• L’alluvione in Emilia-Romagna: le lacrime di coccodrillo sopra un consumo di suolo senza argine

    La Regione sconvolta in questi giorni è la prima in Italia per cementificazione in aree alluvionali, come mostrano i dati dell’Ispra, ignorati dai più fino a ogni disastro: più 78,6 ettari nel 2021 nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità. Altro che “è colpa delle nutrie”, osserva il prof. Paolo Pileri

    Non mancando di rispetto alle vittime delle esondazioni nel ravennate, è corretto ricordare quel che l’ipocrisia di molte parole politiche in queste ore nasconde: l’Emilia-Romagna, da anni, consuma suolo come se non ci fosse un domani, parandosi dietro a una legge urbanistica regionale del 2017 (la numero 24) che fa letteralmente acqua da tutte le parti per quanto riguarda la tutela del suolo. E i nodi vengono al pettine.

    Insopportabili le lacrime dei politici e delle varie autorità civili o di alcune organizzazioni dell’agricoltura che riescono a prendersela perfino con le nutrie che bucano gli argini, tanta è la miopia o la svogliatezza di vedere che il clima è cambiato per causa nostra e siamo noi i soli responsabili di tutto ciò. La nostra urbanistica, la nostra agricoltura, la nostra mobilità autocentrica, la nostra idea di crescita e sviluppo. Siamo noi le nutrie, noi i sapiens che non vogliamo smettere di consumare suolo, di cementificare in ogni dove, di tenere in piedi questo modello sociale ed economico dilapidatore di natura. Oggi sono tutti a piangere ma ieri erano tutti schierati a deridere e non considerare quanti di noi, pochi ahinoi, sostenevano pubblicamente che la legge urbanistica della Emilia-Romagna, con il suo maledetto 3% di consumo di suolo sempre possibile, non avrebbe che aggravato la situazione, aumentato le metastasi.

    Tanto per ricordare i numeri e non le opinioni, e cito dati tratti dal rapporto Ispra sul Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici del 2022 a cura di Michele Munafò. Tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale. In pochi anni -e con questi governanti- la Regione è arrivata ad avere una superficie impermeabile dell’8,9% contro una media nazionale del 7,1%. E tutti sappiamo perfettamente che sull’asfalto l’acqua non si infiltra e scorre veloce accumulandosi in quantità ed energia, ovvero provocando danni e vittime.

    Tutti noi sappiamo che tra un suolo libero e uno cementificato la quantità d’acqua che scorre violentemente in superficie aumenta di oltre cinque volte. Tutti noi sappiamo che le piogge saranno sempre peggiori, eppure continuiamo a prendercela con le “bombe d’acqua” e non con quelle di cemento che nel frattempo e ogni giorno noi sapiens sganciamo sul nostro territorio, rendendolo più vulnerabile. La provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021 (più 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale) con un consumo procapite altissimo (2,95 metri quadrati per abitante all’anno); è quarta per suolo impermeabilizzato procapite (488,6 m²/ab).

    La città di Ravenna è stato il capoluogo più consumatore di suolo dell’intera Regione nello scorso anno (più 69 ettari). E che cosa si fa? Si va avanti. In Regione si consuma perfino nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica dove l’Emilia-Romagna vanta un vero e proprio record essendo la prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali: più 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità che è poi più della metà del consumo di suolo nazionale con quel grado di pericolosità idraulica: pazzesco.

    Come si fa a dire che è colpa delle nutrie? O a piangere quando qualche anno prima si approvava una legge che faceva acqua ovunque e quando il tema dello stop al consumo di suolo non fa parte dei propri discorsi politici tutti i giorni? Come si fa a piangere quando l’Emilia-Romagna non ha fatto nulla negli anni passati per portare al tavolo di tutte le Regioni una proposta di legge nazionale contro il consumo di suolo? Come si fa a piangere quando non si è capaci di parlare di biodiversità, di cambiamenti climatici e di altri modelli economici e sociali? E tanto per concludere con le ipocrisie, l’Emilia-Romagna si è costruita una legge urbanistica talmente ingannevole da autoprodursi assoluzioni come quella che si può vedere sul sito della città metropolitana di Bologna dove, come per incanto, dal 2018 fino a oggi i consumi di suolo sono magicamente diventati zero. Ma non perché hanno smesso di consumare (tutt’altro), solo perché hanno manomesso le definizioni urbanistiche al punto tale da riuscire a non conteggiare più le cementificazioni e risultare così tutti virtuosi e contenti per legge, non per virtù.

    Capite fin dove arriva l’ipocrisia? Capite l’urgenza di svoltare pagina? Capite che abbiamo bisogno di politici e urbanisti che siano in grado di ipotizzare un futuro possibile senza consumare suolo, senza una transizione energetica mangiando aree agricole, senza immense colate di cemento per la logistica e le autostrade e così via. Capite che la lacuna è culturale? Capite che non abbiamo bisogno di ministri che girano la testa dall’altra parte o ministri che si occupano di alte velocità inutili o ponti impossibili davanti a un paese che affoga a ogni pioggia o di ministri che si permettono di dire che esistono consumi di suolo buoni, come è capitato durante la presentazione dell’ultimo rapporto nazionale? Qui non c’è nulla di buono. È un diritto di noi tutti avere un governo regionale e nazionale che tutela il suolo e la natura e ferma questo saccheggio continuo, questi “vandali in casa” come disse più di 50 anni fa Antonio Cederna, profeta inascoltato.

    https://altreconomia.it/lalluvione-in-emilia-romagna-le-lacrime-di-coccodrillo-sopra-un-consumo

    #inondations #Italie #Emilie-Romagne #responsabilité #artificialisation_des_sols #aménagement_territorial #sol #hypocrisie

  • Donne lavoratrici immigrate tra oppressioni e resistenze: generare percorsi di trasformazione sociale

    Quali cambiamenti e processi di trasformazione possono essere messi in moto dall’intraprendere un percorso collettivo e autorganizzato di lotta sindacale sul luogo di lavoro, sia per le soggettività che vi prendono parte, sia per la collettività e i territori in cui queste lotte avvengono?

    È questa la domanda da cui ha preso avvio una ricerca empirica qualitativa che mi ha portato tra i mesi di maggio e ottobre 2021 a conoscere e intervistare svariate lavoratrici immigrate e attivisti/e di diverse realtà politico-sociali coinvolte in due percorsi di lotta dentro e fuori i rispettivi luoghi di lavoro dal 2018 ad oggi. I due casi studio analizzati si trovano in Emilia-Romagna, crocevia strategico per l’attività logistica di tutto il paese, e rappresentano due eccellenze del made in Italy conosciute a livello internazionale: lo stabilimento produttivo di un’azienda alimentare famosa per l’esportazione di prodotti di qualità e i magazzini di imballaggio e spedizione di un colosso dell’e-commerce nell’ambito della moda di lusso.
    Diversi luoghi di impiego, comuni condizioni: essere donne immigrate nel mercato del lavoro italiano

    Al 1 gennaio 2020 (ISTAT) si registrano in Italia 2.607.959 donne straniere, circa il 51,7% della popolazione immigrata europea ed extraeuropea regolarmente residente con un tasso di occupazione che si attesta attorno al 50,7% (in linea con il tasso di occupazione delle donne italiane, 50,2%), rappresentando circa il 43% della manodopera straniera totale, che nel 2019 risultava essere di 2.505.186 persone straniere con un’incidenza di quasi l’11% sulla forza lavoro complessiva del paese (Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche Sociali, 2020). È necessario precisare che questi dati non comprendono le stime del lavoro sommerso, ampiamente diffuso in tutta la penisola e che interessa un’importante fetta della popolazione immigrata (per approfondimenti: Fondazione Leone Moressa, 2020).

    Le occupazioni in cui si trovano maggiormente impiegate le donne immigrate sono caratterizzate da un’alta intensità lavorativa in settori che difficilmente possono essere delocalizzati all’estero e che necessitano di un abbattimento dei costi del lavoro vivo per mantenere un’alta competitività nel mercato o per renderli accessibili alla massa della popolazione (Cvajner, 2018). Questa segregazione lavorativa verso impieghi squalificati e spesso squalificanti determina che se la metà dei lavoratori italiani copre almeno 44 diverse professioni, il 50% degli occupati stranieri si concentra in solo 13 professioni. Se si restringe lo sguardo sulle donne, emerge che la metà delle lavoratrici italiane ricopre circa 20 professioni, mentre il 50% delle lavoratrici immigrate appena 3 ambiti occupazionali: servizi domestici, cura alla persona, pulizie (IDOS, 2020).

    Vi sono altri due settori in cui per specifiche mansioni si concentra un alto numero di manodopera straniera femminile e anch’essi sono caratterizzati da alta intensità di lavoro e dalla necessità di una forza lavoro flessibile, adattabile, attivabile al bisogno e disponibile ad orari anomali: i settori agricolo e logistico. In riferimento a quest’ultimo, i principi logistici di efficienza, tempestività, flessibilità, affidabilità e economicità che influenzano l’organizzazione del lavoro lungo tutta la filiera produttiva inserita in un sistema economico sempre più improntato alle modalità pull di produzione snella, Just in Time e toyotista, riscontrano nella manodopera immigrata femminile quelle vulnerabilità situazionali e sistemiche che la rendono facilmente sfruttabile.

    È all’interno di questa cornice che si ritrovano le donne protagoniste di questa ricerca, le quali ricoprono una posizione lavorativa regolata dai principi logistici sopra brevemente descritti e alle quali vengono imposte condizioni comunemente segnate da: sottoinquadramenti sistemici e conseguenti sottoretribuzioni; rapporti contrattuali esternalizzati e appaltati; ritmi frenetici, flessibili e mala gestione degli orari di lavoro; precarietà contrattuale dovuta ad un utilizzo scorretto dello strumento della “cooperativa” e della prassi diffusa del “cambio appalto”; clima e atteggiamenti antisindacali e violenze verbali e simboliche dal carattere sessista e razzista (SI Cobas, 2017).

    Per comprendere le ampie cause strutturali alla base di queste condizioni lavorative e di vita e, allo stesso modo, delle motivazioni che hanno spinto a mobilitarsi, è necessaria una prospettiva d’analisi intersezionale (Crenshaw, 1989) capace di riconoscere e tenere assieme i molteplici assi lungo cui scorrono simultaneamente discriminazioni e oppressioni. In questo caso, analizzando la condizione delle sette lavoratrici intervistate, gli assi intersecati dal loro locus sociale (Ribeiro, 2020) sono: il genere femminile; la classe sociale lavoratrice operaia; il background migratorio; lo status giuridico (cittadinanza straniera-permesso di soggiorno); la nazionalità/etnia (Marocco, Tunisia, Ucraina, Moldavia, Filippine); il ruolo familiare di madre.

    Queste donne, quindi, intersecano vulnerabilità e subalternità legate non solo alle necessità economiche. Tutte hanno infatti raccontato di come siano consapevoli di essere manodopera facilmente ricattabile e di come vengano quotidianamente poste di fronte a scelte escludenti e peggiorative per sé stesse e per la propria famiglia: per garantire il proprio permesso di soggiorno e quello dei figli minorenni, nati e cresciuti in Italia, necessitano di mantenere un contratto di lavoro in occupazioni che non rispettano i loro diritti e che non lasciano la possibilità di conciliare i compiti di cura e di riproduzione sociale, trovandosi per di più impossibilitate nel mettere in discussione questi ruoli familiari dato che anche i loro partners sono soggetti a simili condizioni lavorative. Usando le parole di una delle lavoratrici, non resta altra scelta che attivarsi e reclamare giustizia:

    «Si inizia ad iscriversi e a lottare innanzitutto per la disperazione, per come ci trattano i padroni: se no un’altra ragione non c’è per cui delle lavoratrici escano fuori a fare sciopero.»

    Ecco che, come afferma Anna Tsing, l’analisi del sistema della logistica è necessaria per capire i dilemmi della condizione umana odierna: le diseguaglianze e le differenze preesistenti sono più che mai reali e sfruttate, rivitalizzate e usate a proprio favore anche dal supply chains capitalism, agendo così un supersfruttamento (Tsing, 2009).

    Lo spazio sociale occupato da queste donne non deve però essere inteso in modo deterministico o passivizzante: come dimostrano i due casi studio, può rappresentare un luogo dal quale si costruiscono percorsi di lotta e rivendicazioni dal carattere plurale, inclusivo, reticolare.
    Generare processi di trasformazione e cambiamenti individuali e collettivi

    Grazie alla prospettiva intersezionale che ha permesso di considerare le ampie cause alla base di questi sfruttamenti, ho potuto allo stesso modo cogliere come queste mobilitazioni siano indispensabilmente e intrinsecamente coinvolte con altre cause sociali, ad esempio quelle per la revisione del sistema dei permessi di soggiorno e contro la violenza di genere, e come abbiano fin da subito intrecciato altre realtà politiche (dal basso e istituzionali) travalicando i confini della fabbrica e andando oltre le rivendicazioni più prettamente sindacali.

    I risultati emersi dalla ricerca evidenziano pertanto diversi cambiamenti che hanno influito sulle singole lavoratrici e sulla collettività tutta.

    Per quanto riguarda le lavoratrici, sono stati registrati cambiamenti a livello di:

    adeguamento contrattuale, salariale e di gestione dei tempi di lavoro: miglioramenti che hanno influito anche sulla qualità della vita extra-lavorativa della donna e di tutto il nucleo familiare;
    apprendimento e sviluppo di sapere esperto utile per affrontare situazioni di difficoltà, diventando un punto di riferimento anche per familiari e conoscenti;
    coscientizzazione e nuova percezione del sé, delle proprie possibilità e capacità di agency, sia ai propri occhi che a quelli delle persone esterne, determinando prese di parola e processi di autodeterminazione importanti;
    rafforzamento e ampliamento delle reti sociali e di supporto formali e informali;
    socializzazione ai movimenti sociali e alle realtà politiche presenti sul territorio, anche per i propri partners e figli/e: queste donne si sono fatte soggetti politici attivi ponendosi come cittadine attiviste (Montagna, 2017) capaci di atti di cittadinanza e di richieste di giustizia forzando il concetto formale di cittadinanza. (Cherubini, 2018; Isin, 2008).

    Gli impatti sulle comunità coinvolte si possono riassumere nei seguenti punti:

    – la diffusione di presidi di giustizia e legalità, richiamando i vari attori sociali alle loro responsabilità, diffondendo tra la cittadinanza consapevolezza in merito a queste tematiche e impedendo che alcune prassi corrotte possano replicarsi facilmente in altre fabbriche e in altri territori;
    - una rivitalizzazione delle reti sociali e delle realtà sindacali e di movimento che ha permesso contaminazioni e intersezioni delle lotte, maggiore coesione comunitaria e la costruzione di nuovi spazi e reti cittadine che trattano varie questioni politico-sociali di interesse comune;
    - costruzione di solidarietà e un contributo al processo di ricomposizione di classe.

    Conclusioni

    Ciò che emerge da questa ricerca a livello locale in riferimento ai risvolti positivi riscontrati, è che questi percorsi collettivi autorganizzati hanno generato importanti processi di cambiamento, di auto- emancipazione e trasformazione in senso migliorativo tanto per le singole soggettività quanto a livello comunitario e sociale verso la costruzione di una classe per sé combattendo pregiudizi, sfiducia, isolamento e individualismo che caratterizzano i luoghi di lavoro e la società intera. Come ha detto una lavoratrice:

    «Se noi prendiamo un frutto, sarà per tutti. È una lotta che è sempre per tutti. […] l’importante è che l’abbiamo fatta, l’importante è che si fa. E si fa per le nostre generazioni: magari un domani un’altra italiana che ha visto la nostra lotta, ce la fa anche lei!».

    Bibliografia

    Cherubini Daniela
    2018 Nuove cittadine, nuove cittadinanze? Donne migranti e pratiche di partecipazione, Milano, Maltemi Linee.

    Crenshaw Kimberlè
    1989 Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Policies, «The University of Chicago Legal Forum», 1.

    Cvajner Martina
    2018 Sociologia delle migrazioni femminili. L’esperienza delle donne post-sovietiche, Bologna, Il Mulino.

    Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione (a cura di)
    2020 X Rapporto annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

    Fondazione Leone Moressa
    2020 Immigrazione e lavoro nero, Economia dell’immigrazione

    IDOS Centro Studi e Ricerche
    2020 Dossier statistico Immigrazione 2020, Roma, IDOS.

    Isin Engin
    2008 Theorizing acts of citizenship, in Acts of citizen ship, a cura di E. Isin e G. Nielsen, London-New York, Zed Books.

    ISTAT, Stranieri residenti al 1 gennaio

    Montagna Nicola
    2017 Dominant or subordinate? The relational dynamics in a protest cycle for undocumented migrant rights, «Ethnic and Racial Studies».

    Ribeiro Djamila
    2020 Il luogo della parola, Alessandria, Capovolte.

    SI Cobas
    2017 Carne da macello. Le lotte degli operai della logistica e il teorema repressivo contro il SI COBAS e le conquiste dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia, Roma, Red Star Press.

    Tsing Anna
    2009 Supply chains and the human condition, «Rethinking Marxism», 21(2).

    https://www.meltingpot.org/2022/04/donne-lavoratrici-immigrate-tra-oppressioni-e-resistenze-generare-percor
    #femmes #femmes_migrantes #migrations #travail #résistance #oppression #Italie #Emilie-Romagne #made_in_Italy #conditions_de_travail #logistique

  • #Rome Croule Sous Les #Ordures | Le Blog Du Bureau De Rome | Franceinfo
    https://blog.francetvinfo.fr/bureau-rome/2018/01/08/rome-croule-sous-les-ordures.html

    Les #déchets envahissent les rues de Rome. Après les fêtes de fin d’année, les poubelles de la ville sont pleines comme jamais. Et le tri n’est pas assuré correctement.

    #mouvement_5_étoiles #exportations #Lombardie #Abruzzes #Émilie-Romagne #Autriche

  • Construire l’#image_touristique d’une région à travers les #réseaux_sociaux : le cas de l’#Émilie-Romagne en #Italie

    Les praticiens du #marketing_territorial cherchent à influer sur les #représentations mentales associées à un territoire donné, à construire ou à modifier son image au travers d’une activité de promotion. Dans le cadre de la promotion touristique ce sont souvent des documents iconographiques qui sont utilisés pour ériger un territoire en destination et susciter le désir de visite chez le touriste potentiel. Cet article montre comment l’imagerie ainsi constituée varie dans le temps et en fonction de quels facteurs. Il s’appuie sur une analyse iconographique (contenu des images et géolocalisation) à partir des photographies diffusées sur le site internet et le compte Facebook dédiés à la promotion touristique d’une région administrative italienne : l’Émilie-Romagne. À deux pas de temps différents, la cartographie des lieux représentés et le contenu des images choisies pour incarner la région varient sensiblement, ce qui s’explique par une évolution des stratégies de développement local, une évolution des supports de la communication qui donnent un rôle actif à la population locale et des dynamiques territoriales, comme la métropolisation, qui dépassent le cadre touristique.

    http://cybergeo.revues.org/28481
    #tourisme #promotion_touristique

  • Le catene della distribuzione - video d’inchiesta 2016

    Il trailer della video inchiesta di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello, finalista della quinta edizione del Premio Morrione. Tutor: Toni Capuozzo. Tema dell’inchiesta il rapporto tra la grande distribuzione organizzata e il sistema dell’agroalimentare.

    https://www.youtube.com/watch?v=ByRDdv2bptY

    #agriculture #Italie #caporalato #vidéo #agro-business #supermarchés #travail #exploitation #supermarché
    cc @albertocampiphoto —> come trovare il film/DVD? Non riesco a capire...

    • Migrants treated as modern slaves in Italian fields

      Many migrants are forced to work in Italian fields over the summer for as many as 12 hours a day for almost no pay. At night, they sleep in tents under unhygienic conditions and are even forced to go without food.


      http://www.infomigrants.net/en/post/4236/migrants-treated-as-modern-slaves-in-italian-fields

    • ’An employer? No, we have a master’: the Sikhs secretly exploited in Italy

      After years of arduous, badly paid work in the fields of southern Italy, Singh reported his employer to the police. But in a country where justice moves at a glacial pace, abused migrant workers have scant incentive to come forward

      https://www.theguardian.com/global-development/2017/dec/22/sikhs-secretly-exploited-in-italy-migrant-workers?CMP=twt_gu
      #sikh #inde #migrants_indiens #Pontina

    • Caporalato in agricoltura, Legacoop: «Finte cooperative per coprire lo sfruttamento»

      Il caporalato in agricoltura è una pratica criminale diffusa, emersa anche in Romagna. Qualche giorno fa il personale della Flai Cgil, attraverso la campagna «Ancora in campo», si è recato tra i filari in cerca di lavoratori sfruttati o irregolari. «L’utilizzo di finte cooperative e di società costituite allo scopo per offrire manodopera a basso costo con turni di lavoro massacranti, retribuzioni misere e la privazione dei diritti dei lavoratori, in gran parte stranieri sottoposti a vessazioni di ogni tipo, rappresentano le modalità con le quali si diffonde il fenomeno - spiegano da Legacoop Romagna - Di fronte a tutto ciò, torniamo a esprimere una totale condanna del fenomeno e un apprezzamento per le istituzioni e le organizzazioni d’impresa e sindacali che tentano di contrastarlo. La privazione dei diritti del lavoro e lo sfruttamento sono fomentati dalla profonda difficoltà economica in cui versano sempre più persone e dall’allentamento delle politiche di tutela dell’agricoltura, lasciata sempre più in balia di mercati volatili e una burocrazia soffocante».

      «Purtroppo vengono utilizzate anche false cooperative per coprire lo sfruttamento, cosa per noi doppiamente inaccettabile - commenta Stefano Patrizi, responsabile del settore agroalimentare di Legacoop Romagna - Si tratta di società registrate e spesso con sede legale fuori dall’Emilia-Romagna, in territori ben definiti. Ci aspettiamo che le Prefetture rafforzino ulteriormente la collaborazione con gli Enti Locali e le associazioni per contrastare il fenomeno: la filiera agricola di qualità italiana non può permettersi di venire macchiata dal mancato rispetto dei diritti fondamentali del lavoro. A tal proposito occorre anche accrescere le premialità, a partire dalla Politica Agricola Comune, per le imprese che dimostrano di saper rispettare adeguatamente il lavoro».

      http://www.ravennatoday.it/economia/caporalato-in-agricoltura-legacoop-finte-cooperative-per-coprire-lo-sfr

      #Emilie-Romagne #Romagne #coopérative

    • La morte dei braccianti riguarda tutti noi consumatori

      I due tragici incidenti sulle strade della Capitanata, in cui sono morti sedici lavoratori in tre giorni, riporta agli onori delle cronache il tema del lavoro in agricoltura e delle condizioni in cui si svolge, spesso demandato a eserciti di braccianti stranieri pagati a cottimo e in balia della piaga del caporalato.

      La raccolta del pomodoro – ma ancor di più quella dei finocchi, degli asparagi, dei broccoli – è affidata a questi lavoratori, che si muovono su furgoni scalcinati guidati da caporali o caposquadra lungo le strade del foggiano in cerca di un impiego a giornata.

      La legge contro il caporalato del 2016 ha avuto l’indubbio merito di portare la questione all’attenzione dell’opinione pubblica e di svolgere un’azione deterrente su quegli imprenditori agricoli che sfruttavano i braccianti. Ma è rimasta largamente inapplicata sulle azioni da intraprendere per arginare veramente il fenomeno. Se non si prevedono alloggi per i braccianti stagionali e trasporti verso i campi, se non si mette in piedi un approccio in cui la domanda e l’offerta di lavoro siano regolamentate, se non si riformano i centri per l’impiego del tutto non funzionanti, i lavoratori continueranno a vivere nei cosiddetti ghetti e a muoversi su furgoncini malridotti, insicuri e gestiti in parte dai caporali.

      Il caporalato è un effetto della mancata organizzazione, non una causa. È un meccanismo di intermediazione informale che prospera grazie all’assenza di un sistema di organizzazione del lavoro in agricoltura.

      C’è poi un altro tema che riguarda tutti noi nella nostra quotidianità: quello del cibo a basso costo. Il pomodoro raccolto a mano dai braccianti morti nei giorni scorsi finisce nelle passate che sono poi vendute a prezzi irrisori nei supermercati. Molte insegne della grande distribuzione organizzata (Gdo) operano un’azione di strozzamento e di riduzione dei prezzi che non può non ripercuotersi sugli anelli a monte della filiera.

      I contratti capestro, le aste online al doppio ribasso, i listing fee e le altre pratiche sleali della Gdo hanno effetti devastanti sugli operatori agricoli, che non riescono a far reddito e di conseguenza cercano di tagliare i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro.

      Rispondendo sul sito di settore Gdoweek alla nostra inchiesta sulle aste online del pomodoro, il gruppo Eurospin ha sostenuto che “il mercato è cattivo” e che loro devono fare l’interesse del consumatore.

      L’interesse del consumatore deve essere anche quello di sostenere attivamente una filiera agroalimentare sana, senza sfruttamento. In cui i diversi attori – i braccianti, gli operatori agricoli, gli industriali trasformatori – riescano tutti a vivere dignitosamente del proprio lavoro. Perché quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando.


      https://www.internazionale.it/opinione/stefano-liberti/2018/08/07/morte-braccianti-consumatori

      #sottocosto

    • #Eurospin, 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro comprate #sottocosto ! La denuncia di Terra! Onlus e Flai Cgil

      31,5 centesimi: è il prezzo che Eurospin avrebbe pagato per ciascuna delle 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro comprate durante un’asta online al doppio ribasso. Un prezzo insostenibile per la maggior parte dei produttori e trasformatori, diretta conseguenza di pratiche discutibili applicate da alcuni gruppi della grande distribuzione, che contribuiscono a mantenere i prezzi bassissimi e allo stesso tempo mandano in crisi il settore agricolo.

      A riaccendere i riflettori sul mondo delle aste è un comunicato congiunto dell’associazione Terra! Onlus e del sindacato Flai Cgil. Le aste al doppio ribasso della Grande distribuzione costringono i fornitori ad un gioco d’azzardo senza vincitori – dichiarano Fabio Ciconte, direttore di Terra! e Ivana Galli, Segretaria Generale della Flai Cgil – Si tratta di una pratica sleale che deve essere vietata per legge, perché impoverisce tutta la filiera agroalimentare”.

      Nelle aste al doppio ribasso il contratto di fornitura viene assegnato all’azienda che offre il prezzo più basso dopo due gare, e la base d’asta della seconda gara è il prezzo minore raggiunto durante la prima. Questo metodo spinge le aziende trasformatrici del pomodoro a vendere sottocosto il prodotto, quando ancora i pomodori non sono stati raccolti. Di fatto, sono i supermercati che, utilizzando lo strumento delle aste, stabiliscono i prezzi del pomodoro e altri generi alimentari quando ancora sono nei campi, minimizzando – o azzerando – i margini di agricoltori e trasformatori, e favorendo lo sfruttamento del lavoro nei campi e il caporalato.

      In Italia, quasi tre quarti degli acquisti alimentari sono effettuati in supermercati e discount, che schiacciano i guadagni dei fornitori con una serie di imposizioni, come sconti fuori contratto, promozioni e la richiesta di contributi per un migliore posizionamento sugli scaffali. Ma il più pericoloso resta il meccanismo dell’asta al doppio ribasso, che Terra! Onlus e Flai Cgil, insieme all’associazione daSud, avevano già denunciato con la campagna #ASTEnetevi, sottoscritta da Federdistribuzione, Conad e Mipaaf, ma non da Eurospin, che continua ad utilizzarlo. Ora si chiede il rispetto del patto sottoscritto e una definitiva messa fuori legge di queste gare.

      Eurospin ha risposto alle accuse dicendo che “In un mercato veloce, competitivo e fluido, che pianifica poco (al massimo a tre-cinque anni, e noi lo facciamo), le aste online possono anche mettere in difficoltà alcuni operatori, produttori o agricoltori, ma noi dobbiamo fare l’interesse del consumatore”. “Per questo usiamo questo approccio soprattutto per quei prodotti commodity che non hanno caratteri di innovazione e di distintività: perché c’è differenza tra i diversi pelati e noi ne teniamo conto. Le aste insomma funzionano per i prodotti base, non certo per articoli semilavorati con un loro valore aggiunto intrinseco e una qualità che i nostri clienti vogliono ritrovare sempre nei nostri punti di vendita. E questo ci porta a instaurare rapporti continuativi e duraturi con molti produttori partner. Sempre nel nome del consumatore”.

      Secondo gli autori della segnalazione si tratta di una risposta inaccettabile. Per questo hanno lanciato il tweetstorm ore 16 contro chi promuove “la spesa intelligente” sulla pelle degli agricoltori.


      https://ilfattoalimentare.it/eurospin-passata-pomodoro-sottocosto.html
      #tomates #coulis_de_tomates #enchères #prix #agriculture

      signalé par @wizo

    • Castrovillari, i caporali senza umanità: davano acqua inquinata alle “scimmie”

      “Domani mattina le scimmie le mandiamo lì. Restiamo 40 persone”. Sono alcune delle frasi intercettate dai finanzieri di Cosenza che questa mattina hanno eseguito sessanta misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta denominata “Demetra”, che ha individuato due gruppi dediti allo sfruttamento illecito della manodopera e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nella piana di Sibari.

      I “caporali”, appartenenti al primo sodalizio criminale, composto da 47 persone, gestivano i rapporti con le aziende. I braccianti percepivano 80 centesimi a cassetta di agrumi raccolte e tendenzialmente a questo tipo di lavoro erano destinati pakistani o uomini provenienti dall’Africa. Per la raccolta delle fragole venivano impiegate, invece, donne dell’est Europa che ottenevano come compenso 28 euro al giorno, ai quali venivano detratti i costi di trasporto e vitto, nonostante le condizioni di lavoro fossero comunque disumane.

      “Ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua. Nel canale, gliele riempiamo nel canale…”, dice una delle persone intercettate al telefono mentre chiede come dare da bere ai lavoratori impegnati nei campi. La soluzione viene subito trovata con qualche bottiglia vuota da riempire proprio nel canale. E l’acqua ovviamente tutto era tranne che potabile…

      http://www.iacchite.blog/castrovillari-i-caporali-senza-umanita-davano-acqua-inquinata-alle-scimmi