• Alla ricerca del cobalto sulle Alpi

    È un elemento importante per la realizzazione delle batterie delle auto elettriche. Il cobalto viene estratto però soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, una realtà travolta dalla corruzione e instabile dal punto di vista militare e politico. Per “aggirare” la possibile penuria della fornitura di un componente essenziale dello sviluppo di una economia realizzata con fonti rinnovabili, le nazioni post-industriali e industrializzate cercano il Cobalto altrove, in territori guidati da governi più stabili e dove è più solida la certezza del diritto.

    Vecchie miniere di cobalto dismesse perché poco remunerative tornano improvvisamente interessanti. Una di queste è situata tra Torino e il confine con la Francia, ancora in territorio piemontese.

    Tra la necessità di tutelare l’ambiente e l’opportunità economica offerta, istituzioni e popolazione si interrogano sul presente e il futuro del territorio interessato dal possibile nuovo sviluppo minerario.

    https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/Alla-ricerca-del-cobalto-sulle-Alpi-16169557.html?f=podcast-shows

    #extractivisme #Alpes #cobalt #Piémont #Italie #terres_rares #Balme #Altamin #Barmes #Punta_Corna #Valli_di_Lanzo #mines #exploitation #peur #résistance #Berceto #Sestri_Levante #lithium #souveraineté_extractive #green-washing #green_mining #extraction_verte #transition_énergétique #NIMBY #Usseglio #Ussel

    Le chercheur #Alberto_Valz_Gris (https://www.polito.it/en/staff?p=alberto.valzgris) parle de la stratégie de l’Union européenne pour les #matières_premières_critiques :
    #Matières_premières_critiques : garantir des #chaînes_d'approvisionnement sûres et durables pour l’avenir écologique et numérique de l’UE
    https://seenthis.net/messages/1013265

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

    • Caccia al cobalto sulle Alpi piemontesi

      Viaggio in provincia di Torino dove una multinazionale ha nel mirino la creazione di una miniera destinata ad alimentare le nuove batterie per i veicoli elettrici.

      Il boom delle auto elettriche trascina la ricerca mineraria in Europa. Noi siamo stati in Piemonte dove una società australiana spera di aprire una miniera di cobalto, uno dei metalli indispensabili per produrre le più moderne batterie. Il progetto è ancora in una fase preliminare. Non si vede nulla di concreto, per ora. Ma se siamo qui è perché quanto sta accadendo in questa terra alpina apre tutta una serie d’interrogativi su quella che – non senza contraddizioni – è stata definita “transizione ecologica”.

      Balme, alta #Val_d’Ala, Piemonte. Attorno a noi i boschi sono colorati dall’autunno mentre, più in alto, le tonalità del grigio tratteggiano le cime che si estendono fino in Francia. Un luogo magico, non toccato dal turismo di massa, ma apprezzato dagli appassionati di montagna. Tutto potrebbe però cambiare. Nelle viscere di queste rocce si nasconde un tesoro che potrebbe scombussolare questa bellezza: il cobalto. La società australiana Altamin vuole procedere a delle esplorazioni minerarie sui due versanti della Punta Corna. Obiettivo: sondare il sottosuolo in vista di aprire una miniera da cui estrarre questa materia prima sempre più strategica. Il cobalto è infatti un minerale indispensabile per la fabbricazione delle batterie destinate alle auto elettriche o ad immagazzinare l’energia prodotta da fonti rinnovabili. Tecnologie dette verdi, ma che hanno un lato grigio: l’estrazione mineraria.

      Oggi, circa il 70% del cobalto mondiale proviene dalla Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la corsa a questo metallo, guidata dalla Cina, alimenta la corruzione e genera grossi problemi sociali e ambientali. Di recente, un po’ in tutta Europa, si sta sempre più sondando il terreno in cerca di nuovi filoni che potrebbero ridurre la dipendenza dall’estero di questo ed altri minerali classificati dall’Ue come “critici”. Ecco quindi che queste valli piemontesi sono diventate terreno di caccia di imprese che hanno fiutato il nuovo business. Siamo così partiti anche noi in questa regione. Alla ricerca del cobalto e all’ascolto delle voci da un territorio che – suo malgrado – si trova oggi al centro della nuova corsa mondiale all’accaparramento delle risorse.

      Balme dice no

      «Siamo totalmente contrari. In primis perché non siamo stati coinvolti in nessun tipo di dialogo. Siamo poi convinti che l’estrazione di minerali non sia l’attività adatta per lo sviluppo del nostro territorio». #Gianni_Castagneri è il sindaco di Balme, 110 abitanti, uno dei comuni su cui pende una domanda di ricerca da parte di Altamin. Il primo cittadino ci accoglie nella piccola casa comunale adiacente alla chiesa. È un appassionato di cultura e storia locale e autore di diversi libri. Con dovizia di particolari, ci spiega che anticamente queste erano terre di miniera: «Un po’ tutti i paesi della zona sono sorti grazie allo sfruttamento del ferro. Già nel Settecento, però, veniva estratto del cobalto, il cui pigmento blu era utilizzato per la colorazione di tessuti e ceramiche».

      Dopo quasi un secolo in cui l’attività mineraria è stata abbandonata, qualche anno fa è sbarcata Altamin che ha chiesto e ottenuto i permessi di esplorazione. Secondo le stime della società i giacimenti a ridosso della Punta Corna sarebbero comparabili a quello di Bou Azzer, in Marocco, uno dei più ricchi al mondo di cobalto. «Andando in porto l’intero progetto di Punta Corna si avrà una miniera europea senza precedenti» ha dichiarato un dirigente della società. Affermazione che, qui a Balme, ha suscitato molta preoccupazione.

      Siamo in un piccolo comune alpino, la cui unica attività industriale è l’imbottigliamento d’acqua minerale e un birrificio. Al nostro incontro si aggiungono anche i consiglieri comunali Guido Rocci e Tessiore Umbro. Entrambi sono uomini di montagna, attivi nel turismo. Entrambi sono preoccupati: «Siamo colti alla sprovvista, cerchiamo “cobalto” su Internet ed escono solo cose negative, ma abbiamo come l’impressione che la nostra voce non conti proprio nulla».

      Sul tavolo compare una delibera con cui il Comune ha dichiarato la propria contrarietà «a qualsiasi pratica di ricerca e coltivazione mineraria». Le amministrazioni degli ultimi anni hanno orientato lo sviluppo della valle soprattutto verso un turismo sostenibile, vietando ad esempio le attività di eliski: «Noi pensiamo ad un turismo lento – conclude il sindaco – la montagna che proponiamo è aspra, poco adatta allo sfruttamento sciistico in senso moderno. Questa nostra visione ha contribuito in positivo all’economia del villaggio e alla sua preservazione. Ci sembra anacronistico tornare al Medioevo con lo sfruttamento minerario delle nostre montagne».

      Australiani alla conquista

      «Lo sviluppo della mobilità elettrica ha spinto le richieste di permessi di ricerca in Piemonte» ci spiega al telefono un funzionario del settore Polizia mineraria, Cave e Miniere della regione Piemonte. Si tratta dell’ente che, a livello regionale, rilascia le prime autorizzazioni. L’uomo, che preferisce non essere citato, ci dice che per il momento è troppo presto per «creare allarmismi o entusiasmi», ma conferma che, in Piemonte, sono state richieste altre autorizzazioni: «Oltre a Punta Corna, si fanno ricerche in Valsesia e verso la Val d’Ossola» conclude il funzionario. Proprio in Valsesia un’altra società australiana, del gruppo Alligator Energy, ha comunicato di recente di avere iniziato i lavori per un nuovo sondaggio. La zona è definita dall’azienda «ad alto potenziale».

      L’argomento principale delle società minerarie è uno: la necessità di creare una catena di valore delle batterie in Europa: «Punta Corna è centrale per la strategia di Altamin […] e beneficerà della spinta dell’Ue per garantire fonti pulite e locali di metalli nonché degli investimenti industriali europei negli impianti di produzione di veicoli elettrici e batterie» si legge in un recente documento destinato agli azionisti. Altamin ricorda come, in prospettiva, l’operazione genererebbe una sinergia produttiva col progetto Italvolt dell’imprenditore svedese Lars Calstrom. L’uomo vuole costruire una nuova grande fabbrica di batterie ad alta capacità presso gli ex stabilimenti Olivetti nella vicina Ivrea.

      Altamin, così come altre società attive nel ramo, non è un gigante minerario. Si tratta di una giovane società capitalizzata alla borsa di Sidney che ha puntato sull’Italia per tentare il colpaccio. Ossia trovare un filone minerario potenzialmente sfruttabile e redditizio, considerato anche l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto dei metalli da batteria. Oltre al progetto piemontese, l’azienda è attiva in altre zone d’Italia: in Lombardia ha un progetto di estrazione di zinco, mentre ha presentato domande anche in Liguria, Emilia-Romagna e Lazio. Qui, nell’antica caldera vulcanica del Lago di Bracciano, Altamin e un’altra società australiana, #Vulcan_Energy_Resources, hanno ottenuto delle licenze per cercare del litio, un altro metallo strategico. «L’idea che si sta portando avanti è quella di rivedere vecchi siti minerari anche alla luce delle nuove tecnologie e della risalita del prezzo dei metalli» spiegano da Altamin. Il tutto in uno scenario internazionale, in particolar modo europeo, in cui si cerca di ridurre la dipendenza delle importazioni dall’estero. Questo a loro dire avrebbe molti vantaggi: «Estrarre cobalto qui ridurrebbe al minimo i problemi etici e logistici che si riscontrano attualmente con la maggior parte delle forniture provenienti dalla Rdc». Ma non tutti la pensano così.

      Lo sguardo del geografo

      A Torino, il Politecnico ha sede presso il Castello del Valentino, antica residenza sabauda situata sulla riva del Po. Qui incontriamo il geografo e assegnista di ricerca Alberto Valz Gris che di recente ha messo in luce diverse ombre del progetto Punta Corna e, in generale, dell’impatto della corsa ai minerali critici sulle comunità locali. Per la sua tesi di dottorato, Valz Gris ha studiato le conseguenze socio-ambientali causate dall’estrazione del litio nella regione di Atacama tra Argentina e Cile. Rientrato dal Sudamerica, lo studioso è venuto a conoscenza del progetto minerario a Punta Corna, a due passi da casa, nel “giardino dei torinesi”. Il ricercatore ha così deciso di mettere in evidenza alcune contraddizioni di questa tanto decantata transizione ecologica: «Il cobalto o il litio sono associati a una retorica di sostenibilità in quanto indispensabili alle batterie. In realtà, per come è stata organizzata, questa transizione ecologica, continua a implicare un’estrazione massiva di risorse naturali non rinnovabili e, quindi, il moltiplicarsi di siti estrattivi altamente inquinanti. Ciò non mi sembra molto ecologico».

      In questo senso il ritorno dell’estrazione mineraria su grande scala in Europa non è proprio una buona notizia: «L’estrattivismo non ha mai portato sviluppo e la materialità di questa dinamica investirà in particolare le aree di montagna. Per cui ho forti dubbi sulle promesse su cui si fondano tutti i progetti come quello di Punta Corna, e cioè che accettare il danno ecologico e paesaggistico portato dall’estrazione mineraria si traduca in sviluppo sociale ed economico per chi abita quei territori». Per Alberto Valz Gris, però, opporsi alle miniere europee non significa giustificare l’appropriazione di risorse in altri posti del mondo: «Dobbiamo immaginare alternative tecniche ed economiche che siano realmente al servizio dell’emergenza climatica, per esempio investendo nel riciclo delle risorse già in circolo nel sistema industriale in modo da ridurre al minimo la pressione antropica sugli ecosistemi». Il problema ruota attorno al fatto che «estrarre nuove materie prime dalle viscere della Terra è ad oggi molto meno costoso che non impegnarsi effettivamente nel riciclare quelle già in circolo»; questo vantaggio economico che «impedisce lo sviluppo di una vera economia circolare» è falsato poiché «non vengono mai calcolati i costi sociali e ambientali legati all’estrazione delle materie prime».

      Gli “sherpa” di Altamin

      Usseglio, alta Valle di Viù, Piemonte. Siamo di nuovo in quota, questa volta sul versante Sud della Punta Corna. Anche qui il territorio vive perlopiù di turismo e può contare su una centrale idroelettrica che capta l’acqua dal bacino artificiale più alto d’Europa. Su queste montagne, oltre i 2.500 metri, Altamin ha ottenuto di recente la possibilità di estendere i carotaggi in profondità. I lavori dovrebbero iniziare la primavera prossima. Ciò che non sembra preoccupare il sindaco Pier Mario Grosso: «Pare che ci sia una vena molto interessante, ma per capire se si potrà sfruttarla occorrono altri sondaggi».

      Il primo cittadino ci accoglie nel suo ufficio e ci mostra una cartina appesa alle pareti su cui si legge “miniere di cobalto”: «Erano le vecchie miniere poi abbandonate e su cui ora Altamin vuole fare delle ricerche perché il cobalto è il metallo del futuro». A Usseglio, l’approccio del comune è diverso rispetto a Balme. #Pier_Mario_Grosso è un imprenditore che vende tende e verande in piano. Per lui il progetto di Altamin potrebbe creare sviluppo in valle: «Questa attività porterà senz’altro benefici alla popolazione e aiuterà a combattere lo spopolamento. Sono quindi tendenzialmente favorevole al progetto, a patto che crei posti di lavoro e non sia dannoso per l’ambiente».

      Salutiamo il sindaco e saliamo fino alla frazione di #Margone dove abbiamo appuntamento per visitare un piccolo museo dei minerali. Qui incontriamo #Domenico_Bertino e #Claudio_Balagna, due appassionati mineralogisti che gestiscono questa bella realtà museale. Nelle bacheche scopriamo alcune perle delle #Alpi_Graie, come gli epidoti e la #Lavoisierite, un minerale unico al mondo scovato nella zona. Appese ai muri ci sono delle splendide mappe minerarie dell’800 trovate negli archivi di Stato di Torino. E poi c’è lui, il cobalto. Finalmente lo abbiamo trovato: «È in questa pietra che si chiama #Skutterudite e il cobalto sono questi triangolini di colore metallico, anche se in molti pensano che sia blu» ci spiegano i due ricercatori. Eccolo qui, il minerale strategico tanto agognato che oggi vale circa 52.000 dollari la tonnellata.

      Possiamo osservarlo nei minimi dettagli su un grande schermo collegato ad uno stereoscopio. Sul muro a lato un cartello sovrasta la nuova strumentazione: «Donazione da parte di Altamin». Tra il museo e la società vi è infatti un legame. Più volte, Domenico e Claudio hanno accompagnato in quota i geologi di Altamin a cercare gli ingressi delle vecchie miniere. Sherpa locali di una società che altrimenti non saprebbe muoversi tra gli alti valloni di queste montagne poco frequentate. Non c’è timore nell’ammetterlo e i due, uomini di roccia e legati nell’intimo a questo territorio, non sembrano allarmati: «Noi siamo una sorta di guardiani. Abbiamo ricevuto delle rassicurazioni e l’estrazione, se mai ci sarà, avverrà in galleria e sarà sottoposta a dei controlli. In passato abbiamo avuto le dighe che hanno portato lavoro, ma ora qui non c’è più nessuno e la miniera potrebbe essere una speranza di riportare vita in valle».

      Usseglio fuori stagione è affascinante, ma desolatamente vuota. Le poche persone che abbiamo incontrato in giro erano a un funerale. Il terzo nelle ultime settimane, il che ha fatto scendere il numero di abitanti sotto i duecento. Ma siamo sicuri che una miniera risolverà tutti i problemi di questa realtà montana? E se l’estrattivismo industriale farà planare anche qui la “maledizione delle risorse”? Torniamo a casa pieni di interrogativi a cui non riusciamo ancora a dare risposta. Nel 2023, dopo lo scioglimento delle nevi (sempre se nevicherà) Altamin inizierà i carotaggi in quota. Scopriremo allora se l’operazione Punta Corna avrà un seguito o se franerà nell’oblio. La certezza è che in Piemonte, come del resto in Europa e nel mondo, la caccia grossa a questi nuovi metalli critici continuerà.

      https://www.areaonline.ch/Caccia-al-cobalto-sulle-Alpi-piemontesi-2654a100

  • Mini-#histoire d’une minuscule île au milieu du Pacifique : Nauru

    L’île de #Nauru a exploité jusqu’à l’épuisement le #guano - excréments d’oiseaux séchés -, disponible en grande quantité sur l’île et ressource stratégique, car utilisée comme fertilisant pendant une bonne partie du 20ème siècle.

    Le guano a permis à l’île de Nauru de devenir richissime... mais une fois cette ressource épuisée... les caisses étaient vides. Alors voilà la « solution », le deal de l’Australie (la fameuse « #Pacific_Solution ») : contre une belle somme d’argent, Nauru a décidé de prendre de « accueillir » des demandeurs d’asile intercepté·es au large de l’Australie. Le « modèle australien » (qui aujourd’hui fait des émules notamment au Royaume-Uni) est né.

    Mais l’argent n’étant probablement pas suffisante par rapport aux gains financiers avec les réfugiés, voilà que Nauru a une autre magnifique idée : exploiter ses #fonds_marins à la recherche de terres rares...

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    Comment Nauru, État confetti du Pacifique, peut faire basculer le monde vers l’exploitation des fonds marins

    Les grands fonds marins seront-ils exploités bientôt par des compagnies minières ? Un tout petit État du Pacifique pousse pour... et cela risque de changer le visage de nos océans.

    Nauru, c’est un État minuscule, un confetti dans le Pacifique : une vingtaine de kilomètres carrés seulement, moins de 10 000 habitants. Cette île, situé à près de 5 000 kilomètres des côtes australiennes, s’y connaît bien en exploitation minière. En 1906, un gisement de phosphate, gigantesque, est découvert. Ce sont les colons allemands puis australiens qui lancent les chantiers. En 1968, Nauru accède à l’indépendance et devient, grâce au phosphate exporté à l’étranger, immensément riche.

    n 1974, son PIB dépasse même celui des États-Unis. Mais à force de creuser, forcément, la ressource s’épuise. Et aujourd’hui, Nauru lorgne sur l’Océan. Le micro-État a passé un accord avec un géant canadien, The Metals Compagny, pour aller fouiller sous l’eau.
    Les grands fonds marins classés « patrimoine commun de l’humanité »

    Pour exploiter les fonds marins, à plusieurs centaines de mètres, voire plusieurs kilomètres de fonds, Nauru a besoin d’une autorisation. Aujourd’hui, les grands fonds marins sont classés « patrimoine commun de l’humanité ». L’exploration y est déjà possible, mais pas l’exploitation. C’est l’Autorité Internationale des Fonds Marins qui est chargée de les protéger, mais aussi, et c’est paradoxal, de mettre en place un code minier : des règles avant d’aller chercher peut-être à l’avenir du nickel, du cobalt ou du cuivre.

    Des discussions sont en cours depuis dix ans. Mais en 2021, Nauru est venu bousculer cette autorité, en lui donnant deux ans pour boucler le dossier. C’est technique, mais c’est possible. Et on y est : depuis dimanche 9 juillet, il est possible de lancer une demande d’exploitation. Nous sommes dans une « période de flou juridique » avec un risque de « désastre écologique » alertent plusieurs ONG.
    Nauru, en quête désespérée de survie économique

    Si Nauru s’est transformée en fer de lance de l’exploitation des océans, c’est pour l’argent.
    Parce qu’après une phase de grande richesse, Nauru s’est effondré dans les années 1990. Comment se relever quand sa terre a été dévastée à près de 80% ? Quand l’agriculture est donc limitée ? Et le tourisme aussi ? En 2011, le taux de chômage atteint les 90%. Le pays a alors lancé plusieurs pistes, pas toujours légales d’ailleurs. Parmi elles, la vente de passeports ou le blanchiment d’argent sale.
    Depuis 2012, aussi, Nauru se fait payer pour placer dans des camps sordides sur son sol, les migrants clandestins que l’Australie ne veut pas accueillir. Des camps décrits par Médecins sans frontières « comme des lieux de désespoir infini », avec des suicides d’enfants qui, parfois, s’aspergent d’essence pour en finir.

    Le dernier réfugié est parti il y a quelques jours. Et l’île, dans une course effrénée à la survie, se tourne vers l’Océan. Rien n’est joué encore. L’Autorité internationale des fonds marins se réunit à partir du lundi 10 juillet, en Jamaïque pour plusieurs semaines de négociations. Et une petite vingtaine de pays, dont la France, réclament un moratoire, « une pause de précaution ».

    https://www.francetvinfo.fr/replay-radio/le-monde-est-a-nous/comment-nauru-etat-confetti-du-pacifique-peut-faire-basculer-le-monde-v

    #exploitation #extractivisme #migrations #réfugiés #asile #deep_sea_mining

  • Giftcocktail für Bauarbeiter
    https://jungle.world/artikel/2023/31/giftcocktail-fuer-bauarbeiter

    Le patronat de l’industrie du bàtiment allemande s’est défait du salaire minimum du secteur. Un règlement d’exception pour les travailleurs des pays du Balkan hors EU autorise leur embauche directe. Leur droit de séjour est invalidé dès qu’ils terminent leur contrat avec leur employeur. Les entreprises du secteur peuvent alors maintenir de trè bas salaires au lieu de former des jeunes qu’il faudrait payer plus cher.

    Ausgabe 2023/31 von Stefan Dietl - »Das Baugewerbe atmet auf«, kommentierte die Nachrichten-Website Handwerk.com, die sich an »Chefinnen und Chefs im Handwerk« richtet. Ende Juni hatte die Bundesregierung die sogenannte Westbalkan-Regelung entfristet und ausgeweitet. Damit sicherte sie vielen Unternehmen, die wegen schlechter Lohn- und Arbeitsbedingungen nicht genug Personal auf dem deutschen ­Arbeitsmarkt finden, die Zufuhr billiger Arbeitskraft.

    Die Westbalkan-Regelung war 2016 eingeführt worden. In den Jahren davor hatte die damalige schwarz-rote Regierungskoalition die Länder des Westbalkan zu sicheren Herkunftsländern erklärt. Dadurch wurden Abschiebungen erleichtert und Menschen von dort hatten kaum noch Chancen auf Asyl. Im Gegenzug sollte die Westbalkan-Regelung Arbeitskräften, die in Deutschland gebraucht wurden, den Zuzug erleichtern.

    Menschen aus Albanien, Bosnien und Herzegowina, Kosovo, Montenegro, Nordmazedonien und Serbien erhielten dadurch erleichterten Zugang zum deutschen Arbeitsmarkt – und zwar »für jede Art von Beschäftigung, unabhängig von einer anerkannten Qualifikation«, wie auf der Website der Deutschen Botschaft im Kosovo nachzulesen ist. Der Antrag dafür kann nur in den Herkunftsländern gestellt werden, Voraussetzung ist ein verbindliches Arbeitsplatzangebot in Deutschland.

    Pro Jahr gab es diese Möglichkeit für maximal 25.000 Menschen, außerdem wurde die Regelung bis 2020 befristet und dann auf Drängen von Arbeitgeberverbänden zunächst bis 2023 verlängert. Schließlich beschloss die Bundesregierung, die Verordnung zu entfristen, und erhöhte zugleich die Zahl der Menschen, die jährlich zum Arbeiten nach Deutschland kommen können, auf 50.000. Der Bundesrat stimmte dem Ende Juni zu.

    Die Westbalkan-Regelung ist für Unternehmen besonders attraktiv, weil die Arbeitsmigranten voll und ganz an ihren Arbeitgeber gebunden sind. Ein Arbeitsplatzwechsel ist ausgeschlossen und würde zum Verlust der befristeten Aufenthaltserlaubnis führen. Hinzu kommen oft weitere persönliche Abhängigkeiten, da die Arbeitsplätze nicht durch staatliche Stellen der Herkunftsländer, sondern meist informell vergeben werden. Nicht selten fließt ein Teil des kargen Lohns in die Taschen von Mittelsmännern.

    Vergangenes Jahr verwarfen die Arbeitgeberverbände der Bauwirtschaft den seit über 25 Jahren bestehenden Branchenmindestlohn.

    Von der Westbalkan-Regelung profitiert insbesondere das Baugewerbe. 44 Prozent der derart angeworbenen Arbeiter:innen schuften in Deutschland auf Baustellen – zu dem Ergebnis kam eine Untersuchung des Instituts für Arbeitsmarkt- und Berufsforschung der Bundesagentur für Arbeit über die Jahre 2016 und 2017. Der über Jahre andauernde Boom der Branche, der deutschen Baukonzernen große Profite bescherte, basierte auf der massenhaften Ausbeutung migrantischer Arbeitskräfte in prekären Beschäftigungsverhältnissen. Lohndumping, Arbeitszeitbetrug und die Umgehung gesetzlicher Normen gehören im Bausektor zum Alltag insbesondere ausländischer Arbeitskräfte.

    Viele Bauarbeiter:innen, die über die Westbalkan-Regelung nach Deutschland kommen, haben zwar wenig formelle Qualifikationen, bringen jedoch umfassende berufspraktische Erfahrungen mit. Über die Hälfte von ihnen ist daher als Fachkraft tätig – bezahlt werden sie jedoch meist nur auf Helfer:innenniveau. Wie im März aus der Antwort der Bundesregierung auf eine Anfrage der stellvertretenden Vorsitzenden der Bundestagsfraktion der Linkspartei, Susanne Ferschl, hervorging, verdienten 2021 45 Prozent der betroffenen Vollzeitbeschäftigten weniger als 2 500 Euro brutto im Monat, 15 Prozent gar weniger als 2.000 Euro.

    Dass es den Bauunternehmen in den vergangenen Jahren gelang, die Lohnkosten in der Branche trotz des eklatanten Arbeitskräftemangels niedrig zu halten, haben sie also nicht zuletzt der Westbalkan-Regelung zu verdanken. »Die Westbalkanregelung in ihrer derzeitigen Form ermöglicht die syste­matische Ausbeutung ausländischer Arbeitskräfte, in Branchen, in denen aufgrund schlechter Arbeitsbedingungen und niedriger Löhne fast niemand mehr arbeiten möchte«, sagte Ferschl der Tageszeitung ND.

    Vergangenes Jahr verwarfen die Arbeitgeberverbände der Bauwirtschaft sogar den seit über 25 Jahren bestehenden Branchenmindestlohn; nun gilt bis auf weiteres der niedrigere gesetzliche Mindestlohn. Belohnt werden sie dafür nun von der Bundesregierung mit der Ausweitung der Westbalkan-Regelung – trotz der deutlichen Kritik der Gewerkschaften. »Der erhebliche Fachkräftebedarf der Branche soll also auf dem Rücken eingewanderter Beschäftigter zu Niedriglöhnen behoben werden, statt die gerade im Baugewerbe dringend benötigten Fachkräfte angemessen zu bezahlen«, hieß es Anfang des Jahres in einer Stellungnahme des DGB. Dass Unternehmen, welche die Westbalkan-Regelung in Anspruch nehmen, keine Tarifbindung vorweisen müssen, »öffnet dem Lohndumping Tür und Tor«, kritisierte der Bundesvorsitzende der für das Baugewerbe zuständigen Gewerkschaft IG BAU, Robert Feiger. In Kombination mit einem fehlenden Branchenmindestlohn werde daraus ein »richtiger Giftcocktail«, so Feiger.

    Die Bundesregierung sieht darin offenbar kein Problem. Im Gegenteil: Manche in der FDP und der SPD möchten die Verordnung in Zukunft auch auf andere Länder anwenden. Die SPD-Bundestagsabgeordneten Hakan Demir und Rasha Nasr hatten zum Beispiel im April eine Ausweitung der Westbalkan-Regelung auf Tunesien, Georgien und die Republik Moldau vorgeschlagen.

    Wie auch die kürzlich verabschiedete Reform des Fachkräfteeinwanderungsgesetzes zeigte, will die Bundesregierung den vielfach beklagten Personalmangel vor allem mit Hilfe schlecht bezahlter auslän­discher Arbeitskräfte lösen, anstatt Arbeitsbedingungen zu verbessern.

    #travail #Alkamagne #Balkan #immigration #exploitation

  • Benxihu Colliery (17.12.2002)
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Benxihu_Colliery?oldid=466248037

    à propos de https://seenthis.net/messages/1012154
    Version avec mention des crimes japonais

    Benxihu (Honkeiko) Colliery (simplified Chinese: 本溪湖煤矿; traditional Chinese: 本溪湖煤礦), located in Benxi, Liaoning, China, was first mined in 1905. It started as a iron and coal mining project under joint Japanese and Chinese control. As time passed, the project came more and more under Japanese control. In the early 1930s, Japan invaded the north east of China and Liaoning province became part of the Japanese controlled puppet state of Manchukuo. The Japanese forced the Chinese to work the colliery under very poor conditions. Food was scarce and workers didn’t have sufficient clothing.[1] Working conditions were harsh and diseases such as typhoid and cholera flourished.[2] Typically miners worked 12 hour shifts or longer. The Japanese controllers were known to beat workers with pick handles and the perimeter of the mine was fenced and guarded. Many describe the work as slave labour.
    Coal dust explosion

    On April 26, 1942, a gas and coal-dust explosion in the mine killed 1,549, 34% of the miners working that day, making it the worst disaster in the history of coal mining.

    The explosion sent flames bursting out of the mine shaft entrance. Miners’ relatives rushed to the site but were denied entry by a cordon of Japanese guards who erected electric fences to keep them out. In an attempt to curtail the fire underground, the Japanese shut off the ventilation and sealed the pit head. Witnesses say that the Japanese did not evacuate the pit fully before sealing it; trapping many Chinese workers underground to suffocate in the smoke.[2] Thus the actions of the Japanese are blamed for needlessly increasing the death toll. It took workers ten days to remove all the corpses and rubble from the shaft. The dead were buried in a mass grave nearby. Many victims could not be properly identified due to the extent of the burns. The Japanese at first reported the death toll to be just 34.[1] Initial newspaper reports were short, as little as 40 words, and downplayed the size of the disaster as a minor event. Later the Japanese erected a monument to the dead. This stone gave the number of dead to be 1327.[3] The true number is believed to be 1,549.[4] Of this number, 31 were Japanese, the rest Chinese.[2] The mine continued to be operated by the Japanese until the end of World War II in 1945. Following the Japanese withdrawal, the workers took control of the site. With the liberation after the war, the Soviet Union investigated the accident. They found that only some of the workers died from the gas and coal-dust explosion. The Soviet report states that most deaths were of Carbon Monoxide poisoning due to the closing of ventilation after the initial explosion.[2]
    See also

    Coal power in China

    References

    1. De (尚), Shangbao (宝德). “About 1942, the Lake mine gas explosion oral information (关于1942年本溪湖煤矿瓦斯大爆炸口述资料)” (in Chinese). Retrieved 7 August 2010.
    2. “Chinazhaoge Blog” (in Chinese). sohu.com. Retrieved 7 August 2010.
    3. “The Lake coal mine explosion (本溪湖煤矿爆炸)” (in Chinese). Baidu Baike. Retrieved 7 August 2010.
    4. Yang (杨), Wenjie (雯洁). “Hidden behind the world’s largest coal mine accident lies (Figure) - 世界最大煤矿事故背后藏谎言(图)” (in Chinese). Sina News. Retrieved 7 August 2010.

    #Chine #Japon #Mandchoukouo #occupation #crime_de_guerre #génocide #mine #charbon #exploitation_minière #mineurs

  • Viaggio nelle serre della Fascia trasformata, dove anche i minori sono costretti a lavorare

    Nelle serre del ragusano più di 28mila lavoratori vivono in gravi condizioni di sfruttamento. Tra questi anche i figli dei braccianti, spesso costretti a lavorare già a 10 anni. A Marina di Acate, però, alcune realtà tentano di dare loro la possibilità di costruirsi un futuro diverso. Il nostro reportage.

    Ai bordi della strada provinciale 31 che collega Scoglitti (Ragusa) a Gela (Caltanissetta), il paesaggio si ripete immutato per chilometri: una lunga distesa di serre con bianchi teloni di plastica che ne nascondono l’interno. Tutto sembra fermo, immobile. Solo in pochi casi, dai piccoli squarci nelle coperture, si può intravedere la coltura o qualcuno al lavoro.

    È il paradosso di questa fascia costiera, tutt’altro che ferma, che si estende da Ispica ad Acate per oltre 20 chilometri di larghezza e 80 di lunghezza e vede più di 5.200 aziende agricole attive tutto l’anno con almeno 28mila lavoratori coinvolti. Anche tanti minori. “Questa mattina una ragazza, avrà avuto 13 anni, mi ha guardato dicendomi ‘Io, qui, vedo solo plastica’. In quella frase, c’è un orizzonte che diventa un muro, un confine verso il futuro che non è poroso perché tutto sembra immutabile”, sospira Alessandro Di Benedetto, psicoterapeuta che lavora con Emergency, che incontriamo a fine luglio a Marina di Acate (RG).

    Il centro “Orizzonti a colori” è nato a gennaio 2022 ed è un’oasi felice a Marina di Acate che interrompe bruscamente il ripetersi delle serre nella cosiddetta Fascia trasformata, soprannominata così perché le dune di sabbia sono state sostituite, anno dopo anno, dalla plastica delle serre. Un grande cancello “nasconde” un prato su cui si affaccia una grande struttura di colore giallo con un arcobaleno che taglia a metà la facciata. La struttura, in realtà, è già da dieci anni attiva come presidio stabile nato dalla volontà della Caritas di Ragusa che voleva a tutti i costi creare un punto di riferimento nella zona.

    “Appena arrivati avevamo difficoltà addirittura a far conoscere che era nato un centro in cui poter ricevere assistenza materiale, legale e sanitaria -racconta Vincenzo La Monica, responsabile dell’associazione I tetti colorati, braccio operativo del presidio locale di Caritas italiana-. Le serre sono terreni privati, non potevamo accedervi direttamente, così abbiamo preparato dei volantini in diverse lingue facendone una specie di aeroplanini di carta che lanciavamo oltre i muri delle aziende agricole”.

    Il disperato tentativo di far uscire le persone e farle entrare in contatto con i servizi fotografa efficacemente quello che, quotidianamente, succede lungo tutta la Fascia trasformata. Persone senza documenti che spesso comprano residenze fittizie pagando circa 700 euro per sei mesi in cittadine anche a cento chilometri di distanza. E così le famiglie “spariscono” formalmente da quel territorio. E non solo uomini adulti. “In questa zona per la prima volta è stata data la possibilità ai lavoratori di portare la propria famiglia in loco -spiega Alessia Campo, collega di La Monica-. Così, all’interno di queste serre è cominciato anche ad aumentare anche il numero di donne e soprattutto di minori”. Difficile dire quanti siano.

    L’ultimo rapporto di Save the children “Piccoli schiavi invisibili”, pubblicato a fine luglio e dedicato proprio alla condizione dei figli dei braccianti, evidenzia che “molti rminori sono impiegati nell’azienda di famiglia già a partire dai dieci anni, anche se non tutti i giorni […]; altri invece supponiamo che lavorino quotidianamente nell’azienda di famiglia”.

    Per questo motivo nel centro “Orizzonti a colori” i più giovani sono diventati la priorità individuano nell’accesso alla scuola uno dei pilastri su cui lavorare. “Prima di arrivare all’emersione di un’eventuale condizione di sfruttamento -spiega Valeria Bisignano di Save the children, coordinatrice del progetto ‘Liberi dall’invisibilità’- tentiamo di agganciarli attraverso l’accompagnamento scolastico. Sono ragazzi che devono scegliere tra il lavoro, lo studio, e a volte hanno la responsabilità dei fratelli più piccoli”.

    Così circa 60 ragazzi durante l’anno si recano al Centro per essere accompagnati nel percorso scolastico. Un percorso tortuoso, anche per motivi strettamente “logistici”. Le scuole più vicine a Marina di Acate distano 12 chilometri -ad Acate (RG)- oppure più di 20 dal limitrofo comune di Vittoria (RG). Per Acate il costo è di due euro al giorno per bambino, per Vittoria lo scuolabus esiste ed è gratuito, ma è assicurato solo per elementari e medie, non c’è per le scuole dell’infanzia e per la secondaria di secondo grado. Anche i due euro a viaggio sono spesso troppo per chi per una giornata di lavoro dovrebbe guadagnare circa 60 euro -“Molto meno nella realtà, circa 35/40”, racconta La Monica- e per cui, tra l’altro, l’assenza dell’aiuto del figlio pesa sulla capacità di soddisfare le richieste del datore di lavoro.

    “Per questo motivo, nell’ultimo anno, abbiamo deciso di creare delle borse di studio per chi veniva nel Centro e continuava gli studi. Dovevamo ‘monetizzare’ il loro tempo speso qua”, continua Alessia Campo di Caritas, sottolineando come siano bambini che vivono completamente isolati dalla realtà e che spesso non incontrano nessuno se non la loro famiglia. “Non mi scorderò mai di quando un giorno un ragazzo mi ha chiesto: ‘Come si fa a fare amicizia?’”. Da quella domanda è nato il laboratorio “Prendersi cura” che insegna ai ragazzi a riconoscere le proprie emozioni e a relazionarsi con esse. E anche i laboratori teatrali, un filo rosso che lega gli anni di vita di questo luogo, prima presidio e poi centro “Orizzonti a colori”, aiutano i più giovani a prendersi quella parola e quegli spazi che spesso gli sono negati. “Il primo anno abbiamo organizzato uno spettacolo teatrale con 18 partecipanti che inscenavano una ‘Cenerentola’ rivisitata in cui il principe azzurro portava i ragazzi a scuola”, ricorda La Monica. A giugno, uno spettacolo finale del laboratorio curato da Tetti colorati nell’ambito del progetto di Save the children ha visto oltre 160 spettatori adulti partecipare: circa metà e metà tra italiani e stranieri.

    Già perché nella Fascia trasformata lo sfruttamento non riguarda solamente gli stranieri. “Chi non ha un permesso di soggiorno è sicuramente più vulnerabile e ricattabile -spiega Giorgio Abbate, responsabile del progetto Diagrammi per la Flai-Cgil- ma le terribili condizioni di lavoro riguardano anche le persone italiane”.

    Sedici, diciassette ore di lavoro a circa cinque euro all’ora. E nei giorni in cui la Sicilia brucia e le temperature toccano record mai raggiunti, nelle serre il lavoro non si è fermato. “Siamo riusciti a concordare che si lavorasse solo in fasce orarie più tarde ma, per esempio, chi lavora nei magazzini ha continuato a fare turni di lavoro ‘normali’ con temperature che raggiungevano i 40 gradi all’interno dei capannoni”, spiega Abbate. Mancano i controlli -anche perché c’è un solo ispettore del lavoro per tutta la provincia di Ragusa- e manca soprattutto un sistema economico capace di premiare chi è onesto.

    “Ci sono datori di lavoro che nonostante enormi margini di guadagno continuano a sfruttare i lavoratori, altri sono vittime loro stessi: i prezzi della concorrenza sono troppo bassi per potere garantire salari adeguati, e il costo del lavoro è il primo su cui tagliare per sopravvivere”, osserva Abbate. Un contesto difficile e spesso omertoso: non si sa ancora nulla della morte di Daouda Diane, giovane di origine ivoriana, operatore e mediatore di un Centro di accoglienza di Acate, che è scomparso nel nulla il 2 luglio 2022 nel tragitto tra la sua casa di Acate e la sede del cementificio Sgv Calcestruzzi, dove stava lavorando temporaneamente. Il giorno della sua scomparsa aveva girato due video nel cantiere nei quali denunciava le condizioni di insicurezza in cui lavorava; in uno dice: “Qui si muore”. E il procuratore di Ragusa Fabio D’Anna ha invitato più volte i cittadini di Acate a collaborare mentre cinque appartenenti alla società Sgv Calcestruzzi sono stati iscritti nel registro degli indagati nel fascicolo aperto per omicidio volontario e occultamento di cadavere.

    Non molti “braccianti” sono disposti a denunciare le condizioni di lavoro. Per molti la vita nelle serre è un passaggio. Due, tre anni di lavoro per poi riuscire a trovare un altro impiego. Per chi ha meno strumenti, invece, questa condizione rischia di occupare un tempo di vita molto più lungo. “E questo genera grande sofferenza -spiega Alessandro Di Benedetto di Emergency-. Spesso si generano delle dipendenze, soprattutto di alcol, perché ogni giorno il lavoro nelle serre ricorda il fallimento di un percorso migratorio non concluso come si sperava”.

    Ma la denuncia, spesso, non è una soluzione adeguata per chi ha comunque bisogno di ricevere un salario per sopravvivere o aiutare le famiglie nel Paese d’origine. Sono coperte dal silenzio, spesso, anche le violenze subite dalle donne che vivono una condizione di maggior vulnerabilità. “Abbiamo aperto degli sportelli di ascolto a loro dedicati -spiega La Monica-. Ascoltiamo storie di violenza domestica nella maggior parte dei casi, ma a volte anche da parte dei datori di lavoro. Ci hanno raccontato che i bagni delle serre sono trasparenti e i caporali le osservano mentre vanno ai servizi, piuttosto che mentre lavorano e magari, per il caldo, indossano vestiti scollati”.

    Al centro “Orizzonti a colori” il difficile contesto non scoraggia gli operatori. “Noi continuiamo a fare il nostro, ma non possiamo sostituirci alle istituzioni, che stiamo quindi cercando di coinvolgere”, sottolinea Bisignano di Save the Children. “I lavoratori sono invisibili, ma le serre no. Quello che succede qui è tutto alla luce del sole”, gli fa eco il referente della Cgil Abbate. Così, sono le singole storie a dare un significato al lavoro di tutti i giorni. Come quella di Adina (nome di fantasia), figlia di braccianti, che a inizio agosto ha cominciato uno stage in un importante albergo di Roma dopo aver concluso le scuole superiori. Una storia di riscatto cresciuta nel mare bianco delle serre della Fascia trasformata.

    https://altreconomia.it/viaggio-nella-fascia-trasformata-dove-i-minori-pagano-il-prezzo-piu-alt
    #Ragusa #Sicile #Italie #agriculture #exploitation #travail #conditions_de_travail #Ispica #Acate #mineurs #enfants #Orizzonti_a_colori #Fascia_trasformata #néo-esclavage #esclavage_moderne

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  • Le retour du travail des enfants est le dernier signe du déclin des Etats-Unis Steve Fraser

    En 1906, un vieux chef amérindien visitait New York pour la première fois. Il était curieux de la ville et la ville était intéressée à lui. Un journaliste d’un magazine demande au chef amérindien ce qui l’a le plus surpris dans ses déplacements en ville. « Les petits enfants qui travaillent », répondit le visiteur.

    Le travail des enfants aurait pu choquer cet étranger, mais il n’était que trop banal à l’époque dans les Etats-Unis urbains et industriels (et dans les fermes où il était habituel depuis fort longtemps). Plus récemment, cependant, il est devenu beaucoup plus rare. La loi et la pratique l’ont presque fait disparaître, supposent la plupart d’entre nous. Et notre réaction face à sa réapparition pourrait ressembler à celle de ce chef : choc, incrédulité.


    Mais nous ferions mieux de nous y habituer, car le travail des enfants revient en force. Un nombre impressionnant d’élus entreprennent des efforts concertés ( The New Yorker , « Child Labor is on the Rise », 4 juin 2023 sur le site) pour affaiblir ou abroger les lois qui ont longtemps empêché (ou du moins sérieusement freiné) la possibilité d’exploiter les enfants.

    Reprenez votre souffle et considérez ceci : le nombre d’enfants au travail aux Etats-Unis a augmenté de 37% entre 2015 et 2022. Au cours des deux dernières années, 14 États ont introduit ou promulgué des lois annulant les réglementations qui régissaient le nombre d’heures pendant lesquelles les enfants pouvaient être employés, réduisaient les restrictions sur les travaux dangereux et légalisaient les salaires minimums pour les jeunes.

    L’État de l’Iowa autorise désormais les jeunes de 14 ans à travailler dans des blanchisseries industrielles. A l’âge de 16 ans, ils peuvent occuper des emplois dans les domaines de la toiture, de la construction, de l’excavation et de la démolition et peuvent utiliser des machines à moteur. Les jeunes de 14 ans peuvent même travailler de nuit et, dès l’âge de 15 ans, ils peuvent travailler sur des chaînes de montage. Tout cela était bien sûr interdit il n’y a pas si longtemps.
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    Les élus donnent des justifications absurdes à ces entorses à des pratiques établies de longue date. Le travail, nous disent-ils, éloignera les enfants de leur ordinateur, de leurs jeux vidéo ou de la télévision. Ou encore, il privera le gouvernement du pouvoir de dicter ce que les enfants peuvent ou ne peuvent pas faire, laissant aux parents le contrôle – une affirmation déjà transformée en fantasme par les efforts visant à supprimer la législation sociale protectrice et à permettre aux enfants de 14 ans de travailler sans autorisation parentale formelle.

    En 2014, l’Institut Cato, un groupe de réflexion de droite, a publié « A Case Against Child Labor Prohibitions » (Un cas contre les interdictions du travail des enfants), arguant que de telles lois étouffaient les perspectives pour l’avenir des enfants pauvres, et en particulier les enfants noirs. La Foundation for Government Accountability (Fondation pour l’obligation du gouvernement de rendre des comptes), un groupe de réflexion financé par une série de riches donateurs conservateurs, dont la famille DeVos [Betsy DeVos, secrétaire d’Etat à l’Education sous l’administration Trump], a été le fer de lance des efforts visant à affaiblir les lois sur le travail des enfants, et Americans for Prosperity, la fondation milliardaire des frères Koch [très engagés dans les investissements pétroliers], s’est jointe à eux.

    Ces attaques ne se limitent pas aux États rouges (républicains) comme l’Iowa ou ceux du Sud. La Californie, le Maine, le Michigan, le Minnesota et le New Hampshire, ainsi que la Géorgie et l’Ohio, ont également été l’objet d’interventions dans ce sens. Au cours des années de pandémie, même le New Jersey a adopté une loi, augmentant temporairement les heures de travail autorisées pour les jeunes de 16 à 18 ans.


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    La vérité toute crue est que le travail des enfants est rentable et qu’il est en train de devenir remarquablement omniprésent. C’est un secret de Polichinelle que les chaînes de restauration rapide emploient des mineurs depuis des années et considèrent simplement les amendes occasionnelles comme faisant partie du coût de fonctionnement. Dans le Kentucky, des enfants d’à peine 10 ans ont travaillé dans de tels centres de restauration et d’autres, plus âgés, ont dépassé les limites horaires prescrites par la loi. En Floride et au Tennessee, les couvreurs peuvent désormais avoir 12 ans.

    Récemment, le Département du Travail a découvert plus de 100 enfants âgés de 13 à 17 ans travaillant dans des usines de conditionnement de viande et des abattoirs du Minnesota et du Nebraska. Et il ne s’agissait pas d’opérations véreuses. Des entreprises comme Tyson Foods et Packer Sanitation Services – qui appartient au fonds d’investissement BlackRock, la plus grande société de gestion d’actifs au monde [voir l’article sur ces fonds publié sur ce site le 7 juillet 2023] – figuraient également sur la liste.

    A ce stade, la quasi-totalité de l’économie est remarquablement ouverte au travail des enfants. Les usines de vêtements et les fabricants de pièces automobiles (qui fournissent Ford et General Motors) emploient des enfants immigrés, parfois pendant des journées de travail de 12 heures. Nombre d’entre eux sont contraints d’abandonner l’école pour ne pas être pénalisés. De la même manière, les chaînes d’approvisionnement de Hyundai et de Kia dépendent des enfants qui travaillent en Alabama.

    Comme l’a rapporté le New York Times en février dernier (« Alone and Exploited, Migrant Children Work Brutal Jobs Across the U.S. » par Hannah Dreier, 25 février 2023) – contribuant à faire connaître le nouveau marché du travail des enfants – des enfants mineurs, en particulier des migrants, travaillent dans des usines d’emballage de céréales et des usines de transformation alimentaire. Dans le Vermont, des « illégaux » (parce qu’ils sont trop jeunes pour travailler) font fonctionner des machines à traire. Certains enfants participent à la confection de chemises J. Crew [grande firme de prêt-à-porter] à Los Angeles, préparent des petits pains pour Walmart [le plus grand distributeur des Etats-Unis] ou travaillent à la production de chaussettes Fruit of the Loom [firme très connue]. Le danger guette. Les Etats-Unis sont un environnement de travail notoirement dangereux et le taux d’accidents chez les enfants travailleurs est particulièrement élevé, avec un inventaire effrayant de colonnes vertébrales brisées, d’amputations, d’empoisonnements et de brûlures défigurantes.

    La journaliste Hannah Dreier a parlé d’une « nouvelle économie de l’exploitation », en particulier lorsqu’il s’agit d’enfants migrants. Un instituteur de Grand Rapids, dans le Michigan, observant la même situation difficile, a fait la remarque suivante : « Vous prenez des enfants d’un autre pays et vous les mettez presque en servitude industrielle. »

    Il y a longtemps, aujourd’hui
    Aujourd’hui, nous pouvons être aussi stupéfaits par ce spectacle déplorable que l’était ce chef amérindien au tournant du XXe siècle. Nos ancêtres, eux, ne l’auraient pas été. Pour eux, le travail des enfants allait de soi.

    En outre, les membres des classes supérieures britanniques qui n’étaient pas obligés de travailler dur ont longtemps considéré le travail comme un tonique spirituel capable de réfréner les impulsions indisciplinées des classes inférieures. Une loi élisabéthaine de 1575 prévoyait l’affectation de fonds publics à l’emploi d’enfants en tant que « prophylaxie contre les vagabonds et les indigents ».

    Au XVIIe siècle, le philosophe John Locke [1632-1704, auteur de l’ Essai sur l’entendement humain , un des principaux acteurs de la Royal African Company, pilier de la traite négrière], alors célèbre « défenseur de la liberté », soutenait que les enfants de trois ans devaient être inclus dans la force de travail. Daniel Defoe, auteur de Robinson Crusoé , se réjouissait que « les enfants de quatre ou cinq ans puissent tous gagner leur propre pain ». Plus tard, Jeremy Bentham [1748-1832, précurseur du libéralisme], le père de l’utilitarisme, optera pour quatre ans, car sinon, la société souffrirait de la perte de « précieuses années pendant lesquelles rien n’est fait ! Rien pour l’industrie ! Rien pour l’amélioration, morale ou intellectuelle. »

    Le rapport sur l’industrie manufacturière publié en 1791 par le « père fondateur » états-unien Alexander Hamilton [1757-1804, secrétaire au Trésor de 1789 à 1795] notait que les enfants « qui seraient autrement oisifs » pourraient au contraire devenir une source de main-d’œuvre bon marché. L’affirmation selon laquelle le travail à un âge précoce éloigne les dangers sociaux de « l’oisiveté et de la dégénérescence » est restée une constante de l’idéologie des élites jusqu’à l’ère moderne. De toute évidence, c’est encore le cas aujourd’hui.


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    Lorsque l’industrialisation a effectivement commencé au cours de la première moitié du XIXe siècle, les observateurs ont noté que le travail dans les nouvelles usines (en particulier les usines textiles) était « mieux fait par les petites filles de 6 à 12 ans ». En 1820, les enfants représentaient 40% des travailleurs des usines dans trois Etats de la Nouvelle-Angleterre. La même année, les enfants de moins de 15 ans représentaient 23% de la main-d’œuvre manufacturière et jusqu’à 50% de la production de textiles de coton (« Child Labor in the United States », Robert Whaples, Wake Forest University).

    Et ces chiffres ne feront qu’augmenter après la guerre de Sécession [1861-1865]. En fait, les enfants d’anciens esclaves ont été ré-esclavagisés par le biais d’accords d’apprentissage très contraignants. Pendant ce temps, à New York et dans d’autres centres urbains, les padroni italiens ont accéléré l’exploitation des enfants immigrés tout en les traitant avec brutalité. Même le New York Times s’est offusqué : « Le monde a renoncé à voler des hommes sur les côtes africaines pour kidnapper des enfants en Italie. »

    Entre 1890 et 1910, 18% des enfants âgés de 10 à 15 ans, soit environ deux millions de jeunes, ont travaillé, souvent 12 heures par jour, six jours par semaine.Leurs emplois couvraient le front de mer – trop littéralement puisque, sous la supervision des padroni , des milliers d’enfants écaillaient les huîtres et ramassaient les crevettes. Les enfants étaient également des crieurs de rue et des vendeurs de journaux. Ils travaillaient dans des bureaux et des usines, des banques et des maisons closes. Ils étaient « casseurs » et « ouvreurs de portes en bois permettant l’accès d’air » dans les mines de charbon mal ventilées, des emplois particulièrement dangereux et insalubres. En 1900, sur les 100 000 ouvriers des usines textiles du Sud, 20 000 avaient moins de 12 ans.

    Les orphelins des villes sont envoyés travailler dans les verreries du Midwest. Des milliers d’enfants sont restés à la maison et ont aidé leur famille à confectionner des vêtements pour des ateliers clandestins. D’autres emballent des fleurs dans des tentes mal ventilées. Un enfant de sept ans expliquait : « Je préfère l’école à la maison. Je n’aime pas la maison. Il y a trop de fleurs. » A la ferme, la situation n’est pas moins sombre : des enfants de trois ans travaillent à décortiquer des baies.

    Dans la famille
    Il est clair que, jusqu’au XXe siècle, le capitalisme industriel dépendait de l’exploitation des enfants, moins chers à employer, moins capables de résister et, jusqu’à l’avènement de technologies plus sophistiquées, bien adaptés aux machines relativement simples en place à l’époque.


    En outre, l’autorité exercée par le patron était conforme aux principes patriarcaux de l’époque, que ce soit au sein de la famille ou même dans les plus grandes des nouvelles entreprises industrielles de l’époque, détenues en grande majorité par des familles, comme les aciéries d’Andrew Carnegie. Ce capitalisme familial a donné naissance à une alliance perverse entre patron et sous-traitants qui a transformé les enfants en travailleurs salariés miniatures.

    Pendant ce temps, les familles de la classe ouvrière étaient si gravement exploitées qu’elles avaient désespérément besoin des revenus de leurs enfants. En conséquence, à Philadelphie, au tournant du siècle, le travail des enfants représentait entre 28% et 33% du revenu des familles biparentales nées dans le pays Monthly Labor Review, « History of child labor in the United States—part 1 : little children working », January 2017) . Pour les immigrés irlandais et allemands, les chiffres étaient respectivement de 46% et 35%. Il n’est donc pas surprenant que les parents de la classe ouvrière se soient souvent opposés aux propositions de lois sur le travail des enfants. Comme l’a noté Karl Marx, le travailleur n’étant plus en mesure de subvenir à ses besoins, « il vend maintenant sa femme et son enfant, il devient un marchand d’esclaves ».

    Néanmoins, la résistance commence à s’organiser. Le sociologue et photographe Lewis Hine a scandalisé le pays avec des photos déchirantes d’enfants travaillant dans les usines et dans les mines. (Il put accéder à à ces lieux de travail en prétendant qu’il était un vendeur de bibles.) Mother Jones [1837-1930], la militante syndicaliste, a mené une « croisade des enfants » en 1903 au nom des 46 000 ouvriers du textile en grève à Philadelphie. Deux cents délégués des enfants travailleurs se sont rendus à la résidence du président Teddy Roosevelt [1901-1909] à Oyster Bay, Long Island, pour protester, mais le président s’est contenté de renvoyer la balle, affirmant que le travail des enfants relevait de la compétence des Etats et non de celle du gouvernement fédéral.

    Ici et là, des enfants tentent de s’enfuir. En réaction, les propriétaires ont commencé à entourer leurs usines de barbelés ou à faire travailler les enfants la nuit, lorsque leur peur de l’obscurité pouvait les empêcher de s’enfuir. Certaines des 146 femmes qui ont péri dans le tristement célèbre incendie de la Triangle Shirtwaist Factory en 1911 dans le Greenwich Village de Manhattan – les propriétaires de cette usine de confection avaient verrouillé les portes, obligeant les ouvrières prises au piège à sauter vers la mort depuis les fenêtres des étages supérieurs – n’avaient pas plus de 15 ans. Cette tragédie n’a fait que renforcer la colère grandissante à l’égard du travail des enfants.
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    Un comité national sur le travail des enfants a été créé en 1904. Pendant des années, il a fait pression sur les Etats pour qu’ils interdisent, ou du moins limitent, le travail des enfants. Les victoires, cependant, étaient souvent à la Pyrrhus, car les lois promulguées étaient invariablement faibles, comportaient des dizaines d’exemptions et étaient mal appliquées. Finalement, en 1916, une loi fédérale a été adoptée qui interdisait le travail des enfants partout. En 1918, cependant, la Cour suprême l’a déclarée inconstitutionnelle.

    En fait, ce n’est que dans les années 1930, après la Grande Dépression, que les conditions ont commencé à s’améliorer. Compte tenu de la dévastation économique, on pourrait supposer que la main-d’œuvre enfantine bon marché aurait été très prisée. Cependant, face à la pénurie d’emplois, les adultes, et en particulier les hommes, ont pris le dessus et ont commencé à effectuer des tâches autrefois réservées aux enfants. Au cours de ces mêmes années, le travail industriel a commencé à incorporer des machines de plus en plus complexes qui s’avéraient trop difficiles pour les jeunes enfants. Dans le même temps, l’âge de la scolarité obligatoire ne cessait de s’élever, limitant encore davantage le nombre d’enfants travailleurs disponibles.
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    Plus important encore, l’air du temps a changé. Le mouvement ouvrier insurrectionnel des années 1930 détestait l’idée même du travail des enfants. Les usines syndiquées et les industries entières étaient des zones interdites aux capitalistes qui cherchaient à exploiter les enfants. En 1938, avec le soutien des syndicats, l’administration du New Deal du président Franklin Roosevelt a finalement adopté la Fair Labor Standards Act qui, du moins en théorie, a mis fin au travail des enfants (bien qu’elle ait exempté le secteur agricole dans lequel ce type de main-d’œuvre restait courant).

    En outre, le New Deal de Roosevelt a transformé les mentalités à l’échelle du pays. Un sentiment d’égalitarisme économique, un nouveau respect pour la classe ouvrière et une méfiance sans bornes à l’égard de la caste des entreprises ont rendu le travail des enfants particulièrement répugnant. En outre, le New Deal a inauguré une longue ère de prospérité, avec notamment l’amélioration du niveau de vie de millions de travailleurs et travailleuses qui n’avaient plus besoin du travail de leurs enfants pour joindre les deux bouts.

    Retour vers le passé
    Il est d’autant plus étonnant de découvrir qu’un fléau, que l’on croyait banni, revit. Le capitalisme états-unien est un système internationalisé, ses réseaux s’étendent pratiquement partout. Aujourd’hui, on estime à 152 millions le nombre d’enfants au travail dans le monde. Bien sûr, tous ne sont pas employés directement ou même indirectement par des entreprises états-uniennes. Mais ces millions devraient certainement nous rappeler à quel point le capitalisme est redevenu profondément rétrograde, tant chez nous qu’ailleurs sur la planète.

    Les vantardises sur la puissance et la richesse de l’économie des Etats-Unis font partie du système de croyances et de la rhétorique des élites. Cependant, l’espérance de vie aux Etats-Unis, mesure fondamentale de la régression sociale, ne cesse de diminuer depuis des années. Les soins de santé sont non seulement inabordables pour des millions de personnes, mais leur qualité est devenue au mieux médiocre si l’on n’appartient pas au 1% supérieur. De même, les infrastructures du pays sont depuis longtemps en déclin, en raison de leur âge et de décennies de négligence.

    Il faut donc considérer les Etats-Unis comme un pays « développé » en proie au sous-développement et, dans ce contexte, le retour du travail des enfants est profondément symptomatique. Même avant la grande récession qui a suivi la crise financière de 2008, le niveau de vie avait baissé, en particulier pour des millions de travailleurs mis à mal par un tsunami de désindustrialisation qui a duré des décennies. Cette récession, qui a officiellement duré jusqu’en 2011, n’a fait qu’aggraver la situation. Elle a exercé une pression supplémentaire sur les coûts de la main-d’œuvre, tandis que le travail devenait de plus en plus précaire, de plus en plus dépourvu d’avantages sociaux et non syndiqué. Dans ces conditions, pourquoi ne pas se tourner vers une autre source de main-d’œuvre bon marché : les enfants ?

    Les plus vulnérables d’entre eux viennent de l’étranger, des migrants du Sud, fuyant des économies défaillantes souvent liées à l’exploitation et à la domination économiques états-uniennes. Si ce pays connaît aujourd’hui une crise frontalière – et c’est le cas – ses origines se trouvent de ce côté-ci de la frontière [et non pas avant tout en Amérique centrale ou au Mexique].

    La pandémie de Covid-19 de 2020-2022 a créé une brève pénurie de main-d’œuvre, qui est devenue un prétexte pour remettre les enfants au travail (même si le retour du travail des enfants est en fait antérieur à la pandémie). Il faut considérer ces enfants travailleurs au XXIe siècle comme un signe distinct de la pathologie sociale présente. Les Etats-Unis peuvent encore tyranniser certaines parties du monde, tout en faisant sans cesse étalage de leur puissance militaire. Mais chez eux, ils sont malades.

    #capitalisme #profits #travail des #enfants #exploitation #usa #Etats-Unis #élites #esclavage #ouvrières #ouvriers #migrants #Lewis_Hine

    Source originale : Tom Dispatch https://tomdispatch.com/caution-children-at-work
    Traduit de l’anglais par A l’encontre https://alencontre.org/ameriques/americnord/usa/le-retour-du-travail-des-enfants-est-le-dernier-signe-du-declin-des-etat

  • La betterave, la gauche, le peuple - et nous Chez Renard - Tomjo

    Le 12 janvier 2023, la coopérative sucrière #Tereos est condamnée à une amende record d’un demi-million d’euros pour l’ #écocide de l’Escaut en 2020 [1]. Que ce soit au moment de la catastrophe, lors de l’audience en décembre 2022, ou du délibéré quelques semaines plus tard, on n’a vu ni le député local ni le maire exiger des comptes du deuxième groupe sucrier mondial devant une foule vengeresse. Non plus qu’on n’a entendu le « député reporter » #François_Ruffin, dans sa cuisine ou aux portes de l’usine, dénoncer les méfaits du sucre sur la #santé et de Tereos sur la vie. On n’a pas vu le ministre de l’industrie Renaud Lescure taper du poing en sous-préfecture, ni #Xavier_Bertrand, président du Conseil régional, défiler dans les rues. Le président des Hauts-de-France préférant manifester à Paris le 7 février 2023, juché sur les tracteurs des betteraviers pour défendre l’épandage de #néonicotinoïdes : « Il n’est pas question de faire les mêmes conneries sur l’agriculture que sur le nucléaire ! »

    
À l’inverse, aucun élu n’a manqué pour défendre l’usine à l’annonce de la fermeture de la sucrerie d’Escaudoeuvres le 7 mars suivant. A entendre nos représentants du peuple, non seulement celle-ci ferait la prospérité des gens du Nord, mais elle participerait d’un patrimoine digne d’être défendu – demandez à la DRAC (Direction régionale des affaires culturelles), appelée à la rescousse de l’usine pendant les procès pour relancer le mythe de la betterave sucrière, impériale et napoléonienne. Seul Renart s’échine à briser le silence d’une région, de ses habitants et # ses élus, sur leurs méfaits.

    #Pollution historique, amende record. Le 9 avril 2020, un bassin de décantation de la #sucrerie d’Escaudoeuvres déverse 100 000 m3 d’eau contaminée dans l’Escaut. Le préfet n’ayant pas prévenu les autorités belges, la pollution a tout loisir de passer les écluses, descendre la rivière, et supprimer toute trace de vie sur plus de 70km, poissons, batraciens, libellules. Les autorités belges et des associations françaises attentent un procès à Tereos. Trois ans plus tard, le 12 janvier 2023, le juge inflige neuf millions d’euros de dommages et intérêts pour restauration de la rivière, et une amende de 500 000 euros – laissant l’État français, lui aussi muet depuis le début, sauf de toute responsabilité pour sa négligence. L’avocat des betteraviers se réjouit que le montant soit « très inférieur aux demandes qui ont été faites [2]. » C’est tout de même plus que la dernière grande catastrophe écologique survenue en France, le naufrage de l’Erika en 1999, qui avait valu à Total une amende de 375 000 euros, soit 424 000 euros d’aujourd’hui.

    Les 123 salariés et les habitants d’Escaudœuvres s’apprêtaient à célébrer les 150 ans de leur sucrerie quand Tereos annonce sa fermeture le 7 mars, à peine deux mois après le délibéré. Ces élus qui n’avaient rien dit, et rien à dire, sur la catastrophe de Tereos, se précipitent pour dénoncer sa fermeture [3]. Parmi les trémolos, ceux du député Guy Bricout et du maire Thierry Bouteman :

    Cambrai, terre agro-alimentaire depuis 150 ans : c’est notre passé, c’est notre présent, et nous croyons que c’est notre avenir. Nous demandons l’arrêt de tout processus qui conduirait à la fermeture de notre sucrerie à Escaudœuvres. Il faut être déconnecté, ou perdre confiance, pour prendre une telle décision. Je ne les crois pas déconnectés, je crois qu’ils ont perdu confiance. Pas nous. Pas les sucriers, pas les saisonniers, pas les intérimaires, pas les sous-traitants depuis 150 ans. Pas les élus, pas les habitants.

    En écho, le ministre délégué à l’industrie #Renaud_Lescure se déplace quelques jours plus tard pour déclarer que « l’industrie, c’est une arme anti-colère, l’industrie c’est une arme d’espoir. » Il annonce trois millions d’euros pour un « rebond industriel dans le Cambrésis ». Puis c’est au sénateur communiste Eric Bocquet de rappeler combien « la sucrerie, c’est l’ADN de la commune » (bonjour le diabète), une « véritable institution dans l’arrondissement de Cambrai », dont l’« histoire » et la « richesse » rendent sa fermeture « particulièrement violente » [4].
    
Chacun sa partition, mais le premier arrivé devant l’usine pour donner le ton, c’est l’« insoumis » amiénois François Ruffin : la betterave à sucre serait selon notre « député reporter », comme il se présente, une « production industrielle qui appartient à notre patrimoine » national, un fruit de « l’intelligence humaine » inventé pendant le blocus continental entre 1806 et 1815, justifiant par là que « l’État intervienne dans l’économie, construise des filières dans la durée, et fasse que les vies, les usines, l’économie ne dépendent pas seulement des cours de bourse. » 

    Si les cours de bourse ne doivent pas décider de la fermeture d’une usine (dont le groupe Tereos empoche cette année des profits records : 6,6 milliards d’euros de chiffre d’affaires sur 2022/2023, +29 % en un an), au nom de quoi doit-elle tourner ? Son utilité sociale ? Son histoire centenaire ?

    Le « député-reporter » attaque son discours-reportage par la glorification de l’épopée scientifique du sucre. Nous, on commencerait plutôt par toutes ces maladies de l’ #agro-industrie, et du sucre en particulier, qui représentent désormais la première cause de mortalité dans le monde. Savez-vous, lecteur, qu’entre le #diabète, l’ #obésité, les maladies cardiovasculaires et l’ #hypertension artérielle, la bouffe tue désormais plus que la faim ! Vu la progression actuelle du diabète (+ 4,5 % par an en France par exemple), la revue scientifique The Lancet prédit 1,3 milliard de malades du sucre en 2050 dans le monde - presque 10 % de la population mondiale [5] ! Du sucre, on en trouve partout, dans les sodas bien sûr, mais aussi dans les chips, les pizzas, le pain de mie, le pesto, et toutes les pâtées préparées. Le sucre, c’est la drogue de l’industrie alimentaire.
    
Accordons à Ruffin qu’avec une telle entrée en matière – « Vous êtes la première cause de mortalité dans le monde » –, l’accueil eut été réservé. Mieux vaut seriner combien la betterave, comme toute autre nuisance industrielle, est objet de fierté dans une région de labeur et pour un peuple courageux. Ce que Ruffin rabâche depuis dix ans [6]. Ce qu’il est venu rabâcher sur les lieux mêmes d’une catastrophe historique qui élimina toute trace de vie sur 70 km, des poissons aux batraciens :

    Les salariés me disent combien ils aiment leur travail, combien ils aiment le sucre. Je pense que cet amour du métier, quand on est prof, soignant ou dans l’industrie... faut pas croire que le travail ce soit seulement un salaire. C’est aussi un amour de son métier. Les gens me disent : "Tereos, c’est notre famille, c’est notre maison, on y est bien, on est prêts à passer quatre noëls d’affilée sans voir nos enfants. Mon gamin il a quatre ans et je n’ai pas passé un seul noël avec lui. On est prêts à faire 190 heures par mois pour faire le boulot".

    Accordons encore que douze heures de turbin, que l’on soit salarié d’une sucrerie ou esclave d’un champ de canne à sucre, finissent en effet par créer des liens fraternels, mais ne peut-on jamais dans ce Nord funèbre tisser de liens fraternels ailleurs que dans les tranchées, au fond des mines, ou sur une ligne de production ? Sommes-nous à jamais enfermés dans un roman de Zola ou de Van der Meersch ?
    
Il en a fallu des mensonges, des récits grandioses et des mythes fondateurs, répétés de gauche à droite, par les patrons et parfois par les ouvriers, pour excuser les saloperies dont on se rend coupable ou consentir à son exploitation. Demandez aux combattants de la « Bataille du charbon », quand les mines nationalisées, gérées par un accord gaullo-communiste, restauraient le salaire à la tâche, augmentaient les cadences, les taux de silicose et de mortalité, en échange de congés payés [7]. Est-ce là votre « progrès » ?

    Aujourd’hui, Ruffin et ses pareils, qui n’ont pas perdu leurs quatre derniers noëls dans la mélasse, entendent utiliser « l’histoire grandiose du sucre de betterave » afin de justifier le sauvetage de l’industrie betteravière. Mais c’est un mythe que l’invention du sucre de betterave par Benjamin Delessert, et la création d’une filière sucrière par un Plan d’investissements de Napoléon. Une mystification que Le Betteravier français propage à l’envi pour justifier l’œuvre supérieure de la corporation devant ses calomniateurs écologistes [8], que Le Monde répète pour magnifier le Génie technoscientifique [9], ainsi que Fakir, le journal de François Ruffin, pour célébrer le volontarisme étatique [10].
Reprenons donc depuis le début la véritable histoire du sucre de betterave, bien plus passionnante que la fausse.

    Arnaque impériale chez les sucriers lillois
    Ou le mythe de la betterave napoléonienne

    Suivant la version courante, le prix du sucre sur le continent aurait été multiplié par dix à la suite du blocus continental décrété en 1806 contre l’Angleterre par Napoléon. La canne à sucre, cultivée par des esclaves, arrivait jusqu’alors des Antilles, avant d’être raffinée en métropole. Il aurait fallu trouver d’urgence une solution à la pénurie. Sur les conseils du célèbre chimiste Jean-Antoine Chaptal, #Napoléon signe le 25 mars 1811 un décret d’encouragement de la betterave à sucre : il réserve 32 000 hectares de culture à la betterave, dont 4 000 dans le nord de la France et en Wallonie (alors française), et promet un prix d’un million de francs à qui ramènerait le premier pain de sucre.
    
Vient ensuite la scène légendaire. Le 2 janvier 1812, Chaptal court chez l’empereur. Un industriel versé dans la science, Benjamin Delessert, aurait relevé le challenge dans son usine de Passy. L’empereur et le chimiste se seraient hâtés pour admirer les pains de sucre et, dans son enthousiasme, Napoléon aurait décroché sa propre croix de la Légion d’honneur pour en décorer Delessert.
Moralité : dans l’adversité de la guerre et de la pénurie, l’œuvre conjuguée d’un chef d’État volontaire (Napoléon), d’un scientifique compétent (Chaptal) et d’un industriel ingénieux (Delessert), nous aurait offert le premier pain de sucre de betterave – et l’abondance à portée de main.
A peu près tout est faux. En rétablissant certains faits, en observant les autres d’un autre point de vue, on découvre en réalité une sombre affaire de #vol_industriel et de #copinage au plus haut de l’État, suivie d’une lamentable défaite commerciale.


    Napoléon 1er, protecteur de l’agriculture et de l’industrie, Bronze, Henri Lemaire, 1854, Palais des Beaux-arts de Lille.

    Premier mythe : l’urgence du blocus. Dans un article assez complet sur le sucre de betterave, l’historien Ludovic Laloux est formel :
    Prévaut souvent l’idée que le blocus britannique instauré en 1806 aurait empêché de débarquer du sucre dans les ports français et, en réaction, donné l’idée à Napoléon d’encourager la production de sucre à partir de la betterave. Or, la première intervention de l’Empereur en ce sens date de 1811. En fait, dès 1791, la situation saccharifère s’avère plus complexe en Europe avec un effondrement des approvisionnements en sucre de canne [11].

    Pourquoi cet effondrement ?
Dans les remous de la Révolution française, les esclaves de Saint-Domingue s’insurgent fin août 1791 et obtiennent leur affranchissement. La main d’œuvre se rebiffe. Le prix du sucre explose. Il faut s’imaginer Saint-Domingue comme une île-usine, et même la première du monde. 500 000 esclaves produisent à la veille de l’insurrection 80 000 tonnes de canne à sucre par an (à titre de comparaison, 600 000 esclaves travaillent alors dans les colonies américaines) [12]. Une « crise du sucre » éclate immanquablement à Paris en janvier 1792. Les femmes attaquent les commerces, les hommes la police, puis on réclame du pain. Rien d’original. On peut recommencer la scène autant que vous voulez, avec du Nutella ou des paquets de cigarettes.
    
Mais le blocus ? En 1810, quatre ans après son instauration, dans une lettre à son frère Louis-Napoléon, l’empereur doit admettre l’efficacité de la contrebande : « C’est une erreur de croire que la France souffre de l’état actuel. Les denrées coloniales sont en si grande quantité qu’elle ne peut pas en manquer de longtemps, et le sirop de raisin et le miel suppléent partout au sucre [13]. » Le blocus n’inquiète en rien l’empereur.

    Deuxième mythe : l’invention du sucre de betterave. A partir des découvertes du chimiste Andreas Marggraf, son maître, le chimiste prussien Franz Achard, fils de huguenots du Dauphiné et membre de l’Académie royale des sciences, plante ses premières betteraves à sucre en 1796. Le roi Frédéric-Guillaume III lui accorde un terrain et des subsides pour une première raffinerie en 1801. L’Allemagne est la plus avancée dans le sucre local. Son procédé inquiète le gouvernement anglais, producteur et importateur de sucre de canne, qui se lance dans une manœuvre de déstabilisation industrielle. Il tente de soudoyer Achard, contre 50 000 écus d’abord puis 200 000 ensuite, afin que ce dernier publie un article scientifique dénigrant ses propres recherches. L’honnête Achard refuse et il revient au chimiste anglais Humphry Davy d’expliquer combien la betterave sera à jamais impropre à la consommation.

    La « désinformation » paraît fonctionner. En France, l’Académie des sciences sabote ses propres recherches sur la betterave, et Parmentier, le célèbre pharmacien picard qui fit le succès de la pomme de terre, milite encore en 1805 en faveur d’un sucre extrait du raisin.

    Les précurseurs français du sucre de betterave ne sont pas à l’Académie, ni dans les salons impériaux, mais à Lille, à Douai et en Alsace. Leurs Sociétés d’agriculture connaissent depuis longtemps la betterave fourragère et suivent de près les progrès du raffinage de la betterave réalisés en Belgique, aux Pays-Bas et en Allemagne. Le scientifique François Thierry expose ses recherches dans La Feuille de Lille en avril 1810, et récolte ses premiers pains de sucre à l’automne. Expérience concluante au point que le préfet du Nord envoie des échantillons au ministre de l’Intérieur Montalivet le 7 novembre, et cette lettre à M. Thierry : « Votre sucre a la couleur, le grain, le brillant, j’ose dire même la saveur de celui des colonies [14]. » Le ministre Montalivet envoie à son tour remerciements et gratification au Lillois.

    Quelques jours plus tard, le 19 novembre, un pharmacien peu scrupuleux présente devant l’Académie des sciences de Paris deux pains de sucre sortis mystérieusement du laboratoire du chimiste Jean-Pierre Barruel, chercheur à l’École de médecine de Paris. L’affaire est bidon et Barruel confondu en « charlatanisme » par ses pairs [15]. Elle prouve cependant que les milieux scientifiques parisiens s’intéressent à la betterave sucrière.
Au même moment, les commerçants lillois Crespel, Dellisse et Parsy améliorent les procédés d’Achard, d’abord en séparant le sucre de la mélasse grâce à une presse à vis, puis en utilisant le charbon animal (de l’os calciné) pour blanchir le sucre [16]. Ils remettent leur premier pain de sucre en décembre 1810 au maire de Lille, M. Brigode, puis installent leur sucrerie rue de l’Arc, dans le Vieux-Lille. En février 1811, un pharmacien lillois du nom de Drapiez parvient également à tirer deux pains de sucre de qualité.

    Le 10 janvier, le ministre Montalivet vante auprès de l’empereur les progrès du sucre de betterave… dans les pays germaniques, sans mentionner les Lillois. Quand deux mois plus tard, Napoléon (aidé de Chaptal) publie son fameux décret à un million de francs, il sait qu’à Lille on fabrique des pains de sucre de qualité commercialisable.

    Troisième mythe : l’empereur visionnaire. Pour saisir l’entourloupe, il faut s’attarder sur la culture de la betterave. La betterave se plante fin mars. Un campagne de production suivant un décret signé le 25 du même mois n’a donc aucune chance de réussir. Il aurait fallu de surcroît disposer d’un stock de graines que la France ne possède pas : la betterave est bisannuelle, elle fleurit une année, et ne donne des graines que l’année suivante.
Aussi, connaissant la nature assez peu aventureuse des paysans, il est compréhensible que ceux-ci s’abstiennent de cultiver en grande quantité, et du jour au lendemain, une espèce inconnue. Enfin, le peu de betteraves récoltées à l’automne 1811 s’entasse devant des raffineries inexistantes ou des raffineurs encore incompétents.
    
Bref, la planification de la betterave à sucre ressemble davantage à un caprice d’empereur qu’à une décision mûrement établie par un technocrate visionnaire. Dans son rapport du 30 décembre 1811, Montalivet doit masquer le fiasco. C’est alors que Napoléon se tourne vers #Chaptal pour sa politique sucrière.

    Quatrième mythe : l’épisode de l’intrépide Benjamin Delessert. Jean-Antoine Chaptal est en 1811 un chimiste réputé, professeur à l’école Polytechnique, membre de l’Académie française, mais aussi l’ancien ministre de l’Intérieur de Napoléon de 1801 à 1804 – auteur de cette loi qui instaura le département, l’arrondissement, le canton, et la commune. Chaptal est enfin un industriel d’acide sulfurique, et le propriétaire depuis 1806 de terres et d’une raffinerie de betterave à sucre dans l’Indre-et-Loire. C’est en bref, au sens le plus actuel du mot un technocrate polyvalent. Tout à la fois scientifique, politique et entrepreneur, jouant successivement et simultanément de ces diverses compétences.
    
Un autre historien résume la politique betteravière française : « Non seulement il [Chaptal] est à l’origine de tous les décrets qui lui ont donné naissance mais encore il l’a pratiquée lui-même à Chanteloup, sur ses propres terres, dès 1806 [17]. » Un banal conflit d’intérêts.
Chaptal a pour ami proche Benjamin Delessert, riche banquier issu d’une riche famille suisse et calviniste de banquiers, propriétaire d’une usine textile à Passy. Sa mère était amie avec Benjamin Franklin, et lui-même rencontra Adam Smith et James Watt pendant son voyage d’études en Écosse. Delessert fut maire du 3ème arrondissement de Paris en 1800 et avait déjà monté une raffinerie de sucre de canne en 1801 alors que son cousin Armand œuvrait lui-même dans le raffinage, à Nantes, avec Louis Say (future #Béghin-Say, future Tereos). En 1801, Delessert avait aidé Chaptal, alors ministre de l’Intérieur, à monter sa Société d’encouragement pour l’industrie nationale, puis avait été nommé Régent de la Banque de France en 1802. Voilà le C.V. de nos deux combinards quand l’empereur s’apprête à soutenir la production betteravière de son premier décret.

    A la fin de l’année 1811, la raffinerie du Vieux-Lille a déjà produit 500 kilos de sucre, et elle en produira 10 000 l’année suivante. Ainsi…

    Lorsqu’en 1812, Derosne [un chimiste proche de l’Empereur] et Chaptal arrivèrent à Lille avec mission d’y installer une sucrerie, leur surprise fut extrême en apprenant, dès leur arrivée, que le problème était résolu et que la petite fabrique de Crespel et Parsy fonctionnait depuis près de deux années. Ils s’en retournèrent à Paris, mais il ne paraît pas qu’ils aient averti Napoléon de ce qu’ils avaient vu, car les industriels lillois n’entendirent point parler de la récompense promise. Celle-ci fut décernée, la même année, à B. Delessert qui, occupé des mêmes recherches, obtint, mais deux ans plus tard, les mêmes résultats que Crespel et Parsy. […] Il est bon de constater qu’au moment même où Delessert était supposé découvrir le moyen de tirer du sucre de la betterave en 1812, Crespel et Parsy livraient déjà régulièrement leurs produits, à raison de 10 000 kilogrammes par an, à la consommation, précise un Dictionnaire encyclopédique et biographique de l’Industrie et des arts industriels de 1883 [18].

    Quand Napoléon débarque chez Delessert, celui-ci vient d’extraire 74kg de sucre à partir de cinq tonnes de betteraves, soit la quantité produite un an auparavant par les Lillois. Le duo Chaptal-Delessert semble bien avoir intrigué pour se réserver le million à investir dans le sucre. En 1812, Chaptal double ses terres de betterave, qui passent à cinquante hectares. Il y récolte vingt tonnes par hectare, emploie seize personnes, et prétend utiliser le procédé inventé par Delessert.
Delessert quant à lui ajoute le sucre de betterave à ses multiples affaires. Il fondera en 1818 la Caisse d’Épargne et – comme cette histoire est décidément riche de ricochets ! – notre populaire Livret A.

    Cinquième et dernier mythe : le Plan qui créa la filière. Le 15 janvier 1812, Napoléon signe un second décret qui cette fois réserve 100 000 hectares de terres à la betterave, offre 500 licences de raffinage, et crée quatre raffineries impériales. La France doit trouver 500 tonnes de graines qu’elle n’a pas, et les paysans sont d’autant plus réticents que la campagne précédente fut désastreuse. Seuls 13 000 hectares sont plantés. La récolte atteint péniblement 1,5t de sucre, 27 % de plus que l’année précédente.
    
L’impérial fiasco de Napoléon cesse là. La guerre l’appelle, il perd et abdique au printemps 1814. Les rois Bourbons installent leur Restauration. Fin du blocus. La politique betteravière française est enterrée. Les faillites se multiplient. Seul le Nord continue de planter de la betterave sucrière, et le Lillois Crespel, parti à Douai, demeure longtemps l’unique fabricant de sucre de betterave de France. Il résiste tant et si bien au « lobby » du sucre colonial qu’un boulevard porte aujourd’hui son nom à Arras, où trône sa statue. Le mythe napoléonien est quant à lui bien plus répandu. On doit au patronat lillois, en 1854, un bronze de Napoléon premier du nom, aux pieds duquel sont gravés les décrets relatifs à la betterave, ainsi qu’une grosse betterave. La statue est restée jusqu’en 1976 au milieu de la Vieille Bourse, sur la Grand’Place de Lille, avant d’être remisée dans la rotonde Napoléon du Palais des Beaux-Arts.

    Si l’invention du sucre de betterave par Napoléon est devenue un mythe au XIX° siècle, il s’agit d’abord d’un mythe patronal.

    On peine à le saisir, mais la « question des sucres » est pendant la première moitié du XIX° siècle un sujet politique des plus épineux. Le roi Louis-Philippe taxe le « sucre indigène » en 1838 et va jusqu’à menacer d’interdiction le commerce de betterave. La bataille est commerciale autant qu’idéologique. Avec la canne à sucre, les armateurs, les ports et les propriétaires coloniaux défendent les rentes de leur vieille économie agraire/féodale, et donc la monarchie. Avec le « sucre indigène » extrait de la betterave, les industriels défendent une nouvelle économie plus dynamique, plus scientifique, plus moderne, et donc un système politique bourgeois. Contre les monarchistes, les rentiers, les esclavagistes, et les Anglais : la betterave !

    Louis-Napoléon publie en 1842, depuis sa geôle picarde du fort du Ham, une Analyse de la question des sucres [19]. Faut-il favoriser le travail des esclaves ou celui des ouvriers français libres ? « Il est impossible d’arrêter la marche de la civilisation, répond le futur empereur, et de dire aux hommes de couleur qui vivent sous la domination française : ‘’Vous ne serez jamais libres.’’ » Vive la betterave.

    Alors que la production française ne passe que de 4 000 tonnes de sucre en 1814 à 10 000 en 1830, la production décolle avec l’arrivée de Louis-Napoléon sur le trône. De 26 000 tonnes en 1841, elle passe à 92 000 tonnes en 1850, monte à 381 000 à la fin de l’empire en 1870, pour atteindre le million en 1900, avant que la guerre 14-18 ne détruise 75 % des sucreries, concentrées dans le nord de la France [20].
Si l’actuelle union sacrée de la betterave devait déposer une gerbe aux pieds d’un empereur, c’est à ceux de Louis-Napoléon III qu’il faudrait la déposer, tant la production betteravière explose sous le second empire.
    Les promesses de paradis terrestre à Escaudœuvres et dans le monde
    En septembre 2022, deux ans après la catastrophe, et à quelques semaines du procès, la Direction régionale des affaires culturelles (la DRAC) envoie ses artistes en résidence dans le Cambrésis pendant six mois pour « une série d’actions permettant aux habitants une meilleure appréhension et compréhension de la sucrerie d’Escaudœuvres et de son ‘’écosystème’’ dans le cadre des 150 ans ». 

    Que peut-on attendre d’un « laboratoire original d’action culturelle patrimoniale » en lien « avec la sucrerie et les tissus agricole et économique », sinon une couche de caramel sur un tas d’ordures [21] ?
Des questions se posent, trop simples sans doute pour les esprits raffinés. En un siècle et demi, la sucrerie a-t-elle fait d’Escaudœuvres un pays de Cocagne pour habitants comblés ? Vivait-on mieux dans la région, ou moins bien, avant la monoculture de la betterave ? Quel bilan tirer de l’industrie alimentaire pour le canton, pour la région et pour le monde ?

    Imaginons que vous rejoigniez Cambrai en voiture depuis Amiens : que vous preniez l’autoroute à Péronne ou la nationale par Albert, vous traversez la même désolante plaine agro-industrielle, une terre lourde désertifiée aux herbicides en hiver, rythmée non par des haies mais par des éoliennes. Certains villages de ce coin perdu de la Somme semblent ne devoir leur survie qu’à quelques propriétaires d’exploitations, dont on compte le nombre d’hectares en centaines. A peine les villages autour de Pozières accueillent des touristes anglais, canadiens et australiens, dans leur Musée de la guerre 14 et leurs innombrables cimetières militaires. On conseille la visite pendant les neuf mois d’hiver. Notre tableau n’est certes pas bucolique, mais les offices du tourisme ne participent pas non plus aux concours du plus beau village de France.

    Arrivés sur place, Escaudœuvres n’est séparée de Cambrai que par la zone commerciale, aujourd’hui le premier employeur de la ville, avec ses restaurants de « bouffe rapide » et sucrée bourrés les mercredis et week-ends. Escaudœuvres est une zone-village sans attrait, s’étirant le long de la départementale 630, qui elle-même longe l’Escaut, qui lui-même s’en va mourir en Mer du nord sous le toponyme flamand de Schelde. La sucrerie fut longtemps le cœur battant du village, qui vit au rythme des récoltes depuis 150 automnes. Mais à côté de la sucrerie et de la zone commerciale, Escaudœuvres est également connue pour sa fonderie Penarroya-Metalleurop qui rejetait avant sa fermeture en 1998 une tonne de plomb dans l’air tous les ans. Une digue, encore une digue, avait cédé en 1976, décimant les troupeaux alentours et interdisant la consommation des légumes« Pollution par le plomb près de Cambrai », [22]. Pour tout souvenir indélébile de l’épopée métallurgique, les riverains sont depuis le début du mois de juillet 2023 invités à un dépistage de plombémie dans le sang [23]. La fonderie est devenue une usine de « recyclage » de batteries de voitures électriques. Si la filière est d’avenir, elle en aura toujours moins que le saturnisme, la maladie du plomb.

    La Sucrerie centrale de Cambrai fut fondée en 1872 par l’inventeur de la râpe à betterave, l’ingénieur des Arts et Métiers Jules Linard [24]. Son invention lui offre un avantage compétitif sérieux. La sucrerie d’Escaudoeuvres est réputée la plus grande du monde avant sa destruction en 1914. Reconstruite et modernisée grâce aux indemnités des dommages de guerre, elle est rachetée par Ferdinand Béghin en 1972, alors patron du sucre et de la presse de droite. Un C.V. s’impose :
La famille Béghin raffine du sucre depuis que Ferdinand 1er (1840-1895) s’est vu léguer la raffinerie de Thumeries en 1868, dans le Pas-de-Calais. Ses fils Henri (1873-1945) et Joseph (1871-1938) font prospérer l’entreprise : ils rachètent plusieurs sucreries dans la région, et construisent à Corbehem en 1926 leur propre papeterie-cartonnerie, pour assurer eux-mêmes l’emballage. 

    Ce faisant, pourquoi ne pas fabriquer aussi des journaux ?, leur suggère le patron roubaisien du textile et des médias Jean Prouvost (1885-1978). Banco : voilà un marché porteur. Le groupe #Béghin prend la moitié de Paris-Soir, de Marie Claire et de Match vers 1936-1938, si bien qu’il doit acheter 34 000 hectares de forêt en Finlande pour couvrir ses besoins de papier. 

    Pendant ce temps, le village de Thumeries est devenu une « ville-usine », une coopérative géante dominée par la main paternelle des Béghin. Entre leurs cinq châteaux, ils construisent les logements de leurs ouvriers, mais aussi leur stade de foot, leur gymnase leur piscine, leur club de basket, et rénovent encore leur église après les bombardements de 1940. Les Béghin emploient, logent, distraient leur main d’œuvre, qui les gratifie du poste de maire à plusieurs reprises. L’enfermement industriel si répandu dans les corons.

    La papeterie-cartonnerie de Corbehem, où l’on fabrique le papier magazine satiné, surclasse la concurrence, et Ferdinand le jeune (1902-1994) investit à son tour dans l’édition. Il prend en 1950 le contrôle de Paris-Match, Le Figaro et Télé 7-jours, en même temps qu’il devient leader du marché des mouchoirs, papiers toilette, et serviettes hygiéniques (Lotus, Vania, Okay). Sucre et papier, de la bouche au c… cabinet.
    
Bref, Ferdinand Béghin s’associe à la famille Say en 1972 pour créer le groupe Béghin-Say. Mais les investissements hasardeux s’enchaînent, le groupe familial se délite, et finit racheté par son banquier historique Jean-Marc Vernes – intime de Serge Dassault et de Robert Hersant, argentier de la presse de droite et du RPR, trafiquant en tous genres, et notamment d’influence.

    Les grandes manœuvres capitalistes se poursuivent. Béghin-Say passe sous la coupe du chimiste italien Ferruzzi en 1986, puis de l’autre groupe chimique italien, Montedison, en 1992. L’entreprise s’installe au Brésil en 2000 alors que les betteraviers réorganisent, en 2003, leur activité sucrière sous la forme coopérative et sous le nom de Tereos. Investie dans la canne à sucre, la coopérative peut prendre part à la déforestation de l’Amazonie, à la culture de canne transgénique [25], à la perpétuation de l’esclavage [26]. Tereos est aujourd’hui le deuxième producteur mondial de sucre, présent sur les cinq continents, en République tchèque, à La Réunion, en Indonésie, au Kenya, en Inde, pour produire du sucre et des dérivés comme le glucose, l’amidon, l’éthanol, etc.

    Dans les Hauts-de-France, près de la moitié des agriculteurs produisent de la betterave à sucre, qui rapporte à elle seule 350 millions d’euros à la région tous les ans. Cette manne sucrière alimente ensuite la filière régionale des chocolateries, sucreries et sodas, fournissant par exemple Coca-Cola à Dunkerque à raison de 42 morceaux de sucre par bouteille de deux litres, mais aussi les usines Cémoi (Dunkerque et Villeneuve d’Ascq), Häagen-Dazs (Arras), Nestlé (Nesquik, Chocapic, Lion, Kitkat, près de Saint-Quentin), et encore Ferrero (Nutella, Kinder, à Arlon en Belgique) – une filière aussi prospère que des salmonelles dans des œufs Kinder. Coïncidence ou non : l’obésité touche presque un quart de la population des Hauts-de-France (22 %), soit cinq points de plus que la moyenne nationale. Le haut du podium.

    Revenons à Escaudœuvres et longeons le canal un instant. D’un côté les poules d’eau font connaissance, de l’autre les bassins de rétention de l’usine s’étendent sur deux kilomètres derrière les talus. Ce sont les bassins de rétention éventrés en mai 2020. Et si ça pue autant la pourriture pourrie, « c’est à cause des bassins, nous confirme un promeneur. Et encore, c’est pire pendant les 120 jours de la campagne ! »
    
Lui prétend s’être habitué – mais on s’habitue à tout. Notre promeneur est « né à Escaudœuvres en face de la sucrerie ». Étudiant en chimie, il attendait une réponse de Tereos pour un stage, réponse qui ne viendra plus. Il désigne les cuves rutilantes « qui n’ont peut-être jamais servi », et la nouvelle chaudière à gaz en remplacement de celle à charbon : 24 millions d’investissements en 2021 « pour que ça ferme », conclut-il dépité. Mais il a son explication :

    Tout ça, c’est à cause des écolos, pour faire bonne figure. Ça a été décidé là-haut. On est le seul pays à interdire les néonicotinoïdes. D’un côté ça va faire tomber la production, et la sucrerie ne sera plus rentable ; de l’autre la France va acheter du sucre aux pays qui peuvent encore utiliser des pesticides, et on sera encore moins rentables.

    Ce sont les mots de l’industriel, du syndicat de la betterave, et des gens du coin – qu’il s’agit de vérifier : la Cour de justice européenne n’accorde ni à la Belgique ni à l’Allemagne ni à la Pologne de dérogation sur les néonicotinoïdes. En revanche l’importation de sucre aux néonicotinoïdes hors de l’UE semble en effet autorisée, et des discussions seraient en cours au Parlement pour aligner les réglementations.

    Quoi qu’il en soit : que l’on considère l’interdiction des néonicotinoïdes, ces « tueurs d’abeilles », comme une victoire ou une défaite, cette histoire aux mille rebondissements tend à masquer tout le reste des produits « phytos » qui entrent dans la production de sucre, d’alcool, de carburant ( #bioéthanol ), et de gel hydroalcoolique produits à partir de la betterave. Or, les trois départements qui en France consomment le plus de produits cancérigènes, mutagènes et reprotoxiques - ces substances dites « CMR » parmi les plus meurtrières du catalogue -, sont la Somme, le Pas-de-Calais et le Nord. En cause : la pomme de terre, la plus consommatrice, et la betterave, juste derrière.
    
Quant aux herbicides, le Ministère nous informe que « L’Oise tout comme l’Aisne, la Marne et la Somme sont les quatre premiers départements en terme de superficie de culture de betteraves. Or, [...] la culture de betteraves reçoit un nombre moyen de traitements en herbicides très élevé par rapport à d’autres cultures (13,7 contre 2,9 sur le blé tendre par exemple) [27]. »

    Le plus épandu est le fameux #glyphosate, que les coopérateurs de la betterave défendent avec acharnement. Tout comme ils défendaient dernièrement le s-métolachlore, un herbicide si persistant dans les nappes phréatiques qu’il devrait interdire de consommation l’eau des deux tiers des robinets de la région, logiquement la plus touchée [28], 11 avril 2023.]]. À peine son interdiction évoquée par l’Agence sanitaire nationale (ANSES) que la Confédération générale de la Betterave, le syndicat de la corporation, s’insurgeait contre la « longue liste des moyens de productions retirés progressivement aux agriculteurs, obérant ainsi leur capacité à exercer leur rôle premier : nourrir les populations [29]. » Le ministre de l’agriculture Marc Fresnau leur a déjà garanti plusieurs années de S-metolachlore.

    Cette interdiction des néonicotinoïdes révèle le bourbier où pataugent les scientifiques, les journalistes scientifiques, comme les associations environnementales : l’interdiction des néonicotinoïdes, votée à l’Assemblée nationale le 15 mars 2016, n’est effective que depuis janvier 2023... sous pression de Bruxelles ; et après les dérogations successives du ministre actuel de l’agriculture et de la précédente ministre de l’environnement Barbara Pompili (une autre Amiénoise). Cette interdiction fut arrachée après plus de dix années de voltes-faces politiques, de pseudo-controverses scientifiques, de coups de pression des syndicats agricoles, et de menaces sur l’emploi.

    Si pour chaque molécule, le spectacle médiatique et parlementaire doit mettre en scène ses expertises et contre-expertises, discutailler les protocoles et les résultats, la sixième grande extinction nous aura fauché que l’expertocratie bruxelloise n’aura pas encore tranché le cas du glyphosate. D’ailleurs cette digue de papier qu’on appelle « Droit de l’environnement », comme d’autres digues, n’empêche pas Tereos, au Brésil par exemple, de poursuivre ses épandages aériens d’Actara 750 SG, un insecticide interdit depuis 2019 [30]. Le sucre industriel est essentiellement catastrophique, de sa culture à sa transformation jusqu’à sa consommation.

    Poser les questions de nos besoins en sucre, de l’automobile à betterave, de l’utilité de Tereos pour les Hauts-de-France et de la filière agro-alimentaire pour l’Humanité, et plus généralement encore du modèle industriel qui domine la région et le monde depuis deux cents ans, nous feraient sans doute gagner du temps. Mais ce qui nous ferait gagner du temps, leur ferait perdre de l’argent. Encore une fois, leurs profits et nos emplois valent plus que nos vies.

    L’industrie – mines, filatures, chemins de fer, hauts fourneaux, sucreries –, s’est développée tout au long du XIX° dans un acte de foi promettant l’avènement du paradis terrestre. Acte de foi répété aussi bien par les économistes libéraux que communistes, par les partisans du roi que par ceux de l’empire ou de la république. Deux-cents ans plus tard, avec des taux de chômage, de pollution, et de maladies associées parmi les plus hauts du pays, le paradis terrestre s’avère être un enfer – et nous devrons encore gérer des déchets mortellement radioactifs, ceux de Gravelines par exemple, pendant des milliers d’années.

    Voilà ce que nul élu local – et surtout pas François Ruffin –, parfaitement informé des nuisances de la société industrielle, ne peut ignorer. Voilà pourtant ce que le candidat à la prochaine élection présidentielle, « biolchevique » revendiqué et partisan de l’alliance « rouge/verte », entre « sociaux-démocrates » et écologistes, ouvriers et petits-bourgeois, a pris soin de dissimuler à ses lecteurs et électeurs depuis vingt-cinq ans. A tort d’ailleurs, toutes ces choses vont sans dire chez les gens du Nord comme chez ceux du Sud. Tout ce qui leur importe c’est la pâtée, bien sucrée, et des écrans pour se distraire en digérant. Le pouvoir et l’élu qui peuvent tenir cette double-promesse n’auront jamais de problème avec sa population et ses électeurs.
    Tomjo
    Notes
    [1] « Nos betteraviers sont des tueurs », Chez Renart, 13 janvier 2023.
    [2] France Bleu Nord, 12 janvier 2023.
    [3] « De l’Escaut à l’Amazonie : Beghin-Say ou la catastrophe permanente », Chez Renart, 10 mai 2020.
    [4] ericbocquet.fr
    [5] Le Monde, 24 juin 2023.
    [6] Cf. Métro, Boulot, Chimio, Collectif, Le monde à l’envers, 2012. Cancer français : la récidive. A propos d’Ecopla et de l’aluminium, Pièces et main d’œuvre, 2016. D’Amiens nord à Blanquefort, délivrons les ouvriers, fermons les usines, Tomjo, Pièces et main d’œuvre, 2017.
    [7] Cf. le film Morts à 100 % : post-scriptum, de Tomjo et Modeste Richard, 45 mn, 2017. Ou encore La foi des charbonniers, les mineurs dans la Bataille du charbon, 1945-1947, Evelyne Desbois, Yves Jeanneau et Bruno Mattéi, Maison des sciences de l’homme, 1986.
    [8] « Quand Napoléon engageait la bataille du sucre », 31 janvier 2023.
    [9] « La Bataille du sucre », Le Monde, 10 septembre 2007.
    [10] Fakir, mai-juin 2023.
    [11] « La bataille du sucre ou la défaite méconnue de Napoléon Ier », Ludovic Laloux, Artefact, 2018.
    [12] « Histoire : les Antilles françaises, le sucre et la traite des esclaves », Futura sciences, 10 janv. 2019.
    [13] Cité par Ludovic Laloux, art. cit.
    [14] Idem.
    [15] Lettre d’Andriel et Wolft au ministre de l’Intérieur, 18 juillet 1813, citée par Laloux, art. cit.
    [16] L’Industrie sucrière indigène et son véritable fondateur, Pierre Aymar-Bression, 1864.
    [17] « Le sucre de betterave et l’essor de son industrie : Des premiers travaux jusqu’à la fin de la guerre de 1914-1918 », Denis Brançon, Claude Viel, Revue d’histoire de la pharmacie, n°322, 1999.
    [18] Dictionnaire encyclopédique et biographique de l’Industrie et des arts industriels, Vol. 3, art. « Louis Crespel », Eugène-Oscar Lami, 1883. On peut lire aussi L’Industrie sucrière indigène et son véritable fondateur, op. cit.
    [19] A retrouver ici.
    [20] « Le sucre de betterave et l’essor de son industrie... », art. cit.
    [21] Appel à candidature « Une sucrerie, un territoire », culture.gouv.fr, 29 juillet 2022.
    [22] Le Monde, 25 mars 1977.
    [23] La Voix du nord, 12 juillet 2023.
    [24] Jules Linard (1832-1882), multi-propriétaire de sucreries, est l’inventeur de la râpe à betterave, toujours utilisée aujourd’hui, pour laquelle il fut récompensé lors de l’Exposition universelle de 1878.
    [25] « De l’Escaut à l’Amazonie... », art. cit.
    [26] « Des plantations brésiliennes accusées de travail forcé fournissent l’Europe en sucre », Le Monde, 31 déc. 2022.
    [27] « État des lieux des ventes et des achats de produits phytopharmaceutiques en France en 2020 », mars 2022.
    [28] « Eau du robinet : les Hauts-de-France est la région où les concentrations de pesticides sont les plus élevées », [[France bleu Nord
    [29] cgb-france.fr, 16 février 2023.
    [30] « Au Brésil, les géants du sucre responsables d’une pluie toxique », Mediapart, 25 avril 2023.

    Source : https://renart.info/?La-betterave-la-gauche-le-peuple-et-nous

  • La betterave, la gauche, le peuple - et nous
    https://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?article1863

    Le 12 janvier 2023, la coopérative sucrière Tereos est condamnée à une amende record d’un demi-million d’euros pour l’écocide de l’Escaut en 2020 (voir ici). Que ce soit au moment de la catastrophe, lors de l’audience en décembre 2022, ou du délibéré quelques semaines plus tard, on n’a vu ni le député local ni le maire exiger des comptes du deuxième groupe sucrier mondial devant une foule vengeresse. Non plus qu’on n’a entendu le « député reporter » François Ruffin, dans sa cuisine ou aux portes de l’usine, dénoncer les méfaits du sucre sur la santé et de Tereos sur la vie. On n’a pas vu le ministre de l’industrie Renaud Lescure taper du poing en sous-préfecture, ni Xavier Bertrand, président du Conseil régional, défiler dans les rues. Le président des Hauts-de-France préférant manifester à Paris le 7 (...)

    https://chez.renart.info/?Nos-betteraviers-sont-des-tueurs #Nécrotechnologies
    https://www.piecesetmaindoeuvre.com/IMG/pdf/la_betterave_et_nous.pdf

  • Les arrêts-maladies « de complaisance » ont-ils explosé, comme l’affirme le président du Medef, Geoffroy Roux de Bézieux ?
    https://www.francetvinfo.fr/vrai-ou-fake/vrai-ou-fake-les-arrets-maladie-de-complaisance-ont-ils-explose-comme-l
    Le patronat accuse les malades de fraude sociale. On connaît la chanson, mais la brutalité des accusations est surprenante.

    Si les arrêts de travail ont bien augmenté de 30% en trois ans, cette hausse s’explique par plusieurs facteurs tels que la pandémie de Covid-19, ou encore les troubles psychologiques.

    La France est-elle touchée par une épidémie d’arrêts-maladies ? Invité de BFMTV, vendredi 16 juin, Geoffroy Roux de Bézieux, a dénoncé une « explosion des arrêts de travail courte durée : plus 30% ».

    « Il faut dire les choses : ce sont des arrêts de travail qui explosent, notamment le lundi et le vendredi », a continué le président du Medef, critiquant « des arrêts de travail de complaisance ». Dit-il vrai ou fake ? Franceinfo s’est penché sur la question.

    Au regard des chiffres officiels, la hausse des arrêts-maladies est une réalité. Selon le ministère de l’Economie, il y en a eu 8,8 millions en 2022, contre 6,4 millions dix ans plus tôt, soit une hausse de 37,5%. Cette tendance se confirme sur les trois dernières années. D’après le Centre technique des institutions de prévoyance (CTIP), qui fédère les assurances complémentaires pour la santé, le nombre d’arrêts de travail a augmenté de 30% entre 2019 et 2022. En outre, les prestations versées à ce titre « ont augmenté de 12% », précise le CTIP dans un communiqué* publié le 15 juin.

    L’assureur AXA, qui analyse l’absentéisme national depuis quatre ans, dresse un constat similaire. D’après ses chiffres, la fréquence des arrêts de travail a bondi de 54% entre 2019 et 2022. L’absentéisme a même atteint un niveau record en 2022, selon son baromètre publié en mai* : l’an dernier, 44% des salariés s’arrêtaient au moins une fois dans l’année, contre 30% en 2019. Sur cette même période, la part d’arrêts d’une durée de quatre à sept jours a bondi, passant de 24,9% à 36,7%.

    La hausse est réelle, mais les motifs sont-ils justifiés ? Selon Yves Hérault, directeur AXA Santé & Collectives, cette envolée peut s’expliquer par « les vagues épidémiques dues notamment à Omicron », variant du Covid-19 particulièrement contagieux. Mais « ces vagues n’expliquent pas tout », tempère-t-il dans le rapport. Il évoque une hausse plus marquée chez les plus jeunes et les cadres « qui, jusque-là, s’arrêtaient habituellement moins ». En effet, le taux d’absentéisme a progressé de plus de 50% chez les moins de 30 ans entre 2019 et 2022, selon le document.

    Pour Katell Clère, directrice technique notoriété et innovation chez AXA, « la principale cause d’arrêts de travail de longue durée reste les troubles psychologiques, sujet en constante augmentation depuis plus de trois ans. » Citée dans le baromètre, elle estime que « les entreprises ont un rôle essentiel à jouer dans la prévention des troubles psychologiques. »

    D’après un autre baromètre*, réalisé par l’institut de sondage Ifop pour la mutuelle-santé Malakoff-Humanis, 50% de salariés ont été arrêtés au moins une fois dans l’année en 2022. Parmi les motifs, toutes durées confondues, la « maladie ordinaire » arrive en tête (28%), en forte progression. Le Covid-19 se place en deuxième position (17%), devant les troubles psychologiques (15%) et les troubles musculo-squelettiques (13%).

    Interrogée par l’AFP, Marie-Laure Dreyfuss, déléguée générale du CTIP, s’est alarmée d’une hausse des arrêts de travail « structurelle » plutôt que « conjoncturelle ». En effet, si cette augmentation a pu s’expliquer lors de la pandémie, il est plus difficile de la comprendre aujourd’hui. La déléguée générale émet plusieurs hypothèses pour expliquer ces arrêts : des « problèmes psy » comme le « burn-out », ou la « dépression post-Covid ». Elle constate également une augmentation nette des arrêts de travail des moins de 45 ans « dans certains secteurs ». Outre les jeunes, ce sont les femmes et les cadres qui sont de plus en plus concernés, précise le CTIP.

    Géraldine Mandefield, dirigeante de la filiale d’AXA Verbateam, spécialisée dans la prévention et la santé, évoque dans le baromètre de l’assureur « une dégradation de la santé mentale et physique » liée à la pandémie. La crise du Covid-19 « a accéléré la sédentarité des salariés qui perdure notamment avec la banalisation du télétravail plusieurs fois par semaine ».

    En revanche, aucun des baromètres consultés par franceinfo ne précise si les arrêts sont pris le lundi ou le vendredi, comme l’avance Geoffroy Roux de Bézieux. Il est donc réducteur de la part du représentant des chefs d’entreprise français de suggérer que cette hausse est liée à des « arrêts de complaisance ».

    Pour autant, face à cette hausse, le gouvernement s’inquiète pour les finances publiques. Le ministre délégué aux Comptes publics, Gabriel Attal, a déploré « l’explosion des arrêts-maladies » lors d’une audition au Sénat, le 14 juin. En effet, selon sa Caisse nationale*, le montant des indemnités journalières remboursées par l’Assurance-maladie a augmenté de 15,2% en 2022, pour atteindre 15,7 milliards d’euros. Si cette tendance se poursuit, « on sera à 23 milliards d’euros par an en 2027 », anticipe le ministre.

    En septembre 2022, il avait déjà annoncé vouloir s’attaquer aux arrêts de travail délivrés en téléconsultation par un praticien autre que le médecin traitant. Un encadrement retoqué trois mois plus tard par le Conseil constitutionnel. Dans son plan présenté en mai pour lutter contre la fraude sociale, Gabriel Attal prévoit « un programme national de contrôle des arrêts de travail » par l’Assurance-maladie dès la rentrée. Parmi les certificats ciblés, « les faux arrêts du lundi (...) ou du vendredi » mis en cause par le patron du Medef, ainsi que ceux « qui ne s’accompagnent d’aucune prescription de soins ou de médicaments », a-t-il déclaré devant le Sénat, sans toutefois quantifier la part de ces arrêts de complaisance.

    Par ailleurs, grâce à son plan présenté lundi pour redresser les finances publiques, Bercy espère économiser 10 milliards d’euros d’ici à 2027, dont « plusieurs centaines de millions d’euros » rien qu’en s’attaquant aux abus sur les arrêts de travail. La traque a déjà débuté : les premiers courriers d’avertissement ont été envoyés par l’Assurance-maladie aux médecins prescrivant plus que la moyenne.

    Dans un entretien au Parisien, Gabriel Attal évoquait « 30 millions d’euros de fraudes aux arrêts de travail » sous le précédent quinquennat. Un chiffre relativement faible au regard des 4,15 milliards d’euros de fraude à l’Assurance-maladie observés chaque année, selon les estimations de la Cour des comptes.

    #france #maladie #exploitation #iatrocratie

  • Au Grand Prix de formule 1 de Monréal, « il y a une demande pour des filles de plus en plus jeunes » Philippe Granger - Radio Canada

    Plus les années passent, plus le phénomène de l’exploitation sexuelle durant le Grand Prix du Canada devient un secret de Polichinelle. « C’est inacceptable », martèle de fait la mairesse de Montréal, Valérie Plante, en parlant de cette situation.

    Jugeant qu’“avec la prostitution, la traite des femmes n’est jamais très loin”, la mairesse est catégorique.

    « Que la ville de Montréal soit reconnue comme une ville festive, on s’en réjouit, mais ça ne peut pas être fait sur le dos des femmes et des filles. »
    -- Une citation de Valérie Plante, mairesse de Montréal

    Si Valérie Plante affirme que l’éducation et la sensibilisation sont mises en avant à longueur d’année, la mairesse admet qu’il faut aller plus loin encore et approfondir la collaboration avec les acteurs du milieu.

    L’idée selon laquelle le Grand Prix de Montréal est un pôle d’attraction de la prostitution est de plus en plus répandue au sein de la classe politique, comme dans des organisations d’aide aux victimes d’agression sexuelle.

    “C’est le coup d’envoi de la saison des festivals”, explique Jennie-Laure Sully, organisatrice communautaire à la Concertation des luttes contre l’exploitation sexuelle (CLES).
    Jennie-Laure Sully, organisatrice communautaire à la CLES


    Photo : Radio-Canada / Ivanoh Demers

    Jennie-Laure Sully admet toutefois que ce phénomène n’est pas unique ni au Grand Prix ni à Montréal.

    “C’est le cas lors du Superbowl aux États-Unis ou lors du Mondial de soccer dans différentes villes”, donne-t-elle en guise d’exemples.

    “Il y a une demande accrue lors de ces grands événements. Les proxénètes cherchent à répondre à la demande de ces hommes-là qui cherchent des femmes et des filles”, explique-t-elle.

    « Il y a une demande pour des filles de plus en plus jeunes. »
    -- Une citation de Jennie-Laure Sully, organisatrice communautaire à la Concertation des luttes contre l’exploitation sexuelle (CLES)

    Mme Sully souligne que le Grand Prix peut facilement devenir une porte d’entrée à la prostitution.

    “Il y a toutes sortes d’annonces douteuses. Des annonces pour être hôtesse, où finalement c’est pour être plus qu’hôtesse...”, précise-t-elle.

    Elle ajoute par ailleurs que la fin de semaine de formule 1 fait place à beaucoup de “traite” interne et internationale.

    “On le décrie, on le dénonce depuis des années”, souligne le Grand Prix
    Le promoteur du Grand Prix de formule 1 du Canada, François Dumontier


    Photo : Radio-Canada / Ivanoh Demers

    En entrevue à l’émission Tout un matin, le promoteur du Grand Prix du Canada, François Dumontier, a partagé son indignation face au phénomène.

    “On le dénonce, affirme-t-il, mais malheureusement, on ne peut pas toujours savoir ce qui va se dérouler [en privé].”

    « Nous, on contrôle ce qui se déroule sur le circuit. »
    -- Une citation de François Dumontier, promoteur du Grand Prix du Canada

    M. Dumontier signale toutefois que de l’affichage et des messages pour sensibiliser les visiteurs sont disposés sur les lieux du Grand Prix.

    Marie-Michelle Desmeules, une survivante d’exploitation sexuelle, souhaite qu’on s’attaque à ce fléau.

    Une motion adoptée en guise de rappel
    Le promoteur du Grand Prix du Canada a salué l’initiative Sois un homme, pas un graineux.

    “Ce que j’aime dans la campagne, c’est que, pour une fois, [on] reconnaît que ce n’est pas seulement [durant] le week-end du Grand Prix [qu’il y a de l’exploitation sexuelle]”, juge le patron de l’événement.

    « C’est un phénomène qui se déroule à l’année longue. »
    -- Une citation de François Dumontier, promoteur du Grand Prix du Canada

    Cette semaine, l’OBNL Échec au crime et la firme de criminologie Mourani-Criminologie se sont alliés afin de mettre en marche cette campagne visant à sensibiliser la population et à limiter les crimes sexuels.

    François Dumontier a également salué une récente motion de l’Assemblée nationale du Québec concernant l’exploitation sexuelle.

    Au début du mois de juin, celle-ci a adopté, à l’unanimité, une motion visant à rappeler sa lutte contre l’exploitation sexuelle.

    Cette motion dénonce explicitement la tenue du Grand Prix de Montréal comme catalyseur de l’exploitation sexuelle et appelle l’organisation de l’événement et les forces policières à agir en conséquence.

    #prostitution #formule_1 #exploitation_sexuelle#sexualité #montréal #canada #superbowl #international

    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1988801/f1-montreal-prostitution-lutte

  • Sous le soleil de l’#Andalousie, misères et #racisme dans les #bidonvilles

    https://i.imgur.com/tzhNMT7.png

    #Palos_de_la_Frontera, Espagne, mai 2023. Pour les uns, l’origine de l’incendie est accidentelle : une marmite oubliée sur un réchaud aurait mis le feu. Pour les autres, comme Adama* qui se fait régulièrement traiter de « sale nègre », elle est criminelle, elle serait l’œuvre « des racistes ».

    « Les Espagnols veulent qu’on retourne en Afrique – ils nous le disent –, alors ils brûlent nos #chabolas [abris de fortune – ndlr]. Ce n’est ni la première fois, ni la dernière », assure le jeune homme, en montrant du doigt l’étendue du désastre : une grande partie du bidonville où il vivote dans la zone industrielle de Palos de Frontera dans la région de Huelva, dans le sud de l’Espagne, au cœur du « potager de l’Europe », a été ravagée par les flammes le 13 mai. Heureusement, il n’y a eu cette fois ni blessés, ni morts brûlés vifs.

    Des cabanes ont échappé au drame, celles qui se trouvent de l’autre côté des talus et de la végétation calcinée. C’est là que les victimes se rabattent pour reconstruire un nouveau toit précaire. « Il ne faut pas perdre de temps, sinon c’est la rue qui nous attend », dit Adama.

    Dans ce #campement insalubre, sans eau ni électricité, ni installations sanitaires, où « on crève de froid l’hiver, de chaud l’été », des dizaines de travailleurs et travailleuses survivent dans des conditions indignes au milieu des ordures et des chiens errants. Des Africains subsahariens et des Marocaines sans papiers principalement, employées à récolter, dans les champs et les serres alentour, les fruits et les légumes de l’agriculture intensive qui alimentent l’Europe en poussant sur la misère.

    Parfois, une ONG passe avec son camion, comme cet après-midi de mai durant lequel la Croix-Rouge distribue des sacs de couchage. Souvent, des activistes espagnol·es révolté·es de voir « un tel bidonville en Europe, dans une démocratie », apportent un peu d’aide, de réconfort, matériel, administratif.

    « Je vais t’aider à déposer une demande de régularisation. Normalement, après trois ans de résidence en Espagne, tu peux demander un permis de travail. » Aujourd’hui, c’est une institutrice à la retraite, reconvertie dans le journalisme citoyen, qui s’arrête. Elle prépare un article pour dénoncer « l’indignité des autorités espagnoles » : « D’incendies criminels en démolitions officielles, elles ne font rien pour les reloger dignement. État et collectivités locales se renvoient la responsabilité. »

    Elle salue une militante qui a épousé un exilé avant de divorcer quelques mois après, en apprenant qu’il avait une femme au pays. Chacune vadrouille avec sa petite voiture. Autour, des champs de fraises, un océan de plastique à perte de vue.

    Adama a « tout perdu » pour la sixième fois en quelques années. Il épandait des pesticides dans un champ de fruits rouges quand le bidonville a brûlé. Une pensée l’obsède depuis : aurait-il pu sauver sa cabane s’il avait répondu à l’appel téléphonique de Moussa* qui cherchait à le prévenir, quitte à perdre son contrat de travail, inespéré, de quelques jours ?

    Il sait bien que non, pourtant. Une étincelle suffit à embraser leurs habitations faites de bric et de broc, avec des matériaux hautement inflammables : des palettes en bois, des plastiques (souvent les bâches des serres), des cartons, des tôles.

    Chaque jour, plusieurs fois par jour, il faut marcher – ou prendre le vélo, une richesse quand on en possède un –, pour aller à plusieurs kilomètres se ravitailler en eau, remplir les bidons de plastique.

    Adama, la quarantaine, vient de Bamako au Mali, où une famille, des enfants, des frères, des sœurs attendent qu’il les nourrisse. Il a d’abord séjourné en Italie puis en France mais « il n’y avait pas de travail ». Il a fini en Andalousie en Espagne et il pense que « l’enfer est ici ». Depuis 2019, il vit dans le bidonville, alternant chômage et travail au noir.

    Au prix de 2 euros la palette, la nouvelle maison va lui coûter une bonne centaine d’euros. Il n’avance pas aussi vite qu’il le voudrait. Il raconte, en enfonçant les clous, qu’aucun propriétaire ne veut leur louer un logement, ni même une chambre, « parce qu’[ils sont] des Noirs et des Arabes, même s[’ils ont] des papiers ».

    ll vit avec Noura*. Ils sont ensemble mais il ne le dit pas. C’est elle qui le dit. Elle débarque, un sac de viande surgelée à la main, vêtue d’un pyjama sale et troué, la chevelure hirsute. Elle rêve qu’Adama, qui a une épouse au Mali, la demande en mariage, mais il ne veut pas.

    Cela ne la dérange pas d’être sa deuxième femme : « Il me protège. C’est très dur d’être une femme dans le bidonville. On force celles qui sont seules à la prostitution, on les agresse sexuellement, on les viole. » Elle n’a rien dit de leur union à sa famille au Maroc : « Épouser un homme noir, c’est mal vu, dégradant, à cause du racisme, de la négrophobie. Mais pas ici, au contraire, on préfère fréquenter des Noirs, car ils ne prennent pas notre salaire comme les Marocains. »

    Là-bas, à Midlet, explique-t-elle, elle a divorcé d’un mari violent qui la battait à la ceinture. Ils ont eu ensemble deux enfants qu’elle n’a pas vus depuis quatre ans. Un jour, elle a appris qu’elle pouvait être recrutée pour la récolte des fraises en Espagne dans le cadre de l’accord de migration circulaire entre les deux pays (lire ici notre reportage). Elle a postulé. Au lieu de rentrer une fois la cueillette terminée, elle est restée, basculant dans l’illégalité.

    Un généreux donateur a laissé des matelas au bord de la route. Premiers arrivés, premiers servis. Malika retrouve le sourire. La nuit passée, elle a dormi à même la pierraille. Si au Maroc la famille connaissait ses conditions de vie et d’hébergement, elle lui demanderait de rentrer aussitôt, confie-t-elle. « C’est la honte de vivre ainsi comme des animaux. »

    Elle est originaire de Marrakech, ses deux enfants en bas âge sont restés avec ses parents. Quant à son mari, il a sombré dans l’alcoolisme et n’a « jamais ramené un sou à la maison ». Il ne lui manque pas. Ses enfants, en revanche, si, « énormément ».

    « C’est la pire des douleurs, être arrachée à ses enfants. Je les appelle tous les jours et je les pleure toutes les nuits. » Elle aimerait retourner au pays mais compte tenu de sa situation administrative irrégulière, elle craint de ne plus pouvoir remettre les pieds en Espagne. « C’est quand même notre gagne-pain. Nous n’avons pas d’avenir au Maroc. »

    L’illusion d’un confort tient à peu, à une cabane marquée « salle de bains » qui, une fois la porte entrouverte, consiste en un stockage de bidons d’eau avec lesquels on peut se laver en toute intimité.

    « Cette année, il y a beaucoup moins de travail à cause de la sécheresse. Si ça continue ainsi, on court vers la catastrophe. »

    Le coin détente d’une cabane aménagée en restaurant.

    « Ce n’est pas une vie, convient Houria*, mais que peut-on faire ? Retourner au Maroc ? Jamais. Notre pays est riche mais l’État est voleur. »

    Au lendemain de l’incendie qui a détruit une partie du campement. Les bidonvilles se concentrent dans le poumon agricole de la région de Huelva, dans les villes de Palos de la Frontera, Lepe, Moguer et Lucena del Puerto, une des régions où le parti d’extrême droite fait ses plus gros scores. Les associations de soutien aux exilé·es en dénombrent plus d’une quarantaine, abritant plusieurs milliers de migrant·es.

    La cabane de Fatema* est partie en fumée. Elle erre avec sa copine d’infortune dans le bidonville, à la recherche d’un homme qui les aiderait à reconstruire un toit.

    Elle n’est pas arrivée en Espagne avec « un contrat en origine » comme tant de Marocaines pour la saison des fraises. Elle a traversé le détroit de Gibraltar dans une patera arrivée à bon port, ces embarcations de fortune qui coulent en mer et coûtent la vie, par milliers, à des migrant·es, chaque année.

    Elle travaille souvent la nuit tombée : « Comme on est des sans-papiers, les patrons nous font travailler la nuit pour échapper aux inspections. On ramasse les fraises avec une lampe frontale. »

    Baba* travaillait dans le garage informel qui avait prospéré à l’entrée du bidonville. Une vie dans l’illégalité. Aujourd’hui, il aide à reconstruire le restaurant de son compatriote sénégalais, le lieu où les exilés aimaient se retrouver après une journée de labeur ou de chômage. Nombre d’entre eux noient détresse et problèmes dans l’alcool ou la drogue.

    Baba aurait préféré rebâtir sur les cendres près de la route, mais les tractopelles de la municipalité ont soulevé la terre et formé des montagnes pour empêcher toute nouvelle édification. « Ils veulent nous éloigner, nous tenir à distance, sous la pression des patrons des entreprises du coin et de la population. Nous sommes des rats pour eux. »

    Les prénoms suivis d’un astérisque sont des prénoms d’emprunt, à la demande des personnes interrogées.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/sous-le-soleil-de-l-andalousie-miseres-et-racisme-dans-les-bidonvilles
    #Espagne #industrie_agro-alimentaire #photographie #migrations #exploitations #travail #agriculture #conditions_de_travail
    #racisme

  • Épisode 1/4 : Pourquoi reconstituer les étapes de la #croissance ?

    Les économistes s’intéressent aux étapes de la croissance. De nombreux travaux ont été consacrés à la question. A quoi servent-ils donc ?

    En 1960, paraissait Les étapes de la croissance économique. Un manifeste non communiste, un ouvrage rassemblant les conférences données par #William_Rostow à l’Université de Cambridge, puis publiées dans The Economist. L’ouvrage défendait l’idée que le développement économique d’un pays passe nécessairement par cinq phases, allant de la société traditionnelle à société de consommation.
    Une histoire mondiale différente

    Quelques décennies plus tard, l’économiste #Angus_Maddison propose une histoire mondiale différente dans laquelle il reconstitue pour chaque continent les #étapes_de_la_croissance depuis l’An 1. Il montre notamment que la Chine a présenté jusqu’au XIVème siècle un revenu par habitant plus élevé que celui de l’Europe, mais insiste sur « le caractère exceptionnel, dans le développement mondial, de la performance économique sur le long terme de l’Europe occidentale ». « En l’an 1000, indique-t-il, son niveau de revenu était tombé en deçà de celui de l’Asie et de l’Afrique du Nord ; au XIVe siècle, à l’issue d’une longue résurrection, elle avait rattrapé la Chine (premier pays du monde) ; en 1820, ses niveaux de revenu et de productivité étaient plus de deux fois supérieurs à ceux du reste du monde ; en 1913, le niveau de revenu de l’Europe occidentale et des pays d’immigration européenne était plus de six fois supérieur à celui du reste du monde ». Comment expliquer cette évolution ?

    Maddison réfute la thèse de certains de ses prédécesseurs, dont #Paul_Bairoch, selon lesquels l’Europe de l’Ouest aurait été moins riche que la Chine jusqu’en 1800 et aurait, à partir de ce moment, principalement construit sa supériorité sur l’#exploitation des autres pays. Maddison soutient que l’Europe de l’Ouest était déjà riche avant la Révolution industrielle par comparaison aux autres parties du monde, cette position s’expliquant par « son avance scientifique, des siècles de lente accumulation et la solidité de son organisation et de sa #finance ». L’objectif de Maddison est en effet de comprendre les facteurs qui expliquent les divergences entre les pays et notamment l’avancée de certains. Parmi ceux-ci, il souligne la place reconnue à la science au cours de la #modernité occidentale (...)

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-pourquoi-du-comment-economie-et-social/pourquoi-reconstituer-les-etapes-de-la-croissance-7221905
    #économie #richesse

  • Zahra, morte pour quelques #fraises espagnoles

    Le 1er mai, un bus s’est renversé dans la région de #Huelva, au sud de l’Espagne. À son bord, des ouvrières agricoles marocaines qui se rendaient au travail, dont l’une a perdu la vie. Mediapart est allé à la rencontre des rescapées, qui dénoncent des conditions de travail infernales.
    Aïcha* s’installe péniblement à la table, en jetant un œil derrière le rideau. « Si le patron apprend qu’on a rencontré une journaliste, on sera expulsées et interdites de travailler en Espagne. On a peur qu’un mouchard nous ait suivies, on est sous surveillance permanente. »

    Aïcha sait le risque qu’elle encourt en témoignant, même à visage couvert, sous un prénom d’emprunt. Mais elle y tient, pour honorer Zahra. Foulard assorti à sa djellaba, elle est venue clandestinement au point de rendez-vous avec Farida* et Hanane*, elles aussi décidées à parler de Zahra. « Elle était comme notre sœur. » Deux images les hantent.

    Sur la première, la plus ancienne, Zahra sourit, visage net, rond, plein de vie, lèvres maquillées de rouge, regard foncé au khôl. Sur la seconde, elle gît devant la tôle pliée dans la campagne andalouse, corps flou, cœur à l’arrêt. « Elle avait maigri à force de travailler, on ne la reconnaissait plus. Allah y rahmo [« Que Dieu lui accorde sa miséricorde » – ndlr] », souffle Aïcha en essuyant ses larmes avec son voile.

    Zahra est morte juste avant le lever du soleil, en allant au travail, le 1er mai 2023, le jour de la Fête internationale des travailleuses et des travailleurs. Elle mangeait un yaourt en apprenant des mots d’espagnol, à côté de Malika* qui écoutait le Coran sur son smartphone, quand, à 6 h 25, le bus qui les transportait sans ceinture de sécurité s’est renversé.

    Elles étaient une trentaine d’ouvrières marocaines, en route pour la « finca », la ferme où elles cueillent sans relâche, à la main, les fraises du géant espagnol Surexport, l’un des premiers producteurs et exportateurs européens, détenu par le fonds d’investissement Alantra. Le chauffeur roulait vite, au-dessus de la limite autorisée, dans un épais brouillard. Il a été blessé légèrement.

    Zahra est morte sur le coup, dans son survêtement de saisonnière, avec son sac banane autour de la taille, au kilomètre 16 de l’autoroute A484, à une cinquantaine de kilomètres de Huelva, en Andalousie, à l’extrême sud de l’Espagne, près de la frontière portugaise. Au cœur d’une des parcelles les plus rentables du « potager de l’Europe » : celle qui produit 90 % de la récolte européenne de fraises, « l’or rouge » que l’on retrouve en hiver sur nos étals, même quand ce n’est pas la saison, au prix d’un désastre environnemental et social.

    Cet « or rouge », qui génère plusieurs centaines de millions d’euros par an, et emploie, d’après l’organisation patronale Freshuelva, 100 000 personnes, représente près de 8 % du PIB de l’Andalousie, l’une des régions les plus pauvres d’Espagne et d’Europe. Et il repose sur une variable d’ajustement : une main-d’œuvre étrangère saisonnière ultraflexible, prise dans un système où les abus et les violations de droits humains sont multiples.

    Corvéable à merci, cette main-d’œuvre « bon marché » n’a cessé de se féminiser au cours des deux dernières décennies, les travailleuses remplaçant les travailleurs sous les serres qui s’étendent à perte de vue, au milieu des bougainvilliers et des pins parasols. Un océan de plastique blanc arrosé de produits toxiques : des pesticides, des fongicides, des insecticides...

    À l’aube des années 2000, elles étaient polonaises, puis roumaines et bulgares. Elles sont aujourd’hui majoritairement marocaines, depuis le premier accord entre l’Espagne, l’ancien colonisateur, et le Maroc, l’ancien colonisé, lorsqu’en 2006 la ville espagnole de Cartaya a signé avec l’Anapec, l’agence pour l’emploi marocaine, une convention bilatérale de « gestion intégrale de l’immigration saisonnière » dans la province de Huelva.

    Une migration circulaire, dans les clous de la politique migratoire sécuritaire de Bruxelles, basée sur une obligation contractuelle, celle de retourner au pays, et sur le genre : l’import à moindre frais et temporairement (de trois à neuf mois) de femmes pour exporter des fraises.

    Le recrutement se fait directement au Maroc, par les organisations patronales espagnoles, avec l’aide des autorités marocaines, des gouverneurs locaux, dans des zones principalement rurales. Ce n’est pas sans rappeler Félix Mora, cet ancien militaire de l’armée française, surnommé « le négrier des Houillères », qui sillonnait dans les années 1960 et 1970 les villages du sud marocain en quête d’hommes réduits à leurs muscles pour trimer dans les mines de la France, l’autre ancienne puissance coloniale.

    Même état d’esprit soixante ans plus tard. L’Espagne recherche en Afrique du Nord une force de travail qui déploie des « mains délicates », des « doigts de fée », comme l’a montré dans ses travaux la géographe Chadia Arab, qui a visibilisé ces « Dames de fraises », clés de rentabilité d’une industrie agro-alimentaire climaticide, abreuvée de subventions européennes.

    Elle recherche des « doigts de fée » très précis. Ceux de femmes entre 25 et 45 ans, pauvres, précaires, analphabètes, mères d’au moins un enfant de moins de 18 ans, idéalement célibataires, divorcées, veuves. Des femmes parmi les plus vulnérables, en position de faiblesse face à d’éventuels abus et violences.

    Zahra avait le profil type. Elle est morte à 40 ans. Loin de ses cinq enfants, âgés de 6 à 21 ans, qu’elle appelait chaque jour. Loin de la maison de fortune, à Essaouira, sur la côte atlantique du Maroc, où après des mois d’absence, elle allait bientôt rentrer, la récolte et le « contratación en origen », le « contrat en origine », touchant à leur fin.

    C’est ce qui la maintenait debout lorsque ses mains saignaient, que le mal de dos la pliait de douleur, lorsque les cris des chefs la pressaient d’être encore plus productive, lorsque le malaise menaçait sous l’effet de la chaleur suffocante des serres.

    L’autocar jusqu’à Tarifa. Puis le ferry jusqu’à Tanger. Puis l’autocar jusqu’au bercail : Zahra allait revenir au pays la valise pleine de cadeaux et avec plusieurs centaines d’euros sur le compte bancaire, de quoi sauver le foyer d’une misère aggravée par l’inflation, nourrir les proches, le premier cercle et au-delà.

    Pour rempiler la saison suivante, être rappelée, ne pas être placée sur « la liste noire », la hantise de toutes, elle a été docile. Elle ne s’est jamais plainte des conditions de travail, des entorses au contrat, à la convention collective.

    Elle l’avait voulu, ce boulot, forte de son expérience dans les oliveraies et les plantations d’arganiers de sa région, même si le vertige et la peur de l’inconnu l’avaient saisie la toute première fois. Il avait fallu convaincre les hommes de la famille de la laisser voyager de l’autre côté de la Méditerranée, elle, une femme seule, mère de cinq enfants, ne sachant ni lire ni écrire, ne parlant pas un mot d’espagnol. Une nécessité économique mais aussi, sans en avoir conscience au départ, une émancipation, par le travail et le salaire, du joug patriarcal, de son mari, dont elle se disait séparée.

    Et un certain statut social : « On nous regarde différemment quand on revient. Moi, je ne suis plus la divorcée au ban de la société, associée à la prostituée. Je suis capable de ramener de l’argent comme les hommes, même beaucoup plus qu’eux », assure fièrement Aïcha.

    Elle est « répétitrice » depuis cinq ans, c’est-à-dire rappelée à chaque campagne agricole. Elle gagne de 1 000 à 3 000 euros selon la durée du contrat, une somme inespérée pour survivre, améliorer le quotidien, acheter une machine à laver, payer une opération médicale, économiser pour un jour, peut-être, accéder à l’impossible : la propriété.

    Cette saison ne sera pas la plus rémunératrice. « Il y a moins de fraises à ramasser », à cause de la sécheresse historique qui frappe l’Espagne, tout particulièrement cette région qui paie les conséquences de décennies d’extraction d’eau pour alimenter la culture intensive de la fraise et d’essor anarchique d’exploitations illégales ou irriguées au moyen de puits illégaux.

    Au point de plonger dans un état critique la réserve naturelle de Doñana, cernée par les serres, l’une des zones humides les plus importantes d’Europe, classée à l’Unesco. Le sujet, explosif, est devenu une polémique européenne et l’un des enjeux des élections locales qui se tiennent dimanche 28 mai en Espagne.

    « S’il n’y a plus d’eau, il n’y aura plus de fraises et on n’aura plus de travail », s’alarme Aïcha. Elle ne se relève pas de la perte de son amie Zahra, seule passagère du bus à avoir rencontré la mort, ce 1er mai si symbolique, jour férié et chômé en Espagne, où l’on a manifesté en appelant à « augmenter les salaires, baisser les prix, partager les bénéfices ». Les autres ouvrières ont été blessées à des degrés divers.

    Trois semaines plus tard, elles accusent le coup, isolées du monde, dans la promiscuité de leur logement à San Juan del Puerto, une ancienne auberge où elles sont hébergées, moyennant une retenue sur leur salaire, par l’entreprise Surexport, qui n’a pas répondu à nos sollicitations. Privées d’intimité, elles se partagent les chambres à plusieurs. La majorité des femmes accidentées est de retour, à l’exception des cas les plus graves, toujours hospitalisés.

    « Ils nous ont donné des béquilles et du paracétamol. Et maintenant, ils nous demandent de revenir travailler alors qu’on en est incapables, qu’on est encore sous le choc. Le médecin mandaté par l’entreprise a dit qu’on allait très bien, alors que certaines ont des fractures et qu’on met des couches à l’une d’entre nous qui n’arrive pas à se lever ! On a eu droit à un seul entretien avec une psychologue », raconte Aïcha en montrant la vidéo d’une camarade qui passe la serpillère appuyée sur une béquille.

    « On a perdu le sommeil », renchérit Hanane. Chaque nuit, elles revivent l’accident. Farida fait défiler « le chaos » sur son téléphone, les couvertures de survie, les cris, les douas (invocations à Allah), le sang. Elle somnolait quand le bus s’est couché. Quand elle a rouvert les yeux, elle était écrasée par plusieurs passagères. Elle s’est vue mourir, étouffée.

    Le trio montre ses blessures, des contusions, des entorses, un bassin luxé, un traumatisme cervical. Elles n’ont rien dit à la famille au Maroc, pour ne pas affoler leurs proches. Elles ne viennent pas du même coin. « Tu rencontres ici tout le pays. » Des filles des montagnes, des campagnes, des villes, de la capitale… Elles ont la trentaine, plusieurs enfants en bas âge restés avec la grand-mère ou les tantes, sont divorcées. Analphabètes, elles ne sont jamais allées à l’école.

    « Ici ou au bled, se désole Hanane en haussant les épaules, on est exploitées, mais il vaut mieux être esclave en Espagne. Au Maroc, je gagnais à l’usine moins de cinq euros par jour, ici, 40 euros par jour. » Elles affirment travailler, certaines journées, au-delà du cadre fixé par la convention collective de Huelva, qui prévoit environ 40 euros brut par jour pour 6 h 30 de travail, avec une journée de repos hebdomadaire. Sans être payées plus.

    Elles affirment aussi avoir droit à moins de trente minutes de pause quotidienne, « mal vivre, mal se nourrir, mal se soigner », du fait d’un système qui les contrôle dans tous les aspects de leur vie et les maintient « comme des prisonnières » à l’écart des centres urbains, distants de plusieurs kilomètres.

    Il faut traverser la région de Huelva en voiture pour mesurer l’ampleur de leur isolement. Le long des routes, des dizaines d’ouvrières marocaines, casquette sur leur voile coloré, seules ou à plusieurs, marchent des heures durant, en sandales ou en bottes de caoutchouc, faute de moyen de transport, pour atteindre une ville, un commerce. Certaines osent l’autostop. D’autres se retournent pour cacher leur visage à chaque passage de véhicule.

    Les hommes sont nombreux aussi. À pied mais surtout à vélo, plus rarement à trottinette. Originaires du Maghreb ou d’Afrique subsaharienne, une grande partie d’entre eux est soumise à l’emploi illégal, qui cohabite avec « le contrat en origine », au rythme des récoltes de fruits et légumes. Dans les champs de fraises, ils sont affectés à l’épandage des pesticides, au démontage des serres, à l’arrachage des plastiques…

    « La liste des abus est interminable, surtout pendant les pics de production, quand il faut récolter, conditionner, encore plus vite », soupire Fatima Ezzohairy Eddriouch, présidente d’Amia, l’association des femmes migrantes en action. Elle vient de débarquer dans le local sombre, escortée de Jaira del Rosario Castillo, l’avocate qui représente la famille « très affectée » de Zahra au Maroc, une spécialiste du droit du travail.

    Aïcha, Hanane et Farida lui tombent dans les bras, heureuses de rencontrer en vrai « Fatima de TikTok », une épaule pour de nombreuses saisonnières qui se refilent son numéro de portable, tant elle ne vit que pour l’amélioration de leur sort, malgré « un climat d’omerta, de terreur ».

    Travail forcé ou non payé, y compris les jours fériés, les dimanches, heures supplémentaires non rémunérées, passeports confisqués par certains patrons, absence de repos, contrôles du rendement avec renvoi vers le Maroc si celui-ci est jugé insuffisant, absence de mesures de sécurité et de protection sur le lieu de travail, tromperie à l’embauche, harcèlement moral, violences sexuelles, racisme, xénophobie, logement indigne, accès aux soins de santé entravé… Fatima Ezzohairy Eddriouch est confrontée au « pire de l’humanité tous les jours ». Avant de nous rejoindre, elle aidait Rahma, qui s’est brisé le cou en cueillant les fraises : « Son employeur veut la licencier et refuse de prendre en charge les soins médicaux. »

    Elle-même a été saisonnière pendant plus de dix ans. Elle en avait 19 quand elle a quitté Moulay Bousselham, au Maroc, et rejoint Huelva. Elle doit sa « survie » à Manuel, un journalier andalou rencontré dans les champs devenu son époux. « Vingt-trois ans d’amour, ça aide à tenir », sourit-elle. Seule ombre au tableau : alors que sa famille a accueilli avec joie leur union, celle de son mari continue de la rejeter. « Le racisme est malheureusement très fort en Espagne. »

    Le 1er mai, Fatima Ezzohairy Eddriouch a été l’une des premières informées de la tragédie. Des travailleuses blessées l’ont sollicitée. Mais elle s’est heurtée aux murs de l’administration, de l’employeur : « Un accident mortel de bus qui transporte des ouvrières agricoles étrangères, le jour de la Fête des travailleurs, c’est une bombe à l’échelle locale et nationale. Heureusement pour le gouvernement et le patronat agricole, elles sont des immigrées légales, pas sans papiers. »

    Devant le logement de San Juan del Puerto, elle a découvert le portail cadenassé, une entrave à la liberté de circuler des ouvrières. Elle l’a dénoncée sur les réseaux sociaux. Et dans la presse, auprès du journaliste indépendant Perico Echevarria notamment, poil à gratter avec sa revue Mar de Onuba, seul média local à déranger un système agroalimentaire et migratoire qui broie des milliers de vies. Surexport a fini par faire sauter le verrou.

    « Elles ont été enfermées, interdites de parler à des associations, à la presse. Ce n’est pas tolérable », s’indigne encore la militante. Son regard s’arrête sur une des photos de Zahra. Celle où elle a basculé de vie à trépas. Elle n’était pas prête. Elle s’effondre. Cette fois, ce sont Aïcha, Hanane et Farida qui l’enlacent en claudiquant. Le corps de Zahra a été rapatrié, enterré dans un cimetière d’Essaouira.

    La presse, d’une rive à l’autre, spécule sur le montant des pensions et des indemnités que pourraient percevoir les proches de la défunte, selon le droit espagnol. « C’est indispensable de rendre justice à cette famille meurtrie à jamais, à défaut de pouvoir rendre la vie à Zahra », dit l’avocate. Aïcha, Hanane et Farida, elles, veulent qu’on retienne son visage souriant à travers l’Europe, en France, au Pays-Bas, en Belgique..., et qu’on l’associe à chaque barquette de fraises marquée « origine : Huelva (Espagne) ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/270523/zahra-morte-pour-quelques-fraises-espagnoles
    #décès #Espagne #agriculture #exploitation #esclavage_moderne #migrations #travail #Maroc #agricultrices #femmes #conditions_de_travail #ouvrières_agricoles #Surexport #industrie_agro-alimentaire #Alantra #saisonniers #saisonnières #Andalousie #or_rouge #abus #féminisation #féminisation_du_travail #convention_bilatérale #Anapec #migration_circulaire #genre #violence #contrat_en_origine #contratación_en_origen #émancipation #sécheresse #eau #isolement #travail_forcé

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    ajouté au fil de discussion sur la cueillette de fraises en Espagne :
    https://seenthis.net/messages/693859

  • Wer will sein Rammstein-Tattoo loswerden? Die Künstlerin Mila Loba macht das kostenlos
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/wer-will-sein-rammstein-tattoo-loswerden-kuenstlerin-mila-loba-mach

    Et hop !
    Je n’ai pas. de tatouage Rammstein. Qu’est-ce que je dois faire? ?

    8.6.2023 von Mia Conrads - Die Tätowiererin postet am Dienstag ein Angebot auf Instagram, kostenlos Rammstein-Tattoos zu überdecken. Mittlerweile bekommt sie pro Tag Hunderte Anfragen.

    Die Tätowiererin Mila Loba ist noch ein bisschen überrumpelt, welche Ausmaße das alles angenommen hat. „Ich hätte niemals gedacht“, sagt die 24-Jährige, „dass mein kleiner Instagram-Post so eine Welle schlägt und meine eigene Reichweite dermaßen übersteigt“.

    Es beginnt am Dienstag, da veröffentlicht Mila Loba auf Instagram das Angebot, kostenlos Rammstein-Tattoos zu überdecken. Shelby Lynn teilte ihr Angebot – Lynn ist die Frau, die als Erste Missbrauchsvorwürfe gegen den Rammstein-Sänger Till Lindemann erhoben hatte. Mittlerweile hat Mila Loba Hunderte von Anfragen von Fans, aber auch von Journalisten weltweit, auch von der Berliner Zeitung.

    Zuvor haben mehrere Frauen dem Sänger Till Lindemann vorgeworfen, sie sexuell bedrängt und mit Drogen gefügig gemacht zu haben. Letzteres ist auch strafrechtlich relevant. Shelby Lynn besuchte ein Konzert in Vilnius und teilte danach auf Twitter Bilder von Verletzungen und Vermutungen, gegen ihren Willen unter Drogeneinfluss gestanden zu haben. Während einer Konzertpause habe sie Lindemann in einem kleinen Raum getroffen, der wütend wurde, als sie sagte, dass sie keinen Sex mit ihm haben wollte. Anschließend meldeten sich immer mehr Opfer im Internet.

    Die Tätowiererin Mila Loba hat selbst keinen Bezug zu Rammstein oder der Hardrock-Szene, die Vorwürfe hat sie nur über soziale Medien mitbekommen. Doch sie möchte sich solidarisch mit den Frauen und anderen Opfern zeigen. „Ich habe schon gesehen, dass sich auch andere Tätowiererinnen angeschlossen haben und begrüße das.“ Wie lange sie dieses Angebot aufrechterhalten will, weiß sie bis jetzt noch nicht, da sie momentan mit den Anfragen sehr viel zu tun habe. Ihr Angebot sei auch hauptsächlich auf „Blackwork“ beschränkt, das heißt: Sie überdeckt das Tattoo komplett. Geld möchte sie dafür nicht annehmen, Spenden werde sie an Organisationen weiterleiten, die Missbrauch an Frauen bekämpfen.

    Die meisten Rückmeldungen zu dem Post seien bisher positiv gewesen. „Ich bin jedenfalls total überwältigt“, sagt sie, „von der positiven Resonanz auf meine spontane Idee“. Doch es habe auch negative Antworten gegeben, auf Instagram postet sie eine davon: „Hör auf, Menschen böse dastehen zu lassen und falsche Behauptungen zu unterstützen.“ Das schrieb ihr jemand und beendete seine Nachricht auf Englisch: „Its not a look Babe“. Grob übersetzt heißt das: „Das steht dir nicht, Schätzchen.“

    Außerdem versucht sie, ihren Abonnenten zu erklären, dass sie auch als Tätowiererin Termine mit Kunden habe, die sie nicht absagen könne. Deshalb kann sie nicht jeden Tag Rammstein-Tattoos überstechen. Sie werde jedoch ihr Bestes tun, so schnell wie möglich Termine freizugeben und auf alle Anfragen zu reagieren.

    #wtf #musique #capitalisme #exploitation

  • Ils chantent du Michel Sardou à Auchan pour soutenir leur collègue

    Le salarié venait d’être mis à pied pour avoir chanté trop fort sur son lieu de travail.

    Ce salarié du supermarché Auchan de Louvroil, dans le Nord, ne s’attendait sans doute pas à ce genre de soutien.

    Comme l’explique La Voix du Nord https://www.lavoixdunord.fr/1336657/article/2023-06-06/auchan-louvroil-ils-chantent-un-tube-de-michel-sardou-pour-soutenirle-s , ce dernier avait été mis à pied à la fin du mois mai, car il « chantait trop fort sur son lieu de travail » . Précisons qu’il s’adonnait à cette passion tôt le matin, à une heure où le supermarché n’est pas encore ouvert. D’autres magasiniers s’en seraient plains.

    Ainsi, à l’appel des syndicats CGT et CFDT, une centaine de personnes, des salariés, délégués syndicaux et clients du magasin, se sont rassemblés dans le supermarché ce mardi 6 juin, et ont décidé de faire entendre leur mécontentement, et leur soutien à leur collègue… en chantant.

    C’est la raison pour laquelle vers 10 heures, tous ont entonné la célèbre chanson de Michel Sardou, En chantant.

    Il faut dire que les paroles font écho à cette affaire : « La vie c’est plus marrant, c’est moins désespérant, en chantant. »

    « Il s’agit d’une véritable injustice sociale, assure Gérald Villeroy, représentant CGT à La Voix du Nord. Chanter fédère, chanter unit et casse la monotonie. Peut-être que ça ne plaît pas à tout le monde, mais sanctionner cet acte relève de la folie. » L’occasion également de dénoncer les conditions de travail dans ce magasin qui, selon la CGT toujours, « manque cruellement de bonne humeur. »

    La CGT a annoncé avoir officiellement contesté cette décision. Si, dans le mois qui vient, la direction la confirme, les syndicats ont d’ores et déjà affirmé qu’ils saisiraient les Prud’hommes.

    #auchan #mulliez #france #grande_distribution #travail #europacity #centre_commercial #exploitation #en_vedette #chanson

    Source : https://www.lunion.fr/id491517/article/2023-06-06/ils-chantent-du-michel-sardou-auchan-pour-soutenir-leur-collegue

  • 🛑 Esat : les travailleur·ses handicapé·es exploité·es - POLITIS

    https://www.politis.fr/articles/2023/05/esat-les-travailleur%C2%B7ses-handicape%C2%B7es-exploite%C2%B7es

    Lili Guigueno, militante antivalidiste, attire l’attention sur la situation des personnes handicapé·es exploité·es en établissements et services d’aide par le travail (Esat).

    Dans un contexte où les droits sociaux sont systématiquement attaqués pour mieux créer les conditions du plein-emploi répressif, la lutte contre la réforme des retraites a été l’occasion d’attirer l’attention sur les travailleurs et travailleuses handicapé·es exploité·es en établissements et services d’aide par le travail (Esat), hors du droit du travail. Une carte blanche de Lili Guigueno, militante antivalidiste (...)

    #Travailleurs_handicapés #handicap #ESAT #exploitation #validisme #antivalidisme

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.politis.fr/articles/2023/05/esat-les-travailleur·ses-handicape·es-exploite·es

  • Le #business des #sous-locations de comptes #Stuart, #UberEats et #Deliveroo

    Pour travailler, des centaines de sans-papiers sous-louent à prix d’or des comptes UberEats ou Deliveroo. Enquête sur ces forçats de la route, qui pédalent jour et nuit pour gagner de quoi tout juste se nourrir.

    Il est 18 heures passées. Un groupe d’hommes encercle un thermos fumant. Chacun tient dans la main un petit verre en plastique rempli de thé chaud. Ils sont livreurs à vélo ou en scooter, de repas à domicile. Certains attendent la prochaine course, d’autres sont juste là pour passer un moment avec leurs anciens camarades de livraison. Début septembre, UberEats, la principale plateforme de livraison de repas, annonçait avoir déconnecté près de 2.500 comptes après avoir « identifié des utilisations frauduleuses » de l’application, explique à l’AFP un porte-parole. Il s’agit essentiellement de faux livreurs, soupçonnés de sous-louer leurs comptes à des travailleurs en situation irrégulière. Depuis, l’entreprise a procédé à des nouvelles déconnexions. Elles concernent désormais aussi des livreurs sans papiers, passés par l’Italie, qui s’étaient créés un statut d’auto-entrepreneur, nécessaire sur les plateformes, en s’appuyant sur des cartes d’identité italiennes non-valables à l’étranger. La sous-location de comptes n’a pas pour autant disparu. Sur Facebook, on trouve même des groupes dédiés à ce business. Désormais, la demande a dépassé l’offre. Les prix explosent.

    Le prix des sous-locations explose

    Affaissés sur leurs scooters, Sabri et Ahmed, deux jeunes de 24 ans venus d’Algérie, racontent en avoir fait les frais. « Pas le choix », soupire le second, derrière son cache-cou qui lui couvre à moitié la bouche. Sabri, livreur depuis un an, a trouvé une sous-location de compte UberEats sur Facebook. Il paie 150 euros par semaine. Ahmed, qui a commencé il y a deux ans à travailler sur la même plateforme, s’est débrouillé avec le bouche-à-oreille. Le marché des sous-locations est aussi souterrain et se fait souvent au sein même des communautés, par des « grands frères » ou « cousins », comme ils aiment les appeler. Ahmed quant à lui, débourse 130 euros par semaine. Un bon prix, assure-t-il. Certains reverseraient jusqu’à 200 euros. La vente de comptes est aussi possible, mais semble plus rare. Il faudrait compter 2.000 à 3.000 euros, contre 1.000 il y a quelques mois. Parfois, les livreurs paient aussi un pourcentage sur ce qu’ils gagnent : jusqu’à 50%, selon des livreurs. Et comme les comptes restent au nom du loueur, le locataire est sous contrôle. « Parfois, quand tu travailles plus, ils te demandent plus. Plus 20, plus 30, plus 40 euros maximum », détaille Ahmed. Sabri, en train de ranger un sac McDonald’s derrière son deux-roues, abonde :

    « Quand je travaille beaucoup, il me demande jusqu’à 170 euros. »

    Avec l’explosion des prix, certains ont décidé de s’orienter vers d’autres plateformes. C’est le cas de Bourema, qui, en se réveillant un matin de septembre, a appris après cinq ans de travail, par un simple mail, que son compte UberEats avait été déconnecté. « J’avais fait 15.000 courses avec ce compte-là. Je le payais chaque semaine 100 euros. Quand ça ne l’a plus arrangé, d’un coup Uber m’a banni de la plateforme », se rappelle-t-il. « Je me suis dit que la seule solution était d’aller faire la même chose encore. J’ai loué le compte d’un ami chez Deliveroo, mais un jour, il m’a dit qu’il voulait augmenter le prix à 150 euros. Je n’ai pas accepté. J’ai été obligé de prendre un compte chez Stuart, à 120 euros la semaine. » Mais Stuart compte moins d’utilisateurs. « Ça ne sonne pas. Si tu ne te réveilles pas à 7h du matin, tu n’as rien de la journée », explique le trentenaire originaire du Mali. Cela fait plus de trois heures qu’il a commencé à travailler et il vient tout juste de recevoir sa première commande.

    Dans la livraison depuis 2017, Bourema ne sait même plus combien de comptes il a utilisés. Les livreurs sont en effet soumis au bon vouloir des loueurs, et donc aux arnaques : « Parfois, la personne décide du jour au lendemain d’arrêter, ou de donner le compte à quelqu’un qui peut payer plus. Donc tu es obligé de relouer encore. D’autres fois, tu peux travailler des semaines et le propriétaire du compte, au moment de te payer, disparaît. Il change les coordonnées et tu n’as pas l’argent ni rien. Tu ne peux même pas aller voir la police, donc tu te tais », raconte-t-il.

    Tout est à leurs frais

    Le téléphone de Sabri sonne : « 3,4 kilomètres, 5,60 euros. Moi ça me fait deux euros d’essence », se désole-t-il. À peine 3,60 euros de bénéf. Mais il accepte, résigné. Alors que depuis la fin des restrictions sanitaires les commandes se font moins fréquentes, ces prix permettent à peine aux livreurs de survivre. Ceux interrogés expliquent faire plus ou moins 1.000 euros par mois en moyenne de chiffre d’affaires. Un peu plus en scooter. Mais il faut payer le véhicule, l’assurance et le prix de l’essence. « C’est entre 10 et 15 euros par jour le gasoil », confirme Ahmed qui a commencé sa journée à 8 heures du matin mais va rester travailler jusqu’à minuit au moins. « J’habite avec un ami et je paye 350 euros par mois de loyer. 520 euros le compte, 10 euros le gasoil la journée… quand ça sonne pas il te reste 20 euros [par semaine] dans la poche pour manger et c’est tout », résume-t-il. Et les amendes ? Impossible de les payer. « Comment je peux payer ça ? » se demande le jeune qui vient quand même d’offrir un paquet de cigarettes à son ami. Lui, qui, en Algérie, évoluait dans les sélections jeunes de l’équipe nationale de basket, a aujourd’hui « arrêté de jouer à cause du travail ».

    Pour ne pas avoir à payer l’essence, Bourema, lui, loue aujourd’hui un vélo électrique à 80 euros par mois. Les plateformes, comme Uber Eats ou Deliveroo, proposent des réductions en partenariat avec des marques de vente et de location de vélos, ainsi que d’accessoires et d’outils de réparation. Un pansement sur une jambe de bois pour les livreurs sans papiers, soumis à tous les aléas du métier et peu protégés par les assurances. « Cette semaine, on m’a volé mon vélo », raconte Bourema. « J’ai été obligé de payer 200 euros, les 200 euros que j’ai fait la semaine passée, pour en récupérer un autre. Maintenant comment manger et comment payer ma maison ? Il me faut un vélo en premier, pour m’occuper des autres problèmes », pointe-t-il en rangeant son sac Picard, moins cher et plus résistant que ceux des plateformes que l’on peut trouver à 50 euros en moyenne en vente sur Facebook.

    Il y a aussi les frais médicaux. Renversé par une voiture il y a un mois, Bourema a aussi dû prendre en charge sa visite à l’hôpital. Sans assurance maladie, beaucoup de livreurs victimes d’accidents évitent d’aller chez le toubib et préfèrent se soigner eux-mêmes. Mais le livreur malien, « crachait du sang partout », se souvient-il.
    La peur au quotidien

    Chaque jour, avant de se connecter sur l’application, les livreurs UberEats sont aussi obligés d’aller voir leur loueur pour qu’il se prenne en photo sur l’application. Uber Eats a en effet mis en place depuis 2019 un système d’identification en temps réel qui demande aléatoirement aux livreurs de se prendre en « selfie », désormais plusieurs fois par semaine. La plateforme peut aussi détecter si la reconnaissance faciale est effectuée à partir d’un autre téléphone. Les livreurs doivent donc pouvoir rencontrer régulièrement le propriétaire du compte car, si les photos ne correspondent pas, ce dernier est suspendu et puis désactivé. La plateforme Deliveroo a aussi commencé depuis peu à utiliser ce système, d’après les livreurs.

    Avec les contrôles d’identité, les contrôles policiers sont aussi une source de stress majeure pour les livreurs, en particulier depuis le début des suppressions de comptes cet été. « Il suffit de voir la police pour que tout bascule. On a peur mais on fait avec, c’est notre quotidien », confie Bourema qui a été contrôlé plusieurs fois ces derniers mois mais n’a jamais été retenu. Sabri et Ahmed n’ont pas eu la même chance et ont passé quelques nuits au commissariat. Dans ce cas-là, il y a le risque d’être expulsé mais celui aussi de voir son compte sauter. Ahmed explique :

    « S’ils voient les coordonnées du compte, ils le signalent et le compte est bloqué directement. Et le lendemain je n’ai pas de travail. »

    Alors par deux fois, il a fait le choix de casser son téléphone avant qu’il ne tombe entre les mains des fonctionnaires de police. Leur seule arme, des groupes sur les réseaux sociaux qui leur permettent de se tenir informés sur les contrôles dans les différents quartiers de Paris.

    Depuis septembre, le collectif « #UberEats_En_Colère », aux côtés du #Clap (#Collectif_des_Livreurs_Autonomes_des_Plateformes) a manifesté cinq fois pour demander la #régularisation des livreurs sans papiers. Sans succès pour l’instant. Entre les conditions de sous-locations et les conditions de travail, beaucoup de livreurs ont le moral en berne. Beaucoup ont entendu parler de la « loi Darmanin » qui permettrait d’instaurer un titre de séjour temporaire pour les « métiers en tension ». Pour toutes ces raisons, ils sont nombreux à tenter de se reconvertir dans la cuisine, le ménage ou le BTP, comme Aboubakar. L’Ivoirien a arrêté la livraison depuis qu’UberEats a désactivé son compte en novembre, car il utilisait une carte d’identité italienne. Il a travaillé un peu dans le bâtiment mais il n’a pas été gardé. Mais aujourd’hui, il a le sourire. Ce soir, il vient fêter avec ses amis #livreurs la naissance, le matin même, de ses deux jumeaux. « On attend que Dieu nous donne les papiers », confie-t-il.

    Contacté par StreetPress, UberEats assure avoir « attiré l’attention du Gouvernement sur comment faciliter la régularisation des travailleurs indépendants », qui aujourd’hui n’est possible que pour « les travailleurs illégaux employés en tant que salariés ».

    https://www.streetpress.com/sujet/1678707095-business-sous-locations-comptes-livreurs-stuart-ubereats-del
    #uber #ubérisation #travail #conditions_de_travail #sans-papiers #exploitation

    ping @karine4

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • Ce que la #drave nous apprend sur les forêts d’hier et de demain
    https://theconversation.com/ce-que-la-drave-nous-apprend-sur-les-forets-dhier-et-de-demain-1968


    À l’époque de la drave, environ 15 % du bois transporté sur les cours d’eau était perdu au fond des lacs et des rivières.
    Bibliothèque et Archives Canada/PA-165128

    Les billots de bois qui ont coulé au fond des lacs à l’époque de la drave renferment des informations inédites sur l’histoire des forêts québécoises. En tant qu’étudiante au doctorat en paléoécologie et écologie historique au Groupe de Recherche en Écologie de la MRC Abitibi (GREMA) de l’Université du Québec en Abitibi-Témiscamingue (UQAT), les vestiges de la drave représentent une opportunité inouïe pour moi de reconstituer l’historique de l’exploitation et la dynamique des forêts préindustrielles au Québec.
    […]
    À l’époque de la drave, environ 15 % du bois transporté sur les cours d’eau était perdu au fond des lacs et des rivières. Par exemple, pour la région de la Mauricie uniquement, cela représente plus de 13 millions de mètres cubes de bois. Les conditions anoxiques (absence d’oxygène), le manque de lumière et les températures fraîches (5 °C) ont fait en sorte que ce bois est toujours bien préservé de nos jours. Conséquemment, ce bois issu de la forêt préindustrielle représente une opportunité unique d’étudier le passé de nos forêts.


    Les conditions anoxiques, le manque de lumières et les températures fraîches favorisent la conservation des billots de bois issus de la drave au fond des lacs. Photo par Nathalie Lasselin (www.aquanat.com) au Parc National de la Mauricie dans le cadre du projet « Cinéma Submergé » (a). Une fois retirés du fond des lacs par des plongeurs (b), les tranches transversales des billots présentent des cernes de croissance bien délimités et des cicatrices de feux (identifiées par les flèches rouges) qui permettent de dater les incendies dans le passé (c).
    Photos par Julie-Pascale Labrecque-Foy (b) et Amélie Bergeron (c).

    quel beau sujet ! et quelle superbe source !

    #forêt #exploitation_forestière

  • Reprenez à votre compte les idées du courant communiste révolutionnaire (Nathalie Arthaud, fête de LO, 15 mai 2016)
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2016/05/18/nathalie-arthaud-dimanche-15-mai-rejoignez-nous-dans-le-comb

    S’approprier l’expérience du mouvement ouvrier

    Crise économique, chômage de masse, guerres, terrorisme, crise des migrants, crise écologique : les dirigeants actuels, qu’ils soient à la tête des multinationales, des grandes banques ou des États, sont non seulement incapables d’apporter quelque solution que ce soit mais, pire, ils poussent l’humanité entière vers le précipice.

    Les capitalistes qui dominent l’économie la mènent dans le mur. Comme les milliards qu’ils extraient de la production et de l’exploitation des travailleurs ne leur suffisent pas, ils les jouent au casino de la finance. Autrement dit, plus nous travaillons, plus nous faisons d’efforts et de sacrifices, plus la spéculation augmente. Plus nous risquons le krach généralisé. Y a-t-il plus fou que cette économie ? Il ne s’agit pas seulement du sort des travailleurs, il s’agit de l’avenir de toute la société, en particulier de celui qu’elle réserve à la jeunesse.

    Les jeunes des classes populaires sont ballottés de petits boulots en périodes de chômage, de stages non rémunérés en missions d’intérim. Pour espérer un emploi durable et un salaire à peu près correct, tout ce que l’État leur propose est de s’engager dans la police ou l’armée. Autrement dit, ils ont le choix de servir de chair à patron ou de chair à canon !

    Bien sûr, la fraction de la #jeunesse qui fait des études supérieures peut espérer mieux en décrochant un emploi de cadre, d’ingénieur, de médecin ou d’enseignant. Mais le problème est collectif. Le problème, c’est que même ceux qui peuvent tirer leur épingle du jeu le font au milieu d’un océan de misère et d’injustice.

    Alors, aux uns et aux autres, je veux dire qu’il y a un autre avenir. Ne cédez pas au #conformisme ! Exprimez votre révolte ! Depuis plus de deux mois, quelques dizaines de milliers de lycéens et d’étudiants ont exprimé leur #révolte. Une fraction de ces jeunes est en train de se politiser. Elle a découvert les brutalités policières, les manoeuvres du gouvernement, les tergiversations et les retournements des directions syndicales et ce que vaut la #démocratie_bourgeoise.

    À ceux-là j’ai envie de dire : Vous avez envie de changer le monde ? Tirez toutes les leçons politiques de la situation actuelle, attelez-vous à comprendre les mécanismes et les rapports de classe qui régissent la société. Confortez vos convictions en découvrant les luttes passées des opprimés, de Spartacus aux grèves de mai-juin 1936. Enrichissez-vous de l’expérience du #mouvement_ouvrier et des idées de #Marx et #Engels, de #Lénine, de #Rosa_Luxemburg, de #Trotsky.

    Reprenez à votre compte les idées du courant communiste révolutionnaire. Ce capital politique résume les expériences de plus d’un siècle de luttes ouvrières vivantes. Des défaites, des victoires et des révolutions ! C’est ce capital qui permettra demain de renverser le vieux monde et de mettre fin à ses inégalités et à toutes les vieilleries qui vont du racisme à la misogynie, en passant par l’obscurantisme.

    Rejoignez-nous dans le combat révolutionnaire, pour que les générations futures puissent construire une société de justice, de #fraternité, enfin débarrassée des classes sociales et de l’#exploitation !

    #communisme_révolutionnaire #révolution_sociale #marxisme