute di questi accordi, si fronteggiano due posizioni preconcette: quella pro-accoglienza, secondo cui sono inutili, perché migranti e rifugiati arriveranno comunque; dall’altra parte, quella del fronte del rifiuto, che li saluta con entusiasmo come la soluzione del problema, senza badare alle implicazioni e conseguenze. Cercando di arrecare al dibattito un po’ di chiarezza, va anzitutto notato: l’esternalizzazione delle frontiere, tramite gli accordi, (purtroppo) funziona, quando dall’altra parte i governi hanno i mezzi, una certa efficienza e la volontà politica di compiacere i partner europei. Soprattutto reprimendo i migranti in transito, una politica che non comporta sgradevoli contraccolpi in termini di consenso interno. I casi di Turchia e Marocco lo dimostrano. I viaggi della speranza non cessano, ma diventano più lunghi, costosi e pericolosi. Dunque meno praticabili.

      Occorre però considerare i costi umani e politici di questo apparente progresso. Sotto il profilo politico, l’Ue diventa più dipendente dai gendarmi di frontiera stranieri che ha ingaggiato, e la tolleranza verso Erdogan e ora verso Al-Sisi ne è un’eloquente espressione. Al Cairo solo il premier belga ha speso qualche parola in difesa dei diritti umani. Sotto il profilo umano, tra violenze, ricatti, detenzione e abbandono, i profughi pagano il conto della riaffermazione (selettiva) dei confini e della presunta sicurezza che i governi europei dichiarano di voler difendere. Solo una visione cinica e angusta può inalberare come un successo la diminuzione degli sbarchi: meno persone possono sperare in una vita migliore, molte altre sono destinate a perdere la vita nel viaggio, a languire in una terra di mezzo, a rinunciare a sognare libertà e dignità nel continente che se ne fa paladino.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/egittoue-laccoglienza-tocca-ai-paesi-di-transito

  • Palestinians desperate to flee Gaza pay thousands in bribes to ‘brokers’

    Fixers with alleged links to Egyptian intelligence are making a fortune in ‘fees’ from people hoping to exit through the Rafah crossing

    Palestinians desperate to leave Gaza are paying bribes to brokers of up to $10,000 (£7,850) to help them exit the territory through Egypt, according to a Guardian investigation.

    Very few Palestinians have been able to leave Gaza through the #Rafah border crossing but those trying to get their names on the list of people permitted to exit daily say they are being asked to pay large “coordination fees” by a network of brokers and couriers with alleged links to the Egyptian intelligence services.

    One Palestinian man in the US said he paid $9,000 three weeks ago to get his wife and children on the list. The family have been sheltering in schools since the 7 October attacks. On the day of travel, he was told his children’s names were not listed and he would have to pay an extra $3,000. He said the brokers were “trying to trade in the blood of Gazans”.

    “It’s very frustrating and saddening,” he said. “They are trying to exploit people who are suffering, who are trying to get out of the hell in Gaza.” His family have yet to leave.

    According to the UN, 85% of Gaza’s population is now displaced. Most people are packed into the southern city of Rafah as Israeli air and ground assaults push them out of central and northern parts of the territory.

    Egypt, a key regional player in negotiations on Gaza, has long resisted opening the Rafah crossing, fearing that millions of people would flee into the neighbouring Sinai peninsula. The influx, Cairo claimed, could pose a security threat. Egypt’s president, Abdel Fattah al-Sisi, also said a mass influx of refugees from Gaza would set a precedent for displacing Palestinians from the West Bank into Jordan.

    A network of brokers, based in Cairo, helping Palestinians leave Gaza has operated around the Rafah border for years. But prices have surged since the start of the war, from $500 for each person.

    The Guardian has spoken to a number of people who have been told they would have to pay between $5,000 and $10,000 each to leave the strip, with some launching crowdfunding campaigns to raise the money. Others were told they could leave sooner if they paid more.

    Facebook pages that offer news from the Rafah crossing are filled with posts from Palestinians asking for help to get on the list.

    Everyone interviewed said they had been put in touch with brokers through contacts in Gaza. Payments are made in cash, sometimes through middlemen based in Europe and the US.

    Belal, a US citizen from Gaza, was told he would need to raise $85,000 to get 11 family members out of the territory, including five children under three.

    “I’m only considering this option because the US government is not responding to me. If I had any hope about my father’s case, I wouldn’t be,” said Belal, who has spent the past three months appealing to the US state department taskforce to put his diabetic father on the exit list.

    “I’m in this situation because the US doesn’t want to help its own citizens,” he said.

    Belal’s 70-year-old father was briefly detained in December by Israeli forces. He was one of a group of men who were stripped to their underwear, had their hands zip-tied and were taken to a secret location.

    Even before his father’s detention, Belal had spent weeks seeking help, spending hours on the phone to Washington or the US embassy in Jerusalem and emailing reams of information to the state department.

    US state department policy initially specified that it would only assist immediate family of US citizens to exit Gaza but it subsequently said it would expand its assistance to include parents of US citizens and siblings.

    “Since mid-December I’ve received no email from them, and I followed up six times – they can only communicate by email,” he said. “By contrast, I see other people who pay money to leave, and they’re able to exit within a day or two.”

    The state department said it was unable to comment on individual cases, with a spokesperson adding it was unaware of the broker system that some are using to pay to exit Gaza. “We have assisted over 1,300 US citizens, US lawful permanent residents and family members in departing Gaza,” the spokesperson added.

    Mohannad Sabry, an expert on the Sinai peninsula and author of Sinai: Egypt’s Linchpin, Gaza’s Lifeline, Israel’s Nightmare, said the brokers “target the most vulnerable people”.

    “If a family has a member who is injured or sick so they can’t wait, those are the perfect victims; they can squeeze any amount and the family has to come up with the money. It’s a complete racket.”

    Sabry described the Egyptian authorities’ public justifications for not opening the borders as “cover for the corruption happening on the ground”. The head of Egypt’s State Information Service declined to comment when contacted by the Guardian.

    Sabry added: “This is not low-level corruption – this is state-enabled corruption.”

    With very few ways to get out of Gaza, especially for those without citizenship of another country, Palestinians in the territory and their relatives abroad said they had little choice but to put their trust in the broker network.

    One Palestinian living in the UK, who has lost members of their family in Israeli airstrikes, said: “People are making money off the misery of others. They’re desperate to get out to save their lives and instead of helping they’re trying to make money. If there’s a way to get people out, then why not just help?”

    The Palestinian said they were told it would cost $4,000 to help each of the family’s nine young male members to leave in early December. They are now being quoted between $6,000 and $10,000.

    The family turned to the brokers after failing to get help from the British government or humanitarian organisations.

    “I’m not sure why no schemes have been introduced, nothing to evacuate people. I don’t even hear humanitarians talk about this any more,” the Palestinian said.

    “It’s like they’re saying: ‘We’re not going to protect you or give you safety, we’re just going to give you some food and water while you are bombed.’”

    The UK Foreign Office said it had evacuated 300 British nationals and their dependants – defined as children and parents – who were its priority.

    Not all people are willing to pay, however, even if they have the resources. “Every moment threatens their lives and my life,” said one Palestinian in Gaza trying to get out with their family. But they added: “I won’t pay a penny in bribes.”

    https://www.theguardian.com/global-development/2024/jan/08/palestinians-flee-gaza-rafah-egypt-border-bribes-to-brokers

    #frontières #Gaza #Egypte #migrations #fuite #exode #Israël #réfugiés

    • Bande de Gaza : 100 jours de désespoir au cœur d’une guerre trop longue

      À Rafah, aux portes de l’Égypte, un million de personnes campent jusque sur la #plage. Youssef, Asma et tant d’autres sont prisonniers de la bande de Gaza, où, d’#évacuation en évacuation, ils survivent avec leurs familles, des enfants aux personnes âgées. Témoignages.

      « Je suis encore en vie, et tu sais quoi ? Je vais aller habiter sous une tente à Rafah. » Après plusieurs jours sans connexion Internet, Youssef* envoie ce premier message vocal sur Facebook. Une note qu’il termine par un ricanement cynique et nerveux à la fois. C’est donc une tente collée à la frontière égyptienne qui sera le dernier refuge pour Youssef, sa femme enceinte de cinq mois et leurs deux enfants.

      Cent jours après le début du conflit entre Israël et la bande de Gaza, 23 968 personnes, principalement des enfants et des femmes, ont été tuées dans des frappes aériennes, selon le ministère de la santé du Hamas. Des milliers d’autres sont encore portées disparues sous les décombres. Les personnes blessées, pour la plupart privées de soins, se comptent aussi par milliers. Plus de la moitié des hôpitaux de l’enclave palestinienne ne fonctionnent plus, selon l’ONU. Au tableau de ce désastre humanitaire, il faut ajouter les 136 otages israéliens dont on ignore le sort exact.

      Pris au piège du siège total imposé par Israël et de la fermeture du point de passage vers l’Égypte, Youssef et sa famille, dont ce n’est pas le premier déplacement, ne pourront aller plus loin. Déjà, en octobre, ils avaient rejoint le camp de réfugié·es de Nuseirat, dans le centre de la bande de Gaza. Une frappe aérienne avait anéanti en quelques secondes l’appartement où elle vivait à Gaza City. Youssef avait juste eu le temps de récupérer quelques affaires et de sauver sa voiture, dans laquelle il avait fait monter tout le monde.

      Direction donc Nuseirat, une des #safe_places (« #lieux_sûrs ») établies par l’armée israélienne. Mais début janvier, ce camp de réfugié·es est à son tour pris pour cible par cette même armée. Elle demande aux milliers de personnes installées là de quitter au plus vite leurs habitations, assurant que des combattants du Hamas s’y cachent.

      « Ils ont jeté des tracts sur le quartier où on était en disant qu’on devait évacuer, alors on est tous partis. » Mais cette fois, plus de carburant dans la voiture. La fuite de Youssef et de sa famille se fait dans une petite carriole. « Je ne pouvais plus acheter de fuel. Avant, c’était 7 shekels [1,70 euros] le litre, maintenant c’est 120 shekels [30 euros] », explique le père de famille gazaoui.

      Sur Facebook, les messages audio se succèdent, noyés dans un brouhaha immense en arrière-fond. Les cris, les pleurs d’enfants se mêlent aux voix de femmes et d’hommes. « Pour le moment, on est dans une école de l’ONU à Rafah. On partage une salle de classe avec 25 autres personnes mais je pense qu’une tente, ça sera plus sain pour ma femme enceinte et les enfants », poursuit Youssef.

      Tout au sud de l’enclave palestinienne, des centaines de milliers de familles s’entassent désormais derrière les barbelés qui marquent la frontière avec l’Égypte. La bande de Gaza était avant la guerre une prison à ciel ouvert. Rafah en est désormais la dernière cellule.

      Un million de personnes arrivées à Rafah

      « Les gens sont partout ! Il y a trop de monde dans la ville. Les déplacés vivent dans les mosquées, sous des tentes, voire dans la rue. Mais il pleut, et il fait froid », raconte Asma dans un français parfait. La Palestinienne, enseignante de 42 ans, s’était promis de ne pas quitter son appartement de Khan Younès, mais le 21 décembre, elle a dû se résoudre à tout abandonner. « Les soldats israéliens nous ont demandé d’évacuer en lançant des tracts. »

      Asma est donc partie avec son père, âgé de 90 ans, et sa mère, 77 ans. « On a mis presque une heure pour leur faire descendre les trois étages de notre immeuble. On a juste pu prendre avec nous des choses essentielles : de la farine, du sel, des boîtes de sardines, des couvertures. Je ne voulais pas partir, j’ai tellement pleuré. »

      Selon le maire de Rafah, un million de personnes sont arrivées dans sa ville depuis le 7 octobre, et l’afflux se poursuit. Rafah est désormais un immense camp. Les tentes s’alignent partout, même sur le bord de la mer. Sur les images transmises par des journalistes palestiniens sur place, partout des enfants. Des petites filles et des petits garçons qui jouent dans la boue et au milieu des déchets.

      La ville n’est pas à l’abri des frappes aériennes israéliennes. Ces dernières semaines, des familles entières ont été décimées dans le bombardement de leur immeuble. La guerre du ciel n’a jamais épargné personne dans la bande de Gaza. Le 12 janvier, devant le Conseil de sécurité de l’ONU, le secrétaire général adjoint aux affaires humanitaires, Martin Griffiths, l’a répété : « Il n’y a pas d’endroit sûr à Gaza, où une vie humaine digne est quasi impossible. »

      Le 13 janvier, après une semaine de silence, Asma reprend contact et envoie une série de messages audio sur WhatsApp. Sa voix est fatiguée, son souffle coupé. Elle suffoque presque, comme étouffée par l’angoisse. « Les nouvelles sont mauvaises, dit-elle. L’armée israélienne est proche de ma maison. J’ai peur. » Asma marque une pause, puis reprend. « J’ai perdu l’école où je travaillais, je ne veux pas qu’on me prenne aussi ma maison. Je ne peux pas tout perdre. Cet appartement, c’était mon lieu de paix. C’est trop, je n’ai plus d’espoir. »

      Dans un dernier message audio, la Palestinienne se souvient que ce mois de janvier aurait dû se dérouler autrement. Loin de la violence et de la terreur. « On devait venir en France avec d’autres professeurs gazaouis. Cet été, je voulais aussi aller en Égypte pour y passer quelques jours. J’avais un amoureux et maintenant... je ne sais plus où j’en suis. Lui aussi n’a plus de maison. Tout cela s’est fini. Il n’y a aucun avenir pour moi. »

      L’Égypte, juste derrière les barbelés

      Début janvier, plusieurs responsables israéliens ont évoqué un possible déplacement de la population de la bande de Gaza vers d’autres pays. Une option portée par Bezalel Smotrich et Itamar Ben-Gvir, deux ministres ultranationalistes du gouvernement Nétanyahou. Parmi les pays évoqués, l’Égypte mais aussi le Congo. Un plan rejeté en bloc par la communauté internationale.

      Au cœur de l’enclave, de nombreux Palestiniens cherchent à partir à tout prix. Depuis le début de la guerre, Youssef le répète quasiment dans chaque discussion : « Trop c’est trop. » Il espère pouvoir rejoindre l’Europe et offrir une vie stable à ses enfants. Mais comment sortir de ce siège, de ce piège qui se referme chaque jour un peu plus sur lui ?

      Il faut imaginer que pour les familles qui sont à Rafah, l’Égypte est toute proche. Leur sécurité est à portée de vue, juste derrière des barbelés. Mais le poste-frontière entre l’enclave palestinienne et le territoire égyptien est ouvert seulement aux camions humanitaires autorisés à entrer dans la bande de Gaza. Depuis le début du conflit, Le Caire s’oppose fermement à tout déplacement massif de population vers le désert du Sinaï.

      En temps normal, un Palestinien peut traverser ce point de passage après avoir payé 450 euros. Désormais, en faisant appel à des réseaux de trafic d’êtres humains, il faut débourser 4 000 à 5 000 dollars par personne, selon une source palestinienne locale. C’est la seule solution pour être inscrit sur la liste des personnes qui ont un permis pour sortir.

      « Je ne veux pas quitter la bande de Gaza comme cela et aller dans n’importe quel pays. Je veux que l’on me donne une autre nationalité, un travail. Le droit d’avoir une autre vie », explique Asma. Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, des centaines de milliers de Palestiniens et Palestiniennes ont été contraint·es à l’exil au Liban, en Jordanie ou en Syrie, où pour la majorité elles et ils vivent encore dans des conditions très précaires.

      Sa terre, Rami Abou Jamus s’y accroche avec conviction. « On se retrouve sur la plage à Gaza. » C’est l’une de ses phrases préférées. Chaque jour, le journaliste palestinien partage son quotidien à Rafah. C’est là qu’il survit avec sa femme et son fils, âgé de deux ans et demi. Il s’appelle Walid. Son père le filme régulièrement. À chaque nouvelle vidéo, les traits du petit garçon se creusent un peu plus. Son visage d’enfant porte l’empreinte d’une guerre qui dure depuis cent jours. Une guerre déjà trop longue.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/150124/bande-de-gaza-100-jours-de-desespoir-au-coeur-d-une-guerre-trop-longue

      #safe_place

  • Au niveau européen, un pacte migratoire « dangereux » et « déconnecté de la réalité »

    Sara Prestianni, du réseau EuroMed Droits, et Tania Racho, chercheuse spécialiste du droit européen et de l’asile, alertent, dans un entretien à deux voix, sur les #risques de l’accord trouvé au niveau européen et qui sera voté au printemps prochain.

    Après trois années de discussions, un accord a été trouvé par les États membres sur le #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile la semaine dernière. En France, cet événement n’a trouvé que peu d’écho, émoussé par la loi immigration votée au même moment et dont les effets sur les étrangers pourraient être dramatiques.

    Pourtant, le pacte migratoire européen comporte lui aussi son lot de mesures dangereuses pour les migrant·es, entre renforcement des contrôles aux frontières, tri express des demandeurs d’asile, expulsions facilitées des « indésirables » et sous-traitance de la gestion des frontières à des pays tiers. Sara Prestianni, responsable du plaidoyer au sein du réseau EuroMed Droits, estime que des violations de #droits_humains seront inévitables et invite à la création de voies légales qui permettraient de protéger les demandeurs d’asile.

    La chercheuse Tania Racho, spécialiste du droit européen et de l’asile et membre du réseau Désinfox-Migrations, répond qu’à aucun moment les institutions européennes « ne prennent en compte les personnes exilées », préférant répondre à des « objectifs de gestion des migrations ». Dans un entretien croisé, elles alertent sur les risques d’une approche purement « sécuritaire », qui renforcera la vulnérabilité des concernés et les mettra « à l’écart ».

    Mediapart : Le pacte migratoire avait été annoncé par la Commission européenne en septembre 2020. Il aura fait l’objet de longues tergiversations et de blocages. Était-ce si difficile de se mettre d’accord à 27 ?

    Tania Racho : Dans l’état d’esprit de l’Union européenne (UE), il fallait impérativement démontrer qu’il y a une gestion des migrations aux #frontières_extérieures pour rassurer les États membres. Mais il a été difficile d’aboutir à un accord. Au départ, il y avait des mesures pour des voies sécurisées d’accès à l’Union avec plus de titres économiques : ils ont disparu au bénéfice d’une crispation autour des personnes en situation irrégulière.

    Sara Prestianni : La complexité pour aboutir à un accord n’est pas due à la réalité des migrations mais à l’#instrumentalisation du dossier par beaucoup d’États. On l’a bien vu durant ces trois années de négociations autour du pacte : bien que les chiffres ne le justifiaient pas, le sujet a été fortement instrumentalisé. Le résultat, qui à nos yeux est très négatif, est le reflet de ces stratégies : cette réforme ne donne pas de réponse au phénomène en soi, mais répond aux luttes intestines des différents États.

    La répartition des demandeurs d’asile sur le sol européen a beaucoup clivé lors des débats. Pourquoi ?

    Sara Prestianni : D’abord, parce qu’il y a la fameuse réforme du #règlement_Dublin [qui impose aux exilés de demander l’asile dans le pays par lequel ils sont entrés dans l’UE - ndlr]. Ursula von der Leyen [présidente de la Commission – ndlr] avait promis de « #dépasser_Dublin ». Il est aujourd’hui renforcé. Ensuite, il y a la question de la #solidarité. La #redistribution va finalement se faire à la carte, alors que le Parlement avait tenté de revenir là-dessus. On laisse le choix du paiement, du support des murs et des barbelés aux frontières internes, et du financement de la dimension externe. On est bien loin du concept même de solidarité.

    Tania Racho : L’idée de Dublin est à mettre à la poubelle. Pour les Ukrainiens, ce règlement n’a pas été appliqué et la répartition s’est faite naturellement. La logique de Dublin, c’est qu’une personne qui trouve refuge dans un État membre ne peut pas circuler dans l’UE (sans autorisation en tout cas). Et si elle n’obtient pas l’asile, elle n’est pas censée pouvoir le demander ailleurs. Mais dans les faits, quelqu’un qui voit sa demande d’asile rejetée dans un pays peut déposer une demande en France, et même obtenir une protection, parce que les considérations ne sont pas les mêmes selon les pays. On s’interroge donc sur l’utilité de faire subir des transferts, d’enfermer les gens et de les priver de leurs droits, de faire peser le coût de ces transferts sur les États… Financièrement, ce n’est pas intéressant pour les États, et ça n’a pas de sens pour les demandeurs d’asile.

    D’ailleurs, faut-il les répartir ou leur laisser le libre #choix dans leur installation ?

    Tania Racho : Cela n’a jamais été évoqué sous cet angle. Cela a du sens de pouvoir les laisser choisir, parce que quand il y a un pays de destination, des attaches, une communauté, l’#intégration se fait mieux. Du point de vue des États, c’est avant tout une question d’#efficacité. Mais là encore on ne la voit pas. La Cour européenne des droits de l’homme a constaté, de manière régulière, que l’Italie ou la Grèce étaient des États défaillants concernant les demandeurs d’asile, et c’est vers ces pays qu’on persiste à vouloir renvoyer les personnes dublinées.

    Sara Prestianni : Le règlement de Dublin ne fonctionne pas, il est très coûteux et produit une #errance continue. On a à nouveau un #échec total sur ce sujet, puisqu’on reproduit Dublin avec la responsabilité des pays de première entrée, qui dans certaines situations va se prolonger à vingt mois. Même les #liens_familiaux (un frère, une sœur), qui devaient permettre d’échapper à ce règlement, sont finalement tombés dans les négociations.

    En quoi consiste le pacte pour lequel un accord a été trouvé la semaine dernière ?

    Sara Prestianni : Il comporte plusieurs documents législatifs, c’est donc une #réforme importante. On peut évoquer l’approche renforcée des #hotspots aux #frontières, qui a pourtant déjà démontré toutes ses limites, l’#enfermement à ciel ouvert, l’ouverture de #centres_de_détention, la #procédure_d’asile_accélérée, le concept de #pays-tiers_sûr que nous rejetons (la Tunisie étant l’exemple cruel des conséquences que cela peut avoir), la solidarité à la carte ou encore la directive sur l’« instrumentalisation » des migrants et le concept de #force_majeure en cas d’« #arrivées_massives », qui permet de déroger au respect des droits. L’ensemble de cette logique, qui vise à l’utilisation massive de la #détention, à l’#expulsion et au #tri des êtres humains, va engendrer des violations de droits, l’#exclusion et la #mise_à_l’écart des personnes.

    Tania Racho : On met en place des #centres_de_tri des gens aux frontières. C’est d’une #violence sans nom, et cette violence est passée sous silence. La justification du tri se fait par ailleurs sur la nationalité, en fonction du taux de protection moyen de l’UE, ce qui est absurde car le taux moyen de protection varie d’un pays à l’autre sur ce critère. Cela porte aussi une idée fausse selon laquelle seule la nationalité prévaudrait pour obtenir l’asile, alors qu’il y a un paquet de motifs, comme l’orientation sexuelle, le mariage forcé ou les mutilations génitales féminines. Difficile de livrer son récit sur de tels aspects après un parcours migratoire long de plusieurs mois dans le cadre d’une #procédure_accélérée.

    Comment peut-on opérer un #tri_aux_frontières tout en garantissant le respect des droits des personnes, du droit international et de la Convention de Genève relative aux réfugiés ?

    Tania Racho : Aucune idée. La Commission européenne parle d’arrivées mixtes et veut pouvoir distinguer réfugiés et migrants économiques. Les premiers pourraient être accueillis dignement, les seconds devraient être expulsés. Le rush dans le traitement des demandes n’aidera pas à clarifier la situation des personnes.

    Sara Prestianni : Ils veulent accélérer les procédures, quitte à les appliquer en détention, avec l’argument de dire « Plus jamais Moria » [un camp de migrants en Grèce incendié – ndlr]. Mais, ce qui est reproduit ici, c’est du pur Moria. En septembre, quand Lampedusa a connu 12 000 arrivées en quelques jours, ce pacte a été vendu comme la solution. Or tel qu’il est proposé aujourd’hui, il ne présente aucune garantie quant au respect du droit européen et de la Convention de Genève.

    Quels sont les dangers de l’#externalisation, qui consiste à sous-traiter la gestion des frontières ?

    Sara Prestianni : Alors que se négociait le pacte, on a observé une accélération des accords signés avec la #Tunisie, l’#Égypte ou le #Maroc. Il y a donc un lien très fort avec l’externalisation, même si le concept n’apparaît pas toujours dans le pacte. Là où il est très présent, c’est dans la notion de pays tiers sûr, qui facilite l’expulsion vers des pays où les migrants pourraient avoir des liens.

    On a tout de même l’impression que ceux qui ont façonné ce pacte ne sont pas très proches du terrain. Prenons l’exemple des Ivoiriens qui, à la suite des discours de haine en Tunisie, ont fui pour l’Europe. Les États membres seront en mesure de les y renvoyer car ils auront a priori un lien avec ce pays, alors même qu’ils risquent d’y subir des violences. L’Italie négocie avec l’#Albanie, le Royaume-Uni tente coûte que coûte de maintenir son accord avec le #Rwanda… Le risque, c’est que l’externalisation soit un jour intégrée à la procédure l’asile.

    Tania Racho : J’ai appris récemment que le pacte avait été rédigé par des communicants, pas par des juristes. Cela explique combien il est déconnecté de la réalité. Sur l’externalisation, le #non-refoulement est prévu par le traité sur le fonctionnement de l’UE, noir sur blanc. La Commission peut poursuivre l’Italie, qui refoule des personnes en mer ou signe ce type d’accord, mais elle ne le fait pas.

    Quel a été le rôle de l’Italie dans les discussions ?

    Sara Prestianni : L’Italie a joué un rôle central, menaçant de faire blocage pour l’accord, et en faisant passer d’autres dossiers importants à ses yeux. Cette question permet de souligner combien le pacte n’est pas une solution aux enjeux migratoires, mais le fruit d’un #rapport_de_force entre les États membres. L’#Italie a su instrumentaliser le pacte, en faisant du #chantage.

    Le pacte n’est pas dans son intérêt, ni dans celui des pays de premier accueil, qui vont devoir multiplier les enfermements et continuer à composer avec le règlement Dublin. Mais d’une certaine manière, elle l’a accepté avec la condition que la Commission et le Conseil la suivent, ou en tout cas gardent le silence, sur l’accord formulé avec la Tunisie, et plus récemment avec l’Albanie, alors même que ce dernier viole le droit européen.

    Tania Racho : Tout cela va aussi avoir un #coût – les centres de tri, leur construction, leur fonctionnement –, y compris pour l’Italie. Il y a dans ce pays une forme de #double_discours, où on veut d’un côté dérouter des bateaux avec une centaine de personnes à bord, et de l’autre délivrer près de 450 000 visas pour des travailleurs d’ici à 2025. Il y a une forme illogique à mettre autant d’énergie et d’argent à combattre autant les migrations irrégulières tout en distribuant des visas parce qu’il y a besoin de #travailleurs_étrangers.

    Le texte avait été présenté, au départ, comme une réponse à la « crise migratoire » de 2015 et devait permettre aux États membres d’être prêts en cas de situation similaire à l’avenir. Pensez-vous qu’il tient cet objectif ?

    Tania Racho : Pas du tout. Et puisqu’on parle des Syriens, rappelons que le nombre de personnes accueillies est ridicule (un million depuis 2011 à l’échelle de l’UE), surtout lorsqu’on le compare aux Ukrainiens (10 millions accueillis à ce jour). Il est assez étonnant que la comparaison ne soit pas audible pour certains. Le pacte ne résoudra rien, si ce n’est dans le narratif de la Commission européenne, qui pense pouvoir faire face à des arrivées mixtes.

    On a les bons et mauvais exilés, on ne prend pas du tout en compte les personnes exilées, on s’arrête à des objectifs de #gestion alors que d’autres solutions existent, comme la délivrance de #visas_humanitaires. Elles sont totalement ignorées. On s’enfonce dans des situations dramatiques qui ne feront qu’augmenter le tarif des passeurs et le nombre de morts en mer.

    Sara Prestianni : Si une telle situation se présente de nouveau, le règlement « crise » sera appliqué et permettra aux États membres de tout passer en procédure accélérée. On sera donc dans un cas de figure bien pire, car les entraves à l’accès aux droits seront institutionnalisées. C’est en cela que le pacte est dangereux. Il légitime toute une série de violations, déjà commises par la Grèce ou l’Italie, et normalise des pratiques illégales. Il occulte les mesures harmonisées d’asile, d’accueil et d’intégration. Et au lieu de pousser les États à négocier avec les pays de la rive sud, non pas pour renvoyer des migrants ou financer des barbelés mais pour ouvrir des voies légales et sûres, il mise sur une logique sécuritaire et excluante.

    Cela résonne fortement avec la loi immigration votée en France, supposée concilier « #humanité » et « #fermeté » (le pacte européen, lui, prétend concilier « #responsabilité » et « #solidarité »), et qui mise finalement tout sur le répressif. Un accord a été trouvé sur les deux textes au même moment, peut-on lier les deux ?

    Tania Racho : Dans les deux cas, la seule satisfaction a été d’avoir un accord, dans la précipitation et dans une forme assez particulière, entre la commission mixte paritaire en France et le trilogue au niveau européen. Ce qui est intéressant, c’est que l’adoption du pacte va probablement nécessiter des adaptations françaises. On peut lier les deux sur le fond : l’idée est de devoir gérer les personnes, dans le cas français avec un accent particulier sur la #criminalisation_des_étrangers, qu’on retrouve aussi dans le pacte, où de nombreux outils visent à lutter contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Il y a donc une même direction, une même teinte criminalisant la migration et allant dans le sens d’une fermeture.

    Sara Prestianni : Les États membres ont présenté l’adoption du pacte comme une grande victoire, alors que dans le détail ce n’est pas tout à fait évident. Paradoxalement, il y a eu une forme d’unanimité pour dire que c’était la solution. La loi immigration en France a créé plus de clivages au sein de la classe politique. Le pacte pas tellement, parce qu’après tant d’années à la recherche d’un accord sur le sujet, le simple fait d’avoir trouvé un deal a été perçu comme une victoire, y compris par des groupes plus progressistes. Mais plus de cinquante ONG, toutes présentes sur le terrain depuis des années, sont unanimes pour en dénoncer le fond.

    Le vote du pacte aura lieu au printemps 2024, dans le contexte des élections européennes. Risque-t-il de déteindre sur les débats sur l’immigration ?

    Tania Racho : Il y aura sans doute des débats sur les migrations durant les élections. Tout risque d’être mélangé, entre la loi immigration en France, le pacte européen, et le fait de dire qu’il faut débattre des migrations parce que c’est un sujet important. En réalité, on n’en débat jamais correctement. Et à chaque élection européenne, on voit que le fonctionnement de l’UE n’est pas compris.

    Sara Prestianni : Le pacte sera voté avant les élections, mais il ne sera pas un sujet du débat. Il y aura en revanche une instrumentalisation des migrations et de l’asile, comme un outil de #propagande, loin de la réalité du terrain. Notre bataille, au sein de la société civile, est de continuer notre travail de veille et de dénoncer les violations des #droits_fondamentaux que cette réforme, comme d’autres par le passé, va engendrer.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/au-niveau-europeen-un-pacte-migratoire-dangereux-et-deconnecte-de-la-reali
    #pacte #Europe #pacte_migratoire #asile #migrations #réfugiés

  • #Israël serait déjà en contact avec plusieurs pays pour y expulser les Gazaouis

    Le Premier ministre israélien, Benyamin Nétanyahou, a affirmé, le 25 décembre, œuvrer en faveur d’un #plan de “#migration_volontaire” des Gazaouis, tandis qu’un député de son parti a révélé que l’État hébreu était en contact avec des pays d’#Amérique_latine et d’#Afrique à cet effet.

    Un éventuel #plan d’expulsion des Palestiniens de Gaza semble se préciser chaque jour un peu plus, rapporte la presse internationale. Outre les #bombardements, qui ont redoublé d’intensité et ont déplacé, depuis octobre, 85 % de la population vers le sud, jusqu’à la frontière avec l’Égypte, les déclarations des responsables israéliens sur le sujet sont de plus en plus explicites. Ainsi, lors d’une réunion à huis clos le 25 décembre avec son parti à la Knesset [Parlement israélien], le Premier ministre, Benyamin Nétanyahou, a pour la première fois évoqué ouvertement un plan de "migration volontaire".

    "Notre problème, ce sont les pays qui sont prêts à les accueillir, et nous y travaillons", aurait-il déclaré, cité par plusieurs médias, dont The Palestinian Chronicle.

    Le jour même, un député membre du Likoud, Danny Danon, a été encore plus loin, révélant, lors d’un entretien avec la radio locale Kan Reshet Bet, qu’Israël était déjà en contact avec plusieurs pays afin d’explorer les diverses possibilités d’#accueil des Gazaouis.

    "J’ai reçu des demandes de divers pays [...] prêts à accueillir des réfugiés [...], ce sont des pays d’Amérique du Sud et d’Afrique", a-t-il indiqué, relayé par Ha’Aretz. Il a ajouté que certains pays ont réclamé, en contrepartie, une "#compensation_financière" tandis que d’autres "ont demandé autre chose".

    "Cela arrive dans chaque guerre"

    Sans préciser les noms des pays avec lesquels l’État hébreu est en contact, le député du Likoud s’est contenté d’évoquer le cas du Canada, dont le ministre de l’Immigration a annoncé, le 21 décembre, la volonté de son pays d’accueillir les familles élargies des Gazaouis ayant la citoyenneté canadienne, rapporte le site Jewish Press.

    "Nous resterons en contact d’abord avec les pays de la région [Moyen-Orient] et avec les pays du monde [...]. Même si chaque pays reçoit dix mille ou vingt mille Gazaouis, cela est significatif", a souligné Danny Danon, selon lequel il s’agirait d’une "migration volontaire de Palestiniens qui souhaitent partir".

    "Cela arrive dans chaque guerre, regardez ce qui se passe en Syrie : un million et demi [de personnes] sont allées en Jordanie, trois millions en Turquie et quelques millions en Europe", a-t-il poursuivi, critiquant les réticences des deux principaux pays frontaliers - la Jordanie et l’Égypte -, qui ont fermement exprimé leur rejet d’un plan d’#exode des Palestiniens.

    "Occasion historique"

    Ces déclarations contrastent largement avec le démenti d’Eylon Levy, porte-parole du gouvernement israélien, qui, le 10 décembre, avait souligné devant des journalistes étrangers qu’Israël n’avait aucune intention de déplacer la population palestinienne hors de la bande de Gaza, qualifiant les affirmations à ce sujet d’"accusations scandaleuses et fausses".

    Elles attisent surtout les craintes, parmi les Palestiniens, d’une seconde "Nakba" ou d’une "#épuration_ethnique" - comme le dénoncent plusieurs voix en Israël et dans le monde arabe - et font écho à un document de travail du ministère du Renseignement israélien, révélé par la presse en octobre dernier, qui esquissait déjà au début du conflit plusieurs scénarios pour l’après-guerre, dont l’un prévoit d’installer les Gazaouis dans le #Sinaï égyptien.

    En novembre dernier, dans une tribune publiée dans le journal américain The Wall Street Journal, Danny Danon et Ram Ben-Barak, ancien haut responsable du Mossad, ont élargi le spectre géographique, appelant aussi l’Europe à contribuer aux efforts d’accueil des Gazaouis qui "cherchent" à émigrer.

    Dans la foulée, le ministre des Finances israélien, Bezalel Smotrich (extrême droite), avait souligné l’importance de l’enjeu politique. L’État d’Israël est "incompatible" avec l’existence d’une enclave palestinienne indépendante qui repose "sur la haine d’Israël et aspire à sa destruction", avait-il martelé, selon le site Middle East Eye.

    "Pour les démagogues d’extrême droite, et notamment le ministre des Finances, Bezalel Smotrich, et le ministre de la Sécurité nationale, Itamar Ben Gvir, cette guerre est une occasion historique pour réaliser leur liste de voeux : la destruction d’une grande partie de Gaza, l’élimination de l’appareil politique et militaire du Hamas, et, si possible, l’expulsion de dizaines ou de centaines de milliers de Palestiniens vers le Sinaï égyptien", dénonçait déjà, quatre jours après le début de la guerre, Amjad Iraqi, journaliste pour le site israélo-palestinien +972 Magazine.

    https://www.courrierinternational.com/article/revue-de-presse-israel-serait-deja-en-contact-avec-plusieurs-
    #expulsion #nettoyage_ethnique #géographie_du_vide #Palestine #Gaza #Egypte

    • Plan d’« #émigration » des Palestiniens : Israël avance dans son projet de #nettoyage_ethnique à Gaza

      Cette semaine, le Times of Israel révélait qu’Israël était en pourparlers avec des pays tels que le Congo pour qu’ils accueillent des Palestiniens de Gaza dans le cadre d’un prétendu « plan d’#émigration_volontaire » L’État sioniste, qui négocie depuis le début de sa contre-offensive avec ses voisins pour accueillir les Palestiniens qu’il force à l’exil en ravageant la bande de Gaza et en faisant plus de 22.000 morts, voudrait pouvoir déporter des civils gazaouis dans des pays comme le Congo ou l’Arabie Saoudite, à condition dans ce dernier cas que les Palestiniens soient disposés à travailler en tant qu’ouvriers dans le bâtiment.

      Benjamin Netanyahu a effet assumé, au cours d’une réunion du Likoud, être à la recherche de pays acceptant de recevoir les réfugiés gazaouis. « Notre problème est de trouver des pays qui sont désireux d’intégrer des gazaouis et nous travaillons là-dessus » a-t-il expliqué rapporte le Times of Israel. Le ministre des renseignements israéliens, Gila Gamliel a depuis fait une déclaration dans le même sens mardi dernier à la presse israélienne : « l’émigration volontaire est le meilleur programme, le programme le plus réaliste, pour le lendemain de la fin de la guerre ».

      Contrairement à ce que l’euphémisme utilisé laisse penser, il ne s’agit bien entendu pas d’une « émigration volontaire » dans la mesure où quitter Gaza est une question de vie ou de mort pour les plus de 2 millions d’habitants de l’enclave. Gamliel a ensuite clarifié le projet des autorités israélienne à l’issue de la guerre : « Il n’y aura pas de travail et 60% des terres agricoles deviendront des zones-tampon par nécessité sécuritaire ».

      Ce discours signe un alignement total avec les perspectives défendues ces derniers jours par les ministres d’extrême-droite Smotrich et Ben Gvir. Le premier expliquait ainsi le 31 décembre : « pour avoir la sécurité, nous devons contrôler le territoire et, pour cela, nous avons besoin d’une présence civile sur place ». Et d’ajouter : « S’il y avait 100 000 ou 200 000 Arabes à Gaza contre 2 millions aujourd’hui, le discours ne serait pas le même. » Alors que le projet d’annexion de la bande de Gaza de la part de responsables israéliens se fait de plus en plus clair, l’État d’Israël assume sa volonté d’aller au bout du nettoyage ethnique de la zone, par la guerre et par le déplacement forcé des gazaouis.
      Face à la réaction hypocrite du camp impérialiste, poursuivre la lutte pour la Palestine

      Les gouvernements occidentaux, alliés d’Israël, se sont fendus de communiqués dénonçant les premières déclarations des ministres d’extrême-droite. Du côté des Etats-Unis, le département d’État a qualifié mardi leurs propos « d’irresponsables ». L’État français a de son côté expliqué condamner « les propos des ministres israéliens des Finances, M. Bezalel Smotrich, et de la Sécurité nationale, M. Itamar Ben Gvir, appelant à « l’émigration » de la population gazaouie ainsi qu’au rétablissement de colonies à Gaza et à son occupation terrestre. »

      Des réactions totalement hypocrites de la part de gouvernements occidentaux qui, tout en appelant à la « modération » de la politique génocidaire d’Israël, n’ont jamais remis en question leur soutien à l’État sioniste Israël, auquel ils continuent à vendre du matériel militaire et dont ils soutiennent clairement l’offensive en cours. Une conséquence logique de leur appui historique à l’existence de cette enclave coloniale au service des intérêts impérialistes au Moyen-Orient. Une hypocrisie particulièrement visible à l’heure où Netanyahou s’aligne, une fois de plus, sur l’aile droite de son gouvernement.

      Dès la fondation de l’État d’Israël, avec la Nakba, et au fur et à mesure de l’extension de l’occupation des territoires palestiniens, le déplacement forcé des populations palestiniennes a été une constante dans la région. Aujourd’hui, près de 5 millions de réfugiés palestiniens vivent déjà dans des camps de réfugiés au Moyen-Orient. Le déplacement forcé de populations s’inscrit dans les pratiques génocidaires d’Israël, qui n’ont jamais remises en cause le soutien des gouvernements occidentaux à l’État d’Israël.

      Dans ce cadre, et face à la complicité objective des régimes arabes avec Israël, il y a urgence à poursuivre la construction d’un mouvement international de solidarité avec la Palestine. Un mouvement qui, pour peser, devra chercher à élargir le mouvement et à porter la lutte sur le terrain de la lutte de classes, pour pousser des sections syndicales dans des secteurs stratégiques à empêcher les livraisons de matériel militaire ou porter un coup aux profits de multinationales qui profitent de la colonisation de la Palestine.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Plan-d-emigration-des-Palestiniens-Israel-avance-dans-son-proje

  • MADE IN ITALY PER REPRIMERE IN EGITTO: Rapporto annuale sulle esportazioni di armi italiane all’Egitto nel 2022

    Sistemi di difesa prodotti in Italia vengono esportati in Egitto ogni anno, dove vengono utilizzati dalle forze armate e di sicurezza egiziane, che operano in un clima di impunità in cui non sono in vigore meccanismi di tutela adeguati, e il principio di proporzionalità nell’uso della forza viene sistematicamente derogato.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: il Ruolo delle Armi Piccole e Leggere italiane delle Violazioni dei Diritti Umani in Egitto» traccia la fornitura di #SALW dall’Italia all’Egitto tra il 2013 e il 2021, evidenziando il nesso tra commerci d’arma e deterioramento dei diritti umani a partire dalla documentazione dell’uso delle SALW prodotte in Italia nelle gravi violazioni dei diritti umani ed atti di repressione interna compiuti da attori statali egiziani.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: Rapporto Annuale sull’Export di Armi italiane all’Egitto nel 2022» inizia una serie di analisi annuali delle esportazioni di sistemi d’arma italiani all’Egitto. Monitorare l’andamento delle esportazioni di armi significa vigilare sull’osservanza dello Stato italiano dei propri obblighi derivanti dalla normativa su diritti umani e vendita di armi, per richiamarlo alle proprie responsabilità per la complicità nella crisi dei diritti umani in Egitto.

    Il Rapporto 2022 fa luce sul notevole aumento del valore delle esportazioni di materiale bellico all’Egitto, pressoché raddoppiato rispetto all’anno precedente. Il materiale autorizzato all’esportazione nel 2022 include un ampio numero di pezzi di ricambio, ma anche TNT, un componente chiave usato nella produzione di mine antiuomo, nonostante l’Italia sia parte del Trattato di Ottawa.

    https://www.egyptwide.org/publication/made-in-italy-to-suppress-in-egypt-2
    #Egypte #Italie #armes #commerce_d'armes #armement #exportation #rapport #2022 #EgyptWide

    • “Made in Italy per reprimere in Egitto”. Così l’Italia continua vendere armi al regime

      Nel 2022 il nostro Paese ha autorizzato l’esportazione di armi a Il Cairo per 72 milioni di euro. Con 11 licenze sulle 16 concesse Leonardo ha il peso maggiore ma nell’elenco figurano anche #Beretta e #Rheinmetall_Italia. I ricercatori di EgyptWide lanciano l’allarme sull’uso delle armi “leggere” per la repressione del dissenso

      Nonostante le frequenti denunce sulla violazione dei diritti umani in Egitto, l’Italia continua a vendere armi al regime di Abdel Fattah al-Sisi. Nel 2022, ultimo anno per cui sono disponibili dati aggiornati, il valore delle armi autorizzate per l’esportazione verso Il Cairo hanno raggiunto un valore pari a 72,7 milioni di euro. Una cifra che si va a sommare ai circa 262 milioni di euro di strumentazioni belliche che sono state consegnate al Paese Nordafricano dopo essere state vendute negli anni precedenti.

      È quanto emerge dal report “Made in Italy per reprimere in Egitto” curato dai ricercatori di EgyptWide, iniziativa italo-egiziana per i diritti umani e le libertà civili, basato sui dati contenuti nell’ultima Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, pubblicata con grande ritardo solo a metà luglio 2023 dalla presidenza del Consiglio dei ministri.

      Nel corso del 2022 sono state rilasciate 16 licenze per l’esportazione di armi verso l’Egitto: nonostante il valore totale aggregato risulti visibilmente diminuito rispetto ai picchi del 2019 e del 2020 (anni in cui sono stati toccati rispettivamente gli 871 e i 991 milioni di euro) il dato per il 2022 mostra un raddoppio rispetto all’anno precedente. Occorre però precisare che i picchi toccati nel 2019 e nel 2020 sono stati trainati principalmente da due importanti commesse per la fornitura di 32 elicotteri prodotti da #Leonardo Spa e di due fregate #Fremm costruite da #Fincantieri.

      Nel 2022 l’Egitto sale al sedicesimo posto tra gli importatori di armi ed equipaggiamento bellico di produzione italiana (guadagnando due posizioni rispetto all’anno precedente). Tra i produttori che hanno ottenuto nuove le licenze per l’export figurano Leonardo (primo esportatore in Egitto con 11 licenze), Fabbrica d’armi Beretta e Rheinmetall Italia.

      Il report curato da EgyptWide evidenzia poi il caso di #Simmel_Difesa (azienda specializzata nella produzione di munizioni di grosso calibro) che ha ottenuto il via libera all’export verso Il Cairo dell’esplosivo denominato “#Composto_B”. “È un componente primario di proiettili di artiglieria, razzi, bombe a mano, mine terrestri e altre munizioni -si legge nel rapporto-. Nonostante l’Italia abbia aderito alla Convenzione di Ottawa, nel 2022 ha comunque esportato in Egitto una quantità non chiara di Tnt, che è l’esplosivo più comunemente usato nelle mine anticarro e antiuomo”.

      I ricercatori non sono in grado di affermare con certezza la quantità di esplosivo autorizzata ma si tratta comunque di un elemento preoccupante “alla luce del fatto che la fame di esplosivi utilizzati in operazioni militari offensive da parte dell’Egitto appare ingiustificata, dato che il Paese non è attualmente in guerra, ma solleva anche notevoli preoccupazioni per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro lungo le catene di approvvigionamento”.

      Questi dati si inseriscono poi all’interno di uno scenario particolarmente allarmante, ovvero l’utilizzo di armi piccole e leggere (#Small_arms_and_light_weapons, Salw) da parte delle forze di sicurezza egiziane in operazioni che hanno portato alla violazione dei diritti umani nel Paese e che EgyptWide ha documentato in un precedente report pubblicato a maggio 2023. Nel rapporto si evidenzia come tra il 2013 e il 2021 (ultimo anno per cui erano disponibili dati aggiornati) il nostro Paese abbia venduto a Il Cairo armi leggere per un valore compreso tra i 18,9 e i 19,2 milioni di euro. L’elenco comprende oltre 30mila revolver e pistole, più di 3.600 fucili e oltre 470 fucili d’assalto a cui si aggiunge un numero non precisato di carabine, mitragliatrici, munizioni, parti di ricambio e attrezzature per la direzione del tiro, tecnologie militari e software.

      “I modelli italiani di armi piccole e leggere #Beretta_70/90, #Benelli_SuperNova_Tactical e #Beretta_92FS sono stati utilizzati da militari e forze di sicurezza egiziane per intimidire e disperdere civili nell’ambito di operazioni di sicurezza urbana; fucili Beretta 70/90 sono stati impiegati dalle forze speciali ad #Al-Nahda e #Rabaa_Al-Adawiya, durante il massacro del 2013 in cui hanno perso la vita quasi mille civili”, si legge nel rapporto.

      La vendita di queste armi è avvenuta nonostante le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013 con le quali i Paesi dell’Unione avevano concordato una sospensione delle forniture militari verso l’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani. A seguito della destituzione del governo di Mohamed Morsi, infatti, la presa del potere da parte di al-Sisi quell’anno ha segnato l’inizio di una stagione di terrore e di progressivo deterioramento dei diritti nel Paese. Basti ricordare il massacro di Rabaa dell’agosto 2013 in cui hanno perso la vita quasi settecento manifestanti, il rapimento e l’uccisione del ricercatore Giulio Regeni, il conflitto a bassa intensità che dal 2014 interessa la penisola del Sinai e che ha gravi ripercussioni sulla popolazione civile. Per non parlare delle molte leggi che reprimono il dissenso da parte dei media e delle Ong indipendenti, fino a quella antiterrorismo che autorizza indirettamente esecuzioni extragiudiziali e garantisce ampia impunità agli agenti delle varie forze di polizia e dell’esercito.

      Eppure, nonostante la gravità di questa situazione l’export di piccole armi “made in Italy” non si è mai fermato. Dal 2013 al 2014 il valore totale delle esportazioni dall’Italia all’Egitto è quasi raddoppiato, passando da 17,2 a 31,7 milioni di euro; nel 2015 aveva raggiunto i 37,6 milioni di euro. A seguito dell’omicidio Regeni, avvenuto nel 2016, si registra una contrazione, ma già nel 2018 il valore autorizzato all’export per le piccole armi aveva toccato quota 69 milioni di euro.

      Ma in quali mani sono finite queste pistole e questi fucili? EgypWide “ha riscontrato le prove di un consistente abuso” a partire dal 2013, “tra cui anche le prove dell’uso di armi italiane in violazione dei diritti umani commesse da attori statali”. Sono diversi i casi ricostruiti dai ricercatori indipendenti, a partire dall’uccisione di un gruppo di sospetti disarmati nel Nord del Sinai a febbraio 2018: la fonte è un video pubblicato su YouTube dall’esercito egiziano in cui si mostra l’uccisione di un gruppo di presunti terroristi. “Nel video si vede un piccolo distaccamento dell’esercito egiziano che apre il fuoco con fucili Beretta”, scrivono i ricercatori.

      Armi italiane sarebbero state usate anche nella repressione di proteste di piazza, a partire da quelle di al-Nahda e Rabaa avvenute a Il Cairo il 14 agosto 2013: “Un video pubblicato dal quotidiano online el-Badil mostra le forze di polizia egiziane equipaggiate con fucili Beretta 70/90 mentre aggrediscono un manifestante disarmato”. Ulteriori prove fotografiche -immagini scattate dall’agenzia Getty Immages- mostrano poliziotti armati di fucili Benelli M3T.

      “Il gravissimo stato dei diritti umani in Egitto implica che il Paese dovrebbe essere annoverato tra quelli in cui esiste un rischio significativo che gli armamenti di importazione vengano utilizzati per commettere gravi violazioni dei diritti umani -concludono gli autori del report-. L’analisi del materiale audiovisivo presentata in questo rapporto mostra armi piccole e leggere fabbricate in Italia e impiegate nella repressione interna, in atti che includono l’uso eccessivo della forza contro manifestanti, nonché l’impiego su larga scala in processi più ampi di securitizzazione e militarizzazione dello spazio pubblico, che finiscono per limitare le libertà di movimento e di riunione pacifica”.

      https://altreconomia.it/made-in-italy-per-reprimere-in-egitto-cosi-litalia-continua-vendere-arm
      #droits_humains #répression

  • Sanaa Seif : « Il faut se battre pour tout, pour le moindre droit »

    Lisez l’interview de la militante égyptienne qui travaille pour la défense de la démocratie et pour la lutte contre les prisons politiques

    Depuis 1952, lorsque l’occupation britannique a quitté l’Égypte, le pays est dirigé par l’armée. La dictature de 30 ans d’Hosni Mubarak a été renversée après le soulèvement de 2011 qui a débuté le 25 janvier, une date connue sous le nom de « jour de rage ». De nouvelles élections ont eu lieu en 2012, qui ont conduit à la victoire de Mohamed Morsi du parti islamiste Fraternité musulmane. Son mandat a duré un an, jusqu’à ce qu’il soit interrompu par le coup d’État militaire dirigé par le général Abdel Fattah Al-Sisi en 2013. Depuis lors, la population égyptienne vit sous un régime autoritaire et antidémocratique.

    Sanaa Seif est une cinéaste et militante égyptienne et britannique. Elle était présente lors du soulèvement de 2011 et a fait campagne pour la libération de son frère, Alaa Abd Al-Fattah, et d’autres prisonniers politiques du régime d’Al-Sisi. Ses actions en défense de ces militants ont abouti à son arrestation à trois reprises. Dans cette interview, réalisée en juin 2023, Sanaa parle de la conjoncture politique actuelle en Égypte et de sa campagne en cours pour la libération des défenseurs des droits humains dans le pays.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/14/sanaa-seif-il-faut-se-battre-pour-tout-pour-le

    #international #egypte

  • Claire Hédon, Défenseure des droits : « Le projet de “loi immigration” sacrifie les droits fondamentaux des étrangers »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/09/claire-hedon-defenseure-des-droits-le-projet-de-loi-immigration-sacrifie-les

    Claire Hédon, Défenseure des droits : « Le projet de “loi immigration” sacrifie les droits fondamentaux des étrangers »
    Tribune
    Un équilibre doit exister entre le pouvoir des Etats de décider des règles d’entrée et de séjour sur le territoire et la protection des droits et libertés. Or le texte débattu à l’Assemblée bouleverse cet équilibre, en bafouant la dignité et l’égalité, estime la Défenseure des droits dans une tribune au « Monde ».
    Lundi 11 décembre, un texte d’une gravité majeure pour les droits fondamentaux des étrangers doit être discuté à l’Assemblée nationale. Dès sa présentation par le gouvernement, j’ai alerté sur les nombreuses atteintes aux droits et libertés comprises dans le projet de loi « pour contrôler l’immigration, améliorer l’intégration ». La surenchère démagogique lors des débats parlementaires, notamment au Sénat, les a aggravées au mépris des obligations constitutionnelles et internationales de l’Etat.
    En premier lieu, au nom de l’objectif légitime de sauvegarde de l’ordre public et de lutte contre l’immigration irrégulière, le projet de loi supprime nombre de garanties actuellement prévues pour protéger les droits fondamentaux des étrangers. Il accroît en outre, avec une acception particulièrement extensive de l’ordre public, les possibilités de refus ou retrait du droit au séjour, y compris pour des personnes n’ayant fait l’objet d’aucune condamnation pénale. L’éloignement des étrangers se trouverait ainsi très largement remis à l’appréciation de l’administration, au risque de multiplier des décisions arbitraires.
    La grave fragilisation du droit au séjour qui en résulterait serait d’autant plus préoccupante que le droit au juge est amoindri. En particulier, la réforme du contentieux envisagée par le projet maintient, dans de nombreux cas, des délais de recours extrêmement brefs, compliquant de fait l’accès au juge.
    En deuxième lieu, le texte accrédite l’idée, pourtant démentie par de nombreuses études, selon laquelle des conditions d’accueil « trop favorables » encourageraient l’immigration irrégulière ou l’installation durable d’étrangers sur le territoire. Omniprésent dans le débat parlementaire, ce discours a poussé le législateur à envisager des restrictions de nombreux droits, notamment pour les personnes particulièrement vulnérables.
    Je pense d’abord au droit d’asile, avec la multiplication des possibilités de rejet des demandes sans examen au fond, couplée à une extension de la procédure à juge unique devant la Cour nationale du droit d’asile. Je pense ensuite, au droit au séjour des étrangers malades, réservé aux cas où le traitement requis n’existe pas du tout dans le pays d’origine sans vérification par ailleurs des possibilités d’accès effectif au traitement. Cette disposition conduirait à une nette diminution des admissions au séjour pour soins, au détriment de la santé des personnes concernées et alors même que ce motif d’admission au séjour représente une part infime des titres de séjour délivrés (environ 1,5 %).
    Je pense enfin au déploiement renforcé, en outremer, d’un droit dérogatoire, concourant à la pérennisation, sur le territoire de la République, de zones de moindres droits, y compris pour les étrangers qui y sont régulièrement établis, voire pour les Français lorsqu’ils y fondent une famille avec des étrangers. En troisième lieu, la politique d’intégration promue par le texte inverse le rapport entre l’obtention d’un titre de séjour et l’intégration.
    Autrefois conçue comme permettant, par sa stabilité, une meilleure intégration, la carte de résident de dix ans est devenue le titre d’exception, délivré en récompense ultime d’une intégration jugée réussie. Le projet de loi vient approfondir cette logique en subordonnant l’accès aux titres de séjour de longue durée à la justification d’une maîtrise suffisante de la langue française ainsi qu’à la réussite à un examen d’évaluation de la connaissance de la société française et de ses principes.
    Mon institution, autorité indépendante inscrite dans la Constitution, chargée de veiller au respect des droits et libertés, est le témoin quotidien de l’extrême dégradation des droits des étrangers vivant en France. La défaillance des services préfectoraux y contribue largement : il ne s’agit pas ici de mettre en cause le travail des agents publics, mais de constater que le manque d’interlocuteur humain et surtout les délais d’attente pour l’obtention ou le simple renouvellement d’un titre de séjour se sont considérablement aggravés depuis la dématérialisation des guichets engagée à marche forcée, sans renforcement des moyens des préfectures.
    Des milliers d’étrangers présents en France, parfois depuis des décennies, se retrouvent en situation irrégulière du fait de cette défaillance. Surtout, les ruptures de droits subies (pertes d’emploi et de droits sociaux) sont dramatiques et provoquent une précarité insoutenable. Les parcours de vie sont gravement et irrémédiablement entravés.
    Un équilibre doit exister entre, d’une part, le droit souverain des Etats de décider des règles d’entrée et de séjour sur le territoire en tenant compte de l’impératif de sauvegarde de l’ordre public et, d’autre part, la nécessaire protection des droits fondamentaux. Le projet de loi bouleverse profondément cet équilibre, au profit de nouvelles formes d’ostracisme et au détriment de principes juridiques essentiels, en particulier les principes de dignité et d’égalité. Cette rupture dans la protection des droits et libertés en France emporterait des effets néfastes pour la cohésion sociale et l’intérêt général.

    #Covid-19#migrant#migration#france#droit#etranger#defenseurdesdroits#loimigration#immigration#egalité#droitsouverain#territoire#protection

  • Israël force les Gazaouis à un nouvel exode vers Rafah : « Où veulent-ils qu’on aille ? »
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/07/israel-force-les-gazaouis-a-un-nouvel-exode-vers-rafah-ou-veulent-ils-qu-on-

    Israël force les Gazaouis à un nouvel exode vers Rafah : « Où veulent-ils qu’on aille ? »
    Des abris de fortune ont été érigés non loin de la frontière égyptienne. La majorité de ceux qui fuient ont déjà été déplacés plusieurs fois depuis le début de la guerre.
    Par Clothilde Mraffko(Jérusalem, correspondance)
    Une voix de synthèse masculine, au timbre métallique, égrène des numéros en arabe au bout du fil. Chacun correspond à une zone précise dans la bande de Gaza, désignée pour être évacuée. Ces derniers jours, plusieurs habitants ont reçu ces appels « d’avertissement de l’armée israélienne », écrit Afaf Ahmed, étudiante en littérature anglaise de 21 ans, en publiant sur Instagram une vidéo du coup de téléphone qui lui est parvenu le 2 décembre. La veille, juste après la fin de la trêve, des avions de chasse israéliens avaient largué des tracts munis d’un QR code. Ce dernier ouvrait l’accès à une carte de la bande de Gaza divisée en centaines de petits cantons, tous identifiés par des numéros.
    « Ils vous appellent tard le soir quand vous dormez et vous demandent de partir. Soit vous mourez à la maison sous les bombes, soit vous êtes tués en tentant d’échapper aux bombes, soit vous succombez de froid et de faim, dehors, avec vos proches. OÙ veulent-ils qu’on aille ! ? », ajoutait Afaf Ahmed. La jeune femme a fui sa maison dans la ville de Gaza au début de la guerre. Elle a quitté Khan Younès, la grande ville du sud où elle s’était réfugiée, après cet appel de l’armée. Contactée par Le Monde, elle s’excuse : elle n’a plus « l’énergie pour répondre à des interviews ».
    Selon l’Organisation des Nations unies, plus de 80 % des Gazaouis ont été déplacés de force depuis le début de la guerre, bloqués au sein de l’enclave assiégée par Israël. Certains ont fait des allers-retours dans leur quartier, au gré des bombardements. Dès le 13 octobre, l’armée israélienne a ordonné aux habitants du nord de l’enclave d’aller vers le centre et le sud, entraînant un exode sur fond de chaos humanitaire. Depuis début décembre, les militaires ont demandé une nouvelle évacuation de larges zones dans le centre et à Khan Younès – soit quelque 22 % du territoire. Des dizaines de milliers de Gazaouis ont alors repris la route, direction Rafah cette fois, à la frontière égyptienne. Des vidéos montraient de longues colonnes de familles à pied, avec des sacs à dos ou de petites valises, avançant, sous la pluie, le long d’une chaussée où circulaient aussi quelques charrettes surchargées de matelas et de rares voitures. L’exode devrait encore s’intensifier dans les prochains jours, alors que l’armée israélienne progresse à Khan Younès.
    Dans un message vocal envoyé sur WhatsApp, Rahaf Shamaly, une artiste de 20 ans, fait l’inventaire, la voix fatiguée. D’abord, elle a fui sa maison, à Al-Rimal, dans la ville de Gaza, pour se réfugier à l’hôpital. Ce dernier a été évacué et la famille a atterri dans le grenier d’amis, à Qarara, un quartier de Khan Younès. Début décembre, l’armée israélienne a ordonné l’évacuation de la zone. « Au début, je n’y ai pas cru. Puis nous avons vécu une nuit terrible de bombardements. Au petit matin, de 4 heures à 5 h 30, nous étions sous une ceinture de feu : des missiles, qui frappaient partout, les uns après les autres, en continu. » La famille prend ses affaires et s’en va dans la panique, sans savoir où. En chemin, les bombes pleuvent toujours. Elle débarque à Rafah et pendant deux nuits dort à même le sol, dans un abri de fortune. Rahaf a depuis réussi à dénicher un appartement « au loyer exorbitant ». « Où ira-t-on ensuite ? Hier, on plaisantait en famille et d’un coup, j’ai éclaté en sanglots. Je veux retrouver mon lit, mes draps. Ma vie me manque. »
    Ahmad Masri, professeur de français à l’université Al-Aqsa, s’est isolé dans sa voiture pour répondre au téléphone : dans l’école de Rafah où il s’est installé avec ses proches, « c’est très bruyant ». Femmes et enfants s’entassent à soixante dans les salles de classe, les hommes dorment dans la cour. L’air est saturé de fumée noire ; faute de gaz dans l’enclave sous siège, les déplacés cuisinent sur le feu qu’ils alimentent avec ce qu’ils trouvent, papier, Nylon… « Beaucoup de choses manquent, il n’y a ni sucre ni sel », note-t-il. L’aide, largement insuffisante, passe encore à Rafah. Mais elle atteint difficilement Khan Younès et le centre de l’enclave. Le nord est inaccessible depuis le 1er décembre. Environ 800 000 personnes y seraient toujours basées, selon le gouvernement du Hamas. Ahmad, dont l’appartement dans la ville de Gaza a été bombardé, a fui de Khan Younès juste après la fin de la trêve. « Les rues principales étaient ciblées, nous sommes passés par des axes secondaires. Je prends les menaces de l’armée israélienne très au sérieux. Si je restais, ils allaient me considérer comme une cible », explique-t-il. Ceux qui sont arrivés après lui s’installent dans la rue, faute de place dans l’école.
    Depuis son bureau à Rafah, Adnan Abou Hasna bascule en appel vidéo et montre l’alignement d’abris – des piliers de bois surmontés de bouts de Nylon – que les déplacés ont érigés à la hâte juste sous ses fenêtres. « Il commence à faire froid. C’est horrible. Je ne sais pas comment ils font avec la pluie », explique ce porte-parole de l’UNRWA. L’agence onusienne des réfugiés palestiniens qui a ouvert ses écoles et bâtiments à près de 1,2 million de déplacés ne peut absorber ce nouvel exode. Deux camps, érigés par les déplacés eux-mêmes, sont sortis de terre ces derniers jours le long de la frontière avec l’Egypte, sur des étendues de sable sans accès à l’eau potable, à la nourriture ou à des toilettes. Les images sont inédites à Gaza où avant la guerre, malgré un blocus israélien de seize ans, tout le monde avait un toit. Dans la psyché palestinienne, elles réveillent les souvenirs des camps érigés par le Comité international de la Croix-Rouge au moment de la Nakba, l’exode de plus de 700 000 Palestiniens à la création de l’Etat d’Israël en 1948.
    Israël prétend que ces évacuations sont humanitaires – son allié américain insiste sur la nécessité de protéger davantage les civils à Gaza. Le ministère de la santé local a recensé plus de 16 200 Gazaouis tués, à 70 % des femmes et des enfants – sans compter les milliers de corps encore sous les décombres. L’ONU et des ONG multiplient les alertes, alors que l’Etat hébreu détruit les institutions et infrastructures permettant la survie des habitants.L’armée israélienne a désigné une « zone sûre » à Al-Mawasi, à l’ouest de Khan Younès, où étaient installées des colonies avant le retrait de l’Etat hébreu de Gaza en 2005. La bande sablonneuse de 6,5 km2 ressemble à une décharge. « Vous ne pouvez pas déclarer une zone sûre sans consulter personne ! Les Nations unies ont été claires : elles s’y opposent », souligne Adnan Abu Hasna. Le bureau de la coordination des affaires humanitaires de l’ONU rappelle, de son côté, qu’en droit international « les civils qui choisissent de rester dans les zones désignées pour une évacuation ne perdent pas leur protection ».
    Beaucoup ne peuvent pas partir, insiste Azmi Keshawi. Son fils a été blessé dans le sud de la bande de Gaza qu’Israël avait pourtant désigné comme plus « sûr ». La famille a été déplacée quatre fois. « Depuis la fin de la trêve, Israël a commis tant de massacres, entraînant les habitants toujours plus au sud. Ils poussent vers une direction, puis ferment la route, poussent une autre zone, referment derrière…, analyse ce chercheur pour l’International Crisis Group. On ne comprend pas leur tactique. Les gens voient ça comme un moyen de réaliser ce dont personne ne veut : la déportation des Gazaouis en Egypte. » Le Caire a massé des tanks à la frontière et mis plusieurs fois en garde Israël contre un tel scénario. Les Gazaouis redoutent que tout exil soit sans retour, comme lors de la Nakba. « Beaucoup craignent qu’Israël frappe et ouvre des brèches dans le mur [à la frontière], poussant les gens hors de Gaza. Comment réagiraient alors les Egyptiens ? Personne ne sait ce qui peut se passer. Ce n’est pas entre les mains des Palestiniens. La communauté internationale doit être ferme sur le sujet. Elle voit ce qui se passe aujourd’hui, mais elle ne fait rien. »

    #Covid-19#migration#migrant#gaza#israel#guerre#crise#deportation#exil#egypte#nakba#deplacement#mortalite#frontiere

  • Alex Crawford [journaliste Sky News] sur X : https://twitter.com/AlexCrawfordSky/status/1732053157302116802

    It is absolutely farcical to try to peddle the view that foreign journalists are not entering Gaza because it’s ‘dangerous’. International journalists have been delib blocked from entering #Gaza by primarily #Israel who doesnt want them seeing the war crimes 🧵

    Aided and abetted by #Egypt who refuse to let them enter through Rafah Crossing plus every other country with influence such as USA and UK who’re not kicking up an almighty fuss about the denial of independent access

    Meanwhile every single Gazan journalist is being hounded and hunted and struggling to stay alive, eat, clean themselves whilst seeing family, friends and colleagues killed, lose their homes or suffer terrible deprivation. Embeds with IDF simply do not count imo

    The notion that foreign journalists are either not trying hard enough or don’t want to or are scared of the risk is utterly ridiculous. There’s a queue of foreign journalists from every country on the planet wanting to get in. We are being blocked.

    #respect à cette Dame

  • Avant la guerre, une filière d’émigration des Gazaouis vers l’Europe en plein essor
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/29/avant-la-guerre-une-filiere-d-emigration-des-gazaouis-vers-l-europe-en-plein

    Avant la guerre, une filière d’émigration des Gazaouis vers l’Europe en plein essor
    En 2023, les Palestiniens représentaient la population la plus importante parmi les nouveaux demandeurs d’asile sur les îles grecques. Ils passaient par la Turquie qui leur accordait des facilités pour obtenir un visa.
    Par Marina Rafenberg(Athènes, correspondance)
    Publié le 29 novembre 2023 à 14h00
    « La situation économique était dramatique. Je ne voyais plus d’autre solution que de partir pour l’Europe », raconte-t-il, une cigarette à la main. En seulement deux semaines et contre 220 dollars, il obtient son visa. Une seule agence de voyages à Gaza est autorisée à fournir ce précieux sésame. « Cette agence a un accord avec le consulat turc basé à Tel-Aviv et avec le Hamas. Nos empreintes digitales y sont prises », explique Gihad. D’autres documents sont requis pour bénéficier du visa : « Un certificat assurant que tu travailles à ton compte ou que tu es employé, un passeport à jour et un compte en banque avec au moins 1 000 dollars. » « Mais ces documents peuvent être falsifiés facilement par l’agence contre 100 dollars », avoue-t-il.
    Gihad montre sur son téléphone portable une photo de la foule qui attend devant l’agence. Elle est composée d’hommes qui n’ont pas plus de 30 ans et veulent échapper à une situation asphyxiante à Gaza, avant la guerre déclenchée par l’attaque du Hamas contre Israël, le 7 octobre. Début septembre, plusieurs médias palestiniens se sont fait l’écho de cette vague de départs. Le 19 septembre, la chaîne Palestine TV a diffusé une émission intitulée « L’émigration de Gaza. Ce dont personne ne parle ». Quelques jours auparavant, le 9 septembre, de violents affrontements entre de jeunes Palestiniens et des agents de sécurité avait eu lieu devant l’agence de voyages ayant le monopole des visas. Plusieurs personnes auraient été blessées, d’après les médias palestiniens, ce qui aurait obligé l’agence à fermer plusieurs jours. Le journal en ligne palestinien Al-Quds a rendu compte de l’incident et affirmé qu’en seulement quelques jours, avant cette altercation, plus de 18 000 jeunes Gazaouis avaient fait une demande de visa pour la Turquie.
    Hady, la vingtaine, se souvient de cette journée. « Le Hamas ne veut pas de mauvaise publicité, affirme-t-il. Dire que les jeunes partent en Europe pour un avenir meilleur, c’est évidemment le signe que des problèmes existent à Gaza. » Le jeune fermier qui élevait des poulets dans l’enclave est parti pour des « raisons économiques », mais aussi « pour vivre dans un pays qui respecte les droits de l’homme ».Après avoir obtenu leur visa, Hady et Gihad ont dû se rendre au Caire pour prendre l’avion. La première étape est le passage de la frontière, à Rafah. A partir de mai 2018, le président égyptien, Abdel Fattah Al-Sissi, a facilité l’accès au territoire égyptien pour les Gazaouis. Mais, dans les faits, les hommes de moins de 40 ans ne sont pas autorisés à quitter l’enclave, « sauf contre des bakchichs aux gardes-frontières égyptiens et aux membres du Hamas », précise Hady.
    Contre 400 dollars chacun, les deux acolytes ont pu franchir la frontière, puis se rendre à l’aéroport du Caire sous escorte policière. « A l’aéroport, une salle spéciale est conçue pour les Palestiniens voyageant hors de Gaza. Quand tu vas prendre ton billet d’avion, la police te suit et te surveille jusqu’à ce que tu montes dans l’avion », raconte Gihad, qui a encore dépensé 350 dollars pour son billet.
    Groupe le plus importantUne fois à Istanbul, les jeunes hommes entrent en contact avec un passeur arabe. Ils déboursent encore plus de 2 000 dollars chacun pour rejoindre une île grecque. Gihad est arrivé à Lesbos, dans un canot transportant vingt-trois personnes parmi lesquelles onze autres Palestiniens de Gaza. « Nous avons été chanceux, car nous n’avons pas été renvoyés en Turquie. De nombreuses personnes voyageant avec moi sur ce bateau avaient déjà tenté une fois de venir en Grèce et avaient été renvoyées de force vers les eaux turques », rapporte-t-il. Le gouvernement grec est accusé, depuis 2020, par les organisations non gouvernementales et des enquêtes journalistiques, d’avoir généralisé les refoulements illégaux de migrants aux frontières, ce qu’il nie.A Izmir, en Turquie, d’où il est parti pour Lesbos, Gihad assure qu’en septembre tous les hôtels étaient pleins de migrants, des Palestiniens plus particulièrement, voulant passer en Grèce. En 2023, selon le Haut-Commissariat aux réfugiés (HCR), les Palestiniens représentaient plus de 20 % des arrivées sur les îles grecques, le groupe le plus important parmi les nouveaux demandeurs d’asile. La hausse des arrivées de réfugiés palestiniens avait commencé en 2022, selon le HCR.
    Selon le ministère des migrations grec, « un peu moins de 3 000 demandeurs d’asile palestiniens se trouvent actuellement dans les camps [installés pour leur hébergement] ». « Il existait [avant l’attaque du 7 octobre] un petit flux de Palestiniens de Gaza qui passaient par Le Caire, puis par Istanbul, pour rejoindre certaines îles de l’est de la mer Egée, comme Cos, ajoute le porte-parole du ministère. Le désastre humanitaire à Gaza et le déplacement massif des Gazaouis du nord vers le sud de l’enclave nous inquiètent, mais il n’existe aujourd’hui ni réflexion ni projet pour l’accueil des réfugiés palestiniens dans le pays. » Gihad comme Hady n’ont maintenant qu’une idée en tête : que leurs familles puissent sortir de l’« enfer de la guerre » et les rejoignent en Europe.

    #Covid-19#migrant#migration#gaza#palestinien#exil#emigration#turquie#grece#egype#HCR#sante#deplacement#refugie#demandeurdasile

    • C’est hallucinant :

      « Le Hamas ne veut pas de mauvaise publicité, affirme-t-il. Dire que les jeunes partent en Europe pour un avenir meilleur, c’est évidemment le signe que des problèmes existent à Gaza. » Le jeune fermier qui élevait des poulets dans l’enclave est parti pour des « raisons économiques », mais aussi « pour vivre dans un pays qui respecte les droits de l’homme ».

      Hallucinant

      La seule fois où il est question de l’état sioniste :

      Gihad montre sur son téléphone portable une photo de la foule qui attend devant l’agence. Elle est composée d’hommes qui n’ont pas plus de 30 ans et veulent échapper à une situation asphyxiante à Gaza, avant la guerre déclenchée par l’attaque du Hamas contre Israël, le 7 octobre.

      Trop c’est trop

      #sans_vergogne #MSM

  • Cette #hospitalité_radicale que prône la philosophe #Marie-José_Mondzain

    Dans « Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays », Marie-José Mondzain, 81 ans, se livre à un plaidoyer partageur. Elle oppose à la #haine d’autrui, dont nous éprouvons les ravages, l’#amour_sensible et politique de l’Autre, qu’il faudrait savoir adopter.

    En ces temps de crispations identitaires et même de haines communautaires, Marie-José Mondzain nous en conjure : choisissons, contre l’#hostilité, l’hospitalité. Une #hospitalité_créatrice, qui permette de se libérer à la fois de la loi du sang et du #patriarcat.

    Pour ce faire, il faut passer de la filiation biologique à la « #philiation » − du grec philia, « #amitié ». Mais une #amitié_politique et proactive : #abriter, #nourrir, #loger, #soigner l’Autre qui nous arrive ; ce si proche venu de si loin.

    L’hospitalité fut un objet d’étude et de réflexion de Jacques Derrida (1930-2004). Née douze ans après lui, à Alger comme lui, Marie-José Mondzain poursuit la réflexion en rompant avec « toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines ». Et en prônant l’#adoption comme voie de réception, de prise en charge, de #bienvenue.

    Son essai Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays se voudrait programmatique en invitant à « repenser les #liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la #rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter ».

    D’Abraham au film de Tarkovski Andreï Roublev, d’Ulysse à A. I. Intelligence artificielle de Spielberg en passant par Antigone, Shakespeare ou Melville, se déploie un plaidoyer radical et généreux, « phraternel », pour faire advenir l’humanité « en libérant les hommes et les femmes des chaînes qui les ont assignés à des #rapports_de_force et d’#inégalité ».

    En cette fin novembre 2023, alors que s’ajoute, à la phobie des migrants qui laboure le monde industriel, la guerre menée par Israël contre le Hamas, nous avons d’emblée voulu interroger Marie-José Mondzain sur cette violence-là.

    Signataire de la tribune « Vous n’aurez pas le silence des juifs de France » condamnant le pilonnage de Gaza, la philosophe est l’autrice d’un livre pionnier, adapté de sa thèse d’État qui forait dans la doctrine des Pères de l’Église concernant la représentation figurée : Image, icône, économie. Les sources byzantines de l’imaginaire contemporain (Seuil, 1996).

    Mediapart : Comment voyez-vous les images qui nous travaillent depuis le 7 octobre ?

    Marie-José Mondzain : Il y a eu d’emblée un régime d’images relevant de l’événement dans sa violence : le massacre commis par le Hamas tel qu’il fut en partie montré par Israël. À cela s’est ensuite substitué le tableau des visages et des noms des otages, devenu toile de fond iconique.

    Du côté de Gaza apparaît un champ de ruines, des maisons effondrées, des rues impraticables. Le tout depuis un aplomb qui n’est plus un regard humain mais d’oiseau ou d’aviateur, du fait de l’usage des drones. La mort est alors sans visages et sans noms.

    Face au phénomène d’identification du côté israélien s’est donc développée une rhétorique de l’invisibilité palestinienne, avec ces guerriers du Hamas se terrant dans des souterrains et que traque l’armée israélienne sans jamais donner à voir la moindre réalité humaine de cet ennemi.

    Entre le visible et l’invisible ainsi organisés, cette question de l’image apparaît donc extrêmement dissymétrique. Dissymétrie accentuée par la mise en scène des chaînes d’information en continu, qui séparent sur les écrans, avec des bandes lumineuses et colorées, les vues de Gaza en ruine et l’iconostase des otages.

    C’est avec de telles illustrations dans leur dos que les prétendus experts rassemblés en studio s’interrogent : « Comment retrouver la paix ? » Comme si la paix était suspendue à ces images et à la seule question des otages. Or, le contraire de la guerre, ce n’est pas la paix − et encore moins la trêve −, mais la justice.

    Nous assistons plutôt au triomphe de la loi du talion, dont les images deviennent un levier. Au point que visionner les vidéos des massacres horrifiques du Hamas dégénère en obligation…

    Les images deviennent en effet une mise à l’épreuve et une punition. On laisse alors supposer qu’elles font suffisamment souffrir pour que l’on fasse souffrir ceux qui ne prennent pas la souffrance suffisamment au sérieux.

    Si nous continuons à être uniquement dans une réponse émotionnelle à la souffrance, nous n’irons pas au-delà d’une gestion de la trêve. Or la question, qui est celle de la justice, s’avère résolument politique.

    Mais jamais les choses ne sont posées politiquement. On va les poser en termes d’identité, de communauté, de religion − le climat très trouble que nous vivons, avec une indéniable remontée de l’antisémitisme, pousse en ce sens.

    Les chaînes d’information en continu ne nous montrent jamais une carte de la Cisjordanie, devenue trouée de toutes parts telle une tranche d’emmental, au point d’exclure encore et toujours la présence palestinienne. Les drones ne servent jamais à filmer les colonies israéliennes dans les Territoires occupés. Ce serait pourtant une image explicite et politique…

    Vous mettez en garde contre toute « réponse émotionnelle » à propos des images, mais vous en appelez dans votre livre aux affects, dans la mesure où, écrivez-vous, « accueillir, c’est métamorphoser son regard »…

    J’avais écrit, après le 11 septembre 2001, L’#image peut-elle tuer ?, ou comment l’#instrumentalisation du #régime_émotionnel fait appel à des énergies pulsionnelles, qui mettent le sujet en situation de terreur, de crainte, ou de pitié. Il s’agit d’un usage balistique des images, qui deviennent alors des armes parmi d’autres.

    Un tel bombardement d’images qui sème l’effroi, qui nous réduit au silence ou au cri, prive de « logos » : de parole, de pensée, d’adresse aux autres. On s’en remet à la spontanéité d’une émotivité immédiate qui supprime le temps et les moyens de l’analyse, de la mise en rapport, de la mise en relation.

    Or, comme le pensait Édouard Glissant, il n’y a qu’une poétique de la relation qui peut mener à une politique de la relation, donc à une construction mentale et affective de l’accueil.

    Vous prônez un « #tout-accueil » qui semble faire écho au « Tout-monde » de Glissant…

    Oui, le lien est évident, jusqu’en ce #modèle_archipélique pensé par Glissant, c’est-à-dire le rapport entre l’insularité et la circulation en des espaces qui sont à la fois autonomes et séparables, qui forment une unité dans le respect des écarts.

    Ces écarts assument la #conflictualité et organisent le champ des rapports, des mises en relation, naviguant ainsi entre deux écueils : l’#exclusion et la #fusion.

    Comment ressentir comme un apport la vague migratoire, présentée, voire appréhendée tel un trop-plein ?

    Ce qui anime mon livre, c’est de reconnaître que celui qui arrive dans sa nudité, sa fragilité, sa misère et sa demande est l’occasion d’un accroissement de nos #ressources. Oui, le pauvre peut être porteur de quelque chose qui nous manque. Il nous faut dire merci à ceux qui arrivent. Ils deviennent une #richesse qui mérite #abri et #protection, sous le signe d’une #gratitude_partagée.

    Ils arrivent par milliers. Ils vont arriver par millions − je ne serai alors plus là, vu mon âge −, compte tenu des conditions économiques et climatiques à venir. Il nous faut donc nous y préparer culturellement, puisque l’hospitalité est pour moi un autre nom de la #culture.

    Il nous faut préméditer un monde à partager, à construire ensemble ; sur des bases qui ne soient pas la reproduction ou le prolongement de l’état de fait actuel, que déserte la prospérité et où semble s’universaliser la guerre. Cette préparation relève pour moi, plus que jamais, d’une #poétique_des_relations.

    Je travaille avec et auprès d’artistes − plasticiens, poètes, cinéastes, musiciens −, qui s’emparent de toutes les matières traditionnelles ou nouvelles pour créer la scène des rapports possibles. Il faut rompre avec ce qui n’a servi qu’à uniformiser le monde, en faisant appel à toutes les turbulences et à toutes les insoumissions, en inventant et en créant.

    En établissant des #zones_à_créer (#ZAC) ?

    Oui, des zones où seraient rappelées la force des faibles, la richesse des pauvres et toutes les ressources de l’indigence qu’il y a dans des formes de précarité.

    La ZAD (zone à défendre) ne m’intéresse effectivement que dans la mesure où elle se donne pour but d’occuper autrement les lieux, c’est-à-dire en y créant la scène d’une redistribution des places et d’un partage des pouvoirs face aux tyrannies économiques.

    Pas uniquement économiques...

    Il faut bien sûr compter avec ce qui vient les soutenir, anthropologiquement, puisque ces tyrannies s’équipent de tout un appareil symbolique et d’affects touchant à l’imaginaire.

    Aujourd’hui, ce qui me frappe, c’est la place de la haine dans les formes de #despotisme à l’œuvre. Après – ou avant – Trump, nous venons d’avoir droit, en Argentine, à Javier Milei, l’homme qui se pose en meurtrier prenant le pouvoir avec une tronçonneuse.

    Vous y opposez une forme d’amitié, de #fraternité, la « #filia », que vous écrivez « #philia ».

    Le [ph] désigne des #liens_choisis et construits, qui engagent politiquement tous nos affects, la totalité de notre expérience sensible, pour faire échec aux formes d’exclusion inspirées par la #phobie.

    Est-ce une façon d’échapper au piège de l’origine ?

    Oui, ainsi que de la #naturalisation : le #capitalisme se considère comme un système naturel, de même que la rivalité, le désir de #propriété ou de #richesse sont envisagés comme des #lois_de_la_nature.

    D’où l’appellation de « #jungle_de_Calais », qui fait référence à un état de nature et d’ensauvagement, alors que le film de Nicolas Klotz et Élisabeth Perceval, L’Héroïque lande. La frontière brûle (2018), montre magnifiquement que ce refuge n’était pas une #jungle mais une cité et une sociabilité créées par des gens venus de contrées, de langues et de religions différentes.

    Vous est-il arrivé personnellement d’accueillir, donc d’adopter ?

    J’ai en en effet tissé avec des gens indépendants de mes liens familiaux des relations d’adoption. Des gens dont je me sentais responsable et dont la fragilité que j’accueillais m’apportait bien plus que ce que je pouvais, par mes ressources, leur offrir.

    Il arrive, du reste, à mes enfants de m’en faire le reproche, tant les font parfois douter de leur situation les relations que je constitue et qui tiennent une place si considérable dans ma vie. Sans ces relations d’adoption, aux liens si constituants, je ne me serais pas sentie aussi vivante que je le suis.

    D’où mon refus du seul #héritage_biologique. Ce qui se transmet se construit. C’est toujours dans un geste de fiction turbulente et joyeuse que l’on produit les liens que l’on veut faire advenir, la #vie_commune que l’on désire partager, la cohérence politique d’une #égalité entre parties inégales – voire conflictuelles.

    La lecture de #Castoriadis a pu alimenter ma défense de la #radicalité. Et m’a fait reconnaître que la question du #désordre et du #chaos, il faut l’assumer et en tirer l’énergie qui saura donner une forme. Le compositeur Pascal Dusapin, interrogé sur la création, a eu cette réponse admirable : « C’est donner des bords au chaos. »

    Toutefois, ces bords ne sont pas des blocs mais des frontières toujours poreuses et fluantes, dans une mobilité et un déplacement ininterrompus.

    Accueillir, est-ce « donner des bords » à l’exil ?

    C’est donner son #territoire au corps qui arrive, un territoire où se créent non pas des murs aux allures de fin de non-recevoir, mais des cloisons – entre l’intime et le public, entre toi et moi : ni exclusion ni fusion…

    Mon livre est un plaidoyer en faveur de ce qui circule et contre ce qui est pétrifié. C’est le #mouvement qui aura raison du monde. Et si nous voulons que ce mouvement ne soit pas une déclaration de guerre généralisée, il nous faut créer une #culture_de_l’hospitalité, c’est-à-dire apprendre à recevoir les nouvelles conditions du #partage.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/271123/cette-hospitalite-radicale-que-prone-la-philosophe-marie-jose-mondzain
    #hospitalité #amour_politique

    via @karine4

    • Accueillir - venu(e)s d’un ventre ou d’un pays

      Naître ne suffit pas, encore faut-il être adopté. La filiation biologique, et donc l’arrivée d’un nouveau-né dans une famille, n’est pas le modèle de tout accueil mais un de ses cas particuliers. Il ne faut pas penser la filiation dans son lien plus ou moins fort avec le modèle normatif de la transmission biologique, mais du point de vue d’une attention à ce qui la fonde : l’hospitalité. Elle est un art, celui de l’exercice de la philia, de l’affect et du lien qui dans la rencontre et l’accueil de tout autre exige de substituer au terme de filiation celui de philiation. Il nous faut rompre avec toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines. Cette rupture est impérative dans un temps de migrations planétaires, de déplacements subjectifs et de mutations identitaires. Ce qu’on appelait jadis « les lois de l’hospitalité » sont bafouées par tous les replis haineux et phobiques qui nous privent des joies et des richesses procurées par l’accueil. Faute d’adopter et d’être adopté, une masse d’orphelins ne peut plus devenir un peuple. La défense des philiations opère un geste théorique qui permet de repenser les liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter, qu’il provienne d’un ventre ou d’un pays. Le nouveau venu comme le premier venu ne serait-il pas celle ou celui qui me manquait ? D’où qu’il vienne ou provienne, sa nouveauté nous offre la possibilité de faire œuvre.

      https://www.quaidesmots.fr/accueillir-venu-e-s-d-un-ventre-ou-d-un-pays.html
      #livre #filiation_biologique #accueil

  • « En sociologie, la prise en compte du ressenti peut aider à identifier les inégalités les plus critiques », Nicolas Duvoux
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/11/20/en-sociologie-la-prise-en-compte-du-ressenti-peut-aider-a-identifier-les-ine

    La sociologie ne peut prétendre à la neutralité, puisqu’elle est une science étudiant la société au sein de laquelle elle émerge. Elle est prise dans les divisions et conflits sociaux, elle met au jour des formes de contrainte et de domination auxquelles elle ne peut rester indifférente. De quel côté penchons-nous ?, demandait à ses pairs le sociologue américain Howard Becker, dans un texte majeur (« Whose Side Are We on ? », Social Problems, 1967). Cependant, cette discipline n’a pas vocation à se substituer à la politique et aux choix collectifs qui relèvent du débat public. La contribution qu’elle peut apporter est de formuler un diagnostic aussi précis que possible sur les dynamiques sociales et la différenciation de leurs effets selon les groupes sociaux.

    L’inflation et la hausse des prix alimentaires très forte depuis l’année 2022 affectent beaucoup plus durement les ménages modestes. Ceux-ci consacrent en effet une part plus importante de leurs revenus à ce poste de consommation. Le relever revient à formuler un constat objectif. De même, la hausse des taux d’intérêt immobiliers exclut davantage de l’accès à la propriété les ménages sans apport (plutôt jeunes et de milieux populaires) que les autres. Il y va ainsi des évolutions de courte durée, mais aussi de celles de longue durée : le chômage touche plus fortement les moins qualifiés, les ouvriers et employés, même s’il n’épargne pas les cadres, notamment vieillissants ; la pauvreté touche davantage les jeunes, même si elle n’épargne pas les retraités.
    Formuler un diagnostic suppose d’éviter deux écueils qui se répondent et saturent un débat public fait d’oppositions, voire de polarisation, au détriment d’une compréhension de l’état de la société. La littérature du XIXe siècle – comme les sciences sociales avec lesquelles elle a alors partie liée – a souvent oscillé entre d’un côté une représentation misérabiliste du peuple, en soulignant la proximité des classes laborieuses et des classes dangereuses, et de l’autre une vision populiste qui exalte les vertus des classes populaires. Claude Grignon et Jean-Claude Passeron l’ont montré dans un livre qui a fait date (Le Savant et le Populaire, Gallimard, 1989). De la même manière, le débat public semble aujourd’hui osciller entre un optimisme propre aux populations favorisées économiquement et un catastrophisme des élites culturelles.

    Cruel paradoxe

    Pouvoir envisager l’avenir de manière conquérante vous place du côté des classes aisées ou en ascension. Cette thèse a un enjeu politique évident : le rapport subjectif à l’avenir nous informe sur la position sociale occupée par un individu et non sur sa représentation de la société. Pour ne prendre qu’un exemple, sur la fracture entre les groupes d’âge, on n’est guère surpris qu’en pleine période inflationniste le regain de confiance en son avenir individuel soit le privilège quasi exclusif [d’un %] des seniors. Il faut être déjà âgé pour penser que l’on a un avenir, cruel paradoxe d’une société qui fait porter à sa jeunesse le poids de la pauvreté et de la précarité de l’emploi, au risque de susciter une révolte de masse.
    Peut-être est-ce un signe de l’intensité des tensions sociales, nombre d’essais soulignent le décalage entre la réalité d’une société où les inégalités sont relativement contenues et le pessimisme de la population. Les dépenses de protection sociale sont parmi les plus élevées du monde, sinon les plus élevées. En conséquence de ces dépenses, les Français jouissent d’un niveau d’éducation, d’égalité et d’une sécurité sociale presque sans équivalent. Ces faits sont avérés.

    Mais le diagnostic ne se borne pas à ce rappel : les données objectives qui dressent le portrait d’une France en « paradis » sont, dans un second temps, confrontées à l’enfer du « ressenti », du mal-être, du pessimisme radical exprimé par les Français, souvent dans des sondages. Ainsi, dans « L’état de la France vu par les Français 2023 » de l’institut Ipsos, il apparaît que « 70 % des Français se déclarent pessimistes quant à l’avenir de la France ». Les tenants de la vision « optimiste », qui se fondent sur une critique du ressenti, tendent à disqualifier les revendications de redistribution et d’égalité.

    Or l’écart entre le « ressenti » et la réalité objective des inégalités peut être interprété de manière moins triviale et surtout moins conservatrice. Cet écart peut être travaillé et mis au service d’un diagnostic affiné de la situation sociale, un diagnostic qui conserve l’objectivité de la mesure tout en se rapprochant du ressenti.

    Une autre mesure de la pauvreté

    La notion de « dépenses contraintes » en porte la marque : ce sont les dépenses préengagées, qui plombent les capacités d’arbitrage des ménages, notamment populaires, du fait de la charge du logement. Entre 2001 et 2017, ces dépenses préengagées occupent une part croissante du budget, passant de 27 % à 32 %, selon France Stratégie. « Le poids des dépenses préengagées dans la dépense totale dépend d’abord du niveau de vie. Il est plus lourd dans la dépense totale des ménages pauvres que dans celle des ménages aisés, et l’écart a beaucoup augmenté entre 2001 (6 points d’écart) et 2017 (13 points d’écart). »
    Cette évolution et le renforcement des écarts placent de nombreux ménages – même s’ils ne sont pas statistiquement pauvres – en difficulté. La volonté de rapprocher « mesure objective » et « ressenti » permet de prendre une tout autre mesure de la pauvreté, qui double si l’on prend en compte le niveau de vie « arbitrable » , soit le revenu disponible après prise en compte des dépenses préengagées.

    De ce point de vue, l’équivalent du taux de pauvreté, c’est-à-dire la part des personnes dont le revenu arbitrable par unité de consommation est inférieur à 60 % du niveau de vie arbitrable médian, s’établissait à 23 % en 2011, selon des travaux réalisés par Michèle Lelièvre et Nathan Rémila pour la direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques. Ce chiffre atteint même 27 % si l’on prend en compte les dépenses peu compressibles, comme l’alimentation. Comparativement, le taux de pauvreté tel qu’on le définit traditionnellement se fixait en 2011 à 14,3 %. L’augmentation de la fréquentation des structures d’aide alimentaire témoigne des difficultés croissantes d’une part conséquente de la population.

    Le parti du catastrophisme

    L’optimisme empêche de penser les réalités dans toute leur violence et d’identifier les remèdes qui conviennent le mieux à ces maux. Le catastrophisme doit également être évité. Il a tendance à accuser exclusivement les super-riches dans la genèse des maux sociaux, en mettant en avant une explosion des inégalités démentie par les faits, si l’on exclut le patrimoine et la forte augmentation de la pauvreté dans la période post-Covid-19. En prenant le parti du catastrophisme, la sociologie, et avec elle la société, s’exonérerait d’un travail de fond.
    Un certain nombre de points soulignés par ceux qui critiquent le pessimisme restent vrais. La société française a connu une relative mais réelle démocratisation de l’accès à des positions privilégiées. Les postes d’encadrement n’ont cessé d’augmenter en proportion de la structure des emplois, une partie non négligeable de la population – y compris au sein des catégories populaires – a pu avoir accès à la propriété de sa résidence principale, a pu bénéficier ou anticipe une augmentation de son patrimoine. Les discours sur la précarisation ou l’appauvrissement généralisés masquent la pénalité spécifique subie par les groupes (jeunes, non ou peu qualifiés, membres des minorités discriminées, femmes soumises à des temps partiels subis, familles monoparentales) qui sont les plus affectés et qui servent, de fait, de variable d’ajustement au monde économique. Le catastrophisme ignore ou feint d’ignorer les ressources que les classes moyennes tirent du système éducatif public par exemple.

    Le catastrophisme nourrit, comme l’optimisme, une vision du monde social homogène, inapte à saisir les inégalités les plus critiques et les points de tension les plus saillants, ceux-là mêmes sur lesquels il faudrait, en priorité, porter l’action. La prise en compte du ressenti peut aider à les identifier et à guider le débat et les décideurs publics, à condition de ne pas entretenir de confusion sur le statut des informations produites, qui ne se substituent pas aux mesures objectives, mais peuvent aider à les rapprocher du sens vécu par les populations et ainsi à faire de la science un instrument de l’action.

    Nicolas Duvoux est professeur de sociologie à l’université Paris-VIII, auteur de L’Avenir confisqué. Inégalités de temps vécu, classes sociales et patrimoine (PUF, 272 pages, 23 euros).

    voir cette lecture des ressorts du vote populaire RN depuis les années 2000
    https://seenthis.net/messages/1027569

    #sociologie #inflation #alimentation #aide_alimentaire #dépenses_contraintes #revenu_arbitrable #revenu #pauvreté #chômage #jeunesse #femmes #mères_isolées #précarité #taux_de_pauvreté #patrimoine #inégalités #riches #classes_populaires

    • « Les inégalités sont perçues comme une agression, une forme de mépris », François Dubet - Propos recueillis par Gérard Courtois, publié le 12 mars 2019
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/03/12/francois-dubet-les-inegalites-sont-percues-comme-une-agression-une-forme-de-

      Entretien. Le sociologue François Dubet, professeur émérite à l’université Bordeaux-II et directeur d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), vient de publier Le Temps des passions tristes. Inégalités et populisme (Seuil, 112 p., 11,80 €).

      Reprenant l’expression de Spinoza, vous estimez que la société est dominée par les « passions tristes ». Quelles sont-elles et comment se sont-elles imposées ?

      Comme beaucoup, je suis sensible à un air du temps porté sur la dénonciation, la haine, le #ressentiment, le sentiment d’être méprisé et la capacité de mépriser à son tour. Ce ne sont pas là seulement des #émotions personnelles : il s’agit aussi d’un #style_politique qui semble se répandre un peu partout. On peut sans doute expliquer ce climat dangereux de plusieurs manières, mais il me semble que la question des #inégalités y joue un rôle essentiel.

      Voulez-vous parler du creusement des inégalités ?

      Bien sûr. On observe une croissance des inégalités sociales, notamment une envolée des hyper riches qui pose des problèmes de maîtrise économique et fiscale essentiels. Mais je ne pense pas que l’ampleur des inégalités explique tout : je fais plutôt l’hypothèse que l’expérience des inégalités a profondément changé de nature. Pour le dire vite, tant que nous vivions dans une société industrielle relativement intégrée, les inégalités semblaient structurées par les #classes sociales : celles-ci offraient une représentation stable des inégalités, elles forgeaient des identités collectives et elles aspiraient à une réduction des écarts entre les classes [et, gare à la revanche ! à leur suppression]– c’est ce qu’on appelait le progrès social. Ce système organisait aussi les mouvements sociaux et plus encore la vie politique : la #gauche et la #droite représentaient grossièrement les classes sociales.

      Aujourd’hui, avec les mutations du capitalisme, les inégalités se transforment et se multiplient : chacun de nous est traversé par plusieurs inégalités qui ne se recouvrent pas forcément. Nous sommes inégaux « en tant que » – salariés ou précaires, diplômés ou non diplômés, femmes ou hommes, vivant en ville ou ailleurs, seul ou en famille, en fonction de nos origines… Alors que les plus riches et les plus pauvres concentrent et agrègent toutes les inégalités, la plupart des individus articulent des inégalités plus ou moins cohérentes et convergentes. Le thème de l’#exploitation de classe cède d’ailleurs progressivement le pas devant celui des #discriminations, qui ciblent des inégalités spécifiques.

      Pourquoi les inégalités multiples et individualisées sont-elles vécues plus difficilement que les inégalités de classes ?

      Dans les inégalités de classes, l’appartenance collective protégeait les individus d’un sentiment de mépris et leur donnait même une forme de fierté. Mais, surtout, ces inégalités étaient politiquement représentées autour d’un conflit social et de multiples organisations et mouvements sociaux. Dans une certaine mesure, aussi injustes soient-elles, ces inégalités ne menaçaient pas la dignité des individus. Mais quand les inégalités se multiplient et s’individualisent, quand elles cessent d’être politiquement interprétées et représentées, elles mettent en cause les individus eux-mêmes : ils se sentent abandonnés et méprisés de mille manières – par le prince, bien sûr, par les médias, évidemment, mais aussi par le regard des autres.

      Ce n’est donc pas simplement l’ampleur des inégalités sociales qui aurait changé, mais leur nature et leur perception ?
      Les inégalités multiples et individualisées deviennent une expérience intime qui est souvent vécue comme une remise en cause de soi, de sa valeur et de son identité : elles sont perçues comme une agression, une forme de #mépris. Dans une société qui fait de l’#égalité_des_chances et de l’#autonomie_individuelles ses valeurs cardinales, elles peuvent être vécues comme des échecs scolaires, professionnels, familiaux, dont on peut se sentir plus ou moins responsable.

      Dans ce régime des inégalités multiples, nous sommes conduits à nous comparer au plus près de nous, dans la consommation, le système scolaire, l’accès aux services… Ces jeux de comparaison invitent alors à accuser les plus riches, bien sûr, mais aussi les plus pauvres ou les étrangers qui « abuseraient » des aides sociales et ne « mériteraient » pas l’égalité. L’électorat de Donald Trump et de quelques autres ne pense pas autre chose.

      Internet favorise, dites-vous, ces passions tristes. De quelle manière ?

      Parce qu’Internet élargit l’accès à la parole publique, il constitue un progrès démocratique. Mais Internet transforme chacun d’entre nous en un mouvement social, qui est capable de témoigner pour lui-même de ses souffrances et de ses colères. Alors que les syndicats et les mouvements sociaux « refroidissaient » les colères pour les transformer en actions collectives organisées, #Internet abolit ces médiations. Les émotions et les opinions deviennent directement publiques : les colères, les solidarités, les haines et les paranoïas se déploient de la même manière. Les #indignations peuvent donc rester des indignations et ne jamais se transformer en revendications et en programmes politiques.

      La démultiplication des inégalités devrait renforcer les partis favorables à l’égalité sociale, qui sont historiquement les partis de gauche. Or, en France comme ailleurs, ce sont les populismes qui ont le vent en poupe. Comment expliquez-vous ce « transfert » ?

      La force de ce qu’on appelle les populismes consiste à construire des « banques de colères », agrégeant des problèmes et des expériences multiples derrière un appel nostalgique au #peuple unique, aux travailleurs, à la nation et à la souveraineté démocratique. Chacun peut y retrouver ses indignations. Mais il y a loin de cette capacité symbolique à une offre politique, car, une fois débarrassé de « l’oligarchie », le peuple n’est ni composé d’égaux ni dénué de conflits. D’ailleurs, aujourd’hui, les politiques populistes se déploient sur tout l’éventail des politiques économiques.

      Vous avez terminé « Le Temps des passions tristes » au moment où émergeait le mouvement des « gilets jaunes ». En quoi confirme-t-il ou modifie-t-il votre analyse ?

      Si j’ai anticipé la tonalité de ce mouvement, je n’en avais prévu ni la forme ni la durée. Il montre, pour l’essentiel, que les inégalités multiples engendrent une somme de colères individuelles et de sentiments de mépris qui ne trouvent pas d’expression #politique homogène, en dépit de beaucoup de démagogie. Dire que les « gilets jaunes » sont une nouvelle classe sociale ou qu’ils sont le peuple à eux tout seuls ne nous aide guère. Il faudra du temps, en France et ailleurs, pour qu’une offre idéologique et politique réponde à ces demandes de justice dispersées. Il faudra aussi beaucoup de courage et de constance pour comprendre les passions tristes sans se laisser envahir par elles.

      #populisme

  • EU Divided Over Gaza as Humanitarian Crisis, Displacement and Death Toll Increases, Leaked Document Reveals Israeli Plan for Permanent Displacement of the Strip Population in the Egyptian Sinai Desert

    The lack of consensus among EU member states over the tragedy in Gaza continues as deaths, displacement increases and humanitarian crisis worsens. Leaked plan confirms Egyptian fears of Israeli attempts to permanently displace the population of Gaza in the Sinai desert.

    After a diplomatic meltdown following the Hamas attack on Israel on 7 October, the EU remains divided over its position on Gaza as the humanitarian crisis worsens, death toll and displacement increase and protests and calls for a ceasefire spread across the globe. Commissioner-General for the United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA) Philippe Lazzarini addressed the UN Security Council Meeting on 30 Oct warning that “An immediate humanitarian cease-fire has become a matter of life and death for millions,” and stating: “The horrific attacks by Hamas in Israel on 7 October were shocking. The relentless bombardments by the Israeli Forces of the Gaza Strip are shocking. The level of destruction is unprecedented, the human tragedy unfolding under our watch is unbearable. One million people, half the population of Gaza, were pushed from the north of the Gaza Strip towards the south in three weeks. The south, however, has not been spared from bombardment, with significant numbers killed. I have said many times, and I will say it again no place is safe in Gaza”. The Commissioner-General for the UN agency said that the agency had lost 64 staff members in Israeli bombardments on Gaza by 30 October and was hosting more than 670,000 displaced in their facilities. He further pointed out: “Nearly 70 per cent of those reported killed are children and women. Save the Children reported yesterday that nearly 3,200 children were killed in Gaza in just three weeks. This surpasses the number of children killed annually across the world’s conflict zones since 2019”. By 5 October, after nearly a month of Israeli bombardments, the death toll in Gaza had reached 9,770 with at least least 4,008 children according to the Palestinian health ministry. By 7 November the civilian death toll in Gaza had reached 10,000 people and by 6 November UNRWA had lost 89 staff members.

    On 27 October, the UN General Assembly adopted a resolution calling for an “immediate, durable and sustained humanitarian truce” between Israeli forces and Hamas militants in Gaza with 120 votes in favour, 14 against and 45 abstentions. The vote illustrated the divisions across the EU with Austria, Croatia and Hungary among the countries voting against the resolution, a number of member states including Germany, the Netherlands and Italy abstaining and others including France, Spain and Belgium voting in favour. On 26 October, the 27 EU member states agreed on a call for “humanitarian corridors and pauses” of the Israeli shelling of Gaza to allow food, water and medical supplies to reach civilians. However, the agreement was reached only after what one diplomat defined as a week of “difficult discussions”. In the final wording, the Council “expresses its gravest concern for the deteriorating humanitarian situation in Gaza and calls for continued, rapid, safe and unhindered humanitarian access and aid to reach those in need through all necessary measures including humanitarian corridors and pauses”. Reportedly, three member states “including Israel’s close ally Germany” favoured the phrase “windows” and felt an earlier version involving the phrase “humanitarian pause” suggested a permanent ceasefire and would undermine Israel’s right to self-defense. Spain currently holding the presidency of the Council had urged the mentioning of a “ceasefire” but gave it up for other concessions in the final text including consensus on a peace conference on a two-state solution in the formal declaration. However, the 27 member-state call for an “international peace conference” so far leaves more questions than answers. According to POLITICO: “A spokesperson for the Israeli mission to the EU said they are “not in a position to say if we would attend or not because we don’t know yet what it would actually mean,” adding that so far, no European officials had reached out on the initiative. The Palestinian mission to the EU did not immediately respond to a request for comment”. Diplomats speaking privately, because the subject is so sensitive, told POLITICO “that this flailing around in search of sensible things to say shows how EU leaders are simply “navel gazing” and playing to domestic audiences enflamed by conflict, rather than trying seriously to deliver peace”. On 6 October, Belgian prime minister Alexander De Croo, stated: “If you bomb an entire refugee camp with the intention of eliminating a terrorist, I don’t think it’s proportionate”.

    According to EURACTIV: “The wrangling over the exact phrasing comes as EU member states have always been traditionally more split between more pro-Palestinian members such as Ireland and Spain, and staunch backers of Israel including Germany and Austria”. Prior to the talks, Austrian Chancellor Karl Nehammer stated: “All the fantasies of truces, ceasefires, etc. have the effect of strengthening Hamas in its determination to continue its action and perpetuate this terrible terror”. His German counterpart, Olaf Scholz expressed confidence in the Israeli army that “will follow the rules that come from international law”. Meanwhile, Irish Taoiseach (head of government) Leo Varadkar emphasized the need: “for the killing and the violence to stop so that humanitarian aid can get into Gaza, where innocent Palestinian people are suffering, and also to allow us to get EU citizens out”. Spain’s acting minister of social rights, Ione Belarra, has called for economic sanctions against Israel and the suspension of diplomatic relations and acting prime minister, Pedro Sánchez has expressed support for UN Secretary General, António Guterres amid Israeli demands for his resignation and threats to refuse visas for UN representatives.

    Meanwhile, on 30 October, WikiLeaks announced: “A week after the Hamas attack, Israel’s Ministry of Intelligence issued a secret ten-page document outlining the expulsion of the Palestinian population of Gaza to northern Sinai, in Egypt”. The plan reportedly consists of several elements including instructing Palestinian civilians to evacate north Gaza ahead of land operations; Sequential land operations from north to south Gaza; Routes across Rafah to be left clear; Establishing tent cities in northern Sinai and construct cities to resettle Palestinians in Egypt. Linking to the document, WikiLeaks state: “The document has been verified by an official from the Ministry of Intelligence, according to the Hebrew website Mekomit which originally published the document. Mekomit noted that documents from the Ministry of Intelligence are advisory and not binding on the executive”. The US outlet ABC news reports: “Prime Minister Benjamin Netanyahu’s office played down the report compiled by the Intelligence Ministry as a hypothetical exercise — a “concept paper.”

    Nonetheless, the report added to long-standing fears in Egypt and other countries in the region that Israel may want to further displace Palestinians, into Egypt but also adding to the refugee populations established in Jordan, Lebanon, Syria and beyond since the creation of the state of Israel in 1948. The countries also face significant pressure from their populations, with protests continuing. For the EU, concerns about onward movement should displacement take place continues to feature in its relationship with Egypt in particular.

    https://ecre.org/eu-external-partners-eu-divided-over-gaza-as-humanitarian-crisis-displacement-

    #Sinaï #Egypte #Gaza #Israël #guerre #à_lire #expulsion #WikiLeaks #déportation

  • Leaked document fuels concern Israel plans to push Palestinians from Gaza into Egypt

    Israel says ‘concept paper’ isn’t policy, but Palestinians fear ethnic cleansing.

    An Israeli government document suggesting the mass relocation of Gaza’s 2.3 million people to Egypt’s Sinai Peninsula is fuelling concerns about the possible ethnic cleansing of Palestinians.

    The leaked document, first reported in Israeli media, was compiled by an Israeli government research agency known as the Intelligence Ministry and was dated Oct. 13 — six days after Hamas led deadly attacks on Israel and the Israeli government declared war against the Palestinian militant group, which controls Gaza.

    Although not a binding policy, it has deepened long-standing Egyptian fears that Israel wants to make Gaza into Egypt’s problem and revived Palestinians’ memories of the displacement of hundreds of thousands of people who fled or were forced from their homes during the fighting surrounding Israel’s creation in 1948, which Palestinians refer to as the Nakba, the Arabic word for catastrophe.

    “What happened in 1948 will not be allowed to happen again,” Nabil Abu Rudeineh, spokesperson for Palestinian President Mahmoud Abbas, told The Associated Press in reaction to the paper.

    He said a mass displacement of Palestinians would be “tantamount to declaring a new war.”

    A long-term plan

    A Hebrew-English translation of the document, published by the Israeli website +972 Magazine, outlined three options regarding the civilian population of Gaza.

    One would see the civilians remain in Gaza under the rule of the Palestinian Authority — which was ejected from Gaza after a weeklong 2007 war that put Hamas in power — while the second suggested an attempt to establish “a local Arab non-Islamist political leadership” to govern the population.

    Neither of these options were considered feasible strategies to create ideological change and deter future militancy against Israel.

    The third option, the evacuation of civilians in Gaza to Sinai, would “yield positive, long-term strategic outcomes for Israel,” the document stated.

    The proposal does not indicate this would be a temporary relocation.

    “In the first stage, tent cities will be established in the area of Sinai,” it reads. “The next stage includes the establishment of a humanitarian zone to assist the civilian population of Gaza and the construction of cities in a resettled area in northern Sinai.”

    Growing sentiment about Gaza

    Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu’s office played down the report as a hypothetical exercise, saying it was a “concept paper, the likes of which are prepared at all levels of the government and its security agencies.”

    But the paper does not exist in isolation.

    An Israeli think-tank, the Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy, released a paper inferring the situation presented “a unique and rare opportunity to evacuate the whole Gaza Strip in co-ordination with the Egyptian government.”

    “At the moment, these conditions exist, and it is unclear when such an opportunity will arise again, if at all,” reads a Hebrew-English translation published by the website Mondoweiss.

    Israeli officials and other political figures have openly expressed similar sentiments, according to an article from the Carnegie Endowment for International Peace.

    The question of ethnic cleansing

    Pushing Palestinians out of Gaza into Sinai would be “ethnic cleansing,” said Dr. Mustafa Barghouti, a Palestinian physician and politician.

    He believes there is no chance they would ever be allowed to return and that it would set “a very dangerous precedent” for all Palestinians.

    “The ultimate goal will not only be ethnic cleansing of Gaza, but also of the West Bank,” he told CBC News. “We already see terrorist settlers’ attacks on Palestinian communities in the West Bank.”

    Ethnic cleansing is a term that emerged during the war in the former Yugoslavia in the 1990s.

    The United Nations describes it as “a purposeful policy designed by one ethnic or religious group to remove by violent and terror-inspiring means the civilian population of another ethnic or religious group from certain geographic areas.”

    It is not recognized as an independent crime under international law. Attributes of ethnic cleansing — including murder, extermination, enslavement, deportation, imprisonment, torture and rape, among others — can, however, constitute other crimes under international law, such as crimes against humanity or genocide.

    Israeli-American historian Gil Troy, a history professor at McGill University in Montreal, cautions against the suggestion that Israel plans to “transfer” Palestinians out of Gaza, saying the concept paper is “not even a plan that is being actioned, but simply it’s a thought.”

    But Troy said he thinks a loss of some territory in Gaza isn’t out of the question.

    “I think in the wake of the savagery of Oct. 7, Israel has to create a much bigger buffer zone between the Gazans and the Israelis on the Gaza corridor,” he said.

    “That’s not about ethnic cleansing, that’s about creating territorial defence.”

    The Israeli government says Hamas-led militants killed more than 1,400 civilians and soldiers in the surprise assault on Israeli communities more than three weeks ago, and took 240 people hostage. More than 8,700 Palestinians have been killed, and nearly 2,000 more have been reported missing, since Israel began attacking the Gaza Strip, according to the territory’s Hamas-run Health Ministry.

    Under Article 51 of the United Nations Charter, Israel has the “inherent right” to defend itself against an armed attack, but several human rights groups have alleged that violations of international humanitarian law, and possibly war crimes, have been committed on both sides.

    On Wednesday, Prime Minister Justin Trudeau reiterated that right of self-defence and “unequivocally” condemned Hamas, but he expressed strong concerns.

    “The price of justice cannot be the continued suffering of all Palestinian civilians,” he said.
    Marketing mass displacement

    Whether or not Israel can or will carry out such a plan, the leaked document argued there would be a need to win over international support for a relocation of Palestinians.

    It suggests relying on “large advertising agencies” to promote messaging to Western nations “in a way that does not incite or vilify Israel” but instead focuses on “assisting the Palestinian brothers and rehabilitating them, even at the price of a tone that rebukes or even harms Israel.”

    At the same time, campaigns would be needed to “motivate” Gaza residents to accept the plan by pinning the loss of land on Hamas and “making it clear that there is no hope of returning to the territories Israel will soon occupy, whether or not that is true.”

    As for Egypt and other regional countries that may have to bear the brunt of a mass deportation of Palestinians, the document proposes incentives, including financial assistance for Egypt, specifically, to aid its current economic crisis.

    Egypt’s president, Abdel Fattah el-Sisi, has said a mass influx of refugees from Gaza would eliminate the Palestinian nationalist cause. It would also risk bringing militants into Sinai, where they might launch attacks on Israel, he said.

    Egypt has long feared that Israel wants to force a permanent expulsion of Palestinians into its territory, as happened during the war surrounding Israel’s independence. Egypt ruled Gaza between 1948 and 1967, when Israel captured the territory, along with the West Bank and east Jerusalem.

    https://www.cbc.ca/news/world/israel-gaza-palestinians-concept-paper-1.7015576
    #déportation #déportation_de_masse #Gaza #Israël #nettoyage_ethnique #Sinaï #Egypte #évacuation #transfert

    • Et petite mise en perspective de cette nécessité de vider Gaza...

      Article sorti le 5 mai 2023 :
      Israël et l’Autorité palestinienne négocient l’exploitation d’un #champ_gazier au large de Gaza

      L’État hébreu et l’Autorité palestinienne ont repris leurs discussions sur l’exploitation du camp #Gaza_Marine, situé au large des côtés de l’enclave palestinienne, dont les Palestiniens pourraient profiter. L’Égypte pourrait jouer un rôle pivot.

      Israël et l’Autorité palestinienne (AP) mènent des “discussions secrètes” autour de l’exploitation du champ gazier baptisé Gaza Marine, situé à 30 kilomètres de la côte de l’enclave palestinienne de la bande de Gaza, a révélé, jeudi 4 mai, le site Internet de la chaîne de télévision israélienne Channel 13.

      Ce sujet s’intègre dans les pourparlers, plus larges, politiques et sécuritaires entre les deux parties. Ces dernières ont repris langue ces dernières semaines, sous la pression des États-Unis, lors de récents sommets en février à Aqaba, en Jordanie, et en mars à Charm El-Cheikh, en Égypte.

      Découvert en 1999 dans les eaux territoriales palestiniennes, le gisement de Gaza Marine contiendrait plus de 30 milliards de m3 de gaz naturel. Pour l’Autorité palestinienne, il pourrait représenter “un revenu annuel compris entre 700 et 800 millions de dollars”, écrit le site Middle East Eye, qui rapporte l’information.

      Les choses pourraient donc changer.
      L’Égypte en médiatrice ?

      En réalité, les “discussions secrètes” révélées par Channel 13 autour du champ gazier au large de Gaza ne sont pas nouvelles. L’année dernière, Israël, l’Autorité palestinienne et l’Égypte, habituel médiateur entre les deux parties, avaient échoué à se mettre d’accord. Parmi les questions en suspens, celle du positionnement du Hamas palestinien, rival d’Israël et du Fatah, qui contrôle l’AP, explique la chaîne israélienne.

      Comme Israël considère que l’AP n’a pas les moyens d’exploiter ce champ, il était question qu’une société égyptienne chapeaute le projet en distribuant 55 % des bénéfices à l’Autorité palestinienne et 45 % à la compagnie égyptienne. C’est sans doute autour d’une solution similaire que les discussions ont repris.

      Ces dernières années, d’importants #gisements_de_gaz et de #pétrole ont été repérés dans les eaux territoriales des pays bordant la Méditerranée orientale, de la Turquie à Israël, en passant par le Liban et Chypre, qui espèrent pouvoir exploiter pleinement cette ressource. La Palestine aimerait bien rejoindre ce club.

      https://www.courrierinternational.com/article/energie-israel-et-l-autorite-palestinienne-negocient-l-exploi
      #gaz #énergie

    • Israël entend accélérer l’exploitation du gisement de gaz de Gaza

      Le champ Gaza Marine sera développé en coopération avec l’Egypte et l’Autorité palestinienne, affirme le gouvernement israélien

      Le Premier ministre israélien Benjamin Netanyahu a déclaré, dimanche, que son gouvernement allait accélérer l’exploitation d’un gisement de gaz naturel au large de la Bande de Gaza.

      « Dans le cadre des accords existants entre Israël, l’Egypte et l’Autorité palestinienne (AP), le gouvernement [israélien] va accélérer le projet de développement du champ gazier de Gaza Marine, au large de la Bande de Gaza », a déclaré le bureau de Netanyahu, dans un communiqué.

      Le Premier ministre israélien a déclaré qu’un comité ministériel, chapeauté par le Conseil de sécurité nationale, devait être formé pour préserver la sécurité et les intérêts politiques d’Israël dans ce dossier.

      Cette décision est « soumise à la coordination entre les services de sécurité [israéliens] et au dialogue direct avec l’Égypte, en coordination avec l’Autorité palestinienne », précise le communiqué.

      L’Autorité palestinienne, basée à Ramallah, et le Hamas, qui gouverne la Bande de Gaza, n’ont pas encore commenté l’initiative israélienne.

      Dans un communiqué publié le mois dernier, le Hamas avait déclaré qu’il ne permettrait pas à l’occupant israélien d’utiliser la question du champ gazier de Gaza comme instrument pour conclure des accords politiques et de sécurité avec d’autres parties.

      L’Égypte n’a pas encore commenté les déclarations de Netanyahu.

      En octobre 2022, le Fonds d’investissement palestinien a déclaré qu’il était sur le point de conclure un accord technique avec l’Egyptian Natural Gas Holding Company (EGAS) en vue de l’extraction du gaz du champ de Gaza Marine au large de la Bande de Gaza.

      Le champ Marine 1, premier champ gazier de Gaza, a été découvert dans les années 1990 dans les eaux territoriales de l’enclave. Il est situé à 36 kilomètres à l’ouest de la Bande de Gaza, dans les eaux méditerranéennes, et a été exploité en 2000 par la société British Gas.

      Le champ Marine 2 est situé dans la zone frontalière entre Gaza et Israël. Les Palestiniens ne peuvent cependant pas exploiter les deux champs gaziers en raison de l’opposition d’Israël.

      La Bande de Gaza, qui compte 2,3 millions d’habitants, est soumise depuis 2007 à un blocus israélien permanent qui pèse lourdement sur les conditions de vie de la population du territoire.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/isra%C3%ABl-entend-acc%C3%A9l%C3%A9rer-lexploitation-du-gisement-de-gaz-de-gaza/2925378

  • Des étrangers et des binationaux autorisés à sortir de Gaza vers l’Egypte
    https://www.lemonde.fr/international/live/2023/11/01/en-direct-guerre-israel-hamas-le-point-sur-la-situation-et-les-reponses-a-vo

    Des dizaines d’étrangers et de binationaux ont quitté la bande de #Gaza pour l’#Egypte par le terminal frontalier de Rafah, ouvert pour la première fois aux personnes depuis le début de la guerre, selon un journaliste de l’Agence France-Presse présent sur place.

    Les autorités égyptiennes ont annoncé l’ouverture exceptionnelle du terminal de Rafah pour évacuer près de 90 blessés palestiniens et près de 450 binationaux et étrangers. Selon les chancelleries étrangères, des ressortissants de 44 pays et de 28 agences, organisations ou ONG étrangères se trouvent dans la bande de Gaza.

    augmentation hier du nombre de convois entrants (puis Jabalia..), évacuations de (peu) blessés et de binationaux, les bombardements continus et l’offensive terrestre seront encore mieux acceptés par les états occidentaux

    #Israël #guerre