• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • #FADA collective

    FADA is a Collective founded in 2020 by a group of Italian freelance reporters working across media and borders.

    We REPORT - We are an independent newsroom producing multimedia, deeply reported public interest stories. We partner with international media to publish our stories.

    We CONNECT - We train young journalists, we promote collaboration and we build a community for the next generation of media makers.

    We IMPACT - We engage with local communities, civil society and policy makers to open up spaces for dialogue around civic participation and journalism, beyond the traditional media, with the aim to trigger change.

    We dig into the climate crisis, border policies, food systems, social movements and the lack of accountability by State and private actors.

    https://www.fadacollective.com
    #journalisme #enquêtes #journalisme_d'enquête #frontières #migrations #climat #crise_climatique #alimentation #système_alimentaire #mouvements_sociaux

  • La plus grande #enquête participative sur l’#extrême_droite en #France
    https://www.youtube.com/watch?v=-jnwq4-cdHw&t=1s

    Aidez nous à combattre l’extrême droite

    StreetPress.com est un #média indépendant d’investigation. Nous voulons mener la plus grande enquête jamais réalisée sur l’extrême droite et ses groupuscules radicaux. Selon nos estimations, il y aurait en plus du RN présent sur tout le territoire, près de 150 groupes actifs en France. Ils forment un maillage militant dense et s’en prennent partout dans l’hexagone à tous ceux qui ne collent pas à leur vision rance de la France.

    Nous avons décidé de ne pas les lâcher. Nous sommes convaincus que la connaissance est le premier outil de lutte contre les haineux et les violents.

    Nous avons donc décidé d’enquêter sur chacun de ces 150 #groupuscules et les milliers de membres qui les composent, dévoiler les noms de ceux qui les financent et leurs réseaux politiques. C’est un travail titanesque que nous ne pourrons mener seul. Unissons nos forces.

    ► Chacun d’entre vous peut nous aider, de manière anonyme s’il le souhaite.

    https://riposte-extremedroite.streetpress.com

    #StreetPress

    • [Street press] Johan Weisz-Myara@joweisz
      https://twitter.com/joweisz/status/1730184462531538952
      THREAD TRES TRES VENERE 🤬

      Mon whatsapp chauffe. Vous êtes des dizaines à me demander pourquoi @StreetPress est down depuis près de deux heures.

      L’explication est + flippante que la question 🧶👇

      Car qui a coupé StreetPress à votre avis ? 👇

      Non, @StreetPress n’a pas été censuré par une décision de justice.

      Non ce n’est pas un hacker qui aurait poussé nos admins système ou notre développeur dans leurs retranchements. 👇

      Oui, c’est bien @Scaleway_fr - un hébergeur français - pas un Gafa, qui a décidé de bloquer nos IP sous 48h 😱

      Bloquer un site d’information agréé par la Commission Paritaire des Publications et Agences de Presse, en 3 clicks ? C’est très simple 👇

      Voici ce qu’il s’est passé pour @StreetPress
       : Lundi, un internaute qui apparaît dans un sujet sur des néonazis qui s’entraînent dans les catacombes (ça ne s’invente pas) nous demande de le flouter - chose que l’on fait dans la foulée. 👇

      Mardi, le même internaute signale notre sujet à Youtube, des réseaux sociaux et notre hébergeur, donc.
      Le seul qui va nous bloquer en 48h, c’est donc notre hébergeur
      @Scaleway_fr qui nous envoie un mail mystique, du type « abuse #0876XXXXXXXX » 👇

      Mardi et mercredi, on taffe du matin au soir pr une grosse enquête à sortir jeudi matin :

      La semaine, ils bossent à l’Assemblée 🇫🇷 pour des députés RN, le week-end, ils militent pour des groupuscules violents 🥊🔥
      https://streetpress.com/sujet/1701278537-rassemblement-national-rn-radicaux-identitaires-monarchistes

      Allez la lire, elle est dingue. [...] Ces radicaux occupent aussi des postes-clés au sein du RNJ, la section jeunesse du...

      Jeudi matin, on sort l’enquête. Une heure plus tard
      @Scaleway_fr nous coupe.

      Encore une fois, sans décision de justice.

      L’#hébergeur bloque en 48 heures un site d’info français qui emploie 17 journalistes.

      Un site d’information politique et générale agréé par la CPPAP. 👇
      Ce fonctionnement à l’américaine pose un immense problème de censure et de liberté d’informer.

      Je pose ça ici, et je suis preneur de vos avis et retours
      @laquadrature @gandi_net @N0thing2Hide @RSF_inter

      je ne pige pas bien car les pages du site restent accessibles.. (coup de pub ?)
      sinon, c’est couillon de ne pas choisir un hébergeur de confiance situé à l’étranger (surtout pour payer un hébergeur qui appartient à X Niel, si j’ai bien compris), histoire qu’il soit moins sensibles à des campagnes politiques hostiles, ou moins contraint de collaborer avec le police et la justice française.

      en lançant leur enquête ils ont dit s’être formé en cybersécurité mais le sens politique parait leur faire au moins partiellement leur fait défaut.

      #internet #fafland

  • Dans la #Manche, les coulisses terrifiantes du sauvetage des migrants

    Il y a deux ans, au moins 27 personnes périssaient dans des eaux glaciales au large de Calais, après le naufrage de leur embarcation. Mediapart a enquêté sur les pratiques des différents acteurs missionnés pour sauver celles et ceux qui tentent de rejoindre le Royaume-Uni par la mer.

    « Parfois, ils refusent notre appel, parfois ils décrochent. Quand j’appelle le 999, ils me disent d’appeler les Français, et les Français nous disent d’appeler les Anglais. Ils se moquent de nous. » Ces quelques phrases, issues d’un échange entre un membre de l’association #Utopia_56 et un exilé se trouvant à bord d’une embarcation dans la Manche, résument à elles seules les défaillances du #secours en mer lorsque celui-ci n’est pas coordonné.

    Elles illustrent également le désarroi de celles et ceux qui tentent la traversée pour rejoindre les côtes britanniques. Le 20 novembre 2021, les membres d’Utopia 56 ont passé des heures à communiquer par messages écrits et audio avec un groupe d’exilé·es qui s’était signalé en détresse dans la Manche. « Nous avons appelé tous les numéros mais ils ne répondent pas. Je ne comprends pas quel est leur problème », leur dit un homme présent à bord. « Restez calmes, quelqu’un va venir. Appelez le 112 et on va appeler les #garde-côtes français, ok ? » peut-on lire dans les échanges consultés par Mediapart.

    « Comme ils ont pu nous contacter, on a relancé le #Cross [#Centre_régional_opérationnel_de_surveillance_et_de_sauvetage_maritimes – ndlr], qui a pu intervenir. Mais on peut se demander ce qu’il se serait passé pour eux si ça n’avait pas été le cas », commente Nikolaï, d’Utopia 56. Cet appel à l’aide désespéré a été passé seulement quatre jours avant le naufrage meurtrier du #24_novembre_2021, qui a coûté la vie à au moins vingt-sept personnes, parmi lesquelles des Afghan·es, des Kurdes d’Irak et d’Iran, des Éthiopien·nes ou encore un Vietnamien.

    Un an plus tard, Le Monde révélait comment le Cross, et en particulier l’une de ses agent·es, avait traité leur cas sans considération, voire avec mépris, alors que les personnes étaient sur le point de se noyer. Une #information_judiciaire a notamment été ouverte pour « homicides », « blessures involontaires » et « mise en danger » (aggravée par la violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité ou de prudence), menant à la mise en examen de cinq militaires pour « #non-assistance_à_personne_en_danger » au printemps 2023.

    « Ah bah t’entends pas, tu seras pas sauvé », « T’as les pieds dans l’eau ? Bah, je t’ai pas demandé de partir »… Rendue publique, la communication entre l’agente du Cross et les exilé·es en détresse en mer, en date du 24 novembre, a agi comme une déflagration dans le milieu associatif comme dans celui du secours en mer. Signe d’#inhumanité pour les uns, de #surmenage ou d’#incompétence pour les autres, cet épisode dramatique est venu jeter une lumière crue sur la réalité que subissent les migrant·es en mer, que beaucoup ignorent.

    « Urgence vitale » contre « urgence de confort »

    Entendue dans le cadre de l’#enquête_judiciaire, l’agente concernée a expliqué faire la différence entre une situation d’« #urgence_vitale » et une situation de « #détresse » : « Pour moi, la détresse c’est vraiment quand il y a une vie humaine en jeu. La plupart des migrants qui appellent sont en situation de détresse alors qu’en fait il peut s’agir d’une urgence de confort », a déroulé la militaire lors de son audition, précisant que certains cherchent « juste à être accompagnés vers les eaux britanniques ».

    Elle décrit aussi des horaires décalés, de nuit, et évoque des appels « incessants » ainsi que l’incapacité matérielle de vérifier les indicatifs de chaque numéro de téléphone. Un autre agent du Cross explique ne pas avoir souvenir d’un « gros coup de bourre » cette nuit-là. « Chaque opération migrant s’est enchaînée continuellement mais sans densité particulière. » Et de préciser : « Ce n’est pas parce qu’il n’y a pas de densité particulière que nous faisons le travail avec plus de légèreté ; aucun n’est mis de côté et chaque appel est pris au sérieux. »

    Deux sauveteurs ont accepté de se confier à Mediapart, peu après le naufrage, refusant que puisse se diffuser cette image écornée du #secours_en_mer. « C’est malheureux de dire des choses comme ça », regrette Julien*, bénévole à la #Société_nationale_de_sauvetage_en_mer (#SNSM). Il y a peut-être, poursuit-il, « des personnes avec moins de jugeote, ou qui ont décidé de se ranger d’un côté et pas de l’autre ».

    L’homme interroge cependant la surcharge de travail du Cross, sans « minimiser l’incident » de Calais. « La personne était peut-être dans le rush ou avait déjà fait un certain nombre d’appels… Ils sont obligés de trier, il peut y avoir des erreurs. Mais on ne rigole pas avec ça. »

    Lorsque des fenêtres météo favorables se présentent, sur une période d’à peine deux ou trois jours, le Cross comme les sauveteurs peuvent être amenés à gérer jusqu’à 300 départs. Les réfugié·es partent de communes de plus en plus éloignées, prenant des « #risques énormes » pour éviter les contrôles de police et les tentatives d’interception sur le rivage.

    « Cela devient de plus en plus périlleux », constate Julien, qui décrit par ailleurs les stratégies employées par les #passeurs visant à envoyer beaucoup d’exilé·es d’un seul coup pour en faire passer un maximum.

    Il y a des journées où on ne fait que ça.

    Alain*, sauveteur dans la Manche

    « En temps normal, on arrive à faire les sauvetages car nos moyens sont suffisants. Mais à un moment donné, si on se retrouve dans le rush avec de tels chiffres à gérer, on a beau être là, avoir notre #matériel et nos #techniques de sauvetage, on ne s’en sort pas. » Julien se souvient de cette terrible intervention, survenue fin 2021 au large de la Côte d’Opale, pour laquelle plusieurs nageurs de bord ont été « mis à l’eau » pour porter secours à un canot pneumatique disloqué dont le moteur avait fini à 23 heures au fond d’une eau à 7 degrés.

    Présents sur zone en une demi-heure, les nageurs récupèrent les exilé·es « par paquet de trois », essayant d’optimiser tous les moyens dont ils disposent. « On aurait peut-être eu un drame dans la Manche si on n’avait pas été efficaces et si les nageurs n’avaient pas sauté à l’eau », relate-t-il, précisant que cette opération les a épuisés. L’ensemble des personnes en détresse ce jour-là sont toutes sauvées.

    Le plus souvent, les sauveteurs font en sorte d’être au moins six, voire huit dans l’idéal, avec un patron qui pilote le bateau, un mécanicien et au moins un nageur de bord. « Le jour où on a frôlé la catastrophe, on était onze. Mais il nous est déjà arrivé de partir à quatre. »

    Alain* intervient depuis plus de cinq années dans la Manche. La surface à couvrir est « énorme », dit-il. « Il y a des journées où on ne fait que ça. » Ce qu’il vit en mer est éprouvant et, « au #drame_humain auquel nous devons faire face », se rajoute parfois « le #cynisme aussi bien des autorités françaises que des autorités anglaises ».

    On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet. Les autres ont dû attendre.

    Alain* à propos d’un sauvetage

    Il évoque ce jour de septembre 2021 où 40 personnes sont en danger sur une embarcation qui menace de se plier, avec un brouillard laissant très peu de visibilité. Ne pouvant y aller en patrouilleur, l’équipe de quatre sauveteurs se rend sur zone avec deux Zodiac, et « accompagne » l’embarcation jusqu’aux eaux anglaises. Mais celle-ci commence à se dégonfler.

    La priorité est alors de stabiliser tous les passagers et de les récupérer, un par un. « Ça hurlait dans tous les sens, mais on a réussi à les calmer », relate Alain qui, tout en livrant son récit, revit la scène. « Il ne faut surtout pas paniquer parce qu’on est les sauveteurs. Plus difficile encore, il faut se résoudre à admettre que c’est un sauvetage de masse et qu’on ne peut pas sauver tout le monde. » Alain et ses collègues parviennent à charger tous les passagers en les répartissant sur chaque Zodiac.

    Lors d’un autre sauvetage, qu’il qualifie de « critique », ses collègues et lui doivent porter secours à une quarantaine d’exilés, certains se trouvant dans l’eau, et parfois sans gilet de sauvetage. « On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet, explique-t-il. Mais les autres ont dû attendre notre retour parce qu’on manquait de place sur notre bateau. Et par chance, entre-temps, c’est la SNSM qui les a récupérés. » Ce jour-là, confie-t-il, le Cross a « vraiment eu peur qu’il y ait des morts ».

    Négociations en pleine mer

    À cela s’ajoute la « #mise_en_danger » provoquée par les tractations en pleine mer pour déterminer qui a la responsabilité de sauver les personnes concernées.

    Une fois, raconte encore Alain, le boudin d’un canot pneumatique transportant 26 personnes avait crevé. « On leur a dit de couper le moteur et on les a récupérés. Il y avait un bébé de quelques mois, c’était l’urgence absolue. » En mer se trouve aussi le bateau anglais, qui fait demi-tour lorsqu’il constate que les exilé·es sont secouru·es.

    « Les migrants se sont mis à hurler parce que leur rêve s’écroulait. C’était pour nous une mise en danger de les calmer et de faire en sorte que personne ne se jette à l’eau par désespoir. » Le bateau anglais finit par revenir après 45 minutes de discussion entre le Cross et son homologue. « Plus de 45 minutes, répète Alain, en pleine mer avec un bébé de quelques mois à bord. »

    Qu’est devenu ce nourrisson ? s’interroge Alain, qui dit n’avoir jamais été confronté à la mort. Il faut se blinder, poursuit-il. « Nous sommes confrontés à des drames. Ces personnes se mettent en danger parce qu’elles n’ont plus rien à perdre et se raccrochent à cette traversée pour vivre, seulement vivre. » Il se demande souvent ce que sont devenus les enfants qu’il a sauvés. Sur son téléphone, il retrouve la photo d’une fillette sauvée des eaux, puis sourit.

    Pour lui, il n’y aurait pas de « consignes » visant à distinguer les #eaux_françaises et les #eaux_anglaises pour le secours en mer. « On ne nous a jamais dit : “S’ils sont dans les eaux anglaises, n’intervenez pas.” Le 24 novembre a été un loupé et on ne parle plus que de ça, mais il y a quand même des gens qui prennent à cœur leur boulot et s’investissent. » Si trente bateaux doivent être secourus en une nuit, précise-t-il pour illustrer son propos, « tout le monde y va, les Français, les Anglais, les Belges ».

    Lors de ses interventions en mer, la SNSM vérifie qu’il n’y a pas d’obstacles autour de l’embarcation à secourir, comme des bancs de sable ou des courants particulièrement forts. Elle informe également le Cross, qui déclenche les sauveteurs pour partir sur zone.

    « On approche très doucement du bateau, on évalue l’état des personnes, combien ils sont, s’il y a des enfants, s’il y a des femmes, si elles sont enceintes », décrit Julien, qui revoit cet enfant handicapé, trempé, qu’il a fallu porter alors qu’il pesait près de 80 kilos. Ce nourrisson âgé de 15 jours, aussi, qui dépassait tout juste la taille de ses mains.

    Si les exilés se lèvent brutalement en les voyant arriver, ce qui arrive souvent lorsqu’ils sont en détresse, le plancher de l’embarcation craque « comme un carton rempli de bouteilles de verre » qui glisseraient toutes en même temps vers le centre. Certains exilés sont en mer depuis deux jours lorsqu’ils les retrouvent. « En short et pieds nus », souvent épuisés, affamés et désespérés.

    Des « miracles » malgré le manque de moyens

    Les sauveteurs restent profondément marqués par ces sauvetages souvent difficiles, pouvant mener à huit heures de navigation continue dans une mer agitée et troublée par des conditions météo difficiles. « L’objectif est de récupérer les gens vivants, commente Julien. Mais il peut arriver aussi qu’ils soient décédés. Et aller récupérer un noyé qui se trouve dans l’eau depuis trois jours, c’est encore autre chose. »

    En trois ans, le nombre de sauvetages a été, selon lui, multiplié par dix. Le nombre d’arrivées au Royaume-Uni a bondi, conduisant le gouvernement britannique à multiplier les annonces visant à durcir les conditions d’accueil des migrant·es, du projet d’externalisation des demandes d’asile avec le Rwanda, à l’hébergement des demandeurs et demandeuses d’asile à bord d’une barge, plus économique, et non plus dans des hôtels.

    Pour Julien, les dirigeant·es français·es comme britanniques s’égarent dans l’obsession de vouloir contenir les mouvements migratoires, au point de pousser les forces de l’ordre à des pratiques parfois discutables : comme le montrent les images des journalistes ou des vacanciers, certains CRS ou gendarmes viennent jusqu’au rivage pour stopper les tentatives de traversée, suscitant des tensions avec les exilé·es. Aujourd’hui, pour éviter des drames, ils ne sont pas autorisés à intercepter une embarcation dès lors que celle-ci est à l’eau.

    Dans le même temps, les sauveteurs font avec les moyens dont ils disposent. Un canot de sauvetage vieillissant, entretenu mais non adapté au sauvetage de migrants en surnombre, explique Julien. « On porte secours à près de 60 personnes en moyenne. Si on est trop lourd, ça déséquilibre le bateau et on doit les répartir à l’avant et au milieu, sinon l’eau s’infiltre à l’arrière. » Ses équipes ont alerté sur ce point mais « on nous a ri au nez ». Leur canot devrait être remplacé, mais par un bateau « pas plus grand », qui ne prend pas ce type d’opérations en compte dans son cahier des charges.

    En un an, près de « 50 000 personnes ont pu être sauvées », tient à préciser Alain, avant d’ajouter : « C’est un miracle, compte tenu du manque de moyens. » Il peut arriver que les bénévoles de la SNSM reçoivent une médaille des autorités pour leur action. Mais à quoi servent donc les médailles s’ils n’obtiennent pas les moyens nécessaires et si leurs requêtes restent ignorées ?, interroge-t-il.

    « La France est mauvaise sur l’immigration, elle ne sait pas gérer », déplore Alain, qui précise que rien n’a changé depuis le drame du 24 novembre 2021. Et Julien de conclure : « Les dirigeants sont dans les bureaux, à faire de la politique et du commerce, pendant que nous on est sur le terrain et on sauve des gens. S’ils nous donnent des bateaux qui ne tiennent pas la route, on ne va pas y arriver… »

    Mercredi 22 novembre, deux exilés sont morts dans un nouveau naufrage en tentant de rallier le Royaume-Uni.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/241123/dans-la-manche-les-coulisses-terrifiantes-du-sauvetage-des-migrants
    #Calais #mourir_en_mer #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #UK #Angleterre #GB #sauvetage #naufrage #frontières #migrations #asile #réfugiés

  • Les aventures de l’enquête militante, Davide Gallo Lassere, Frédéric Monferrand, Rue Descartes 2019/2 (N° 96), pages 93 à 107
    https://www.cairn.info/revue-rue-descartes-2019-2-page-93.htm

    Depuis la crise de 2008, on assiste à un retour en force de la notion de « capitalisme » sur la scène intellectuelle et dans le débat public, ce qui soulève au moins deux questions : que faut-il au juste entendre par « capitalisme » ? Et qu’est-ce qui en justifie la critique ? Dans une perspective marxienne, la réponse à la première question ne paraît guère problématique, même si elle peut faire l’objet de développements divergents. Par « capitalisme », on entend en effet un mode de production fondé sur la généralisation de l’échange marchand, l’exploitation d’une force de travail « libre » et l’accumulation indéfinie de survaleur. La réponse à la seconde question est en revanche moins évidente, ne serait-ce que parce qu’on trouve dans Le Capital différents modèles de critique du capitalisme.

    Dans les deux premières sections de l’ouvrage, Marx explique que l’échange marchand génère des illusions socialement nécessaires qui imposent aux individus des rôles sociaux unilatéraux en les transformant en simples « porteurs » d’un processus de valorisation anonyme. De la lecture des deux cent premières pages du Capital, on retire donc l’impression que le capitalisme doit être critiqué parce qu’il constitue un système opaque animé d’une tendance incontrôlable à élargir la base de sa reproduction.

    Or, une telle critique, menée du point de vue objectif du capital, resterait formelle si elle n’était complétée par une description, menée du point de vue subjectif du travail, des effets concrets de l’accumulation capitaliste sur l’expérience sociale de celles et ceux qui en assurent la continuité. Dès lors qu’on quitte la sphère de la circulation marchande pour descendre dans l’« antre secret de la production , le capital n’apparaît en effet plus comme un « sujet automate, mais comme une forme de #commandement sur le travail qui suscite des conflits portant sur le #temps et sur l’#organisation de l’activité, qui oppose différentes stratégies d’extraction du surtravail et de refus de l’exploitation et qui se traduit par des dégradations physiques et morales dont Marx, à la suite des inspecteurs de fabrique, fournit la patiente description . Dans cette seconde perspective, le #capitalisme ne doit plus être critiqué parce qu’il constitue un système irrationnel et autoalimenté, mais parce qu’il produit des effets négatifs sur la vie physique, psychique et sociale des subjectivités.

    L’objectif de cet article est de développer ce second modèle critique – qu’on peut qualifier de « critique par les effets » – en montrant qu’il a reçu dans la pratique de l’enquête militante un appui théorique et une continuation politique. Partant des élaborations pionnières du jeune Engels, nous soutiendrons la thèse selon laquelle l’enquête militante permet d’articuler la connaissance des rapports sociaux et l’organisation des pratiques visant à en accomplir la transformation. Car, comme nous tenterons de le montrer ensuite en parcourant la séquence menant des élaborations de Socialisme ou Barbarie en France à celles des _Quaderni rossi puis de Classe operaia en Italie, c’est bien la question de l’organisation qui fournit à l’enquête militante sa raison d’être et en détermine les différentes modalités.

    #enquête_ouvrière #enquête_militante #opéraïsme #stratégie #travail #subjectivité #refus #organisation_autonome #autonomie #barbarie

  • McKinsey, pour le meilleur et pour le pire – Les Éditions Buchet-Chastel
    https://www.buchetchastel.fr/catalogue/mckinsey-pour-le-meilleur-et-pour-le-pire

    Quelle est la véritable influence du cabinet de conseil le plus prestigieux au monde, McKinsey ?

    Dans cette #enquête sans précédent, qui mesure l’impact considérable de #McKinsey sur tous les secteurs de l’économie mondiale, des centaines d’interviews d’anciens consultants, de clients, ainsi que des milliers de documents inédits, ont permis de percer sa culture du secret et de lever le voile sur ses profondes contradictions.

    Course aux profits à court terme, licenciements massifs, délocalisation abusive, surrémunération des patrons et des actionnaires… Les recommandations de McKinsey ont-elles toujours respecté un pacte éthique ? Ou, au contraire, ont-elles précipité la cruauté du capitalisme ?

    Peut-on travailler à la fois pour le ministère de la Santé et pour les producteurs d’opioïdes ? Peut-on soutenir l’écologie tout en travaillant avec les entreprises les plus émettrices de CO2 ? Peut-on optimiser les profits des parcs Disney et mettre en question la maintenance ?...

    À travers de multiples exemples et révélations, pour les auteurs il n’y a pas de doute : McKinsey a souvent rendu le monde plus inégal et impitoyable.

    Avec un extrait des premières pages pour se mettre en appétit.

  • [pub] Les extraits du « Côté obscur de la force » : « Pendant la crise des “gilets jaunes”, jamais une surveillance aussi massive n’avait été déployée »

    Dans un livre qui paraît chez Flammarion mercredi 11 octobre, le journaliste Vincent Nouzille propose une enquête très fouillée sur ce qu’il appelle les « dérives du ministère de l’intérieur et de sa #police ». « Le Monde » publie en avant-première des extraits concernant le mouvement social qu’a connu la France en 2018.
    Par Vincent Nouzille

    Bonnes feuilles. C’est un secret d’Etat jusque-là bien préservé que nous dévoilons ici : en pleine crise des « #gilets_jaunes », les services de renseignement français ont mis sur #écoute et géolocalisé des milliers de #manifestants. Jamais une #surveillance aussi massive n’avait été déployée. Jamais autant d’individus en même temps n’avaient été concernés. Jamais de tels moyens techniques n’avaient été combinés pour savoir où des citoyens allaient se rendre, et tenter d’interpeller en amont ceux qui étaient suspectés, à tort ou à raison, de s’apprêter à commettre des violences.

    Selon les témoignages de plusieurs responsables de la police et du #renseignement, si le cadre légal a été formellement respecté, certaines de ces surveillances ont été décidées et avalisées sur la base de critères flous et dans la précipitation. « C’était la panique au sommet du pouvoir et dans les services, explique une source au ministère de l’intérieur. Le mouvement des “gilets jaunes” se transformait chaque samedi en insurrection. Il fallait sauver la République. Nous avons donc ratissé large1. »
    Au lendemain de la journée du 1er décembre 2018, où la violence est montée d’un cran, notamment à Paris avec le saccage de l’Arc de triomphe et au Puy-en-Velay avec l’incendie de la préfecture, le ministre de l’intérieur, #Christophe_Castaner, et son secrétaire d’Etat, #Laurent_Nuñez, décident de changer de stratégie. Ils exigent que le dispositif de sécurité soit plus mobile et demandent davantage d’interpellations en amont. Ils souhaitent surtout une surveillance ciblée de toute personne présumée violente. (…)

    Les services de renseignement ont déjà dans leurs radars des individus classés à l’ultragauche et à l’ultradroite, beaucoup étant « #fichés_S » (pour « sûreté d’Etat »). En revanche, la plupart des « gilets jaunes » sont inconnus. Dans les premiers temps, les services peinent à repérer des « leaders » d’un mouvement aussi éruptif que peu organisé. (…) Le préfet de police de Paris, Michel Delpuech, s’inquiète des activistes provinciaux que ses équipes ne connaissent pas et qui risquent de « monter » à Paris pour y semer des troubles chaque samedi.
    Face aux risques de désordre qui se propagent, les « gilets jaunes » étant insaisissables et se déplaçant sans arrêt, la donne change. « Nous allons maintenant travailler sur cette nouvelle population », glisse, de manière elliptique, Laurent Nuñez à propos des « gilets jaunes », lors d’une audition au Sénat le 4 décembre. Durant la seule journée du 8 décembre 2018, 724 personnes sont placées en garde à vue dans toute la France, souvent avant même qu’elles ne commencent à manifester. Les samedi 15 et 22 décembre, le même dispositif se reproduit. Les différents services ont commencé leur surveillance de certains manifestants considérés comme potentiellement dangereux. Et cela avec l’aval des plus hautes instances, qui ont donné leur feu vert à l’emploi massif des « techniques de renseignement », les « TR » dans le jargon des initiés. (…)

    L’emploi des #techniques_de_renseignement ne peut être justifié que pour la défense nationale, la protection des intérêts majeurs du pays, la lutte contre l’espionnage économique et scientifique, la prévention du terrorisme, du crime organisé et de la prolifération d’armes de destruction massive. Mais elles sont aussi autorisées pour la prévention des « atteintes à la forme républicaine des institutions », de la « reconstitution de groupements dissous » ou des « violences collectives de nature à porter gravement atteinte à la paix publique ». C’est principalement ce dernier motif – appelé « 5-C » par les spécialistes, et déjà employé lors de l’évacuation de la #ZAD_de_Notre-Dame-des-Landes au printemps 2018 – qui va être utilisé à grande échelle lors de la crise des « gilets jaunes ».

    En décembre 2018, les requêtes de « TR » affluent brutalement (…). Même si les données publiées dans les rapports annuels de la CNCTR [Commission nationale de contrôle des techniques de renseignement] sont imparfaites, elles donnent un aperçu de cette montée. Les demandes motivées par la « prévention des violences collectives » passent de 6 % de l’ensemble des requêtes en 2017 à 14 % en 2019, ce qui représente une augmentation de 133 % et un cumul de plus de 20 000 demandes en trois ans2 ! Dans le détail, le compteur des « géoloc », déjà en forte croissance les années précédentes, s’affole, passant de 3 751 demandes en 2017 à 5 191 en 2018, puis à 7 601 en 2019, soit un doublement en deux ans et la plus forte progression des techniques de renseignement. Quant aux écoutes, elles se multiplient aussi sur la même période, passant de 8 758 en 2017 à 12 574 en 2019, soit une croissance de 43 % en deux ans. Globalement, cette surveillance a concerné au moins 2 000 personnes entre fin 2018 et fin 2019. (…)

    La pression est telle que le centre d’écoute, basé aux Invalides, doit faire appel à des renforts d’effectifs pour les week-ends. De plus, le nombre de lignes téléphoniques écoutées simultanément a rapidement atteint le maximum autorisé3, ce qui a conduit Matignon à rehausser ce contingent en juin 2019 pour atteindre 3 800 lignes, dont 3 050 réservées au ministère de l’intérieur. Les « grandes oreilles » sont employées à grande échelle.
    Au siège de la CNCTR, un bâtiment sécurisé caché au fond d’un jardin de la rue de Babylone, dans le 7e arrondissement, la tension est maximale chaque fin de semaine à partir de décembre 2018. (…) « C’était l’enfer. Tous les services voulaient un feu vert dans la soirée de vendredi. La Commission n’avait pas forcément le temps de vérifier les motivations indiquées dans les centaines de demandes », précise un de ses membres, qui n’a pas eu son mot à dire sur ces décisions.

    (…) Beaucoup de manifestants ciblés sont ainsi repérés en direct, dans leurs déplacements en voiture, en train, jusqu’à Paris, ou vers d’autres grandes métropoles où se déroulaient des rassemblements importants. Ignorant qu’ils sont géolocalisés grâce à leur téléphone, certains sont interpellés sur les routes, aux péages, dans les gares ou près des lieux de leur résidence. Seize personnes, présentées par la police comme des « black blocs » ou des « ultrajaunes », seront arrêtées à 12 h 30 le samedi 7 décembre 2019, dans une maison louée avenue du Général-Leclerc, au Bouscat, près de Bordeaux, et les locaux perquisitionnés.
    Leur localisation a été rendue possible, affirmeront les enquêteurs, grâce à la découverte faite dans la nuit de tags anti-police peints dans le quartier et sur la foi d’« investigations d’environnement » effectuées le matin même. Mais les détails de ces « investigations d’environnement » ne seront pas versés en procédure, car, selon l’officier de police judiciaire chargé de l’enquête, elles « provenaient d’informations classifiées ». Ce qui correspond à des renseignements de surveillance émanant des services.

    La #géolocalisation permet également de suivre le parcours des « cibles » durant les manifestations. Les trajets sont visualisés en direct sur des écrans. (…) Chaque cible est alors colorée selon son appartenance présumée : rouge pour des cibles de l’ultragauche, bleu pour l’ultradroite. (…)

    D’autres « gilets jaunes » font l’objet d’un traçage en direct hors des manifestations habituelles du samedi. Le dimanche 14 juillet 2019, juste avant le défilé traditionnel des armées sur les Champs-Elysées, les services reçoivent des alertes sur la présence de « gilets jaunes » dans les parages, alors que le périmètre a été interdit à toute manifestation sur ordre du préfet de police. Plus grave : ils soupçonnent une attaque contre le président de la République, Emmanuel Macron. Au vu du risque de « trouble grave à l’ordre public », des surveillances téléphoniques sont aussitôt autorisées, pour quelques jours, sur plusieurs cibles, avant d’être levées faute de menaces avérées. Coïncidence ? Ce jour-là, parmi les près de 200 personnes interpellées dans Paris en marge du défilé, trois leaders connus des « gilets jaunes », Eric Drouet, Maxime Nicolle et Jérôme Rodrigues, sont arrêtés dès le matin aux alentours des Champs-Elysées et placés en garde à vue, avant d’être relâchés dans l’après-midi, une fois les procédures lancées ou classées sans suite. Les techniques de surveillance sont également utilisées de manière intensive pour repérer les manifestants contre le sommet du G7 qui se tient à Biarritz du 24 au 26 août 2019. (…)

    La fin du mouvement des « gilets jaunes » en 2020, suivie de la longue crise sanitaire, n’a pas stoppé cette surveillance ciblée. Au contraire. Selon les données de la CNCTR, chargée de filtrer les requêtes des services, les demandes d’écoutes et de poses de balises pour tous types de motifs sont restées stables à un niveau élevé depuis 2020. Celles portant sur des intrusions dans des lieux privés ont fortement augmenté, tout comme celles sur la captation de données informatiques. Quant aux demandes de géolocalisation en temps réel , très prisées lors des manifestations, elles ont continué leur irrésistible ascension, de 7 601 en 2019, jusqu’à 10 901 en 2022 , un nouveau record.

    Notes de bas de page :
    1- Entretiens avec l’auteur. La plupart des sources de ce prologue ont requis l’anonymat, vu le caractère sensible des informations livrées ici. Les dates des entretiens ne sont pas précisées.
    2 - Nombre des requêtes de TR motivées par les motifs de prévention des violences collectives : 4 226 en 2017 (soit 6 % du total des 70 432 demandes) ; 6 596 en 2018 (soit 9 % des 73 298 demandes) ; 10 296 en 2019 (soit 14 % du total des 73 543 demandes). Source : rapports annuels de la #CNCTR.
    3 - Le contingent d’écoutes était de 3 040 depuis 2017, déjà passé à 3 600 en juin 2018.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/09/les-extraits-du-cote-obscur-de-la-force-pendant-la-crise-des-gilets-jaunes-j
    les (...) du texte sont du journal

    edit #police_politique #solutionnisme_technologique #écologie_radicale #SLT #extinction_rebellion ...

    #manifestations #livre

    • « Le Côté obscur de la force », enquête sur la part d’ombre des pratiques policières
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/09/le-cote-obscur-de-la-force-enquete-sur-la-part-d-ombre-des-pratiques-policie

      L’enquête de Vincent Nouzille qui paraît le 11 octobre chez Flammarion fait la lumière sur deux tendances de fond aux lourdes conséquences sur les libertés publiques : la multiplication des entraves au droit de manifester et le développement de la surveillance de masse.

      Livre. Depuis P… comme police, d’Alain Hamon et Jean-Charles Marchand (Alain Moreau, 1983), les livres d’enquête sur une institution aussi décriée que propice aux fantasmes n’ont pas fait défaut. Il manquait toutefois, dans ce catalogue, un ouvrage consacré aux plus récentes années, un livre qui serait à la fois une mise en perspective de maux endémiques (comme la difficulté à admettre l’existence de violences policières, fussent-elles répétées et objectivées) et un exercice d’analyse prospective sur des pratiques policières renouvelées, bien souvent inquiétantes. Vincent Nouzille, journaliste rompu aux investigations documentées, comble cette lacune en explorant Le Côté obscur de la force (Flammarion, 512 pages, 23 euros).
      Si elle n’oublie pas les figures imposées et traite notamment de la persistance de réseaux d’influence souterrains au sein du ministère de l’intérieur, son enquête aide avant tout à mettre en lumière deux tendances de fond aux lourdes conséquences sur les #libertés_publiques. La première tient à la multiplication des entraves au #droit_de_manifester grâce à la mobilisation de toutes les ressources judiciaires possibles, parfois au moyen de procédés à la limite du dilatoire. La seconde tendance concerne la mise en œuvre de techniques de surveillance de masse.
      Noyés dans les rapports officiels et les interventions des autorités policières, les chiffres exhumés par l’auteur montrent que des milliers d’individus ont fait l’objet d’une surveillance étroite, une vaste entreprise de « renseignement » décidée au plus haut sommet de l’Etat lors de la crise des « gilets jaunes » et prolongée depuis. La pérennisation de ces techniques fait craindre une extension du domaine panoptique, rendue probable par le test grandeur nature des Jeux olympiques et paralympiques de Paris en 2024. « Il est assez vraisemblable, prévient Vincent Nouzille, que les enseignements qui en seront tirés inciteront ses promoteurs, notamment toute la filière de la sécurité qui piaffe d’impatience, à vouloir en tirer parti pour passer à la vitesse supérieure. » Et accélérer un mouvement, manifestement déjà bien engagé, de surveillance généralisée.

      "Ils ne peuvent plus s’en passer" : un livre révèle une "flambée" des écoutes depuis les "gilets jaunes"
      https://www.radiofrance.fr/franceinter/ils-ne-peuvent-plus-s-en-passer-un-livre-revele-une-flambee-des-ecoutes-

      (...) il y a eu au moins 2.000 personnes écoutées ou géolocalisées pendant la crise des « gilets jaunes ». Jamais on n’avait écouté autant de monde en même temps lors d’une crise sociale. Cela a permis aux services de renseignement et services de police, d’une part d’écouter, mais surtout de suivre les #mouvements de ces manifestants et d’en interpeller certains en amont des manifestations. Cela a été, selon eux, extrêmement efficace. Les [représentants] officiels me disent que tout a été fait dans les règles. Mais vu le nombre de demandes et vu, surtout, l’afflux soudain des demandes, nous pouvons nous poser des questions sur les contrôles qui ont pu être exercés en la matière."

      Vous montrez également que cette surveillance n’a pas pris fin après cet épisode des « gilets jaunes »...

      "On aurait pu croire qu’avec la fin de la crise des « gilets jaunes », début 2020, cette surveillance diminue. Or, ce n’est pas du tout ce qui s’est passé, au contraire. En fait, les responsables du service de renseignement m’ont confié qu’ils y avaient pris goût et ne pouvaient plus se passer des écoutes, et surtout des géolocalisations en temps réel, qui permettent de savoir où sont les personnes que l’on veut surveiller. Le nombre des personnes qui ont été surveillées "au titre des violences collectives", comme on dit dans le jargon, a atteint 3.500 en 2021, c’est à dire trois fois plus qu’en 2017. Nous avons donc bien eu une extension de la surveillance à un nombre beaucoup plus grand de personnes.

      Il y a ensuite eu un léger repli en 2022, mais, début 2023, je révèle qu’il y a eu un nouvel accord de la Commission nationale des techniques de renseignement pour élargir les critères de la surveillance et des possibilités d’écoutes à des personnes qui font partie des mouvements de l’écologie radicale. C’est le cas de certains membres des Soulèvements de la Terre, d’Extinction rébellion et d’autres, notamment toutes les personnes qui ont lutté contre les méga-bassines. Cette commission a décidé fin 2022, début 2023, de changer les critères et d’accepter un certain nombre de demandes des renseignements qu’elle avait jusqu’alors refusées. Par exemple, lorsqu’a eu lieu la première manifestation à Sainte-Soline, en octobre 2022, les services de renseignement avaient fait des demandes d’écoute d’un certain nombre de leaders des mouvements, et cela n’avait pas été accepté par cette commission. Mais vu la violence et les incidents qui ont eu lieu fin octobre, l’intrusion ensuite dans la cimenterie Lafarge, près de Marseille, qui a eu lieu en décembre, et d’autres incidents de ce type, cette Commission de contrôle des techniques de renseignement a décidé d’élargir les critères d’écoute en acceptant désormais des cas de demandes de personnes qui sont susceptibles de commettre des violences non pas physiques, mais des #violences_matérielles, de destruction, de #sabotage."

      #justice #enquêtes_judiciaires #JO #gendarmerie #Service_central_de_renseignement_territorial #RT

  • « Affaire du 8 décembre 2020 » : un procès pour terrorisme d’ultragauche sur des bases fragiles

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/25/affaire-du-8-decembre-2020-le-proces-d-une-supposee-menace-terroriste-d-ultr

    Sept personnes sont renvoyées à partir du 3 octobre devant le tribunal correctionnel de Paris pour « association de malfaiteurs terroriste ». Ce dossier terroriste d’ultragauche est le premier à être jugé depuis le groupe Action directe, dont le dernier procès remonte à 1995.

    https://soutienauxinculpeesdu8decembre.noblogs.org

    –—
    Suivi du procès qui a débuté mardi 3 octobre 2023 :
    https://seenthis.net/messages/1019505

    –—
    En commentaire ci-dessous : détails sur l’affaire.

    • C’est un groupe qui n’a pas de nom. Un groupe dont la plupart des membres ne se connaissent pas. Un groupe sans lieu ni objectif défini. Bref, ce n’est pas vraiment un groupe. Mais cela n’a pas empêché les juges antiterroristes de renvoyer sept individus – six hommes et une femme – classés politiquement à l’ #ultragauche devant un tribunal pour « association de malfaiteurs #terroriste ». Leur procès doit se tenir du 3 au 27 octobre devant la 16e chambre correctionnelle du tribunal judiciaire de Paris. Ils encourent jusqu’à dix années de prison.

    • Par quelque bout qu’on le prenne, le dossier tient essentiellement sur une seule personne : Florian D., qui se fait appeler désormais « Libre Flot ». Agé de 39 ans, ce militant anarchiste est parti combattre au Kurdistan syrien aux côtés des Unités de protection du peuple (#YPG), des brigades intégrées aux Forces démocratiques syriennes contre l’organisation Etat islamique (EI), d’avril 2017 à janvier 2018.

      #libre_flot

    • A l’été et à l’automne 2020, les pièces versées au dossier vont même en décroissant. Les écoutes sont de peu d’intérêt, seule la sonorisation du camion dans lequel vit et se déplace Florian D. vient alimenter quelque peu le dossier. Or, en novembre 2020, les enquêteurs apprennent que Florian D. a l’intention de vendre son camion et de partir à l’étranger. Il est alors décidé, au terme d’une réunion le 19 novembre 2020 entre la #DGSI, le #PNAT et le juge d’instruction Jean-Marc Herbaut, d’interpeller les mis en cause. Le coup de filet a lieu le 8 décembre 2020, les mises en examen de sept des onze interpellés, appréhendés dans toute la France et ramenés au siège de la DGSI, sont prononcées le 11 décembre.

    • Au bout de quinze mois d’isolement, qu’il assimile à de la « torture blanche » et qui a occasionné pertes de mémoire, désorientation spatiotemporelle, etc., Florian D. a mené une grève de la faim d’un mois, qui s’est achevée par sa remise en liberté sous contrôle judiciaire. Après sa sortie de prison, il a attaqué l’Etat devant le tribunal administratif de Versailles et a obtenu, le 18 avril 2023, l’annulation des décisions de mise à l’isolement et la condamnation de l’Etat à 3 000 euros de réparations.

    • « Dans ce dossier, le PNAT et le juge d’instruction ont plaqué de manière totalement artificielle une méthodologie et un récit directement empruntés au terrorisme djihadiste, estiment les deux avocates. On retrouve la notion de “séjour sur zone” [au Kurdistan syrien] pour aller combattre, la figure du “revenant” tout comme l’idée d’un “réseau transnational” kurde. C’est absurde, il n’y a jamais eu de lien entre une entraide internationale au Rojava et des actions en Occident, c’est un procédé grossier pour criminaliser à bas coût l’extrême gauche. Au contraire, les Kurdes combattent Daech [acronyme arabe de l’organisation Etat islamique], avec l’appui de la coalition. » « Il ne faut pas oublier que nous défendons quelqu’un qui a combattu Daech au péril de sa vie », renchérit Me Kempf, qui assure la défense de Florian D., avec Me Coline Bouillon. D’autant qu’il n’est pas illégal d’aller combattre avec les YPG au Kurdistan, comme le confirme un jugement du tribunal administratif du 31 mars 2017.

    • Pour Mes Simon et Vannier, « ce dossier pose les bases de ce qui va suivre : les notions d’écoterrorisme et de terrorisme intellectuel agités par Gérald Darmanin depuis un an, la dissolution des Soulèvements de la Terre [ #slt ] en juin ». Me Kempf, lui, y voit la logique dévorante de l’antiterrorisme en action : « Les acteurs de l’antiterrorisme ont besoin de se nourrir de dossiers pour justifier leur existence. Avec le reflux du djihadisme, on peut penser qu’ils ont besoin de se tourner vers d’autres horizons. Or, eux seuls décident, en fonction de critères obscurs, de ce qui est terroriste ou pas. » Pour Mes Chalot et Arnaud, « ce dossier est une porte ouverte extrêmement dangereuse pour les années qui viennent ».

      Des avocats expriment la crainte d’une requalification terroriste à l’avenir de plusieurs dossiers de destruction de biens dans lesquels les Soulèvements de la Terre sont poursuivis.

    • AFFAIRE DU 8 DÉCEMBRE -L’antiterrorisme à l’assaut des luttes sociales
      https://lundi.am/Affaire-du-8-decembre

      Le 8 décembre 2020, une opération antiterroriste visait 9 militants politiques français. Les quelques éléments de langage et de procédure distillés dans la presse par la police laissent alors songeur. Une association de Paint Ball, un artificier qui travaille à Disneyland et quelques discussions de fin de soirée où l’on dit tout le mal que l’on pense de la police nationale captées par des micros cachés par la DGSI. À partir du 3 octobre, sept personnes seront jugées à Paris, soupçonnées de participation à une association de malfaiteurs en relation avec une entreprise terroriste. Afin de mieux saisir les enjeux comme le fond de cette affaire, nous avons reçu cette analyse détaillée et politique du dossier d’instruction.

      #luttes #antiterrorisme #police #justice #enquête #téléphonie #fadettes #géolocalisation

    • Ça parait tout droit issu de la culture des recrues de l’intérieur nourrie de la bibliothèque rose, un truc comme la DGSI et le club des cinq ou bien Darmanin et La girafe noire

      Et pourtant, la DGSI n’avait pas lésiné sur les moyens de surveillance. A la sonorisation de lieux d’habitation, s’ajoutent des milliers d’heures d’écoutes téléphoniques, le recours à la géolocalisation en temps réel, des dizaines d’opération d’IMSI catching, des centaines de filatures et bien entendu l’analyse des dizaines de supports numériques saisis lors des arrestations et des comptes associés (mails, réseaux sociaux...). Soit sept intimités violées pour venir satisfaire la curiosité malsaine des quelques 106 agent.es du renseignement ayant travaillé sur ce dossier.

    • Affaire du « 8 décembre » : le droit au chiffrement et à la vie privée en procès - 2 octobre 2023

      https://www.laquadrature.net/2023/10/02/affaire-du-8-decembre-le-droit-au-chiffrement-et-a-la-vie-privee-en-pr

      Le 3 octobre prochain s’ouvrira le procès de l’affaire dite du « 8 décembre ». Sept personnes sont accusées d’association de malfaiteurs terroriste. Pour construire le récit du complot terroriste, les services de renseignement de la DGSI chargés de l’enquête judiciaire, le parquet national antiterroriste (PNAT) puis le juge d’instruction instrumentalisent à charge le fait que les inculpé·es utilisaient au quotidien des outils pour protéger leur vie privée et chiffrer leurs communications . Face à cette atteinte inédite, que nous documentions longuement il y a quelques mois, le temps de ce procès va donc être crucial dans la bataille contre les velléités récurrentes de l’État de criminaliser des pratiques numériques banales, sécurisées et saines, pratiques que nous défendons depuis toujours.

      [...]

      Ce procès est une énième attaque contre les libertés fondamentales, mais surtout un possible aller sans retour dans le rapport que l’État entretient avec le droit à la vie privée. Alors votre mobilisation est importante ! Rendez-vous demain, 3 octobre, à 12h devant le tribunal de Paris (Porte de Clichy) pour un rassemblement en soutien aux inculpé·es. Puis si vous le pouvez, venez assister aux audiences (qui se tiendront les après-midis du 3 au 27 octobre au tribunal de Paris) afin de montrer, tous les jours, solidarité et résistance face à ces attaques.

      –—

      Affaire du 8 décembre : le chiffrement des communications assimilé à un comportement terroriste - 5 juin 2023

      https://www.laquadrature.net/2023/06/05/affaire-du-8-decembre-le-chiffrement-des-communications-assimile-a-un-

      nous avons été alerté du fait que, parmi les faits reprochés (pour un aperçu global de l’affaire, voir les références en notes de bas de page7), les pratiques numériques des inculpé·es, au premier rang desquelles l’utilisation de messageries chiffrées grand public, sont instrumentalisées comme autant de « preuves » d’une soi-disant « clandestinité » qui ne peut s’expliquer que par l’existence d’un projet terroriste.

      Nous avons choisi de le dénoncer.

      –—

      « Affaire du 8 décembre 2020 » : le #chiffrement des communications des prévenus au cœur du soupçon

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/25/affaire-du-8-decembre-2020-le-chiffrement-des-communications-des-prevenus-au

    • Procès pour terrorisme d’ultragauche : la cause kurde en filigrane de l’accusation

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/03/proces-pour-terrorisme-d-ultragauche-la-cause-kurde-en-filigrane-de-l-accusa

      Florian D. et six autres personnes sympathisantes de l’ultragauche sont jugées à Paris à partir de mardi. A l’origine du dossier, le séjour de Florian D. au Kurdistan syrien, durant lequel il a appris le maniement des armes pour combattre l’organisation Etat islamique.

  • Affaire « Lafarge ». Les moyens d’enquête utilisés et quelques attentions à en tirer - Rebellyon.info
    https://rebellyon.info/Affaire-Lafarge-Les-moyens-d-enquete-25197

    Suite aux 35 arrestations des 5 et 20 juin dernier, les entretiens menés avec les arrêté.e.s ont en partie révélé l’ampleur de ce que l’État est prêt à déployer pour traquer celleux qui s’opposent au ravage écologique et industriel. Ecoutes, filatures, logiciel espion, reconnaissance faciale, balise GPS...

    À noter que plusieurs des personnes visées par ces réquisitions ont vu leur compte en banque clôturé sans explication ou ont subit des #contrôles_domicilaires très poussés par la CAF. Une clôture de compte bancaire inexpliquée peut ainsi être un signe de surveillance.

    La police dit ne pas envoyer de réquisitions à Riseup par peur qu’iels ne préviennent les personnes concernées, et considérant que Riseup ne leur répondra probablement jamais. Cela semble confirmer que l’utilisation de fournisseurs mail militantes mettant en œuvre un certain nombre de protections et de système de chiffrement tels que #Riseup leur pose beaucoup plus de problèmes d’accès que dans le cas de fournisseurs commerciaux [6]. (Il va sans dire que l’utilisation de clés de chiffrement PGP pour les échanges de mails ajoute une couche de protection supplémentaire).

    [...] Sans tomber dans le fantasme d’une surveillance permanente et omniprésente, autant prendre un certain nombre de mesures pour se protéger du traçage policier, tout en veillant à ce que ça ne nous pourrisse pas trop la vie et que ça ne nous empêche pas de nous organiser collectivement.

    Nous travaillons à une analyse plus poussée de ces premiers éléments et d’autres. Vous pouvez nous contacter à lesmoyens @ systemli.org

    #lafarge #police #justice #luttes #enquête #SDAT #ADN #vidéosurveillance #Reconnaissance_faciale #téléphonie #fadettes #géolocalisation #logiciel_espion #IMSI_catchers #écoutes #CAF #Pôle_emploi #impôts #ANTS #blablacar ++ #SNCF #FlixBus #banques #Twitter #Facebook (refus !) #Instagram #sonorisation_de_véhicule #boîtiers_GPS #Filatures #sociétés_d'autoroute #Demande_de_photos_des_véhicules_aux_péages_autoroutiers

  • « Le viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    « Le viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent
    Par Lorraine de Foucher (Marseille, envoyée spéciale)
    Publié hier à 06h58, modifié hier à 14h22
    TémoignagesLundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.
    Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.
    Tous ces détails, ces marques de la barbarie inscrite dans le corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le traumatisme surgir face aux mots « excision », « Libye », « traite » ou « viol ».Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.
    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, Jérémy Khouani a lancé une grande enquête de santé publique pour mesurer l’incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.
    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des mutilations génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse Anne Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.(....)

    #Covid-19#migrant#migration#sante#femme#violence#parcoursmigratoire#santementame#france#afriqueouest#asie#moyenorient#europesantepublique#france#enquete#violencesexuelle#viol

  • « Le viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

    [...]

    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (#Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, [Jérémy Khouani] a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, Jérémy Khouani a lancé une grande #enquête de #santé_publique pour mesurer l’incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du parcours migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des mutilations génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse Anne Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    trouvé, ainsi que « Les femmes_migrantes doivent intégrer le viol comme un élément du voyage » . Plus de 80 % des femmes originaires d’Amérique latine qui prennent la route de l’exil sont violées durant leur trajet (Smaïn Laacher, 2019), ici https://justpaste.it/c1du2

    #femmes #migration #femmes_migrantes #violences_sexuelles #viol #demandeuses_d’asile #mutilations_génitales #exil

    • Oui, effectivement c’est la logique infernale du cumul des calamités et malheureusement ce n’est pas prêt de s’arranger.

      La surcharge des étoiles sur seenthis, je l’avais déjà eu avec mon smartphone et c’est la première fois que ça me le fait sur mon ordi. Je vais désormais tâcher d’être plus patient avant de renouveler un clic ;-)

  • Les oubliés du droit d’asile

    Plus de 500 personnes ont participé à l’enquête réalisée sur 5 structures d’accueil parisiennes. L’enquête a permis la production d’un rapport final à partir de l’analyse des données quantitatives et qualitatives recueillies.


    Le rapport « Les oubliés du droit d’asile » dresse un constat alarmant sur les conditions d’existence des #hommes_isolés fréquentant les structures sur lesquelles l’enquête a été menée. Ces résultats amènent les associations à formuler des recommandations qui supposent une adaptation réglementaire et législative, l’augmentation des moyens ou l’ajustement des pratiques. Les associations en sont convaincues, les réponses aux difficultés rencontrées par les hommes isolés visés par l’enquête ne pourront se construire qu’en concertation et collaboration entre les associations, les services et agences de l’Etat et les collectivités.

    https://www.youtube.com/watch?v=ScjteUjbWAA

    https://www.actioncontrelafaim.org/publication/les-oublies-du-droit-dasile
    #rapport #France #Paris #asile #migrations #réfugiés #accueil #recommandations #SDF #sans-abris #sans-abrisme #hébergement #conditions_d'accueil #île_de_France #conditions_matérielles_d'accueil #enquête #dispositif_d'accueil #précarisation #allocation_pour_demandeurs_d'asile (#ADA) #accès_aux_droits #faim #santé_mentale

    ping @karine4

    • 95 entretiens poussés , un peu de sérieux , 85 bénévoles combien ça coute ? transmission des résultats aux services publiques , canal habituel ? l’honorable correspondant ? etc ...

    • Lors de la dernière audition, à court de nouvelles déductions, Z. avait finit par me questionner à propos d’un billet de France Culture sur la dissolution des Soulèvements de la Terre, écouté le matin même dans sa voiture. Il me précise que l’éditorialiste Jean Leymarie y critique la dissolution mais interroge la « radicalisation du mouvement » : « Leymarie cite le philosophe Pascal et son adage - la justice sans la force est impuissante mais la force sans la justice est tyrannique ? Continuerez vous malgré votre mesure de garde à vue à légitimer l’usage de la violence ? N’avez vous pas peur que votre mouvement devienne tyrannique ? Allez vous vous ranger du côté de la justice ? »

      Ce qui est bien quand on est seul à faire les questions et à savoir que les réponses ne viendront pas, c’est que l’on a toujours la possibilité de se les poser à soi-même et à son corps de métier. Une semaine après nos sorties de garde à vue, des policiers tuaient une fois de plus dans la rue un adolescent des quartiers populaires, provoquant le soulèvement politique le plus fracassant qu’ait connu ce pays depuis les Gilets Jaunes, avant d’envoyer des centaines de nouvelles personnes en prison. Alors que la conséquence que les policiers en tirent quant à eux est de revendiquer aujourd’hui, avec l’appui du ministère de l’Intérieur, un statut d’exception à même de les faire échapper à la loi, la question de ce que devient la force sans la justice est tragiquement d’actualité.

    • Quand je suis emmené pour la dernière fois dans son bureau pour l’audition finale, il ne nous cache cette fois pas sa forte déception et l’étonnement des enquêteurs de ne pas avoir été suivis par la juge. L’un deux soufflera d’ailleurs à une autre personne que celle-ci est « à moitié en burn out ». Lui confirme en tout cas qu’elle a estimé que « les conditions de sérénité des débats n’étaient pas réunies ». On peut imaginer, au-delà de toute autres considérations guidant cette décision, que la juge doit à minima répugner à ce que son indépendance soit publiquement mise en débat et à ce que le doute continue à se distiller sur son instrumentalisation au profit d’une urgence gouvernementale à mettre fin aux Soulèvements de la Terre. D’autant que depuis l’affaire Tarnac, les juges d’instruction savent bien que la fragnolite peut toujours les attendre au tournant, et depuis Bure que les associations de malfaiteurs trop enflées politiquement peuvent finir en relaxe.

    • Le capitaine nous affirme d’ailleurs que justement la SDAT « cherche aujourd’hui de nouveaux débouchés » du côté de l’« écologie » et « des violences extrêmes ».

      [...]

      Z. dira à plusieurs reprises que la seule raison pour laquelle la SDAT a pu « lever le doigt » pour être chargée de l’affaire était les « tentatives d’incendies sur des véhicules de l’usine », et que « sans le feu » tout ceci serait sans doute resté dans une catégorie de délit inférieur sans bénéficier de leur attention

      [...]

      Au long des 4 jours, on constate que Z. oscille quant à lui maladroitement entre une surqualification des faits incriminés seule à même de justifier que les moyens de la SDAT soit employée dans cette affaire, et une posture opposée visant à déjouer les critiques sur l’emploi des moyens de l’anti-terrorisme à l’encontre d’actions écologistes qui peuvent difficilement être qualifiée comme telles. Il estime d’un côté que notre mise en cause de l’emploi de la SDAT dans la presse est déplacée puisque la qualification « terroriste » n’est pas retenue dans le classement de cette affaire et que la SDAT agirait ici comme un « simple corps de police ». Mais il nous exposera par ailleurs dans le détail comment seuls les moyens exceptionnels de l’anti-terrorisme ont pu permettre de mener une telle enquête et que « nul autre qu’eux » aurait été capable de fournir ce travail.

      Il faut dire que la taille du dossier d’instruction encore incomplet est de 14 000 pages, ce qui représente à ce que l’on en comprend six mois de plein emploi pour un nombre significatif de policiers, et donne une idée du sens des priorités dans l’exercice de la justice dans ce pays. A sa lecture ultérieure et en y explorant dans le détail l’amplitude des moyens qu’ont jugé bon de déployer les enquêteurs pour venir à la rescousse de Lafarge, les mis en examen constateront qu’ils avaient effectivement carte blanche. L’officier concède d’ailleurs à mon avocat que la police est, ces dernières années, une des institutions les mieux dotées financièrement du pays, et admet que leurs syndicats font quand même bien du cinéma. En l’occurrence cette manne a été mise au service de ce qui paraît être devenu ces derniers mois deux impératifs catégoriques pour le gouvernement français et les entreprises qui comptent sur sa loyauté à leur égard. En premier lieu produire une secousse répressive suffisante pour décourager toute velléité de reproduction d’un telle intrusion. Il doit demeurer absolument inconcevable que la population fasse le nécessaire et mette elle-même à l’arrêt les infrastructures qui ravagent ses milieux de vie. En second lieu, étendre encore le travail de surveillance et de fichage déjà à l’œuvre sur un ensemble de cercles jugés suspects en s’appuyant sur les moyens débridés offerts par l’enquête.

    • Il veux savoir si j’ai lu les brochures visant à attaquer les #Soulèvements_de_la_Terre, de ceux qu’il qualifie d’« #anarchistes individualistes ». Les accusations portées à notre égard y sont selon lui fort instructives et mettent en cause les faits et gestes de certaines personnes d’une manière qui s’avère sans doute pertinente pour l’enquête. C’est notamment à partir de ces fables intégralement versées au dossier que la SDAT justifie certaines des #arrestations, et fonde une partie de la structure incriminante de son récit sur ces « cadres des Soulèvements » qui resteraient « au chaud » en envoyant d’autres personnes au charbon. Ce sont d’ailleurs ces mêmes pamphlets, publiées sur certains sites militants, que le ministère de l’Intérieur reprend avec application pour fournir des « preuves » de l’existence et de l’identité de certains soit-disant « #dirigeants », et alimenter, dans son argumentaire sur la dissolution, l’idée d’un mouvement « en réalité vertical ». Z. est en même temps « bien conscient », dit-il, que ces écrits, sont « probablement l’expression de « guerres de chapelles », comme ils peuvent en avoir eux-même de services à service ». Cela ne l’empêche pas de proposer à une autre personne, arrêtée lors de la première vague, de prendre le temps de les lire pendant sa garde à vue « pour réaliser à quel point » elle se serait fait « manipuler ».

      #récit #autonomie #surveillance #police_politique #SDAT (héritage du PS années 80) #arrestations #interrogatoires #SLT #écologie #sabotage #anti_terrorisme #Lafarge #Béton

    • Lafarge, Daesh et la DGSE
      La raison d’Etat dans le chaos syrien

      https://lundi.am/Lafarge-Daesh-et-la-DGSE

      Ce mardi 19 septembre se tenait une audience devant la cour de cassation concernant l’affaire Lafarge en Syrie dans laquelle le cimentier et ses dirigeants sont soupçonnés de financement du terrorisme. Alors que le terme terrorisme plane frauduleusement autour du désarmement de l’usine de Bouc-bel-Air, voilà l’occasion d’une petite mise en perspective.

      #lafarge #daesh #dgse #syrie

  • Élancourt : « C’est la voiture de police qui l’a percuté »
    https://contre-attaque.net/2023/09/08/elancourt-cest-la-voiture-de-police-qui-la-percute

    Très gravement blessé, [#Sefa S.] a été hospitalisé et se trouve en état de mort cérébrale. Deux policiers conducteurs ont été placés en garde à vue, avant d’être relâchés. En attendant, la violente compagnie #CRS8 a été déployée dans la ville, une violence supplémentaire.

    L’avocat de la famille, Yassine Bouzrou, expliquait : « Nous avons la certitude que la voiture de police a percuté la moto ». https://seenthis.net/messages/1015892#message1016013 Un témoin direct confirmait à la presse : « J’ai vu que c’était la voiture de police qui l’a percuté ». Plusieurs caméras de surveillance sont sur les lieux. Les proches demandent à les consulter. Sont-elles « tombées en panne », comme cela arrive souvent en cas de violences policières ?

    Pour rappel, les policiers ne peuvent engager une #course-poursuite que pour les délits les plus graves. Et pas pour des #refus_d’obtempérer, qui sont exclus des consignes officielles. Les agents disent avoir poursuivi le jeune homme parce qu’il n’avait pas son casque. Justification encore plus absurde : on ne fonce pas sur une personne qui est particulièrement exposée car non protégée.

    Jeudi 13 avril à Paris, trois adolescents sur un scooter étaient percutés par une voiture de #police. Une jeune fille de 17 ans avait été placée dans le coma et un jeune de 14 ans était hospitalisé dans un état grave. Les policiers avaient ouvert leur portière pour déstabiliser le scooter. Grâce aux images, trois policiers avaient été mis à pied.

    Cette technique nommée « #parechoquage », percuter une personne pour l’arrêter, est réclamée par les #syndicats_policiers. Eric Z. avait aussi déclaré : « Je suis favorable à ce que les Anglais font depuis quelques mois, c’est-à-dire ce qu’ils appellent le contact tactique ».

    mensonge(s) des policiers quant aux faits, mensonge du Parquet qui annonce la mort de Seba S., repris par les #média [D’après une source citée par le Parisien, « il aurait pu heurter la voiture d’un particulier ou autre. C’est une coïncidence totale. »]

    edit

    Deux policiers ont été placés en garde à vue. Il s’agit des conducteurs des deux véhicules impliqués dans l’accident, précise le parquet au Parisien. En fin d’après-midi ce jeudi 7 septembre, le parquet a annoncé la levée de ces gardes à vue (...) Yassine Bouzrou récuse la version policière. « Le véhicule de police a percuté le jeune S. sur sa moto et le véhicule de police intervenait suite à un refus d’obtempérer donc ce véhicule n’était pas là par hasard », souligne-t-il. Le conseil évoque ainsi des « traces du choc » visibles sur le véhicule et la moto. « D’après plusieurs témoins, il y aurait des caméras de surveillance donc nous demandons à ce qu’une enquête sérieuse soit réalisée en dehors du tribunal de #Versailles », poursuit-il.

    L’avocat met notamment en doute l’impartialité d’une #enquête_de_police qui serait menée dans les Yvelines sur des agents du même département. Ainsi que la compétence du parquet qui a, en première instance, annoncé à tort la mort du jeune homme. « Il est totalement irrespectueux à l’égard de la famille d’annoncer un décès alors que l’hôpital ne l’a pas annoncé à la famille. Donc encore une fois le parquet de Versailles a manqué une bonne occasion de faire preuve de respect vis à vis de la famille », condamne-t-il. Yassine Bouzrou révèle par ailleurs avoir déposé pour plainte pour « tentative d’homicide volontaire ». _Ration, le 6/9 avec 4 maj le 7/9 de 7h à 17h24]

    #justice #tentative_d’homicide_volontaire

  • « Sur l’abaya, le gouvernement n’a pas compris l’effet boomerang des lois coercitives », Agnès De Féo

    L’abaya est en passe de devenir une cause nationale depuis la déclaration de Gabriel Attal du 27 août selon laquelle « l’abaya ne pourra plus être portée à l’école », qui fait écho à celle de Nicolas Sarkozy, quatorze ans plus tôt, le 22 juin 2009 – « La burqa n’est pas la bienvenue sur le territoire de la République française » –, aboutissant à la loi d’#interdiction de dissimulation du visage dans l’espace public du 11 octobre 2010. Dans ces deux déclarations, ce ne sont pas les usagères qui occupent le sujet de la phrase, mais l’objet qu’elles portent (abaya, burqa), un objet exogène qui menacerait l’intégrité de la nation.

    Une représentation aussi caricaturale pourrait faire sourire si elle n’était plébiscitée par une grande partie des Français et instrumentalisée par des personnalités politiques, révélant en passant leur obsession pour le corps des musulmanes depuis l’époque coloniale. Des usagères, il n’est finalement que peu question. Elles restent les grandes inconnues des spéculations dont elles font l’objet. Or, soupçonner ces jeunes filles de manœuvrer contre l’école, c’est surestimer un phénomène minoritaire adolescent qui reste inoffensif.

    Disons-le d’emblée : l’abaya est bel et bien marquée religieusement, même si les intéressées s’en défendent. En affirmant ingénument que l’abaya n’est pas une tenue religieuse mais traditionnelle, portée par goût vestimentaire, les adolescentes concernées jouent sur sa « polymorphie ». Si les robes élégantes portées notamment dans les pays du Golfe peuvent effectivement s’appeler « abayas », ce terme possède une tout autre acception en France. Par sa forme épurée, ses couleurs unies, sans broderie ni coupe cintrée, et souvent des élastiques aux poignets, l’abaya correspond bien à l’image de l’habit de pieuses musulmanes que se font celles qui la portent.

    Argumentaire de façade

    Les femmes que j’ai pu rencontrer dans le cadre de mes recherches sociologiques accompagnent leur abaya d’un long voile, identifié comme islamique par la manière dont il est fixé sur la tête, ne laissant aucun doute sur l’expression de leur confession. C’est aussi le cas des collégiennes et lycéennes en abaya qui se couvrent les cheveux dès la sortie de leur établissement. Preuve que ce vêtement exprime la religiosité, il s’achète dans des boutiques et des sites spécialisés à destination d’une clientèle musulmane pratiquante, plutôt que dans le prêt-à-porter mainstream. Même si, sortie de son contexte, elle est perçue comme une simple robe, l’abaya est portée en France pour son #signifiant_islamique. Celles qui l’arborent à l’école devraient donc logiquement tomber sous le coup de l’interdiction de la loi de 2004.

    Mais, en disant cela, nous restons au degré zéro du sens obvie. Pour saisir le phénomène, il est nécessaire de comprendre ce qu’expriment les porteuses d’abaya, sans se limiter à leur argumentaire de façade, sans non plus surinterpréter leur message. L’abaya est devenue aujourd’hui un objet désiré pour sa dimension subversive (comme le niqab au moment de son interdiction en 2010) : celles qui en font usage expriment ainsi leur fierté d’être musulmanes contre l’obsession sociétale de les effacer de l’espace public.

    Leur détermination à porter l’abaya s’accompagne d’exclamations comme « je fais ce que je veux, personne ne décide de ma façon de m’habiller » ou de slogans féministes, tel le fameux « mon corps m’appartient ». Si la tenue est religieuse, le discours l’est beaucoup moins : il est celui de jeunes femmes en lutte pour leurs droits dans une société où elles estiment ne pas être respectées.

    Il y a dix-neuf ans, l’interdiction des signes religieux à l’#école_publique visait la disparition du voile musulman du système scolaire. Elle l’a pourtant multiplié dans l’espace public et a provoqué la création d’établissements confessionnels musulmans. Il y a treize ans, celle du voile intégral a également créé une émulation, incitant des femmes à porter le niqab parce qu’il faisait l’unanimité contre lui. La visibilité musulmane chez les jeunes ne doit plus être comprise comme une simple expression religieuse, mais comme une résistance aux polémiques récurrentes cherchant à l’interdire depuis plus de deux décennies. Par l’aversion et les mesures de rétorsion qu’il provoque, le vêtement islamique est devenu un moyen de transgresser les normes, il est même le seul aujourd’hui à « choquer le bourgeois ».

    Le gouvernement n’a pas tiré les leçons des échecs précédents. Il n’a pas compris l’effet boomerang des lois coercitives qui n’ont fait que décupler l’expression visible de l’islam dans la société, au lieu de l’effacer. Celles-ci ont, au contraire, favorisé le repli sur soi, le communautarisme et le séparatisme tant décriés. Cela n’empêche pas le gouvernement de réitérer aujourd’hui, avec une nouvelle interdiction qui devrait transformer l’abaya en tendance contestataire, le multiplier à l’université et dans l’espace public, ainsi qu’encourager la désobéissance civile. Et, bien sûr, augmenter l’audience des prédicateurs de TikTok, que les jeunes femmes en abaya plébiscitent pour incarner l’opposition à laquelle elles adhèrent – et qui les aident à retourner le stigmate.

    Rappelons que les recruteurs de Daech ont usé de la loi de 2010 pour convaincre des femmes de s’engager en Syrie et en Irak. Plutôt que de spéculer sur l’#abaya et d’en faire l’objet d’une nouvelle croisade, il serait bon de redonner sa place à la subjectivité de celles qui la portent, ce que les politiques sont incapables de faire aujourd’hui, impatients de jouer sur la corde sensible électoraliste. Le gouvernement français, qui invoque les lois de 1905 et de 2004 pour « protéger les valeurs de la République » face à une robe d’adolescente, révèle sa grande faiblesse et son manque d’initiative pour créer un vivre-ensemble apaisé qui ferait fi des différences.

    Agnès De Féo est sociologue à l’Institut de recherches et d’études sur les mondes arabes et musulmans et à l’université Aix-Marseille. Elle est l’autrice de « Derrière le niqab. Dix ans d’enquête sur les femmes qui ont porté et enlevé le voile intégral » (Armand Colin, 2020).

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/09/03/agnes-de-feo-sociologue-sur-l-abaya-le-gouvernement-n-a-pas-compris-l-effet-

    • « Le port du voile intégral n’est pas déterminé par la religion, mais par le rapport aux hommes », novembre 2020
      https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2020/11/29/le-port-du-voile-integral-n-est-pas-determine-par-la-religion-mais-par-le-ra

      Loin de l’image de croyantes soumises ou d’islamistes qu’on leur accole, la sociologue Agnès De Féo s’appuie sur dix ans d’enquête auprès de femmes portant le niqab pour montrer que c’est avant tout le rapport avec le sexe opposé qui détermine leur choix.


      « La Pudeur égyptienne », par Charles Gleyre, 1838. Selon un poncif orientaliste, une Egyptienne préfère montrer sa nudité plutôt que son visage. WIKIPEDIA
      https://justpaste.it/8q1zl

    • Loi sur le voile intégral : « On a créé le monstre qu’on voulait éviter »
      https://www.lemonde.fr/religions/article/2015/10/10/loi-sur-le-voile-integral-on-a-cree-le-monstre-qu-on-voulait-eviter_4786934_

      A Paris, dans la rue Jean-Pierre Timbaud, connue pour ses librairies musulmanes et ses magasins de vêtements, on ne dit pas autre chose. Shainez travaille dans une boutique et vend « quelques » niqabs (qui ne laissent voir que les yeux) par semaine. Dans une autre enseigne, Mouni Lakehal parle « d’une vente chaque mois ». Ce qui ne manque pas d’énerver cette Algérienne de 60 ans : « Celles qui portent le niqab, c’est du show-off [de la frime] », lâche-t-elle.

      « C’est ma façon de lutter »
      Une critique que réfute Samira (le prénom a été modifié), qui fait justement des achats dans la rue et porte un niqab « parce qu’[elle se] sen[t] bien et qu’[elle] devien[t] [elle]-même ». La jeune femme de 28 ans dit avoir « cherché à [se] rapprocher du meilleur comportement, celui du prophète et de ses femmes ». Elle est issue d’une « famille musulmane pas ultra-pratiquante » et son mari était opposé au voile intégral. Samira porte le niqab depuis « environ trois ans » et dit avoir essuyé de nombreuses insultes dans la rue. A contrario, « il n’y a jamais eu d’altercation avec la police », constate-t-elle, alors qu’elle a déjà fait l’objet de quatre contrôles.
      C’est aussi le cas de Leila (le prénom a été modifié), trentenaire célibataire de Vaulx-en-Velin (Rhône), qui décrit une vingtaine de contrôles d’identité et une seule verbalisation : « Je lève mon voile directement, les agents apprécient. Cela se passe très bien. » Leila, issue comme Samira d’une famille musulmane « pas forcément très pratiquante », raconte avoir troqué le voile pour le niqab au moment du vote de la loi : « C’est ma façon de lutter, de dire non au gouvernement qui me retire ma liberté. »
      D’après Agnès de Féo, sociologue et réalisatrice de documentaires qui travaille depuis plus de dix ans sur le port du niqab, la loi a « agi comme un déclencheur et suscité des vocations ». Avant 2010, celles qui portaient le niqab « étaient davantage dans une démarche religieuse, piétiste. Aujourd’hui, même si elles affirment toujours vouloir plaire à Dieu, il y a une volonté de revendication, de rupture avec une société qu’elles considèrent comme hostile », explique-t-elle.
      Cette analyse met à mal l’idée selon laquelle les femmes qui portent le niqab subiraient la mainmise d’un homme. On retrouve au contraire beaucoup de profils de femmes célibataires, divorcées ou agissant contre l’avis de leur mari et, dans tous les cas, revendiquant leur libre arbitre.
      La sociologue évoque enfin une recherche « plus identitaire, qui est rarement suivie d’un investissement religieux profond ». En témoigne le nombre important de converties parmi les femmes qui revêtent le niqab. « Le battage médiatique autour de la loi a permis à certaines de découvrir un moyen de revendiquer une islamité valorisante à travers les codes salafistes, poursuit Agnès de Féo. C’est un renversement du stigmate. On les a nourries d’exclusion, on a projeté sur elles nos propres fantasmes, on a créé le monstre qu’on voulait éviter. »

    • Le gouvernement n’a pas tiré les leçons des échecs précédents. Il n’a pas compris l’effet boomerang des lois coercitives qui n’ont fait que décupler l’expression visible de l’islam dans la société, au lieu de l’effacer.

      Je pense qu’elle se gourre naïvement en écrivant qu’un gvt français serait préoccupé d’effacer l’expression de l’Islam en interdisant des tenues vestimentaires. A mon avis c’est tout le contraire. Les gouvernements français sont préoccupé par tous les moyens à se maintenir en place pour servir les intérêts de leur classe et à augmenter les malaises sociaux qu’ils créent pour se faire. D’abord récolter les voix d’un potentiel électorat d’Xdroite mais aussi monter des écrans de fumées vestimentaires pour masquer leur incurie. A ces salopards il leur faut ancrer toujours plus l’idée que les français sont légitimes à être racistes, continuer de fabriquer l’ennemi proche facile à reconnaitre par sa peau, sa burqa, ses vêtements. Sous tendu par l’idée qu’une nation se refonde face à l’ennemi, la peur, les angoisses xénophobes, la petitesse d’esprit. Les gouvernements n’en ont rien à foutre de faciliter la vie commune des habitants de ce pays, il leur faut juste se mêler d’augmenter le racisme et de creuser le fossé de solidarité sociale.

      Relis Fanon, le racisme c’est bien un rapport de pouvoir qu’on intègre.

    • il me semble que cette posture est une convention, un tic (in)corpo(ré). sous couvert de neutralité axiologique, ne surtout pas donner l’impression de quelque chose comme une critique qui serait immanquablement dénoncée comme un procès d’intention. Il s’agit de défendre la discipline (qui éclaire) et les salaires qui vont avec en prétendant que ce qu’iels montrent est ignoré des pouvoirs publics. malgré ou derrière cela, il y a #enquête, terrain, et ce n’est pas rien.

    • Je suis fatiguée des conventions qui consiste à se taire pour éviter les accusations de wokiste ou islamo gauchiste. Uhu, je ne demande pas tant une critique mais un exposé des faits, et je cherche encore les enquêtes sur cette fabrication de l’islamo ennemi par ces salopards au pouvoir. Qui montreraient ne serait-ce que comment Balkany alors maire de Levallois avait fait fermer le peu de salles de loisirs pour les jeunes (rencontre/musique/infosida/politisation) dans les quartiers de Levallois pour les remplacer par des lieux d’apprentissage coraniques.

      Moi aussi j’ai fait mon enquête de terrain :)

  • « Les immigrés partagent les valeurs dominantes de leur pays d’accueil »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/08/28/les-immigres-partagent-les-valeurs-dominantes-de-leur-pays-d-accueil_6186785

    « Les immigrés partagent les valeurs dominantes de leur pays d’accueil »
    Tribune
    Bernard Denni
    L’enquête « European Values Study » montre qu’en Europe, la majorité des personnes étrangères et d’origine étrangère ont, de la même manière que les autochtones, des valeurs traditionnelles dans l’Est et le Sud, et d’émancipation personnelle dans le Nord et l’Ouest, explique le politiste Bernard Denni, dans une tribune au « Monde ».
    L’immigré est très souvent perçu par les Européens comme une menace pour leur mode de vie et les idéaux démocratiques. Une actualité trop souvent tragique et très médiatisée nourrit cette perception. Dans le cadre de l’European Values Study [une enquête menée dans 35 pays européens entre 2017 et 2020, portant sur le sens que les individus donnent à la famille, au travail, aux loisirs, aux relations à autrui, à la religion et à la politique], l’analyse des réponses des personnes d’origine étrangère dans vingt Etats de l’Union européenne (UE) met en lumière une tout autre réalité. Dans leur grande majorité, les immigrés partagent les valeurs dominantes de leur pays d’accueil.
    L’immigré est défini ici comme une personne née hors du pays de résidence ou bien née dans ce pays mais qui a au moins un des deux parents né dans un autre pays. Parmi ces immigrés, on distingue les « immigrés nationaux » qui ont la nationalité de leur pays de résidence (3 351 personnes interrogées) et ceux qui ne l’ont pas, les « étrangers » (957). Les autres personnes sont les « autochtones » (85 % des enquêtés).
    Dans Les Transformations culturelles. Comment les valeurs des individus bouleversent le monde ? (Presses universitaires de Grenoble, 2018), le politologue Ronald Inglehart démontre que le remplacement progressif des valeurs conservatrices d’ordre et d’autorité par des valeurs d’autonomie et d’émancipation personnelle favorise la démocratie. Celle-ci est étroitement liée à la diffusion de valeurs non directement politiques, parmi lesquelles la tolérance à l’égard de la diversité des mœurs, la confiance en autrui et une perception égalitaire des êtres humains. Ces valeurs sont constitutives d’une « super-dimension culturelle latente » qui oppose les sociétés traditionnelles aux sociétés individualisées.
    Construite à partir de l’analyse statistique des réponses à quatorze questions relatives aux trois valeurs retenues, cette super-dimension permet d’évaluer où se situe une société entre tradition et individualisation. Son score varie de 0 à 20 : plus il est élevé, plus les valeurs d’autonomie sont répandues ; plus il est faible, plus les valeurs traditionnelles sont fréquentes. Le score moyen de 9,90 montre que les Européens se situent à mi-chemin entre les deux systèmes de valeurs. Il existe de très fortes variations en fonction des Etats de l’UE et des groupes sociaux, mais à peu près sans lien avec le statut d’immigré.
    Ainsi, à propos de l’égalité de genre, dans les sociétés individualisées 63 % des autochtones, 64 % des immigrés nationaux et 62 % des étrangers accordent la même importance à l’éducation des garçons et des filles. Un sur deux, dans chaque groupe, reconnaît aux deux sexes le même droit à l’embauche quand les emplois sont rares. Dans les sociétés plus traditionnelles, le rejet de la discrimination de genre est nettement moins fréquent, presque à égalité dans chacun des trois groupes : de 38 % à 41 % pour l’éducation et autour de 20 % pour l’égalité à l’embauche.
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    Au chapitre de la tolérance, dans les sociétés traditionnelles, l’homosexualité est jugée « toujours justifiée » par 19 % des autochtones, 23 % des immigrés nationaux et 21 % des étrangers. Dans les sociétés individualisées, la même réponse est donnée par 56 % des autochtones, 51 % des immigrés nationaux et seulement 36 % des étrangers. Plusieurs facteurs expliquent cet écart.
    Huit étrangers sur dix sont nés dans une société traditionnelle, soit plus du double des immigrés nationaux. Les conflits entre les cultures des sociétés d’origine et d’accueil, plus fréquents, ralentissent le processus d’individualisation, d’autant que leur temps de résidence dans la société d’accueil est deux fois plus court que celui des immigrés nationaux. De surcroît, leur statut social est plus modeste et ils sont deux fois plus nombreux à se déclarer de religion orthodoxe ou musulmane. Or le statut social et, plus encore, la religion ont un effet puissant sur la persistance des valeurs conservatrices dans les sociétés individualisées : 55 % des étrangers acceptent l’homosexualité s’ils sont sans religion et 26 % s’ils sont pratiquants.
    Le brassage des normes et des valeurs entre autochtones, immigrés et étrangers, sur fond d’inégalités sociales, n’est pas toujours un long fleuve tranquille et engendre d’inévitables tensions. Mais ces analyses ne font pas apparaître de clivages entre les valeurs des autochtones et celles des immigrés justifiant un sentiment de menace. Comme les autochtones, la majorité des personnes d’origine étrangère ont des valeurs traditionnelles à l’est et au sud de l’Europe, et des valeurs d’émancipation personnelle au nord et à l’ouest, avec des variations liées aux mêmes facteurs socio-économiques et religieux. Les politiques d’immigration devraient favoriser davantage ces ressorts sociologiques par lesquels les immigrés deviennent des Européens comme les autres.
    Une enquête quantitative, la European Values Study, est menée régulièrement depuis 1981 dans une très grande partie de l’Europe : trente-cinq pays en 2017-2020, 56 491 interviews d’une heure, face à face, sur des échantillons le plus représentatifs possible des populations de chaque pays, avec une méthodologie strictement aléatoire. Le questionnaire, très détaillé, porte sur le sens que les individus donnent à la famille, au travail, aux loisirs, aux relations à autrui, à la religion et à la politique.
    Cette enquête permet de mesurer les valeurs et les systèmes de valeurs, c’est-à-dire les idéaux intériorisés par les individus, qui les animent et les font vivre. On peut ainsi comparer de façon précise les valeurs dans les différentes aires géographiques et pays. L’équipe française qui analyse ces données est pilotée depuis Sciences Po Grenoble et le laboratoire de sciences sociales Pacte, en partenariat avec des enseignants-chercheurs de huit établissements d’enseignement supérieur. Elle vient de publier, sous la direction de Pierre Bréchon, Les Européens et leurs valeurs. Entre individualisme et individualisation (Presses universitaires de Grenoble, 312 pages, 29,50 euros, numérique 27 euros).
    Bernard Denni est professeur émérite de science politique, chercheur au laboratoire Pacte, qui réunit l’université Grenoble-Alpes, Science Po Grenoble et le CNRS.

    #Covid-19#migrant#migration#france#europe#immigration#enquete#systemevaleur#famille#travail#religion#politique

  • Tags antisémites à Levallois : un suspect juif âgé de 74 ans jugé mi-décembre Afp - Le Figaro

    Le suspect, un prothésiste dentaire de confession juive à la retraite et propriétaire du local visé par les tags, a invoqué de potentiels loyers impayés par le gérant du commerce pour expliquer son acte.

    Le tribunal de Nanterre a renvoyé jeudi au 14 décembre le procès d’un homme de 74 ans interpellé après la découverte d’inscriptions à caractère antisémite samedi sur la devanture d’un commerce casher à Levallois-Perret (Hauts-de-Seine). Placé en garde à vue, le suspect, un prothésiste dentaire de confession juive à la retraite et propriétaire du local visé par les tags, a comparu jeudi 24 août devant le tribunal correctionnel.

    L’homme, qui comparaissait sous assistance respiratoire, a répondu de manière décousue aux questions de la présidente et invoqué de potentiels loyers impayés par le gérant de la sandwicherie pour expliquer son acte. Son avocat, Me Ian Knafou, a plaidé que son client, présenté comme « de confession juive et enfant de rescapé » de la Shoah, avait « pété un câble ».

    Dans l’attente de son procès, il a été placé sous contrôle judiciaire et a reçu l’interdiction de paraître à Levallois-Perret, de rentrer en contact avec le gérant de la sandwicherie ou de se rendre à son domicile. Le tribunal a ordonné une expertise psychiatrique du prévenu, ainsi que le demandait son conseil.

    Dans la foulée de la découverte des inscriptions, la municipalité de Levallois-Perret avait décidé d’entourer l’établissement d’une « palissade » pour cacher ces « tags immondes », dans l’attente du retour des gérants actuellement en vacances, selon la maire LR Agnès Pottier-Dumas. Le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, s’était dit sur X (ex-Twitter) « profondément choqué par ces inscriptions antisémites insupportables » et avait salué « la grande réactivité des policiers » ayant permis l’interpellation d’un autre suspect, relâché depuis. Les tags ont provoqué une vive indignation dans la classe politique.

    #antisémitisme #religion #société #justice #police #enquête #tribunal #justice

    Source : https://www.lefigaro.fr/faits-divers/tags-antisemites-a-levallois-un-suspect-age-de-74-ans-juge-mi-decembre-2023

    • Toute son oeuvre témoigne en effet d’un attachement farouche à des idéaux et des principes (pour le dire vite : ceux de la gauche, dans le meilleur sens du terme) qui, loin de justifier quelque « pieux mensonges », « détournement de regard » et autres « arrangements avec le vrai », a au contraire nourri, tout en s’en nourrissant à son tour, une attention tout aussi farouche portée au réel – quelle que fut sa dureté, sa complexité, ou l’inconfort qu’il impose à la pensée. Que le nom d’historien vienne d’un mot grec qui signifie « #enquête », toute la vie d’#Antoine_Germa, à l’éducation nationale, puis dans l’édition, puis dans le cinéma, vient nous le rappeler. Le souci du vrai, loin de signifier une froide raison apolitique et « détachée », est plutôt ce qui, en rendant plus visibles, audibles, tangibles, bref sensibles, des oppressions et des injustices que le récit dominant relègue dans l’ombre, le flou ou l’approximation, et en rendant perceptibles aussi les silenciations et les falsifications, rend possible du même coup l’indignation, la révolte, bref l’engagement contre ce « réel » trop injuste et ces récits trop menteurs. C’est ce travail qu’a constamment et opiniâtrement mené Antoine Germa, comme historien, auteur ou coordonnateur de livres (notamment l’indispensable Les Juifs dans l’Histoire : De la naissance du judaïsme au monde contemporain, mais aussi un remarquable numéro de la Revue d’histoire de la Shoah consacré aux « écrans de la Shoah » https://www.cairn.info/revue-d-histoire-de-la-shoah-2011-2.htm ), comme co-auteur de films (notamment les poignants Vie et destin du Livre noir et Moissons sanglantes. 1933, la famine en Ukraine https://www.zed.fr/fr/catalogue/moissons-sanglantes ), ou encore comme professeur engagé, au milieu des années 2000. Antoine nous avait alors fait l’amitié de nous accorder deux « textes d’intervention », aussi concis – c’est la loi du genre – que précis et percutants. Le premier portait sur la tristement célèbre « affaire Dieudonné » [2005 https://lmsi.net/Memoire-de-la-Shoah-memoire ]– et plus largement sur ce que l’on nomme depuis plusieurs décennie maintenant la « concurrence des victimes » ou la « concurrence des mémoires ». Le second, que nous re-publions en guise d’au-revoir et d’hommage, est un texte rédigé à chaud, au coeur des événements, au lendemain de la mort de Zyed Benna et Bouna Traoré, alors que la ville de Clichy-sous-Bois, où Antoine enseigne l’histoire-géographie, commence à « s’embraser ». Dans ce court texte initialement publié le 1er novembre 2005 se manifeste, en « pointillés » et en « condensé », le même souci de justesse et de justice, de justesse au service de la justice, qu’on retrouve, sous des formes beaucoup plus élaborées et développées, dans les grandes oeuvres écrites ou filmiques d’un grand camarade.

  • Émeutes : comment la police traque les délinquants qui avaient échappé aux arrestations


    Des policiers poursuivent des manifestants, le 1er juillet, sur les Champs-Élysées, lors des émeutes qui ont suivi la mort de Nahel, le 27 juin à Nanterre. NACHO DOCE/REUTERS

    ENQUÊTE - Les enquêteurs de la police ont effectué un travail colossal, tout au long du mois de juillet, pour retrouver 314 délinquants qui avaient échappé aux arrestations pendant les nuits de violence.

    Tandis que la France chavirait soudain dans le chaos lors d’émeutes consécutives à la mort de Nahel, tué le 27 juin dernier après un refus d’obtempérer à Nanterre (Hauts-de-Seine), les forces de l’ordre ont dû encaisser un double choc. D’abord celui, filmé heure par heure, d’un tsunami de violences qui s’est soldé par un bilan de 3800 interpellations, commises en temps réel et en flagrant délit, sur l’ensemble du territoire. Puis un second, beaucoup moins connu, d’une #traque_judiciaire hors norme dont Le Figaro est en mesure de révéler le détail. Selon un bilan qui s’arrête au 31 juillet dernier, pas moins de 314 émeutiers, casseurs et incendiaires supplémentaires ont été interpellés par des services d’investigations de la sécurité publique et de la police judiciaire. À elle seule, cette dernière s’est vu confier le soin de mener un peu plus de 170 #enquêtes particulièrement sensibles, portant sur les actes les plus graves. « Dès les premiers jours, l’autorité judiciaire a ainsi saisi la PJ sur des événements emblématiques, qu’il s’agisse de destructions et d’incendies de mairies, d’attaques de locaux de police ou de pillages importants, voire de menaces ou d’agressions sur des élus, confie le contrôleur général Frédéric Laissy, chef du service de la communication de la police nationale. Alors même que les dispositifs d’ordre public étaient encore maintenus à leur maximum, les premières #interpellations étaient effectuées à domicile, souvent avec le concours de la BRI ou du Raid. »
    Ainsi, dès le 5 juillet, la sûreté urbaine de Lille interpellait avec l’appui du Raid une demi-douzaine de voyous impliqués dans l’attaque, menée lors de la deuxième soirée des émeutes, de l’hôtel de police municipal abritant un centre de supervision. Les assaillants ont notamment pu être confondus grâce à leur #ADN retrouvé sur des cocktails Molotov. Cinq d’entre eux ont été placés en détention provisoire dans l’attente de leur jugement d’ici à la fin du mois, tandis qu’un de leurs complices est activement recherché. Au même moment, les policiers du Rhône ont appréhendé, au terme d’une enquête éclair, six des délinquants à l’origine de l’incendie volontaire d’un immeuble d’habitation à Saint-Fons, le 2 juillet dernier. Le feu avait été mis dans le local à poubelles avant de se propager aux étages et de provoquer d’importants dégâts dans le supermarché attenant. Là, les limiers de la sûreté ont obtenu des preuves par l’image : l’exploitation de la vidéoprotection d’un commerce voisin a permis d’identifier un premier suspect en raison d’une tenue caractéristique correspondant à celle d’une personne contrôlée peu auparavant par la police municipale. Là encore, les incendiaires présumés ont été placés derrière les barreaux en attendant d’être jugés, tandis que 62 personnes évacuées espèrent toujours être relogées.

    À travers le pays et à la faveur des investigations, les unités spécialisées d’intervention ont investi à l’heure du laitier des dizaines de domiciles, alors que le soufflé des violences destructrices n’était pas retombé. L’engagement hors norme des policiers en civil et les opérations ciblées ont sans nul doute douché les ardeurs au cœur des quartiers, battant en brèche tout sentiment d’impunité et participant de facto à une stratégie globale de retour à l’ordre. « Si le temps judiciaire est parfois considéré comme plus long, il faut bien constater que la mobilisation des services d’enquête a joué un rôle à la fois dans la dissuasion au moment des #violences_urbaines et dans la dissuasion à plus long terme, avec des interpellations et des incarcérations décidées par les tribunaux qui ont pu poursuivre sur la base d’investigations », assure-t-on à la Direction générale de la police nationale. Sur le terrain, face à la déferlante, l’heure a été à l’union sacrée. La PJ, fortement mise à contribution, a ainsi bénéficié de l’énorme investissement des petits groupes d’enquêtes dans les commissariats des villes moyennes ayant elles aussi payé un lourd tribut en termes de dégâts. Ainsi, à Niort (Deux-Sèvres), les policiers locaux ont multiplié les enquêtes de voisinages et passé au crible des bandes #vidéo avant de lancer un coup de filet.
    Entre les 3 et 12 juillet, ils ont intercepté six membres d’une horde de jeunes #émeutiers qui avaient mis le centre-ville à sac, tendant des embuscades à la #police, pillant des #commerces et brûlant des véhicules dans la nuit du 30 juin au 1er juillet.
    https://www.lefigaro.fr/actualite-france/emeutes-comment-la-police-traque-les-delinquants-qui-avaient-echappe-aux-ar
    https://justpaste.it/amtj3

    #révolte #émeutes #police_judiciaire #justice #prison

    • Avec méthode, les experts ont en effet passé au crible des pierres, des projectiles divers, des armes de fortune retrouvées sur les champs de bataille, des bouteilles utilisées pour les liquides incendiaires ou encore des traces de sang. Même les briquets ou les étuis de mortiers abandonnés sur place ont été soumis aux analyses. Selon nos informations, le Service national de #police_scientifique, basé à Écully et qui dispose de cinq laboratoires, a été saisi de 317 dossiers, représentant près de 1800 scellés pour les affaires les plus importantes et sensibles.

      [...]

      Outre l’analyse des indices, des réseaux sociaux et l’examen des vidéos - même si un millier de caméras ont été détruites lors des émeutes -, les enquêteurs se sont appuyés sur la connaissance de la population locale par les policiers de quartier, ainsi que sur la #géolocalisation. À ce titre, un téléphone portable dérobé dans l’habitacle d’un camion de pompiers volé à Vernon (Eure), au premier soir des émeutes, a permis de retrouver la trace d’un délinquant puis de ses quatre complices. Le profil des interpellés, qui devrait faire l’objet d’une analyse plus poussée, laisse apparaître, comme l’a révélé Gérald Darmanin le 19 juillet devant la commission des lois de l’Assemblée nationale, que la moyenne d’âge est entre 17 et 18 ans. Les plus jeunes sont âgés de 12 ans et les deux tiers n’avaient jusqu’ici pas de casier.

      [...]

      Les services de #renseignements sont invités à « renforcer, dès à présent, leurs dispositifs d’anticipation de ce type d’événement ». L’idée est de prévenir tout débordement à l’approche de la Coupe du monde de rugby et des JO de Paris,

  • #Controverses mode d’emploi

    Pratique pédagogique pionnière en sciences sociales, la cartographie des controverses apprend à regarder le monde sans jamais séparer sciences, techniques et société. À tenir compte de tous les points de vue et du contexte dans lequel ils sont émis. À analyser finement l’écosystème qui fait naître un objet, une invention, un phénomène.
    Face aux problèmes environnementaux et sanitaires qui nous submergent, face à la cadence inédite des innovations technologiques, les expert·e·s s’affrontent, se contredisent ou s’avouent sans réponse. Les controverses surgissent à un rythme bien plus rapide que la production des savoirs. Dans cet âge d’#incertitude, où la décision doit souvent précéder la connaissance, il nous faut imaginer de nouvelles manières de penser et d’agir collectivement.

    La cartographie des controverses fournit ce cadre. Pratique pédagogique pionnière en sciences sociales, elle apprend à regarder le monde sans jamais séparer sciences, techniques et société. À tenir compte de tous les points de vue et du contexte dans lequel ils sont émis. À analyser finement l’écosystème qui fait naître un objet, une invention, un phénomène.

    Pour se repérer dans l’incertitude, nous dit-elle, il faut d’abord se perdre dans la complexité.

    Ce livre en offre le mode d’emploi, en s’appuyant sur des exemples de controverses contemporaines soigneusement sélectionnées pour leur diversité et la richesse de leurs enseignements.

    https://www.pressesdesciencespo.fr/fr/book/?gcoi=27246100412870#h2tabtableContents

    #livre #controverse #eau #vélo #femmes #hystérie #burn-out #glyphosate #Romainville #rats #Paris #forages #eaux_profondes #enquête

    @reka : dans le résumé du livre on parle de « cartographie des controverses », mais je ne sais pas ce qui se cache derrière #cartographie, si c’est « mapping » en anglais qui pourrait donc comporter zéro visualisation :-)

  • #Francesco_Sebregondi : « On ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme »

    Après avoir travaillé pour #Forensic_Architecture sur les morts d’#Adama_Traoré et de #Zineb_Redouane, l’architecte #Francesco_Sebregondi a créé INDEX, pour enquêter sur les #violences_d’État et en particulier sur les violences policières en #France et depuis la France. Publié plusieurs semaines avant la mort de Nahel M., cet entretien mérite d’être relu attentivement. Rediffusion d’un entretien du 22 avril 2023

    C’est en 2010 que l’architecte, chercheur et activiste Eyal Weizman crée au Goldsmiths College de Londres un groupe de recherche pluridisciplinaire qui fera date : Forensic Architecture. L’Architecture forensique avait déjà fait l’objet d’un entretien dans AOC.

    Cette méthode bien particulière avait été créée à l’origine pour enquêter sur les crimes de guerre et les violations des droits humains en utilisant les outils de l’architecture. Depuis, le groupe a essaimé dans différentes parties du monde, créant #Investigative_Commons, une communauté de pratiques rassemblant des agences d’investigation, des activistes, des journalistes, des institutions culturelles, des scientifiques et artistes (la réalisatrice Laura Poitras en fait partie), etc. Fondé par l’architecte Francesco Sebregondi à Paris en 2020, #INDEX est l’une d’entre elles. Entre agence d’expertise indépendante et média d’investigation, INDEX enquête sur les violences d’État et en particulier sur les violences policières en France et depuis la France. Alors que les violences se multiplient dans le cadre des mouvements sociaux, comment « faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents » ? Si la vérité est en ruines, comment la rétablir ? OR

    Vous avez monté l’agence d’investigation INDEX après avoir longtemps travaillé avec Forensic Architecture. Racontez-nous…
    Forensic Architecture est né en 2010 à Goldsmiths à Londres. À l’origine, c’était un projet de recherche assez expérimental, pionnier dans son genre, qui cherchait à utiliser les outils de l’architecture pour enquêter sur les violations des #droits_humains et en particulier du droit de la guerre. La période était charnière : avec l’émergence des réseaux sociaux et des smartphones, les images prises par des témoins étaient diffusées très rapidement sur des réseaux souvent anonymes. La quantité d’#images et de #documentation_visuelle disponible commençait à augmenter de manière exponentielle et la démocratisation de l’accès à l’#imagerie_satellitaire permettait de suivre d’un point de vue désincarné l’évolution d’un territoire et les #traces qui s’y inscrivaient. La notion de #trace est importante car c’est ce qui nous relie à la tradition de l’enquête appliquée plus spécifiquement au champ spatial. Les traces que la #guerre laisse dans l’#environnement_urbain sont autant de points de départ pour reconstruire les événements. On applique à ces traces une série de techniques d’analyse architecturale et spatiale qui nous permettent de remonter à l’événement. Les traces sont aussi dans les documents numériques, les images et les vidéos. Une large partie de notre travail est une forme d’archéologie des pixels qui va chercher dans la matérialité même des documents numériques. On peut reconstituer les événements passés, par exemple redéployer une scène en volume, à partir de ses traces numériques en image.

    Quels en ont été les champs d’application ?
    À partir du travail sur les conflits armés, au sein de Forensic Architecture, on a développé une série de techniques et de recherches qui s’appliquent à une variété d’autres domaines. On commençait à travailler sur les violences aux frontières avec le projet de Lorenzo Pezzani et Charles Zeller sur les bateaux de migrants laissés sans assistance aux frontières méditerranéennes de l’Europe, à des cas de #violences_environnementales ou à des cas de violences policières… L’origine de notre approche dans l’enquête sur des crimes de guerre faisait qu’on avait tendance à porter un regard, depuis notre base à Londres, vers les frontières conflictuelles du monde Occidental. On s’est alors rendus compte que les violences d’État qui avaient lieu dans des contextes plus proches de nous, que ce soit en Grande-Bretagne, aux États-Unis ou en Grèce, pouvaient bénéficier d’un éclairage qui mobiliserait les mêmes techniques et approches qu’on avait à l’origine développées pour des situations de conflits armés. Tout cela est en lien assez direct avec la militarisation de la #police un peu partout dans le Nord global, le contexte occidental, que ce soit au niveau des #armes utilisées qu’au niveau des #stratégies employées pour maintenir l’ordre.

    La France vous a ensuite semblé être un pays depuis lequel enquêter ?
    Je suis revenu vivre en France en 2018 en plein milieu de la crise sociale autour du mouvement des Gilets jaunes et de son intense répression policière. Dès ce moment-là, il m’a semblé important d’essayer d’employer nos techniques d’enquête par l’espace et les images pour éclairer ce qui était en train de se passer. On en parlait aussi beaucoup. En 2020, j’ai dirigé les enquêtes sur la mort d’Adama Traoré et de Zineb Redouane pour le compte de Forensic Architecture depuis la France avec une équipe principalement française. C’était une période d’incubation d’INDEX en quelque sorte. Ces enquêtes ont initié notre travail sur le contexte français en rassemblant des moyens et une équipe locale.
    On est aujourd’hui dans un rapport de filiation assez clair avec Forensic Architecture même si INDEX est structurellement autonome. Les deux organisations sont très étroitement liées et entretiennent des relations d’échange, de partage de ressources, etc. Tout comme Forensic Architecture, INDEX est l’une des organisations du réseau international Investigative Commons qui fédère une douzaine de structures d’investigation indépendantes dans différents pays et qui travaillent à l’emploi des techniques d’enquêtes en sources ouvertes dans des contextes locaux.

    Il existe donc d’autres structures comme INDEX ?
    Elles sont en train d’émerger. On est dans cette phase charnière très intéressante. On passe d’une organisation reconnue comme pionnière dans l’innovation et les nouvelles techniques d’enquête à tout un champ de pratiques qui a encore beaucoup de marge de développement et qui, en se frottant à des contextes locaux ou spécifiques, vient éprouver sa capacité à interpeller l’opinion, à faire changer certaines pratiques, à demander de la transparence et des comptes aux autorités qui se rendent responsables de certaines violences.

    On utilise depuis toujours le terme d’enquête dans les sciences humaines et sociales mais l’on voit aujourd’hui que les architectes, les artistes s’en emparent, dans des contextes tous très différents. Qu’est-ce que l’enquête pour INDEX ?
    On emploie le terme d’#enquête dans un sens peut-être plus littéral que son usage en sciences humaines ou en recherche car il est question de faire la lumière sur les circonstances d’un incident et d’établir des rapports de causalité dans leur déroulement, si ce n’est de responsabilité. Il y a aussi cette idée de suivre une trace. On travaille vraiment essentiellement sur une matière factuelle. L’enquête, c’est une pratique qui permet de faire émerger une relation, un #récit qui unit une série de traces dans un ensemble cohérent et convaincant. Dans notre travail, il y a aussi la notion d’#expertise. Le nom INDEX est une contraction de « independant expertise ». C’est aussi une référence à la racine latine d’indice. Nous cherchons à nous réapproprier la notion d’expertise, trop souvent dévoyée, en particulier dans les affaires de violences d’État sur lesquelles on travaille.

    Vos enquêtes s’appuient beaucoup sur les travaux d’Hannah Arendt et notamment sur Vérité et politique qui date de 1964.
    On s’appuie beaucoup sur la distinction que Hannah Arendt fait entre #vérité_de_fait et #vérité_de_raison, en expliquant que les vérités de fait sont des propositions qui s’appuient sur l’extérieur, vérifiables, et dont la valeur de vérité n’est possible qu’en relation avec d’autres propositions et d’autres éléments, en particuliers matériels. La vérité de raison, elle, fait appel à un système de pensée auquel on doit adhérer. C’est à partir de cette distinction qu’Arendt déploie les raisons pour lesquelles #vérité et #politique sont toujours en tension et comment la pratique du politique doit s’appuyer sur une série de vérités de raison, sur l’adhésion d’un peuple à une série de principes que le pouvoir en place est censé incarner. Ainsi, le pouvoir, dépendant de cette adhésion, doit tenir à distance les éléments factuels qui viendraient remettre en cause ces principes. C’est ce qu’on essaye de déjouer en remettant au centre des discussions, au cœur du débat et de l’espace public des vérités de fait, même quand elles sont en friction avec des « #vérités_officielles ».
    Du temps d’Hannah Arendt, le politique avait encore les moyens d’empêcher la vérité par le régime du secret. C’est beaucoup moins le cas dans les conditions médiatiques contemporaines : le problème du secret tend à céder le pas au problème inverse, celui de l’excès d’informations. Dans cet excès, les faits et la vérité peuvent se noyer et venir à manquer. On entend alors parler de faits alternatifs, on entre dans la post-vérité, qui est en fait une négation pure et simple de la dimension sociale et partagée de la vérité. Si on veut résister à ce processus, si on veut réaffirmer l’exigence de vérité comme un #bien_commun essentiel à toute société, alors, face à ces défis nouveaux, on doit faire évoluer son approche et ses pratiques. Beaucoup des techniques développées d’abord avec Forensic Architecture et maintenant avec INDEX cherchent à développer une culture de l’enquête et de la #vérification. Ce sont des moyens éprouvés pour mettre la mise en relation de cette masse critique de données pour faire émerger du sens, de manière inclusive et participative autant que possible.

    L’#architecture_forensique, même si elle est pluridisciplinaire, s’appuie sur des méthodes d’architecture. En quoi est-ce particulièrement pertinent aujourd’hui ?
    L’une des techniques qui est devenue la plus essentielle dans les enquêtes que l’on produit est l’utilisation d’un modèle 3D pour resituer des images et des vidéos d’un événement afin de les recouper entre elles. Aujourd’hui, il y a souvent une masse d’images disponibles d’un événement. Leur intérêt documentaire réside moins dans l’individualité d’une image que sur la trame de relations entre les différentes images. C’est la #spatialisation et la #modélisation en 3D de ces différentes prises de vue qui nous permet d’établir avec précision la trame des images qui résulte de cet événement. Nous utilisons les outils de l’architecture à des fins de reconstitution et de reconstruction plus que de projection, que ce soit d’un bâtiment, d’un événement, etc.

    Parce qu’il faut bien rappeler que vos enquêtes sont toujours basées sur les lieux.
    L’environnement urbain est le repère clé qui nous permet de resituer l’endroit où des images ont été prises. Des détails de l’environnement urbain aussi courants qu’un passage piéton, un banc public, un kiosque à journaux ou un abribus nous permettent de donner une échelle pour reconstituer en trois dimensions où et comment une certaine scène s’est déroulée. Nous ne considérons pas l’architecture comme la pratique responsable de la production de l’environnement bâti mais comme un champ de connaissance dont la particularité est de mettre en lien une variété de domaines de pensées et de savoirs entre eux. Lorsqu’on mobilise l’architecture à des fins d’enquête, on essaye de faire dialoguer entre elles toute une série de disciplines. Nos équipes mêmes sont très interdisciplinaires. On fait travailler des vidéastes, des ingénieurs des matériaux, des juristes… le tout pour faire émerger une trame narrative qui soit convaincante et qui permette de resituer ce qui s’est passé autour de l’évènement sous enquête.

    L’historienne Samia Henni qui enseigne à Cornell University aux États-Unis, et qui se considère « historienne des environnements bâtis, détruits et imaginés », dit qu’apprendre l’histoire des destructions est aussi important que celles des constructions, en raison notamment du nombre de situations de conflits et de guerres sur la planète. Quand on fait du projet d’architecture, on se projette en général dans l’avenir. En ce qui vous concerne, vous remodélisez et reconstituez des événements passés, souvent disparus. Qu’est-ce que ce rapport au temps inversé change en termes de représentations ?
    Je ne suis pas sûr que le rapport au temps soit inversé. Je pense que dans la pratique de l’enquête, c’est toujours l’avenir qui est en jeu. C’est justement en allant chercher dans des événements passés, en cherchant la manière précise dont ils se sont déroulés et la spécificité d’une reconstitution que l’on essaye de dégager les aspects structurels et systémiques qui ont provoqué cet incident. En ce sens, ça nous rapproche peut-être de l’idée d’#accident de Virilio, qui est tout sauf imprévisible.
    L’enjeu concerne l’avenir. Il s’agit de montrer comment certains incidents ont pu se dérouler afin d’interpeller, de demander des comptes aux responsables de ces incidents et de faire en sorte que les conditions de production de cette #violence soient remises en question pour qu’elle ne se reproduise pas. Il s’agit toujours de changer les conditions futures dans lesquelles nous serons amenés à vivre ensemble, à habiter, etc. En cela je ne pense pas que la flèche du temps soit inversée, j’ai l’impression que c’est très proche d’une pratique du projet architectural assez classique.

    Vous utilisez souvent le terme de « violences d’État ». Dans une tribune de Libération intitulée « Nommer la violence d’État » en 2020, encore d’actualité ces temps-ci, l’anthropologue, sociologue et médecin Didier Fassin revenait sur la rhétorique du gouvernement et son refus de nommer les violences policières. Selon lui, « ne pas nommer les violences policières participe précisément de la violence de l’État. » Il y aurait donc une double violence. Cette semaine, l’avocat Arié Alimi en parlait aussi dans les colonnes d’AOC. Qu’en pensez-vous ?
    Je partage tout à fait l’analyse de Didier Fassin sur le fait que les violences d’État s’opèrent sur deux plans. Il y a d’une part la violence des actes et ensuite la violence du #déni des actes. Cela fait le lien avec l’appareil conceptuel développé par Hannah Arendt dans Vérité et politique. Nier est nécessaire pour garantir une forme de pouvoir qui serait remise en question par des faits qui dérangent. Cela dit, il est important de constamment travailler les conditions qui permettent ou non de nommer et surtout de justifier l’emploi de ces termes.

    Vous utilisez le terme de « violences d’État » mais aussi de « violences policières » de votre côté…
    Avec INDEX, on emploie le terme de « violences d’État » parce qu’on pense qu’il existe une forme de continuum de violence qui s’opère entre violences policières et judiciaires, le déni officiel et l’#impunité de fait étant des conditions qui garantissent la reproduction des violences d’État. Donc même si ce terme a tendance à être perçu comme particulièrement subversif – dès qu’on le prononce, on tend à être étiqueté comme militant, voire anarchiste –, on ne remet pas forcément en question tout le système d’opération du pouvoir qu’on appelle l’État dès lors qu’on dénonce ses violences. On peut évoquer Montesquieu : « Le #pouvoir arrête le pouvoir ». Comment faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents ? Il s’agit a minima d’interpeller l’#opinion_publique sur les pratiques de l’État qui dépassent le cadre légal ; mais aussi, on l’espère, d’alimenter la réflexion collective sur ce qui est acceptable au sein de nos sociétés, au-delà la question de la légalité.

    Ce que je voulais dire c’est que Forensic Architecture utilise le terme de « violences d’État » ou de « crimes » dans un sens plus large. Sur le site d’INDEX, on trouve le terme de « violences policières » qui donne une information sur le cadre précis de vos enquêtes.
    On essaye d’être le maillon d’une chaîne. Aujourd’hui, on se présente comme une ONG d’investigation qui enquête sur les violences policières en France. Il s’agit d’être très précis sur le cadre de notre travail, local, qui s’occupe d’un champ bien défini, dans un contexte particulier. Cela reflète notre démarche : on est une petite structure, avec peu de moyens. En se spécialisant, on peut faire la lumière sur une série d’incidents, malheureusement récurrents, mais en travaillant au cœur d’un réseau déjà constitué et actif en France qui se confronte depuis plusieurs décennies aux violences d’État et aux violences policières plus particulièrement. En se localisant et étant spécifique, INDEX permet un travail de collaboration et d’échanges beaucoup plus pérenne et durable avec toute une série d’acteurs et d’actrices d’un réseau mobilisé autour d’un problème aussi majeur que l’usage illégitime de la force et de la violence par l’État. Limiter le cadre de notre exercice est une façon d’éprouver la capacité de nos techniques d’enquête et d’intervention publique à véritablement amorcer un changement dans les faits.

    On a parfois l’impression que la production des observateurs étrangers est plus forte, depuis l’extérieur. Quand la presse ou les observateurs étrangers s’emparent du sujet, ils prennent tout de suite une autre ampleur. Qu’en pensez-vous ?
    C’est sûr que la possibilité de projeter une perspective internationale sur un incident est puissante – je pense par exemple à la couverture du désastre du #maintien_de_l’ordre lors de la finale de la Ligue des champions 2022 au Stade de France qui a causé plus d’embarras aux représentants du gouvernement que si le scandale s’était limité à la presse française –, mais en même temps je ne pense pas qu’il y ait véritablement un gain à long terme dans une stratégie qui viserait à créer un scandale à l’échelle internationale. Avec INDEX, avoir une action répétée, constituer une archive d’enquêtes où chacune se renforce et montre le caractère structurel et systématique de l’exercice d’une violence permet aussi de sortir du discours de l’#exception, de la #bavure, du #dérapage. Avec un travail au long cours, on peut montrer comment un #problème_structurel se déploie. Travailler sur un tel sujet localement pose des problèmes, on a des difficultés à se financer comme organisation. Il est toujours plus facile de trouver des financements quand on travaille sur des violations des droits humains ou des libertés fondamentales à l’étranger que lorsqu’on essaye de le faire sur place, « à la maison ». Cela dit, on espère que cette stratégie portera ses fruits à long terme.

    Vous avez travaillé avec plusieurs médias français : Le Monde, Libération, Disclose. Comment s’est passé ce travail en commun ?
    Notre pratique est déjà inter et pluridisciplinaire. Avec Forensic Architecture, on a souvent travaillé avec des journalistes, en tant que chercheurs on est habitués à documenter de façon très précise les éléments sur lesquels on enquête puis à les mettre en commun. Donc tout s’est bien passé. Le travail très spécifique qu’on apporte sur l’analyse des images, la modélisation, la spatialisation, permet parfois de fournir des conclusions et d’apporter des éléments que l’investigation plus classique ne permet pas.

    Ce ne sont pas des compétences dont ces médias disposent en interne ?
    Non mais cela ne m’étonnerait pas que ça se développe. On l’a vu avec le New York Times. Les premières collaborations avec Forensic Architecture autour de 2014 ont contribué à donner naissance à un département qui s’appelle Visual Investigations qui fait maintenant ce travail en interne de façon très riche et très convaincante. Ce sera peut-être aussi l’avenir des rédactions françaises.

    C’est le cas du Monde qui a maintenant une « cellule d’enquête vidéo ».
    Cela concerne peut-être une question plus générale : ce qui constitue la valeur de vérité aujourd’hui. Les institutions qui étaient traditionnellement les garantes de vérité publique sont largement remises en cause, elles n’ont plus le même poids, le même rôle déterminant qu’il y a cinquante ans. Les médias eux-mêmes cherchent de nouvelles façons de convaincre leurs lecteurs et lectrices de la précision, de la rigueur et de la dimension factuelle de l’information qu’ils publient. Aller chercher l’apport documentaire des images et en augmenter la capacité de preuve et de description à travers les techniques qu’on emploie s’inscrit très bien dans cette exigence renouvelée et dans ce nouveau standard de vérification des faits qui commence à s’imposer et à circuler. Pour que les lecteurs leur renouvellent leur confiance, les médias doivent aujourd’hui s’efforcer de convaincre qu’ils constituent une source d’informations fiables et surtout factuelles.

    J’aimerais que l’on parle du contexte très actuel de ces dernières semaines en France. Depuis le mouvement contre la réforme des retraites, que constatez-vous ?
    On est dans une situation où les violences policières sont d’un coup beaucoup plus visibles. C’est toujours un peu pareil : les violences policières reviennent au cœur de l’actualité politique et médiatique au moment où elles ont lieu dans des situations de maintien de l’ordre, dans des manifestations… En fait, quand elles ne touchent plus seulement des populations racisées et qu’elles ne se limitent plus aux quartiers populaires.

    C’est ce que disait Didier Fassin dans le texte dont nous parlions à l’instant…
    Voilà. On ne parle vraiment de violences policières que quand elles touchent un nombre important de personnes blanches. Pendant la séquence des Gilets jaunes, c’était la même dynamique. C’est à ce moment-là qu’une large proportion de la population française a découvert les violences policières et les armes dites « non létales », mais de fait mutilantes, qui sont pourtant quotidiennement utilisées dans les #quartiers_populaires depuis des décennies. Je pense qu’il y a un problème dans cette forme de mobilisation épisodique contre les violences policières parce qu’elle risque aussi, par manque de questionnements des privilèges qui la sous-tendent, de reproduire passivement des dimensions de ces mêmes violences. Je pense qu’au fond, on ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme en France.
    Il me semble aussi qu’il faut savoir saisir la séquence présente où circulent énormément d’images très parlantes, évidentes, choquantes de violences policières disproportionnées, autour desquelles tout semblant de cadre légal a sauté, afin de justement souligner le continuum de cette violence, à rebours de son interprétation comme « flambée », comme exception liée au mouvement social en cours uniquement. Les enquêtes qu’on a publiées jusqu’ici ont pour la plupart porté sur des formes de violences policières banalisées dans les quartiers populaires : tirs sur des véhicules en mouvement, situations dites de « refus d’obtempérer », usages de LBD par la BAC dans une forme de répression du quotidien et pas d’un mouvement social en particulier. Les séquences que l’on vit actuellement doivent nous interpeller mais aussi nous permettre de faire le lien avec la dimension continue, structurelle et discriminatoire de la violence d’État. On ne peut pas d’un coup faire sauter la dimension discriminatoire des violences policières et des violences d’État au moment où ses modes opératoires, qui sont régulièrement testés et mis au point contre des populations racisées, s’abattent soudainement sur une population plus large.

    Vous parlez des #violences_systémiques qui existent, à une autre échelle…
    Oui. On l’a au départ vu avec les Gilets jaunes lorsque les groupes #BAC ont été mobilisés. Ces groupes sont entraînés quotidiennement à faire de la #répression dans les quartiers populaires. C’est là-bas qu’ils ont développé leurs savoirs et leurs pratiques particulières, très au contact, très agressives. C’est à cause de cet exercice quotidien et normalisé des violences dans les quartiers populaires que ces unités font parler d’elles quand elles sont déployées dans le maintien de l’ordre lors des manifestations. On le voit encore aujourd’hui lors de la mobilisation autour de la réforme des retraites, en particulier le soir. Ces situations évoluent quotidiennement donc je n’ai pas toutes les dernières données mais la mobilisation massive des effectifs de police – en plus de la #BRAV-M [Brigades de répression des actions violentes motorisées] on a ajouté les groupes BAC –, poursuivent dans la logique dite du « contact » qui fait souvent beaucoup de blessés avec les armes utilisées.

    Avez-vous été sollicités ces temps-ci pour des cas en particulier ?
    Il y aura tout un travail à faire à froid, à partir de la quantité d’images qui ont émergé de la répression et en particulier des manifestations spontanées. Aujourd’hui, les enjeux ne me semblent pas concerner la reconstitution précise d’un incident mais plutôt le traitement et la confrontation de ces pratiques dont la documentation montre le caractère systémique et hors du cadre légal de l’emploi de la force. Cela dit, on suit de près les blessures, dont certaines apparemment mutilantes, relatives à l’usage de certaines armes dites « non létales » et en particulier de #grenades qui auraient causé une mutilation ici, un éborgnement là… Les données précises émergent au compte-goutte…
    On a beaucoup entendu parler des #grenades_offensives pendant le mouvement des Gilets jaunes. Le ministère de l’Intérieur et le gouvernement ont beaucoup communiqué sur le fait que des leçons avaient été tirées depuis, que certaines des grenades le plus souvent responsables ou impliquées dans des cas de mutilation avaient été interdites et que l’arsenal avait changé. En fait, elles ont été remplacées par des grenades aux effets quasi-équivalents. Aujourd’hui, avec l’escalade du mouvement social et de contestation, les mêmes stratégies de maintien de l’ordre sont déployées : le recours massif à des armes de l’arsenal policier. Le modèle de grenade explosive ou de #désencerclement employé dans le maintien de l’ordre a changé entre 2018 et 2023 mais il semblerait que les #blessures et les #mutilations qui s’ensuivent perdurent.

    À la suite des événements de Sainte-Soline, beaucoup d’appels à témoins et à documents visuels ont circulé sur les réseaux sociaux. Il semblerait que ce soit de plus en plus fréquent.
    Il y a une prise de conscience collective d’un potentiel – si ce n’est d’un pouvoir – de l’image et de la documentation. Filmer et documenter est vraiment devenu un réflexe partagé dans des situations de tension. J’ai l’impression qu’on est devenus collectivement conscients de l’importance de pouvoir documenter au cas où quelque chose se passerait. Lors de la proposition de loi relative à la sécurité globale, on a observé qu’il y avait un véritable enjeu de pouvoir autour de ces images, de leur circulation et de leur interprétation. Le projet de loi visait à durcir l’encadrement pénal de la capture d’image de la police en action. Aujourd’hui, en voyant le niveau de violence déployée alors que les policiers sont sous les caméras, on peut vraiment se demander ce qu’il se passerait dans la rue, autour des manifestations et du mouvement social en cours si cette loi était passée, s’il était illégal de tourner des images de la police.
    En tant que praticiens de l’enquête en source ouverte, on essaye de s’articuler à ce mouvement spontané et collectif au sein de la société civile, d’utiliser les outils qu’on a dans la poche, à savoir notre smartphone, pour documenter de façon massive et pluri-perspective et voir ce qu’on peut en faire, ensemble. Notre champ de pratique n’existe que grâce à ce mouvement. La #capture_d’images et l’engagement des #témoins qui se mettent souvent en danger à travers la prise d’images est préalable. Notre travail s’inscrit dans une démarche qui cherche à en augmenter la capacité documentaire, descriptive et probatoire – jusqu’à la #preuve_judiciaire –, par rapport à la négociation d’une vérité de fait autour de ces évènements.

    Le mouvement « La Vérité pour Adama », créé par sa sœur suite à la mort d’Adama Traoré en 2016, a pris beaucoup d’ampleur au fil du temps, engageant beaucoup de monde sur l’affaire. Vous-mêmes y avez travaillé…
    La recherche de la justice dans cette appellation qui est devenue courante parmi les différents comités constitués autour de victimes est intéressante car elle met en tension les termes de vérité et de justice et qu’elle appelle, implicitement, à une autre forme de justice que celle de la #justice_institutionnelle.
    Notre enquête sur la mort d’Adama Traoré a été réalisée en partenariat avec Le Monde. À la base, c’était un travail journalistique. Il ne s’agit pas d’une commande du comité et nous n’avons pas été en lien. Ce n’est d’ailleurs jamais le cas au moment de l’enquête. Bien qu’en tant qu’organisation, INDEX soit solidaire du mouvement de contestation des abus du pouvoir policier, des violences d’État illégitimes, etc., on est bien conscients qu’afin de mobiliser efficacement notre savoir et notre expertise, il faut aussi entretenir une certaine distance avec les « parties » – au sens judiciaire –, qui sont les premières concernées dans ces affaires, afin que notre impartialité ne soit pas remise en cause. On se concentre sur la reconstitution des faits et pas à véhiculer un certain récit des faits.

    Le comité « La Vérité pour Adama » avait commencé à enquêter lui-même…
    Bien sûr. Et ce n’est pas le seul. Ce qui est très intéressant autour des #comités_Vérité_et_Justice qui émergent dans les quartiers populaires autour de victimes de violences policières, c’est qu’un véritable savoir se constitue. C’est un #savoir autonome, qu’on peut dans de nombreux cas considérer comme une expertise, et qui émerge en réponse au déni d’information des expertises et des enquêtes officielles. C’est parce que ces familles sont face à un mur qu’elles s’improvisent expertes, mais de manière très développée, en mettant en lien toute une série de personnes et de savoirs pour refuser le statu quo d’une enquête qui n’aboutit à rien et d’un non-lieu prononcé en justice. Pour nous, c’est une source d’inspiration. On vient prolonger cet effort initial fourni par les premiers et premières concernées, d’apporter, d’enquêter et d’expertiser eux-mêmes les données disponibles.

    Y a-t-il encore une différence entre images amateures et images professionnelles ? Tout le monde capte des images avec son téléphone et en même temps ce n’est pas parce que les journalistes portent un brassard estampillé « presse » qu’ils et elles ne sont pas non plus victimes de violences. Certain·es ont par exemple dit que le journaliste embarqué Rémy Buisine avait inventé un format journalistique en immersion, plus proche de son auditoire. Par rapport aux médias, est-ce que quelque chose a changé ?
    Je ne voudrais pas forcément l’isoler. Rémy Buisine a été particulièrement actif pendant le mouvement des Gilets jaunes mais il y avait aussi beaucoup d’autres journalistes en immersion. La condition technique et médiatique contemporaine permet ce genre de reportage embarqué qui s’inspire aussi du modèle des reporters sur les lignes de front. C’est intéressant de voir qu’à travers la militarisation du maintien de l’ordre, des modèles de journalisme embarqués dans un camp ou dans l’autre d’un conflit armé se reproduisent aujourd’hui.

    Avec la dimension du direct en plus…
    Au-delà de ce que ça change du point de vue de la forme du reportage, ce qui pose encore plus question concerne la porosité qui s’est établie entre les consommateurs et les producteurs d’images. On est dans une situation où les mêmes personnes qui reçoivent les flux de données et d’images sont celles qui sont actives dans leur production. Un flou s’opère dans les mécanismes de communication entre les pôles de production et de réception. Cela ouvre une perspective vers de formes nouvelles de circulation de l’information, de formes beaucoup plus inclusives et participatives. C’est déjà le cas. On est encore dans une phase un peu éparse dans laquelle une culture doit encore se construire sur la manière dont on peut interpréter collectivement des images produites collectivement.

    https://aoc.media/entretien/2023/08/11/francesco-sebregondi-on-ne-peut-pas-dissocier-les-violences-policieres-de-la-

    #racisme #violences_policières

    ping @karine4

    • INDEX

      INDEX est une ONG d’investigation indépendante, à but non-lucratif, créée en France en 2020.

      Nous enquêtons et produisons des rapports d’expertise sur des faits allégués de violence, de violations des libertés fondamentales ou des droits humains.

      Nos enquêtes réunissent un réseau indépendant de journalistes, de chercheur·es, de vidéastes, d’ingénieur·es, d’architectes, ou de juristes.

      Nos domaines d’expertise comprennent l’investigation en sources ouvertes, l’analyse audiovisuelle et la reconstitution numérique en 3D.

      https://www.index.ngo

  • L’#immobilier en France, porte d’entrée du blanchiment : 7,3 millions de #parcelles sans #propriétaire identifié
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2023/07/05/l-immobilier-en-france-porte-d-entree-du-blanchiment-7-3-millions-de-parcell

    En pleine incertitude sur l’avenir d’#Anticor, qui vient de perdre son agrément, voici une illustration concrète de l’utilité publique des #ONG #anticorruption. Alors que l’achat de biens immobiliers reste une voie royale pour blanchir de l’argent d’origine criminelle, mais qu’il n’existe aucune donnée macroéconomique pour étalonner le risque en #France, Transparency International et sa section française, associées au collectif #Anti-Corruption #Data Collective, comblent le vide. Ensemble, ils publient, mercredi 5 juillet, un rapport détaillé sur le sujet intitulé « Face au mur ».

    Cette radiographie inédite du territoire est riche en révélations. Elle montre que 11 % des parcelles cadastrales françaises – plus de 10 millions sur 98 millions – sont détenues par l’entremise de sociétés privées (sociétés civiles immobilières, sociétés anonymes, etc.), et que, dans trois quarts des cas, l’identité des propriétaires réels n’est pas renseignée dans les registres accessibles publiquement. Ce qui représente le chiffre choc de 7,3 millions de parcelles détenues anonymement, soit par des sociétés françaises, qui ne remplissent pas leurs obligations légales de déclaration de « bénéficiaires effectifs », soit par des sociétés étrangères, non tenues à cet exercice de transparence. Ces données manquantes empêchent la société civile d’exercer son rôle de vigie : les journalistes et les ONG sont en particulier privés d’informations précieuses pour nourrir leurs enquêtes ou révéler des scandales financiers.

    Pour parvenir à ces constats, plusieurs mois de travail ont été nécessaires à Transparency et Anti-Corruption Data Collective. Il a fallu compiler, agréger et comparer les données publiques existant sur les sociétés et sur les biens immobiliers (registre des bénéficiaires effectifs de sociétés, registre des actifs immobiliers détenus par des personnes morales, cadastre, etc.).

    « On est loin du “tout est sous contrôle” »

    Si cette #enquête force l’attention, c’est parce que le blanchiment à travers l’immobilier – secteur-clé de l’économie, avec 11 % du PIB et plus d’un million de transactions chaque année – constitue « une menace élevée » en France, ainsi que le signalait le Conseil d’orientation de la lutte contre le blanchiment de capitaux et le financement du terrorisme dans son « analyse nationale des risques » de janvier. Ce risque est maximal dans l’immobilier résidentiel de luxe, où la possibilité de recycler dans l’économie légale de très grosses sommes d’argent issues de crimes et de délits (trafic de drogue, fraude fiscale, corruption, traite d’êtres humains, etc.) s’ajoute à la difficulté pour les autorités à mener des contrôles, en raison de l’absence de référentiel de prix.

    Surtout, les chiffres de #Transparency révèlent un niveau d’opacité maximal lorsque les achats se font par l’entremise de sociétés, et en particulier celles immatriculées à l’étranger. C’est ainsi que les schémas de blanchiment régulièrement appréhendés par #Tracfin, la cellule #antiblanchiment de #Bercy, comportent immanquablement des sociétés écrans, créées à l’étranger, pour dissimuler l’origine des fonds.

    « On est loin du “tout est sous contrôle”, qui est le discours officiel des autorités, constate Sara Brimbeuf de Transparency International France. On est face à un véritable mur d’opacité, qui empêche le suivi des flux d’argent sale dans l’immobilier français. L’Etat doit réagir. » « Tout le monde sait que l’immobilier résidentiel de luxe français, dans l’Ouest parisien ou sur la Côte d’Azur, est prisé par les kleptocrates », ajoute Mme Brimbeuf.