• Une entreprise bretonne au cœur du financement de l’#extrême_droite [Enquête]

    Pour financer sa campagne électorale, #Éric_Zemmour a notamment fait appel à une discrète agence de communication de Redon (35). Discrète, mais stratégique : le carnet d’adresses de son dirigeant, #Tristan_Mordrelle, donne accès à une large frange de l’extrême droite. Il en est aussi l’un des meilleurs collecteurs de fonds.

    https://www.letelegramme.fr/dossiers/les-coulisses-du-financement-de-lextreme-droite/un-groupe-breton-au-coeur-du-financement-de-l-extreme-droite-enquete-18
    https://justpaste.it/7pztp

    Via https://twitter.com/HChambo/status/1516129443311411208

    #bretagne #Marine_Le_Pen

  • Decolonize your eyes, Padova.. Pratiche visuali di decolonizzazione della città

    Introduzione
    Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
    Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
    Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
    Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

    L’Europa è indifendibile
    L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
    A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
    La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
    Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
    Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
    La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
    Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
    Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
    L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
    I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
    Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

    Pratiche visuali di decolonizzazione della città
    Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
    Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
    Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
    D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
    Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
    Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
    Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

    «Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
    Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
    Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
    Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
    Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

    Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
    Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
    Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
    Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

    Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

    L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
    Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
    Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
    Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
    Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

    L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

    La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

    Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
    Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
    «Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
    L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

    Note
    [1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
    [2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
    [3] Archivio Marx-Engels
    [4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
    [5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
    [6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
    [7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

    Bibliografia
    Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
    Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
    Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
    Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
    Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
    Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
    Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
    Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
    Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
    Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

    https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della
    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue

    ping @cede (même si c’est en italien...)

  • « Mélenchon a mobilisé un électorat qui ne votait plus » Didier Eribon :
    https://www.mediapart.fr/journal/france/140422/didier-eribon-melenchon-mobilise-un-electorat-qui-ne-votait-plus

    Dans Retour à Reims (Fayard, 2009), récemment adapté au cinéma par Jean-Gabriel Périot, le philosophe et sociologue Didier Eribon analyse, à travers le récit intime de sa famille, le glissement du vote de la classe ouvrière du communisme vers le Front national (FN), puis le Rassemblement national (RN). Le résultat du premier tour de l’élection présidentielle, le 10 avril, confirme selon lui l’inscription dans le temps d’un « vote de classe » favorable à l’extrême droite.

    Une partie des causes de ce basculement est à chercher dans la conversion au néolibéralisme du Parti socialiste (PS), qui a « créé de la colère, de l’abstention, et finalement le vote » des classes populaires qu’il devait représenter contre lui – c’était l’objet de son essai, D’une révolution conservatrice et de ses effets sur la gauche française (Léo Scheer, 2007). Le score piteux du PS (1,75 %) marque à ce titre « l’aboutissement d’un processus entamé au début des années 1980 », et qui a abouti à l’élection d’Emmanuel Macron en 2017, explique-t-il.

    Il estime cependant que la dynamique de Jean-Luc Mélenchon (qu’il a soutenu publiquement), plébiscité dans les quartiers populaires, peut être de nature à faire dérailler l’anéantissement « programmé » de la gauche.

    Le premier enseignement de ce premier tour de l’élection présidentielle, c’est que l’extrême droite obtient plus de 30 % des voix, et qu’elle s’installe pour la deuxième fois consécutive au deuxième tour de ce scrutin. Comment interprétez-vous ce phénomène structurant de la vie politique française ?

    Didier Eribon : Je crois que malheureusement le vote à l’extrême droite est bien installé. Cela s’est produit progressivement, depuis le milieu des années 1980. Au départ, c’était en grande partie un vote de protestation. Quand j’ai demandé à ma mère pourquoi elle avait voté Le Pen pour la première fois, elle m’a dit : « Pour donner un coup de semonce ». La deuxième fois, c’était sans doute pour donner un deuxième coup de semonce. Et la troisième fois, cela devient le vote naturel qui a remplacé celui d’autrefois pour la gauche.

    Cela signifie que c’est toute la perception du monde qui change. Les conversations quotidiennes, le rapport aux autres, aux partis politiques, à ses propres aspirations personnelles. Le vote n’est pas seulement un acte électoral.
    C’est aussi une sorte de culture au sens très large du terme. Comme je le disais dans Retour à Reims, dans ma famille, on ne votait pas seulement pour le Parti communiste français (PCF) : c’était toute une culture qui allait avec. On parlait le langage du Parti communiste. Il y avait une culture communiste, qui s’est délitée, laissant les individus à l’état d’abandon politico-idéologique.

    C’est, bien sûr, lié à la transformation du monde du travail. Quand ma mère était ouvrière, dans les années 1970 et 1980, aux Verreries mécaniques champenoises, il y avait 1 700 ouvriers, dont 500 étaient membres de la CGT. C’était une force mobilisable, et souvent mobilisée, une force collective considérable.

    L’usine a fermé dans les années 1980. Les enfants et petits-enfants de ces ouvriers n’ont pas retrouvé de travail dans ce type d’usines, qui fermaient les unes après les autres.
    Quand ils ne sont pas chômeurs, ou au RSA, ou occupant des emplois temporaires, ils travaillent maintenant beaucoup dans la logistique, dans les entrepôts d’Amazon. Or, si vous êtes livreur, que vous travaillez dans un entrepôt, où la syndicalisation est difficile et risquée, il est évident que vous n’avez plus le même rapport à la politique. Vous étiez une force collective, vous êtes devenu un individu isolé.
    Les gens privés de cette culture politique, et du mode d’expression qu’elle leur conférait, se sont reconstitué individuellement et collectivement une autre culture et un autre moyen de s’exprimer : le vote pour le FN, puis le RN. Pour eux, c’est une manière de se constituer collectivement comme sujet politique.

    Ce qui est inquiétant, c’est que ce vote de classe [en faveur de Marine Le Pen] s’est durablement inscrit dans le paysage politique.
    C’est ainsi que Marine Le Pen obtient des scores impressionnants dans l’Aisne, le Pas-de-Calais, le Nord, la Moselle, la Meurthe-et-Moselle, etc., c’est-à-dire les anciens bastions ouvriers, miniers, qui avaient été les berceaux du mouvement ouvrier français, et qui sont désormais désindustrialisés, précarisés, désespérés.
    Si c’est une autre forme de vote ouvrier, de vote des catégories populaires, on peut donc dire que c’est un vote de classe. Ce qui est inquiétant, c’est que ce vote de classe s’est durablement inscrit dans le paysage politique. Il faut alors essayer de comprendre pourquoi. Et on ne peut pas comprendre ce qui se passe si on ne fait pas l’histoire dans le temps long, en remontant à la fin des années 1970.

    Dans votre livre sorti en 2007, D’une révolution conservatrice et de ses effets sur la gauche française, vous situez l’origine de ce que nous vivons au tournant idéologique effectué par le Parti socialiste (PS) dans les années 1980. Pensez-vous qu’avec le score réalisé par le PS à cette élection, 1,75 %, on est arrivés au bout de cette séquence politique ?

    On assiste à l’aboutissement d’un processus entamé au début des années 1980. La démarche critique, politique et intellectuelle a certes reflué par des effets structuraux après l’effervescence des années 1960 et 1970. Mais il y a eu aussi une volonté intellectuelle mise en œuvre par des think tanks dont l’objectif explicite était de défaire tout ce qui faisait que la gauche était la gauche, en démantelant la pensée de gauche, la pensée critique : Foucault, Bourdieu, Derrida étaient – déjà ! – les cibles principales.

    Des cénacles se sont créés, comme la fondation Saint-Simon, créée par François Furet, avec des universitaires, des patrons de l’industrie et de la banque comme Roger Fauroux, Jean Peyrelevade, des journalistes, etc.

    Ils ont activement organisé ce basculement vers la droite du champ politico-intellectuel en combattant la pensée de gauche – François Furet n’avançait pas masqué, puisque sa référence était Raymond Aron. Le Parti socialiste (PS) a été l’un des acteurs et des vecteurs de ce glissement organisé vers la droite. Si vous remplacez la notion de classe sociale, l’idée de mobilisation sociale et l’idée pourtant élémentaire qu’un parti de gauche doit s’appuyer sur ces réalités et sur ces processus, et doit représenter les ouvriers, les précaires, les chômeurs, et porter leur voix dans l’espace public, si tout cela est ignoré, repoussé et combattu idéologiquement, qui va se reconnaître dans ces partis de gauche ?

    Pierre Bourdieu m’avait dit au milieu des années 1990 : « Ce pur produit de l’ENA [École nationale d’administration] qu’est François Hollande, se faisant élire à Tulle, ça veut dire le FN à 20 % dans dix ans. » Que des technocrates élus sous l’étiquette PS dans des régions ouvrières développent des politiques néolibérales destructrices pour les vies des gens qui les ont élus, cela crée de la colère, de l’abstention, et finalement le vote contre ces gens-là.

    C’était devenu aussi naturel pour un de mes frères de voter FN que pour mes parents de voter communiste autrefois. Il n’y a pas eu de transmission d’héritage politique, si ce n’est un héritage de révolte.
    Si les partis de gauche ne représentent plus, ne soutiennent plus, ne se font plus les porte-voix des ouvriers, des précaires, dans la sphère publique, alors ceux qui sont ainsi abandonnés ne votent plus à gauche, ils s’abstiennent ou votent FN. J’ai observé comment quasiment toute ma famille est passée en moins de dix ans d’un vote communiste à un vote FN.

    En écrivant Retour à Reims, je me suis aperçu, par exemple, que c’était devenu aussi naturel pour un de mes frères de voter FN que pour mes parents de voter communiste autrefois. Il n’y a pas eu de transmission d’héritage politique, si ce n’est un héritage de révolte, de colère contre la situation qui est faite aux subalternes, et du vote comme moyen collectif de protestation. Le contenu du vote a changé, mais le geste est le même.

    Si la gauche avait été du côté de Bourdieu au moment de la grande grève de décembre 1995, et pas du côté des cénacles qui la dénonçaient et qui insultaient les grévistes et les intellectuels qui la soutenaient, si elle avait soutenu et représenté les mouvements sociaux au lieu de les combattre, nous n’en serions pas là.

    Les journalistes ont aussi une part de responsabilité. Libération employait contre Bourdieu des vocables que ce journal n’employait même pas contre Le Pen. Dans The Class Ceiling : Why It Pays to Be Privileged, de Sam Friedman et Daniel Laurison, il y a un tableau qui montre que les professions dont l’accès est le plus réservé aux classes supérieures, c’est la médecine puis le journalisme. Cette homogénéité ne peut pas ne pas avoir de conséquences. Cela explique évidemment le soutien de la presse à Emmanuel Macron en 2017 : l’affinité des habitus l’emporte sur les différences de surface.

    Finalement, nous aurions pu vivre en France un scénario à l’italienne, c’est-à-dire une disparition de la gauche ?
    C’était programmé, en effet. Le PS a renoncé depuis longtemps à faire vivre la pensée de gauche. À la parution de mon livre sur la révolution conservatrice, Christian Paul m’avait dit vouloir créer des ateliers pour réinventer cette pensée. Le premier invité était Alain Finkielkraut, et le deuxième était Marcel Gauchet. Réinventer la gauche avec des idéologues aussi réactionnaires ! Vous voyez où on en était.

    Il est évident que quelque chose se jouait à ce moment-là. Le PS s’est de plus en plus dissocié à la fois des classes populaires d’un côté, et des intellectuels de gauche de l’autre. C’est devenu un parti d’énarques dont les références intellectuelles se situent très, très, très à droite.
    Ça a commencé sous Jospin, et l’aboutissement de tous ces processus a été la présidence Hollande, élu contre Sarkozy. Son secrétaire général adjoint était Emmanuel Macron, devenu son ministre de l’économie.
    Rétrospectivement, on se dit : si le ministre de l’économie d’un gouvernement qui se disait de gauche à ce moment-là était Emmanuel Macron, comment aurait-il pu être possible que les classes populaires se reconnaissent dans le PS ? Le divorce, qui était déjà bien entamé, allait devenir un gouffre. C’était évident. Hollande n’a même pas pu se représenter.

    Puis la droite a soutenu Macron, aux côtés de tous les hiérarques socialistes, préoccupés par leurs postes : on a vu Olivier Véran et Muriel Pénicaud gouverner avec Bruno Le Maire et Gérald Darmanin. S’ils peuvent cohabiter dans un même gouvernement, c’est qu’ils pensent tout simplement la même chose. Ils sont les mêmes : des représentants des classes supérieures qui regardent le monde social d’en haut et imposent leurs décisions. Tout cela a provoqué chez les électeurs de gauche un sentiment profond de révolte, de fureur même…

    L’effondrement du PS est l’aboutissement de cette droitisation. Et l’aboutissement logique de cette séquence, c’est Macron, l’enfant idéologique de François Hollande et de la technocratie néolibérale qu’il avait épousée en noces publiques en édictant la loi Travail, et autres mesures du même genre.
    Il n’y a plus besoin d’un PS néolibéral, oxymore qui se retrouve condensé dans la personne d’Emmanuel Macron.
    Macron est l’incarnation de cette séquence historique. Il n’a pas de talent particulier : il est un effet, un produit de ces processus historiques. Il n’y a plus besoin d’un PS néolibéral, oxymore qui se retrouve condensé dans sa personne. Et la vraie droite et la fausse gauche réunies dans leur programme commun.

    C’était le projet de la fondation Saint-Simon dans les années 1980. Réunir droite et gauche au « centre », ce qui veut dire à droite. Au fond, Furet et Rosanvallon étaient les prédécesseurs de Blanquer et Vidal, avec leur assaut contre la pensée critique, qui représentait à leurs yeux une menace pour la « cohésion sociale », le « pacte social », la « rationalité gouvernementale », la « modernité économique », et toutes ces notions qui ressortissent à une perception bourgeoise, conservatrice et autoritaire de la vie politique. Bourdieu était leur cible principale. On voit aujourd’hui le beau résultat de leurs agissements délétères.

    Jean-Luc Mélenchon a-t-il réussi à faire dérailler durablement ce scénario à l’italienne programmé depuis les années 1980 ? Est-il de nature à desserrer l’étau qui nous enferme dans l’alternative entre l’extrême droite et l’extrême libéralisme de Macron ?

    C’est l’autre phénomène le plus frappant de cette élection de 2022 : la dynamique qu’a su créer Jean-Luc Mélenchon en mobilisant les énergies à gauche, sur un programme élaboré. Ce succès est insuffisant, mais tout de même incroyable. Il faut s’interroger sur ce que ça peut signifier pour les possibilités futures de recréer une dynamique de gauche.
    Sartre dit, dans un entretien, qu’il y avait une puissante force collective de transformation sociale en mai 1968, qui s’est effondrée quand chacun s’est retrouvé dans l’isoloir, le 30 juin. Le régime gaulliste a été sauvé par les votes des millions de travailleurs dont les grèves l’avaient si brutalement ébranlé.

    Au fond, le PS des années 1980, 1990, 2000 a rêvé, comme la droite, d’un 30 juin permanent, c’est-à-dire de la fin de la protestation sociale et la soumission des gouvernés aux décisions des gouvernants. Ce à quoi il est urgent et nécessaire d’opposer un « Mai 68 » permanent ou en tout cas un « esprit de 68 ».
    Mélenchon a su faire passer l’idée qu’une dynamique de gauche était encore possible dans les manifestations, mais aussi à travers le vote, pensé comme un acte de reconstitution d’une force qui va compter.

    Je pense que les mouvements sociaux de ces dernières années ont réinventé une dimension collective de la perception de soi. La violence de la répression subie par ces mouvements a accentué cette dimension collective. Et, cette fois-ci, Mélenchon a su faire passer l’idée qu’une dynamique de gauche était encore possible dans les manifestations, mais aussi à travers le vote, pensé comme un acte de regroupement, de reconstitution d’une force qui va compter, qui va peser. On n’est plus les objets de la décision politique, on redevient des sujets.

    Olivier Masclet a écrit un livre important sur la manière dont la gauche n’a jamais su s’intéresser aux énergies dans les quartiers populaires [La gauche et les cités. Enquête sur un rendez-vous manqué, 2006 – ndlr]. La gauche a méprisé, oublié les habitants de ces quartiers. Ils ne vont plus voter. Mélenchon a su les respecter, les défendre, les soutenir et leur faire considérer qu’ils pouvaient se faire entendre dans l’espace public par le moyen de leur vote.
    On voit ce qui s’est passé à Marseille, à Roubaix, ou en Seine-Saint-Denis : une bonne partie du vote des quartiers populaires s’est portée sur son nom. Il a mobilisé un électorat qui ne votait plus. Mélenchon, malgré toutes les critiques que je peux lui faire, a réussi à recréer une dynamique de gauche.

    Mais est-ce durable ? Mélenchon a fait des scores importants dans l’ancienne ceinture rouge de la banlieue parisienne, où le PCF n’existe plus. Mais La France insoumise (LFI) n’a pas les structures partisanes du PCF de la grande époque…
    Il est entouré d’une équipe de gens très talentueux, dont j’admire le travail et l’engagement. Maintenant, il est vrai qu’ils n’ont pas beaucoup de mairies, ni d’implantation dans des structures stables comme le PCF ou le PS, dans les régions ouvrières du Nord, en avaient autrefois. J’imagine que les Insoumis s’en préoccupent.
    Jean-Luc Mélenchon a rassemblé plus de 22 % des suffrages au niveau national et réalisé une percée spectaculaire dans les grandes villes et les banlieues alentour.

    Quand le meeting, la manifestation, l’élection s’arrêtent, il faut faire perdurer la mobilisation dans le « pratico-inerte », selon le mot de Sartre, rappelé par Geoffroy de Lagasnerie dans Sortir de notre impuissance politique : c’est-à-dire dans la vie quotidienne, sur les lieux de travail, dans les quartiers, etc.
    Ce n’est pas simple. Et je ne donne pas de leçons. Je sais que cela ne se décrète pas. Il faut aussi que des gens le veuillent et le puissent, alors qu’ils ont des préoccupations quotidiennes plus urgentes. Le vote ouvrier (blanc et non diplômé) du Nord et de l’Est est d’ailleurs allé globalement davantage à Marine Le Pen, alors que celui des jeunes urbains des villes universitaires (Nantes, Grenoble…) est allé à Mélenchon.
    Ce sont des blocs importants, dans les deux cas, la question étant pour la gauche de savoir comment les rapprocher, les réconcilier.

    Cette composition de son électorat ne donne-t-elle pas finalement raison au rapport de Terra Nova sorti en 2011 (« Gauche : quelle majorité électorale pour 2012 »), dans lequel on lisait : « La classe ouvrière n’est plus le cœur du vote de gauche, elle n’est plus en phase avec l’ensemble de ses valeurs. » L’électorat de Mélenchon, urbain, jeune, diplômé, ne confirme-t-il pas ce rapport, malgré lui ?

    Pour moi, ça ne donne pas du tout raison à Terra Nova, car leur rapport concluait qu’il ne faut plus s’occuper des classes populaires, qu’elles seraient définitivement perdues. Si vous voulez seulement vous occuper du féminisme, de l’écologie et du mouvement LGBT (et je n’ai pas besoin de préciser à quel point ces mouvements sont importants à mes yeux), délaissant les questions sociales, vous laissez des pans entiers de la société en déshérence politique, sans cadre pour se penser, et qui finissent par voter FN, ou qui continueront à le faire...

    Ce rapport était un signe supplémentaire que la bourgeoisie socialiste cherchait à justifier son effacement des questions ouvrières. David Gaborieau, un sociologue qui travaille sur les métiers de la logistique et les entrepôts d’Amazon, montre bien qu’il y a une classe ouvrière nouvelle, qui ne ressemble pas à celle des années 1950 ou 1960.
    Il suffit de voir le film de Ken Loach, Sorry We Missed You, pour le comprendre. La classe ouvrière aujourd’hui, c’est, pour une bonne part, le livreur Amazon et l’aide à domicile. Mais sans la grande usine, comment se mobiliser ? Il n’y a plus de lieu où peut se créer la solidarité de classe.
    Au lieu de les effacer du paysage intellectuel et organisationnel de la gauche, il faut au contraire les y intégrer en multipliant et renforçant les organisations syndicales et politiques qui offrent à cette nouvelle classe ouvrière les moyens de se penser comme sujet politique collectif.

    Vous plaidez pour le retour d’un discours de classe ?

    La classe ouvrière est une réalité économique et objective. Mais c’est aussi une production discursive performative. Il y a des classes sociales, parce que Marx a dit qu’il y avait des classes, et la théorie, en proposant une perception du monde, façonne la réalité et notamment celle des luttes.
    Il faut repenser, retravailler ces cadres théoriques qu’on ne peut jamais tenir pour acquis et définitifs. La réalité change. La théorie doit changer. La grande tâche de LFI est d’élaborer un tel cadre théorique, qui donne un cadre politique pour se penser soi-même comme une force collective de gauche.

    Quand le PCF faisait ses meilleurs scores (plus de 20 % des voix), c’étaient à peu près 30 % à 40 % des ouvriers qui votaient pour lui, et les autres, c’étaient des enseignants, des employés, le monde de la culture, etc. Pourtant, ce parti se présentait comme le parti de la classe ouvrière et, d’une certaine manière, il l’était effectivement. Il l’était pour mes parents, ma famille, des millions d’autres, même si de nombreux ouvriers votaient à droite.

    Le cadre discursif produit performativement le creuset, le foyer politique, dans lequel un « bloc », pour parler comme Gramsci, constitué de catégories différentes, peut s’agréger.
    Je n’adhère pas à l’idée d’un “populisme de gauche”. L’idée de “peuple” ne peut pas venir remplacer l’idée de classe.
    Et je ne pense pas que le concept central puisse en être la notion de « peuple ». Je n’adhère pas à l’idée d’un « populisme de gauche », même dans la version éminemment sophistiquée et séduisante qu’en propose mon amie Chantal Mouffe.

    L’idée de « peuple » ne peut pas venir remplacer l’idée de classe, même s’il s’agit d’articuler les « équivalences » entre différents mouvements – classe, genre, race, écologie... La notion de « peuple » peut paraître combler les manques de la notion de classe mais elle revient à dire qu’une demande sociale ne devient politique que si elle se réfère à une notion commune de « peuple » et se transcende dans cette notion.

    Il me semble qu’il faut au contraire penser la multiplicité, la spécificité et l’autonomie des mouvements, chacun ayant ses traditions, ses revendications, ses formes d’organisation, ses divergences internes… Disons que ce serait déployer une activité critique généralisée, tant théorique que pratique, pour défaire les différentes formes instituées de pouvoir et de domination.

    La notion de « peuple » construit la politique en référence à une identité fictive, alors que, selon moi, il faut ancrer la politique dans les expériences et les identités vécues, les oppressions concrètes…. Et il incombe aux organisations politiques telles que LFI d’essayer de « travailler avec » tous ces mouvements pour proposer des débouchés politiques effectifs. Cela s’appelle la gauche. Une démarche de gauche.
    À l’aune de la campagne de Mélenchon en 2022, peut-on dire que le « moment populiste » de 2017 est terminé ?
    Je ne sais pas. Il peut prendre d’autres formes. Ou resurgir plus tard ou ailleurs. Et cela peut toujours avoir des effets mobilisateurs. Mais l’essentiel pour moi n’est pas là. Je crois qu’opposer le « peuple » à la « caste », ou à l’ « oligarchie », n’est pas une stratégie pertinente ni viable à long terme.
    On voit ce que ça a produit en Espagne, où les fascistes de Vox sont à 18 %, en prétendant défendre le « peuple », et Podemos à 10 ou 11 %. L’idée de peuple est dangereuse à manipuler. Marine Le Pen peut très bien elle aussi opposer le « peuple » à « l’oligarchie ». Si « peuple » est un « signifiant vide », comme le disent Laclau et Mouffe, on peut hélas y mettre ce qu’on veut, et cela ne correspond pas toujours aux souhaits agréables de ces deux auteurs.

    Il est plus difficile pour l’extrême droite de se réclamer d’une idée de « classe ouvrière » organisée, de mobilisations sociales ancrées dans une perspective de justice sociale, de solidarité collective, de protection sociale, d’égalité, de développement des droits sociaux…
    Un des défis de LFI est de construire un cadre qui puisse rendre compte des transformations de la classe ouvrière : la précarisation, le chômage… Comment s’adresser au père ou à la mère d’Édouard Louis, qui sont au RSA et qu’on menace de radier s’ils ne reprennent pas un travail, alors qu’ils ont le dos brisé, les articulations usées, et qui ont souvent voté FN ? Il faut justement leur donner un moyen de s’exprimer qui ne passe pas par le vote Le Pen. Un programme social comme celui de LFI peut contribuer à ce changement.
    Je suis frappé quand on dit de Mélenchon qu’il est de gauche radicale. Mélenchon a un projet social-démocrate classique. Dans L’Esprit de 45, Ken Loach montre bien ce qu’était le projet des travaillistes britanniques après la Deuxième Guerre mondiale : création de services publics dans tous les secteurs, nationalisations… C’est ce projet, largement réalisé, que la droite s’est acharnée à détruire par la suite avec le thatchérisme, et qu’aujourd’hui on considérerait comme extrémiste, quasiment soviétique.
    Mélenchon ne pourrait même pas envisager d’aller si loin. Celui qui a un programme extrémiste, c’est Macron, il est du côté du thatchérisme, de la violence sociale du néolibéralisme.

    L’électorat de Mélenchon se divise sur l’attitude à avoir au deuxième tour. Il a donné pour consigne de ne pas donner une seule voix à l’extrême droite, mais ça ne suffira peut-être pas…
    Tous mes amis ont voté pour Mélenchon et, évidemment, personne ne songe, même une seule seconde, à voter Marine Le Pen. Cela va de soi. Certains vont se résigner à voter Macron, malgré le dégoût profond qu’il leur inspire…
    Mais nous ne sommes pas représentatifs de l’électorat de Mélenchon, et il est possible que la colère contre Macron soit si forte que certains dans d’autres catégories sociales soient prêts à faire n’importe quoi pour le lui faire savoir.
    Il m’est difficile de voter pour quelqu’un qui, à chaque fois que j’ai voulu exprimer mon opinion, m’a envoyé la police la plus violemment répressive.
    Plusieurs de mes amis vont s’abstenir. Et c’est ce que je vais faire aussi. Il m’est difficile de voter pour quelqu’un qui, à chaque fois que j’ai voulu exprimer mon opinion, m’a envoyé la police la plus violemment répressive, m’a asphyxié dans des nuages de gaz lacrymogène, a terrorisé des gens pour qu’ils ne manifestent plus. Selon l’Observatoire des street-médics, il y a eu 28 000 blessés dans les manifestations entre fin 2018 et début 2020. Le bilan du macronisme est effarant.

    Et puis, il ne faut pas inverser les responsabilités. J’ai soutenu les grèves de 1995, j’ai manifesté contre la loi Travail, contre les réformes des retraites, j’ai soutenu l’hôpital public, j’ai prévenu que la destruction des services publics et l’appauvrissement et la précarisation des plus pauvres allaient faire monter l’extrême droite.
    Depuis 30 ans, je « fais barrage ». J’ai écrit avant le premier tour de 2017 que voter Macron aurait pour résultat inéluctable de faire monter Le Pen. J’avais raison. Ceux qui nous ont combattus, insultés, réprimés sont les responsables de la situation actuelle. Les responsables, ce sont ceux qui ont installé le macronisme, soutenu cette politique ! Pas moi !

    J’ajoute que ceux qui voulaient faire barrage à Marine Le Pen avaient un moyen très simple : voter pour Mélenchon au premier tour. Il lui a manqué un point. Et je n’oublie pas que ceux qui viennent donner des leçons aujourd’hui allaient jusqu’à proclamer que, en cas de deuxième tour entre Mélenchon et Le Pen, ils s’abstiendraient, ou même iraient jusqu’à voter Le Pen. Je n’invente rien !
    Et ils viennent nous dire désormais que s’abstenir, c’est être complice de Le Pen, alors qu’ils étaient prêts à voter pour elle, il y a encore quelques jours ? On croit rêver.

    La possible victoire de Marine Le Pen, alors qu’on sait ce qu’elle ferait si elle arrivait au pouvoir, ne vous oblige-t-elle pas, justement, à faire barrage malgré tout ?

    Je pense vraiment qu’il y a fort peu de chances pour que Le Pen puisse gagner cette élection. Le risque est très faible, quasiment inexistant. On essaie de nous faire peur pour augmenter le score de Macron afin qu’il puisse ensuite affirmer que son projet a été soutenu par un grand nombre d’électeurs.
    Et dès qu’il sera élu, il reprendra sa politique de démolition, et accueillera tous ceux qui voudront protester avec des charges policières, des grenades lacrymogènes, des « balles de défense », provoquant à nouveau blessures et mutilations.

    Ce n’est donc pas seulement que je ne veux pas voter pour Macron, c’est que je ne peux pas. La politique de classe qu’il incarne me révulse. Il a fait barrage aux mouvement sociaux, aux revendications syndicales, aux demandes sociales.
    Il a fait barrage aux libertés publiques, à la démocratie. Il nous dit qu’il va changer, qu’il va écouter, mais c’est évidemment une obscène plaisanterie. Comment pourrait-il changer ? Non, sauf dans le cas tout à fait improbable où les sondages indiqueraient qu’il existe un danger réel, je ne voterai pas pour lui.

    #PS #LFI #vote #présidentielle #abstention sauf si

    • Ni Macrine Ni Maron, Révolution !
      https://oclibertaire.lautre.net/spip.php?article3119

      A la vérité, les discours d’En marche et du Rassemblement national se sont rapprochés, et le quinquennat macronien a contribué à rendre moins inquiétante la perspective d’un quinquennat lepénien : quand s’installe une fascisation des pratiques et des pensées, le fascisme n’est plus un épouvantail très efficace. D’où la crainte qu’ont certains de voir la mégère soudain déguisée en douce bergère l’emporter cette fois sur le bellâtre moderniste qui s’est avéré un vrai père tape-dur. Invoquer les « valeurs morales » d’un « patrimoine humaniste rempart contre le fascisme » ne devrait pourtant pas suffire à faire oublier la gestion de la société par Macron à qui l’a subie au quotidien. En revanche, le « vote utile » fait en sa faveur le 10 avril par une partie de l’électorat des Républicains et du PS, et dans une moindre mesure des écologistes, montre que cette gestion satisfait une fraction de la population – celle qui en tire avantage : les managers, banquiers, DRH, entrepreneurs de start-up, technocrates de la croissance et de l’environnement, fonctionnaires installés, rentiers et retraités privilégiés. Et c’est grâce à ce vote opportuniste de partisans de la gauche et de la droite réunis au centre que Macron est de nouveau au second tour, car l’ensemble doit bien représenter 10 % des suffrages qu’il a obtenus. Le résultat du premier tour ne traduit donc pas tant une opinion ou un choix politique que la défense de leurs intérêts matériels par tous ceux et celles qui auraient eu quelque chose à perdre avec un duel Mélenchon-Le Pen.

      L’impulsion du prétendu « ni gauche ni droite, mais en même temps l’une et l’autre » a été donnée dès avant 2017 : sous Hollande, la social-démocratie était déjà la seconde main droite de la bourgeoisie. Et ce « ni gauche ni droite, mais en même temps l’une et l’autre » a également permis de crédibiliser un RN dont le « ni de droite ni de gauche, mais du peuple ou de la nation » ne faisait jusque-là pas massivement illusion.

      Alors que se profile le second show Macron-Le Pen, on réentend les cris d’orfraie poussés par certains « démocrates [1] » ou « radicaux [2] » face à la « menace fasciste » : il est fort peu probable que Le Pen gagne, mais l’inconstance de l’électorat futile peut réserver des surprises – nombre de participant·es aux précédents « votes de barrage » ont juré qu’on ne les y prendrait plus, hein, et l’idée qu’« en votant Marine ça pétera enfin » est émise ici ou là. Et l’extrême gauche tombe une fois de plus dans le piège de l’antifascisme, car son appel à dire « non » à l’extrême droite passe par la réélection du Président sortant dont elle a critiqué l’action pendant cinq ans. Le scénario est si rodé qu’on ne nous propose même plus guère de le faire en se bouchant le nez et en nous promettant un « second tour social »… Mais qu’est-ce qui pourrait bien pousser les révolutionnaires à prendre position dans ce vaudeville bourgeois ?

      Si Macron sert la modernisation de l’exploitation dont le capital transnational a besoin, et si Le Pen est historiquement condamnée pour sa crispation sur un capital réduit à une sphère nationale bien illusoire à l’heure de la mondialisation, ils ont l’un et l’autre pour seul programme toujours plus de croissance au profit de qui détient les moyens de production. Renier ses convictions pour inciter à choisir un camp du capital contre l’autre serait donc non seulement aberrant, mais reviendrait à se tirer une nouvelle balle dans le pied. Pour notre part, nous n’appellerons pas à voter pour ou contre Machine ou Truc, mais un élément important sera à prendre en considération : l’importance du nombre de gens qui ne se laisseront pas prendre au piège du vote Macron. C’est un peu ce baromètre qui donnera des indications sur le contenu des luttes à venir et sur l’état de la fracture entre une partie des prolétaires et leurs représentations/institutions, fracture que nous devons contribuer à élargir alors que les « fronts républicains » ou autres tentent de les réduire.

    • Le Pen :

      Présomption de légitime défense pour les forces de l’ordre. Toute violence policière ou presque sera légitimée.
      Les policiers pourront de façon anonyme porter plainte pour des attaques dont ils seraient victimes. Cela ne laissera aucune possibilité pour la personne mise en cause de vérifier la véracité des faits qui lui sont reprochés.

      Référendum sur l’immigration et l’identité. Pour mettre la Préférence nationale dans la Constitution.
      Interdiction du port du voile
      Suppression de l’aide médicale d’État (AME) qui privera les sans-papiers d’accès aux soins.
      Menace de « sanctions pénales » contre les gens aidant des sans-papiers.
      Expulsion des non-Français des logements sociaux. Suppression des prestations familiales aux étrangers vivants en France.
      Fin de l’acquisition automatique de la nationalité française par mariage, réduction du nombre de naturalisations, impossibilité de régulariser les personnes en situation irrégulière.
      Suppression de la "présomption de minorité" des mineurs étrangers non accompagnés, tant qu’on n’a pas vérifié leur age, ils seront sans aucun droit.

      Cantonner les syndicats à l’entreprise, pour qu’ils ne s’impliquent surtout pas dans la vie de la cité.

      Prison : recours généralisé à des peines de prison ferme, présentées comme la seule sanction efficace, réduction des aménagements de peines et les courtes peines devront être effectuées en prison.

  • Allemagne, un mouvement anarchiste méconnu
    https://www.partage-noir.fr/allemagne-un-mouvement-anarchiste-meconnu

    L’histoire du mouvement anarchiste allemand est à peu près inconnue eh France. Certes, on a entendu parler de militants comme #Gustav_Landauer, #Erich_Mühsam ou #Rudolf_Rocker sans pour autant saisir la portée réelle de leur engagement ni avoir une approche conséquente du mouvement anarchiste organisé. Ce manque de connaissance est en partie lié à l’absence de traductions des ouvrages laissés par ces grands défenseurs de l’anarchie. Pourtant, l’histoire du mouvement anarchiste allemand est riche. Les (...) [Partages noirs]

    / Erich Mühsam, Gustav Landauer, Rudolf Rocker, #Ernst_Toller, #Itinéraire_-_Une_vie,_une_pensée, [Source : (...)

    #[Partages_noirs] #[Source :_@narlivres]
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/itineraire_rocker2-2.pdf

  • Faire chanter les lendemains - La Vie des idées
    https://laviedesidees.fr/Gueguen-Jeanpierre-La-perspective-du-possible.html

    La perspective du livre n’est jamais purement théorique. Le lecteur est prévenu dès l’introduction : « Comment faire de ce savoir neuf et fragile une arme de la pensée critique, la clé éventuelle d’un nouvel agir transformateur et libérateur ? » (p. 11). La phrase est remarquable : la perspective émancipatrice, qui s’exprime dans le lexique traditionnel de la gauche radicale, n’en est pas moins reconfigurée par la double référence à la fragilité du savoir produit et au caractère incertain des potentialités de la clé forgée par les serruriers critiques. On pourrait traduire ce point de vue en disant que les lendemains possibles pourraient peut-être chanter. À ce titre le passionnant réarmement théorique que l’ouvrage propose s’inscrit dans ce qu’on pourrait appeler le réalisme inévitable que les sciences sociales promeuvent en mettant au jour simultanément les déterminations qui nous font agir et la contingence qui frappe d’incertitude toutes nos actions, notamment parce qu’elles sont toujours susceptibles de dévier de leur trajectoire déterminée ou parce qu’elles ont nécessairement des conséquences non prévues (unintended consequences selon la définition de Robert K. Merton). On est proche ici de ce que Pierre Bourdieu appelait judicieusement une Realpolitik de la raison.

    Une enquête historique sur le concept de possible

    L’ouvrage est construit à partir d’une succession de neuf chapitres, ouverte par un prélude, entrecoupé par un interlude et conclu par un épilogue. Les cinq chapitres qui précèdent l’interlude relèvent de l’histoire des idées : Aristote, Marx, Weber, Mannheim, Lukacs et Ernst Bloch sont relus avec rigueur et originalité. L’assise de la théorie critique est présente et permet de confronter la puissance de diverses conceptualisations fortement liées entre elles. L’intérêt manifesté pour les grands textes n’est pas l’effet d’un habitus scolastique pas plus que la manifestation du rêve d’un retour à la grande théorie. Les concepts sont en effet traités dans la mesure où ils informent l’enquête sur les possibles. Si des auteurs plus récents sont fréquemment invités à la table du possible, comme Bourdieu, Boltanski, Habermas, Karsenti et Latour, la présence de l’école de Francfort est frappante, comme une sorte de matrice indépassable de la pensée critique. Les quatre chapitres situés après l’interlude, qu’on peut considérer comme une seconde partie, sont centrés autour d’une enquête sur les conditions de possibilité d’une praxéologie des possibles orientée par l’analyse d’utopies concrètes ou d’utopies réelles.

    #pensée_critique #livre

  • #Ernst_Toller (1893-1939) : Dramaturge de la révolte
    https://www.partage-noir.fr/ernst-toller-1893-1939-dramaturge-de-la-revolte

    Fils de commerçant juif, né en 1893 à Samotschin (partie de la Pologne annexée alors par la Prusse), Ernst Toller s’engage volontairement lors de la Première guerre mondiale. Réformé pour sa mauvaise santé, il devient un ardent antimilitariste et sa révolte remet radicalement en cause toutes les valeurs des générations de ses pairs. Sa propagande pacifiste lui vaut des poursuites. En 1919, il participe à la République des conseils de Bavière. Il est membre du gouvernement révolutionnaire. Condamné à (...) [Partages noirs]

    / Ernst Toller, Révolution allemande (1918-1919], Révolution espagnole (1936-1939), [Source : @narlivres], Itinéraire - Une vie, une (...)

    #[Partages_noirs] #Révolution_allemande_1918-1919] #Révolution_espagnole_1936-1939_ #[Source :_@narlivres] #Itinéraire_-_Une_vie,_une_pensée
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/itineraire_rocker2.pdf

  • IRGC warns Israel after missile strike on Mossad bases in Erbil
    https://www.presstv.ir/Detail/2022/03/13/678473/Iran-IRGC-Missile-Attack-Israel-Erbil

    Iran’s Islamic Revolution Guards Corps (IRGC) has issued a stern warning to Israel following a retaliatory missile strike on the “strategic center of Zionist conspiracy and evil” in the northern Iraqi Kurdistan city of Erbil.

    In a statement issued Sunday, the IRGC indicated that the operation was in response to an Israeli airstrike on the Syrian capital of Damascus last Monday, in which two IRGC officers were killed.
    “Following the recent crimes of the fake Zionist regime and the previous announcement that the crimes and evils of this infamous regime will not go unanswered, the strategic center for conspiracy and evil of the Zionists was targeted by powerful and pinpoint missiles of the Islamic Revolution Guards Corps,” it said. (...)

    #IsraelIran #Irak #Kurdistan

    • Covert drone war between Israel and Iran goes public with missile launch on Iraq
      Amos Harel | Mar. 13, 2022 | 10:48 PM - Haaretz.com
      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-covert-drone-war-between-israel-and-iran-goes-public-with-missile-

      Tehran has adopted a policy of responding to any attack against it attributed to Israel, such as the one last week in Syria. Meanwhile, Israel fears new demands would see Iran getting more out of Vienna nuclear talks

      Iran’s claim of responsibility for this weekend’s missile launches at Irbil, the capital of Iraqi Kurdistan, revealed a bit about the war of drones, missiles and cyber that the Islamic Republic and Israel have been waging for a long time.

      Some of the blows the enemies exchange are landed under the radar; others are publicized only after some time. But in practice, Israel and Iran have been clashing directly for five years now, and there has been a clear trend of escalation. One could list key incidents such as the downing of an Iranian drone that had penetrated Israeli airspace in February 2018 and Iran’s attempted cyberattack on Israel’s water system in April 2020.

      In general, it’s clear the Iranians have adopted a policy of responding to any significant Israeli attack, and certainly to any attack that causes them casualties. And last week, two officers in the Iranian Revolutionary Guards were reportedly killed in an alleged Israeli air strike in Syria, not far from the Damascus airport.

      But the time that elapsed between these two incidents may actually be too short. It’s possible the Iranians were responding to earlier attacks against them.

      The missiles were fired at Irbil overnight on Saturday. At first, there was speculation that the target was American, but later, media outlets close to Iran said the target had been Israeli.

      At noon on Sunday, the Revolutionary Guards announced that they had carried out the attack and described the target as Israeli “strategic centers.” They also warned Israel that next time, the response will be a “harsh, decisive and destructive response.”

      The Lebanese television station Al Mayadeen, which is close to both Hezbollah and Iran, added further details. It said the attack was an Iranian retaliation for an incident in mid-February, when Israeli drones launched from Iraqi Kurdistan hit an Iranian base and caused substantial damage. It also said the overnight strike on Irbil killed and wounded many Israeli soldiers, but that claim doesn’t seem credible.

      This isn’t the first time the Iranians have claimed there is a secret Israeli base in Irbil. In April 2021, the Iranian media reported that Iran had launched drones and missiles at that same location, near the Irbil airport, and that the attack had wounded Mossad agents.

      Foreign media outlets have for years reported that secret Israeli activity was taking place in both Kurdistan and Azerbaijan, both of which border Iran. In principle, this sounds reasonable, since an Israeli presence in those places would greatly reduce the range for Israeli attacks on Iranian targets.

      In this regard, the American disclaimer was interesting. In response to the initial reports Sunday morning, which mentioned the United States as a possible target, Deputy Secretary of State Wendy Sherman quickly announced that the administration didn’t believe the American consulate in Irbil had been the target. Washington did something similar in the past, when it leaked that attacks by pro-Iranian Shi’ite militias in Syria on the American base in Al-Tanf were retaliation for Israeli attacks.

      The Kurdish government’s response was more collegial. In a statement on Sunday, it said the attack constituted Iranian aggression against a strictly civilian target.

      Iran nuke connection

      This small-scale war is being conducted against the background of two much bigger international developments – the war in Ukraine and the effect of the deteriorating Russian-American relationship on the talks in Vienna between Iran and five other countries about a new nuclear deal. And these developments aren’t unrelated.

      According to reports from Vienna, the parties were slated to finalize the new agreement soon. But then a last-minute problem cropped up: Moscow demanded guarantees that if Tehran signed the nuclear deal, Russian trade with Iran would be able to continue despite the sanctions the international community imposed on Russia due to its invasion of Ukraine.

      Over the weekend, Britain, France and Germany warned Moscow that its new demands could cause the nuclear deal, which they said was on the verge of being signed, to collapse. But the Israeli defense establishment says Iran may also raise new hurdles, in the hope of extracting additional concessions from the other parties before signing.

      Israel is troubled that the Biden administration is completely focused on the fallout of the war in Ukraine and doesn’t appear to be interested in setting tougher conditions for Iran in the nuclear talks. In particular, Jerusalem would have liked to see Washington insist that any deal be contingent on completion of the International Atomic Energy’s investigation into four sites where Iran is suspected of engaging in prohibited nuclear activity.

      Israel is also worried about the arrangements for removing Iran’s stockpile of enriched uranium. Under the original agreement signed in 2015, from which America unilaterally withdrew in 2018 with the urging of then-Prime Minister Benjamin Netanyahu, the enriched uranium was sent to Russia.

      Defense sources said that in recent months, Iran has continued enriching uranium to a high level, with the result that it is now apparently just weeks away from acquiring enough enriched uranium for a single nuclear bomb. But even after reaching that target – which the Iranians have so far been careful not to do – the bomb would still need to be adapted to fit on the warhead of a ballistic missile. That would take another year or two, say intelligence estimates.

    • US does not believe consulate in Iraq was target of Iranian missile strike
      By Mychael Schnell - 03/13/22
      https://thehill.com/homenews/sunday-talk-shows/598015-us-does-not-believe-consulate-in-iraq-was-target-of-iranian

      Deputy Secretary of State Wendy Sherman on Sunday said the U.S. does not believe the American consulate in Iraq was the target of an Iranian missile strike that morning, instead calling it an attack on Iraq’s sovereignty.

      “We do not believe the consulate was the target of this attack... this was an attack on Iraq’s sovereignty,” Sherman said during an interview on “Fox News Sunday.”

      A dozen ballistic missile strikes hit Erbil, the northern Kurdish regional capital of Iraq, early on Sunday, which the Iranian Revolutionary Guards took responsibility for, according to Reuters.

      The strike reportedly left material damage and injured one civilian, Reuters reported, citing the Kurdish interior ministry.

      Iran’s Revolutionary Guards wrote in a statement that the offensive was against Israeli “strategic centres” in Erbil, Reuters reported, citing Iran’s state media.

      “Any repetition of attacks by Israel will be met with a harsh, decisive and destructive response,” the Iranian Revolutionary Guards added.(...)

    • Erbil missile strike a response to Israeli sabotage of Iran drone factory, say sources | Middle East Eye
      https://www.middleeasteye.net/news/iraq-erbil-missile-strike-response-israel-sabotage-iran-drone-factory

      By Suadad al-Salhy
      Published date: 14 March 2022 16:41 UTC | Last update: 16 hours 31 mins ago

      The ballistic missile attack that targeted Erbil, the capital of Iraq’s semi-autonomous Kurdistan region, is a response to a previous Israeli attack that targeted an Iranian drone factory in the city of Tabriz, Iranian and Iraqi officials told Middle East Eye.

      Suggestions it was linked to negotiations over the formation of Iraq’s next government were wide of the mark, they said.

      Around 1am on Sunday morning, a dozen ballistic missiles were launched from Iranian territory towards Iraq. Most of them hit a farm 30km north of Erbil, Kurdish officials said.

      Iran’s Revolutionary Guard claimed responsibility for the attack. It alleged the missiles targeted Mossad sites in Erbil, saying Iran’s security and peace is a “red line” that no one is allowed to threaten.

      #Erbil

  • #Grèce : la nouvelle politique d’asile aggrave l’errance des migrants

    Depuis le mois d’octobre, la Grèce n’accepte plus que les demandes d’asile déposées sur les #îles de la mer Égée. Conséquence : de nombreux migrants sur le continent - arrivés via la #frontière_terrestre turque - se retrouvent à la rue sans prise en charge, ni solution d’#hébergement. Le pays enregistre ces dernières semaines des températures glaciales.

    La tempête de neige qui a frappé une grande partie de la Grèce en début de semaine a semé le chaos dans le pays et conduit les autorités à appeler la population à limiter les déplacements. Athènes n’avait pas connu de telles conditions météorologiques depuis un demi-siècle. Dans certaines régions, les températures sont descendues jusqu’à -14 degrés.

    Et c’est dans ce contexte hivernal extrême que de nombreux migrants se retrouvent exclus des aides de l’État à cause de nouvelles règles introduites par le gouvernement. En octobre dernier, les autorités grecques ont en effet cessé d’accepter les demandes d’asile déposées sur le continent, à Thessalonique ou Athènes par exemple. Les migrants ne peuvent enregistrer leur dossier que sur les îles grecques en mer Égée (Lesbos, Samos, Chios...) ou dans le centre d’accueil de Fylakio, dans la région d’Evros à la frontière turque, une zone que les exilés cherchent à éviter, par crainte d’être renvoyés vers la Turquie. Ils ne peuvent compter que sur eux-mêmes pour s’y rendre.

    Face à ces nouvelles mesures, des organisations humanitaires tentent de venir en aide à des migrants livrés à eux-mêmes sur le continent. Ils distribuent des couvertures, des vêtements, des articles d’hygiène et de la nourriture. Mais les besoins sont tels que de plus en plus d’ONG affirment être débordées, à l’image de l’organisation allemande Sea-Eye.

    « Hier soir, trois personnes voulaient savoir comment demander l’asile lors d’une distribution de nourriture », raconte Corinne Linnecar, de l’organisation Mobile Info Team (MIT), basée à Thessalonique. « Nous avons l’horrible tâche en ce moment de dire aux gens qu’il n’y a aucun moyen de demander l’asile, puis de les voir complètement perdus, de savoir qu’ils passeront encore beaucoup de nuits à dormir dans des parcs, dans les rues, dans des bâtiments ou des trains abandonnés. »

    Pour la militante, les conditions météorologiques actuelles sont « très dangereuses » pour les personnes qui ne sont pas enregistrées auprès des autorités et qui se retrouvent sans logement, sans accès aux soins de santé.

    Voie sans issue

    Avant le mois d’octobre, les enregistrements de demandes d’asile en Grèce continentale passaient par une prise de rendez-vous pour un entretien préalable via l’application de visioconférence Skype.

    Désormais, explique Corinne Linnecar, les demandeurs se retrouvent face à un mur : on leur explique que cette procédure d’asile ne s’applique plus. Quelques exceptions existent : être considéré comme « vulnérable » et pouvoir présenter un certificat attestant notamment d’une maladie grave, d’une grossesse ou encore d’avoir survécu à la torture ou à un viol.

    Il est également possible de demander une « note de police ». Corinne Linnecar n’a rencontré qu’un seul migrant qui a tenté cette démarche en se rendant dans un commissariat pour faire enregistrer sa demande d’asile. En vain. « Il se présente jour après jour, mais on ne le laisse pas entrer dans le bâtiment », rapporte-t-elle.

    « Situation désespérée »

    En attendant, à Thessalonique, un groupe de bénévoles appelé « Wave » distribue chaque nuit de la nourriture, des vêtements, des sacs de couchage et des couvertures à de plus en plus de personnes. « Les gens se présentent souvent avec des vestes très fines, des chaussures aux semelles usées par leur voyage, sans couvertures, sans rien », témoigne Corinne Linnecar. « C’est l’une des seules aides auxquels les migrants ont accès. C’est une situation vraiment désespérée ».

    Cette impossibilité de déposer une demande d’asile en Grèce continentale risque donc de créer de plus en plus de tension. L’année dernière, pour la première fois, l’ONG MIT a déclaré que davantage de migrants étaient arrivés en Grèce par voie terrestre plutôt que par voie maritime.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/38189/grece--la-nouvelle-politique-dasile-aggrave-lerrance-des-migrants
    #errance #migrerrance #asile #migrations #réfugiés #SDF #Evros #froid #hiver #neige #Fylakio #note_de_police

  • « Grand remplacement » et ethnodifférentialisme, les nouveaux masques du racisme | Stéphane François
    https://afriquexxi.info/article4932.html

    La thèse raciste et complotiste du « grand remplacement », chère à Éric Zemmour, s’est imposée dans le débat public en France à l’approche de l’élection présidentielle. Elle n’est pourtant pas nouvelle : formulée pour la première fois dans les années 1950 en réaction aux décolonisations africaines, elle est depuis longtemps promue par les tenants de l’ethnodifférentialisme - des idéologues d’extrême droite pour qui l’immigration et le métissage ne peuvent qu’aboutir à un ethnocide. Source : Afrique XXI

  • Le magnifique projet de Zemmour pour l’Europe...

    Migrants : France’s Zemmour wants to build EU border wall

    Far-right French presidential candidate Eric Zemmour called for the construction of a wall along all external EU borders to fight undocumented migration and promised financial support for countries ready to build it.

    In an interview with BFM-TV, the Reconquete movement candidate said France and Germany oppose the idea, as well as EU Home Affairs Commissioner Ylva Johannson.

    “But I will get the EU majority to pass in favour of the wall, which will be financed with EU funds,” Zemmour said.

    https://www.ansamed.info/ansamed/en/news/sections/politics/2022/02/10/migrants-frances-zemmour-wants-to-build-eu-border-wall_cf004fdb-589c-4df4-

    #Zemmour #Eric_Zemmour #murs #s'emmurer #frontières #migrations #asile #réfugiés #barrières_frontalières #UE #EU #Europe

    ping @isskein @karine4

  • Pourquoi moins de Juifs de France ont été déportés que ceux des autres pays d’Europe Time of Israel
    https://fr.timesofisrael.com/pourquoi-moins-de-juifs-de-france-ont-ete-deportes-que-ceux-des-au

    Le livre de Jacques Semelin, qu’il présente comme "la meilleure riposte aux falsifications de l’histoire", va à l’encontre des opinions défendues à ce sujet par éric zemmour


    L’historien et politologue Jacques Semelin sur le plateau du 13H de France 2, le 10 mai 2016. (Crédit : Culturebox / Capture d’écran)

    « Pourquoi les trois quarts des Juifs en France n’ont pas été déportés » : telle est la question – et le sous-titre – du nouveau livre de l’historien Jacques Semelin, directeur de recherche émérite au CNRS, écrit avec le journaliste Laurent Larcher du journal La Croix.

    Dans Une énigme française, publié chez Albin Michel le mois dernier, le chercheur s’interroge sur les raisons pour lesquelles environ 75 % des Juifs de France pendant la Seconde Guerre mondiale ont pu éviter la déportation (environ 74 150 d’entre eux furent déportés, sur un total de près de 320 000 personnes), sur la raison pour laquelle « la France est le pays où les Juifs ont proportionnellement subi le moins de pertes » parmi les pays de « l’Europe occupée par l’Allemagne hitlérienne », pour reprendre des mots de Serge Klarsfeld.

    Son livre, dans lequel « il s’agit juste de rétablir les faits » et qu’il présente comme « la meilleure riposte aux falsifications de l’histoire », va à l’encontre des opinions défendues à ce sujet par Eric Zemmour. Un chapitre entier est d’ailleurs consacré à celui-ci (récemment, l’historien Laurent Joly a lui aussi écrit un ouvrage, La Falsification de l’histoire, en réponse aux thèses défendues par le polémiste au sujet de la Seconde Guerre mondiale).

    Alors que le candidat à la présidentielle estime que ce relatif sauvetage est dû à la politique de Vichy (avec un pourcentage de déportés bien inférieur à ceux aux Pays-Bas, en Pologne ou en Belgique), l’historien répond que cela n’a rien à voir avec un quelconque effort de Vichy, qui a au contraire vivement discriminé et participé à la déportation des Juifs.

    https://www.youtube.com/watch?v=elNZF0rlsgs

    Jacques Semelin liste ainsi parmi ces raisons leurs stratégies de survie ; les priorités stratégiques du IIIe Reich ; les réseaux d’entraide ou d’évasion ; ou encore l’aide de la population à les cacher ou ne pas les dénoncer, ainsi que les protestations publiques de quelques responsables catholiques.

    « Deux tiers des Juifs de France sont partis en zone libre et se sont dispersés un peu partout », a expliqué Jacques Semelin à France 24. « Il faut aussi noter que ceux qui parlaient français et qui avaient plus d’argent s’en sortaient mieux. »

    Aux arguments d’Eric Zemmour, l’historien a répondu auprès de France 24 : « C’est n’importe quoi. On ne le trouve aucunement dans les archives. Éric Zemmour joue sur l’ignorance des gens. »

    Écrivant à la première personne, l’homme revient sur la genèse de ses recherches, et explique pourquoi il passé 10 ans à travailler sur le sujet. Il revient aussi sur les rencontres effectuées dans ce cadre : avec des survivants, avec le politologue Stanley Hoffmann ou encore avec l’ancienne déportée et ministre Simone Veil, qui l’a questionné en 2008 : « Comment se fait-il que tant de Juifs ont pu survivre en France malgré le gouvernement de Vichy et les nazis ? », question à la base de ses recherches.

    https://www.youtube.com/watch?v=f6vN3bYiTsE

    Il revient également sur le discours du Vel d’hiv de l’ancien président Jacques Chirac. Selon lui, le chef d’État est allé trop loin alors qu’il reconnaissait la responsabilité et la culpabilité de la France dans la Shoah tout en occultant le fait que de nombreux Français avaient aidé ou sauvé des Juifs, notamment lors de la Rafle du Vel d’hiv.

    « Au moment de celle du Vel d’hiv en juillet, il s’est passé quelque chose auquel personne ne s’attendait. Les nazis et Vichy comptaient arrêter 27 000 Juifs, surtout étrangers, mais en fin de compte, ils n’en ont attrapé ‘que’ 13 000, même si cela fait 13 000 de trop », et cela grâce à des citoyens qui ont pu alerter les Juifs visés, dit l’historien.

    Jacques Semelin, spécialiste des génocides et des violences extrêmes, des formes de résistances civiles et de sauvetage, et de la survie des Juifs en France durant la Seconde Guerre mondiale, avait déjà publié plusieurs ouvrages sur ce dernier sujet, dont Persécutions et entraides dans la France occupée. Comment 75 % des Juifs en France ont échappé à la mort en 2013, et La survie des Juifs en France (1940-1944) en 2018. Son nouvel ouvrage vise à faire la synthèse de ces travaux déjà publiés.

    #Shoah #Histoire #juifs #Juifs_de_France #déportation #Historiographie #éric_zemmour #falsifications #déportations #Seconde_Guerre_mondiale #vichy #entraide #culpabilité

  • Hervérifie : « On ne peut pas se fier aux études après le Lancegate »

    TLDR comparaison : l’article dans le Lancet a été rétracté par les auteurs eux-mêmes 14 jours après avec des excuses, tandis que les deux études de Raoult sont toujours publiées et citées DEUX ANS plus tard, alors que tout le monde est maintenant d’accord que tout est faux voire falsifié.

    Conclusion : si on peut se fier aux études, il peut y avoir des erreurs chez n’importe qui, ce qui compte c’est que ce soit rétracté sincèrement après signalement (ce qui est le cas souvent).

    🧠 Repost (malheureusement je pense pertinent) d’un classique.

    🩺 J’ai publié ceci pour la première fois en juin 2020, choqué que Mr Raoult n’ait pas rétracté ses études après 3 mois.

    🩺 Depuis il a admis que les conclusions étaient fausses, et je l’ai mise à jour en août 2021… Près d’un an et demi après la publication. Et depuis, des membres de l’IHU affirment que les résultats ont été falsifiés. Ses études n’ont toujours pas été rétractées. Nous approchons de leur deuxième anniversaire.

    🩺 Après la publication, la semaine dernière, de la tragique disparition d’un médecin qui avait eu le malheur d’accorder sa confiance à Mr Raoult au sujet des « traitements précoces », je pense qu’il est bon de rappeler que Mr Raoult, jusqu’à preuve du contraire, est a minima un menteur (il a menti sur les résultats) et un charlatan (il a prescrit un traitement qui n’avait pas fait la preuve de son efficacité).

    🩺 Puisqu’environ 15 000 personnes se sont abonnées depuis le repost d’août 2021, que Mr Raoult continue de mentir sur sa chaîne YouTube et y fait des millions de vues, et que je suis super occupé cette semaine, je mets a jour 🤗
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    🧠 L’étude publiée le 22 mai 2020 dans le Lancet [1] a été rétractée [2] par les auteurs et par le journal ensuite, du fait de graves problèmes.
    ❶ Que peut-on en conclure ?
    ❷ Comment ce désastre - c’en est un - largement dénoncé par Mr Raoult à l’époque - qui s’exprime toujours autant sur sa chaîne YouTube et empile des millions de vues - se compare-t-il aux publications de ce dernier ?
    ❸ Les publications scientifiques en général, et du Lancet ou de Mr Raoult en particulier, sont-elles fiables ?
    ⚠️ Il s’agit d’une publication clivante (j’en suis conscient mais il faut bien s’y attaquer puisque près de deux ans plus tard on me parle encore du Lancet…) et dense, le texte est long (mais résumé au début pas de panique).
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    🧠 Version courte :
    1️⃣ M. Mehra concluait de façon prudente à l’inefficacité de l’Hydroxychloroquine +/- HCQ et à une augmentation de la mortalité, dans un contexte hospitalier uniquement, il n’affirmait pas de lien de causalité, et n’excluait pas les facteurs confondants. Il concluait au final que l’utilisation devait pour le moment être limitée aux essais cliniques.
    ✔︎ Ces conclusions prudentes étaient peut-être valides, ou peut-être fausses, voire mensongères : on ne le saura sans doute jamais puisque les données brutes ne sont pas accessibles (mon avis : le passif de Surgisphère me laisse penser que la 3e option est la plus probable).
    ✔︎ L’étude a été rétractée en 2 semaines, d’un point de vue scientifique elle n’existe littéralement plus depuis plus d’un an et demi, et n’aura existé que 14 jours.
    ✔︎ Le Lancet a modifié son système de revue par les pairs, clairement défaillant pour le coup.
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    2️⃣ M. Raoult concluait de façon extrêmement confiante à des résultats « tellement significatifs et évidents » démontrant l’efficacité indubitable de l’hydroxychloroquine, et n’hésitait pas à recommander son utilisation chez tous les patients COVID-19. Il allait jusqu’à recommander des études pour discuter l’utilisation en préventif chez des patients sains.
    ✖︎ Malgré ces conclusions très affirmatives, les deux études de M. Raoult [3,4] sont au mieux ininterprétables [5], au pire mensongères [6], voire illégales [7,8]. C’est un fait consensuel dans le milieu médical et de la recherche.
    ✖︎ Il a admis après 10 mois et 3500 citations que la première ne montrait pas d’efficacité clinique (au contraire).
    ✖︎ Mais il ne l’a pas rétractée.
    ✖︎ Et il continue d’affirmer que l’hydroxychloroquine est efficace contre la COVID-19 (ce qui est faux).
    ✖︎ En novembre dernier, Mediapart révélait que plusieurs membres de l’IHU accusaient Mr Raoult d’avoir délibérément falsifié les résultats afin de faire croire à une efficacité de l’hydroxychloroquine (en modifiant le seuil de positivité des PCR). Ces accusations graves semblent suffisamment sérieuses pour avoir motivé une enquête de l’Assistance Publique des Hôpitaux de Marseille (toujours en cours à ma connaissance).
    ✖︎ La seconde étude n’a pas été rétractée.
    ✖︎ Nous en sommes à bientôt 2 ans depuis la publication.
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    🧠 Conclusion : dans le domaine de la recherche scientifique, il y aura des gens qui se trompent ou se font avoir, et il y aura des menteurs, c’est attendu (il s’agit d’êtres humains).
    ✔︎ Les premiers reconnaîtront leurs erreurs, et en tiendront compte.
    
✖︎ Les seconds continueront de mentir, et sortiront peut-être même trois livres vendus en supermarché entre temps, qui sait. Notons que M. Raoult n’en est pas à son premier rodéo pour ce qui est de la fraude scientifique [9,10] (si vous le pensiez intègre et « réputé mondialement », accrochez-vous à votre chaise).
    ⛔️ Au demeurant, force est de constater que :
    ⚠️ Le problème de l’étude de M. Mehra a été certes lamentablement loupé par le Lancet, mais il a été repéré en quelques jours par la communauté scientifique, les auteurs et le journal en ont immédiatement tenu compte, et l’étude a été rétractée dans le doute en 2 semaines.
    ➜ Imperfect but good science.
    ⚠️ Les MULTIPLES problèmes autrement plus graves des deux études de M. Raoult ont été lamentablement « loupés » par ses confrères ses amis ses employés ses lieutenants les relecteurs des journaux qui les ont publiées, ils ont été là encore pointés par la communauté en quelques jours, mais M. Raoult a balayé les critiques d’un revers de main en traitant les contradicteurs, globalement, de crétins ignares et corrompus, et il n’a jamais rétracté ses études.
    ➜ Dishonest, bad bad BAD science.
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    🧠 Rappel des faits concernant le Lancet :
    🩺 Cette étude observationnelle massive ne confirmait pas de bénéfice sur l’évolution et/ou la mortalité dans le traitement hospitalier précoce de la CoVid-19 avec des protocoles associant chloroquine ou hydroxychloroquine, seules ou associées à l’azithromycine (principalement).
    🩺 Elle trouvait par ailleurs une association entre ces traitements et une surmortalité d’une part, et des complications cardiaques graves d’autre part, sans inférer de lien de causalité du fait de sa nature observationnelle (possibilité d’un facteur confondant caché non exclue, bien que présenté comme statistiquement peu probable).
    🩺 Elle précisait ne pas démontrer l’inefficacité ou la dangerosité de ces traitements, du fait de sa nature observationnelle, mais appelait à vérifier ces résultats par des études randomisées en double aveugle, avant de prétendre prescrire ces traitements à des patients en dehors d’essais cliniques.
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    1️⃣ Il n’aura fallu que quelques jours pour que la communauté scientifique mondiale s’étonne principalement :
    ● De plusieurs erreurs d’attribution de données, sans conséquences sur les résultats mais très intrigantes.
    ● Du fait que certains hôpitaux cités déclaraient ne pas avoir fourni de données, ce qui était très suspect.
    ● Devant ces anomalies, de l’absence de données brutes (ce qui n’est pas souhaitable, bien que courant) dans la publication, et de l’étonnante rapidité de traitement de ces données massives par le fournisseur des données, une entreprise privée nommée Surgisphère, jeune, petite et passablement inexpérimentée, appartenant à l’un des 4 auteurs.
    ● Ce qui a amené le Lancet a émettre une alerte sur cette étude (ce qui est normal).
    ⚠️ Les remarques sont extrêmement courantes dans le milieu de la publication scientifique, c’est le principe du système :
    ● Le journal publie généralement les questions les plus pertinentes qui lui sont directement adressées.
    ● Il offre ensuite un droit de réponse aux auteurs, souvent accompagné, si besoin, de modifications à l’article original.
    ● L’égo du chercheur peut-être un peu (beaucoup) malmené, mais la science et la connaissance en sortent gagnantes, et... “C’est l’jeu ma pauv’ Lucette” 👍
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    2️⃣ Face ces remarques justifiées, 3 des 4 auteurs ont réagi rapidement et de façon semble-t-il adaptée :
    ● En corrigeant les erreurs pointées dans un premier temps.
    ● En organisant ensuite un audit indépendant de leur fournisseur de données (le 4e auteur...).
    ● L’auditeur a donc contacté Surgisphère pour obtenir le détail des données brutes, données que... Surgisphère lui aurait formellement refusées, pour d’obscurs motifs de confidentialité.
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    3️⃣ Devant l’impossibilité de fournir ces données brutes, et surtout d’en assurer l’authenticité et l’exactitude, les auteurs ont pris la seule décision rationnelle et intellectuellement honnête :
    ● Ils ont présenté leurs excuses pour l’insuffisance de leurs vérifications avant la publication : ils sont en faute, c’est en effet lamentable.
    ● Ils ont demandé la rétractation de leur article (nul doute que le Lancet aurait pris cette décision, si ils ne l’avaient pas fait d’eux-mêmes).
    ● L’ensemble de ce processus aura pris en tout et pour tout moins de deux semaines, entre la publication et le retrait.
    ● L’avenir nous dira que Surgisphère (qui a disparu depuis) était une société hautement suspecte…
    ● Le Lancet, coupable de ne pas avoir vu ce que la communauté scientifique a vu en quelques jours, a depuis annoncé avoir modifié son process de revue par les pairs…
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    🧠 Questions :
    1️⃣ Qu’est-ce que cette rétractation nous apprend au sujet de la chloroquine, de l’hydroxychloroquine, et de leur association avec l’azithromycine ?
    🩺 Absolument rien.
    ● C’est le principe d’une rétractation : peu importe la raison (fraude, erreur, ou comme ici pour le moment impossibilité de vérifier de façon certaine la source des données brutes), les données et/ou conclusions rétractées ne doivent pas être prises en compte, c’est tout.
    ● A moins que les données brutes ne soient un jour fournies, et qu’elles ne s’avèrent exactes (ce qui est tout à fait possible), ”tout se passe comme si” cette étude n’avait jamais existé (et ce, même si elles s’avèrent un jour fausses, voire frauduleuses).
    ● De fait, plus personne dans le monde de la recherche ou de la médecine ne cite cette étude depuis qu’elle a été rétractée, ses résultats et conclusions ont tout simplement cessé d’exister.
    ● Les seules personnes qui en parlent encore sont celles qui ignorent comment la recherche scientifique fonctionne, ou qui trouvent un intérêt à prétendre qu’ils l’ignorent.
    2️⃣ Qu’est-ce que cette rétractation nous apprend au sujet des études scientifiques ?
    🩺 Beaucoup de choses, entre autres :
    ❶ Que les erreurs sont courantes, attendues, et normales dans le monde de la recherche scientifique et médicale. Imaginer que tous les chercheurs “trouvent” du premier coup est absurde. Tous les plus grands scientifiques de l’histoire se sont lamentablement “vautrés”, à un stade ou à un autre de leur carrière, et les 3 co-auteurs de cette étude se sont “vautrés” dans les grandes largeurs en analysant des données dont ils n’avaient pas vérifié la provenance...
    ❷ Que les fraudes sont également possibles, et qu’ici, cette hypothèse n’est pas exclue (le 4e auteur notamment, fournisseur des données, semble suspect…)
    ❸ Que quand un scientifique ne peut pas démontrer son propos avec des données factuelles, vérifiables et reproductibles, aussi réputé soit-il, peu importe le prestige du journal qui le publie, il DOIT se rétracter, et son propos n’existe plus et n’est plus pris en compte (et surtout n’est plus cité par d’autres études… Suivez mon regard), quel qu’il soit.
    ❹ Que quand un scientifique se trompe, et qu’on le lui démontre, il DOIT accepter son erreur, et changer de discours, afin que ce discours soit en accord avec la réalité des faits objectivables.
    ❺ Que si il ne le fait pas, non seulement son propos n’existe pas, mais son honnêteté peut légitimement être mise en doute (l’erreur potentielle devient mensonge factuel).
    ❻ Que quand une faille méthodologique majeure existe dans une étude, peu importe la réputation ou la popularité de l’auteur (ou du journal), la conclusion n’a que peu, ou plus du tout de valeur : elle n’existe pas, pas plus que les données sur lesquelles elle prétendait ou pensait se baser.
    ➐ Que la méthode scientifique est auto-correctrice, et que si l’on respecte cette méthode (lecture par les pairs, prise en compte des critiques, méthodologie solide, publication de la méthodologie et des données brutes, tentative de reproduction des résultats, remise en question, auto-critique, retrait éventuel), les erreurs sont généralement rapidement corrigées.
    ➑ Que le propos de ceux qui se prétendent scientifiques, mais s’asseoient avec panache sur la méthode scientifique, n’a pas plus de valeur qu’un horoscope 🤗
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    🧠 A la lumière de ces enseignements, je vous soumets les critiques les plus courantes concernant les deux premières « études » publiées par M. Raoult en 2020 :
    🩺 Etudes qui selon lui démontraient sans aucune ambiguité l’efficacité de l’Hydroxychloroquine (et de l’Azithromycine) contre la COVID 19.
    🩺 Etudes qui justifiaient selon lui la prescription à tous les cas positifs (!)
    🩺 Ainsi que des études pour discuter d’une prescription préventive (!)
    ⚠️ Après environ 500 jours, soit près de 2 ans, aucune de ces études n’a été rétractée, et la première a été citée plusieurs milliers de fois par d’autres auteurs, en plus d’avoir directement influé sur la politique sanitaire désastreuse du Brésil, de l’Inde, de plusieurs états américains, etc. (Avec le succès retentissant que l’on sait).
    __________
    1️⃣ Etude 1 :
    ⚠️ Des conflits d’intérêts grossiers
    ○ L’un des auteurs est rédacteur en chef de la revue
    ○ C’est aussi un employé de l’IHU
    ➜ Qui travaille donc pour M. Raoult
    ⚠️ Ce qui explique la rapidité de la publication
    ○ Article soumis à publication 4 jours après la fin de l’étude
    ○ Et accepté en 24h (!!!) après « revue par les pairs »
    ➜ Il n’y a pas eu de revue par les pairs
    ⚠️ Effectif (beaucoup) trop faible
    ○ 20 patients traités…
    ○ 16 patients non traités…
    ⚠️ Violations du protocole multiples
    ○ 2 enfants inclus (ni prévu, ni autorisé)
    ○ Ajout azithromycine (ni prévu, ni autorisé)
    ⚠️ Des patients qui apparaissent
    ○ L’HCQ n’était autorisée que chez les patients graves hospitalisés
    ➜ Hospitalisation de patients asymptomatiques
    ➜ Hospitalisation de patients sans test PCR
    ⚠️ Des patients qui disparaissent
    ○ 26 patients traités, 20 comptés
    ○ 6 auraient été « perdus »
    ○ 1 s’est retiré sans raisons données
    ○ 1 n’a pas toléré les effets secondaires
    ○ 4 ont vu leur état s’aggraver
    ➜ Dont 3 ont fini en réanimation
    ➜ Et 1 est décédé
    ⚠️ Pas de groupe témoin valide
    ○ Groupe traité : 51.2 ans
    ○ Groupe « témoin » : 37.3 ans
    ○ Patients non appariés (logique…)
    ➜ Il se s’agit donc pas d’un témoin
    ⚠️ Variable mesurée : ADN via RT-PCR
    ○ Avec deux méthodes différentes
    ○ Qui ne sont pas détaillées
    ⚠️ Des données ininterprétables
    ○ Beaucoup de faux positifs
    ○ Certains négatifs redeviennent positifs
    ➜ Pas de conclusion possible
    ⚠️ Des données manquantes
    ○ Les auteurs ont extrapolé les données
    ○ A partir de données déjà non fiables (cf supra)
    ⚠️ Des données falsifiées ?
    ○ Selon plusieurs membres de l’IHU
    ➜ Enquête de l’APHM en cours
    ⚠️ En incluant tous les patients
    ○ Aucun effet visible
    ○ Sur TOUS les critères (cliniques ou biologiques)
    ⚠️ Taux de mortalité très faible
    ○ 99% des gens guériront sans traitement
    ○ Il faut ÉNORMÉMENT de patients pour voir un effet
    ➜ Impossible de conclure sur aussi peu de patients
    ⛔️ Revue par les pairs indépendantes plusieurs moins plus tard
    💬 « Cette étude souffre de lacunes méthodologiques majeures qui la rendent presque sinon complètement non informative (…) Le ton du rapport, présenté comme une preuve d’un effet de l’hydroxychloroquine et même en recommandant son utilisation, est non seulement non fondé, mais, étant donné la demande désespérée d’un traitement pour Covid-19, couplée avec le côté potentiellement de graves effets de l’hydroxychloroquine, totalement irresponsable »
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    2️⃣ Etude 2 :
    ⚠️ Des conflits d’intérêts grossiers
    ○ L’auteur est rédacteur en chef adjoint de la revue
    ○ C’est aussi un employé de l’IHU
    ➜ Qui travaille donc pour M. Raoult
    ⚠️ Pas de groupe contrôle
    ○ Pas d’évaluation des facteurs confondants (!)
    ○ Notamment le tableau initial (gravité)
    ○ Les comorbidités
    ○ Ou même l’âge
    ➜ Cf infra
    ⚠️ Effectif bien trop faible pour voir un effet sur
    ○ Une maladie qui guérit seule dans 85% des cas
    ○ Une maladie qui guérit dans 99.5% des cas
    ➜ Cf étude 1, il faut BEAUCOUP de monde
    ⚠️ Mensonge sur la nature observationnelle
    ○ Il s’agit d’une étude interventionelle
    ○ Puisque la prescription est hors AMM…
    ○ Chez des patients non graves…
    ➜ Esquivant ainsi l’agrément de l’Agence du Médicament
    ➜ Et l’agrément du Comité de Protection des Personnes
    ➜ Qui n’ont pas été demandés, ou obtenus
    ⚠️ Des malades pas bien malades…
    ○ Âge médian : 52 ans
    ➜ Contre 72 ans pour les patients hospitalisés
    ➜ Sachant que 71% des décès ont plus de 75 ans
    ○ 92% avaient un score de gravité faible
    ○ 85% n’avaient pas de fièvre
    ○ 43% n’avaient pas de comorbidités
    ➜ Contre 22% pour les cas graves
    ○ La moitié n’avait pas d’atteinte pulmonaire
    ○ 85% n’ont pas eu besoin d’oxygène
    ○ 5% étaient carrément asymptomatiques
    ⚠️ Un protocole violé, comme pour la 1e étude
    ○ Les cas graves ont eu de la CEFTRIAXONE
    ○ Les critères de sortie ont changé en cours d’étude
    ⚠️ Malgré tout ceci
    ○ Aucun effet démontré sur la mortalité
    _________________________________
    📚 Sources :
    ▪️Les études dont nous parlons ici, et la rétractation
    [1] https://www.thelancet.com/.../PIIS0140-6736(20.../fulltext
    [2] https://www.thelancet.com/.../PIIS0140-6736(20.../fulltext
    [3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7102549
    [4] https://www.mediterranee-infection.com/.../COVID-IHU-2-1.pdf
    ▪️La revue par les pairs de la première étude de M. Raoult
    [5] https://www.sciencedirect.com/.../pii/S0924857920302338...# !
    ▪️ Les accusations de fraude
    [6] https://www.lepoint.fr/.../hydroxychloroquine-didier...
    ▪️ L’investigation (encore) de l’ANSM sur la légalité des études de l’IHU
    [7] https://www.egora.fr/.../67530-essais-cliniques-du-pr...
    ▪️L’avis des Comités de Protection de la Personne à l’INSERM
    [8] https://cerpop.inserm.fr/.../couderc-bettina-19-novembre... (Page 36)
    ▪️Plus de lecture sur la « science » selon M. Raoult
    [9] https://www.les-crises.fr/didier-raoult.../comment-page-3 (soft)
    [10] https://rechercheindependante.blogspot.com/.../la-fraude... (à charge, mais accrochez vous à votre chaise)

    #Hervérifie #science #relecture #méthode_scientifique #rétractation #erreur #Didier_Raoult #Lancet

    • Le « fossé » avec la Belgique est probablement à relativiser car il y a de très grosses disparités démographiques, sociales et de couverture santé.

      A ceci j’ajouterai cette observation empirique de dernière minute bruxelloise : des gamins autour de petit poilu en sont à leur deuxième contamination en deux mois (delta puis omicron ?) sachant qu’ils sortent de trois à quatre semaines de congés (une semaine ajoutée en décembre parce que c’était déjà n’importe quoi).
      > OK, forme plus « bénine » mais pas pour tous + quid des covid longs chez les kids ? quid des conséquences de ces infections à répétition ?

      Plus de garderies par manque de personnel (hautement malade), réduction des trains pour la même raison + fréquentation en baisse... ça sent le pâté hospitalier en prévision.

  • Sur la catastrophe en cours et comment en sortir - Serge Quadruppani & Jérôme Floch
    https://lundi.am/Sur-la-catastrophe-en-cours-et-comment-en-sortir

    Il y a tout de même pas mal de choses intéressantes dans cet article de Quadruppani (qu’on sait déjà mais dites au public antibiopolitique).

    On a pourtant aussi toutes les raisons d’écouter le cri de rage d’un ami infirmier, à qui j’ai fait lire l’interview de Lamarck : « Je voudrais surtout pas tomber dans le pathos, mais le subjectif est là, et je vais pas le refouler : quand tu as vu des personnes âgées qui ont un nom : Marthe, Francis, Suzanne, Mario, Huguette , Gilberte et tant d’autres, magnifiques, qui ne demandaient qu’à finir leurs vies tranquilles, sereines et entourées, partir en 24 heures, emballées dans des housses mortuaires, sans préparation, sans que leurs proches ne puissent les voir, ne serait-ce qu’une dernière fois, quand tu as vu tes collègues infirmières et aides-soignantes, pourtant pleines d’expérience, et qui savent tenir la « bonne distance » professionnelle avec la mort, te tomber dans les bras et pleurer de détresse, que tu as vu toute l’équipe soignante aller au tapis, frappée de plein fouet par le virus, et les rares soignantes encore valides rester à poste 18h sur 24, que tu as vu le quart des personnes prises en charge mourir en une semaine, les poumons bouffés par le virus, et qu’il s’en fallait à peine d’un mois pour que des vaccins soient disponibles... alors le gus qui te déclare, du haut de son Olympe conceptuel : « c’est la porte ouverte à la modification moléculaire de l’humain », tu as juste envie de lui hurler : « ta gueule, connard ! Tu n’as aucune idée de ce dont tu parles... ! » C’est con, hein ? »

    Non, c’est pas con, et d’autant moins que c’est assorti d’une critique des affirmations lamarckienne qui peut s’avérer fort utile pour dissiper les fantasmes attachés à ce vaccin à ARNm souvent au cœur des argumentaires antivax. « Bien, alors le truc affreux [d’après Lamarck] ce serait ces vaccins à ARN messager modifié « enrobés dans un vecteur complètement artificiel ». Le mot est lâché : « artificiel », sûrement opposé à « naturel ». Ne relevons même pas que bien des produits artificiels se sont révélés forts utiles, et que nombre de produits naturels peuvent être extrêmement nocifs. Le truc ici consiste à faire peur : c’est « artificiel » ! Pas bon ça ! Le vecteur en question est une microparticule avec 4 lipides (dont du cholestérol), 4 sels (chlorures de sodium, de potassium, dihydrogénophosphates de sodium, de potassium), du sucre (saccharose) et de l’eau... (c’est presque Bio !) Non, faut que ça fasse peur ! Car nous disent-ils tout ça « est injecté massivement depuis décembre 2020 sans tests cliniques suffisants tant sur l’innocuité que sur l’efficacité ». C’est évidement faux, les essais de phase I, II, et III ont bien eu lieu, et si la phase III se poursuit c’est pour étudier les effets secondaires inattendus, la durée de protection induite par la production d’anticorps et la mémoire immunitaire induite, et d’envisager le calendrier vaccinal de rappels le cas échéant … à ce jour près de 8 milliards de doses de vaccins contre la Covid ont été administrées, et près de 55% de la population mondiale a reçu au moins une dose (dont seulement 6% dans les pays pauvres). Jamais dans l’histoire des traitements et vaccins il n’y a eu une telle surveillance de pharmacovigilance. »

    Et jamais peut-être il n’a été aussi important d’éclaircir nos rapports avec la science en général, et avec la science médicale en particulier. L’humeur antivax est ancienne, en particulier dans des milieux où les ennemis du capitalisme se recrutent en grand nombre. Au risque de déplaire à bien des amis ou des alliés, disons-le sans détour : cette humeur repose pour l’essentiel sur des fantasmes sans fondement. Deux reproches principaux ont alimenté longtemps le refus de la vaccination, et, malgré tous les démentis, ont resurgi à la faveur de celle contre le Covid : son lien avec l’autisme et les accidents consécutifs à la présence d’aluminium. La première rumeur, qui eut d’abord les honneurs du Lancet, a ensuite été démentie et il s’est avéré que celui qui l’avait lancée était un escroc. Quant à la seconde, s’il est vrai que de l’aluminium a bien été ajouté à certains vaccins pour les booster, et que ce métal a, dans quelques cas, déclenché des réactions locales à l’endroit de l’injection, il n’a jamais entraîné d’accidents graves.

    […]

    On se gardera pourtant de reprendre à notre compte le vocable de « Big Pharma ». Pas seulement parce qu’on le retrouve systématiquement dans des bouches qui ont très mauvaise haleine, — est-ce un hasard ? — mais parce qu’il charrie une vision simpliste de ce à quoi nous faisons face et ne permet donc pas d’en saisir la complexité, les dynamiques et les rouages. « Big Pharma » est à l’ère des gouvernements biopolitiques revendiqués ce qu’était le mythe des deux cents familles au XIXe siècle. Il n’y a pas plus de gouvernement mondial secret que de Big Pharma, ce à quoi nous faisons face c’est à une coalition d’intérêts qui opèrent et prospèrent au sein d’un ordre du monde et d’une organisation sociale organisés par et pour eux. Il y a donc fort à parier que, à l’instar de toutes les structures étatiques, l’INSERM ne soit pas à l’abri de du lobbying général des grandes compagnies pharmaceutiques comme de l’influence de telle ou telle d’entre elles. Mais c’est justement parce qu’il s’agit d’une coalition d’intérêts particuliers et non pas d’une entité monolithique, qu’on peut compter sur l’existence de contradictions en son sein. Peut-on imaginer que s’il existait le moindre soupçon d’effets secondaires néfastes avec l’ARN, Johnson&Johnson et Astrazeneca, les concurrents sans ARN, épargneraient leurs rivaux d’une intense campagne de lobbying pour effrayer la population et récupérer tout le marché ? Et comment s’expliquer, sous le règne omnipotent de « Big Pharma » et du déjà un peu ancien « nouvel ordre mondial » que les stratégies sanitaires, idéologiques et politiques aient été aussi radicalement différentes des Etats-Unis à la France, d’Israël au Brésil, de la Suède à la Chine ?

    […]

    La vérité est à la fois beaucoup plus simple et complexe. Face à la pandémie, à la profondeur de ce qu’elle venait remettre en cause et au risque qu’elle faisait peser soudainement sur l’économie mondiale, les gouvernants ont paniqué. Et c’est cela que leurs litanies de mensonges devaient recouvrir, alors que tout leur pouvoir repose sur leur prétention à gérer et anticiper, ils ont dû bricoler, dans un premier temps du moins. Non pas pour sauver des vies mais pour préserver leur monde de l’économie. Au moment même où les appareils gouvernementaux de toutes les plus grandes puissances mondiales connaissaient leur plus grande crise de légitimité, certains ont voulu y voir le complot de leur toute puissance. Le complotiste aime les complots, il en a besoin, car sans cela il devrait prendre ses responsabilités, rompre avec l’impuissance, regarder le monde pour ce qu’il est et s’organiser.

    […]

    Dans la vidéo « La Résistance », dont le titre est illustré sans honte par des images de la seconde guerre mondiale, le Chant des Partisans en ouverture et Bella Ciao à la fin, on voit défiler les gourous anti-vax sus-cités. Renard Buté y nomme l’ennemi suivant le vocabulaire typique de QAnon : c’est l’ « Etat profond » et les « sociétés secrètes », il nous dit que le vaccin tue, que c’est un génocide qui est en cours, et qu’il faut s’y opposer par toutes sortes de moyens. La vidéo semble vouloir rallier les différentes chapelles antivax, de Réinfocovid au CNTf (organisation délirante, mêlant islamophobie, revendication du revenu garanti et permaculture, et partisane de rapatrier les troupes françaises pour… surveiller les frontières contre la « crise migratoire » et les banlieues), et après un appel à la fraternisation avec l’armée et la police (thème de prédilection du CNTf) débouche sur un autre appel… à la constitution d’une nouvelle banque qui serait entre les mains du peuple. Tout cela se mêle à des thèmes qui peuvent paraître pertinents aux yeux d’opposants radicaux au capitalisme : l’autonomie comme projet de vie, la manière de s’organiser et de faire des manifestations moins contrôlables, la démocratie directe… autant de thèmes et revendications qui pourraient sortir de bouches amies, voire des nôtres. Que ce genre de salmigondis touche pas mal de gens qui pourraient être des alliés, et que des amis proches puissent éventuellement avoir de l’indulgence pour ce genre de Renard fêlé, nous paraît un signe de l’ampleur de la secousse que la crise du Covid a provoquée dans les cerveaux.

    […]

    On a tendance, dans notre tradition très hégélienne de l’ultragauche à considérer que tout ce qui est négatif est intrinsèquement bon. Comme si par la magie de l’Histoire, la contestation de l’ordre des choses produisait automatiquement et mécaniquement la communauté humaine disposée à un régime de liberté supérieur. Pourtant, lorsque l’on se penche sur la nébuleuse anti-vaccin, c’est-à-dire sur les influenceurs et porte-paroles qui captent l’attention sur les réseaux sociaux, organisent et agrègent les énoncés et les rassemblements, on s’aperçoit qu’une écrasante majorité baigne depuis de longues années dans l’extrême droite la plus bête et la plus rance. Militaires à la retraite, invités hebdomadaires de radio courtoisie, lobbyistes contre les violences féminines (oui, oui...), il suffit de passer une heure à « googliser » ces porte-paroles autoproclamés pour avoir une idée assez précise des milieux dans lesquels ils grenouillent. Certes, on pourrait être magnanimes et essayer d’imaginer que l’épidémie de Covid ait pu transformer de telles raclures en généreux camarades révolutionnaires mais comment s’expliquer que les seules caisses de résonances que trouvent leurs théories alternatives sur le virus et l’épidémie soient Egalité et Réconciliation, Sud Radio, France Soir, Florian Phillipot, on en passe et des pires ? En fait, si on se peut se retrouver d’accord sur des énoncés formels, on bute bien vite sur un point fondamental, c’est-à-dire éthique : la manière dont on est affecté par une situation et à la façon que l’on a de se mouvoir en son sein. En l’occurrence, ce qui rend tous ces « rebelles » anti-macron aussi compatibles avec la fange fasciste c’est l’affect de peur paranoïaque qu’ils charrient et diffusent et qui sans surprise résonne absolument avec une longue tradition antisémite, xénophobe, etc. Et c’est là que l’on peut constater une différence qualitative énorme avec le mouvement gilets jaunes. Eux, partaient d’une vérité éprouvée et partagée : leur réalité matérielle vécue comme une humiliation. C’est en se retrouvant, sur les réseaux sociaux puis dans la rue, qu’ils ont pu retourner ce sentiment de honte en force et en courage. Au cœur du mouvement antivax se loge une toute autre origine affective, en l’occurrence la peur, celle qui s’est distillée des mois durant. La peur d’être contaminé, la peur d’être malade, la peur de ne plus rien comprendre à rien ; que cette peur du virus se transforme en peur du monde puis du vaccin, n’a finalement rien de surprenant. Mais il nous faut prendre au sérieux cette affect particulier et la manière dont il oriente les corps et les esprits. On ne s’oriente pas par la peur, on fuit un péril opposé et supposé, quitte à tomber dans les bras du premier charlatan ou sauveur auto-proclamé. Il n’y a qu’à voir les trois principales propositions alternatives qui agrègent la galaxie antivax : Didier Raoult et l’hydroxychloroquine, Louis Fouché et le renforcement du système immunitaires, l’Ivermectine et le présumé scandale de son efficacité préventive. Le point commun de ces trois variantes et qui explique l’engouement qu’elles suscitent, c’est qu’elles promettent d’échapper au virus ou d’en guérir. Toutes disent exactement la même chose : « Si vous croyez en moi, vous ne tomberez pas malade, je vous soignerai, vous survivrez. » Mot pour mot la parole biopolitique du gouvernement, dans sa mineure.

    […]
    Dans la soirée évoquée, ce n’est pas « quelqu’un du public » mais bien Matthieu Burnel lui-même qui avait ironisé sur les suceurs de cailloux !

    Parce que le pouvoir n’a jamais été aussi technocratique, livide et inhumain, certains tendent une oreille bienveillante aux premiers charlatans venus leur chanter « le vivant ». Mais l’engrenage est vicieux et une fois qu’on a adhéré à une supercherie du simple fait qu’elle prétende s’opposer au gouvernement, on a plus d’autre choix que de s’y enferrer et d’y croire. Lors d’une discussion un lundisoir, une personne du public avait commis quelques blagues peu finaudes à propos d’antivax qui lécheraient des pierres pour se soigner du cancer, et cela a apparemment provoqué quelques susceptibilités. Le problème en l’occurrence, c’est que cette plaisanterie n’était caricaturale que dans sa généralisation certainement abusive. Il n’en est pas moins vrai qu’Olivier Soulier, cofondateur de Réinfocovid assure soigner l’autisme et la sclérose en plaque par des stages de méditation et de l’homéopathie, que ce même réseau promulguait des remèdes à base de charbon aux malheureux vaccinés repentis pour se « dévacciner ». Autre nom, autre star, Jean-Dominique Michel, présenté comme l’un des plus grands experts mondiaux de la santé, il se propulse dès avril 2020 sur les devants de la scène grâce à deux vidéos sur youtube dans lesquelles il relativise l’importance et la gravité de l’épidémie, soutient Raoult et son élixir, et dénonce la dictature sanitaire à venir. Neurocoach vendant des séances de neurowisdom 101, il est membre d’honneur de la revue Inexploré qui assure soigner le cancer en buvant l’eau pure de l’une des 2000 sources miraculeuses où l’esprit des morts se pointe régulièrement pour repousser la maladie. Depuis, on a appris qu’il ne détenait aucun des diplômes allégués et qu’il s’était jusque-là fait remarquer à la télévision suisse pour son expertise en football et en cartes à collectionner Panini. Ses « expertises » ont été partagées par des millions de personnes, y compris des amis et il officie désormais dans le Conseil Scientifique Indépendant, épine dorsale de Réinfocovid, première source d’information du mouvement antivax. Ces exemples pourraient paraître amusants et kitchs s’ils étaient isolés mais ils ne le sont pas.

    […]

    Historiquement, ce qui a fait la rigueur, la justesse et la sincérité politique de notre parti, - et ce qui fait qu’il perdure-, c’est d’avoir toujours refusé de se compromettre avec les menteurs et les manipulateurs de quelque bord qu’ils soient, de s’être accrochés à une certaine idée de la vérité, envers et contre tous les mensonges déconcertants. Que le chaos de l’époque nous désoriente est une chose, que cela justifie que nous perdions tout repère et foncions tête baissée dans des alliances de circonstances en est une autre. Il n’y a aucune raison d’être plus intransigeant vis-à-vis du pouvoir que de ses fausses critiques.

    […]

    Au moment où l’idée même que l’on se faisait de la vie se trouvait acculée à être repensée et réinventé, on a critiqué les politiciens. Quand le gouvernement masquait si difficilement sa panique et son incapacité à exercer sa fonction fondamentale et spirituelle, prévoir, on a entendu certains gauchistes même anarchistes caqueter : si tout cela arrive, c’est qu’ils l’ont bien voulu ou décidé. Ironie cruelle, même lorsque l’État se retrouve dans les choux avec le plus grand mal à gouverner, il peut compter sur ses fidèles contempteurs pour y déceler sa toute puissance et s’en sentir finauds.

    Faire passer des coups de force, de l’opportunisme et du bricolage pour une planification méthodique, maîtrisée et rationnelle, voilà le premier objectif de tout gouvernement en temps de crise. En cela, il ne trouve pas meilleur allié que sa critique complotiste, toujours là pour deviner ses manœuvres omnipotentes et anticiper son plein pouvoir. C’est en cela que le gouvernant a besoin du complotiste, il le flatte.

    #Serge_Quadruppani #covid #antivax #gauche #émancipation #réflexion #science

  • Turns Out Schrödinger, the Father of Quantum Physics, Was a Pedophile
    https://futurism.com/schrodinger-pedophile

    A recent investigation that resurfaced damning evidence that famed physicist Erwin Schrödinger was a pedophile is continuing to make waves in the academic community.

    Schrödinger, widely cited as the father of quantum physics and perhaps best remembered for his 1935 thought experiment “Schrödinger’s Cat,” was widely revealed to be a pedophile by The Irish Times after the newspaper published a report detailing his record as a sexual predator and serial abuser.

    It’s a stomach-churning revelation about a researcher whose work revolutionized the study of the natural world and even led directly to today’s international research frenzy into quantum computing — and which shows, once again, that even the powerful and brilliant can be monsters.

    The Irish Times identified young girls who Schrödinger became infatuated with, including a 14-year-old girl whom the physicist groomed after he became her math tutor.

    Schrödinger, who died in 1961, later admitted to impregnating the girl when she was 17 and he was in his mid-forties. Horrifyingly, she then had a botched abortion that left her permanently sterile, according to the newspaper.

    Perhaps most diabolically, the physicist kept a record of his abuse in his diaries, even justifying his actions by claiming he had a right to the girls due to his genius.

    Walter Moore, author of the biography “Schrödinger, Life and Thought” published in 1989, said that the physicist’s attitudes towards women “was essentially that of a male supremacist.” Disgustingly, the biography seemed to downplay and even romanticize his abusive habits, and describes him as having a “Lolita complex.”

    Schrödinger also attempted a relationship with a different 12-year-old girl, disgustingly writing in his journal that she was “among the unrequited loves of his life.” However, he decided not to pursue her after a family member voiced their concerns that the physicist was a, you know, unrepentant abusive predator.

    In response, a petition has been launched to change the title of a lecture hall at Dublin’s Trinity University that’s named after him.

    “We can acknowledge the great mark Schrödinger has left on science through our study, and this petition does not wish to diminish the impact his lectures or ideas had on physics,” the petition says. “However, it seems in bad taste that a modern college such as Trinity… would honor this man with an entire building.”

    That’s true, of course. You can recognize the contributions someone has had in their field while also acknowledging that they were an absolute scumbag.

    But honoring them by naming a lecture hall — or a giant space telescope — is completely unnecessary.

  • Les chemins de désir | ARTE Radio (j’écoute enfin cette autofiction radio de Claire Richard, c’est chouette, merci @osezkarl de m’avoir rappelé son existence) https://www.arteradio.com/serie/les_chemins_de_desir

    Dans ce podcast de fiction, une femme explore les chemins du désir féminin, ses contre-allées déroutantes, ses ruelles cachées, ses zones de liberté. Comment l’imaginaire érotique se construit parfois loin de la vie amoureuse réelle. Dans une langue superbe, à la fois moderne et réfléchie, l’auteure retrace une vie de fantasmes et de plaisirs solitaires : de la découverte d’une BD de charme dans le grenier de sa grand-mère aux vidéos X disponibles aujourd’hui. A chaque épisode correspond une avancée technologique : le film de Canal+, l’Internet, le hentai... Cette histoire singulière est aussi celle d’une génération, et ces chemins dévoilés peuvent être empruntés par tous. Une production ARTE Radio. « Les chemins de désir » est publié aux éditions du Seuil.

  • #Personne_ici_ne_sait_qui_je_suis

    Mille accents s’entremêlent dans les cours de français donnés dans ce centre social de quartier.
    Demandeurs d’asile, salariés, réfugiés, femmes et hommes des quatre coins du monde, lettrés ou jamais scolarisés, jeunes et personnes âgées, tous viennent apprendre une langue et tromper la solitude de l’étranger en France.
    Ce livre leur donne la parole.

    http://www.lemondealenvers.lautre.net/livres/personne_ici.html

    #BD #livre #bande_dessinée #Coline_Picaud

    #ateliers_socio-linguistiques #FLE #migrerrance #solidarité #attente #santé_mentale #migrations #étrangers #réfugiés #migrations #Grenoble #langue #apprentissage #parcours_migratoires #itinéraires_migratoires

    –-

    Les autres BD de Coline Picaud signalées sur seenthis :
    https://seenthis.net/tag/coline_picaud

  • La tumultueuse fin de règne de Didier Raoult, désavoué par sa fille médecin et inquiété par la justice
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/01/12/la-tumultueuse-fin-de-regne-de-didier-raoult-desavoue-par-sa-fille-medecin-e

    Même sa famille se fracture. La querelle couvait à bas bruit chez les Raoult, elle éclate désormais au grand jour. Le prénom de la fille de Didier, Magali (Carcopino-Tusoli), avait déjà disparu de la fiche Wikipédia de son père. Gommée du CV paternel, comme répudiée en ligne : elle n’est plus qu’« une fille née d’une précédente union » au côté de Sacha et Lola, les deux autres enfants du microbiologiste marseillais. Mais depuis que cette spécialiste en médecine vasculaire, qui ­officie à l’hôpital public marseillais de Sainte-Marguerite, s’est opposée aux avis médicaux du célèbre professeur, la guerre a pris un nouveau tour.

    La fille de Didier Raoult a décidé de citer en comparution directe pour « diffamation et injures » l’un des plus proches collaborateurs du fondateur de l’institut hospitalo-universitaire (IHU) de Marseille : le biochimiste Eric Chabrière, sniper chargé par l’institut de le défendre sur les réseaux sociaux. Une

  • Janvier 2022, un "colloque" (soi-disant) est organisé par l’#Observatoire_du_décolonialisme et le #Collège_de_philosophie.
    Sont entre autres présents à ce "colloque" #Jean-Michel_Blanquer et #Thierry_Coulhon (patron de l’HCERES)...

    Titre du colloque « Après la #déconstruction : reconstruire les sciences et la culture »
    https://decolonialisme.fr/?p=6333

    Ci-dessous un fil de discussion à son propos.

    #Université : « L’#universalisme_républicain ne se décrète pas, il se construit »

    Dans une tribune au « Monde », soixante-quatorze universitaires expliquent pourquoi le colloque organisé par l’Observatoire du décolonialisme, les 7 et 8 janvier à la Sorbonne, constitue une caricature de son objet, car il conduit à observer pour ne rien voir !

    Tribune :

    L’#Observatoire_du_décolonialisme et le #Collège_de_philosophie organisent les 7 et 8 janvier, avec l’aval de #Jean-Michel_Blanquer, un #colloque à la #Sorbonne, intitulé « Après la #déconstruction : reconstruire les #sciences et la #culture » dont l’objectif affiché est de dénoncer l’« #ordre_moral » que la « “pensée” décoloniale », également nommée « #woke » ou « #cancel_culture », introduit dans le domaine éducatif en contradiction avec « l’#esprit_d’ouverture, de #pluralisme et de #laïcité qui en constitue l’essence ».

    Il s’agit, est-il précisé, de « favoriser la construction, chez les élèves et les étudiants, des #repères_culturels fondamentaux » et de « faire un état des lieux, aussi nuancé que possible ». Cette recommandation laisse perplexe lorsque l’on constate que les animateurs des tables rondes sont les intervenants et vice-versa, et la quasi-totalité d’entre eux membres de l’Observatoire. Il serait vain dès lors d’attendre #débat_contradictoire ou mise en perspective.

    On pourrait s’étonner de la participation annoncée du président de l’agence gouvernementale chargée d’évaluer la recherche dans l’enseignement supérieur, le Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES), dont dépend l’avenir des laboratoires de sciences humaines et sociales. On sait toutefois que la dénonciation du #wokisme, ou d’autres chimères comme l’« #islamo-gauchisme », est un cheval de bataille du ministre de l’éducation nationale comme de la ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche.

    Une #police_de_la pensée

    La caution quasi officielle apportée par le président du #HCERES à l’Observatoire du décolonialisme laisse-t-elle présager l’apparition d’une police de la pensée qui sanctionnerait toute recherche suspectée d’être contaminée par le prétendu wokisme ? Admettons, bien qu’il soit infondé, le postulat de réduction du #décolonialisme à l’idéologie woke et à la cancel culture.

    De quoi est-il donc question ? On sait que l’expression « #being_woke » s’est popularisée aux Etats-Unis dans la communauté afro-américaine tout au long du XXe siècle pour désigner une nécessité : celle d’être éveillé aux #injustices, principalement alors de nature socio-économique. Le slogan, repris par le mouvement #Black_Lives_Matter (« les vies noires comptent »), gagne en popularité avant d’être récupéré par les conservateurs américains pour le dénigrer et disqualifier ceux qui en font usage.

    C’est ainsi que s’impose #wokisme, lequel suggère l’existence d’un mouvement politique homogène chargé de propager l’#idéologie_woke. Il est d’ailleurs assez cocasse que la dénonciation de l’américanisation du débat s’accommode de l’importation (fautive) de mots américains.

    Les nouveaux inquisiteurs

    Désormais, le wokisme désigne péjorativement ceux qui sont engagés dans les luttes antiracistes, féministes, LGBT, etc. Sous couvert d’alerter sur le nouveau danger qui menacerait l’école républicaine, il s’agit de réprouver ceux qui dénoncent les #discriminations fondées sur la couleur et qui font un lien entre celles-ci et notre passé colonial et/ou esclavagiste.

    Dans la rhétorique réactionnaire des nouveaux inquisiteurs, on pratique une stratégie d’#éradication_lexicale visant à éliminer du vocabulaire des #sciences_sociales des termes tels que #racisme_systémique, #privilège_blanc, #racisation, #intersectionnalité, #décolonialisme, termes prétendument dénués de toute rationalité. A de nombreux égards, la querelle ressemble à celle de la #political_correctness (le #politiquement_correct) du début des années 1990.

    En effet, cette dernière fut avant tout, aux Etats-Unis, l’occasion d’une offensive des conservateurs et de l’extrême droite contre le pouvoir supposé des #minorités. En France, le terme désigne, dans la méconnaissance du contexte américain, un ensemble hétérogène composé de marxistes, de multiculturalistes, de féministes, de postmodernistes, etc., tous accusés, entre autres vices, de #puritanisme, de #censure, de #dictature_des_minorités.

    Le #cyberharcèlement moralisateur

    A l’inverse, celui qui se veut politiquement incorrect fonde ses jugements sur la #liberté_de_penser, la #rationalité, le #courage_intellectuel. Qui ne s’en réclamerait ? Quelle est donc la valeur d’une position qui rassemble tout le monde et chasse des fantômes ? La « #wokeness » doit en réalité être comprise comme une dynamique inhérente à la #démocratie et, au-delà, l’indice des manquements de celle-ci à ses principes fondamentaux.

    Le sort réservé à la cancel culture (#culture_de_l’annulation) illustre ce point de vue. Comme le wokisme, il s’agit essentiellement d’un terme polémique, lequel a servi, d’abord à la droite américaine puis aux néoconservateurs français, à disqualifier toute interpellation progressiste. Ses adversaires pensent que son invocation relève du tribunal populaire et s’accompagne nécessairement de #cyberharcèlement_moralisateur.

    Il convient plutôt de l’interpréter comme une modalité de la protestation à l’usage de ceux qui disposent du seul pouvoir de marquer leur indignation en dénonçant certains dysfonctionnements dont la société s’accommode si souvent. Peut-on réellement penser que la cancel culture exprime, comme l’écrivent sans vergogne l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, la tentation de faire « table rase du passé, de l’histoire, de l’art, de la littérature, et de l’ensemble de l’héritage civilisationnel occidental » ? Nuance, disent-ils ?

    Les choses commencent à changer

    Plutôt que des effets de la cancel culture, ne faudrait-il pas s’inquiéter de la culture de l’#impunité, laquelle préfère la #disqualification à la dispute argumentée ? Que les choses commencent à changer, nous ne pouvons que nous en réjouir et non redouter la « dictature des minorités ». C’est, au contraire, des droits de ces dernières que nous devrions nous soucier si nous voulons combattre la dérive droitière à laquelle les organisateurs, en invitant #Mathieu_Bock-Côté à s’exprimer, sont coupablement inattentifs.

    L’#universalisme_républicain ne se décrète pas, il se construit. Cela passe par la lutte contre les discriminations de classe, sexistes, homophobes ou ethnoraciales, comme contre les #préjugés racistes, antisémites et islamophobes, aujourd’hui de nouveau en vogue dans les espaces publics. Nier leur existence, c’est nuire gravement à l’idéal républicain.

    Les signataires de cette tribune sont : Nicolas Bancel, professeur ordinaire, université de Lausanne ; Gilles Bastin, professeur, Sciences Po Grenoble ; Hourya Bentouhami, maîtresse de conférences, université Toulouse-II-Jean-Jaurès ; Magali Bessone, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Pascal Blanchard, chercheur associé, CRHIM/UNIL Lausanne ; Philippe Blanchet, professeur, université Rennes-II ; Fabienne Bock, professeure émérite, Paris-XIII ; Gilles Boëtsch, directeur de recherche émérite, INEE-CNRS ; Olivier Borraz, directeur de recherche, IEP Paris ; Ahmed Boubeker, professeur, université de Saint-Etienne ; Michel Cahen, directeur de recherche émérite, IEP Bordeaux ; François Calori, maître de conférences, Rennes-I ; Philippe Chanial, professeur, université de Caen ; Sébastien Chauvin, professeur associé, université de Lausanne ; Christiane Chauviré, professeure émérite, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Catherine Coquio, professeure, Université de Paris ; Philippe Corcuff, maître de conférences, IEP Lyon ; James Costa, maître de conférences, université Sorbonne-Nouvelle ; Bruno Cousin, professeur assistant, IEP Paris ; Pierre Crétois, maître de conférences, université Bordeaux-Montaigne ; Martine de Gaudemar, professeure émérite, université Paris-Nanterre ; Thierry Deshayes, chercheur postdoctoral, université de Neuchâtel ; Stéphane Dufoix, professeur, membre senior de l’IUF, université Paris-Nanterre ; Estelle Ferrarese, professeure de philosophie, université de Picardie Jules-Verne ; Franck Fischbach, professeur, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Vincent Foucher, chargé de recherche, IEP Bordeaux ; Jean-Louis Fournel, professeur, université Paris-VIII ; Pierre François, directeur de recherche, IEP Paris ; Claude Gautier, professeur, ENS Lyon ; Jean-Christophe Goddard, professeur, université de Toulouse-II Jean-Jaurès ; Sophie Guérard de Latour, professeure, ENS Lyon ; Jacques Haiech, professeur honoraire, université de Strasbourg ; Abdelhafid Hammouche, professeur, université de Lille ; Stéphanie Hennette-Vauchez, professeure, Paris-Nanterre ; François Héran, professeur, Collège de France ; Philippe Huneman, directeur de recherche, IHPST ; Chantal Jaquet, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Nadia Yala Kisukidi, maîtresse de conférences, université Paris-VIII ; Stefan Kristensen, professeur, université de Strasbourg ; Sandra Laugier, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Jeanne Lazarus, directrice du département de sociologie, IEP Paris ; Olivier Le Cour Grandmaison, professeur, université d’Evry ; Patrick Le Galès, directeur de recherche, IEP Paris ; Claire Lemercier, directrice de recherche, IEP Paris ; Françoise Lorcerie, directrice de recherche émérite, université d’Aix-Marseille ; Pascal Maillard, professeur agrégé, université de Strasbourg ; Philippe Marlière, professeur, University College London ; Nonna Mayer, directrice de recherche émérite, IEP Paris ; Catherine Miller, directrice de recherche, université d’Aix-Marseille ; Yann Moulier-Boutang, professeur émérite, UTC-Alliance Sorbonne-Université ; Laure Murat, professeure, université de Californie à Los Angeles (UCLA) ; Christine Musselin, directrice de recherche, IEP Paris ; Etienne Nouguez, chargé de recherche, IEP Paris ; Janie Pélabay, chargée de recherche, IEP Paris ; Roland Pfefferkorn, professeur émérite, université de Strasbourg ; Alain Policar, chercheur associé, IEP Paris ; Clotilde Policar, professeure, ENS Paris ; Jean-Yves Pranchère, professeur, ULB Bruxelles ; Alain Renaut, professeur émérite, Sorbonne-Université ; Jacob Rogozinski, professeur, université de Strasbourg ; Diane Roman, professeure, université Paris-I Panthéon-Sorbonne ; Laurence Rosier, professeure, ULB Bruxelles ; Emma Rubio-Milet, professeure agrégée, université Sorbonne-Nouvelle ; Haoues Seniguer, maître de conférences, IEP Lyon ; Réjane Sénac, directrice de recherche, IEP Paris ; Vincent Tiberj, professeur associé, IEP Bordeaux ; Julien Talpin, Chargé de recherche, université de Lille ; Fabrice Virgili, directeur de recherche, UMR Sirice/CNRS ; Tommaso Vitale, professeur associé, IEP Paris ; Albin Wagener, maître de conférences, université Rennes-II ; Patrick Werly, maître de conférences HDR, université de Strasbourg ; Aline Wiame, maîtresse de conférences, université Toulouse-II Jean-Jaurès ; Charles Wolfe, professeur, université de Toulouse Jean-Jaurès ; Geneviève Zoïa, professeure, université de Montpellier ; Valentine Zuber, directrice d’études, EPHE.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/05/universite-l-universalisme-republicain-ne-se-decrete-pas-il-se-construit_610

    #Blanquer #Thierry_Culhon

    –-
    ajouté à ce fil de discussion :

    Projet de #loi sur les #principes_républicains : le niveau des eaux continue de monter
    https://seenthis.net/messages/908798

    • Un vrai-faux colloque à la Sorbonne pour mener le procès du « wokisme »

      Vendredi 7 et samedi 8 janvier s’est tenu à la Sorbonne un #colloque éloigné des canons du genre, mais patronné par d’illustres visiteurs, dont le ministre de l’éducation nationale, qui a par ailleurs aidé à financer l’événement. « Épidémie de #transgenres », « soleil noir des minorités » : les formules ont fleuri pour qualifier la manière dont le #décolonialisme et les #études_intersectionnelles martyriseraient l’université française.

      Vendredi 7 janvier, il est à peine neuf heures, deux mondes s’affrontent aux portes de la Sorbonne. Dehors, étudiants et enseignants-chercheurs (soutenus par plusieurs syndicats, dont Solidaires, la CGT et l’Unef, ainsi que par le Nouveau Parti anticapitaliste) moquent « les paniques identitaires » et dénoncent un événement « réactionnaire ». Dedans, on se presse pour prendre place dans le prestigieux amphithéâtre Liard, pour deux jours de colloque sur la « déconstruction » et le « wokisme », afin de « reconstruire les sciences et la culture ». Plus de 1 300 personne se sont inscrites pour assister aux débats, la plupart suivront la discussion jusqu’à samedi en ligne, en raison du contexte sanitaire.

      En plus des agents de la Sorbonne, légèrement sur les dents, des jeunes du très droitier syndicat UNI (Union nationale universitaire) font le contrôle des passes sanitaires et des identités, sweat-shirts floqués à leurs couleurs sur le dos. Ce sont d’ailleurs quasiment les seuls étudiants présents, les cheveux blancs étant plutôt dominant dans l’assistance. Deux jeunes gens s’en plaignent auprès de l’un des intervenants : « Les étudiants ont eu peur de venir, c’est sûr, mais nous vous soutenons ! »

      Dans les travées, avant l’ouverture des travaux sur « la pensée décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », les discussions donnent un peu le ton : « Maintenant, si tu as un fils qui veut mettre une jupe, tu vas devoir lui dire “oui, peut-être”, se plaint un participant. Alors qu’il y a 30 ans, ça ne se faisait pas, et puis c’est tout. Aujourd’hui, tu es homme hétérosexuel le lundi, femme le mardi et tu te fais opérer le mercredi… » L’eurodéputé Les Républicains (LR) #François-Xavier_Bellamy tweete depuis la salle ses remerciements pour cette initiative « salutaire ».

      #Élisabeth_Lévy, éditorialiste vedette du magazine Causeur, distribue les saluts sonores, une journaliste prend des notes pour l’Incorrect. D’autres spectateurs ont tout annulé pour entendre en vrai de vrai #Mathieu_Bock-Côté, chroniqueur choisi par Europe 1 et CNews en remplacement de Zemmour. « Je l’adore, il est génial, non ? »

      Ils seront servis. Nombre des intervenants sont des chouchous de CNews et de FigaroVox, effrayés par la « dictature des minorités » : l’essayiste #Pascal_Bruckner, figure médiatique de ce courant néoconservateur qui a récemment publié Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc (Grasset, 2020) ; le dessinateur #Xavier_Gorce, qui a récemment quitté Le Monde après la « censure » de dessins jugés insultants ; #Pierre-André_Taguieff, qui a imposé le terme d’« islamo-gauchisme » dans le débat public et dont Nicolas Lebourg rappelait récemment dans Mediapart le rôle essentiel joué dans la dénonciation de l’#antiracisme comme « #nouveau_totalitarisme » ; ou encore le linguiste #François_Rastier, connu pour ses croisades contre l’#écriture_inclusive et les recherches sur le genre.

      Mais pour l’heure, la star du jour s’appelle Jean-Michel Blanquer, présent à la tribune en ouverture des travaux. Le ministre de l’éducation nationale remercie les organisateurs pour ce colloque sur un thème « si essentiel », « pour avoir eu le courage et la persévérance de l’organiser », et s’excuse par avance de la brièveté de son passage, « en raison de la crise sanitaire », mais il « devait être là, en Sorbonne ». Le ministre a même financé l’événement sur un fonds réservé. « Quand l’université ne soutient pas les universitaires, il faut bien qu’ils aillent chercher du soutien ailleurs », nous a répondu la professeure de littérature #Emmanuelle_Hénin, cheville ouvrière de l’opération.

      Un tel patronage n’a rien d’évident. Co-organisé par deux associations extra-universitaires controversées, l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, l’événement ressemble plus à une discussion savante – mais très politique – qu’à un colloque selon les canons du genre.

      Contactée par Mediapart, Sorbonne-Université a d’ailleurs tenu à préciser qu’elle n’avait rien à voir avec l’organisation, nous renvoyant vers la chancellerie des universités. Celle-ci, sous le patronage du recteur de Paris, propose en effet différentes salles du prestigieux bâtiment à la location pour des entreprises, des associations, autonomie des universités oblige…

      L’Observatoire du décolonialisme, fondé l’an dernier pour « mettre un terme à l’embrigadement de la recherche et de la transmission des savoirs » par « l’idéologie décoloniale », réunit des universitaires et des chercheurs, pour certains éminents dans leur spécialité, mais qui ont tous pour point commun de ne pas avoir de compétence particulière sur les sujets de sciences sociales dont ils parlent.

      Dans une tribune publiée le 5 janvier dans Le Monde, 74 chercheurs mettaient en garde contre une telle « caricature » : « Il s’agit, est-il précisé [dans ce colloque – ndlr], de “favoriser la construction, chez les élèves et les étudiants, des repères culturels fondamentaux” et de “ faire un état des lieux, aussi nuancé que possible”. Cette recommandation laisse perplexe lorsque l’on constate que les animateurs des tables rondes sont les intervenants, et vice versa, et la quasi-totalité d’entre eux membres de l’Observatoire. Il serait vain dès lors d’attendre débat contradictoire ou mise en perspective. »

      Enfin le Collège de philosophie, association loi 1901 pour le moins confidentielle, peut induire en erreur tant son nom est proche du Collège international de philosophie, une institution au rayonnement scientifique international, créée notamment par Jacques Derrida, le penseur de la déconstruction. Des intellectuels tels que Giorgio Agamben, Barbara Cassin, Jacques Rancière, Alain Badiou en ont assuré la renommée.

      Et alors qu’il sera tout au long de la première journée beaucoup question de #Derrida, pas un seul spécialiste connu de l’intellectuel n’est présent. « On parle de la #déconstruction, qui n’est pas la propriété de Derrida, justement pour montrer que c’est un concept dynamique, pas figé, qui est aujourd’hui réinterprété », justifie Emmanuelle Hénin. Certes, mais quand l’anthropologue #Albert_Doja saute en quelques minutes de la dispute intellectuelle opposant Jacques Derrida et Claude Lévi-Strauss sur la « leçon d’écriture » du célèbre ouvrage Tristes tropiques à… l’écriture inclusive, on s’interroge sur le choix du panel.

      Parmi les intervenants, mêmes approximations et parfois tromperies sur l’étiquette. #Sami_Biasoni, présenté comme philosophe, est un ancien trader en matières premières à la Société générale, ancien candidat aux municipales sur une liste dissidente de LR dans le VIIIe arrondissement de Paris, docteur en philosophie. Mais on ne lui connaît aucune publication scientifique. #Pierre_Valentin, également présenté comme philosophe, est en réalité « journaliste en formation », salarié depuis un an par FigaroVox. Il est l’auteur d’une note sur le « phémonène woke » pour la #Fondapol, « en deux volumes ». L’agrégé de lettres classiques et adjoint à l’urbanisme à la mairie de Pecq, #Raphaël_Doan, devient, dans cette présentation, « historien » et intervient sur la « cancel culture ».

      « Ce n’est pas un colloque scientifique, c’est une #réunion_politique, cingle Caroline Ibos, sociologue au département Études de genre à l’université Paris VIII-Vincennes-Saint-Denis. Ce n’est pas un problème d’ailleurs, encore faut-il le dire... C’est d’autant plus gênant que ces gens se drapent dans la neutralité axiologique et ne cessent de dénoncer les chercheurs qui confondraient la science et le militantisme. Le plus gros souci dans tout cela est la présence de Blanquer. »

      Le ministre de l’éducation nationale semble n’avoir cure de cette critique, vantant dans sa prise de parole « un événement intellectuel, scientifique » sur un sujet qui a « de grandes conséquences sociales, sociétales, civiques ». « Les Lumières font peur, il y a comme une haine de soi qui doit être identifiée, poursuit le ministre, avant d’appeler à « l’offensive » pour sauver « l’#universalisme pris en tenaille entre #revendications_identitaires de l’extrême gauche comme de l’extrême droite ». Il est vivement applaudi.

      « Ceci n’est pas un colloque », s’amuse le philosophe Pierre-Henri Tavoillot, co-organisateur, citant le peintre Magritte, alors que le ministre s’échappe, sous les huées du dehors. Pour présenter la première table ronde, consacrée aux « trois âges » de la pensée déconstructionniste, dont le « wokisme » et l’intersectionnalité seraient les enfants, il invite à réfléchir sur une période où « tout serait oppression, unique clé de lecture du monde contemporain ». L’historien #Pierre_Vermeren, spécialiste du monde arabe et auteur d’un livre récent sur la métropolisation du monde, estime que tout est sur la table depuis 60 ans, un seul « mot d’ordre intellectuel et politique » : retourner la #civilisation_européenne contre elle-même, le « verbe français contre lui-même ».

      Au fil des tables rondes et de la critique de l’intersectionnalité (concept visant, dans l’analyse sociologique et politique, à croiser les discriminations de classe, de genre ou encore de race au sens de construction sociale), l’ouvrier, le prolétaire, est régulièrement convoqué face au « soleil noir que sont devenues les minorités » (comprendre les femmes, les racisé·es, les personnes LGBTQ+), souvent par des personnalités pourtant peu connues pour leurs sympathies marxistes.

      #Pascal_Perrineau, politologue à Sciences-Po Paris, habitué des plateaux télévisés, critique ainsi une idéologie qui vise à déconstruire « toutes les catégories du réel et la démocratie représentative », et parle d’une « obscure oppression généralisée, par les hommes blancs hétérosexuels, qu’il faudrait déconstruire avec d’autant plus de vigueur qu’elle n’a pas l’évidence de l’oppression économique ».

      Il tacle au passage des membres du Centre de recherches politiques de Sciences-Po (#Cevipof), et notamment #Réjane_Sénac pour son livre L’Égalité sans condition. Osons nous imaginer et être semblables (Rue de l’Échiquier, 2019), avant de glisser, sous l’œil complice de l’assistance : « Vous voyez pourquoi je ne suis plus directeur… », après quand même 21 années passées à la tête du Cevipof.

      La prétendue mainmise des tenants de l’intersectionnalité, du décolonialisme ou des « #genderistes » sur l’université française, sous influence-nord américaine, est au cœur des discussions. Y compris sur les sciences dites dures, comme la physique ou les mathématiques. Le programme pour la mobilisation des #savoirs_autochtones dans l’étude de la physique, développé par l’université Concordia au Canada, provoque l’effroi (« Ils veulent décoloniser la lumière », moque #Bruno_Chaouat, spécialiste de littérature), alors que le mathématicien de Princeton Sergiu Klainerman dénonce dans une vidéo le débat autour du manque de diversité dans l’enseignement des mathématiques et d’un #biais_raciste.

      « Deux et deux ne font plus quatre », déclare t-on à la tribune. « Cela rappelle le moment Lyssenko, quand la science prolétaire devait remplacer la science bourgeoise, ou le moment Goebbels, quand la science devenait plus sensible à la race », ose Bruno Chaouat.

      Ces propos trouvent un écho bien au-delà du cénacle de l’amphithéâtre Liard. En juin 2020, Emmanuel Macron disait en privé que les universitaires sont coupables d’« ethnicisation de la question sociale » » et « cassent la République en deux », des propos proches des théories des mouvements du Printemps républicain et de Vigilance université, dont nombre d’intervenants du colloque sont proches ou membres.

      Jean-Michel Blanquer lui-même a parlé, visant à nouveau les universitaires, de « complicités » après l’attentat contre Samuel Paty en octobre 2020. Il y a un, an Frédérique Vidal déclenchait à son tour la consternation dans la communauté scientifique en annonçant vouloir diligenter une enquête sur « l’islamo-gauchisme » à l’université.

      Le CNRS, auquel cette embarrassante mission aurait été confiée, avait immédiatement répondu par voie de communiqué que la notion n’était qu’un « slogan politique » ne correspondant « à aucune réalité scientifique ». L’organisme avait par ailleurs mis en garde contre toute « instrumentalisation de la science », en précisant qu’il condamnait « les tentatives de délégitimation de différents champs de la recherche, comme les études postcoloniales, les études intersectionnelles ou les travaux sur le terme de “race”, ou tout autre champ de la connaissance ».

      Certains débats du colloque tentent de sortir de l’acrimonie, notamment sur la question de la place de l’étude de l’islam à l’université, avec les interventions moins directement polémistes du sociologue #Bernard_Rougier (lire ici son portrait dans Le Crieur) et du politologue #Arnaud_Lacheret, basé au Bahreïn.

      Mais les outrances l’emportent le plus souvent, dont celles de Pierre-André Taguieff, qui n’hésite pas à faire du « wokisme » un « #ethnocide de grande ampleur », ou de la sociologue de l’art #Nathalie_Heinich, qui parle « d’#abus_sur_enfant » en donnant les coordonnées d’une association luttant contre ce qu’elle nomme une « #épidémie_de_transgenres » favorisée par les enseignants de l’Éducation nationale.

      Le mélange des registres n’arrange rien puisque chacun y va de son histoire personnelle, de la journaliste #Claire_Koç au politologue #Vincent_Tournier, enseignant à l’Institut d’études politiques de Grenoble, où les polémiques s’enchaînent depuis neuf mois. Ce dernier, dans une table ronde intitulée « Il faut sauver Blanche-Neige ! Totems et tabous de la cancel culture », n’y est pas allé avec le dos de la cuillère.

      Relevant sous forme de blague la non-parité à la tribune (norme du colloque d’après nos observations), il disserte sur la censure dans le cinéma et fait rire en regrettant qu’une photo d’actrice nue soit peu visible sur le grand écran de la Sorbonne. « Vous ratez, messieurs, la meilleure partie du film ! » Puis, à propos de Blanche-Neige, il se demande benoîtement si le dessin animé n’est pas totalement « woke-compatible », puisqu’il met en scène des nains, et même le « quota handicapé, grâce à Simplet ».

      Aucune expression réellement discordante n’a eu voix au chapitre. « Nous avons essayé d’en inviter mais ils ne sont pas venus, par peur des réactions, explique Emmanuelle Hénin. Et d’ailleurs, quand il y a des colloques sur le colonialisme, ils ne nous invitent pas ! » Au moins trois chercheurs, dont le professeur de droit Olivier Beaud et le professeur de littérature Jean-Yves Masson, ont effectivement fini par décliner l’invitation devant l’absence de légitimité académique de certains des intervenants.

      « Quand l’Observatoire du décolonialisme a lancé son appel lors de sa création, ils ont été 77 à répondre, 30 professeurs émérites, donc des retraités, et 60 hommes, c’est un premier élément d’explication, remarque Caroline Ibos. Ce sont des gens qui ont été puissants, très puissants, et qui se trouvent confrontés à une perte de pouvoir car oui, l’université change, et les sciences sociales aussi. Nous, on fait notre travail de chercheurs, on dirige des thèses, on gère un laboratoire, on travaille beaucoup. Nous n’avons pas le temps pour ces bêtises. »

      Se poursuivant samedi 8 janvier, le colloque devait se clore par l’intervention de #Gilbert_Abergel, président du #Comité_laïcité_République, et plus surprenant, de Thierry Coulhon, président du très officiel Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES). Interrogé sur la critique concernant le manque de rigueur scientifique des intitulés et la composition des panels, ce dernier reconnaît « des formulations un peu flottantes et peu rigoureuses ».

      Pas de quoi faire renoncer Thierry Coulhon, ancien conseiller d’Emmanuel Macron sur l’enseignement supérieur : « Je ne suis pas là pour apporter une caution ou pour me faire instrumentaliser mais je trouve dangereux d’aller à des débats où l’on est d’accord avec tout le monde. Dans le milieu universitaire, on a intérêt à se parler. » Quitte à monologuer.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/080122/un-vrai-faux-colloque-la-sorbonne-pour-mener-le-proces-du-wokisme

    • Avec le hashtag #colloquedelahonte, Olivier Compagnon a fait un très bon live twitter :

      Voici le résumé du 1er jour du « colloque » :

      Colloque de la honte « Après la déconstruction », premier constat à 9h09 : les organisateurs n’ont pas encore déconstruit leur rapport au numérique puisqu’ils ne savent manifestement pas se servir de zoom.

      9h16 : il semble que ces collègues n’ont pas fait beaucoup d’enseignement à distance ou d’hybride pendant le confinement. Le zoom est désormais coupé.

      9h21, ça ne s’arrange pas. Le colloque de la reprise en main de l’enseignement supérieur et de la recherche est mal parti

      9h35, je renonce à ma rééducation intellectuelle puisque le zoom du #colloquedelahonte ne fonctionne pas. On ne dira pas que je n’ai pas essayé. Tout cela me laisse du temps pour lire

      Bon, je dois dire que je viens d’écouter 10 mn d’une introduction ânonnée. C’est nul et réac comme on pouvait s’y attendre, mais le pire est le niveau des commentaires sur le zoom. Un exemple : quand sont évoqués les risques pesant sur le latin, un gars écrit « le latin.e »...

      Si l’on entend bien les remerciements, le ministère de l’Education nationale a contribué au financement de ce #colloquedelahonte.

      Ah merde, tout est de la faute de la « pensée 68 » et un hommage est rendu à Luc Ferry pour ses analyses libératrices

      « Quelle est la domination la pire ? C’est ma domination, c’est pas la tienne ».

      Un peu de nostalgie avec Pierre Vermeren : tout ce bordel commence en 1962, avec l’indépendance de l’Algérie, qui met un terme à un grand projet d’expansion civilisationnel français et européen. Les origines de l’"effondrement politique et moral" contemporain

      Ah, il balance sur Hélène Cixous, c’est la transition vers la prochaine présentation sur « l’imposture Derrida ». Finalement, tout cela ne serait pas arrivé si on avait su garder l’Algérie.

      Bon, c’est dégueulasse, ça suffit.

      Ce #colloquedelahonte est addictif : j’y reviens après pris l’air. On parle d’hétéronormativité, de retour à une conception du savoir du XVIe siècle, ça n’a pas l’air de s’arranger.

      Là, ils font la pause, ils doivent être crevés après des débats d’un tel niveau. Surtout quand il s’est agi de comparer le « déconstructionnisme » à l’apparition de chaires sur la magie dans l’université.

      La bonne nouvelle, c’est qu’ils ne savent toujours se servir de zoom (11h59) et que le public zoom n’a rien entendu à la vidéo de Taguieff.

      La parole est désormais à Helen Pluckrose, cette journaliste britannique qui a envoyé à des revues scientifiques de faux articles sur la culture du viol chez les chiens. Quel casting !

      Comme c’est en anglais, le public zoom échange sur la qualité du son de sa vidéo. #colloquedelahonte

      On passe à « l’état des sciences humaines aux Etats-Unis ». Le mec dénonce « l’essentialisme stratégique » et n’aime pas trop les trans apparemment. Il lance aussi un parallèle entre « déconstructionnisme » et nazisme en s’appuyant sur Heidegger. Les digues sautent

      « Terrorisme intellectuel » : le mot est lâché, enfin ! Blanquer doit être content là. Le mec a dit « étudiantes femelles » aussi, mais s’est repris quand même

      La parole est désormais à un spécialiste d’équations différentielles. Beaucoup de mecs dans le casting, quand même, ce matin, non ? Le gars y va fort d’emblée : enjeu civilisationnel, avenir de l’humanité, etc.

      Un petit coup d’oeil aux commentaires du public zoom, ça détend.

      Le matheux, c’est un suprémaciste blanc. Applaudissements nourris, commentaire du modérateur parlant de totalitarisme.

      On parle désormais des « Science and Technology Studies ». La déconstruction, c’est « l’anti-science », c’est « la recherche d’un monde sans tragique ». Est mal à l’aise avec « science participative » et « science citoyenne » qui rappellent la « physique aryenne »

      Conclut sur la « soi-disant discrimination entre hommes et femmes ». C’est génial, ce #colloquedelahonte

      La parole à Christophe de Voogd, « normalien » (surtout de l’Institut Montaigne en fait), sur les usages du passé. Mépris pour les étudiants qui ne connaissent plus Marc Bloch. A dix minutes de parole, mais prend le temps de rappeler qu’il est agrégé

      « Si on oublie le puritanisme, on ne comprend rien au wokisme ». Tout se barre et en France on ne sait plus l’histoire, la sociologie est devenue dominante (celle de ce sale Bourdieu alors qu’on a oublié Boudon) « ah pardon chère Nathalie Heinich ».

      30 minutes de retard, ça n’en finit pas. Edward Said, cette peste. New York Times collabo. Séparer le grain de l’ivraie. Terrible défi. En gros, son idée de base est que les « déconstructionnistes » sont ignorants, ne connaissent pas les faits. Faiblard

      Ouf, ils vont manger. Sans doute un bourguignon plutôt que des tacos.

      J’ai fini mon poulet tikka (hommage à Dipesh Chakrabarty évidemment) et je piaffe en attendant la table ronde sur « Le retour de la race ».

      Gros programme cet aprem : race / islam / gender / cancel. Je vais me contenter de la race avec une table ronde composée de « témoins » et d’"experts". Ah, petit lapsus historique / hystérique en intro, très bon.

      « Vous me pardonnerez mes raccourcis ». Ben non...

      Bruckner explique (depuis les témoignages de J. Baker ou Baldwin) que, dans la France des années 40-50, les afro-descendants ou les gays ne subissaient aucune discrimination, aucune stigmatisation.

      « Le wokisme est une religion ». Les wokes infantilisent la communauté noire et, dans le même temps, reconstituent un nouveau racisme (anti-blanc). Le vrai problème aux US, c’est « la violence interne à la communauté noire » (sic).

      Si je comprends bien, les Noirs n’ont qu’à s’en prendre à eux-mêmes. Bien, Bruckner, bien. Personne n’a encore dit que la race était une construction sociale (ce qu’on commence à dire aux étudiants à tous les niveaux, non ?)

      Ah, belle conclusion : Tahar Bouhafs = nazi (dit moins brutalement, mais c’est ce qu’il a dit).

      Claire Koç prend la parole et a le mérite de préciser que son témoignage n’a pas valeur de généralisation. Etre français, c’est le vouloir, le prénom est fondamental. Bon c’est du Zemmour. Eloge de l’assimilation, on se croirait au milieu du XXe siècle

      « Je ne porte pas mes origines en bandoulière ». Métaphore mal maîtrisée ?

      « Français de souche »

      Voici le Québécois de CNEWS, qui va essayer de décrire « l’univers mental » du wokisme.

      n gros, il n’y a pas de privilège blanc mais le wokisme conduit à un racisme anti-blanc. Je trouve que ça tourne un peu en rond (sans compter que l’administration de la preuve c’est pas leur truc aux grands témoins)

      Gros niveau parmi le public zoom

      « L’éternelle question des révolutionnaires totalitaires », pas mal. « Je vais me tourner vers mes amis racisés pour me rééduquer dans une sorte de vigilance permanente de ma conscience » (éclats de rire dans la salle).

      « Le wokisme est une logique totalitaire ». Déjà dit ce matin, tu préparais ton émission de CNEWS, t’as pas pu assister ?

      La faute politique, c’est d’avoir dénationaliser comme dans le « woke Canada ». Le woke est un discours désormais dominant dans les universités, chez Microsoft, tout le monde s’est soumis. Il faut combattre le wokisme comme certains ont combattu le marxisme

      Eloge de la nation et des nationalismes donc, t’as bien choisi en allant chez CNEWS mec.

      Commence le débat. Bruckner dit que c’est la faute à la gauche et balance sur FI, le NPA, les Verts, etc. On ne peut pas continuer à soumettre le monde occidental à la vindicte ("l’Europe n’a pas inventé l’esclavage, mais l’abolition")

      il passe à la guerre d’Algérie : « Bouteklika a balancé sur la France génocidaire, il aurait mieux fait de s’en prendre à l’Empire ottoman ». Traduction : notre colonisation fut si douce, si civilisée

      « Exister en tant que Blanc, ce n’est plus qu’expier ». Bon, il a écrit le Sanglot de l’homme blanc en 1983 et le bégaye depuis. Vieillir est un naufrage, ça se confirme.
      Ah, de nouveau une attaque contre le New York Times

      « Le wokisme, c’est l’alliance d’une idéologie majoritaire dans les élites et le grand capitalisme ». Assia Traoré est ainsi l’émissaire de grandes marques. Hum, j’ai du mal à suivre la pensée là

      « Tous les Blancs ne sont pas interchangeables » : une pensée puissante du mec de CNEWS pour conclure la table. Applaudissements enthousiastes.

      La salle est à fond après cette table ronde

      e m’arrête là pour aujourd’hui. Y’a pas trop de quoi s’inquiéter tellement c’est faible, c’est une simple litanie depuis 9h du mat’. Faut juste éviter que ces gens-là ne gagnent définitivement la bataille médiatique. Celle des idées, ils ne risquent pas.

      Je ne me suis pas déconnecté assez vite, j’ai entendu l’intro sur l’islam par #Vincent_Tournier : « j’annonçais depuis longtemps les attentats et je remercie les frères Kouachi d’avoir en fait validé mon cours auprès de la direction de l’IEP ». BEURK

      https://twitter.com/CompagnonO/status/1479364600776859649

    • A la Sorbonne, un colloque pour « cancel » la « culture woke »

      Les deux journées de débats des 7 et 8 janvier s’inscrivent dans un conflit délétère qui dure depuis près de trois ans entre les chercheurs favorables aux études de genre ou dites « décoloniales » et ceux qui n’y voient que l’expression d’un repli « identitaire ». Le ministre de l’Education nationale, Jean-Michel Blanquer, pourrait y prendre part.

      Une table ronde sur les « dérives du déconstructionnisme ». Une autre sur « racialisme et néoracisme ». Mais aussi sur « le néoféminisme » ou la « cancel culture ». Tel est, en partie, le programme d’un colloque proposé les 7 et 8 janvier par le Collège de philosophie et qui se tiendra dans un amphithéâtre de la Sorbonne (1). Intitulés « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture », les deux jours de débat réuniront aussi bien des chercheurs en sociologie, en musicologie ou en linguistique que des polémistes conservateurs, comme le remplaçant d’Eric Zemmour sur CNews Mathieu Bock-Côté, des romanciers comme Pascal Bruckner et Boualem Sansal ou encore l’éditorialiste à Marianne Jacques Julliard et le dessinateur démissionnaire du Monde Xavier Gorce.

      L’événement promet de s’attaquer à « la ‘‘pensée’’ décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », « importée pour une bonne part des Etats-Unis » et qui « monte en puissance dans tous les secteurs de la société ». A vocation scientifique, les tables rondes prévues ne sont pas dépourvues d’enjeux politiques. La présence de Jean-Michel Blanquer est en effet annoncée au colloque. Le ministre de l’Education nationale « prononcera à cette occasion un mot d’ouverture », précise l’Observatoire du décolonialisme sur son site. Façon de donner l’assentiment du gouvernement aux débats qui s’y tiendront ? Contacté par Libération, le cabinet du ministre explique toutefois ne pas être en mesure de confirmer sa présence ce vendredi 7 janvier à la Sorbonne.

      Reste que l’intitulé des thématiques débattues durant ces deux jours converge assez nettement avec les obsessions du ministre de l’Education nationale, son « laboratoire de la République » pour lutter contre le « wokisme », et celles de sa collègue à l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal. Cette dernière a d’ailleurs tenu une nouvelle fois des propos polémiques le 15 décembre au Sénat en déclarant que des chercheurs étaient « empêchés dans leurs travaux ». Allusion à la prétendue « idéologie woke » et à la « cancel culture » qui séviraient, selon elle, dans les facs et les laboratoires français. Des suspicions qui peuvent apparaître en décalage avec la précarité étudiante, le manque chronique de financement de la recherche publique ou l’effondrement du nombre de doctorats en France.

      En conclusion de ces journées de discussions, une autre présence ne laisse pas d’interpeller la communauté scientifique. Celle de Thierry Coulhon, président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (Hcéres), nommé en octobre 2020 par Emmanuel Macron malgré une « apparence de conflits d’intérêts » selon le collège de déontologie de l’enseignement supérieur et de la recherche, et la contestation d’une large partie de ses pairs. « J’y vais car il est question de liberté académique, je n’ai pas l’intention d’être instrumentalisé et je ne partage pas les opinions de tous les intervenants, balaie le mathématicien de formation et ex-conseiller de Valérie Pécresse auprès de Libération. L’Hcéres n’est pas là pour dire si tel ou tel domaine de recherche est digne d’intérêt. » Et d’ajouter : « La frontière entre militantisme et science est très difficile à déterminer. La liberté académique, ce n’est pas l’opinion. »
      « Pluralisme éclairé »

      « Le principe de ce colloque, peut-on lire dans l’annonce mise en ligne, est de faire un état des lieux, aussi nuancé que possible, et d’envisager comment conserver au sein du monde scolaire et universitaire, les conditions d’un pluralisme éclairé. » A l’origine du raout entre universitaires et polémistes, des membres de l’Observatoire du décolonialisme, comme le maître de conférences en philosophie à la Sorbonne Paris-IV Pierre-Henri Tavoillot ou le maître de conférences en linguistique à l’université Paris-13 Xavier-Laurent Salvador. Nous les avons joints mais faute d’être tombés d’accord sur les termes d’un entretien portant sur le fond de ce colloque et les conditions du débat d’idées en général, ces derniers n’ont pas souhaité répondre aux questions de Libération dans le cadre d’un article. « Le but de ce colloque est d’ouvrir le débat ; pas de le clore », assure néanmoins Pierre-Henri Tavoillot au Figaro. « Si nous ne faisons rien, nous nous exposons à voir des textes expurgés ou censurés et, à moyen terme, des champs disciplinaires entiers remplacés par les “études culturelles” transversales qui ne reposent pas sur un savoir validé mais sur des préjugés militants », ajoute, toujours dans le Figaro, Emmanuelle Hénin, professeure de littérature française et coorganisatrice.

      Cette nouvelle séquence s’inscrit dans un conflit délétère qui dure depuis près de trois ans entre les chercheurs favorables aux études de genre ou dites décoloniales et ceux qui n’y voient qu’un dévoiement militant de la science, voire l’expres

      sion d’un repli « identitaire ». Depuis 2018, un nombre considérable de tribunes parues dans la presse n’ont cessé de mettre en garde contre « une stratégie hégémonique » du « décolonialisme » qui « infiltre les universités » et « menace » la République. S’il est indéniable que les recherches sur les minorités raciales ou sexuelles ont progressé ces dernières années, leur degré d’institutionnalisation demeure très faible. En France, il n’existe ni départements, ni laboratoires, ni doctorats d’études « décoloniaux » ou même « postcoloniaux ». Cela signifie qu’aucun poste n’est « fléché » comme tel, ce qui est pourtant le nerf de la guerre. Seuls quelques masters portent les mentions « études postcoloniales » ou « études sur le genre ». De même, les labos consacrés au genre sont rares, comme le Laboratoire d’études de genre et de sexualité en France, le Legs (CNRS), ou le Département d’études de genre, à Paris-8, décernant des doctorats.

      « Tous ces champs de savoir sont en réalité marginaux, menacés, minoritaires, sans cesse sommés de se justifier, avance Caroline Ibos, sociologue à la tête du Legs, auprès de Libération. Et les déclarations successives des ministres les fragilisent plus encore. » Quand ce n’est pas celles du président de la République en personne, lequel avait estimé en juin 2020 dans le Monde que les discours tenus par les universitaires reviennent « à casser la République en deux ». « Cette opposition schématique qui consiste à s’unir dans un ‘‘patriotisme républicain’’ ou n’être qu’un ‘‘séparatiste’’ est une manière brutale de disqualifier le travail des chercheurs en sciences sociales, selon l’historienne Michelle Zancarini-Fournel et le philosophe Claude Gautier, qui publient « De la défense des savoirs critiques. Quand le pouvoir s’en prend à l’autonomie de la recherche » (La Découverte). Rendre visibles les facteurs d’inégalité et de discrimination, ce n’est pas être idéologue. »
      Une intrusion du politique inhabituelle

      Cette bataille autour de l’objectivité d’une recherche aspirant à décrire une certaine réalité du monde social et son enseignement n’est pas sans répercussion au-delà des cénacles académiques et des réseaux sociaux. En jeu, le contrôle de la production scientifique et les menaces pesant sur la liberté académique. Comme cette décision, le 20 décembre dernier, du président de la région Auvergne-Rhône-Alpes Laurent Wauquiez, qui fut ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche de juin 2011 à mai 2012, de suspendre tout soutien financier à Sciences-Po Grenoble au prétexte d’« une dérive idéologique et communautariste ». Une intrusion du politique dans la procédure interne d’un établissement de recherche tout à fait inhabituelle. Ou cette tentative de la droite sénatoriale d’amender la loi de programmation de la recherche (LPR), votée en novembre 2020, afin de conditionner les travaux scientifiques au « respect des valeurs de la République ». Qualifié d’« ignoble » et d’« instrument de musellement du monde académique », par la rédaction d’Academia, composée d’universitaires, l’amendement en question sera modifié.

      Après la LRU en 2007, prévoyant que toutes les universités accèdent à l’autonomie budgétaire et de gestion de leurs ressources humaines, la LPR reste massivement décriée par la communauté scientifique. En cause, sa tendance à favoriser les thématiques financées par le secteur privé et à gommer les spécificités de la recherche française en promouvant un alignement sur les standards internationaux. « D’un côté, on justifie depuis la fin des années 90 des réformes au nom d’une autonomie et d’une internationalisation toujours plus poussée, relèvent Michelle Zancarini-Fournel et Claude Gautier. De l’autre, des membres du gouvernement, qui conduisent ces politiques, mobilisent des termes issus du débat états-unien et jamais bien définis (wokisme, cancel culture…), en étant soutenus par un certain nombre de polémistes, pour dénoncer une « américanisation » des universités au motif que leurs travaux seraient contraires à la tradition républicaine. »
      « Dérive civilisationniste »

      C’est ainsi au nom de la défense des principes républicains que Frédérique Vidal intentait, en février 2020, un long et médiatique procès en islamo-gauchisme à l’encontre de l’université en annonçant sur le plateau de CNews son souhait de commander une enquête au CNRS sur « ce qui relève de la science et du militantisme ». Le projet, condamné par le CNRS, n’a jamais vu le jour. Un mois après, l’Observatoire du décolonialisme fustigeait avec virulence la candidature de la politologue Nonna Mayer à la tête de la Fondation nationale des sciences politiques (FNSP). Un article non signé publié sur son site reprochait à la chercheuse spécialiste de l’antisémitisme, du racisme et du vote FN – qui verra sa candidature rejetée –, d’avoir contribué à « donner une caution scientifique à la notion d’‘‘islamophobie’’ ». En revanche, le texte apportait son soutien au candidat du « camp républicain », le politologue Pascal Perrineau, également présent lors du colloque sur l’« Après déconstruction… » à la Sorbonne.

      Au fil des mois et des montées en tension, l’attention se porte sur l’Observatoire du décolonialisme. Lancé fin 2020 et émanant d’un regroupement d’universitaires plus ancien appelé Vigilance universités, le collectif s’illustre par des publications au ton grinçant (« trans-LGBTQ + phobie des chimiothérapies anticancéreuses », « utérus-expertes », « ressource pédagogique branlante »…). On y trouve aussi, par exemple, un article consacré à l’« islamo-gauchisme » faisant référence dans une note – sans ironie cette fois – au pamphlet Eurabia (Jean-Cyrille Godefroy, 2006) de l’essayiste britannique Bat Ye’or, dont la thèse sur l’« islamisation de l’Europe » (un complot suggérant la soumission des pays européens de leur plein gré à l’islam) rencontre un fort écho à l’extrême droite. Une variante du « grand remplacement » de Renaud Camus qui a notamment inspiré le tueur norvégien Anders Breivik, auteur des attentats d’Oslo et d’Utoya en juillet 2011 ayant fait 77 morts.

      Une tournure qui a conduit la chercheuse et essayiste Isabelle Barbéris, elle aussi très critique à l’endroit des théories décoloniales, à prendre ses distances avec l’Observatoire. La maître de conférences en lettres et arts pointe auprès de Libération la « dérive civilisationniste » de la direction de ce qui s’apparente davantage à un « lobby médiatique » qu’à un groupe de travail. « La caricature des positions me semble discréditer une critique à laquelle doit être soumis n’importe quel champ de savoir, en particulier, quand ils commencent, comme les études de genre et le « décolonialisme », à connaître un écho médiatique important », souligne-t-elle. « On fait dans le pamphlet et dans l’ironie. Si on est réduits à sortir un observatoire qui a ce ton, c’est bien parce qu’on n’arrive pas à mener ce débat », se défendait dans le Monde le cofondateur de l’Observatoire du décolonialisme, Xavier-Laurent Salvador.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-un-colloque-contre-la-pensee-woke-et-la-cancel-culture-2022

    • Si ce n’est pas un colloque universitaire, qu’est-ce donc ?

      À propos d’un article paru dans

      Libération

      (voir ci-dessus) :

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-un-colloque-contre-la-pensee-woke-et-la-cancel-culture-2022

      Avec le temps, le journaliste Simon Blin est devenu un fin connaisseur des dissensus initiés il y a plus d’un an par le Manifeste des 100. Ce qui est devenu avec le temps le “danger du wokisme” a d’abord bénéficié d’une large couverture médiatique sous le nom de “islamo-gauchisme” et de “cancel culture” grâce à un accès inouï aux médias d’orientation (extrême-)droitière, comme Le Point ou CNews.
      Un nouvel épisode des relations entre le gouvernement avec l’université

      CNews a d’ailleurs accueilli Frédérique Vidal pour son chiffon rouge islamogauchiste, au moment où la Ministre était conspuée pour sa gestion de la crise alimentaire étudiante. Présenté comme un débat au sein du monde universitaire, c’est pourtant un phénomène initié par des responsables politiques : le Ministre de l’Éducation nationale en octobre dernier, à des fins de diversion de la calamiteuse gestion de son administration qui a conduit à l’assassinat de Samuel Paty, plusieurs mois après un ballon d’essai dans l’Express en décembre 2019 co-signé, entre autres, par le fondateur du Printemps républicain — feu Laurent Bouvet — et une ancienne membre du Conseil constitutionnel et actuelle présidente du Conseil des sages de la laïcité du Ministère de l’Éducation nationale — Dominique Schnapper1 . Le colloque « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture » organisé aujourd’hui et demain à Paris sous l’égide de trois associations — l’obscur Collège de philosophie2” :, l’Observatoire du décolonialisme et le Comité Laïcité République — officiellement à l’initiative de la professeure des universités Emmanuelle Hénin et les maîtres de conférences Pierre-Henri Tavoillot et Xavier-Laurent Salvador — représente ainsi une nouvelle étape dans une série de “déclarations successives des ministres [qui] fragilisent plus encore les [études de genre et les études postcoloniales] » (Caroline Ibos) quand il ne s’agit pas de celles du “président de la République en personne, lequel avait estimé en juin 2020 dans le Monde que les discours tenus par les universitaires reviennent « à casser la République en deux »,

      contrefeu incendié quelques jours après la magistrale démonstration de force des partisans et partisanes de la justice pour Adama Traoré, devant le Tribunal judiciaire de Paris.Le “colloque”, selon le nom donné par les organisateurs, représente ainsi un pourrait représenter le point d’orgue — nous dirons, optimistes, le chant du cygne — dans une attaque politique d’ampleur inégalée contre les universités.

      L’instrumentalisation des libertés académiques

      C’est bien un nouvel épisode des relations du gouvernement avec l’université qui va se dérouler les 7 et 8 janvier 2021. Le journaliste commente sujets et particpant·es de ce que nous appelerons, pour notre part, une manifestation.

      À vocation scientifique, les tables rondes prévues ne sont pas dépourvues d’enjeux politiques. La présence de Jean-Michel Blanquer est en effet annoncée au colloque. Le ministre de l’Éducation nationale « prononcera à cette occasion un mot d’ouverture », précise l’Observatoire du décolonialisme sur son site. Façon de donner l’assentiment du gouvernement aux débats qui s’y tiendront ? Contacté par Libération, le cabinet du ministre explique toutefois ne pas être en mesure de confirmer sa présence ce vendredi 7 janvier à la Sorbonne.

      Au programme, la présence de deux très hauts responsables non-élus interroge. Celle de Jean-Michel Blanquer 3, d’abord, pose question. Alors que le chaos règne dans les écoles comme jamais depuis le début de la crise sanitaire, et tandis que des centaines de milliers d’élèves passent des heures devant les pharmacies à attendre qu’on veuille bien les tester pour pouvoir retourner en classe, l’actuel Ministre de l’Éducation nationale préfère donc prendre de son temps précieux pour se rendre à un colloque polémique qu’aucun laboratoire de recherche ne cautionne.”. Il n’en faut pas douter : des liens peu académiques justifient l’invitation du Ministre, à moins que cela ne soit le Ministre lui-même qui en soit commanditaire. La tenue de la manifestation dans l’amphithéâtre Liard en est un indice supplémentaire4 : on ne dit pas suffisamment que cet amphithéâtre de la Sorbonne n’est pas un espace géré par une université, mais par une administration d’État, et plus précisément par la chancellerie de Paris, à la tête de laquelle a été nommée Christophe Kerrero — connu pour ne pas disposer du titre universitaire, et partant de la légitimité nécessaire pour accéder à ce poste —, un très proche collaborateur de Jean-Michel Blanquer depuis 2008.

      Simon Blin questionne également la présence du décrié président du Haut Conseil de l’évaluation de l’enseignement supérieur et de la recherche (Hcéres) Thierry Coulhon, qui s’est déclaré prêt à conclure le colloque dès décembre 2021. C’est le président du Hcéres — et non le “parent d’élève” qu’il prétend être parfois5 — qui répond à Simon Blin :

      « J’y vais car il est question de liberté académique, je n’ai pas l’intention d’être instrumentalisé et je ne partage pas les opinions de tous les intervenants, balaie le mathématicien de formation et ex-conseiller de Valérie Pécresse auprès de Libération. L’Hcéres n’est pas là pour dire si tel ou tel domaine de recherche est digne d’intérêt. » Et d’ajouter : « La frontière entre militantisme et science est très difficile à déterminer. La liberté académique, ce n’est pas l’opinion. »

      Thierry Coulhon n’a peut-être “pas l’intention d’être instrumentalisé” ; mais il est sûr, en revanche, qu’il instrumentalise l’autorité publique indépendante à la tête de laquelle il se trouve, et qu’il engage toute entière dans ce colloque en en prononçant les conclusions ès-qualités. Libre à Thierry Coulhon d’adhérer à titre personnel au projet politique d’associations comme le “Printemps républicain” ; mais doit-il pour cela emporter dans sa chute l’institution qu’il préside, et l’indépendance même de celle-ci ? Doit-il alors aussi associer le Hcéres aux méthodes de harcèlement qui caractérise cette petite communauté militante ?”6 ?
      Fermer les débats

      De fait, comme le suggère Simon Blin, l’objet n’est pas — contrairement à ce que le co-organisateur Pierre-Henri Tavoillot indique au Figaro — “d’ouvrir le débat”.

      À l’origine du raout entre universitaires et polémistes, des membres de l’Observatoire du décolonialisme, comme le maître de conférences en philosophie à la Sorbonne Paris-IV Pierre-Henri Tavoillot ou le maître de conférences en linguistique à l’université Paris-13 Xavier-Laurent Salvador. Nous les avons joints mais faute d’être tombés d’accord sur les termes d’un entretien portant sur le fond de ce colloque et les conditions du débat d’idées en général, ces derniers n’ont pas souhaité répondre aux questions de Libération dans le cadre d’un article. (Nous soulignons)

      Car Simon Blin n’est pas dupe. Selon le journaliste, est

      en jeu, le contrôle de la production scientifique et les menaces pesant sur la liberté académique. Comme cette décision, le 20 décembre dernier, du président de la région Auvergne-Rhône-Alpes Laurent Wauquiez, qui fut
      ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche de juin 2011 à mai 2012, de suspendre tout soutien financier à Sciences-Po Grenoble au prétexte d’« une dérive idéologique et communautariste ». Une intrusion du politique dans la procédure interne d’un établissement de recherche tout à
      fait inhabituelle. Ou cette tentative de la droite sénatoriale d’amender la loi de programmation de la recherche (LPR), votée en novembre 2020, afin de conditionner les travaux scientifiques au « respect des valeurs de la République ». Qualifié d’« ignoble » et d’« instrument de musellement du monde académique », par la rédaction d’Academia, composée d’universitaires, l’amendement en question sera modifié.

      C’est donc, si l’on suit le journaliste, une vraie continuité politique qui apparaît à la lecture du programme du “colloque” : celle, initiée par Valérie Pécresse — et son conseiller d’alors, Thierry Coulhon – avec la loi LRU, qui vise7 à mettre l’enseignement supérieur au pas, en commençant par réduire les budgets et en affaiblissant le statut protecteur de l’emploi universitaire. C’est sûr, le comité d’organisation du colloque d’aujourd’hui et demain relève moins d’un “groupe de travail” que d’un “lobby médiatique” (Isabelle Barbéris). Il s’agit ici de donner une nouvelle fraîcheur à une politique initiée en 2007, que peut-être certains souhaiteraient continuer sous la présidence à venir, aux relents islamophobes ou “laïques”8.

      On peut remercier Simon Blin de sa profondeur de vue et d’enquête. Elle répond en partie à la question posée par syndicats CGT et Sud de Sorbonne Université : ce colloque est-il universitaire ? De fait, la manifestation se place résolument hors du champ de la recherche : accueillie hors du territoire de l’université9, sans la caution scientifique de laboratoire de recherche — puisque la manifestation est organisée par trois associations —, l’événement réunit quelques universitaires peut-être, mais aussi des personnalités médiatiques, et notamment des membres éminent·es non élu·es de l’État, pour débattre de ce qui représente désormais une ligne politique bien identifiée10.

      S’il ne s’agit pas d’un colloque universitaire, de quoi s’agit-il donc ? D’un meeting dont la fonction est de peser sur une campagne présidentielle déjà nauséabonde.

      https://academia.hypotheses.org/33627

    • Sorbonne : ministre et intellectuels déconstruisent le « woke » lors d’un premier jour de colloque univoque

      Racialisme, nouveau féminisme, « cancel culture »… La première journée du colloque sur la question de la déconstruction, auquel participait Jean-Michel Blanquer, s’est déroulée dans une salle acquise aux orateurs et sans contradiction.

      « Un événement intellectuel. » Installé en Sorbonne, sous les plafonds dorés de l’amphithéâtre Liard où apparaissent les noms de Descartes et Pascal mais aussi le monogramme de la République française, c’est ainsi que Jean-Michel Blanquer a introduit ce vendredi matin les deux jours de colloque « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture ». Ces rencontres, qui ont suscité beaucoup de débats ces derniers jours, ont été présentées par leurs organisateurs – le Collège de philosophie, l’Observatoire du décolonialisme, le Comité laïcité république – comme un rendez-vous scientifique nécessaire pour clarifier l’affrontement entre eux (les universalistes) et les autres (les intersectionnels). A en croire Emmanuelle Hénin, professeure de littérature et coorganisatrice, le moment est marqué par l’« urgence de restaurer un espace de dialogue et de controverse scientifique ».

      Comme sur les murs de l’amphi, la science et la politique se rejoignent vite, dès l’ouverture des discussions. Son discours à peine entamé, Jean-Michel Blanquer revient à l’une de ses idées chères : en matière d’écologie, de féminisme, de lutte contre les discriminations, « il y a une vision “woke” de l’écologie et une vision républicaine. Lorsque nous lisons Elisabeth Badinter, nous ne lisons pas d’autres auteurs de moindre qualité. » Le ministre de l’Education nationale déclare même faire front commun avec les chercheurs réunis : « C’est sur un grand vide que les théories dont nous ne voulons pas ont pu avancer. » Pour le combler, il appelle à défendre l’universalisme, la raison et l’humanisme. « Face à tant de relativisme qui consiste à dire que tout se vaut, le bien, le vrai, le beau doivent en permanence être repensés. »

      Le relativisme ? Voilà l’ennemi ! Au cours de la journée, celui-ci prend plus d’un nom : « pensée “woke” », « enfermement “woke” », « religion qui distingue les élus des damnés ». Sans oublier le racialisme, l’antiracisme, le nouveau féminisme ou l’intersectionnalité. Pour embrasser les mille visages de ces menaces académiques, les intervenants préfèrent souvent le mot « déconstruction » – « pédanterie à la portée de tous », affirme l’historien des idées Pierre-André Taguieff – dont il s’agit d’abord de faire la généalogie.
      Etude des apories du déconstructionnisme

      Le philosophe et coorganisateur Pierre-Henri Tavoillot fait naître la déconstruction avec la philosophie moderne. Elle se révèle vraiment problématique avec « la pensée 68, où la déconstruction devient un processus sans fin ». Comprendre : où tout est toujours à déconstruire, sans débouché… constructif. Pour lui, le fonctionnement actuel de la déconstruction suit cinq étapes : tout est domination (1), l’Occident représente l’apothéose de cette domination (2). La décolonisation n’a en fait pas eu lieu (3) : il faut donc se réveiller (« woke »), sortir de l’illusion que tout va mieux (4). Resterait à passer de la théorie à la pratique : une fois éveillé, il faut annuler (« cancel culture », 5). Parmi les intervenants, l’hypothèse est volontiers acceptée.

      La matinée poursuit l’étude des apories du déconstructionnisme. Le professeur de sciences politiques Pascal Perrineau déplore une conception où « le lieu politique serait un lieu de projection de dominations en tous genres. A la figure du prolétaire ont succédé d’autres figures de victimes : femmes, immigrés, racisés, minorités homosexuelles », oubliant les vertus de la démocratie représentative (développées un peu plus tard par le philosophe Pierre Manent). « Dans le combat politique et culturel, le “wokisme” donne un avantage à l’accumulation du capital victimaire par les mouvements intellectuels et politiques. » La référence au vocabulaire marxiste n’est pas anodine : les chercheurs présents insistent sur les liens avec le communisme et ses échecs au cours du XXe siècle, comme la romancière et enseignante Véronique Taquin, ou le philosophe Pierre-André Taguieff : « Le “wokisme” est la dernière version en date de la grande illusion communiste », dit-il. Alors que la révolution prolétarienne se proposait de détruire la société capitaliste pour réaliser universellement l’égalité, le « wokisme » se fixerait désormais rien de moins que l’objectif de « détruire la civilisation occidentale en commençant par criminaliser son passé tout entier ».

      Après cette vue d’ensemble, les tables rondes suivantes passent en revue les « domaines d’application du “wokisme” » : la race, l’islam, le genre et la « cancel culture ». L’occasion pour l’essayiste Pascal Bruckner d’affirmer que « le “wokisme” constitue un nouveau racisme » par sa propension à ramener les individus à leur couleur de peau : « Plus on assimile les gens à leur épiderme, plus on les enferme dans une idéologie qui n’est pas sans ressembler beaucoup à l’idéologie coloniale. » Lors de ce passage en revue alternent de façon pas toujours claire des exposés de chercheurs (Bernard Rougier, Thibault Tellier…), et des interventions plus proches du témoignage comme celle du politologue Vincent Tournier, professeur à Sciences-Po Grenoble, qui a vu son nom affiché sur les murs de l’école l’an passé, au moment d’une polémique liée à l’emploi du terme « islamophobie » dans l’intitulé d’un colloque.

      Absence de moments de questions

      Evidemment, une parole manque aux échanges : celle des « wokistes déconstructeurs » dont les approches sont critiquées à longueur d’interventions. Dans la salle, on reconnaît quelques visages de chercheurs qui pourraient s’en réclamer : l’absence de moments de questions ne leur permettra pas de tenter la controverse, dans une salle bien remplie et de toute façon visiblement acquise aux orateurs. « Cancel culture » appliquée aux “woke” ? Presque. Très en verve, le sociologue et chroniqueur à CNews Mathieu Bock-Côté entre dans la tête d’un « woke » : « un voyage en folie » pour expliquer « comment, pour les woke, l’universalisme est le vrai racisme ». Il y explique que pour eux, la suprématie blanche serait dissimulée derrière la référence à l’universalisme, qu’il faudrait donc combattre pour faire ressortir les mécanismes de domination. Conclusion : « Pour nous [les blancs], exister, c’est expier ad vitam aeternam. » Rires et applaudissements fournis.

      https://www.liberation.fr/resizer/OQVJ9QPoDLjG2pg3SZUZrY863xI=/1440x0/filters:format(jpg):quality(70)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/6CB7GIEQ7JAI3HWG6EY52MMLJE.jpg

      Aux abords de la salle, la présence d’une caméra de télévision suscite un moment de confrontation entre des étudiants (de divers collectifs, dont l’Unef et Solidaires) qui ont déployé une banderole « Combattons la banalisation de l’islamophobie », et d’autres qui portent des sweats du syndicat de droite UNI. C’est là qu’a lieu la controverse, et pas dans l’amphi Liard, où la déconstruction du déconstructionnisme s’opère en un long sermon… au pied un immense tableau de Richelieu, lui aussi présent sous les lambris dorés.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/a-la-sorbonne-ministre-et-intellectuels-deconstruisent-le-wokisme-2022010

    • Live twitter du J2 du #colloquedelahonte, par Olivier Compagnon :

      1/ #colloquedelahonte, J2, ou comment flinguer son samedi. Journée consacrée à la « reconstruction ». Des moments forts sont attendus comme on attend la finale du 100m aux JO : ainsi le dialogue Anceau/Heinich vers 10h30 ou les conclusions du Grand Timonier de l’@Hceres_ vers 16h30

      2/ Mais ne sous-estimons pas certaines tables rondes qui pourraient sembler plus anodines comme celle de 14h30 intitulée « Des noires, des blanches, des rondes : la musique pour tous ». J’imagine d’ici les rires gras quand ils ont trouvé le titre.

      3/ 9h31, un peu de retard, mais on comprend, c’est toujours dur de bosser le samedi matin

      4/ C’est parti, mon kiki. « Première belle journée de travail ». « Nous sommes présents en Sorbonne ». « Nous étions hier 600, 200 dans l’amphi et 400 par zoom », mais un peu déçus par le public du matin (80 dans l’amphi)

      5/ Anceau sera un président de séance « intransigeant », tu m’étonnes... La parole est à D. Schnapper, qui célèbre l’excellente qualité de la journée d’hier. « Dévoiement des SHS et de la démocratie », le ver était dans le fruit avant 68 à cause des Soviétiques

      6/ On a trop oublié Weber (pas les barbecues, le sociologue). Dans la pensée woke, le vote et les institutions n’ont plus de sens, tout ça va finir comme le nazisme et le communisme. Hommage à Laurent Bouvet, dénonciation de la gauche bien pensante

      7/ Rémi Pellet (juriste) prend la parole, dénonce la mollesse de Vidal et milite pour des sanctions contre les universitaires islamogauchistes. Là ça se durcit nettement

      8/ Je me demande s’il ne confond pas reconstruction et épuration, là.

      9/ Revient sur « l’affaire de Grenoble ». « Notre ami PRAG de Grenoble » injustement attaqué et mal protégé par l’institution. Balance sur Vidal, lâche, et « attend sereinement sa mise à pied ». Balance sur FI et célèbre Blanquer.

      10/ « Même François Hollande n’a pas pu tenir une conférence à Lille en 2019 ». Une impunité inacceptable. Dénonce les jurys de thèse et d’HDR qui deviennent wokistes comme ils furent marxistes-léninistes. Termine par un hommage à l’ami de Grenoble.

      11/ Adrien Louis, philosophe. Plaide pour la remise en circulation d’une vieille notion, celle d’amitié civique. Délitement du vivre ensemble, séparatisme, offensive islamiste, nécessité d’une défense de l’identité nationale. Pffffffffff

      12/ Le public a du mal à démarrer

      13/ Célèbre Blanquer sur les femmes voilées dans les sorties scolaires. « Notre souhait que le dissemblable soit un peu plus semblable à nous ».

      14/ Tarik Yildiz maintenant, auteur d’un essai sur le racisme anti-blanc. Le niveau baisse car on adapte le niveau d’exigence à son auditoire, à l’école notamment.
      Déplore la critique permanente et systémique de ce qui fait notre pays. Bon...

      15/ « On n’impose plus de cadres clairs à l’école ». Les profs sont clairement des acteurs-clés de la décadence dans son esprit, mais le ministre actuel travaille à corriger le tir. Parle du fromage « Caprice des Dieux », je ne suis plus du tout là...

      16/ Parle des grossesses et des carottes très bonnes pour le foetus, je décroche complètement... « Pour conclure, il est essentiel de faire réfléchir ». « Un universitaire, ce n’est pas la même chose qu’un élève en 6e, enfin j’espère ». Pas bien réveillé, le gars

      17/ Anne-Marie Le Pourhiet, juriste. Reprend en gros la perspective du juriste d’avant : tous les outils juridiques existent pour réprimer les dérives, mais les pouvoirs publics sont lâches et ne les utilisent pas. Hum, ça craint...

      18/ La liberté académique comprend autant de devoirs que de droits. En gros, l’ESR doit diffuser « le savoir et la vérité ». Or les wokistes n’entrent manifestement pas dans le champ du savoir et de la vérité, comprend-on.

      19/ Il résulte de tout le corpus normatif existant que les universités ont les moyens de réprimer ceux qui érigent des contre-vérités en dogmes. Les instances de validation et de recrutement ne sont pas à la hauteur. Voilà voilà.

      20/ Il se confirme donc que la reconstruction commence par l’épuration. Exemple d’une thèse sur le privilège blanc dans les crèmes solaires, superbe ! Le CNU est complice, l’Europe aussi d’ailleurs.

      21/ « Il ne s’agit pas pour nous de censurer ». Ah bon, j’avais compris le contraire. La puissance publique est largement complice. Scandalisée par le fait que la loi dise que l’ESR contribue à la construction d’une société inclusive...

      22/ Cite avec dépit article 2 de loi Taubira sur traité négrière et esclavage, le législateur est complice des décoloniaux, il s’égare et se contredit. Ce sont des lois liberticides.

      23/ « Cheval de Troie intersectionnel particulièrement liberticide ». Balance sur les référents égalité dans les labos qu’elle appelle (je crois, elle parle vite) des « commissaires à la genritude ».

      24/ Balance aussi sur l’écriture inclusive que les autorités publiques ne se donnent pas les moyens de prohiber. Regrette dans sa fac de droit « des recrutements qui n’auraient pas dû être ». Ah, elle célèbre le Québécois de CNEWS

      25/ « Fake science » en conclusion, applaudissements pour cette présentation « à la fois vigoureuse et rigoureuse ».

      26/ Le débat commence. « Eviter la victimisation permanente », « les musulmans ont fait plus de victimes par l’esclavage que les Européens ». « Convergence des luttes entre nos islamogauchistes et l’islam, mais nos amis LGBT que deviendraient-ils s’ils traversaient la Méditerranée ? »

      27/ « Moi des droits des femmes c’est pas mon truc ». Il va falloir faire une compilation des meilleures punchlines

      28/ « Lavage de cerveau » intersectionnel à l’Université Laval du Québec à partir d’une petite anecdote sur une thèse, ça rigole dans la salle, « je dirige une thèse, pas un tract ».

      29/ Y’a une pause apparemment, ça fait du bien. Je ne vais évidemment pas tenir toute la journée.

      30/ Un public hétérogène

      31/ C’est parti pour la table ronde très attendue. « Histoire pâte à modeler », ça démarre bien. Un oubli sur la table précédente : « on ne va pas commencer à dénoncer nos collègues qui regardent les étudiantes au physique agréable » (en gros)

      Nathalie Heinich. Attaque directement sur la nécessité d’une nouvelle instance de contrôle de la production scientifique, mais se défend d’être maccarthyste. « On ne doit pas pouvoir professer que la terre est plate ou qu’il y a un racisme d’Etat ». Elle est en forme

      33/ @EHESS_fr, nid de gauchistes où l’on invite des indigénistes. C’est pas moi qui dis, évidemment, c’est Heinich. Ah ah

      34/ Déplore confusion entre liberté académique et liberté d’expression. Pour éviter les dérives, « l’arène académique devrait rester imperméable à la société civile ». Pas de professionnels, pas de militants, pas d’artistes à l’université

      35/ Ni Dieudonné ni R. Diallo dans les universités. Exclure aussi les étudiants de l’orbite de la liberté académique car, en gros, sont déb. Nécessaire durcissement des évaluations, se réjouit d’ailleurs de la présence de Coulhon en conclusion du colloque.

      36/ Je fais Anceau et j’arrête ensuite. Il a publié 26 livres, je ne sais pas comment il fait perso...

      37/ « La société patriarcale, européenne bien sûr, a opprimé les femmes, colonisé les peuples, etc... » Très en forme également. La déconstruction fait de la morale et refuse l’objectivité du savoir. wokisme = stalinisme. On invente des personnages, on en efface d’autres

      38/ « Il n’y a pas d’éternisation du passé », il faut contextualiser, la cancel culture écarte les sources gênantes. Encore les arabo-musulmans et l’esclavage, ça devient lourd

      39/ Déboulonnage des statues, vandalisme, effacement de Jefferson du hall de la mairie de NY, tralalalalalalala. Je rappelle que ce gars qui ne veut pas confondre militantisme et université a longtemps léché les pieds de Dupont-Aignan

      40/ « L’historien qui se veut objectif ». Conclut « confiance et vigilance ». Faut-il renoncer à Auguste Comte parce qu’il était misogyne ?

      41/ Un gros problème technique avec la vidéo de François Rastier, c’est con.

      42/ Je suis un peu perdu dans le casting, mais cette comparaison entre le mouvement woke et l’heroic fantasy en intro me semble très porteuse. Univers imaginaire, monde parallèle. Comme tous les autres, il dénonce le woke mais on ne sait jamais qui, quoi, etc

      43/ Venons-en à l’islamophobie. « Les tenants de... », mais qui ? Personne ne source son propos. C’est vague, c’est flou, c’est fantasmatique, c’est nul. Allez PAUSE

      44/ Encore une demi-journée pénible qui se profile avec le #colloquedelahonte, mais elle sera conclue en apothéose par Thierry Coulhon vers 16h30. Pour supporter cela, je concède avoir ouvert une bouteille de vin. Quelle autre solution pour supporter le tragique de l’existence ?

      45/ C’est un Carmenere chilien, en hommage à #gabrielboricpresidente qui a démontré que d’autres voies étaient possibles dans un pays qui fut le berceau du néolibéralisme autoritaire.

      46/ Je n’aurais pas dû ouvrir cette bouteille, je commence à penser à ce que peuvent bien écouter comme musique Éric Anceau ou Pierre Vermeren quand ils rentrent chez eux le soir.

      47/ C’est parti avec un peu de retard, on commence avec la table ronde « Des noires, des blanches, des rondes : la musique pour tous ». Remerciements pour « le jeune technicien très compétent » et son sens de l’improvisation, c’est sympa

      48/ La question structurante de la table : pourquoi les études musicologiques et la musique sont aussi touchées par le wokisme ? On commence avec Catherine Kinzler, qui a notamment bossé sur théâtre et opéra à l’âge classique.

      49/ Va parler de la culture de l’expiation dans les études musicologiques. « Jusqu’à la notation musicale est soupçonnée de racisme ». Est désormais à l’oeuvre « une épuration culturelle ».

      50/ Part d’une anecdote concernant une société musicale US qui favorise l’inclusion de groupes minoritaires et promeut un « décentrement de la blancheur ». Procédé d’"épuration culturelle" (bis) qui repose sur une « culpabilisation » selon notre intervenante

      51/ « Inquisiteur », « procureur extra-lucide », « rééducation », « sommations sans appel », « nombrilisme pleurnichard » : il y a une grammaire de la réaction intellectuelle. Ah, Staline le retour

      52/ « Se figer dans un rôle de victime ou celui d’un coupable plein de contrition », etc : c’est toujours la même chanson (si je peux me permettre)

      53/ Dania Tchalik, pianiste né en URSS, prend la parole et va parler « du wokisme avant le wokisme » (mon fils de 18 ans vient d’entendre cette phrase en passant, on a un fou rire)

      54/ Tiens, Jack Lang en prend pour son grade : avec lui, l’action publique culturelle devient consommation de masse, symbole de la Fête de la Musique. Référence à ce grand progressiste que fut Marc Fumaroli.

      55/ « Vulgate bourdieusienne fossilisée », « anti-intellectualisme », on n’enseigne plus le solfège ma bonne dame. N’a pas l’air d’aimer la gauche, dit le mot avec dégoût. Il est spécialement gratiné, lui

      56/ (La technique zoom n’est pas encore complètement maîtrisée). Il n’y a plus de professeur de musique ni d’enseignement, on veut tout faire venir de l’apprenant. « De ce pédagogisme découle un sociologisme ».

      57/ La musique classique n’est plus honorée car vue comme une musique de riches, « de mâles blancs pourrait-on dire ». « On en est pleine idéologie totalitaire ».
      Typiquement woke, nous dit-il encore, la réduction de l’oeuvre à la biographie de son auteur.

      58/ OK, on a compris : on dirait Bolsonaro parlant de la guerre culturelle. Lui, il me fait vraiment peur là...

      59/ « Que faire ? » se demande-t-il alors ? Rompre avec l’idéologie relativiste, que les pouvoirs publics décident que l’art doit être transmis, que le ministère redevienne celui de la culture et non de la communication

      60/ Veut un nouveau Ferry : Jules ou Luc ? Il développe, mais je ne comprends pas. Tonnerre d’applaudissements

      61/ Nicolas Meeùs, musicologue de Sorbonne Univ. Parle des attaques woke contre Heinrich Schenker (1868-1935), fondateur de l’analyse musicale moderne. C’est technique et je n’y connais rien, je touche mes limites et vais fumer une clope

      62/ Pendant ce temps-là, le public

      63/ Bruno Moysan prend la parole et avoue d’emblée qu’il n’y connaît rien. Commence par raconter qu’il s’est fait insulter au Canada par une doctorante aux cheveux rouge vif et treillis militaire après une intervention qu’il avait faite sur J. Butler

      64/ Il raconte fièrement comment il a cloué le bec à cette inquisitrice. Pour l’instant, il n’a rien dit mais semble aimer parler de lui

      65/ Va parler de Ouverture féministe : musique, genre, sexualité de Suzanne McClary. Se dit nostalgique des années 1968, là il est dissonant, et sous cet angle il a aimé le livre.

      66/ Mais là il va quand même flinguer. Trop d’idéologie dans le livre (alors que lui non, hein !). C’est toujours pénible, les gens qui lisent très vite un papier trop long.

      67/ Je ressens un ennui profond. Ah, le débat. « Le rap et les musiques populaires produisent cet effet d’aller vers des publics qui n’auraient pas la capacité de s’élever ». En gros, les woke privent les enfants de la musique classique qui les deterritorialiserait.

      68/ « Quand on dénonce le virilisme de Beethoven, on m’empêche de jouir de sa musique. » (en gros)

      69/ « Essayons de définir un quatuor à cordes de gay ? C’est compliqué, je ne plaisante pas ». Bruno Moysan, le retour

      70/ Discussion sur le dernier accord de la 9e Symph. de Beethoven vu par Suzanne MacClary comme un viol. Petites blagues dans la salle. « Sans doute que j’ai mes propres résistances à l’éveil ». Cela dit, cette table assez nulle est la plus modérée de toutes

      71/ Je commence à être inquiet pour le public.

      72/ Dernière table ronde sur les arts et les humanités, animée par Yana Grinshpun qui assimile d’emblée wokisme et totalitarisme soviétique sans la moindre explication.

      73/ Hubert Heckmann commence en lisant le sonnet 20 des Amours de Ronsard qui, mis au programme de l’agrég, a provoqué des polémiques avec des militants y voyant une apologie du viol. Lui va défendre le canon littéraire.

      74/ « Je voudroy bien richement jaunissant
      En pluye d’or goute à goute descendre
      Dans le giron de ma belle Cassandre,
      Lors qu’en ses yeux le somne va glissant. »

      75/ Cite Robert Faurisson lisant Rimbaud en 1961 et voit dans le féminisme actuel un parallèle avec le parangon du négationnisme.

      76/ Le wokisme réduit le sens des oeuvres à leur contenu sexuel. Rires gras dans la salle quand il évoque, au travers d’une citation, le pénis. On dirait une classe d’ados prépubères.

      77/ « Ethnocentrisme woke » qui fuit le risque de l’altérité, celle du passé, celle de la littérature des siècles anciens. Conclut sur le wokisme qui empêche toute quête du plaisir et du savoir, ce qui est un peu border après avoir ouvert sur le sonnet 20. Non ?

      78/ Jerôme Delaplanche, historien de l’art (et obsédé sur son twitter par #saccageparis). Revient sur toute la polémique autour de la Villa Médicis, je ne vous raconte pas, il répète cette tribune parue en nov. 2021
      https://www.latribunedelart.com/la-cancel-culture-infiltre-la-villa-medicis

      79/ Il a dit « épicerie » à la place de « tapisserie ». Rien d’autre à signaler. Ah, si, petite vanne sur la « souffrance des animaux » qui n’a pas été mobilisée pour faire décrocher les tapisseries en question.

      80/ « Le wokistan a étendu son champ de nuisance jusqu’à la Villa Médicis ». Il a dû passer la nuit à trouver cette formule.

      81/ Ce qui est fascinant, c’est le sentiment obsidional qui traverse toutes les interventions.

      82/ Il propose 4 niveaux de « résistance », c’est le Jean Moulin de l’histoire de l’art. Les wokistes (je ne sais toujours pas qui ils sont) sont des incultes, des fainéants aussi un peu. « Complaisance doloriste »

      83/ Encore un intervenant, Alexandre Gady, histoire de l’art... « Patrick Devedjian qu’on regrette tous » : merci Yana Grinsphun !!!!!!!!!!

      83/ Balance sur Bénédicte Savoy qui s’en est prise à la statue de Champollion dans le jardin du collège de France.

      85/ « On a déjà beaucoup parlé de sexe, je ne voudrais pas passer pour... »

      86/ « L’auteur, l’autrice excusez-moi ». Rires gras dans la salle.

      87/ Evocation de la mort de George Floyd. Rires gras dans la salle

      88/ Champollion n’en finit pas. Je ne connais pas l’université française qu’ils décrivent. J’aurais (sérieusement) aimé les entendre discuter les décoloniaux latinoam. (Quijano, Mignolo, etc.) qui sont d’ailleurs authentiquement discutables. Mais là rien. Du vide, du fantasme

      89/ Le temps des conclusions est arrivé. « Quel affreux colloque, quelles horreurs n’aurons-nous pas entendu pendant ces deux jours ! » Ben, je vais te les résumer un peu plus tard les horreurs (et je ne suis même pas « décolonial » en plus)

      90/ Nous sommes en Sorbonne, « nous ne lâcherons pas ces lieux, ILS le savent ».
      Ce n’est pas encore Thierry Coulhon, mais la présentation du Comité Laïcité-République

      91/ Se défendent d’être fascistes. Le wokisme est une croyance, nous prenons des risques en résistant, refus de perdre la bataille.

      92/ Creil 1989 : l’offensive de la pensée dogmatique et totalitaire. On commence à avoir une chrono : 1962 et la perte de l’Algérie, la pensée 1968 évidemment, 1989.

      93/ Wokisme et décolonialisme = « fantasme messianique de table rase » qui débouche toujours sur un totalitarisme, qui sévit déjà dans certaines universités et ambitionne aujourd’hui de gangréner toute la société

      94/ « On a perdu une partie de notre jeunesse » (en gros les banlieues) : lls sont murs pour soutenir la remigration

      95/ « Mr le Président Thierry Coulhon ». Ne va pas conclure car n’a pas suivi le colloque. Commence par une remarque de citoyen : ne pensait pas qu’il vivrait une époque où D. Schnapper et J. Julliard seraient considérés comme des personnalités suspectes

      96/ Retour sur liberté académique / liberté d’expression. Le HCERES n’est pas là pour décider des sujets de recherche légitimes ou non, mais il doit clarifier la frontière entre discours académique et discours militant

      97/ HCERES doit placer la limite entre médiocrité et excellence. On ne laissera pas dire que la terre est plate, mais on n’empêchera pas Paxton de... (encore heureux...). Annonce un colloque sur évaluation et SHS au printemps prochain

      98/ Rien d’autre. Mais c’est sa seule présence qui est problématique.

      99/ Conclusion de la conclusion : impérieuse nécessité de faire émerger des clés de lecture des sociétés qui aillent au-delà du rapport dominants / dominés. Il y a aussi des liens d’amour, d’amitié (je verse une larme) qui doivent aussi être examinés. Niais

      100/ Ce fil méritera une petite synthèse, mais ce sera pour plus tard.

      https://twitter.com/CompagnonO/status/1479727962845032448

    • Le « wokisme » sur le banc des accusés lors d’un colloque à la Sorbonne

      Après une introduction du ministre de l’éducation nationale, Jean-Michel Blanquer, un parterre d’universitaires a dénoncé durant deux jours « les dégâts de l’idéologie » de la déconstruction et de la « cancel culture », selon eux nouvel « ordre moral » à l’université.

      « Reconstruire les sciences et la culture » : c’est le chantier que s’est attribué un parterre d’une cinquantaine d’universitaires, essayistes et éditorialistes lors d’un colloque à la Sorbonne, les 7 et 8 janvier, sous la houlette de l’Observatoire du décolonialisme – qui fêtait pour l’occasion son premier anniversaire – et du Collège de philosophie.

      Adoubé par le ministre de l’éducation nationale, Jean-Michel Blanquer, qui en a fait l’introduction, l’événement a réuni jusqu’à 600 personnes, dont les deux tiers ont assisté à distance aux débats. Son objet : passer au crible, avec un prisme hostile, la « pensée décoloniale », la « théorie du genre » et la « cancel culture » (culture de l’effacement), des concepts en partie importés d’Amérique du Nord et plus largement désignés par les intervenants sous le vocable de « wokisme » (l’éveil à toute forme de discrimination), une pensée devenue épouvantail à droite, en même temps que l’« islamo-gauchisme ».

      Invité en clôture, Thierry Coulhon, président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur, est apparu peu à l’aise, expliquant qu’il n’était pas là « pour approuver ou non les prises de position ». Il a annoncé la tenue, au mois de mai, d’un colloque international sur les sciences sociales. Une « réponse », selon lui, à un autre « débat assez mal engagé » en février 2021 sur « l’islamo-gauchisme » par la ministre de l’enseignement supérieur, Frédérique Vidal. Elle avait appelé le CNRS à mener une enquête pour distinguer recherche et militantisme. Il sera notamment question de « penser les interactions entre les sciences humaines et le reste du savoir », a précisé M. Coulhon.

      « Déconstruire la déconstruction »

      Jean-Michel Blanquer a revendiqué, en introduction, d’adopter une posture « offensive sur le plan intellectuel » contre le wokisme, au moment où « il y a une prise de conscience que nous devons “déconstruire la déconstruction” et arriver à de nouvelles approches ».

      Pierre-Henri Tavoillot, président du Collège de philosophie, a posé « la déconstruction » comme « un vaste mouvement philosophique » qui a connu trois âges : la critique kantienne de la métaphysique ; la critique des idées humaines, portée en particulier par Nietzsche ; enfin « la pensée 68 », où la déconstruction devient une technique qui ne vise qu’elle-même, selon M. Tavoillot. « On en arrive à la déconstruction intersectionnelle », fondée sur l’idée que tout est domination, que la colonisation occidentale en représente « l’apothéose » (domination Nord/Sud, raison/émotion, homme/femme, technique/nature…) et que la décolonisation camoufle une exploitation toujours en cours, exercée par « le mâle blanc ».

      Armés de la seule notion de « domination » et de la dénonciation du patrimoine vu à l’aune des critères du présent, les « wokistes », enseignants-chercheurs en sciences humaines et sociales, feraient œuvre de « dévoiement de la rationalité », affirme la sociologue Dominique Schnapper. Leurs « néologismes ont valeur de dogmes », et les préfixes, anglicismes et métaphores auxquels ils recourent donnent l’illusion d’une « tradition savante », complète le linguiste Jean Szlamowicz, citant les mots « transphobe », « micro-agression », « appropriation » ou encore « inclusif ». « On invente une injustice pour la dénoncer » car « ces mots s’imposent de manière déclarative, sans données réelles », soutient-il, évoquant « une bouillie entre poésie et militance ».

      Pour le politologue Pascal Perrineau, la pensée déconstructiviste a prolongé un combat que le marxisme structuraliste et la sociologie de Pierre Bourdieu ont engagé, « mais elle va beaucoup plus loin pour dénoncer une obscure oppression généralisée légitimée par le pouvoir dominant qu’il soit hétérosexuel, du genre masculin, de la race blanche ». « Seules les minorités sauraient ce que parler veut dire, poursuit-il, regrettant que parmi les sujets de thèse, à Sciences Po, le thème du vote n’intéresse plus personne. »

      Peser sur la campagne présidentielle

      Le wokisme signerait le retour de l’idée qu’il n’existe pas de science objective, sur le modèle de la dénonciation de « la science bourgeoise » par l’ingénieur soviétique Trofim Lyssenko. « Il faut mettre en avant une physique ethnique contre l’épistémicide que livrerait l’Occident sur les autres cultures », avance l’écrivain Pierre Jourde. Il cite un groupe de recherche canadien qui travaille à « décoloniser la lumière, c’est-à-dire repérer dans la physique le colonialisme ».

      Au Canada, cette idéologie « structure » l’administration universitaire, affirme Mathieu Bock-Côté, éditorialiste sur la chaîne CNews. « Je suis né blanc donc je suis raciste et je dois me rééduquer mais voudrais-je rompre avec le racisme que je n’y arriverais pas », résume-t-il, déplorant que, selon lui, les subventions « dépendent du fait qu’on se soumette à cette idéologie dans la définition des objets de recherche ».

      En Europe, « l’islamisme transnational » des Frères musulmans fait de l’entrisme dans les universités « depuis trente ans », générant « un noyautage des départements en sciences sociales », soutient l’anthropologue Florence Bergeaud-Blackler. Elle cite des « pressions sur les enseignants au début et à la fin des cours, des [personnes] qui gênent la recherche de terrain ou encore des influenceurs qui agissent comme une machine à orienter la recherche », particulièrement au niveau des financements européens.

      La sociologue Nathalie Heinich réclame « un meilleur contrôle scientifique des productions fortement politisées pour qu’un enseignant ne puisse proférer que la Terre est plate ou qu’il existe un racisme d’Etat ». Elle ajoute que « l’arène académique devrait rester imperméable à la société civile » et qu’il faut « s’abstenir d’inviter des professionnels, des militants, des artistes dans les cours et séminaires universitaires », en vue de les « protéger de l’envahissement idéologique ».

      Sur les réseaux sociaux, mais aussi dans des échanges en direct sur la plate-forme du colloque en ligne, certaines interventions ont suscité l’étonnement du public alors que la teneur des échanges – sous couvert de respect des valeurs républicaines – semblait relever du militantisme, pourtant dénoncé quand il provient de la nébuleuse « wokiste ». « C’est une simple litanie depuis 9 heures du matin, écrit l’historien Olivier Compagnon sur Twitter. Il faut juste éviter que ces gens-là ne gagnent définitivement la bataille médiatique. » Dans un article, le collectif universitaire Academia s’interroge tout haut : « S’il ne s’agit pas d’un colloque universitaire, de quoi s’agit-il donc ? D’un meeting dont la fonction est de peser sur une campagne présidentielle déjà nauséabonde. » Une accusation raillée par plusieurs participants, contents d’avoir occupé la scène durant deux jours.

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/01/08/le-wokisme-sur-le-banc-des-accuses-lors-d-un-colloque-a-la-sorbonne_6108719_

    • Pour des études noires sans compromis

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.

      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      ’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1 ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2] » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3 ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4] . » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5], ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6] . » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7] . Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8] . » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9] ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]. » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11].

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.
      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12] ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13] » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]. Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15] » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      Pour des études noires sans compromis

      Norman Ajari
      paru dans lundimatin#321, le 10 janvier 2022
      Appel à dons

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.
      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      C’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1]

      [1] Russell Vought, « M-20-34 », 2020, www.whitehouse....
       ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2]

      [2] Center For Renewing America, www.americarenewing....
       » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3]

      [3] Presidential Documents, « Combatting Sex and Race...
       ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4]

      [4] Stéphanie Le Bars, « La “critical race theory”, nouvel...
      . » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5]

      [5] Arnold Kling, « The decentralized totalitarianism of...
      , ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6]

      [6] Daniel Trilling, « Why is the UK government suddenly...
      . » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7]

      [7] Paul Warmington, « “A tradition in ceaseless motion” :...
      . Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8]

      [8] Anne-Sophie Nogaret, « La hallalisation des esprits »,...
      . » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9]

      [9] Irène Ahmadi, « Macron juge le “monde universitaire...
       ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]

      [10] Propos rapportés dans : Chris Moody, « How Critical...
      . » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11]

      [11] Tommy J. Curry, « Racism and the equality delusion :...
      .

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.
      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12]

      [12] Nathalie Heinich, Ce que le militantisme fait à la...
       ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13]

      [13] Lewis R. Gordon, Disciplinary decadence. Living...
       » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]

      [14] Heinich s’alarme que l’université française finance...
      . Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15]

      [15] Nathalie Heinich, Ce que le militantisme fait à la...
       » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      L’absence des études noires en France et l’assurance avec laquelle Nathalie Heinich déploie son argumentaire erroné sont deux symptômes d’un mal plus profond : le retrait de la perspective issue des théories critiques, c’est-à-dire le primat de la méthode sur la légitimité des valeurs mobilisées pour évaluer le monde aussi bien que la théorie. Le véritable défaut des « studies » à la française, que Heinich attaque sans relâche dans son opuscule, est précisément de demeurer trop tributaires de la sclérose des sciences sociales françaises et de n’avoir pas franchement embrassé une méthode critique. Dans un texte fameux 1937, le philosophe allemand Max Horkheimer opposait ce qu’il nommait la théorie traditionnelle à la théorie critique d’inspiration marxiste dont il entendait poser les bases. La théorie traditionnelle se pense neutre, détachée des enjeux sociaux et politiques, des prises de parti et des jugements quant à l’ordre du monde. Mais c’est oublier que, comme le souligne Horkheimer, « le fait que […] des opinions nouvelles parviennent à s’imposer s’inscrit toujours dans le contexte d’une situation historique concrète, même si le savant n’est personnellement déterminé que par des motivations scientifiques [17]. » La posture non-militante revendiquée par certains chercheurs présuppose une approbation des conditions sociales de production de la recherche et de ses buts. Considérer que dans la recherche en sciences humaines et sociales, « une fois franchi le seuil des amphithéâtres, une fois soumis à une revue scientifique à expertise par les pairs, un enseignement ou un article devrait s’affranchir de toute visée politique ou morale au profit de la seule visée épistémique [18] », revient à tenir le contexte social de production de ces travaux pour pleinement satisfaisant. Dans son concept même, la « neutralité » de la théorie « non-militante » ou traditionnelle est un militantisme radical en faveur de l’ordre du monde actuel. C’est pourquoi la méthodologie, foncièrement inoffensive pour l’ordre du monde, a remplacé la théorie. Dans un texte classique du mouvement, le théoricien critique de la race et professeur de droit Richard Delgado arrivait à des conclusions similaires à l’occasion d’une réflexion sur la marginalisation des auteurs noirs au sein de la recherche nord-américaine sur les droits civiques : "Il pourrait être avancé que les auteurs issus des minorités qui écrivent sur la question raciale ne sont pas objectifs et que la passion et la colère les rendent inaptes à la raison ou à une expression claire, alors que les auteurs blancs sont au-dessus des intérêts personnels et se rendent ainsi capables de penser et d’écrire objectivement. Cela n’est cependant pas crédible, car cela présuppose que les auteurs blancs n’ont aucun intérêt au maintien du statu quo [19]."

      Dans le débat français, le rapport entre pratique universitaire et militantisme est surtout défini comme néfaste lorsqu’il est le fait des théoriciens critiques de la race ou des « décoloniaux ». Le fameux « appel des 80 intellectuels » mentionné plus haut est emblématique de ce biais. Il combine deux lignes argumentatives. D’une part, la dénonciation de chercheurs militants qui tentent de « faire passer leur idéologie pour vérité scientifique », et le rappel à l’ordre des universitaires : « Les critères élémentaires de scientificité doivent être respectés. »

      Mais, dans le même temps, les 80 dénoncent des intellectuels décoloniaux qui « attaquent frontalement l’universalisme républicain » et affirment que les « autorités et les institutions […] ne doivent plus être utilisées contre la République [20] ». Le problème auquel nous sommes confrontés est que ce bizarre attelage, où une critique prétendument intransigeante des idéologies se combine à une défense enamourée de l’idéologie républicaine n’est pas un paradoxe. Il procède moins d’une faute d’inattention quelque part au milieu d’une tribune rédigée à la hâte que de la structure même du champ intellectuel français. L’historien Claude Nicolet fait remonter cette attitude à la fin du XVIIIe siècle, avec le philosophe Antoine Destutt de Tracy et sa Société des Idéologues, pour lesquels « la pensée républicaine française se présente aussi comme une philosophie de la connaissance [21] ». En d’autres termes, il n’y a dans l’esprit des intellectuels français pas de contradiction entre l’exaltation de la République et une prétention scientifique héritée du positivisme d’Auguste Comte. Bien au contraire : le républicanisme est redéfini, non plus comme une forme institutionnelle parmi d’autres, mais comme la condition de possibilité même de la rationalité et de la science positive.

      Les sociologues, critiques littéraires, politistes, philosophes ou linguistes qui répondent aux assauts conservateurs en arguant de leur rigueur méthodologique et de l’autonomie de leur discipline se méprennent donc : aux yeux de ces adversaires, leur scientificité ne sera avérée que lorsqu’ils feront leur une apologie sans nuance de la République française, conçue comme l’unique paradis possible pour la recherche de la vérité. Revendiquer la fondation d’études noires dans ce contexte revient à interrompre cette perpétuelle glorification de la République au profit d’un véritable pluralisme, décliné en deux conditions sine qua non. Premièrement, un pluralisme des usages de la raison, qui ne sauraient se limiter à la neutralité prônée par Nathalie Heinich et ses semblables. Des théories critiques fondées sur des usages dialectiques, discursifs, et non simplement « scientifiques » de la raison sont indispensables au renouvellement méthodologique d’un système universitaire encore guidé par les idéaux positivistes du XIXe siècle qui se sont heurtés au mur de l’histoire sans que leur échec ne trouble la routine de tous les chercheurs français. Deuxièmement, il faudra encourager un pluralisme des normes éthiques et des idéaux sociaux à partir desquels nous évaluons la réalité. Dans les démocraties libérales même les plus hostiles aux minorités, les universités ont souvent ménagé quelques lieux d’expression de la dissension. Si elle se veut fidèle à sa promesse millénaire, elle doit être l’un des lieux où envisager un idéal politique non républicain, fondé sur une autre trajectoire historique et une autre normativité politique.

      Du fait de son traditionalisme épistémologique, mais surtout de son opposition au mariage gay [22], Nathalie Heinich est généralement considérée comme une intellectuelle conservatrice. Toutefois, la méfiance vis-à-vis d’une possible émergence en France des études sur la race ou des études noires est disciplinaire au moins autant qu’elle est politique. Ainsi un sociologue se revendiquant pour sa part d’une gauche sans adjuvant, Philippe Corcuff, diagnostique-t-il lui aussi une sorte de déviation militante – et ce plus précisément au sein de mon propre travail. Contrairement à Heinich, il ne s’attaque pas au militantisme universitaire « en soi », mais plutôt à une façon spécifique de l’interpréter. Ainsi déplore-t-il la convergence de « l’arrogance philosophique vis-à-vis de sciences sociales rapetissées » et du « désir du militant [23] » dont mon premier livre, La Dignité ou la Mort, offrirait le désolant spectacle. Or il me semble au contraire regrettable que cette convergence ne soit pas réalisée de façon plus systématique. L’alliance de la synthèse philosophique et de l’analyse stratégique militante telle qu’elle s’est largement scellée au cours des XIXe et XXe siècle chez Marx, Lénine, Antonio Gramsci, Mao, Kwame Nkrumah, Frantz Fanon, Angela Davis, parmi beaucoup d’autres, a produit des effets qui ont changé la face du monde. Chacun à sa façon a milité en philosophe et philosophé en militant. Au-delà de leurs considérables différences, ces auteurs partagent au moins un point commun significatif : sinon une même vision de l’histoire, une même notion de l’histoire, aujourd’hui délaissée par les sciences sociales et la théorie politique constructivistes dont Corcuff se fait le porte-parole.

      Les « philosophes-militants » ont longtemps défini l’histoire comme un massif dense et solide, une trajectoire apparemment inébranlable, face à laquelle il fallait rassembler tous les efforts stratégiques et organisationnels possibles. Face à un ordre du monde analysé comme une totalité hostile contre laquelle, pour reprendre une formule de Herbert Marcuse, ils durent recourir à « une faculté mentale en danger de disparition : le pouvoir de la pensée négative [24] ». Mais, sous l’influence conjuguée de Foucault, de la sociologie critique et du poststructuralisme [25], la pensée négative a été décrédibilisée et le concept d’histoire en est venu à signifier tout l’inverse. Ce qui est historique n’est plus le produit de forces expropriatrices, oppressives ou civilisationnelles puissantes et anciennes ; c’est au contraire ce qui aurait pu être absolument différent, le contingent. L’historicité d’une chose est devenue son caractère révocable, fluide, dénué de substance [26].

      Pour des études noires sans compromis

      Norman Ajari
      paru dans lundimatin#321, le 10 janvier 2022
      Appel à dons

      Les 7 et 8 janvier, se tenait à la Sorbonne un colloque intitulé Après la déconstruction. Reconstruire les sciences et la culture. Introduit par Jean-Michel Blanquer himself, un parterre d’universitaires réactionnaires s’y est retrouvé pour disserter de la lourde menace que ferait peser la recherche critique sur la bonne moralité de ses étudiants. La sulfureuse question du « wokisme » y a d’ailleurs été évoquée frontalement. Si scientifiquement les interventions semblent avoir été à la hauteur de toutes les attentes, le caniveaux, l’audace et la vulgarité de l’opération n’en sont pas moins significatives. Comme on ne rit jamais très longtemps de pareille déchéance, nous publions en guise de réponse indirecte, l’introduction de Noirceur le dernier livre de Norman Ajari qui paraît à point nommé le 14 janvier prochains aux Éditions Divergences. Il y est précisément question du spectre qui hante certaines têtes blanches ou chauves.

      Un spectre hante l’université occidentale : le spectre de la Critical Race Theory (CRT). Politiques et éditorialistes de la vieille Europe et du Nouveau Monde se sont unis en une Sainte-Alliance pour traquer ce spectre : le Président Trump et le Président Macron, Fox News et Libération, les républicains de France et les conservateurs de Grande-Bretagne. Partout, la Théorie Critique de la Race est déclarée ennemie publique, corruptrice de la jeunesse et traîtresse à la science. Nous assistons, dans une partie grandissante du monde occidental, à une attaque, concertée et sans relâche, contre les universitaires menant des recherches sur la question raciale.

      LA THÉORIE CRITIQUE DE LA RACE COMME ENNEMIE PUBLIQUE

      C’est aux États-Unis que la réaction fut la plus spectaculaire : le 4 septembre 2020, le directeur du Bureau de la gestion et du budget états-unien, Russell Vought, émettait un mémorandum vilipendant des formations centrées sur la question raciale supposées inviter les fonctionnaires à « croire à une propagande anti-américaine qui crée la division [1] ». À l’issue du mandat du Président Donald Trump, ce juriste conservateur a fondé le Center for Renewing America, un think tank dont le principal objectif consiste à « combattre la philosophie radicale, enracinée dans le marxisme, connue sous le nom de Théorie Critique de la Race », arguant que « là où Karl Marx divisait la société entre la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat opprimé, les adhérents de la Théorie Critique de la Race ont substitué la race aux distinctions économiques de Marx ». L’enjeu est dès lors d’empêcher la « corruption des enfants et des futures générations par la haine d’eux-mêmes et de leurs concitoyens [2] » que ces recherches promouvraient.

      Mais avant d’être contraint par les urnes de se retrancher dans l’activisme de la société civile, Vought était parvenu à convaincre le chef de l’État du bien-fondé de sa croisade. Le 22 septembre 2020, le Président Trump émettait un executive order, c’est-à-dire un décret présidentiel, interdisant à tous les prestataires de service sous contrat avec le gouvernement de mener des formations portant sur les questions de race et de sexe. Il entendait ainsi combattre un discours offensant et anti-américain qui crée des stéréotypes de race et de sexe et des boucs émissaires [3] ». Or, comme c’est souvent le cas en Amérique du Nord, la vigilance religieuse avait anticipé et donné sa direction à l’action politique. C’est en effet dès 2019, au terme de son congrès annuel, que la Southern Baptist Convention avait émis une condamnation plus mesurée, mais toutefois ferme, de la Théorie Critique de la Race. Face à certaines résistances dans ses rangs, notamment du côté des pasteurs et des fidèles africains-américains, la plus importante congrégation protestante des États-Unis n’a depuis cessé de durcir ses positions sur le sujet.

      En mars 2021, quelques mois après sa prise de fonction, le Président Joe Biden prenait le parti d’annuler l’executive order de son prédécesseur, mais la définition de la CRT comme une intolérable corruption de la jeunesse s’était déjà imposée comme un thème central du discours conservateur états-unien. En Caroline du Nord, en Idaho ou encore à Rhode Island, les gouverneurs républicains ont pris des mesures pour bannir la Théorie Critique de la Race des cursus des institutions d’enseignement public. « Le niveau fédéral n’est pas en reste. En mai [2021], une trentaine d’élus républicains de la Chambre des représentants ont présenté un projet de loi, explicitement intitulé Stop CRT Act, visant à bannir les formations “à l’égalité raciale et à la diversité” dispensées aux employés fédéraux [4]. » Dans une nation qui a placé la garantie de la liberté d’expression au seuil de son texte le plus sacré, c’est-à-dire au cœur du premier article du Bill of Rights, ces restrictions exigeaient le déploiement d’une rhétorique d’exception : la CRT s’est ainsi vue assimilée à un discours totalitaire [5], ce qui faisait pour ainsi dire de son exclusion de l’espace public une affaire de sécurité publique.

      En octobre 2020, un mois après l’émission de l’executive order de Trump, les conservateurs britanniques s’emparent de son discours. La sous-secrétaire d’État parlementaire déléguée à l’égalité, Kemi Badenoch, affirme au terme d’un débat portant sur le mois de l’histoire des Noirs : « Toute école qui enseigne les éléments de la Théorie Critique de la Race ou qui promeut des vues politiques partisanes, telles que cesser de financer la police, sans offrir un traitement équilibré des vues opposées, est hors-la-loi [6]. » Aux États-Unis où elle est née, bien qu’elle soit loin d’être aussi omniprésente que ne le laissent entendre le nombre et l’éminence de ses détracteurs, la CRT est ancrée dans le paysage académique. J’ai moi-même été recruté en 2019 par le département de philosophie de Villanova University pour occuper un poste d’Assistant Professor en Critical Race Theory. En Grande-Bretagne, en revanche, la discipline est plus marginale bien que, comme le souligne le sociologue de l’éducation Paul Warmington, le Royaume-Uni possède une solide tradition d’intellectuels noirs dont l’héritage entre facilement en résonance avec le projet de la CRT. Dans un élan panafricain, il souhaite que la rencontre de l’école américaine et de l’école britannique féconde une nouvelle génération d’intellectuels publics noirs [7]. Or c’est certainement cet avènement que les avertissements du gouvernement conservateur cherchent à dissuader en recourant aux frappes préventives de Kemi Badenoch, à l’heure où la révolte suscitée par le meurtre de George Floyd a embrasé l’opinion publique noire anglaise, conduisant des dizaines de milliers de manifestants dans les rues.

      En France, les assauts contre les études sur la race se sont développés selon leurs propres termes, et n’ont pas attendu les mesures de Trump pour gagner une place considérable dans la presse – bien que la solidarité conservatrice internationale ait indéniablement conforté cette hostilité, dès l’instant où Donald Trump et Boris Johnson apparurent comme soutiens opportuns. En janvier 2018, le mensuel d’extrême-droite Causeur fait paraître un dossier intitulé « Toulouse 2, la fac colonisée par les indigénistes ». « Indigénisme » désigne, dans le patois médiatique français, la doctrine politique de l’organisation antiraciste radicale des Indigènes de la République ; ce sera dès lors l’un des noms de code d’une CRT à la française, au côté d’autres néologismes dépréciatifs tels que « décolonialisme » ou « racialisme ». Il n’est pas certain que le texte de Causeur soit véritablement le premier du genre, mais j’en conserve un souvenir net car j’étais alors Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche en philosophie à l’Université de Toulouse, qui est mon Alma Mater, et que l’article me désignait comme l’un des « colonisateurs » de la fac. L’agenda politique suprémaciste blanc du magazine ne laissait guère de place au doute. Il suffisait pour s’en convaincre de se pencher sur le contenu comiquement raciste d’un autre article de la même auteure, dans le même numéro du même mensuel : « C’est un cliché mais c’est vrai : la culture africaine ne connaît pas l’individu. Le groupe seul existe, qui structure l’identité de chacun. Il est alors cohérent que la philosophie qui apprend à “penser par soi-même” soit vue comme une menace [8]. » Voyant, effarée, le département de philosophie de l’Université de Toulouse déployer colloques, journées d’études et cours où Africains et Afrodescendants se faisaient fort de penser par eux-mêmes, le premier réflexe de la journaliste fut d’exiger l’interdiction de ce qu’elle croyait impossible. C’était bien elle qui tenait l’acte même de penser, et notamment celui des Noirs, pour une menace. Là où elle se trouve dans la vie de l’esprit, fort heureusement, elle est en sécurité.

      À la fin de l’année 2018, l’effroi face aux études sur la race avaient contaminé la presse de la droite traditionnelle, la presse centriste et la presse de gauche. Une tribune fortement médiatisée intitulée « Le “décolonialisme”, une stratégie hégémonique : l’appel de 80 intellectuels » paraît fin novembre dans l’hebdomadaire conservateur Le Point. Il est à cet égard amusant de constater que, si le terme « décolonialisme » est placé entre guillemets comme s’il s’agissait d’une citation, il est fort peu usité par les chercheurs et militants francophones, lesquels privilégient « décolonial », comme adjectif aussi bien que comme substantif. La même semaine, l’hebdomadaire de centre-gauche L’Obs, publiait une enquête titrée « Les “décoloniaux” à l’assaut des universités ». En décembre 2018, dans Libération, quotidien réputé de gauche, l’influent éditorialiste Laurent Joffrin signait un éditorial intitulé « La gauche racialiste ». L’extrême-droite et la gauche convergent de plus en plus visiblement dans la détestation des réflexions sur la question raciale. Au cours des années suivantes, « enquêtes » et éditoriaux de ce genre sont devenus un marronnier, pour ne pas dire un genre littéraire à part entière de la presse française. Fatalement, ce discours de plus en plus omniprésent finit par contaminer le pouvoir exécutif. Dès juin 2020, le président Macron déclarait au Monde ses griefs à l’égard d’universitaires français coupables de « casser la République en deux [9] ». L’effet-Trump s’est fait sentir en février 2021, lorsque la Ministre chargée de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal joua son va-tout, annonçant son projet de commanditer une enquête au sujet de « l’islamo-gauchisme » au sein de l’université française, déplorant une énigmatique alliance intellectuelle du président Mao et de l’ayatollah Khomeiny dans les esprits des savants français.

      Ce livre porte sur les tendances pessimistes de la théorie africaine-américaine contemporaine. Force est de constater que l’aspect du discours universitaire sur la race qui génère le rejet le plus franc et le plus radical dans la presse et la parole politique, au point de susciter ces velléités d’interdiction, tient précisément à son pessimisme. Comme l’exprime le révérend Michael Wilhite, membre de la Southern Baptist Convention dans l’Indiana : « C’est simplement à l’opposé des évangiles. Dans la Théorie Critique de la Race, il n’y a pas d’espoir. Si vous êtes blanc, vous êtes automatiquement raciste à cause de la suprématie blanche. Mais dans les évangiles, il y a de l’espoir [10]. » Le décret présidentiel de Trump comme les formulations choisies par les différents États américains pour légitimer leur censure partagent la même philosophie : il s’agit toujours de conjurer l’idée selon laquelle les institutions étatiques américaines ou les personnes blanches seraient intrinsèquement enclines au racisme. De même, journalistes, éditorialistes et politiciens français refusent qu’une partie de l’opinion tienne simplement la République pour un projet dénué de perspective d’avenir pour les minorités. Fondamentalement, les conclusions des principaux auteurs de la CRT sont porteuses de désillusion, de désaffection, voire d’hostilité à l’égard de la démocratie libérale et de l’État. Comme l’explique l’un de ses principaux spécialistes contemporains, le philosophe africain-américain Tommy Curry :

      Les Blancs sont sidérés d’apprendre que les chercheurs noirs qui ont bâti la Théorie Critique de la Race ne souscrivent pas aux promesses de la démocratie occidentale, ni aux illusions selon lesquelles l’égalité raciale serait possible au sein des sociétés démocratiques blanches. Depuis le XIXe siècle, les chercheurs noirs ont insisté sur la permanence du racisme blanc aux États-Unis comme dans d’autres empires blancs. Contrairement aux représentations universitaires de figures noires américaines pleines d’espoir et investies dans l’expérience démocratique américaine, de nombreux penseurs noirs ont insisté sur la négrophobie qui souille perpétuellement les Noirs américains. Au cours des années 1800, les figures historiques noires ont associé la libération des leurs à la révolution (haïtienne), non à l’incorporation au sein des États-Unis. En Amérique et en Europe, l’idéal libéral démocratique dicte que le « problème racial » entre Noirs et Blancs, s’il demeure, conduit lentement les populations blanches vers davantage de conscience sociale et de compréhension raciale. Cet optimisme à l’égard du racisme anti-Noirs, ou de la myriade d’antipathies assimilant noirceur et africanité à l’infériorité, la sauvagerie et l’indignité dépend en dernière instance de la capacité des démocraties blanches à gérer la colère et la contestation des populations américaines et européennes noires lorsqu’elles comparent leur mortalité, leurs préjudices et leur pauvreté à la citoyenneté blanche [11]. .

      Il s’agit donc, pour les ennemis de la CRT ou de la pensée décoloniale, d’enrayer la pérennisation de ce pessimisme pro-Noir qui tient l’État et la société civile blanche pour des institutions intrinsèquement injustes. Les discours officiels décrivent les Républiques américaine et française, ainsi que le Royaume-Uni, comme perpétuellement mus par la réforme et le progrès en faveur des minorités. Nous sommes invités à croire que l’esclavage, le colonialisme, l’impérialisme ou la ségrégation sont de l’histoire ancienne – non qu’ils se sont métamorphosés pour maintenir l’inégalité dans sa structure. Il s’agit donc, pour les gouvernements, de marginaliser les théories qui élaborent des outils pour comprendre l’optimisme étatique comme visant à perpétuer servitude et aliénation sous la bannière de la démocratie. Disons, en détournant une formule célèbre du Sud-Africain Steve Biko, que l’arme la plus puissante entre les mains de l’oppresseur est devenu l’espoir de l’opprimé. Il permet d’absorber jusqu’aux critiques du racisme structurel ou du racisme d’État, en interprétant ces derniers comme des étapes, des moments passagers, qui appellent la patience réformiste davantage que l’intervention radicale. Or c’est en désespérant du maître, du colon ou de l’exploiteur que l’on retrouve confiance en sa propre dignité et en ses propres forces. La crainte que les trois grandes nations impériales ont en partage réside dans la possibilité que les Noirs, et les autres personnes de couleur, cessent de les concevoir comme des lieux de progrès vers la justice, l’égalité et la tolérance, mais en viennent au contraire à les reconnaître comme des ordres étatiques fondamentalement définis par la déshumanisation raciste.

      ACTIVISME ET THÉORIE

      Ce bilan international d’une séquence médiatique et politique récente permet de tirer d’intéressantes conclusions quant aux contextes académiques des différentes nations. Aux États-Unis, l’émergence des études noires comme champ d’étude autonome fut un effet de bord des mouvements des années 1960 et 1970 où les étudiants de couleur eux-mêmes, par les moyens de la grève et de l’activisme, exigèrent la création de nouvelles disciplines. Au Royaume-Uni, l’Université de Birmingham City a ouvert à la rentrée 2017 le premier cursus en études noires du pays, et d’autres universités britanniques semblent s’orienter dans la même direction. Dans ce panorama, la France apparaît comme le pays où une certaine classe médiatique a mené campagne contre les études sur la race avec le plus d’entêtement et d’opiniâtreté, mais également celui où ces recherches sont le plus significativement sous-développées. C’est dire si leur potentiel apparaît explosif et menaçant aux yeux des garants du statu quo. En février 2021, le Musée du Quai Branly – Jacques Chirac a accueilli une série de conférences (en ligne, à la faveur de la pandémie de COVID-19) intitulées « Préliminaires pour un Institut des études noires ». Le signe est encourageant, bien qu’il y ait à craindre que, si d’aventure le projet aboutissait, une approche plus consensuelle que celle qui présida à la création de la discipline outre-Atlantique et outre-Manche risquerait d’être privilégiée.

      L’absence des études noires dans l’espace public français et son revers, la sclérose de logiques disciplinaires restreintes et routinières, est sans doute en partie responsable de la teneur des débats sur le « décolonialisme ». Malgré l’intensité des attaques répétées menées contre les chercheurs, ces derniers préfèrent souvent demeurer sur la défensive, s’abritant derrière leurs titres et leur discipline pour asseoir leur légitimité. Il n’est pas certain que ce terrain leur soit le plus favorable. En mai 2021, la sociologue Nathalie Heinich faisait paraître un bref pamphlet dénonçant l’alliance, à ses yeux contre-nature, de l’activisme et du travail universitaire. Elle y prend fait et cause pour une neutralité qui, à ses yeux, « consiste à s’abstenir de jugements sur les objets relevant de valeurs morales, religieuses ou politiques – ce qui autorise bien sûr l’expression de jugements proprement épistémiques sur les concepts, les méthodes, les travaux des pairs (et notamment leur respect ou non de l’impératif de neutralité axiologique) [12] ». Dès lors, tout discours qui relèvera de la politique, de la morale ou de la religion sera subsumé sous la catégorie de « l’opinion » et deviendra indésirable dans la parole universitaire.

      Heinich fait comme si ces jugements de valeur étaient nécessairement arbitraires ou hasardeux et ne pouvaient pas, au contraire, être le fruit d’une série d’arguments, de preuves et d’expériences partagées, soumis à la sagacité du « public qui lit ». La démocratie américaine, le projet communiste, le nationalisme noir ou le féminisme ne sont pas de simples opinions. Elles prétendent à la vérité sur la base d’arguments rationnels et de vécus communs. En limitant le jugement sociologique à la détection des manquements à la neutralité axiologique, Heinich formule l’idéal d’une science sociale de petits procéduriers, en quête perpétuelle du vice de forme, mais sans avocat capable de plaider sur le fond. C’est ce que le philosophe jamaïcain Lewis Gordon a qualifié de « décadence disciplinaire [13] » : la discipline universitaire n’est plus une façon d’accéder à un jugement sur le monde informé, argumenté, et donc plausible, mais devient un système autoréférentiel et fermé qui se contente de décerner des certificats de réussite ou de détecter des manquements à des critères qui ne valent que pour ses praticiens [14]. Si l’intégrité des sciences expérimentales dépend de cette indépendance, il n’en va pas de même des sciences de la culture qui, écrites en langage ordinaire et portant sur des objets d’intérêt public, sont condamnées au dialogue interdisciplinaire et avec l’espace public. Déplorant le manque d’originalité, la médiocrité et l’absence de toute « autonomie de la science [15] » depuis son calfeutrage disciplinaire, Heinich définit un idéal théorique déjà moqué par l’historien des sciences Georges Canguilhem voilà plus d’un demi-siècle : « savoir pour savoir ce n’est guère plus sensé que manger pour manger, ou tuer pour tuer, ou rire pour rire, puisque c’est à la fois l’aveu que le savoir doit avoir un sens et le refus de lui trouver un autre sens que lui-même [16]. »

      L’absence des études noires en France et l’assurance avec laquelle Nathalie Heinich déploie son argumentaire erroné sont deux symptômes d’un mal plus profond : le retrait de la perspective issue des théories critiques, c’est-à-dire le primat de la méthode sur la légitimité des valeurs mobilisées pour évaluer le monde aussi bien que la théorie. Le véritable défaut des « studies » à la française, que Heinich attaque sans relâche dans son opuscule, est précisément de demeurer trop tributaires de la sclérose des sciences sociales françaises et de n’avoir pas franchement embrassé une méthode critique. Dans un texte fameux 1937, le philosophe allemand Max Horkheimer opposait ce qu’il nommait la théorie traditionnelle à la théorie critique d’inspiration marxiste dont il entendait poser les bases. La théorie traditionnelle se pense neutre, détachée des enjeux sociaux et politiques, des prises de parti et des jugements quant à l’ordre du monde. Mais c’est oublier que, comme le souligne Horkheimer, « le fait que […] des opinions nouvelles parviennent à s’imposer s’inscrit toujours dans le contexte d’une situation historique concrète, même si le savant n’est personnellement déterminé que par des motivations scientifiques [17] ». La posture non-militante revendiquée par certains chercheurs présuppose une approbation des conditions sociales de production de la recherche et de ses buts. Considérer que dans la recherche en sciences humaines et sociales, « une fois franchi le seuil des amphithéâtres, une fois soumis à une revue scientifique à expertise par les pairs, un enseignement ou un article devrait s’affranchir de toute visée politique ou morale au profit de la seule visée épistémique [18] », revient à tenir le contexte social de production de ces travaux pour pleinement satisfaisant. Dans son concept même, la « neutralité » de la théorie « non-militante » ou traditionnelle est un militantisme radical en faveur de l’ordre du monde actuel. C’est pourquoi la méthodologie, foncièrement inoffensive pour l’ordre du monde, a remplacé la théorie. Dans un texte classique du mouvement, le théoricien critique de la race et professeur de droit Richard Delgado arrivait à des conclusions similaires à l’occasion d’une réflexion sur la marginalisation des auteurs noirs au sein de la recherche nord-américaine sur les droits civiques :

      Il pourrait être avancé que les auteurs issus des minorités qui écrivent sur la question raciale ne sont pas objectifs et que la passion et la colère les rendent inaptes à la raison ou à une expression claire, alors que les auteurs blancs sont au-dessus des intérêts personnels et se rendent ainsi capables de penser et d’écrire objectivement. Cela n’est cependant pas crédible, car cela présuppose que les auteurs blancs n’ont aucun intérêt au maintien du statu quo [19].

      Dans le débat français, le rapport entre pratique universitaire et militantisme est surtout défini comme néfaste lorsqu’il est le fait des théoriciens critiques de la race ou des « décoloniaux ». Le fameux « appel des 80 intellectuels » mentionné plus haut est emblématique de ce biais. Il combine deux lignes argumentatives. D’une part, la dénonciation de chercheurs militants qui tentent de « faire passer leur idéologie pour vérité scientifique », et le rappel à l’ordre des universitaires : « Les critères élémentaires de scientificité doivent être respectés. »

      Mais, dans le même temps, les 80 dénoncent des intellectuels décoloniaux qui « attaquent frontalement l’universalisme républicain » et affirment que les « autorités et les institutions […] ne doivent plus être utilisées contre la République [20] ». Le problème auquel nous sommes confrontés est que ce bizarre attelage, où une critique prétendument intransigeante des idéologies se combine à une défense enamourée de l’idéologie républicaine n’est pas un paradoxe. Il procède moins d’une faute d’inattention quelque part au milieu d’une tribune rédigée à la hâte que de la structure même du champ intellectuel français. L’historien Claude Nicolet fait remonter cette attitude à la fin du XVIIIe siècle, avec le philosophe Antoine Destutt de Tracy et sa Société des Idéologues, pour lesquels « la pensée républicaine française se présente aussi comme une philosophie de la connaissance [21] ». En d’autres termes, il n’y a dans l’esprit des intellectuels français pas de contradiction entre l’exaltation de la République et une prétention scientifique héritée du positivisme d’Auguste Comte. Bien au contraire : le républicanisme est redéfini, non plus comme une forme institutionnelle parmi d’autres, mais comme la condition de possibilité même de la rationalité et de la science positive.

      Les sociologues, critiques littéraires, politistes, philosophes ou linguistes qui répondent aux assauts conservateurs en arguant de leur rigueur méthodologique et de l’autonomie de leur discipline se méprennent donc : aux yeux de ces adversaires, leur scientificité ne sera avérée que lorsqu’ils feront leur une apologie sans nuance de la République française, conçue comme l’unique paradis possible pour la recherche de la vérité. Revendiquer la fondation d’études noires dans ce contexte revient à interrompre cette perpétuelle glorification de la République au profit d’un véritable pluralisme, décliné en deux conditions sine qua non. Premièrement, un pluralisme des usages de la raison, qui ne sauraient se limiter à la neutralité prônée par Nathalie Heinich et ses semblables. Des théories critiques fondées sur des usages dialectiques, discursifs, et non simplement « scientifiques » de la raison sont indispensables au renouvellement méthodologique d’un système universitaire encore guidé par les idéaux positivistes du XIXe siècle qui se sont heurtés au mur de l’histoire sans que leur échec ne trouble la routine de tous les chercheurs français. Deuxièmement, il faudra encourager un pluralisme des normes éthiques et des idéaux sociaux à partir desquels nous évaluons la réalité. Dans les démocraties libérales même les plus hostiles aux minorités, les universités ont souvent ménagé quelques lieux d’expression de la dissension. Si elle se veut fidèle à sa promesse millénaire, elle doit être l’un des lieux où envisager un idéal politique non républicain, fondé sur une autre trajectoire historique et une autre normativité politique.

      Du fait de son traditionalisme épistémologique, mais surtout de son opposition au mariage gay [22], Nathalie Heinich est généralement considérée comme une intellectuelle conservatrice. Toutefois, la méfiance vis-à-vis d’une possible émergence en France des études sur la race ou des études noires est disciplinaire au moins autant qu’elle est politique. Ainsi un sociologue se revendiquant pour sa part d’une gauche sans adjuvant, Philippe Corcuff, diagnostique-t-il lui aussi une sorte de déviation militante – et ce plus précisément au sein de mon propre travail. Contrairement à Heinich, il ne s’attaque pas au militantisme universitaire « en soi », mais plutôt à une façon spécifique de l’interpréter. Ainsi déplore-t-il la convergence de « l’arrogance philosophique vis-à-vis de sciences sociales rapetissées » et du « désir du militant [23] » dont mon premier livre, La Dignité ou la Mort, offrirait le désolant spectacle. Or il me semble au contraire regrettable que cette convergence ne soit pas réalisée de façon plus systématique. L’alliance de la synthèse philosophique et de l’analyse stratégique militante telle qu’elle s’est largement scellée au cours des XIXe et XXe siècle chez Marx, Lénine, Antonio Gramsci, Mao, Kwame Nkrumah, Frantz Fanon, Angela Davis, parmi beaucoup d’autres, a produit des effets qui ont changé la face du monde. Chacun à sa façon a milité en philosophe et philosophé en militant. Au-delà de leurs considérables différences, ces auteurs partagent au moins un point commun significatif : sinon une même vision de l’histoire, une même notion de l’histoire, aujourd’hui délaissée par les sciences sociales et la théorie politique constructivistes dont Corcuff se fait le porte-parole.

      Les « philosophes-militants » ont longtemps défini l’histoire comme un massif dense et solide, une trajectoire apparemment inébranlable, face à laquelle il fallait rassembler tous les efforts stratégiques et organisationnels possibles. Face à un ordre du monde analysé comme une totalité hostile contre laquelle, pour reprendre une formule de Herbert Marcuse, ils durent recourir à « une faculté mentale en danger de disparition : le pouvoir de la pensée négative [24] ». Mais, sous l’influence conjuguée de Foucault, de la sociologie critique et du poststructuralisme [25], la pensée négative a été décrédibilisée et le concept d’histoire en est venu à signifier tout l’inverse. Ce qui est historique n’est plus le produit de forces expropriatrices, oppressives ou civilisationnelles puissantes et anciennes ; c’est au contraire ce qui aurait pu être absolument différent, le contingent. L’historicité d’une chose est devenue son caractère révocable, fluide, dénué de substance. Ce que les effets de la performativité, des jeux de langage ou la sagacité analytique peuvent suffire à renverser. Entretenir l’idée d’une fluidité ou d’une hybridité de la condition noire a certes une pertinence sur le plan culturel. Mais sur le plan des questions de vie et de mort, de déshumanisation et de dignité, une approche centrée sur l’hybridité ou le caractère « socialement construit » de la noirceur n’est qu’une autre façon de conjurer la menace du pessimisme et de reconstruire, sans aucune justification que le besoin de (se) rassurer, un grand récit trompeur du progrès.

      Le point d’orgue de l’étude de mon travail par Corcuff consiste à diagnostiquer, entre mon livre et la pensée de l’intellectuel d’extrême-droite Alain Finkielkraut, « sous des modalités différentes, des adhésions identitaristes en phase avec de larges tendances idéologiques du moment [27] ». Juxtaposer nos œuvres au seul prétexte qu’elles seraient toutes deux « identitaristes » est pertinent dans l’exacte mesure où il est pertinent d’assimiler une tortue de mer à un escargot de Bourgogne au prétexte que les deux animaux possèdent une carapace. Ce fait est incontestable, cependant, non seulement les carapaces ne sont pas les mêmes mais, entre le reptile et le gastéropode, tout le reste diffère. Même en admettant que je tienne la condition noire pour relevant de l’identité, ce qui n’est nullement le cas [28], non seulement ma théorie n’a rien à voir avec celle de Finkielkraut, mais encore ses positions sont à l’opposé de celles que je défends à propos de l’État, du capitalisme, de la géopolitique, de la police, des religions, c’est-à-dire toutes les questions décisives. Dans la plupart des contextes, une analogie fondée sur une unique et mince similarité paraîtrait immédiatement irrecevable à quiconque sait voir, non seulement sous la carapace, mais est capable d’en jauger le poids, la taille, la couleur et la texture. Or de nombreux universitaires français progressistes semblent déterminés à ne pas se donner cette peine et voient désormais le monde comme séparé entre les animaux qui ont une carapace et ceux qui n’en ont pas – c’est-à-dire entre les « identitaristes » et ceux qui ne le sont pas. Paradoxalement, ce sont souvent les mêmes sociologues qui s’alarment que l’extrême-droite cherche à reconstruire la frontière politique, non plus à partir du clivage de la droite et de la gauche, mais sur la base d’une chimérique division des « patriotes » et des « mondialistes ». Cet aveuglement leur appartient ; il n’est pas celui des penseurs de la condition noire.

      L’émergence d’études noires est un moment important pour crédibiliser l’autonomie, la consistance et la cohérence des traditions de pensée noires – et ce avant tout aux yeux des afrodescendants eux-mêmes. Les auteurs progressistes tiennent compte de l’histoire des pensées « de la gauche » ou « de l’émancipation », et considèrent que les penseurs noirs n’en proposent que des déclinaisons. Ils n’envisagent pas le radicalisme noir comme une tradition spécifique, répondant aux enjeux de populations particulières, et qui a développé ses propres valeurs et sa propre vision, dont la CRT n’est que l’un des effets contemporains. Bien que la tradition radicale noire s’enracine dans la confrontation à l’esclavagisme, la théorie de gauche perçoit toujours ses revendications et son expression militante centrées sur les intérêts des Noirs comme une déviation par rapport à la norme inamovible du mouvement ouvrier, désormais enrichie de nuances postcoloniales et féministes. Si bien que lorsqu’un universitaire noir développe, reprend ou déploie des thèmes travaillés, discutés, débattus depuis 400 ans dans l’abolitionnisme, le radicalisme ou le nationalisme noirs, il est souvent jugé déviant ou traitre à une tradition qui n’a pourtant jamais été la sienne. Il n’y aura pas d’études noires dignes de ce nom dans l’espace francophone tant que les pensées de la diaspora et de l’Afrique seront envisagées comme des excroissances des Lumières européennes, du féminisme, du marxisme et de toutes ces traditions d’ascendance européenne qui se sont cru à même d’expliquer la totalité du réel.

      ÉTUDES NOIRES ET PESSIMISME

      Les études de genre, les études féminines et féministes ont ouvert la voie à une réception francophone des études noires nord-américaines, comme à la formulation de travaux qui marquent notamment un renouvellement de la philosophie française [29]. Des maisons d’édition françaises, québécoises ou suisses ont rendu accessible de rigoureuses traductions de nombreux classiques du féminisme noir, telles que des œuvres d’Audre Lorde, de Patricia Hill Collins, de bell hooks ou d’Angela Davis. En revanche, d’autres courants des Black Studies n’ont pas bénéficié du même accueil. Certainement parce qu’il est tenu pour raciste, comme l’a noté Maboula Soumahoro, le nationalisme noir n’est pas envisagé en France comme un interlocuteur, ni même comme un objet de recherche crédible [30]. De l’œuvre pléthorique de l’influent théoricien de l’afrocentricité et fondateur, à Temple University, du premier programme doctoral en études noires des États-Unis, Molefi Kete Asante, quasiment rien n’est accessible au lecteur francophone. En revanche, un essai consacré à la critique de ses thèses a été traduit en français peu de temps après sa parution originale [31]. Les études noires francophones sont le seul champ d’études où l’on offre préventivement aux lecteurs la critique d’idées auxquelles ils n’ont jamais eu accès. Les livres du principal fondateur de la Critical Race Theory, Derrick Bell, ne sont pas non plus disponibles, pas davantage que ceux de ses plus fidèles continuateurs, Jean Stefancic et Richard Delgado. Heureusement, est récemment parue une anthologie reprenant quelques articles classiques de la CRT [32].

      Au XXIe siècle, c’est par la porte des études de genre et des études féministes que les études noires ont fait leur entrée dans l’université française, ce qui orienta la recherche. Les textes les plus spécifiquement ancrés dans une trajectoire abolitionniste, anticoloniale, nationaliste noire ou panafricaine, aussi influents soient-ils dans les Amériques, sont généralement écartés et tenus pour sans pertinence. Naturellement, les féministes francophones ont privilégié les travaux des femmes noires les plus en accord ou en résonance avec leur propre vision du monde et leur propre agenda. Il s’agissait de l’enrichir de voix nouvelles, mais consonantes. Une telle sélection ne reflète pas l’intégralité des débats et laisse de côté plusieurs options théoriques. Il en va ainsi de l’Africana Womanism, fondé au début des années 1990 par la théoricienne africaine-américaine Clenora Hudson-Weems, qui part de l’idée que « la véritable histoire du féminisme, ses origines et ses participantes, révèle un fond raciste flagrant, ce qui atteste de son incompatibilité avec les femmes afrodescendantes [33] ». Le mouvement des femmes états-unien s’étant structuré à l’imitation de l’abolitionnisme, elle raille les femmes noires qui embrassent la cause féministe en prétendant l’adapter à leurs expériences et leurs besoins comme « imitant une imitation [34] » au lieu de revenir à la source vive du mouvement noir lui-même. Elle conçoit son œuvre comme héritière du militantisme de libération africain-américain, dont elle juge les principes incompatibles avec ceux du féminisme. « Historiquement, les femmes afrodescendantes ont combattu les discriminations sexuelles, les discriminations raciales et de classe. Elles ont défié le machisme des hommes afrodescendants, mais sans aller jusqu’à les supprimer comme alliés dans la lutte pour la libération et la famille [35]. » Une telle perspective recoupe celle du psychologue et penseur panafricain Amos Wilson [36], entre autres universitaires africains-américains méconnus des francophones.

      Certes, en Amérique du Nord également, le féminisme noir, et plus spécifiquement la théorie de l’intersectionnalité, sont aujourd’hui le paradigme le plus prisé au sein des Black Studies. Souvent caricaturées comme passéistes, chauvines, misogynes ou réactionnaires, les théories inspirées du nationalisme noir, du panafricanisme ou du radicalisme noir de la conjoncture des années 1970 ont peu à peu perdu du terrain face à des discours plus libéraux et plus proches des tendances qui dominent les sciences humaines majoritairement blanches. Toutefois, les intuitions, les affects et les orientations générales de ces grands courants de la pensée noire du XXe siècle semblent aujourd’hui resurgir sous une nouvelle forme. Le thème du pessimisme, autrefois basse continue du radicalisme noir, s’est avancé au premier plan. Il n’a jamais porté sur les Noirs, leurs qualités ou leur courage, mais sur la capacité de la société blanche à dépasser sa propre négrophobie – d’où le recours, tout au long du XXe siècle, à des projets tels que, entre autres, le rapatriement en Afrique ou l’établissement d’une nation noire en Amérique du Nord. Or, selon le philosophe Cornel West, « le pessimisme sur lequel se fonde le nationalisme noir ne s’est jamais complètement imposé sur le plan organisationnel. Les Noirs maintiennent en général la possibilité d’une coalition multiraciale en vue d’approfondir la démocratie en Amérique. Je pense que l’Église noire a historiquement coupé l’herbe sous le pied du nationalisme noir. Elle met en avant la spécificité culturelle noire mais, bien qu’elle encourage la cohésion du groupe, son message est universaliste [37] ». Autrement dit, cet optimisme politique capture les aspirations à l’autodétermination et au pouvoir noires pour les réorienter vers une combinaison de distinction culturelle et d’investissement dans le projet démocratique occidental.

      Certes, l’histoire de nationalisme noir et de l’Église noire ne sont pas distinctes. L’évêque Henry M. Turner, de l’African Methodist Episcopal Church, fut l’un des plus ardents militants de la solution du retour en Afrique au tournant du XXe siècle [38] ; mais il fit peu d’émules. Malgré certaines tentatives contemporaines de radicalisation de son discours, à la façon de la théologie de la libération noire des années 1960, l’Église noire est en grande partie devenue un puissant instrument du statu quo. Sa promotion de la théologie de la prospérité qui sanctifie l’enrichissement personnel et le luxe, son conservatisme social et sa connivence avec la politique institutionnelle y tiennent souvent lieu de message universaliste. Si des ambitions politiques telles que celles de l’évêque Turner ne sont plus d’actualité dans les débats contemporains, l’absence de confiance en les institutions demeure vive et la croyance en les supposés bénéfices d’une coalition multiraciale s’érode.

      Dans le contexte africain-américain, la distinction entre optimisme et pessimisme se fonde généralement sur l’enthousiasme ou le scepticisme à l’égard des projets d’assimilation à la société blanche majoritaire. Souvent, les premiers sont qualifiés de libéraux et les seconds de radicaux. Autrement dit, les optimistes croient en une possibilité pour les Noirs de voir leur humanité pleinement reconnue, là où les pessimistes jugent la négrophobie indépassable sans un renversement gigantesque de l’ordre du monde présent ; d’où l’urgence de construire une pensée et une organisation noires sur des bases inédites. Le tournant pessimiste des études noires contemporaines n’est pas l’injection de nouveaux thèmes ou de nouvelles idées, mais bien davantage l’expression d’un retour du refoulé. Ce pessimisme, point de départ de toutes les tendances de la tradition radicale noire, du nationalisme noir au Black Power en passant par le panafricanisme, fut un temps muselé par des tendances plus libérales, telles que le féminisme intersectionnel ou le poststructuralisme. Noirceur, comme une tentative d’histoire immédiate des idées, se veut un témoignage de cet inévitable retour du pessimisme dans le moment théorique contemporain, nourri de la longue séquence de consolidations, de radicalisations et de récupérations du mouvement pour les vies noires (Black Lives Matter), de l’amertume laissée par le passage à la Maison Blanche de Barack Obama, et d’une consternation au spectacle des arlequinades racistes de Donald Trump.

      En anglais, le terme Blackness va de soi : il désigne tout à la fois et tour à tour le fait d’être noir, l’expérience noire, l’assignation raciale, la culture afro ou la condition noire. Toujours un piège pour les traducteurs, il est parfois rendu par le néologisme inventé par Aimé Césaire, Léopold Senghor et Léon Damas : négritude. Mais généraliser ce terme lourd d’une histoire riche, marqué par l’effort athlétique engagé par ces penseurs au début du XXe siècle, revient à effacer la singularité de leur intervention et de leurs créations théoriques et littéraires. On interprète bien volontiers l’invention de la négritude comme un « retournement du stigmate », une façon d’embrasser le Nègre devenu synonyme d’abjection et d’inhumanité dans le monde post-esclavagiste. Mais cette stratégie s’est doublée d’une autre, plus discrète. Ressusciter le Nègre de chair et de sang, poétiser les nations nègres de l’Afrique et de la Caraïbe, c’était contourner le Noir. Le nom Nègre incarne, le nom Noir abîme. La négritude porte aussi le refus de l’abysse, de la surface où la lumière ne se reflète pas, qui guide irrésistiblement l’imagination en direction de l’obscur, du sinistre, du négatif. Cette métaphorique traverse l’histoire de la condition noire et a toujours lourdement contribué à l’assimilation des Africains à des forces démoniaques, inhumaines, monstrueuses et irrémédiables. J’ai traduit Blackness par noirceur, avec tous ses dérivés (anti-Blackness, peu ou prou synonyme de négrophobie, devenant ainsi anti-noirceur), car j’ai jugé nécessaire d’embrasser ce champ sémantique. Les penseurs de la noirceur auquel cet ouvrage est consacré acceptent le séjour auprès du négatif que l’anglais Blackness connote aussi bien que le français noirceur.

      L’ambition de Noirceur est triple. Premièrement, cet ouvrage se veut une introduction à deux champs de réflexion théorique qui se développent actuellement dans le monde universitaire africain-américain : l’afropessimisme et les Black male studies (études sur les hommes noirs). Cela implique également de présenter les sources et les inspirateurs de ces mouvements. Deuxièmement, il se propose de mettre à l’épreuve les outils élaborés par ces courants de pensée en les mobilisant pour questionner d’autres textes et d’autres lieux, notamment au sein de l’espace francophone. Enfin, troisièmement, dans la continuité de La Dignité ou la Mort, il entend accélérer l’émergence d’un discours théorique noir en langue française, en encourageant l’étude des afrodescendants par les afrodescendants eux-mêmes. Ultimement, je souhaiterais que ce livre, qui porte presque exclusivement sur la condition noire dans le Nord global, rencontre quelque intérêt auprès du lectorat d’Afrique francophone, des Caraïbes, du Brésil, du monde hispanique et au-delà, comme avant lui La Dignité ou la Mort. Le dialogue, le débat et la traduction entre les perspectives théoriques des différentes diasporas et des différentes régions du Continent est indubitablement le défi le plus vital pour l’avenir de la pensée noire – peut-être le seul qui vaille.

      https://lundi.am/Pour-des-etudes-noires-sans-compromis

    • Gouvernement. Blanquer en pleine croisade délirante contre le « wokisme »

      Vendredi et samedi, le ministre de l’Éducation a inauguré et financé un colloque obsessionnel et réactionnaire ciblant les féministes, les antiracistes et les anticapitalistes.

      Jean-Michel Blanquer n’a pas que le Covid à combattre. Les établissements scolaires subissent de plein fouet la crise sanitaire ? Ils ne sont toujours pas équipés en masques FFP2 et en purificateurs d’air ? Qu’importe. Le ministre de l’Éducation nationale a un autre ennemi à pourfendre, semble-t-il, tout aussi invisible et omniprésent que le coronavirus, comme flottant dans l’air : le wokisme.

      Un colloque sur la question s’est tenu vendredi et samedi à la Sorbonne. Jean-Michel Blanquer, dont le ministère a financé l’événement à travers un fonds réservé, a lui-même ouvert les travaux. Le ton grave, il s’alarme : « Il y a des personnes à qui les idées des Lumières font peur. » Qui sont ces personnes ? Celles qui nourrissent « la pensée décoloniale, aussi nommée woke ou cancel culture », affirment les organisateurs. Il s’agit pourtant de trois choses différentes. Les études décoloniales visent à critiquer le système économique néolibéral et à décoloniser les rapports humains. Le terme « woke », venu des États-Unis, désigne ceux qui « s’éveillent » devant les inégalités sociales et les discriminations sexistes et racistes. Enfin, la « cancel culture », ou « culture de l’effacement », vise à mettre au ban un personnage historique en fonction de ses actions, ou une oeuvre, suivant son contenu.

      Pierre Bourdieu et la « pensée 68 » décriés

      Trois choses très différentes, donc. Lier les trois termes comme s’ils ne faisaient qu’un est loin d’être anodin et montre le véritable projet de ce colloque : faire croire que tous les universitaires, intellectuels, militants et citoyens qui réfléchissent aux dominations économiques, sociales, racistes et patriarcales ne sont en réalité que de dangereux « wokistes » ou « islamogauchistes ». À les entendre, la gauche serait carrément sous le contrôle de quelques extrémistes essentialistes. Nombre des intervenants et participants à ces deux journées, qui ont rassemblé 600 personnes (dont les deux tiers en ligne), sont allés dans ce sens, notamment sur la messagerie du débat, qui a souvent servi d’exutoire réactionnaire.

      En introduction, Jean-Michel Blanquer appelle d’emblée à « déconstruire la déconstruction », d’autant plus si elle est intersectionnelle, c’est-à-dire qu’elle croise les dominations Nord-Sud, hommes-femmes, blancs-racisés, riches-pauvres. « Je suis né blanc, donc je suis raciste et je dois me rééduquer, mais voudrais-je rompre avec le racisme que je n’y arriverais pas », s’émeut le polémiste Mathieu Bock-Côté, qui a remplacé Éric Zemmour sur CNews, et place sans cesse le « Blanc » comme étant au centre des discriminations, sans doute pour mieux nier les autres. La sociologue Nathalie Heinich prend d’ailleurs la parole pour réclamer « un meilleur contrôle scientifique » afin « qu’un enseignant ne puisse proférer que la Terre est plate ou qu’il existe un racisme d’État ». Dire qu’il existe une forme de racisme institutionnel, étatisé, notamment à travers les contrôles au faciès, serait donc aussi ridicule et scientifiquement faux que d’affirmer que la Terre est plate ? La même sociologue se plaint ensuite d’une « épidémie de transgenres » causée par l’éducation nationale.

      Le reste est à l’avenant. L’assistance pouffe devant l’écriture inclusive, quand elle n’y voit pas une menace civilisationnelle. La loi Taubira reconnaissant l’esclavage et la traite en tant que crimes contre l’humanité est raillée. « L’Europe n’a pas inventé l’esclavage, mais l’abolition », ose Pascal Bruckner, comme si cela la dédouanait d’avoir massivement pratiqué la traite. « Stop à la victimisation permanente », au « nombrilisme pleurnichard », à la « vulgate bourdieusienne fossilisée » et à la « pensée 68 », entend-on ou lit-on ici et là.

      Le temps de l’Algérie française est regretté

      Selon l’historien Olivier Compagnon, qui a suivi l’intégralité des débats, l’Algérie française est même regrettée, des rires gras fusent au sujet de George Floyd, et le chercheur en science politique Vincent Tournier lance : « J’annonçais depuis longtemps les attentats et je remercie les frères Kouachi d’avoir en fait validé mon cours. » « Le wokisme, c’est l’Inquisition espagnole, le stalinisme et le nazisme », lit-on encore, quand ce n’est pas le « soleil noir des minorités » qui est dénoncé. Coorganisé par l’Observatoire du décolonialisme et le Collège de philosophie, ce colloque visait à tordre le cou à l’idée que « l’oppression serait l’unique clé de lecture du monde contemporain », selon le philosophe Pierre-Henri Tavoillot. À la fin du colloque, on peut se demander si ce n’est pas le concept même d’oppression qui était visé. Pour mieux en nier les ravages hier et aujourd’hui.

      https://www.humanite.fr/politique/jean-michel-blanquer/gouvernement-blanquer-en-pleine-croisade-delirante-contre-le-wokisme

    • « Le colloque organisé à La Sorbonne contre le “wokisme” relève d’un #maccarthysme_soft »

      Intitulé « Après la déconstruction : reconstruire les sciences et la culture », l’événément qui s’est tenu au sein de l’université parisienne les 7 et 8 janvier, n’a servi à rien d’autre qu’à fabriquer un ennemi de l’intérieur, estime le sociologue #François_Dubet, dans une tribune au « Monde ».

      Tribune. On peut être agacé, inquiet, voire hostile à la pensée dite « woke », aux théories du genre appliquées à toutes les sauces, au déconstructivisme radical… On peut préférer les arguments scientifiques à la seule force des indignations. On peut refuser d’être réduit à une identité de dominant de la même manière que l’on refuse de réduire autrui à une identité dominée. On peut penser que l’intersectionnalité est un truisme sociologique érigé en pensée critique nouvelle. On peut penser que la critique de l’islam n’est pas plus nécessairement raciste que l’est celle du catholicisme.

      Bref, on peut avoir de bonnes raisons scientifiques et morales de ne pas adhérer à tout un ensemble de théories et d’idéologies, sans faire pour autant comme si cet ensemble-là était un bloc cohérent, homogène et caricatural, uni par la cancel culture, l’islamo-gauchisme, le décolonialisme ou le « wokisme »…

      Mais quand un colloque officiel est tenu en Sorbonne les 7 et 8 janvier sous l’égide de l’Observatoire du décolonialisme, ouvert par [le ministre de l’éducation nationale] Jean-Michel Blanquer et clos par le président du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur, Thierry Coulhon, il y a de quoi s’inquiéter. Il s’agit, ni plus ni moins, de fabriquer un ennemi intérieur, un ennemi disparate, masqué mais cohérent, qui viserait à détruire, à la fois, la raison et les valeurs républicaines.

      Faute déontologique et erreur politique

      C’est là un maccarthysme soft visant à désigner les ennemis de l’intérieur, leurs complices, leurs compagnons de route et leurs victimes. Ce colloque, tout ce qu’il y a d’officiel, a mobilisé des collègues honorablement connus et souvent reconnus pour la qualité de leur œuvre, auxquels se sont mêlés des intervenants comme Mathieu Bock-Côté, dont les diatribes à la limite du racisme inondent chaque jour CNews et les réseaux de l’extrême droite. Gageons que si Eric Zemmour n’avait pas été pris par la présidentielle, il aurait été de la fête au nom de son œuvre d’historien !

      Comment un président de la République annoncé comme libéral peut-il encourager cette mise en scène maccarthyste ? Comment penser que c’est à l’Etat de dire quels sont les courants de pensée acceptables et ceux qui ne le seraient pas ? Comment ne pas faire suffisamment confiance au monde académique et scientifique pour laisser un ministre de l’éducation conduire un procès à charge contre les idées et recherches qui le dérangent ?

      Ce maccarthysme soft n’est pas seulement condamnable et inquiétant ; il est aussi stupide. Selon la vieille loi de la prédiction créatrice, ce procès fait advenir l’adversaire qu’il combat. Il transforme une nébuleuse hétéroclite de courants de pensées et de travaux disparates en complot plus ou moins organisé contre la science et contre la République.

      Il conduira celles et ceux qui tiennent aux libertés académiques à défendre le droit d’exister d’idées, de travaux et de recherches qu’ils ne soutiendraient certainement pas dans un monde scientifique et intellectuel organisé par les règles du débat et de la critique. Ce colloque est à la fois une faute déontologique et une erreur politique. Il clive plus encore une société qui n’en a certainement pas besoin.

      François Dubet est sociologue, professeur émérite à l’université de Bordeaux, directeur d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS). Il est l’auteur, avec Marie Duru-Bellat, de L’école peut-elle sauver la démocratie ? (Seuil, 2020).

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/10/francois-dubet-le-colloque-organise-a-la-sorbonne-contre-le-wokisme-releve-d

    • Les « #anti-woke » et le virus de la bêtise

      Comme Jean-Michel Blanquer, ils sont nombreux à voir dans #Foucault, #Deleuze et #Derrida l’origine de la « cancel culture » qu’ils déplorent. Les détracteurs de la #French_theory ont-ils seulement lu les auteurs qu’ils critiquent ?

      Voilà maintenant un moment qu’on nous rabâche les oreilles avec les méfaits de la pensée « woke » et de la « cancel culture ». Au point d’y consacrer en Sorbonne un colloque, où le ministre de l’éducation nationale n’hésita pas à utiliser une métaphore douteuse : « D’une certaine façon, c’est nous qui avons inoculé le #virus avec ce qu’on appelle parfois la French theory. Maintenant, nous devons, après avoir fourni le virus, fournir le #vaccin. » On la dit vouloir effacer toute une histoire, s’en prendre aux piliers de l’identité française et européenne, répandre la haine là où régnait l’harmonie, mettre de l’huile (racialiste et genriste) sur la flamme républicaine. On s’en prend volontiers à l’Amérique, à ses campus et ses idéologues. Et il n’est pas difficile de montrer que de ce côté-là souffle aussi parfois un vent de bêtise, voire des positions intransigeantes aux allures de révolution culturelle (on brûle des livres, en interdit d’autres, renverse des statues).

      Ce qui est intéressant dans l’anti-wokisme, surtout celui qui émane de la bouche de nos intellectuels, c’est que notre complexe de supériorité morale et intellectuelle, notre mépris et notre ignorance de la réalité américaine sont tels qu’on pense les Américains incapables de concevoir les outils de leur propre lutte. Ils sont tombés dans le ruisseau, c’est la faute à Foucault ; le nez dans la beuse, c’est la faute à Deleuze.

      Une vieille et bien bête critique

      On prétend donc que les vrais coupables se situent de ce côté-ci de l’Atlantique, et notamment en France. Les noms de Foucault, Derrida et Deleuze sont systématiquement invoqués. Ayant passé les trente dernières années de ma vie à lire ces très grands (j’insiste) penseurs et lecteurs, je peux avec confiance dire que leurs détracteurs ne s’en sont pas donné la peine. C’est une preuve de paresse intellectuelle, voire de #malhonnêteté.

      #Malhonnêteté_morale qui consiste à faire porter le chapeau à ceux qui ne sont plus parmi nous pour se défendre, à faire d’un pan entier de la pensée française un bouc émissaire. #Malhonnêteté_intellectuelle qui consiste à réduire des pensées complexes, nuancées et entre elles bien différentes à des #slogans vides. Malhonnêteté intellectuelle que de prétendre que ces penseurs prônent le « #relativisme », soit que « tout se vaut ». C’est une vieille et bien bête critique. En réalité, chacun de ces philosophes met au point une nouvelle méthode et de nouveaux outils conceptuels, qui révèlent de nouveaux objets ou portent sur d’autres un regard différent.

      Ainsi l’#empirisme_transcendental de Deleuze permet de penser la phénoménalité du monde sur fond de réalité virtuelle, dont elle serait comme la solution ou cristallisation, mais que jamais elle n’épuiserait. Cela donne des pages époustouflantes sur la littérature, la peinture, le cinéma, mais aussi la physique, la biologie, les mathématiques et, bien entendu, l’histoire de la philosophie. On ne peut dire à l’avance les forces et virtualités qui nous habitent et les puissances de transformation qui hantent le monde. Vivre, vivre pleinement, c’est s’y engager, les saisir, en faire quelque chose.

      Ainsi l’archéologie et la généalogie de Foucault visent à nous rendre étrangers à nous-mêmes, et par conséquent à considérer comme des constructions aux conditions historiques bien précises, des comportements, des institutions, des hiérarchies, des systèmes d’inclusion et d’exclusion que nous estimions jusque-là parfaitement naturels et nécessaires, inamovibles.

      Ainsi la fameuse #déconstruction de Derrida démontre à son tour l’instabilité de nos schèmes métaphysiques, des distinctions, divisions et hiérarchies qui les constituent et les défont en même temps.

      La critique de ce que nous sommes

      Toujours il s’agit de se demander : comment faire la différence – entre la servitude et la liberté, le pouvoir et la multitude, l’éthique et la politique, la pensée et la bêtise, la raison et la folie, la parole et l’écriture, la joie et la tristesse ? Toujours il s’agit de se demander : peut-on vivre autrement, c’est-à-dire plus librement, d’une façon plus lucide, moins bête, plus humaine ? Toujours il s’agit de comprendre les nouveaux visages du pouvoir. Toujours il s’agit de combattre les nouvelles formes d’assujettissement, irréductibles à la seule coercition, sans se voiler derrière l’illusion que « nous vivons après tout en démocratie », « allez voir comment ça se passe en Chine ou au Kazakhstan ». Comme s’il y avait d’un côté le camp de l’humanisme, du droit, de la liberté, de la démocratie, de l’universel ; et de l’autre le camp de tout ce qui s’y oppose. Comme si les choses n’étaient pas plus compliquées que cela, et que l’on n’avait plus le droit de revendiquer la complexité, la critique de ce que nous sommes, au nom de ce que nous pouvons être.

      Foucault disait : on ne gagne rien à s’emparer de notions générales, qu’on peut mettre à toutes les sauces. Prenons l’humanisme : une fois qu’on l’a clamé sur les toits, on est bien avancé. Le libéralisme se réclame de l’humanisme. Mais le communisme s’en réclamait aussi (et peut-être encore). Le fascisme aussi. Prenons le débat actuel, qui bat son plein en cette période électorale. Déclin ou Progrès ? Fin de la Civilisation ou Tournant ? Grand Remplacement ou Grand Redressement ? Degringolada ou Remontada ? Haine ou Amour de soi (et de la France) ? Autant de pièges à cons, de fausses alternatives, de pôles si généraux qu’ils sont vides de tout sens. C’est cela qui est triste à pleurer, et non le souffle, la vie, le chavirement qui traversent les pensées de Deleuze, Derrida et Foucault. La philosophie se méfie des schémas simples et des notions générales. Seul l’intéresse le sur-mesure.
      La bêtise de l’apothicaire

      Ouvrez Proust et les signes ou Différence et répétition de Deleuze et vous verrez ce qu’il y est dit des capacités inouïes et encore insoupçonnées de notre faculté de connaissance et de raisonnement à épouser notre imagination, nos sensations, notre mémoire, à produire du sens, des valeurs, des savoirs, le tout dans une folle gaîté.

      Lisez L’autre cap de Derrida, et vous y verrez un plaidoyer pour une Europe de la rationalité, des Lumières, de l’héritage judéo-chrétien, et en même temps de l’ouverture à la différence, de l’accueil, de l’hospitalité. Vous y verrez une raison qui s’interroge elle-même, se déconstruit, mais toujours dans le but de plus d’humanité.

      Foucault, lui, répétait qu’il ne souhaitait pas prouver que les sciences humaines étaient, dans leur conception de l’Homme, dans l’erreur, mais qu’elles étaient inévitablement amenées, au nom de la Science et de l’Homme, à faire de certains hommes et de certaines femmes – et, oui, de ceux qui ne tombent ni dans un camp ni dans l’autre – des « vies infâmes » (des anormaux, des monstres, des moins qu’hommes). Ne faut-il pas se réjouir des outils qu’il nous fournit afin de rendre ces groupes plus visibles et plus humains, afin d’engager des luttes pour leurs droits et leur dignité ?

      On est loin du « tout se vaut ».

      La philosophie sert à une chose, disait Nietzsche : nuire à la bêtise. A quoi reconnaît-on la bêtise ? A l’incapacité de distinguer les problèmes et les poser correctement. La bêtise pose les mauvaises questions et entraîne donc les solutions qu’elle mérite. La bêtise de Charles Bovary, comme celle de sa femme, sont inoffensives. Mais la vraie bêtise, dangereuse, c’est celle de Homais l’apothicaire. C’est la bêtise savante et conquérante, mue par la peur et le ressentiment, qui a soif de pouvoir et s’y accroche. Homais défendait les Lumières et attaquait l’Eglise, mais comme un imbécile. Le woke et la cancel culture sont le nouveau clergé à abattre. Vive l’Universel, la Raison, l’Homme, la France ! On se croirait aux comices agricoles ou dans la grande campagne parallèle de l’Homme sans qualité.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/les-anti-woke-et-le-virus-de-la-betise-20220115_SUKIWMXWMVHL3GYAVYR6Q7R3H

  • #Gustav_Landauer (1870-1919)
    https://www.partage-noir.fr/gustav-landauer-1870-1919

    Ce texte est la traduction réalisée par Michel Hirtzler (TAC) d’un texte consacré à Gustav Landauer et publié dans le numéro 54 de la revue Anarchy. Cette traduction est parue en décembre 1966 dans le numéro 1 de Recherches libertaire-. #Partages_noirs

    / Gustav Landauer, #Erich_Mühsam, Révolution allemande (1918-1919], #Ernst_Toller

    #Révolution_allemande_1918-1919]
    http://archivesautonomies.org/spip.php?article2118

  • D’un chaman à l’autre : théories du complot et impasses du debunking - AOC media - Analyse Opinion Critique
    https://aoc.media/analyse/2021/12/29/dun-chaman-a-lautre-theories-du-complot-et-impasses-du-debunking-2/?loggedin=true

    D’un chaman à l’autre : théories du complot et impasses du debunking
    Par Nicolas Guilhot
    Historien
    Si Internet et les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information, ni que nous ayons affaire à un phénomène nouveau : ce qui frappe, à y regarder de plus près, c’est, au contraire, l’impression de déjà vu. Rediffusion du 9 novembre 2021

    Comme pour le jour de la photo de classe, la marche du 6 janvier sur le Capitole à Washington consistait à porter sa plus belle tenue. Si le tout-venant s’était contenté de l’uniforme de rigueur – de robustes vêtements de travail et une casquette MAGA (pour Make America Great Again) –, les plus exubérants avaient opté pour des costumes de super-héros, des toges romaines, des peaux d’animaux ou des tenues mimétiques. Les apparences étaient d’autant plus importantes qu’il n’y avait pas grand-chose d’autre en jeu.

    En l’absence d’un programme politique défini et d’une réelle organisation, la pose a pris inévitablement le pas sur la politique : il s’agissait avant tout de faire acte de présence et de se faire remarquer. Seule la violence a sauvé cette fanfaronnade du ridicule. Décidée à reprendre le pays par la force, une foule un peu déphasée est sortie de l’épreuve de force avec un pupitre et quelques souvenirs de procédure parlementaire. Les véritables trophées de la journée furent les selfies.
    La vedette du jour ? Un homme, torse nu, coiffe en fourrure de coyote et cornes de bison, le visage peint aux couleurs du drapeau américain, la poitrine ornée de tatouages néo-païens. Véritable aimant pour les objectifs des caméras et des appareils photo, il est partout dans la couverture médiatique de l’événement : on le voit gonfler ses biceps sur l’estrade de la Chambre du Sénat, brandir une lance, déambuler dans les couloirs vides du pouvoir, inspecter un bureau encore jonché du fouillis d’une évacuation précipitée, s’adresser à des policiers interloqués.
    Devenu instantanément viral, l’homme a inspiré toute une série de comparaisons, du chanteur pop britannique Jamiroquai à Chewbacca de la Guerre des étoiles. Quelques jours à peine après l’émeute, il était possible d’acheter son effigie auprès d’un fabricant argentin de poupées de collection. Et il a fait des émules : en avril dernier, lors d’une manifestation contre la fermeture des restaurants à Rome, un ancien vendeur de lampes à bronzer, propriétaire d’une pizzeria à Modène, a pris part à l’émeute en arborant cornes et fourrure, le visage barbouillé du tricolore.
    Figure emblématique du 7 janvier, l’homme est connu sous le nom de « Q Shaman », en référence à la mouvance QAnon, dont les adeptes sont convaincus que le monde est gouverné par une cabale de pédophiles. Pour l’état civil, il s’agit de Jacob Chansley, un supporteur de Trump âgé de 33 ans et originaire de Phoenix, Arizona. Avant même de devenir le visage public de l’émeute du 6 janvier, les frasques politiques et le sens vestimentaire de Chansley lui avaient déjà valu l’attention de la presse locale. En 2019 et 2020, il assistait régulièrement aux rassemblements organisés par Trump et on pouvait, de temps à autre, le trouver faisant les cent pas devant le Capitole de l’Arizona et dispensant bruyamment la bonne parole de QAnon au rythme d’un tambourin chamanique.
    À la suite du 6 janvier et de l’arrestation de notre homme, des détails biographiques sont venus définir les contours d’une vie par ailleurs banale : une expulsion pour loyers impayés, suite à laquelle Chansley était retourné vivre avec sa mère ; quelques années d’université pendant lesquelles il avait étudié la religion, la psychologie et la céramique ; un passage dans la marine en tant qu’apprenti commis à l’approvisionnement sur un porte-avions ; des velléités rapidement déçues de faire une carrière d’acteur ; et deux ouvrages publiés à compte d’auteur, un essai et un roman, disponibles à la demande sur Amazon.
    Écrit sous le nom de plume de Jacob Angeli, One Mind At A Time (Un esprit à la fois) livre au lecteur les nombreuses opinions de Chansley sur le monde dans un flux ininterrompu et informel qui évoque l’équivalent stylistique de l’incontinence. L’ouvrage contient quelques autres éléments d’informations biographiques. On y apprend qu’adolescent, il se considérait un fervent partisan de George W. Bush, qu’il était indifférent aux questions environnementales, favorable à l’invasion de l’Irak et convaincu que les États-Unis étaient en droit d’exporter la liberté à coups de missiles de croisière – cela jusqu’à ce qu’il cesse de croire les médias grand public et voie la lumière, notamment grâce à « plusieurs expériences de dissolution des frontières […] à base de plantes psychédéliques ». Depuis lors, Chansley se considère comme un guérisseur et un praticien du chamanisme.
    L’attachement que Chansley voue à QAnon et sa participation à l’émeute du 6 janvier ont façonné notre manière d’interpréter politiquement ses gestes et sa personne. Certains commentateurs ont noté que ses tatouages sont des symboles de la mythologie nordique récupérés de longue date par les groupes suprématistes blancs. Et si cela peut sembler incompatible avec un attirail chamanique et une tenue qui évoque davantage une session de Fortnite qu’un penchant pour le look Waffen-SS, il est vrai qu’à ses débuts, le Ku Klux Klan aussi ressemblait à un carnaval qui aurait mal tourné, une sorte de pride macabre avec cosplay et kazoos, avant d’opter pour la sobriété de ce que James Thurber a appelé « la literie d’apparat ».
    L’extrême-droite contemporaine absorbe les répertoires contestataires progressistes et les schémas de la contre-culture pour les canaliser dans une direction réactionnaire.
    Même s’il est tentant de faire de Chansley un fasciste parmi d’autres, la reductio ad Hitlerum atteint rapidement ses limites heuristiques. Il ne fait aucun doute que les diatribes de Chansley recoupent pleinement les vues conspirationnistes de l’extrême-droite : « Q consiste à reprendre le pays aux mondialistes et aux communistes […] qui ont infiltré les médias […], le divertissement[…], la politique », a-t-il par exemple déclaré dans un entretien. Pourtant, à ne prêter attention qu’à ce qui renvoie aux fascismes du passé, on risque de passer à côté de ce qui est nouveau et singulier – et plus immédiatement pertinent.
    Dans son reportage sur les événements du 6 janvier pour le New Yorker, Luke Mogelson a observé que de nombreux participants aux précédentes manifestations contre le confinement « se percevaient comme des gardiens de la tradition du mouvement des droits civiques », et que certains d’entre eux allaient jusqu’à se comparer à Rosa Parks.
    Les adeptes de QAnon comptent dans leurs rangs d’anciens centristes et autres liberals désenchantés : certains ont voté pour Obama, d’autres viennent de familles pro-Hillary ou pro-Bernie. Ce n’est vraisemblablement pas le cas de Chansley, même si certaines de ses convictions pourraient fort bien figurer dans un pedigree progressiste.
    Dans One Mind At A Time, il décrit le monde qui émergera une fois vaincu le « fascisme d’entreprise militarisé » de l’État profond : les prisons seront « progressivement éliminées » et la peine de mort abolie ; les frontières disparaîtront et tout le monde pourra se déplacer librement ; il y aura « beaucoup d’argent pour que les enseignants soient mieux payés, pour que les soins de santé soient couverts pour tous les citoyens, pour que les sans-abri aient un toit et qu’aucun humain ou animal ne souffre de la faim ou de maltraitance ». Sans oublier le chanvre qui remplacera le bois et les colonies d’abeilles de l’Amazonie qui échapperont finalement aux méfaits de la déforestation.
    Il est facile de ne voir dans ces propos que les élucubrations d’un esprit confus – ce qui est le cas. Mais ce bric-à-brac idéologique incohérent – composé de diatribes enragées contre le mondialisme, d’idées qui ne dépareraient pas dans les manifestes Black Lives Matter (« defund the police »), voire dans le matériel de campagne d’un Bernie Sanders – reflète la capacité de l’extrême-droite contemporaine à absorber des répertoires contestataires progressistes et des schémas de la contre-culture pour les canaliser dans une direction réactionnaire.
    Si l’on doit parler de fascisme, c’est moins dans le sens d’une menace extérieure qui pèserait sur les institutions de la démocratie libérale, comme le suggèrent les images du 6 janvier, que dans celui d’un délitement interne de celles-ci. Il ne s’agit pas d’une idéologie codifiée dans le passé, mais d’un mouvement qui préempte et désamorce la nécessité du changement social en faveur du statu quo, un mouvement composé de magnats de l’industrie et d’ouvriers au chômage, de patrons de casinos et de concierges, de marchands de sommeil et de locataires expulsés, un mouvement qui a trouvé dans un escroc de l’immobilier le meilleur porte-drapeau possible.
    Ce qui importe n’est pas tant de savoir si des échos des brasseries des années 1930 résonnent dans les déclarations de Chansley, mais de comprendre pourquoi un éco-guerrier New Age de l’Arizona qui appelle de ses vœux une sécurité sociale à couverture universelle participe à une parodie de putsch aux côtés de néo-nazis et de soccer moms, pour finalement devenir le visage du fascisme gonzo du XXIe siècle. Une partie de la réponse, semble-t-il, est liée aux théories du complot.
    QAnon s’est construit à partir d’une rumeur plus ancienne, connue sous le nom de « Pizzagate », selon laquelle Hillary Clinton était à la tête d’un réseau pédophile opérant depuis le sous-sol de Comet Ping Pong, une célèbre pizzeria de Washington D.C. Même après qu’un adepte lourdement armé eut pris d’assaut les lieux pour ne rien trouver d’autre qu’une arrière-cuisine dans laquelle le personnel de l’établissement s’affairait à pétrir de la pâte à pizza, la rumeur ne s’est pas éteinte. Elle continua à se répandre sous la forme de prophéties cryptiques postées en ligne par un mystérieux contributeur qui signait ses missives de la lettre « Q », en référence à un niveau d’habilitation sécurité-défense du ministère de l’Énergie des États-Unis.
    Pour la communauté en ligne des fidèles, ces « Q drops » suggéraient que Trump était en train de mener une guerre secrète contre le réseau pédophile mondial niché au cœur de l’État profond. Le combat final aurait lieu au grand jour, bien que sous un éclairage crépusculaire, lorsque Trump ordonnerait à diverses branches des forces de sécurité de rafler les membres de la cabale – un événement baptisé « The Storm » (« La Tempête ») dans le folklore QAnon.
    Dans son célèbre essai sur la pensée complotiste, Le Style paranoïaque : théories du complot et droite radicale en Amérique (1964), Richard Hofstadter suggérait que ce qui caractérise l’esprit paranoïaque n’est pas seulement la croyance dans telle ou telle théorie du complot, mais le fait de considérer l’histoire elle-même comme une vaste conspiration. Pour Chansley, QAnon n’est pas seulement une théorie concernant l’establishment politique de Washington mais le canevas même de l’histoire américaine, dans la trame duquel chaque pièce du puzzle trouve sa place, des ovnis et de l’assassinat de John F. Kennedy aux récentes fusillades dans les écoles.
    Il est difficile de résumer les élucubrations de Chansley, à côté desquelles les divers épisodes d’Indiana Jones font l’effet d’un documentaire soporifique sur Arte. En résumé, la conviction que l’élite mondiale s’adonne au trafic d’êtres humains et au viol d’enfants n’est que la couche externe d’un complot bien plus vaste, complot dont les membres sont cooptés précisément du fait de leur dépravation, laquelle permet à l’État profond de s’assurer de leur docilité par la biais du chantage.
    Mais, dans ce cas, qu’est-ce que l’État profond, se demandera-t-on ? Au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, explique Chansley, les États-Unis ont secrètement absorbé le réseau de renseignements nazi et, partant, les technologies de pointe allemandes, qui n’étaient pas toutes d’origine humaine : dans leur quête de suprématie, les nazis étaient entrés en possession de savoirs ésotériques, peut-être lors de leurs expéditions secrètes en Antarctique et en Asie, où ils seraient vraisemblablement entrés en contact avec des civilisations extraterrestres (d’où les mystérieux « Foo Fighters » de la fin de la Seconde Guerre Mondiale).
    Transplantés aux États-Unis, accompagnés peut-être de leurs collègues extraterrestres, les scientifiques nazis ont poursuivi leurs expériences médicales sur des sujets humains, ainsi que le développement de technologies extraterrestres secrètes (d’où les événements de Roswell). Cette vaste opération de camouflage se poursuit encore aujourd’hui : le sous-sol de la masse continentale nord-américaine est sillonné par un réseau de cavernes connues sous le nom de « Deep Underground Military Bunkers », ou DUMBs, « reliés par de grands tunnels qui utilise [sic] un train à sustentation magnétique se déplaçant à la vitesse Mach d’une base à l’autre ». Certains de ces bunkers souterrains abritent des installations militaires secrètes ou sont interdits d’accès, d’autres ont été maquillés en infrastructures civiles.
    De courageux chercheurs de vérité ont parfois exposé ces dernières : il est par exemple évident que l’aéroport international de Denver cache un DUMB s’enfonçant dans les entrailles de la terre sur huit niveaux, car comment expliquer autrement la disposition en forme de croix gammée de ses pistes, si ce n’est en guise de clin d’œil à son rôle de plaque tournante pour les fonctionnaires nazis de l’État profond ? Est-ce une coïncidence si l’existence d’un monde souterrain habité par des créatures non humaines soit attestée dans un certain nombre de civilisations anciennes ? Et que se passe-t-il au juste dans les cryptes de cet autre repaire de violeurs qu’est le Vatican ?
    Partout, de Comet Ping Pong à la salle d’embarquement de Denver, des gens sont enlevés pour servir de cobayes dans le cadre d’expériences de transformation génétique, de contrôle mental et de pouvoirs surnaturels, tandis que des enfants sont jetés ici et là en pâture à l’élite pédophile dont le rôle est de tenir l’État profond à l’abri des regards.
    Chansley, lui, a regardé droit dans les ténèbres et n’a pas bronché : « Quand j’ai découvert que 800 000 enfants et 600 000 adultes sont portés disparus chaque année rien qu’aux États-Unis, j’ai eu la Chair de poule [sic] ! » La fluoration des eaux municipales ainsi que le lavage de cerveau idéologique opéré via le système scolaire et les médias grand public garantissent la soumission de la population générale, tandis que des pouvoirs de contrôle mental permettent à l’État profond de commanditer des tueurs programmés et de fomenter des fusillades dans les écoles, et ce dans le but de désarmer les patriotes qui seraient tentés de vouloir libérer la population souterraine d’esclaves sexuels. Et puis, il y a les victimes dont personne ne parle : de mèche avec des sociétés maléfiques comme Monsanto, l’État profond se livre à un « écocide » et massacre non seulement des enfants innocents, mais aussi des millions de nos frères bovins. Où sont nos enfants ? Où sont nos bisons ?
    Les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot, mais cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information.
    Il existe de manière assez répandue, chez les universitaires, les responsables des politiques publiques et les chiens de garde de l’information, une tendance à considérer les théories du complot comme des théories, c’est-à-dire des affirmations sur le monde susceptibles d’être vraies ou fausses. Dans la mesure où elles sont typiquement fausses, nous les traitons comme des explications sociologiques erronées, fondées sur des incohérences logiques ou des vices de preuve.
    C’est après tout à un philosophe des sciences que nous devons le concept de « théorie du complot » : lorsque l’expression voit le jour en 1948 sous la plume de Karl Popper, elle désigne l’incapacité à interpréter les événements sociaux comme la résultante d’une myriade de processus interdépendants ; au lieu de cela, ils se trouvent réduits à l’expression d’une volonté unique et omnipotente émanant d’entités collectives invisibles (Popper mentionne pêle-mêle les capitalistes, les impérialistes, les sages de Sion…).
    La « théorie sociologique du complot », écrit Popper, s’apparente à « un type assez primitif de superstition ». Cette vision est restée prédominante depuis lors : dans un article influent publié il y a dix ans, deux juristes de Harvard – Cass Sunstein et Adrian Vermeule – parlent ainsi d’« épistémologies boîteuses ».
    Dès lors que les théories du complot sont considérées comme un problème de nature cognitive, elles deviennent aussi un problème d’ordre purement individuel. Si elles ne nous disent certes rien sur la société, elles nous parlent en revanche des personnes qui y adhèrent. Même lorsque le diagnostic se fait en des termes vaguement sociologiques (faible niveau d’éducation, classes populaires, etc.), les théories du complot deviennent le symptôme d’une déficience de la pensée, d’une incapacité à s’orienter dans l’environnement informationnel.
    En somme, nous avons réduit les théories du complot à de l’information, et ceux qui y croient à de médiocres processeurs d’information. On ne s’étonnera pas si de nombreux observateurs en viennent désormais à considérer les théories du complot contemporaines comme une forme d’analphabétisme propre à l’ère digitale : le « nouveau conspirationnisme », selon eux, ne se rapporterait à aucun événement réel (rien ne se passe à Comet Ping Pong contrairement, par exemple, à l’assassinat de Kennedy) et se réduirait à de l’air chaud généré par les serveurs de Facebook. Pour ces mêmes observateurs, QAnon est un phénomène qui jamais n’aurait été possible « ne serait-ce qu’au début de ce siècle ».
    Il est indéniable qu’Internet et les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot, mais cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information, ni que nous ayons affaire à un phénomène nouveau : ce qui frappe, à y regarder de plus près, c’est, au contraire, l’impression de déjà vu.
    Nous avons remplacé les conditions sociales et économiques par des biais cognitifs.
    En mai 1969, une rumeur se répand comme une traînée de poudre dans la ville d’Orléans : des jeunes femmes disparaissent mystérieusement dans les salons d’essayage de six boutiques de la ville. Les victimes sont droguées et enlevées via des tunnels souterrains afin d’être vendues à des réseaux internationaux de prostitution. Le fait que les propriétaires des magasins incriminés soient juifs n’est certainement pas un hasard.
    Au fur et à mesure que la rumeur prend de l’ampleur, le silence des médias locaux devient suspect et finit par se fondre dans la trame de la conspiration : la presse est achetée – fake news ! – et les autorités publiques sont de mèche. Le 31 mai, alors que de nombreux Orléanais font leur marché, des petits groupes se rassemblent devant les magasins incriminés dans une atmosphère volatile. Seule la fin du marché et le début du second tour de l’élection présidentielle désamorcent une situation explosive, dans laquelle il n’aurait pas été impensable que la rumeur pousse quelqu’un à l’action, comme ce fut le cas cinquante plus tard à Comet Ping Pong.
    Ce qui frappe dans l’incident d’Orléans, ce sont les similitudes avec les théories du complot actuelles : l’horreur cachée derrière la devanture d’un commerce populaire, le trafic sexuel mondial, les tunnels secrets, la collusion des médias et de l’élite politique. A une différence près : l’absence d’Internet.
    Au lendemain de la rumeur, le sociologue Edgar Morin s’était rendu à Orléans avec plusieurs de ses collègues afin de comprendre l’origine et la diffusion de la théorie du complot. Publié à chaud, La Rumeur d’Orléans est le récit de cette enquête de terrain. A ma connaissance, aucune analyse du phénomène QAnon n’a fait référence à cet ouvrage, pourtant traduit en anglais dès 1971.
    À le relire aujourd’hui, on est frappé par deux choses : la relative stabilité dans le temps des schémas complotistes, et, à l’inverse, la transformation radicale de notre façon de les analyser. Ne pouvant en attribuer la responsabilité à l’information en ligne, Edgar Morin identifia des facteurs sociaux, économiques et culturels plutôt que des mécanismes cognitifs ou des logiques d’information.
    Il tenta de déchiffrer la panique morale à l’origine des rumeurs antisémites en relation avec l’évolution de la structure démographique de la ville, les nouvelles identités de genre, le rôle des femmes sur le marché du travail, les processus de modernisation économique qui perturbaient le tissu social et les codes moraux de la ville, ainsi qu’un lent processus de déclin qui voyait une ancienne capitale médiévale se transformer en grande banlieue parisienne. Pour le dire brièvement, Morin s’est efforcé de comprendre la situation historique dans laquelle un mythe avait resurgi, et non une erreur d’inférence ou une épistémologie boîteuse.
    Le debunking s’avère être, en définitive, une défense du statu quo.
    Ce qui est remarquable, cinquante ans plus tard, c’est à quel point ce monde réel a disparu de nos réflexions sur les théories du complot. Nous avons remplacé les conditions sociales et économiques par des biais cognitifs, les mythologies politiques et religieuses par des erreurs étiologiques, l’histoire par des préjugés ataviques. Ce n’est pas seulement que nous avons projeté les causes du complotisme dans les profondeurs du cerveau humain : nous partons du principe que ces profondeurs sont plus faciles à sonder que le monde qui nous entoure, et plus faciles, aussi, à réformer.
    Ni les partisans de la démystification (debunking), ni les nouveaux justiciers de l’information ne considèrent la possibilité que la cause profonde des théories du complot puisse se situer en dehors de l’esprit, et nécessiter un réexamen du monde socio-économique qui est le nôtre. Il y a là un quiétisme implicite : ce qui est en cause, ce n’est pas le monde, mais les esprits individuels qui semblent ne pas le voir pour ce qu’il est.
    Il s’agit dès lors d’amener les gens à s’aligner sur une réalité qu’ils ne mesurent pas. Steven Pinker, l’un des paladins de la vérité et de la rationalité, suggère de mettre en œuvre rien moins que des programmes de « débiaisage » qui consisteraient à aider les gens à voir que le monde va bien et que tout se passera au mieux si nous laissons les responsables politiques et économiques continuer à s’en occuper sans leur faire entrave.
    Il s’agit de s’adapter au monde tel qu’il est et de résister à toute tentation de le transformer. Le debunking s’avère être, en définitive, une défense du statu quo – non pas parce que les théories du complot seraient vraies, mais parce que les tenants de la démystification les utilisent pour restreindre un peu plus la place accordée au politique. Par-delà leur opposition, le debunking et les théories du complot sont deux formes d’anti-politique.
    S’il fallait désigner un coupable de cette tendance à faire des théories du complot un problème de psychologie et de rationalité individuelles, ce serait Hofstadter. Selon les commentaires éditoriaux élogieux qui ont accueilli la récente réédition aux États-Unis de The Paranoid Style dans la prestigieuse collection Library of America, les travaux de Hofstadter sur « l’irrationalisme, la démagogie et la pensée complotiste » constituent une « pierre de touche pour donner un sens aux événements de 2020 ».
    Ces éloges ne témoignent pas seulement de l’importance d’Hofstadter pour la culture politique américaine : elles rendent aussi hommage à un historien qui voyait dans les théories du complot l’expression d’un atavisme, une sorte de monstre lacustre qui referait épisodiquement surface dans l’histoire américaine mais que l’on ne peut comprendre qu’en termes de « psychologie des profondeurs ».
    Paradoxalement, Hofstadter a doté de toute le prestige que confère un prix Pulitzer l’idée selon laquelle l’histoire a relativement peu à nous apprendre sur ce qui est en réalité une mentalité archaïque, parfois réveillée par les soubresauts de la modernité mais en dernière instance imperméable à cette dernière. Il ne faut pas s’étonner que le regain d’intérêt pour son essai sur le style paranoïaque ait lieu à l’époque des sciences cognitives et des politiques paternalistes du « nudging ».
    On a prêté beaucoup moins d’attention aux allusions répétées d’Hofstadter à l’Apocalypse. Le porte-parole paranoïaque, écrit Hofstadter, voit le monde « en termes apocalyptiques ». Il lance des « avertissements apocalyptiques » et « trafique la naissance et la mort de mondes entiers […]. Comme les millénaristes religieux, il exprime l’angoisse de ceux qui vivent les derniers jours et il est parfois disposé à fixer une date pour l’apocalypse ».
    Dans la tradition chrétienne, l’Apocalypse offre la première conception complotiste de l’histoire, dont la trame doit culminer dans une épreuve de force finale. Il s’agit d’une histoire d’imposture et d’usurpation. Dans le rôle principal, on trouve généralement l’Antéchrist, ou une version de celui-ci : un imitateur qui prend la place du Christ, il est le « crisis actor » (acteur de crise) et le « false flag » (faux drapeau) originel. Un usurpateur qui prétend unifier l’humanité dans le Royaume tout en installant en réalité sa tyrannie, il est le premier mondialiste et le stigmate qui pèse sur tous les mondialismes ultérieurs. Des anciens millénarismes aux élucubrations de Pat Robertson sur le « nouvel ordre mondial », il fait figure de modèle dans la plupart des théories du complot.
    QAnon aussi est une variation à peine laïcisée de l’Apocalypse : un récit sur le mal absolu paradant dans le monde sous l’apparence d’une dispensation libérale ; une variation sur la dépravation morale d’un globalisme nécessairement trompeur ; une pression eschatologique liée à l’imminence d’un jugement final, assorti du traditionnel avis de tempête.
    Comme l’a brillamment suggéré le critique littéraire Frank Kermode, l’Apocalypse est un récit qui nous permet de donner un sens à la finitude de notre monde, en projetant une cohérence liant sa fin à ce qui la précède. Sa structure profonde est la récapitulation : la fin reprend les événements passés sous la forme de la concordance, tout se vérifie parce que tout était lié dès le début d’une manière qui se révèle enfin. L’Apocalypse répond à un besoin profond de cohérence lorsqu’il s’agit d’appréhender l’idée de la fin ; il n’est pas étonnant que dès les années 1920 la psychiatrie ait fait la part belle à l’expérience de la fin du monde (« Weltuntergangserlebnis ») dans l’analyse de la paranoïa, ni qu’elle revienne sans cesse sous la plume d’un Hofstadter. Face à une échéance sans cesse reportée et à des réfutations répétées, elle doit être continuellement réinventée : « L’image de la fin », a souligné Kermode, « ne peut jamais être réfutée de façon permanente. »
    Cela devrait donner à réfléchir aux partisans du debunking. Non seulement les théories du complot s’appuient sur des modèles culturels fondamentaux qui ne sont pas faciles à déraciner, mais les religions établies sont elles aussi des « épistémologies boîteuses », pour reprendre l’expression de Sunstein et Vermeule. L’implication n’a pas échappé aux adeptes de QAnon : « Si Jésus revenait sur terre aujourd’hui, pensez-vous que vous le reconnaîtriez en raison de ses miracles ? », écrit l’un d’entre eux, « ou le qualifieriez-vous de théoricien du complot ? »
    Les théories du complot reposent sur la foi en ce que le temps tient en réserve. La « vérité » qu’elles défendent est définie par la révélation de ce qui est à venir, et non par une démonstration logique. Non seulement la démystification est impuissante dans ces cas-là, mais c’est précisément dans la persévérance face à l’adversité et aux preuves du contraire que se révèle la foi. Parce qu’elles s’articulent autour d’un sens apocalyptique du temps, les théories du complot ne sont pas seulement des idées erronées : elles sont, aussi, une manière spécifique d’être au monde.
    Hofstadter était trop occupé à faire passer une prise de position politique pour un diagnostic psychanalytique et à assimiler son tiède libéralisme à l’idée même de rationalité pour s’intéresser davantage aux métaphores apocalyptiques qu’il affectionnait. C’est à l’anthropologue des religions Ernesto De Martino que revient le mérite d’avoir exploré les affinités entre l’esprit paranoïaque et l’apocalypse dans un essai publié la même année que The Paranoid Style dans la revue italienne Nuovi argomenti et intitulé « Apocalypses culturelles et apocalypses psychopathologiques ».
    Rien n’indique qu’Hofstadter et De Martino avaient connaissance de leurs travaux respectifs, mais tous deux affrontaient la crise du progressisme libéral – Hofstadter avec le ton posé d’un porte-parole, en présentant ses mécontents comme un atavisme folklorique, et De Martino en développant une analyse historique et anthropologique plus critique. Ce dernier partait d’un diagnostic culturel pour lequel l’épuisement des idéologies du progrès et le déclin du religieux rendaient l’humanité incapable d’affronter autrement que sur un mode pathologique et paralysant les scénarios apocalyptiques que l’arme nucléaire rendait actuels.
    Pour De Martino, les visions rédemptrices de la fin du monde – ce qu’il appelle les « apocalypses culturelles » – constituent un phénomène universel. Si tout risque de se dissoudre dans le néant, ou est voué, de toute façon, à disparaître, l’élan productif qui soutient la vie collective disparaît. Ce n’est qu’en mettant de côté ce risque que les sociétés humaines ont pu donner une valeur à leur existence mondaine et se projeter dans l’histoire. Lorsque les premiers chrétiens de Thessalonique se sont persuadés de l’imminence des derniers jours et ont sombré dans une stupeur oisive, il a fallu toute la verve apocalyptique d’un Saint Paul pour transformer l’angoisse paralysante en promesse d’un monde meilleur autour duquel une communauté chrétienne pouvait organiser sa vie ici et maintenant.
    Les apocalypses culturelles, cependant, ne sont pas forcément religieuses ni ne signifient nécessairement la fin de l’existence terrestre en tant que telle. Elles peuvent aussi se manifester sous la forme de « l’aspect social et politique de la fin d’un monde historique donné » (De Martino s’est particulièrement intéressé aux mouvements millénaristes déclenchés par la fin de la domination coloniale en Afrique, mais aussi à la fin de la société capitaliste bourgeoise promise par le marxisme) ou d’un événement particulier dans la vie d’un individu ou d’une communauté. À chacun de ces moments critiques, les cérémonies religieuses, les rituels profanes, les idéologies progressistes ou révolutionnaires atténuent l’idée d’un effondrement final et révèlent à nouveau la possibilité d’une existence collective et porteuse de sens. Fondamentalement, les cultures apocalyptiques se résument au proverbial Keep Calm and Carry On du blitz anglais.
    En l’absence de ces médiations culturelles, les peurs apocalyptiques prennent une tournure strictement individuelle et, par conséquent, pathologique : l’effondrement du monde devient une expérience solitaire, privée, voire intime, et le sentiment de perte est détaché de toute communauté culturelle. L’individu se retrouve submergé par un sentiment d’aliénation et de passivité. En s’effondrant, le monde emporte avec lui la possibilité d’une présence au monde. Le familier devient étrange et inquiétant, comme si le monde qui figurait à l’arrière-plan du quotidien cédait soudainement et les relations stables et objectives entre les choses se dénouaient au profit de leurs connexions occultes. Le monde devient « un réseau de menaces diffuses, de forces hostiles, d’obscurs complots ourdis à nos dépens ».
    L’apocalypse psychopathologique, en définitive, est une forme paroxystique et existentielle de l’angoisse du statut dont Hofstadter avait fait le fondement psychologique de l’esprit paranoïaque. À une différence près, qui est de taille : là où Hofstadter croyait avoir circonscrit un problème de psychologie collective, De Martino voyait le résultat d’un échec culturel.
    Dans un livre plus ancien, De Martino s’était intéressé à ceux qui, dans le monde archaïque, conjuraient ces risques apocalyptiques : les chamans. Sa grande intuition était que le monde que nous considérons comme acquis, et qui constitue l’arrière-plan stable de nos vies, n’est pas une donnée mais une conquête historique et culturelle, dont dépend notre sentiment d’autonomie.
    Dans les sociétés primitives, il a fallu arracher ce monde à un environnement peuplé d’esprits invisibles et de forces magiques, auxquels l’individualité, encore balbutiante, risquait à tout moment de succomber. De peur qu’il n’anéantisse l’individu et ne menace la communauté tout entière – comme dans le cas des Thessaloniciens –, ce risque devait être contenu.
    Ne pouvant entièrement l’écarter, les chamans faisaient de ce risque d’effondrement de la présence au monde le point de départ de leurs rituels pour en transformer le sens : au lieu d’y succomber passivement, ils le provoquaient afin de contrôler les forces occultes de leurs cosmogonies. En apprivoisant les esprits invisibles et en les soumettant à leur emprise, ils recouvraient pour toute la communauté « le monde qui [était] sur le point d’être perdu », écartant ainsi le risque psychopathologique et enchâssant de manière pérenne l’expérience apocalyptique dans un tissu culturel collectif. Saint Paul n’était rien d’autre que le chaman du christianisme primitif.
    Les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et transforment les sentiments apocalyptiques en composantes pour la construction de communautés alternatives.
    Will & Power : Inside the Living Library est le roman que Chansley a publié en 2018 sous le pseudonyme de Loan Wold. Il y est question, là aussi, de chamanisme, et d’un monde perdu et retrouvé. Comme pour son essai, il s’agit d’une lecture qui met la bonne volonté du lecteur à l’épreuve. Le personnage principal, qui n’est pas sans rappeler l’auteur de l’ouvrage, part camper après s’être séparé de sa petite amie et avoir perdu son travail dans un magasin de jardinage.
    Au fond des bois, il rencontrer une créature d’une autre planète, semblable à un Sasquash, qui l’initie à une sagesse ancienne appelée « Shama » et lui enseigne à exploiter les pouvoirs du champ magnétique terrestre et à communiquer avec les esprits animaux et végétaux qui peuplent le monde. Bien qu’ils soient accessibles à tous les humains, les pouvoirs du chamanisme ont été gardés secrets et pervertis pour servir les desseins des « Seigneurs Noirs », une race maléfique de colonisateurs extraterrestres qui se dissimulent sous une apparence humaine.
    Il n’est pas nécessaire de s’attarder sur les détails embarrassants de l’intrigue, donnée à lire dans le style d’un SMS et la gamme sentimentale d’une palette d’emojis. La croyance dans le magnétisme animal n’a rien de nouveau et, depuis son origine au XVIIIe siècle sous la plume de Franz Mesmer, elle a été associée à l’idée d’action à distance et, souvent, à des théories du complot.
    Chansley donne toutefois à ces vieux thèmes une tournure contemporaine et technologique : ces flux d’énergie invisibles deviennent le « Life-Net », réseau par lequel les plantes et les créatures échangent « toutes sortes d’informations ». Les événements locaux sont « téléchargés » sur ce réseau et accessibles de partout dès lors que le nouvel initié au chamanisme s’y connecte. Le monde devient ainsi une « bibliothèque vivante » où chaque créature, chaque être est connecté à tout ce qui l’entoure : une dense forêt d’hyperliens dans laquelle on peut « surfer » indéfiniment.
    Le monde apocalyptique du paranoïaque, selon De Martino, se caractérise par un « excès de sens », une surcharge de signification qui fait que rien n’est exactement conforme aux apparences. Les choses sont insaisissables et mystérieuses, leurs liens sont obscurs, et la rencontre avec la réalité sans cesse repoussée. Les deux livres de Chansley traitent d’un monde tellement saturé de sens qu’il craque aux entournures.
    Dans son essai, il est question d’un univers désorientant, dans lequel aucune vie active n’est possible : une sorte de palais des glaces dans lequel on ne peut que courir après des points de fuite et se sentir impuissant, en proie aux forces menaçantes de l’État profond, et dépossédé de sa liberté.
    Dans son récit consacré au chamanisme, la même expérience de ces couches de sens infinies devient libératrice. Ce qui était auparavant un réseau mystérieux et insaisissable de connexions occultes devient une extension illimitée des pouvoirs individuels. L’étrange sentiment que « rien n’est exactement ce qu’il y paraît » se transforme en une prise de conscience stimulante que « tout est lié ». Le monde de la théorie du complot se retourne sur lui-même, comme un gant. En s’abandonnant aux forces invisibles de l’univers pour mieux les dominer, le « Q Shaman » recouvre lui aussi le monde perdu de la liberté humaine.
    Un chaman aux pouvoirs étendus, qui restitue aux autres leur puissance d’agir : la folie des grandeurs est bien sûr un symptôme classique de la paranoïa de persécution. De ce point de vue, le chamanisme de Chansley est risible. Ses pitreries bruyantes et son accoutrement prétentieux sont aussi authentiques sur le plan culturel que les canaux vénitiens à Las Vegas. Ses expériences avec les psychotropes sont des trips privés sans lien aucun avec quelque tradition vivante que ce soit. Et pourtant, ce chamanisme de pacotille traduit quelque chose de fondamental quant aux théories du complot, quelque chose que les considérations psychologiques ou cognitives, pour ne pas parler des dissertations épistémologiques ou des théories de l’information, ne parviennent pas à saisir. Il vise à exorciser l’emprise paralysante des angoisses apocalyptiques et à restaurer la perspective d’un monde commun. Pour le dire autrement : il esquisse ce que De Martino a appelé une apocalypse culturelle.
    Le « Q Shaman » est le reflet de quelque chose qui traverse, voire définit QAnon et tous les mouvements contemporains qui capitalisent sur la pensée conspirationniste : en prenant de l’ampleur, les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et cherchent à transformer les sentiments apocalyptiques en composantes de base pour la construction de communautés alternatives, qu’elles soient culturelles ou politiques.
    Si le chamanisme a disparu ou se retrouve désormais réduit au rang de survivance archaïque, ce n’est pas le cas de l’expérience apocalyptique que les chamans cherchaient à canaliser. Pour De Martino, ce « drame existentiel » est susceptible se manifester dans les sociétés modernes, en particulier dans des situations de « souffrance et de dénuement », comme les guerres ou les famines, qui placent l’individu dans une situation de détresse insoutenable.
    Ces situations dans lesquelles la présence au monde ne va plus de soi ne sont plus marginales : le dérèglement climatique et son cortège d’extinctions, la destruction d’écosystèmes d’ampleur continentale, le déracinement de communautés entières fuyant les ravages de guerres sans fin ou la dégradation irréversible de leur habitat, une pandémie mondiale qui ravage les plus vulnérables, des inégalités sociales et économiques sans précédents qui font que, pour des millions de personnes, la fin du mois fait parfois figure de fin du monde.
    Jamais auparavant notre existence en tant qu’individus et en tant qu’espèce n’a semblé aussi précaire. Jamais notre monde n’a semblé aussi fragile. Notre capacité à nous projeter dans l’avenir s’est considérablement réduite. Même les exploits spatiaux, autrefois considérés comme des pas de géant pour l’humanité, ressemblent aujourd’hui à des exercices d’évacuation pour les cabines de première classe. Les capsules de sauvetage privées qui mettent des milliardaires en orbite n’annoncent aucun progrès : elles confirment seulement qu’il est minuit moins une.
    Pourtant, la vie continue comme si de rien n’était. On cherche en vain les ressources culturelles et politiques qui nous aideraient à percer les brumes apocalyptique du présent pour discerner la lueur d’un nouveau jour qui serait aussi un jour meilleur. Dans cette situation schizophrénique, la dissonance cognitive ne peut que devenir la norme—et ce qui est peut-être étonnant n’est pas tant la diffusion des théories du complot que le fait qu’elles ne soient pas plus répandues encore.
    Dans son analyse de la rumeur d’Orléans, Edgar Morin soulignait que l’un des facteurs permettant à des mythologies dangereuses de s’imposer à une ville entière était la « sous-politisation ». La prolifération des théories du complot reflète la pauvreté d’une culture politique qui n’a rien à offrir à des millions d’individus confrontés à la disparition de leur monde. Parce qu’elles sont une tentative désespérée et indigente de donner du sens à la dimension catastrophique du présent lorsque les ressources culturelles disponibles n’y suffisent plus, les théories du complot sont une excroissance directe de ce vide politique.
    Fin observateur, Morin s’en prenait également à « l’incapacité de l’intelligentsia à aborder ces problèmes ». Rien n’a changé : ce n’est que depuis une position privilégiée où la certitude de leur monde est acquise que les experts d’aujourd’hui peuvent considérer les théories du complot comme des déficiences cognitives à corriger, et rester sourds à la crise existentielle qu’elles expriment.
    Si la propagation des théories du complot nous préoccupe, nous devons nous rendre compte que le debunking est une distraction, un passe-temps pour fact-checkers et chiens de garde de l’information. Nous devons nous pencher sur le manque de vision politique dont se nourrit le complotisme, et dont les commissions gouvernementales censées le combattre ne sont que les cache-misère.
    La politique a fondamentalement à voir avec le temps, et elle échoue lorsqu’elle s’apparente à l’administration des derniers jours. Repousser à plus tard la fin du monde a toujours été la justification conservatrice du maintien de l’ordre et de la préservation du statu quo. Quant à l’accélérationnisme aveugle qui fait aujourd’hui figure d’alternative, il n’est en réalité qu’une stratégie différente au service des mêmes objectifs. La seule et véritable alternative consiste à retrouver une capacité politique, à jeter des ponts par-delà un présent cataclysmique, à reconstruire la vision d’un monde commun et d’un avenir inclusif pour tous ceux qui sont en train de perdre le leur.
    À défaut, les théories du complot continueront de prospérer et d’occuper la place qui était autrefois celle des idéologies. Il est déjà clair que les politiciens tentés de les exploiter jouent à l’apprenti sorcier, pour ne pas dire à l’apprenti chaman. Et comme chacun le sait, leur heure vient quand sonnent les douze coups de minuit.

    Nicolas Guilhot
    Historien, professeur d’histoire intellectuelle à l’Institut universitaire européen de Florence

    Traduit de l’anglais par Hélène Borraz

    #complotisme #théories_du_complot #Qanon #Edgar_Morin #debunking #démystification

    • #rumeur_d'Orléans

      Au lendemain de la rumeur, le sociologue Edgar Morin s’était rendu à Orléans avec plusieurs de ses collègues afin de comprendre l’origine et la diffusion de la théorie du complot. Publié à chaud, La Rumeur d’Orléans est le récit de cette enquête de terrain. A ma connaissance, aucune analyse du phénomène QAnon n’a fait référence à cet ouvrage, pourtant traduit en anglais dès 1971.

      À le relire aujourd’hui, on est frappé par deux choses : la relative stabilité dans le temps des schémas complotistes, et, à l’inverse, la transformation radicale de notre façon de les analyser. Ne pouvant en attribuer la responsabilité à l’information en ligne, Edgar Morin identifia des facteurs sociaux, économiques et culturels plutôt que des mécanismes cognitifs ou des logiques d’information.

      Il tenta de déchiffrer la panique morale à l’origine des rumeurs antisémites en relation avec l’évolution de la structure démographique de la ville, les nouvelles identités de genre, le rôle des femmes sur le marché du travail, les processus de modernisation économique qui perturbaient le tissu social et les codes moraux de la ville, ainsi qu’un lent processus de déclin qui voyait une ancienne capitale médiévale se transformer en grande banlieue parisienne. Pour le dire brièvement, Morin s’est efforcé de comprendre la situation historique dans laquelle un mythe avait resurgi, et non une erreur d’inférence ou une épistémologie boîteuse.

    • « L’être de l’homme, non seulement ne peut être compris sans la folie, mais il ne serait pas l’être de l’homme s’il ne portait en lui la folie comme limite de sa liberté » , Jacques Lacan, journées psychiatriques de Bonneval, 1946.

      Un très grand merci, @sombre pour cet article. De quoi m’inciter à la lecture (trop retardée...) de la thèse de François Tosquelles, Le vécu de la fin du monde dans la folie. Le témoignage de Gérard de Nerval et de La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles, de De Martino (auquel les textes de Wu Ming sur ces choses doivent tant).

      #vide_politique #anthropologie #apocalypses_culturelles #apocalypses_psychopathologiques #peur_apocalyptique #effondrement #psychopathologie #messianisme #millénarisme #Ernesto_De_Martino #QAnon

    • Et bien, disons que c’était mon cadeau pour la nouvelle année. :-))

      Je me plonge dès maintenant dans un long article de chez Cairn.info pour m’instruire sur l’aspect historique du #fact_checking et de ses méthodes d’investigation depuis son apparition aux États-Unis dans les années 1920.

    • bon, j’explicite rapido mon post précédent du coup. ce que je préfère de ce papier, c’est pas tant l’arrimage au raisonnement sociologique (Morin, et l’auteur), bien insuffisant à mes yeux (l’auteur le montre lui aussi lorsqu’il évoque la composition sociale hétérogène des QAnon) que l’analyse des enjeux subjectifs et politiques en tant que tels (le nouage psyche/angoisse/paranoïa et socius)

      La Fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles (extraits)
      https://journals.openedition.org/elh/605

    • En ce sens que l’analyse des théories du complot au crible de la sociologie ne serait que la partie émergée d’un processus qui prend forme dans l’interconnexion entre le « psychopathologique » type paranoïa et le parcours sociopolitique du sujet ?
      Une approche plus anthropologique en somme.

    • oui, ne pas en rester au raisonnement sociologique. histoire, socio, anthropo, rien n’est de trop, et trouver moyen d’explorer les subjectivités, sans psychologie.

      une société qui sépare en individus accroit l’impuissance, voilà une condition bien pathogène. les historiens le savent d’avoir observé, par exemple, la diminution du nombre de suicides lors de la Révolution française.

      autre temps, Nicolas Guilhot :

      Les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et transforment les sentiments apocalyptiques en composantes pour la construction de communautés alternatives.

      et il y a évidemment bien des communautés terribles :)

      comme en écho au " conspirer, c’est respirer ensemble" (avec des ffp2 !) que l’on pouvait entendre sur radio Alice à Bologne en 1977, avant l’arrivée des chars dans la ville (ce fut seule intervention militaire de ce type en europe occidentale), un livre à paraître

      Manifeste conspirationniste, Anonyme
      https://www.leslibraires.fr/livre/20145297-manifeste-conspirationniste-anonyme-seuil

      Le conspirationnisme procède de l’anxiété de l’individu impuissant confronté à l’appareil gigantesque de la société technologique et un cours historique inintelligible. Il ne sert donc à rien de balayer le conspirationnisme comme faux, grotesque ou blâmable ; il faut s’adresser à l’anxiété d’où il sourd en produisant de l’intelligibilité historique et indiquer la voie d’une sortie de l’impuissance.

      On peut bien s’épuiser à tenter d’expliquer aux « pauvres en esprit » pourquoi ils se trompent, pourquoi les choses sont compliquées, pourquoi il est immoral de penser ceci ou cela, bref : à les évangéliser encore et toujours. Les médias peuvent bien éructer d’anathèmes. C’est le plus généralement sans effet, et parfois contre-productif.

      La vérité est qu’il y a dans le conspirationnisme une recherche éperdue de vérité, un refus de continuer à vivre en esclave travaillant et consommant aveuglément, un désir de trouver un plan commun en sécession avec l’ordre existant, un sentiment inné des machinations à l’œuvre, une sensibilité au sort que cette société réserve à l’enfance, au caractère proprement diabolique du pouvoir et de l’accumulation de richesse, mais surtout un réveil politique qu’il serait suicidaire de laisser à l’extrême-droite.

  • Colonialisme italien et fascisme:

    « Spesso si crede, erroneamente, che il colonialismo sia stato solo opera del Fascismo, quando invece ha caratterizzato da subito la politica del Regno d’Italia. Il suo primo atto, quasi a ridosso dell’#Unità_d’Italia, è stato l’acquisto, nel 1869, della #Baia_di_Assab da parte della società #Rubattino »


    in: #Igiaba_Scego (nota storica), #Adua, Giunti, 2015, p.176.
    #colonialisme #fascisme #Italie #colonialisme_italien #Italie_coloniale

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    Contextualisation:
    1882 - Il Regno d’Italia acquista, dalla società Rubattino, la baia di Assab.

    Il 10 marzo 1882 avvenne, a Roma, la firma della convenzione su #Assab tra il Regno d’Italia e la società genovese di navigazione #Rubattino. L’atto impegnava lo Stato ad acquistare, per un’ammontare di 416.000 lire, la baia di Assab in Eritrea detenuta dall’armatore ligure fin dal 10 marzo 1870. Questo era l’atto finale di una lunga e contrastata vicenda che aveva portato l’Italia possedere un primo piccolo possedimento coloniale in Africa.
    La vicenda ebbe inizio nel lontano 1869 allorquando su sollecitazioni di Giuseppe Sapeto, un ex missionario lazzarista conoscitore dell’Africa fin dal 1838, il presidente del Consiglio Menabrea appoggiò una missione dello stesso Sapeto volta ad individuare, ed eventualmente acquistare un un emporio tecnico-commerciale sulle sponde del mar Rosso utile come scalo per le rotte commerciali tra l’Europa ed le Indie resesi disponibili con l’apertura del canale di Suez (avvenuta il 17 novembre 1869).
    In questa occasione Giuseppe Sapeto e il suo accompagnatore, il contrammiraglio Gugliemo Acton, acquistarono da due sultani locali e per conto della società di navigazione genovese Rubattino, il porto e la baia di Assab sulla costa africana del mar Rosso (convenzione del 15 novembre 1869). Si scelse questa soluzione di compromesso per non far figurare l’intervento diretto dello Stato italiano ed evitare, così, eventuali contraccolpi diplomatici sullo scacchiere orientale visto che l’area interessava sia all’Egitto che all’Inghilterra. Successivamente, il 10 marzo 1870, la transazione commerciale fu definitivamente perfezionata e questo passo assicurò all’Italia un primo embrionale possedimento coloniale.
    La baia di Assab fu, tuttavia, quasi dimenticata fino al 1882, anno in cui, in seguito allo scacco subito da parte della Francia (vedi) con l’annessione della Tunisia (che era nelle mire dell’Italia), lo Stato italiano decise, come reazione, di rilevare il piccolo possedimento eritreo.

    http://www.terzaclasse.it/cronologia/assab.htm

    #Erythrée

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953