• Migranti, 2016: hanno cercato fortuna all’estero 285mila italiani. Più degli stranieri sbarcati sulla Penisola

    Le anticipazioni del Dossier 2017 del centro studi Idos. Se ne sono andati diplomati, laureati e dottori di ricerca nel cui percorso di studi lo Stato aveva investito quasi 9 miliardi, e la stima è per difetto. Due su tre non ritornano. Il danno è in parte compensato dai flussi d’ingresso degli immigrati: sono sempre di più quelli con alti livelli di istruzione.

    https://dirittiumani1.blogspot.ch/2017/07/migranti-2016-hanno-cercato-fortuna.html
    #Italie #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration #statistiques #chiffres #2016

    • Lavoro, dal 2008 al 2015 mezzo milione di italiani fuggiti all’estero. E ora se ne vanno anche gli immigrati dell’Est Europa

      Partono soprattutto i giovani laureati, ma anche stranieri che non trovano più economicamente attraente il nostro Paese. Lo conferma il rapporto «Il lavoro dove c’è» dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/21/lavoro-dal-2008-al-2015-mezzo-milione-di-italiani-fuggiti-allestero-e-ora-se-ne-vanno-anche-gli-immigrati-dellest-europa/3676861
      #2015

    • Se ne vanno giovani e laureati: la nostra vita di genitori nell’Italia dei figli lontani

      Nel 2015 sono partiti più di 100 mila, la metà hanno meno di 40 anni. Un terzo sono laureati. Ammaniti: il senso di colpa dei genitori.


      http://www.corriere.it/scuola/studiare-e-lavorare-all-estero/notizie/se-ne-vanno-giovani-laureati-nostra-vita-genitori-nell-italia-figli-lontani

    • Petit commentaire sur le #vocabulaire #terminologie...

      Pour les jeunes Tunisiens qui font la même chose que les jeunes Italiens, on parle de #émigration_clandestine :
      En Tunisie, le mal-être des jeunes se traduit par un pic d’émigration clandestine

      Hafedh a « vu la mort en face » en tentant d’émigrer clandestinement vers l’Europe, mais ce Tunisien de 26 ans n’a toujours qu’une idée en tête : reprendre la mer. En septembre, les départs ont connu un pic, reflétant un mal-être persistant chez les jeunes.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/en-tunisie-le-mal-etre-des-jeunes-se-traduit-par-un-pic-demig
      #mots

    • Fuga dall’Italia, è emorragia di talenti: nel 2016 via 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni

      Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 5 milioni i connazionali residenti all’estero, +3,3% in un anno. Aumentano le partenze ’di famiglia’ e quelle degli under 35. Tra le mete più ricercate il Regno Unito e gli Emirati Arabi

      http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/17/news/emigrati_italiani_nel_mondo_rapporto_migrantes_record_fuga_all_estero-178
      #2016

    • L’Europa dei nuovi emigranti. In 18 milioni cambiano Stato

      Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.

      in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali.

      In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima.

      Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.

      http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/01/02/11/leuropa-dei-nuovi-emigranti-in-18-milioni-cambiano-stato_U43420152120325xhH

      #démographie #Italie #europe #dépopulation #migrations #politique_migratoire #attractivité #migrations_en_europe #inégalités #centre #périphérie #géographie_du_vide #géographie_du_plein #exode_rural #émigration #Italie #Bulgarie #Grèce #Roumanie #statistiques #chiffres #Allemagne

    • Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

      Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

      Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
      L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

      Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
      Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

      La fuga dei cervelli
      A emigrare - sottolinea il report - sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

      Germania e Regno Unito le mete preferite
      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      L’investimento (perso) da parte dello Stato
      Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

      I flussi effettivi sono ancora più elevati
      A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

      Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
      Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

      L’Ocse: Italia ottava in classifica
      Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

      http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-09405

    • Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

      È piuttosto evidente che il pallino di questa era all’insegna del “cambiamento” siano gli immigrati e tutto ciò che li concerne. La gente è stanca, bisogna fermare l’invasione, c’è un complotto per sterminare la razza europea attraverso sbarchi di africani fannulloni, ladri e stupratori. Si arriva al punto di usare 177 persone come materiale di scambio per gare tra poteri forti e di arrestare a scopi di propaganda gli unici fautori di modelli virtuosi per un’idea di accoglienza e integrazione che non si basi né sullo sfruttamento né su una qualche forma di reclusione temporanea. In tutto ciò, sembra che le conversazioni da bar su quanto questi neri ci stiano rubando lavoro e identità – quelle stesse chiacchiere che portano il partito di Salvini al 33,5% – raramente tengano conto di un dato sull’emigrazione che invece sì, sta incidendo negativamente sul futuro dell’Italia. E non è l’emigrazione dal Continente nero su barconi carichi di delinquenti, ma quella fatta da ragazzi e ragazze con un regolarissimo biglietto Ryanair e una chat di gruppo su Whatsapp con i nuovi coinquilini.

      Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese. Nei 7 anni della crisi, dal 2008 al 2015, il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. E se l’idea di trovarsi in un inferno terrestre dove gli africani ci sostituiscono definitivamente con le loro barbarie viene visto come un pericolo in atto, non vedo come questa previsione non possa suscitare altrettanto sgomento, considerando anche che il piano Kalergi è un’invenzione, mentre lo spopolamento del Mezzogiorno, purtroppo, no.

      Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero. Capita ancora oggi di incontrare in spiagge del Sud intere famiglie dall’aspetto decisamente poco nord-europeo che alternano dialetto stretto a tedesco, francese o addirittura fiammingo, creando un cortocircuito sorprendente. Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione. Le cavallette magari non arriveranno, ma i paesi fantasma sì.

      La questione non è tanto quella di biasimare la scelta di chi decide di andare a studiare in un’altra città, come a dire che si sta abbandonando la nave. Anzi, è un fenomeno comprensibile: a diciotto o diciannove anni volersi misurare con un posto diverso da casa propria, in un ateneo che offre qualcosa che altrove non c’è è una scelta che non ha nessun motivo per essere disapprovata. Avendo i mezzi familiari che lo consentono e l’entusiasmo della matricola che fa andare oltre alla perenne pila di piatti sporchi nel lavello della nuova casa in affitto, ben venga. Non è nemmeno un problema legato al fatto che si possano preferire delle città e dei modi di vivere diversi da quelli da cui si proviene, o che il paese sperduto tra le montagne dell’Appennino calabro stia stretto. Anche chi decide di rimanere in molti casi può farlo perché dispone di mezzi economici che glielo consentono, mascherando con un velo di sacrificio per la propria terra quello che in realtà è una semplice condizione di privilegio. Se vieni da una famiglia di avvocati ed erediti lo studio dei tuoi genitori, non è che tu stia compiendo chissà quale missione da martire nel restare, ed è normale che se hai già tutto pronto e apparecchiato per il futuro puoi goderti proprio quei vantaggi che ti offre il Meridione, tra sole, mare, costi della vita bassi e grandi abbuffate.

      Piuttosto, la questione riguarda l’idea di partenza che accompagna chi lascia il Meridione per cui è impossibile tornarvi, perché tanto chi lo trova il lavoro in una parte d’Italia in cui la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, in cui già si fa fatica. A perderci, come sempre, sono quei giovani che non hanno abbastanza mezzi in partenza da poter decidere dove stare, che lavoro fare. Ci si trova così davanti a un bivio per cui alla prospettiva di un non-futuro si accetta di vivere lontani dalla propria famiglia, dai propri amici storici che si sparpagliano tra le regioni più promettenti, accontentandosi di quegli incontri programmati per tutti nello stesso momento, e che si concludono sempre con il solito genere di domanda, “E a Pasqua scendi?”. Sì, è vero che c’è chi va via da casa propria anche per scappare da situazioni opprimenti, e trova nella città che lo accoglie una stabilità soddisfacente, una nuova vita molto più adatta alle proprie esigenze, ma – incredibile a dirsi – c’è anche chi vorrebbe fare il lavoro che ha sempre sognato nel posto dove è nato.

      Non si tratta dunque di qualche becero revanscismo neo-borbonico per cui “Viva il Sud, il mare e il sole”, ma semplicemente della realtà di un divario che dagli anni di Franchetti e Sonnino non è ancora stato colmato, un dislivello che priva chi nasce in queste regioni di un banale spazio di manovra esistenziale che dovrebbe essere consentito a chiunque. Che le colpe ricadano su diversi fattori, specialmente quelli interni al Meridione, è noto: sin dall’Ottocento le sue classi dirigenti hanno usato la scusa stessa dell’arretratezza per legittimare un immobilismo sociale, civile ed economico che si è nutrito di voto clientelare e criminalità organizzata. Ma che le conseguenze di questo dislivello si abbattano in particolare sui giovani è invece drammatico.

      Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via. I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa. E invece, niente da fare.

      Tra le altre cose, c’è anche un altro paradosso che si verifica: come rileva un articolo di Limes, anche quando si parla di città in cui le cose funzionano discretamente bene, non si verifica nessun tipo di affluenza da altre zone d’Italia. È una spiegazione concreta alla frustrante sensazione con cui ho sempre avuto a che fare da quando vivo lontano dalla mia città d’origine. Sono nata e cresciuta a Catania, un centro mediamente grande dove nonostante tutti i suoi molteplici difetti si può stare anche molto bene, si può frequentare l’università, si possono prendere ogni giorno voli per qualsiasi aeroporto del mondo. Non è New York, ma non è nemmeno quel buco nero di degrado e tristezza che si è soliti immaginare quando si pensa alle città del Sud: in termini di vivibilità ha diversi vantaggi, dal clima alla varietà sia del patrimonio artistico che naturale, è una di quelle città che si definiscono “a misura d’uomo”, ha una sua economia. Quando sono andata via, l’ho fatto perché volevo misurarmi con qualcosa di diverso della mia cameretta con i poster dell’adolescenza ancora attaccati al muro, ma avrei potuto tranquillamente studiare anche a due passi da casa mia. Eppure, le uniche persone nate da Roma in su che si sono trasferite in questa città che ho conosciuto negli anni sono stranieri rimasti folgorati da qualche visione in stile Italienische Reise. Ma nonostante le eccezioni, è lecito chiedersi perché mai un giovane che ha la possibilità di vivere altrove dovrebbe scegliere di trasferirsi in quella metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

      In realtà, i motivi per cui varrebbe la pena tornare o trasferirsi possono esistere: personalmente, ad esempio, penso che grazie a internet e alla possibilità di un tipo di approccio al lavoro diverso che ci consente di intraprendere, l’idea di potersi creare un futuro in posti che non sono famosi per la loro sovrabbondanza di possibilità si fa in certi casi un po’ più concreta. Certo, non penso che il futuro di tutti quei minuscoli centri che si trovano tra una città e un’altra sia dei più rosei, come non credo che sia né saggio né realistico credere di poter arginare un fenomeno inarrestabile come l’afflusso nelle metropoli. Allo stesso tempo però, al di là delle infinite promesse di rinascita del Sud – non ultime quelle della fantasiosa Ministra del Sud Barbara Lezzi – e delle oggettive responsabilità dei suoi abitanti presenti ma soprattutto passati, ci sono dei vuoti professionali che potrebbero essere riempiti proprio da chi è andato a formarsi in zone economicamente più progredite. Ci sarebbero delle risorse gestibili in modo diverso da come è successo finora – come il turismo o l’agricoltura – che magari potrebbero dare spazio proprio a una parte di quei giovani che sono scappati via da una steppa desolata e arida. È una scelta audace, non lo nego, ma potrebbe essere l’unico modo sano per attivare un circolo virtuoso di progresso e crescita. Non so dire se esistano soluzioni davvero efficaci per fare sì che quella distanza atavica tra Nord e Sud si accorci fino a sparire, o se si tratti di un’anatema insanabile che porterà davvero allo svuotamento totale di una porzione enorme d’Italia, ma mi sento in diritto di affermare che il fatto che ancora oggi si vada via da un posto per necessità e non per scelta è inaccettabile, di qualsiasi “Meridione” del mondo si parli.

      Non tutti dunque hanno la fortuna di poter tornare da dove vengono e provare a investire per il proprio futuro, c’è chi una volta andato via non ha altra scelta se non quella di accettare questo compromesso. Quando però mi trovo a parlare con i miei coetanei che sono andati fuori per necessità, molto spesso sento la solita frase: “Io ci tornerei pure giù, ma poi cosa faccio?”. E me lo chiedo spesso pure io quando fantastico su un possibile futuro nella città dove sono nata e che mi piace, “Ma poi cosa faccio?”. Da qualche parte però si deve pur cominciare, e come prima cosa direi che sarebbe il caso di smetterla di lamentarci per chi cerca di migliorare la propria vita andando via dal suo Paese e renderci conto che succede pure a noi, con una forma e delle cause diverse, ma con una sostanza pressoché identica. Lasciare casa propria deve essere una scelta, non un’imposizione, da qualsiasi angolo del mondo si provenga. Quando sulla terra non ci sarà più acqua allora magari avrà senso spostarci tutti sulla luna, ma fino a quando l’acqua c’è e non la si vuole trovare per negligenza allora non c’è nessun motivo di andarsene. Io non credo che il Sud Italia sia ancora completamente a secco, anche se da molti anni ormai abbiamo lasciato i rubinetti aperti.


      https://thevision.com/attualita/sud-migrazione
      #Italie_du_sud

    • 28mila laureati se ne vanno ogni anno. E no, non è retorica: è la prima emergenza dell’Italia

      Sembra un problema da poco, è un disastro. Perché se i cervelli se ne vanno, non ne arrivano. E se non c’è un sistema a misura del talento, nessuno ha più incentivi a diventarlo. E se studiare non serve, non ha senso spendere in istruzione. Rimane solo una domanda: come si torna a crescere?

      Potremmo chiamarla la grande evasione: 28mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2017, il 4% in più rispetto al 2016. Lo dice l’Istat, nel suo report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, presentato ieri, 14 dicembre 2018. Eccovela, l’Italia dei cervelli in fuga, o dei suoi migranti economici, se preferite. E no, non è solo una retorica antipatica e snob. Al contrario, è il problema dei problemi del nostro Paese, il sintomo primo della nostra crisi senza sbocchi né vie d’uscita, la tessera del domino che cadendo, le fa crollare tutte.

      Lo è, banalmente, perché più cervelli se ne vanno, meno ne arrivano. Lo dice la logica, prima della sociologia: ognuno sta bene in mezzo ai suoi simili, e difficilmente un talento si sentirà attratto da un Paese che fa scappare le sue intelligenze. E infatti in Italia ci sono solo 500mila laureati stranieri, il 7% sul totale, contro il 10% della Francia, l’11% della Germania, il 17% del Regno Unito, tutti Paesi che hanno molti più laureati di noi.

      Lo è, di conseguenza, perché più laureati se ne vanno, meno gente decide di laurearsi. Anche in questo caso, tutto è perfettamente logico: se il mercato del lavoro italiano non assorbe i laureati e se I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%, uno ogni cinque, che senso ha laurearsi? Domanda perfettamente legittima. La cui risposta sta nelle 65mila immatricolazioni in meno tra il 2000 e il 2015 e nel dato che ci vede all’ultimo posto come numero di laureati tra i 30 e 34 anni: 23,9% rispetto alla media Ue del 38%.

      Se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere?

      Lo è, al pari, perché meno immatricolazion e meno laureati non risolvono il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro, semmai lo aggravano. Viva le eccezioni, ma se l’Italia è il Paese della produttività al palo, forse una parte del problema sta anche nel fatto che solo il 25% dei suoi manager d’impresa ha la laurea in tasca, contro una media europea del 54%. E pure nel fatto che nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno degli Stati Uniti d’America. Date laureati alle imprese, magari dategli pure il timone, e innoveranno le loro strategie, cambieranno strada, riconosceranno il talento e attrarranno i loro simili. Cacciateli fuori, e continuerete per la vostra strada mentre tutto attorno cambia, semplicemente perché non avete gli strumenti per intraprendere la strada nuova.

      Lo è, infine, perché tutto questo è uno spreco enorme di risorse. Perché il nostro petrolio si chiama capitale umano e siamo come una potenza petrolifera che regala il proprio oro nero anziché sfruttarlo per arricchirsi. C’è chi ha fatto i conti ed è arrivato a dire che l’Italia, facendo scappare i suoi cervelli, ha perso sinora 42,8 miliardi di investimenti privati - leggi: famigliari - in capitale umano. Cui si aggiungono circa 15 miliardi ogni anno di investimenti pubblici regalati ai Paesi in cui i nostri giovani cervelli vanno a lavorare. Roba da far venir voglia di smettere di investire nell’istruzione. E infatti, il governo del cambiamento, in legge di bilancio, ha messo sul piatto 7 miliardi per i pensionati, 9 miliardi per i sussidi di disoccupazione e niente per l’istruzione.

      Tutto torna. Peraltro, se il numero dei laureati continua a diminuire, e quei pochi scappano, nessuno ne chiederà mai conto, né in piazza, né nel segreto dell’urna. Rimane un solo dubbio: se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere? Quando avete finito gli alibi, con calma, provate a rispondere.

      https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/15/cervelli-in-fuga-28mila-laureati-via-dall-italia-dati-istat/40449
      #2017

    • Talenti in fuga: come riportarli a casa?

      Nel nostro Paese, resta acceso il dibattito intorno alla migrazione giovanile e puntato il dito contro un mercato del lavoro incapace di rispondere alla domanda di occupazione.

      Ben venga questo dibattito. Ma attenzione ad un dato: le lancette del tempo non sono ritornate al 1876, quando ha avuto avvio quella che la storia ha conosciuto come la più massiccia emigrazione di italiani, conclusasi nel 1976 con 26 milioni di espatri.

      Ed infatti, se nel passato il nostro Paese ha esportato giovane manovalanza, oggi esporta in gran parte giovani cervelli.

      Secondo il rapporto Istat nel 2018, i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento è in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      Si tratta in larga misura di manager, ricercatori, imprenditori. Secondo i dati della Commissione europea, dal 2005 al 2015, hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare nel Regno Unito 1.632 architetti.

      Cosa significa tutto questo? Le risposte sono due.

      La prima che il nostro Paese è popolato da giovani altamente talentuosi, in grado di diventare – malgrado gli ostacoli del caso – brillanti professionisti. La seconda che il nostro mercato del lavoro non è in grado di offrire a tutti i “cervelli” occupazioni in linea con le competenze acquisite.

      Un dramma per alcuni versi, un’andatura fisiologica per altri. Un mercato del lavoro infatti, per funzionare, ha bisogno di “cervelli” ma anche di risorse dotate di professionalità tecniche. Come artigiani, tecnici, piu in generale esperti nei mestieri, e cosi via dicendo.

      A conforto di questa tesi militano almeno tre dati. In primo luogo, in Italia, secondo il sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, si registrano quasi 100.000 offerte di lavoro che non trovano candidati e di cui una buona parte riguarda falegnami, panettieri, installatori di infissi, sarti, cuochi, operai metalmeccanici ed elettromeccanici, tecnici informatici e progettisti. In secondo luogo, che – come noto – molte di queste professioni sono occupate dai cittadini stranieri: nel 2016, hanno acquisito la cittadinanza italiana circa 201 mila persone. In terzo luogo, – e si tratta della prova “a contrario” – la Germania registra una bassa disoccupazione dei giovani che, quindi, difficilmente emigrano, perchè, grazie al grosso investimento nella formazione tecnica (Fachoberschule: istituto tecnico, Fachhochschule: tecnico superiore, Berufsfachschule: istituto professionale a tempo pieno), ha una geografia dei lavori ben distribuita tra professioni intellettuali e professioni tecniche.

      Ed allora, bisogna chiedersi: quale possibile soluzione per agevolare l’occupazione di chi ambisce a professioni intellettuali in un mercato del lavoro saturo rispetto ad esse? La risposta potrebbe essere: cavalcare il potere della rivoluzione tecnologica.

      Grazie alla possibilità di lavorare ininterrottamente connessi da remoto al luogo di lavoro per mezzo di sofisticati device, infatti, molte professioni intellettuali potranno essere svolte da un luogo qualsiasi, e dunque anche dal proprio Paese, senza necessità di emigrare verso quello estero che le offre.

      Si immaginino le potenzialità dello smart working che oggi consente di connettersi a distanza con il proprio posto di lavoro. Possono farlo un manager ma anche un imprenditore, ad esempio.

      Oppure, si immaginino le potenzialità del crowd work, il lavoro su piattaforma emblema della gig economy che consente ad un committente da una determinata parte del mondo di commissionare un lavoro, anche di natura intellettuale, ad un lavoratore/professionista dalla parte del mondo opposta. Ad esempio, in alcuni casi, non è difficile commissionare attraverso la piattaforma progetti di studio architettonico o di ricerca.

      Una vera e propria disintermediazione dei territori, dunque, che travalica i confini del mercato del lavoro nazionale, ne disegna uno globale e, di conseguenza, impone la costruzione di un diritto del lavoro di nuova matrice, posto che quello attuale è il riflesso di categorie come il luogo di lavoro, in via di estinzione.

      L’Organizzazione internazionale del lavoro, ad esempio, invita alla creazione di statuti di basilari garanzie in favore dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi, occasionali, su un posto o su un altro posto di lavoro, nel segno di quello che ha definito il decent work.

      In conclusione, deve riempirci di orgoglio essere diventato un Paese patria di molti talenti e ciò deve interrogarci su come creare le migliori condizioni perchè questi talenti possano operare in uno spazio più ampio, sul mercato globale, da uno uno più ristretto, quello domestico.

      L’obiettivo, in altri termini, deve essere quello di rendere il nostro Paese un importante hub dell’economia globale, al pari di Inghilterra, Germania e Stati Uniti, e di offrire ai nostri talenti i relativi posti di comando e non semplicemente quello di riportarli a casa.

      Solo allora, sarà valsa la pena di aver “ricucito” le distanze.

      https://www.agoefilo.info/2019/01/talenti-in-fuga-come-riportarli-a-casa

  • Long-Term International Migration Flows to and from the UK

    This briefing provides an overview of Long-Term International Migration (LTIM) inflows (immigration), outflows (emigration), and the difference between the two (net migration) in the UK.

    http://www.migrationobservatory.ox.ac.uk/resources/briefings/long-term-international-migration-flows-to-and-from-the-u

    #émigration #immigration #migrations #statistiques #chiffres #UK #Angleterre #solde_migratoire #démographie #évolution

  • African migration : is the continent really on the move ?*
    –-> La migration africaine : s’agit-il vraiment d’un « continent en
    mouvement » ?*

    African migration is often perceived as massive and increasing, mainly directed toward Europe, and driven by poverty and violence (Lessault and Beauchemin 2009). However, these assumptions are not based on empirical evidence. We now have a much better ability to assess the volume and geographical orientation of African emigration, thanks to the Global Bilateral Migration Database (GBMD) on the presence of emigrants abroad (migration stocks; World Bank and University of Sussex ).¹ African migration is first and foremost intra-continental. In 2000, 75 percent of all African migrants lived in another African country, while 16 percent were in Europe, 5 percent in America, 4 percent in Oceania and 0.3 per cent in Asia. In fact, African extra-continental emigrant rates seem to be the lowest of all world regions.

    http://www.niussp.org/article/639
    #Afrique #migrations #statistiques #chiffres #émigration #cartographie #visualisation #migrations_intra-africaines #circulation #mobilité
    cc @reka

  • Ecrasé par la crise, le #Venezuela connaît un exode massif de sa population
    https://www.mediapart.fr/journal/international/110417/ecrase-par-la-crise-le-venezuela-connait-un-exode-massif-de-sa-population

    Scène de départ à l’aéroport Simón-Bolívar. Ils quittent le pays, ses pénuries, son inflation, son insécurité par centaines de milliers, voire par millions. Ce ne sont plus seulement les cadres qui s’envolent, mais aussi les plus jeunes, avec moins de moyens, qui traversent les frontières terrestres. Les voisins tentent de faire face à l’urgence tandis que les migrants laissent un grand vide au Venezuela.

    #International #crise_économique #émigration #Exil #Miami #Nicolas_Maduro

  • Bosnie-Herzégovine : ce sont des familles entières qui partent à l’étranger

    La Fédération de Bosnie-Herzégovine se vide de ses habitants. Si l’émigration n’est pas un phénomène récent, elle a pris ces dernières années une nouvelle ampleur, avec le départ, non plus seulement de jeunes, mais de familles entières en quête d’un avenir meilleur pour leurs enfants.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/BH-des-familles-entieres-immigrent-33676
    #émigration #migrations #Bosnie-Herzégovine

  • J’ai donc donné mon premier cours à l’UPop Montréal hier soir, Une histoire populaire en chansons, consacré aux Chansons d’Immigration.
    http://www.upopmontreal.com/hiver-2017/une-histoire-populaire-en-chansons

    Super ambiance au Café L’Artère, et super discussions avec le public. Si vous avez raté ça, j’en suis désolé pour vous, mais vous pourrez vous rattraper dans deux demaines avec un deuxième cours consacré aux Chansons historiques...
    http://entrelesoreilles.blogspot.ca/2017/03/elo268-chansons-dimmigration.html

    Et pour vous consoler, ou pour raviver vos souvenirs, voici donc la playlist :
    https://www.youtube.com/watch?v=6yaDBBF7nJQ&list=PLkeA_mTMOkTudUAScu7OAUYSM2L3KyN-Y

    #Musique #Musique_et_politique #Immigration
    #Shameless_autopromo comme on dit icitte

    • @Aude « ca a l’air bien... » De l’enthousiame please, this is north america.
      It is amazing ! C’est de la radio interactive, en live, avec un maitre pedagogue qui blablate sur un sujet qui le passionne ! Fallait en plus que le sujet soit intéressant et que l’énergumène soit possédé de la musique qu’il diffuse.
      Vivement le prochain - le 14 mars dans le même lieu, avec le même plaisir.

      D’ailleurs, j’ai pas noté les devoirs... on les trouve online aussi ?

    • Merci @najort , mais le prochain c’est le 15 mars !

      Et ce qui est super avec l’UPop, c’est qu’il n’y a pas d’élèves : on est tou.te.s « maîtres » !

      D’ailleurs, j’ai rajouté sur le blog les contributions de Romuald (que je ne connaissais pas avant le « cours »)...

    • Cette chanson est plutôt une chanson de l’#émigration... des italiens qui partaient en Amériques, par un chanteur italien qui chante très souvent en dialecte et que j’adore #Van_de_Sfroos :
      " E semm partii "...

      ...su una nave di emigranti verso l’America portando con noi solo sogni di speranza, un mandolino, il vestito buono, tanti ricordi lasciati a terra, tanta paura di fronte a una faccia che ci guarda dura da lontano, da New York o un’altra meta, dove i nostri bisonnni si chiedono «sarem poi simpatici alla Libertà?» Questo,ecco questo era ieri : oggi vediamo «gli altri» arrivare e li «definiamo nemici», coloro che «vengono qui a rubare lavoro»... Le analogie mi sembrano fin troppo evidenti ma mi fa piacere cercare di ribadirle; i nostri bisnonni loro malgrado emigravano verso gli Stati Uniti ed il continente americano ammassati all’interno di stalle dei bastimenti o, quando andava bene, stipati nelle loro stive in mezzo ad ogni genere di carico e mercanzia. Poi una volta arrivati, trattati peggio di animali, subivano quarantena su un isolotto senza cibo nè assistenza...oggi, anche se invertendo l’ordine dei fattori il prodotto continua a non cambiare. «L’onda di ieri porta l’onda di oggi»... Si sono solo capovolti i ruoli ed oggi siamo noi il paese dove emigrare. Eppure ho come sensazione,"sgradevole sensazione" che, tutto sommato la storia torna,torna con cattiveria e studiata malvagità a ripetersi.... Oggi la storia che torna a ripetersi, ad ingrassare «pochi a scapito di molti»... ha un nome,il suo nome è GLOBALIZZAZIONE....ieri si chiamava CAPITALISMO.... Domani,ed il domani è oggi: stiamo preparandoci a nuovi viaggi....,la nostre valigie sono nuovamente pronte...e nuovi GLOBALIZZATI torneranno a solcare mari e cieli..... Io li (e mi aggiungo) definisco...sfruttati...

      https://www.youtube.com/watch?v=sPozJsncOrQ

    • @cdb_77, tu as aussi l’émigration suisse (États-Unis et Amérique latine, notamment Argentine (mon grand-père valaisan voulait partir en Argentine, il en a été empêché par la Première guerre Mondiale)) mais je trouve différents textes, mais pas de musique. Et en lisant ceci,…

      MARCELLO SORCE KELLER - La musique de l’émigration italienne et suisse aux États-Unis : quelques expériences personnelles
      https://www.rodoni.ch/marcellosorcekeller/emigration.html

      De même, un Lombard ne pourra s’empêcher de se reconnaître, lui aussi, dans une bonne part de cette musique à connotation spécifiquement napolitaine, surtout s’il est émigré à l’étranger et souffre de nostalgie pour son pays d’origine. Dans ce cas spécifique, le sens de l’identité nationale l’emporte sur l’identité locale qui, avec la distance, devient moins significative. De même, le Tessinois qui habituellement se sentait étranger à la Volksmusik austro-helvético-bavaroise quand il captait à la télévision le programme intitulé Musikantenstadl, l’écoutera probablement avec un pincement au cœur s’il lui arrive de l’entendre par hasard sur une radio à ondes courtes alors qu’il s’apprête à traverser l’Amazonie.

      … je me suis dit qu’il valait mieux pas que ton exil grenoblois se prolonge sinon tu vois où tu en seras réduite
       :-D

      Bon, le Drac, c’est quand même pas l’Amazone…

      Note : tu remarques que je n’ai pas mis d’extrait musical…

    • Ici, un répertoire de « chansons populaires » du Tessin (donc de Suisse...) qui traitent d’#émigration :
      Le emozioni degli emigranti in musica

      Ancora oggi, sono numerose le corali ticinesi che offrono nel loro repertorio canti e canzoni incentrati sul fenomeno dell’emigrazione e provenienti dal nostro Cantone o dalla vicina Italia. La prospettiva è essenzialmente quella di chi parte o di chi torna e i testi hanno quale tematica centrale il sentimento di nostalgia e di malinconia che impregna la partenza verso una destinazione spesso lontana migliaia di chilometri, con tutte le difficoltà che ne conseguono. Attraverso la viva voce di generazioni di ticinesi che hanno interpretato queste canzoni nel nostro Paese così come all’estero, si compone così una fedele rappresentazione culturale delle sensazioni di chi emigrava. Attraverso questi brani ci si avvicina alla visione del mondo di queste persone, alle loro paure, ai loro timori, alle loro speranze. In una parola: alla loro vita.

      https://www4.ti.ch/can/oltreconfiniti/dalle-origini-al-1900/edifici-e-tracce-sul-territorio/viaggio-nelle-canzoni-popolari

      Emigrants vers les Amériques... mais aussi vers la France... ici une chanson pas mal drôle sur ces émigrants partis en France et qui, quand ils rentrent, ils parlent bizarrement, et ne sont plus les mêmes... Cette chanson est aussi en dialecte

      L’è tornaa da la Francia al Giovann,
      l’è pù lù, ma ‘l sa fa ciamaa Jean,
      quand al parla i capisan nagott,
      credi ben, al bestemmia l’argot!
      A Paris al ga ciama PanAm,
      al velò, l’è per lù la becane!

      L’è tornaat ul Parisien,
      con giò lung tant da basett,
      al ta bala con l’entrain
      la mazurca coi pasitt.

      I sciavatt i è per lù i godass,
      ai tosann al ga dis –je t’embrasse!-
      Sto balurd, che pretes! perché ‘l sa un po’ ‘l francès,
      al voeu fa al bell dal paes!

      Sora i labar al g’ha du spegasc,
      al pretend che i sa ciama moustache!
      L’ha taiaa i cavii a l’artista
      propi lu che ‘l faseva al sacrista!
      Quand al canta al fa su i oeucc da pess,
      al so orlòcc al ga ciama già Swatch!

      O Giovann! Fa mia al maran!
      Cambia disco e torna nostran!
      Se ta voeu restaa a tècc
      e dormi in dal tò lècc!...
      pianta lì! ...piantala lì da fa al menafrècc!

      Une petite tentative de traduction rapide de quelques lignes :

      Giovann est rentré de France,
      il n’est plus le même, il veut qu’on l’appelle « Jean »,
      quand il parle, on ne comprend rien,
      il jure en argot !

      Les chaussures, il les appelles « godass »
      aux filles il dit « je t’embrasse »
      Quelle prétention, juste parce qu’il sait quelques mots de français
      il veut être le beau du village

      http://emipiu.di.unimi.it/index.php/component/option,com_k2/Itemid,135/id,206/view,item

      @simplicissimus : je le sais bien que les suisses partaient vers l’Amérique... la preuve ici :


      –-> ticket de bateau de mon arrière-grand-mère, Ernesta Tamagni... pour aller aux Etats-Unis, depuis le Tessin

  • Sempre più svizzeri scelgono di emigrare

    Una crescita così importante non la si vedeva da tempo: nel 2016 il numero di svizzeri residenti all’estero è aumentato del 2,9% e oggi sfiora le 775mila unità. La comunità più grande si trova tuttora in Francia, seguita da Germania, Stati Uniti e Italia.


    http://www.swissinfo.ch/ita/la-quinta-svizzera-in-cifre_sempre-pi%C3%B9-svizzeri-scelgono-di-emigrare/42996478

    #émigration #Suisse #migrations #statistiques #chiffres

  • Les Bulgares veulent émigrer, mais pas d’immigrés

    Les résultats de la dernière #enquête #Eurobaromètre en Bulgarie sont paradoxaux. Plus de trois Bulgares sur cinq se réjouissent à l’idée de pouvoir émigrer au sein de l’UE, mais en même temps, plus des trois quarts voient l’arrivée de réfugiés non-européens comme un danger.

    http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bulgarie-resultats-eurobarometre.html
    #Bulgarie #immigration #émigration #migrations #asile #réfugiés #xénophobie #racisme

  • Blog • #Balkans, la catastrophe démographique et l’illusion du #jeunisme

    Les jeunes sont-ils vraiment l’avenir des Balkans ? Pas sûr ! Depuis un quart de siècle, la région se vide de ses forces vives, les jeunes diplômés sont les premiers à s’en aller de tous les pays de la région. Le dernier qui partira n’aura qu’à éteindre la lumière derrière lui.

    http://www.courrierdesbalkans.fr/bazar/blogs/libres-balkans-le-blog-de-jean-arnault-derens/blog-o-balkans-la-catastrophe-demographique-et-l-illusion-du-jeun
    #fuite_des_cerveaux #migrations #jeunes #jeunesse #démographie #émigration

  • New article finds visas reduce circulation by decreasing inflows and return flows of migrant groups

    New research published in International Migration Review investigates the long-term effects of visas on migration processes, finding that travel visa restrictions significantly decrease both immigration and emigration.

    https://www.imi.ox.ac.uk/news/new-article-finds-visas-reduce-circulation-by-decreasing-inflows-and-retur
    #visa #émigration #immigration #migrations

  • L’emigrazione lascia il Senegal senza i suoi uomini più giovani

    Curvo su una panchina in un villaggio del Senegal sudorientale, privo di vita se si esclude il belato occasionale delle capre e il crepitio di qualche vecchia motocicletta, Aliou Thiam, 28 anni, ha in testa un solo sogno. Thiam si sta preparando a lasciare sua moglie, i suoi due figli e l’unica vita che ha conosciuto finora in vista di un obiettivo che condivide con molti giovani in tutto il Senegal: raggiungere l’Europa.


    http://www.internazionale.it/notizie/kieran-guilbert/2016/10/20/senegal-uomini-migrazione

    #Sénégal #migrations #émigration

  • Il Land Grabbing influenza l’emigrazione?

    Mentre continuano gli aggiornamenti sullo sgombero di the Jungle, la Giungla di Calais, un’ascoltatrice ci chiede: se una larga porzione di terra nei paesi del terzo mondo viene venduta ad aziende o governi di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che la utilizzano, spesso da anni, per coltivare e produrre il loro cibo, cosa succede? Si chiama Land Grabbing ed è uno scandalo che esiste da molti anni, ma che dallo scoppio della crisi finanziaria è cresciuto enormemente, spingendo nella fame migliaia di contadini del Sud del mondo.


    http://lacittadiradio3.blog.rai.it/2016/10/24/land-grabbing

    #land_grabbing #terres #migrations #accaparement_des_terres #caricature #dessin_de_presse #émigration

    Podcast:
    http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=TUTTA%20LA%20CITT%C3%80%20NE%20PARLA%20del%2024%2F10%2F

    • LE VERE RAGIONI DELL’IMMIGRAZIONE AFRICANA : IL FURTO DELLA TERRA

      L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027).
      Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.
      Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono.
      Roberto Rosso, l’uomo che dai jeans ha ricavato un mondo che ora vale milioni di euro, ha domandato: “Come mai spendiamo 34 euro al giorno per ospitare un migrante se con sei dollari al dì potremmo renderlo felice e sazio a casa sua?”.
      Già, come mai? E perchè non li aiutiamo a casa loro?
      Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perchè la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita.
      E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?
      L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra.
      I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto… Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…
      Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo.
      Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!
      L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che – lavorata – permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perchè hanno un lavoro.
      Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.

      https://raiawadunia.com/le-vere-ragioni-dellimmigrazione-africana-il-furto-della-terra
      #accaparement_de_terres

  • #Femmes et #migrations : celles qui restent

    Ce numéro d’Échogéo, dans différents contextes géographiques au sud (Amérique centrale, Afrique de l’ouest et de l’est, Asie du sud), interroge la place des femmes dans l’émigration internationale, et plus particulièrement de celles qui « restent » en l’absence des hommes, de celles qui restent alors que d’autres partent. Le rôle des femmes dans les espaces d’émigration a fait l’objet de certains travaux dans le champ de la géographie ou plus largement des sciences sociales et ce, dès les années 1970-1980 et plus encore dans les années 1990. Cependant, les contextes actuels de mondialisation migratoire, de diversification des flux et des profils de migrants, de complexification des formes de migrer, de facilitation des mobilités via les nouvelles technologies de l’information ou encore le resserrement des liens urbain-rural suscitent un besoin de nouveaux éclairages.

    Geneviève Cortes
    Femmes et migrations : celles qui restent [Texte intégral]
    Introduction
    Anaïs Trousselle
    Mobilités et #immobilités des femmes qui « restent » dans la #vallée_du_Rio_Negro (#Nicaragua) [Texte intégral]
    Aurélia Michel
    Les femmes qui restent, ressorts de l’#économie_familiale d’archipel au #Mexique [Texte intégral]
    Pierre Dérioz, Pranil Upadhayaya, Maud Loireau, Philippe Bachimon, Justine Le Noac’h et Mauve Létang
    #Émigration_masculine et développement touristique en versant sud du massif des #Annapurna (#Népal) : les femmes à la manœuvre [Texte intégral]
    Colette Le Petitcorps
    Genre, migrations et sédentarités [Texte intégral]
    Le cas de Mauriciennes #employées_de_maison en #France de retour au pays
    Sihé Néya
    Les mobilités spatiales féminines entre logiques individuelle et familiale [Texte intégral]
    L’exemple des migrantes burkinabè entre le #Burkina_Faso et la #Côte_d’Ivoire
    François Ruf
    « Une femme en Côte d’Ivoire, une femme au Burkina Faso » [Texte intégral]
    Changement écologique et social autour du #cacao... et de l’#anacarde
    Amina Saïd Chiré et Bezunesh Tamru
    Les migrantes de retour dans la #Corne_de_l’Afrique [Texte intégral]
    Vers une transformation sociale des espaces émetteurs : le cas éthiopien

    http://echogeo.revues.org/14646
    #celles_qui_restent #genre #mobilité #revue #île_Maurice #Ethiopie #sédentarité
    cc @isskein
    signalé par @ville_en (merci !)

  • Baumhaus-Kinder von Berlin-Friedenau: Wir werden zwangsgeräumt! | Berliner-Kurier.de
    http://www.berliner-kurier.de/berlin/kiez---stadt/baumhaus-kinder-von-friedenau-wir-werden-zwangsgeraeumt--24834426


    Le jour de la fête nationale on apprend des nouvelles sur deux maisons. Celle de l’avenir sera détruite alors qu’on investivra des millions dans une autre qui représente le passé.

    Der Kampf um das Baumhaus der Kinder von Ivos Piacentini wird immer bizarrer: Weil der Bau laut Bezirksamt rechtswidrig ist, sollte die Baumhütte weg (KURIER berichtete). Doch das Umweltamt schoss quer – die Hütte durfte bleiben, bis jetzt. Nun soll zwangsgeräumt werden.

    Stadtrat Daniel Krüger gegen Baumhaus Samoa | Stadtrat Daniel Krüger, Einzelkämpfer gegen Kinderspiel- und Baumhäuser
    http://baumhaus-samoa.de

    Thomas-Mann-Villa in Los Angeles: Die Geburtsstätte des „Doktor Faustus“ - Kultur - Tagesspiegel
    http://www.tagesspiegel.de/kultur/thomas-mann-villa-in-los-angeles-die-geburtsstaette-des-doktor-faustus/14632732.html

    Bundesaußenminister Frank-Walter Steinmeier stellte am Donnerstag im Bundestag die Rettung der Villa in Aussicht. Deutschland stehe im amerikanischen Bieterverfahren unter den Kaufinteressenten an erster Stelle, so der SPD-Politiker, der sich ausdrücklich bei Kulturstaatsministerin Monika Grütters für ihr Engagement bedankte. Noch gehört die Villa nicht dem Bund, aber die Chancen stehen gut.
    Das schönste Haus der Manns

    Wer das seltene Glück hatte, das Haus der Manns einmal von innen zu sehen, der konnte nur darüber staunen, dass der elegant-moderne Entwurf des Architekten Davidson im Bauhausstil Thomas Mann damals überzeugt hatte. Es war ein Bau auf Bestellung: Der 1941 von Princeton an die Westküste gezogene Nobelpreisträger hatte ihn in Auftrag gegeben. Katia Mann hielt das Anwesen am San Remo Drive – die „San Remi“, wie man in der Familie sagte (in München hatte man die Villa in der Poschingerstraße nur „Poschi“ genannt) – für das schönste Haus, das die Manns je bewohnten.

    #Allemagne #Berlin #Friedenau #USA #Los_Angeles #émigration #littérature #histoire

  • Does Development Reduce Migration ?

    The most basic economic theory suggests that rising incomes in developing countries will deter emigration from those countries, an idea that captivates policymakers in international aid and trade diplomacy. A lengthy literature and recent data suggest something quite different: that over the course of a “mobility transition”, emigration generally rises with economic development until countries reach upper-middle income, and only thereafter falls. This note quantifies the shape of the mobility transition in every decade since 1960. It then briefly surveys 45 years of research, which has yielded six classes of theory to explain the mobility transition and numerous tests of its existence and characteristics in both macro- and micro-level data. The note concludes by suggesting five questions that require further study.


    http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/viewAbstract?dp_id=8592

    #développement #migrations #émigration #statistiques
    cc @reka @isskein

    • Can Development Assistance Deter Emigration ?

      As waves of migrants have crossed the Mediterranean and the US Southwest border, development agencies have received a de facto mandate: to deter migration from poor countries. The European Union, for example, has pledged €3 billion in development assistance to address the “root causes” of migration from Africa. The United States has made deterring migration a centerpiece of its development assistance to Central America.

      Will it work? Here we review the evidence on whether foreign aid has been directed toward these “root causes” in the past, whether it has deterred migration from poor countries, and whether it can do so. Development aid can only deter migration if it causes specific large changes in the countries migrants come from, and those changes must cause fewer people to move.

      Key findings:

      Economic development in low-income countries typically raises migration. Evidence suggests that greater youth employment may deter migration in the short term for countries that remain poor. But such deterrence is overwhelmed when sustained overall development shapes income, education, aspirations, and demographic structure in ways that encourage emigration.

      This will continue for generations. Emigration tends to slow and then fall as countries develop past middle-income. But most of today’s low-income countries will not approach that point for several decades at any plausible rate of growth.

      Aid has an important role in positively shaping migration flows. Realizing that potential requires massive innovation. Because successful development goes hand in hand with greater migration, aid agencies seeking to affect migration must move beyond deterrence. They must invest in new tools to change the terms on which migration happens.


      https://www.cgdev.org/publication/can-development-assistance-deter-emigration

    • Quel lien entre migrations internationales et développement ?

      Le développement, la lutte contre la pauvreté, des freins migratoires ? Sans doute pas. Aux politiques d’être vigilants et d’assumer une réalité qui échappe malgré tout à la force des logiques économiques, à l’efficacité des contrôles frontaliers. Le Nord attire, il a besoin de main-d’œuvre. Comment concilier ses intérêts avec ceux du Sud, avec les droits de l’homme des migrants ?

      http://www.revue-projet.com/articles/2002-4-quel-lien-entre-migrations-internationales-et-developpement

    • #Root_Causes’ Development Aid: The False Panacea for Lower Migration

      Migration is a positive side effect of development, and aid should not be spent in pursuit of keeping people where they are. Development economist #Michael_Clemens sorts the evidence from the politics in conversation with Refugees Deeply.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/02/23/root-causes-development-aid-the-false-panacea-for-lower-migration
      #aide_du_développement

    • #Aiutiamoli_a_casa_loro”: è una strategia efficace?

      Ricerche recenti hanno dimostrato che c’è una relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo tasso di emigrazione netta. Ma non sempre questa relazione va a sostegno di chi pensa che per arginare i flussi migratori basti aiutare i paesi più poveri a svilupparsi. Gli esperti parlano infatti di “gobba migratoria”: man mano che il PIL pro capite di un paese povero aumenta, il tasso di emigrazione dei suoi abitanti cresce, toccando un massimo nel momento in cui il paese raggiunge un reddito medio pro capite di circa 5.000 dollari annui (a parità di potere d’acquisto - PPA). Solo una volta superato quel livello di reddito, il tasso di emigrazione torna a scendere.

      Nel 2016 i paesi dell’Africa subsahariana avevano un reddito pro capite medio inferiore a 3.500 dollari annui PPA e, nonostante quest’ultimo sia cresciuto del 38% tra il 2003 e il 2014, negli ultimi anni questa crescita si è interrotta e rischia addirittura di invertirsi. I paesi dell’Africa subsahariana si trovano quindi ancora a un livello di sviluppo economico coerente con un tasso di emigrazione in crescita, ed è difficile immaginare che riusciranno a raggiungere (e superare) la “gobba” dei 5.000 dollari pro capite PPA nel futuro più prossimo.

      È tuttavia vero che, se si sviluppano insieme tutti i paesi africani, ciò potrebbe favorire una ripresa delle migrazioni intra-regionali, ovvero da paesi dell’Africa subsahariana verso altri paesi dell’area. Sarebbe un’inversione di tendenza rispetto a quanto verificatosi negli ultimi 25 anni, un periodo in cui le migrazioni extra-regionali (quindi verso Europa, Golfo, America del Nord, ecc.) sono quadruplicate.

      Infine va sottolineato che per “aiutarli a casa loro” attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415

      Dans cet article, on cite cette étude de Michael A. Clemens:
      Does Development Reduce Migration?
      http://ftp.iza.org/dp8592.pdf

    • Povertà, migrazioni, sviluppo: un nesso problematico

      È proprio vero che sono i più poveri a migrare? E cosa succede se prevale la visione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo come antidoto all’immigrazione? Il professor Maurizio Ambrosini mette a confronto la retorica dell’”aiutiamoli a casa loro” con i fatti.

      Uno dei luoghi comuni più inossidabili nel dibattito sulle migrazioni riguarda il rapporto tra immigrazione e povertà. Convergono sul punto sia i sostenitori della retorica dell’emergenza (“la povertà dell’Africa si riversa sulle nostre coste”), sia i paladini dell’accoglienza (“siamo responsabili della povertà del Terzo Mondo e dobbiamo farcene carico”). Il corollario più logico di questa visione patologica delle migrazioni è inevitabilmente lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Mi propongo di porre a confronto questa visione con una serie di dati, al fine di valutare la pertinenza dell’idea dell’aiuto allo sviluppo come alternativa all’immigrazione.
      Non la povertà, ma le disuguaglianze

      Come vedremo, la povertà in termini assoluti non ha un rapporto stretto con le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze. È vero invece che le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.

      L’enfasi sulla povertà come molla scatenante delle migrazioni si scontra invece con un primo dato: nel complesso i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: secondo i dati più recenti contenuti nel Dossier statistico Idos 2017, intorno ai 247 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani, pari al 3,3 per cento. Se i numeri sono cresciuti (erano 175 milioni nel 2000), la percentuale rimane invece stabile da parecchi anni, essendo cresciuta anche la popolazione mondiale.

      Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87 per cento nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. Per di più, dall’interno dell’Africa partono soprattutto persone istruite.

      Ne consegue un secondo importante assunto: la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. I migranti, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e migrazioni non ha basi statistiche. Certo, i migranti partono soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Questo miglioramento però è appunto comparativo, e ha come base uno zoccolo di risorse di vario tipo.
      Chi è poverissimo non riesce a partire

      Le migrazioni sono processi intrinsecamente selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani di cui spesso non si conosce neanche la lingua, e di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Pertanto la popolazione in Africa potrà anche aumentare ma, senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non si vede come possa arrivare fino alle nostre coste.

      Se invece di fissare lo sguardo sugli sbarchi guardiamo ai dati sulle nazionalità degli immigrati che risiedono in Italia, ci accorgiamo che i grandi numeri non provengono dai paesi più derelitti dell’Africa. L’immigrazione insediata in Italia è prevalentemente europea, femminile, proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana. La graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’Onu: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. Su scala globale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico, in Svizzera sono europei per oltre l’80 per cento, in Germania in due casi su tre.

      Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano (cinesi, filippini, latino-americani…) nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
      Mostra «La Terra Inquieta», Triennale di Milano, 2017 (foto: Marina Petrillo)

      La cattiva gestione dell’asilo ha in parte incrinato questa logica: i rischi sono tali che a volte arriva anche chi non ha niente da perdere e ha l’incoscienza di provare a partire. Se viene riconosciuto come rifugiato, in Italia il più delle volte viene lasciato in mezzo alla strada. Incontra severe difficoltà anche nello spostarsi verso altri paesi europei, come avveniva più agevolmente nel passato. In modo particolare, i beneficiari dell’Emergenza Nord Africa dell’ultimo governo Berlusconi sono stati gestiti con un approccio emergenziale che non ha favorito la loro integrazione socio-economica. Ma pur tenendo conto di questa variabile, la logica complessiva non cambia: le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze non sono un effetto della povertà, ma dell’accesso ad alcune risorse decisive.
      A proposito dei “migranti ambientali”

      Una valutazione analoga riguarda un altro tema oggi dibattuto, quello dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. È una spiegazione affascinante della mobilità umana, e anche politicamente spendibile. Ora, è senz’altro vero che nel mondo si moltiplicano i problemi ambientali, direttamente indotti come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocati da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque.

      Tuttavia, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. Anzitutto, le migrazioni difficilmente hanno un’unica causa: i danni ambientali semmai aggravano altri fattori di fragilità, tanto che hanno un impatto diverso su gruppi diversi di popolazione che abitano negli stessi territori. Entrano in relazione con altri fattori, come per esempio l’insediamento in altri territori di parenti che si spera possano fornire una base di appoggio. È più probabile poi che eventualmente i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa, sempre per la ragione prima considerata: dove trovano le risorse per affrontare viaggi così lunghi e necessariamente costosi? Va inoltre ricordato che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50 per cento dell’occupazione complessiva. Neppure la Cina ci riesce, pur avendo trattato a lungo i contadini inurbati senza permesso alla stessa stregua degli immigrati stranieri considerati illegali nei nostri paesi, tanto che ha dovuto negli ultimi anni ammorbidire la sua politica in materia.
      Gli aiuti allo sviluppo non risolvono la questione

      Questa analisi ha inevitabili ripercussioni sull’idea della promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”.

      Si tratta di un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie anziché quelle più povere.

      In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Possiamo dire che lo sviluppo si lega ad altri fattori di cambiamento sociale, mette in movimento le società, semina speranze e sogni che spingono altre persone a partire. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati.

      Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata. In tutti i casi fin qui conosciuti sono occorsi decenni di sviluppo prima di osservare un calo significativo dell’emigrazione.
      Le rimesse degli emigranti

      L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta.

      A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero, e 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento. A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma un simile effetto nel breve periodo è praticamente impossibile.

      Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.

      Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono.

      Concludendo, il nesso diretto tra migrazioni, povertà e sviluppo è una delle tante semplificazioni di un dibattito che prescinde dai dati, si basa sulle percezioni e rifugge dalla fatica dell’approfondimento dei fenomeni.

      http://openmigration.org/analisi/poverta-migrazioni-sviluppo-un-nesso-problematico

    • #Codéveloppement : un marché de dupes

      Née du souci d’un partage équitable des richesses et d’une volonté de coopération entre la France et les pays d’émigration, la notion de codéveloppement a été rapidement dévoyée. Au lieu de considérer que migrations et développement sont deux phénomènes complémentaires, les unes apportant à l’autre l’aide la plus conséquente et la plus efficace, on assiste aujourd’hui, derrière un discours d’un cynisme affiché prétendant mener une politique qui répond aux intérêts de tous, à un contrôle accru et une diminution des migrations. À l’inverse des incantations officielles, cette politique ne bénéficie ni aux migrants, ni aux pays de destination, ni aux pays d’origine.


      https://www.gisti.org/spip.php?article1799

    • Immigration : l’échec de la méthode Sami Nair. Le « codéveloppement » du chevènementiste ne démarre pas.

      Les uns parlent de fiasco, rigolent en douce : « C’était couru

      d’avance. » Les autres maintiennent que l’idée est révolutionnaire. Au Quai d’Orsay, certains assurent que le codéveloppement est enterré. A Matignon, d’autres affirment que l’aventure ne fait que commencer. Ces divergences, même radicales, seraient banales s’il ne s’agissait pas d’une approche totalement différente de la gestion des flux migratoires. Mais, un an après le lancement de la délégation interministérielle au codéveloppement, le démarrage est poussif : aucune convention n’a encore été signée avec les trois pays concernés (Maroc, Mali, Sénégal), et le contrat de réinsertion dans le pays d’origine (CRPO), proposé aux immigrés, n’a attiré que 27 personnes. « Normal, c’est un projet à long terme », assure-t-on à l’Office des migrations internationales (OMI, rattaché au ministère de l’Emploi et de la Solidarité). Il n’empêche, les chiffres sont rudes : Sami Naïr, père du concept, ancien délégué au codéveloppement et nouveau député européen (MDC), tablait sur des milliers de demandes. « Le codéveloppement, ça marche », persiste-t-il. Ces résultats décevants, voire piteux, signent-ils la mort du projet ?

      Marotte. Au départ, il y a cette idée, séduisante comme une évidence : transformer les émigrés en acteurs mobiles du développement de leur pays. En pratique, il s’agit de proposer, sur place, des conditions suffisamment attrayantes pour garder et/ou faire revenir les immigrés. Et, in fine, de substituer des flux transitoires aux flux permanents d’immigration irrégulière.

      Le codéveloppement a toujours été la marotte de Sami Naïr. Universitaire, très proche de Chevènement, rencontré dans sa jeunesse belfortaine, Naïr séduit les uns, excède les autres. « C’est un faux-jeton », assurent ces derniers, l’accusant d’avoir troqué ses convictions et son passé de pourfendeur des lois Pasqua (1) contre un bureau de conseiller place Beauvau. D’autres vantent son enthousiasme, sa vision de l’immigration et des rapports Nord-Sud. « On croirait qu’il va déplacer des montagnes », expliquent ses adversaires pour justifier son influence.

      Signe du climat passionnel qui règne autour de Jean-Pierre Chevènement, les détracteurs et même les partisans préfèrent garder l’anonymat. Mais tous, ou presque, reconnaissent sa compétence en matière de flux migratoires. « Je ne crois pas à une Europe-forteresse, mais à une Europe forte, qui intègre et dynamise les flux migratoires », dit-il malgré son appartenance au MDC, qui n’en fait pas un européen convaincu.

      Jospin séduit. Fin 1997, Sami Naïr remet à Jospin son rapport sur le codéveloppement. « La France ne peut plus, dans le contexte actuel, accueillir de nouveaux flux migratoires. Le codéveloppement n’a pas pour but de favoriser le retour des immigrés chez eux s’ils n’en ont pas la volonté », mais de « favoriser la solidarité active avec les pays d’origine », lit-on dans ce rapport. Jospin est très séduit, comme Martine Aubry, ainsi, bien sûr, que Chevènement. Le ministère de la Coopération n’y croit pas, des spécialistes dénoncent « une vieille idée des années 50 » et jugent impossible de renvoyer des gens contre leur gré. « La coopération avec les pays du Sud est un acte de solidarité, la gestion des entrées sur le territoire relève de la police. On ne peut associer les deux », estime le président du groupe de travail Migrations-développement, structure de réflexion qui regroupe des représentants de l’Etat et des ONG.

      Habiller les restrictions. Mais le contexte politique sert Naïr. Alors que s’achève l’opération de régularisation des sans-papiers, qui laisse 60 000 irréguliers sur le carreau, le conseiller de Chevènement devient le premier délégué interministériel au codéveloppement et aux flux migratoires. « Il fallait que Chevènement habille sa politique restrictionniste, explique aujourd’hui un anti-Naïr de la première heure. Si Chevènement avait mis pour les sans-papiers 10% de l’énergie consacrée au projet de Sami Naïr, on n’en serait pas là. C’est les avions renifleurs de l’immigration. » Le jugement est sévère. Car la délégation, finalement installée boulevard Diderot à Paris dans un local appartenant aux Finances, est bien modeste et n’a quasiment aucun fonds propre.

      Le Quai accusé. Les négociations des décrets sont agitées. « C’était un dossier très chaud. La Coopération n’a pas voulu jouer le jeu. Ils n’étaient pas contents qu’on leur enlève des budgets », se souvient-on à Matignon où on loue, sans réserve, le « travail remarquable de Sami, compte tenu des difficultés ». « Faux. On était demandeurs », se défend un haut fonctionnaire du Quai d’Orsay, auquel le ministère de la Coopération est rattaché. En fait, les adversaires du projet sont divisés. Aux Affaires sociales, le cabinet refuse qu’on dépense de l’argent pour former des immigrés en situation irrégulière. « Je me suis battu comme un chien, et Martine Aubry m’a soutenu », rétorque Sami Naïr. A la Coopération et aux Affaires étrangères, on juge le projet trop imprégné du fantasme de l’immigration zéro cher à Pasqua, qui avait déjà tenté ­ sans suite ­ une politique de codéveloppement : « Ça marche si le type n’est pas encore parti. Parce qu’une fois qu’il a goûté à l’Occident, même dans une banlieue pauvre, il connaît vraiment la différence, et il faut payer très cher pour qu’il reparte. »

      « Politique réac ». L’échec du contrat de réinsertion dans le pays d’origine affecte moins Sami Naïr que les commentaires désobligeants qui l’accompagnent. « Le CRPO n’est qu’un petit dossier de la politique de codéveloppement et il n’a pas été pris en charge », explique-t-il, visant l’OMI, pourtant riche des 1 300 francs ponctionnés à chacun des 70 000 régularisés de la circulaire Chevènement (visite médicale plus « taxe de chancellerie »).

      Les détracteurs du codéveloppement ne désarment pas quand on en vient au principal volet, nettement plus complexe : les conventions proposées au Maroc, au Mali et au Sénégal, prévoyant des investissements français en échange d’une limitation des flux migratoires. Le Maroc refuse de signer la convention. Le Mali et le Sénégal, d’abord réticents, ont été convaincus par les arguments de Naïr, et les accords devraient être signés à la rentrée. « La gaugauche s’est fait avoir. C’est une politique très réac enrobée de tiers-mondisme. Le colonialisme et les quotas, c’est fini, on ne dispose plus des gens contre leur gré », s’énerve un spécialiste, pourtant proche de Chevènement, qui s’appuie sur vingt ans d’échecs répétés de tous les systèmes d’aide au retour des immigrés. Ailleurs, on reconnaît que ce genre de politique se juge sur le long terme. Encore faut-il y mettre des moyens et une volonté politique. Et si, effectivement, le codéveloppement a été seulement perçu comme un habillage de la politique d’immigration, il est très probable qu’on en restera là.

      (1) Sami Naïr est l’auteur de Contre les lois Pasqua (1997).

      http://www.liberation.fr/societe/1999/07/08/immigration-l-echec-de-la-methode-sami-nair-le-codeveloppement-du-chevene

    • Codéveloppement et flux migratoires

      Je crois que le mieux pour comprendre ce que j’ai essayé de faire en matière de codéveloppement lié aux flux migratoires à la fin des années 90, c’est encore de résumer, brièvement, comment cette idée de codéveloppement a été élaborée et pourquoi elle reste d’actualité. On pardonnera une implication plus personnelle du propos, mais il se trouve que grâce à Jean-Pierre Chevènement, ministre de l’Intérieur à partir de juin 1997, j’ai été associé à la politique gouvernementale en matière d’immigration.

      https://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=MIGRA_117_0071

    • Je transcris ici les propos de Murat Julian Alder, avocat, député au Grand Conseil genevois, prononcés lors d’un débat à Infrarouge (autour de la minute 53) :

      « Il est temps qu’on pose la question sur la table avec les pays d’émigration. Au PLR on a la conviction qu’on est en droit, en tant qu’Etat qui malheureusement subit une partie de cette migration, d’exiger une contre-partie des pays à qui nous versons chaque année des centaines de millions de francs au titre de l’#aide_au_développement. Lorsqu’on est au pouvoir dans un pays, on en défend ses intérêts. Et la défense des intérêts de notre pays implique que nos gouvernants explique aux pays d’émigration que cette aide au développement est à bien plaire, mais qu’on peut faire davantage pour autant qu’il y ait une contrepartie. Et cette contrepartie c’est la conclusion d’#accords_de_réadmission, c’est aussi une aide davantage ciblée sur place dans les pays d’émigration au lieu de la politique de l’arrosoir que nous connaissons actuellement »

      #accords_bilatéraux

  • Latvian Institute starts campaign ’’I want you back’’

    Latvian Institute (LI) has started a campaign in order to reach out to both Latvians who are living abroad and Latvians who have friends or relatives working and living abroad.
    After Latvia became a member of EU and especially during the economic crisis in 2010, many hundreds and thousands of people left Latvia and went working abroad, mostly United Kingdom, Ireland, but also Denmark, Norway and Sweden.
    Now the LI wants to start a bigger project and the first activity is to reach out to Latvians in Latvia and encourage them to say to their loved ones abroad that they want them back.
    This social movement has encountered also a quite sarcastic tone, but the director of LI Aiva Rozenberga is sure that this will help.

    http://www.diena.lv/latvija/zinas/attieksme-svarigaka-par-algu-14150554
    Divu nedēļu laikā, kopš Latvijas Institūts (LI) nāca klajā ar iniciatīvu Gribu Tevi atpakaļ!, saņemtas visdažādākās atsauksmes. Rīkojot diskusiju ar mediju pārstāvjiem, LI direktore Aiva Rozenberga atzina, ka šis neesot pirmais viņas sāktais projekts, kurā būs jāiet cauri lielām diskusijām. Sociālās kustības sākuma laiks izvēlēts, ņemot vērā, ka tuvojas Latvijas simtgade. “Tas nav par cilvēkiem, kas aizbrauc, bet par mums pašiem – ko katrs var ieguldīt un mainīt to, kas neapmierina,” viņa norāda.

    #Latvia #Latvija #Aiva_Rozenberga #Latvian_Institute #Emigration

  • Grande traversée : Sur les routes de l’exil : podcast et réécoute sur France Culture. Marie Richeux .
    Retour sur dix heures d’émissions consacrées à la « crise des migrants ».

    Les récits et images de personnes quittant leur pays sur des embarcations précaires ayant été pour beaucoup le début d’une prise de conscience, les émissions que nous réécoutons ce jour évoquent ces périlleuses - voire meurtrières - traversées.


    http://www.franceculture.fr/emissions/grande-traversee-sur-les-routes-de-l-exil ( en savoir plus)
    #migration #émigration #immigration #exil #crise_migratoire #migrant #Europe #intégration #géopolitique #parole_de_migrants #Mer

  • Fuite des cervaux : les Français moins touchés que leurs voisins
    http://fr.myeurop.info/2016/05/24/fuite-des-cervaux-les-fran-ais-moins-touch-s-que-leurs-voisins-14534

    Daniel Vigneron

    Loin de quitter la #France en masse, les Français qualifiés s’expatrient beaucoup moins que les Allemands, les Italiens ou les Britanniques. Seule la catégorie des #jeunes_diplômés part plus fréquemment à l’étranger, mais pour un temps limité.

    Depuis plusieurs années, personnalités politiques, leaders d’opinion et experts s’affrontent sur la question de la #fuite_des_cerveaux français à l’&eac lire la suite

    #EUROFOCUS #Allemagne #Espagne #Italie #Pays-Bas #Royaume-Uni #Suède #consulats #émigration #Erasmus #Etudes_à_l'étranger #expatriés #français_de_l'étranger #RFI