• #TuNur, il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’Ue

    Un’impresa britannico-tunisina sta progettando una gigantesca centrale solare a nel deserto della Tunisia, un impianto che richiede un enorme consumo d’acqua. L’energia verde però andrà solo all’Europa.

    Produrre energia pulita a basso costo tra le soleggiate dune del deserto del Sahara è stato per decenni il sogno di diverse aziende private, alla costante ricerca di nuove fonti energetiche. “Il Sahara può generare abbastanza energia solare da coprire l’intero fabbisogno del globo” è un mantra ripetuto più o meno frequentemente, da aziende e lobby, a seconda della congiuntura economica o politica.

    Tra costi esorbitanti e accordi internazionali irrealizzabili, i progetti di esportazione di energia solare dal Nord Africa all’Europa sono però stati messi da parte per anni. Tornano di attualità oggi, nel contesto di crisi energetica legata alla guerra in Ucraina. Con un inverno freddo alle porte, senza il gas russo, gli Stati europei puntano gli occhi sulle contese risorse dei vicini meridionali. Con l’impennata dei prezzi dei combustibili fossili, la transizione energetica non è più semplicemente urgente in funzione della crisi climatica, ma anche economicamente conveniente, quindi finanziariamente interessante.

    A maggio 2022 l’Unione europea ha annunciato di voler aumentare gli obiettivi di energia prodotta da fonti rinnovabili fino al 40% entro il 2030, dotandosi di 600 GWh supplementari di energia solare. Ma il vecchio continente non ha né lo spazio né le risorse per produrre internamente la totalità del proprio fabbisogno di energia verde. Ed ecco che gli annunci di mega progetti di centrali solari in Nord Africa, così come quelli di cavi sottomarini nel mediterraneo, non fanno che moltiplicarsi.

    Il miracolo del sole africano torna a suggestionare un’Europa che ancora fatica a liberarsi del proprio retaggio coloniale quando guarda alla riva sud del Mediterraneo. Buona parte delle compagnie che promettono energia pulita importata continuano a raccontare una favola distorta e romanticizzata dei deserti: terre vuote, inutili, da colonizzare.

    Una narrazione contestata da chi, invece, quel deserto lo abita: «Non ci opponiamo alle rinnovabili, ma chiediamo una transizione energetica equa, che prenda in considerazione le rivendicazioni sociali e ambientali locali e non riproduca le dinamiche dell’industria fossile», ripetono le comunità che osservano l’installazione dei pannelli solari europei dalla finestra di casa.
    La transizione europea si farà sulle spalle del Nord Africa?

    Lungo il confine fra Tunisa e Algeria, a 120 chilometri dalla città più vicina, Kebilli, l’unica strada che porta a Rjim Maatoug è percorsa avanti e indietro dai camion cisterna che vanno ai giacimenti di petrolio e gas del Sud tunisino. Cittadina in mezzo al deserto negli anni ‘80 monitorata dai soldati del Ministero della difesa tunisino, Rjim Maatoug è stata costruita ad hoc con l’aiuto di fondi europei, e in particolar modo dell’Agenzia Italiana per lo Sviluppo e la cooperazione (AICS).

    Un tempo abitato da comunità nomadi, il triangolo desertico che delimita il confine tunisino con l’Algeria da un lato, la Libia dall’altro, è oggi un’immensa zona militare accessibile ai non residenti solo con un permesso del Ministero della difesa. Questi terreni collettivi sono da sempre la principale fonte di sostentamento delle comunità del deserto, che un tempo si dedicavano all’allevamento. Occupate durante la colonizzazione francese, queste terre sono state recuperate dallo Stato dopo l’indipendenza nel 1957, poi concesse a compagnie private straniere, principalmente multinazionali del petrolio. Prima nella lista: l’italiana #Eni.

    In questa zona, dove la presenza statale è vissuta come una colonizzazione interna, villaggi identici delimitati da palmeti si sussegono per 25 chilometri. «Abbiamo costruito questa oasi con l’obiettivo di sedentarizzare le comunità nomadi al confine», spiega uno dei militari presenti per le strade di Rjim Maatoug. Dietro all’obiettivo ufficiale del progetto – “frenare l’avanzata del deserto piantando palmeti” – si nasconde invece un’operazione di securizzazione di un’area strategica, che ha radicalmente modificato lo stile di vita delle comunità locali, privandole dei loro mezzi di sussistenza. Un tempo vivevano nel e del deserto, oggi lavorano in un’immensa monocultura di datteri.

    È di fronte alla distesa di palme di Rjim Maatoug, piantate in centinaia di file parallele, che la società tunisino-britannica TuNur vuole costruire la sua mega centrale solare. L’obiettivo: «Fornire elettricità pulita a basso costo a 2 milioni di case europee», annuncia la società sul suo sito internet.

    Per la sua vicinanza all’Italia (e quindi all’Europa), la Tunisia è il focus principale delle aziende che puntano a produrre energia solare nel deserto. In Tunisia, però, solo il 3% dell’elettricità per ora è prodotta a partire da fonti rinnovabili. Nell’attuale contesto di grave crisi finanziaria, il Paese fatica a portare avanti i propri ambiziosi obiettivi climatici (35% entro il 2030). Ma l’opportunità di vendere energia all’Ue sembra prendersi di prepotenza la priorità sulle necessità locali, anche grazie a massicce operazioni di lobbying.

    TuNur si ispira apertamente alla Desertec Industrial Initiative (Dii), un progetto regionale abbandonato nel 2012, portato avanti all’epoca da alcuni tra gli stessi azionisti che oggi credono in TuNur. Desertec mirava all’esportazione di energia solare prodotta nel Sahara attaverso una rete di centrali sparse tra il Nord Africa e il Medio Oriente per garantire all’Europa il 15% del proprio fabbisogno di elettricità entro il 2050. Se neanche il progetto pilota è mai stato realizzato, i vertici della compagnia proiettavano i propri sogni su due deserti in particolare: quello tunisino e quello marocchino.

    Oggi il progetto è stato relativamente ridimensionato. La centrale tunisina TuNur prevede di produrre 4,5 GWh di elettricità – il fabbisogno di circa cinque milioni di case europee – da esportare verso Italia, Francia e Malta tramite cavi sottomarini.

    Il progetto è sostenuto da una manciata di investitori, ma i dipendenti dell’azienda sono solo quattro, conferma il rapporto del 2022 di TuNur consultato da IrpiMedia. Tra questi, c’è anche il direttore: il volto dell’alta finanza londinese Kevin Sara, fondatore di diversi fondi di investimenti nel Regno Unito, ex membro del gigante finanziario giapponese Numura Holdings e della cinese Astel Capital. Affiancato dal direttore esecutivo, l’inglese Daniel Rich, Sara è anche amministratore delegato dello sviluppatore di centrali solari Nur Energie, società che, insieme al gruppo maltese Zammit, possiede TuNur ltd. Il gruppo Zammit, che raccoglie imprese di navigazione, bunkering, e oil&gas, è apparso nel 2017 nell’inchiesta Paradise Papers sugli investimenti offshore. Il braccio tunisino del comitato dirigente, invece, è un ex ingegnere petrolifero che ha lavorato per anni per le multinazionali del fossile Total, Shell, Noble Energy e Lundin, Cherif Ben Khelifa.

    Malgrado le numerose richieste di intervista inoltrate alla compagnia, TuNur non ha mai risposto alle domande di IrpiMedia.

    TuNur opera in Tunisia dalla fine del 2011, ed ha più volte annunciato l’imminente costruzione della mega centrale. Finora, però, neanche un pannello è stato installato a Rjim Maatoug, così che numerosi imprenditori del settore hanno finito per considerare il progetto “irrealistico”, anche a causa dei costi estremamente elevati rispetto al capitale di una compagnia apparentemente piccola. Eppure, ad agosto 2022 l’amministratore delegato di TuNur annunciava all’agenzia Reuters «l’intenzione di investire i primi 1,5 miliardi di euro per l’installazione della prima centrale». Non avendo potuto parlare con l’azienda resta un mistero da dove venga, e se ci sia davvero, un capitale così importante pronto per essere investito.

    Ma che la società sia ancora alla ricerca del capitale necessario, lo spiega lo stesso direttore esecutivo Daniel Rich in un’intervista rilasciata a The Africa Report nel 2022, affermando che TuNur ha incaricato la società di consulenza britannica Lion’s Head Global Partners di cercare investimenti. Poco dopo queste dichiarazioni, Rich ha ottenuto un incontro con il Ministero dell’energia. Anticipando i dubbi delle autorità, ha assicurato «la volontà del gruppo di espandere le proprie attività in Tunisia grazie ai nuovi programmi governativi». Secondo i documenti del registro di commercio tunisino, la sede tunisina della società TuNur – registrata come generica attività di “ricerca e sviluppo” – possiede un capitale di appena 30.000 dinari (10.000 euro). Una cifra infima rispetto a quelle necessarie ad eseguire il progetto.

    Secondo Ali Kanzari, il consulente principale di TuNur in Tunisia, nonché presidente della Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), il progetto si farà: «Il commercio Tunisia-Europa non può fermarsi ai datteri e all’olio d’oliva», racconta nel suo ufficio di Tunisi, seduto accanto ad una vecchia cartina del progetto. Ai suoi occhi, la causa del ritardo è soprattutto «la mancanza di volontà politica». «La Tunisia è al centro del Mediterraneo, siamo in grado di soddisfare il crescente fabbisogno europeo di energia verde, ma guardiamo al nostro deserto e non lo sfruttiamo», conclude.
    Ouarzazate, Marocco: un precedente

    La Tunisia non è il primo Paese nordafricano sui cui le compagnie private hanno puntato per sfruttare il “potenziale solare” del deserto. Il progetto di TuNur è ricalcato su quello di una mega centrale solare marocchina fortemente voluta da re Mohamed VI, diventata simbolo della transizione del Paese della regione che produce più elettricità a partire da fonti rinnovabili (19% nel 2019).

    Nel febbraio 2016, infatti, il re in persona ha inaugurato la più grande centrale termodinamica del mondo, Noor (suddivisa in più parti, Noor I, II, III e IV). Acclamato dai media, il progetto titanico Noor, molto simile a TuNur, non produce per l’esportazione, ma per il mercato interno ed ha una capacità di 580 MWh, solo un ottavo del progetto tunisino TuNur. Il sito è attualmente gestito dal gruppo saudita ACWA Power insieme all’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN). Secondo quanto si legge sul sito della società, anche Nur Energie, azionista di TuNur e di Desertec, avrebbe partecipato alla gara d’appalto.

    Nel paesaggio desertico roccioso del Marocco sud-orientale, a pochi chilometri dalla città di Ouarzazate, ai piedi della catena dell’Alto Atlante, centinaia di pannelli si scorgono a distanza tra la foschia. Sono disposti in cerchio intorno a una torre solare, e si estendono su una superficie di 3.000 ettari. Si tratta di specchi semiparabolici che ruotano automaticamente durante il giorno per riflettere i raggi solari su un tubo sottile posto al centro, da dove un liquido viene riscaldato, poi raccolto per alimentare una turbina che produce elettricità. Così funziona la tecnologia CSP (Concentrated Solar Power) riproposta anche per il progetto tunisino TuNur. «Con il CSP possiamo immagazzinare energia per una media di cinque ore, il che è molto più redditizio rispetto all’uso delle batterie», afferma Ali Kanzari, consulente principale della centrale TuNur, che vuole utilizzare la stessa tecnologia.

    Diversi grandi gruppi tedeschi sono stati coinvolti nella costruzione del complesso marocchino Noor. Ad esempio, il gigante dell’elettronica Siemens, che ha prodotto le turbine CSP. Secondo il media indipendente marocchino Telquel, i finanziatori del progetto – la Banca Mondiale e la banca tedesca per lo sviluppo Kfw – avrebbero perorato l’adozione di questa tecnologia, difendendo gli interessi dei produttori tedeschi, mentre gli esperti suggerivano – e suggeriscono tutt’ora – una maggiore cautela. La causa: l’elevato consumo di acqua di questo tipo di tecnologia durante la fase di raffreddamento.

    La valutazione dell’impatto ambientale effettuata prima della costruzione del progetto, consultata da IrpiMedia, prevede un consumo idrico annuale di sei milioni di metri cubi provenenti dalla diga di El Mansour Eddahbi, situata a pochi chilometri a est di Ouarzazate, che attualmente dispone solo del 12% della sua capacità totale. «Tuttavia, è impossibile ottenere statistiche ufficiali sul consumo effettivo, che sembra molto maggiore», osserva la ricercatrice Karen Rignall, antropologa dell’Università del Kentucky e specialista della transizione energetica in zone rurali, che ha lavorato a lungo sulla centrale solare di Noor.

    Il Marocco attraversa una situazione di «stress idrico strutturale», conferma un rapporto della Banca Mondiale, e la regione di Ouarzazate è proprio una delle più secche del Paese. Nella valle del Dadès, accanto alla centrale Noor, dove scorre uno degli affluenti della diga, gli agricoltori non hanno dubbi e chiedono un’altra transizione rinnovabile, che apporti riscontri positivi anche alle comunità della zona: «La nostra valle è sull’orlo del collasso, non possiamo stoccare l’acqua perché questa viene deviata verso la diga per le esigenze della centrale solare. Per noi Noor è tutt’altro che sostenibile», afferma Yousef il proprietario di una cooperativa agricola, mentre cammina tra le palme secche di un’oasi ormai inesistente, nella cittadina di Suq el-Khamis.

    In questa valle, conosciuta per le coltivazioni di una varietà locale di rosa, molti villaggi portano il nome del oued – il fiume, in arabo – che un tempo li attraversava. Oggi i ponti attraversano pietraie asciutte, e dell’acqua non c’è più traccia. I roseti sono secchi. A metà ottobre, gli abitanti della zona di Zagora, nella parallela ed egualmente secca valle di Draa, sono scesi in piazza per protestare contro quello che considerano water grabbing di Stato, chiedendo alle autorità una migliore gestione della risorsa. «In tanti stanno abbandonando queste aree interne, non riescono più a coltivare», spiega il contadino.

    Nel silenzio dei media locali, le manifestazioni e i sit-in nel Sud-Est del Marocco non fanno che moltiplicarsi. I movimenti locali puntano il dito contro la centrale solare e le vicine miniere di cobalto e argento, che risucchiano acqua per estrare i metalli rari. «In entrambi i casi si tratta di estrattivismo. Sono progetti che ci sono stati imposti dall’alto», spiega in un caffè di Ouarzazate l’attivista Jamal Saddoq, dell’associazione Attac Marocco, una delle poche ad occupasi di politiche estrattiviste e autoritarismo nel Paese. «È paradossale che un progetto che è stato proposto agli abitanti come soluzione alla crisi climatica in parte finisca per esserne responsabile a causa di tecnologie obsolete e dimensioni eccessive», riassume la ricercatrice Karen Rignall.

    È una centrale molto simile, ma di dimensioni nove volte maggiori, quella che TuNur intende installare nel deserto tunisino, dove l’agricoltura subisce già le conseguenze della siccità, di un’eccessiva salinizzazione dell’acqua a causa di infiltrazioni nella falda acquifera e di una malagestione delle risorse idriche. Secondo i dati dell’associazione Nakhla, che rappresenta gli agricoltori delle oasi nella regione di Kebili (dove si trova Rjim Maatoug), incontrata da IrpiMedia, viene pompato il 209% in più delle risorse idriche disponibili annualmente.

    La monetizzazione del deserto

    Eppure, ancora prima della pubblicazione della gara d’appalto del Ministero dell’energia per una concessione per l’esportazione, prerequisito per qualsiasi progetto di energia rinnovabile in Tunisia, e ancor prima di qualsiasi studio di impatto sulle risorse idriche, nel 2018 TuNur ha «ottenuto un accordo di pre-locazione per un terreno di 45.000 ettari tra le città di Rjim Maatoug e El Faouar», riferisce Ali Kanzari, senior advisor del progetto, documenti alla mano.

    Per il ricercatore in politiche agricole originario del Sud tunisino Aymen Amayed, l’idea dell’”inutilità” di queste aree è frutto di decenni di politiche fondarie portate avanti dall’epoca della colonizzazione francese. Le terre demaniali del Sud tunisino sono di proprietà dello Stato. Come in Marocco e in altri Paesi nord africani, le comunità locali ne rivendicano il possesso, ma queste vengono cedute alle compagnie private. «Queste terre sono la risorsa di sostentamento delle comunità di queste regioni, – spiega Aymen Amayed – Lo Stato ne ha fatto delle aree abbandonate, riservate a progetti futuri, economicamente più redditizi e ad alta intensità di capitale, creando un deserto sociale».

    TuNur promette di creare più di 20.000 posti di lavoro diretti e indiretti in una regione in cui il numero di aspiranti migranti verso l’Europa è in continua crescita. Ma nel caso di questi mega-progetti, «la maggior parte di questi posti di lavoro sono necessari solo per la fase di costruzione e di avvio dei progetti», sottolinea un recente rapporto dell’Osservatorio tunisino dell’economia. A confermarlo, è la voce degli abitanti della zona di Ouarzazate, in Marocco, che raccontano di essersi aspettati, senza successo, «una maggiore redistribuzione degli introiti, un posto di lavoro o almeno una riduzione delle bollette».

    La caratteristica di questi mega progetti è proprio la necessità di mobilitare fin dall’inizio una grande quantità di capitale. Tuttavia, «la maggior parte degli attori pubblici nei Paesi a Sud del Mediterraneo, fortemente indebitati e dipendenti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali, non possono permettersi investimenti così cospicui, così se ne fanno carico gli attori privati. In questo modo i profitti restano al privato, mentre i costi sono pubblici», spiega il ricercatore Benjamin Schütze, ricercatore in relazioni internazionali presso l’Università di Friburgo (Germania) che lavora sul rapporto tra autoritarismo ed estrattivismo green.

    Questa dinamica è illustrata proprio dalla mega centrale solare marocchina Noor. Fin dalla sua costruzione, l’impianto marocchino è risultato economicamente insostenibile: l’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN) ha garantito alla società privata saudita che lo gestisce un prezzo di vendita più elevato del costo medio di produzione dell’energia nel Paese. Un divario che costa allo Stato marocchino 800 milioni di dirham all’anno (circa 75 milioni di euro), anche a causa della scelta di una tecnologia costosa e obsoleta come il CSP, ormai sostituito dal fotovoltaico. A sostenerlo è il rapporto sulla transizione energetica del Consiglio economico, sociale e ambientale (CESE), un’istituzione consultiva indipendente marocchina. Le critiche emesse dal CESE sul piano solare marocchino sono costate il posto al direttore e a diversi esponenti dell’agenzia MASEN, anche se vicini al re.

    Per questi motivi, sostiene il ricercatore tedesco, i mega-progetti che richiedono una maggiore centralizzazione della produzione sono più facilmente realizzabili in contesti autoritari. In Tunisia, se per un certo periodo proprio il difficile accesso a terreni contesi ha rappresentato un ostacolo, la legislazione è cambiata di recente: il decreto legge n. 2022-65 del 19 ottobre 2022, emesso in un Paese che dal 25 luglio 2021 è senza parlamento, legalizza l’esproprio di qualsiasi terreno nel Paese per la realizzazione di un progetto di “pubblica utilità”. Una porta aperta per le compagnie straniere, non solo nell’ambito energetico.

    Lobbying sulle due rive

    Ma perché la porta si spalanchi, ai privati serve soprattutto una legislazione adatta. Anche se per ora la mega centrale TuNur esiste solo su carta, la società sembra esser stata riattivata nel 2017, pur rimanendo in attesa di una concessione per l’esportazione da parte del Ministero dell’energia tunisino.

    Se c’è però un settore nel quale la compagnia sembra essere andata a passo spedito negli ultimi anni, questo è proprio quello del lobbying. A Tunisi come a Bruxelles. Dal 2020, l’azienda viene inserita nel Registro della trasparenza della Commissione europea, che elenca le compagnie che tentano di influenzare i processi decisionali dell’Ue. Secondo il registro, TuNur è interessata alla legislazione sulle politiche energetiche e di vicinato nel Mediterraneo, al Green Deal europeo e alla Rete europea dei gestori dei sistemi di trasmissione di energia elettrica, un’associazione che rappresenta circa quaranta gestori di diversi Paesi. La sede italiana della compagnia TuNur è stata recentemente inclusa nel piano decennale di sviluppo della rete elettrica Ue dalla Rete europea.

    «Abbiamo bisogno che lo Stato ci dia man forte così da poter sviluppare una roadmap insieme ai Paesi europei, in modo che l’energia pulita tunisina possa risultare competitiva sul mercato», spiega il consulente Ali Kanzari consultando un dossier di centinaia di pagine. E conferma: TuNur ha già preso contatti con due società di distribuzione elettrica, in Italia e in Francia. Anche in Tunisia le operazioni di lobbying della società, e più in generale dei gruppi privati presenti nel Paese, sono cosa nota. «Questo progetto ha costituito una potente lobby con l’obiettivo di ottenere l’inclusione di disposizioni sull’esportazione nella legislazione sulle energie rinnovabili», conferma un rapporto sull’energia dell’Observatoire Tunisien de l’Economie, che analizza le ultime riforme legislatve e i casi di Desertec e TuNur.

    Approvata nel 2015, la legge n. 2015-12 sulle energie rinnovabili ha effettivamente aperto la strada ai progetti di esportazione di energia verde. A tal fine, ha quindi autorizzato la liberalizzazione del mercato dell’elettricità in Tunisia, fino ad allora monopolio della Socetà tunisina dell’Elettricità e del Gas (STEG), di proprietà statale, fortemente indebitata. La legge favorisce il ricorso a partenariati pubblico-privato, i cosidetti PPP.

    «Alcune raccomandazioni dell’Agenzia tedesca per la cooperazione internazionale allo sviluppo (GIZ) e dell’Iniziativa industriale Desertec (Dii) hanno anticipato alcune delle misure contenute nella legge del 2015», sottolinea ancora il rapporto dell’Osservatorio economico tunisino. Emendata nel 2019, la legge sulle rinnovabili è stata fortemente contestata da un gruppo di sindacalisti della società pubblica STEG, che chiedono che il prezzo dell’elettricità rimanga garantito dallo Stato.

    Dopo aver chiesto formalmente che la non-privatizzazione del settore nel 2018, due anni più tardi, in piena pandemia, i sindacalisti della STEG hanno bloccato la connessione alla rete della prima centrale costruita nel Paese, a Tataouine, che avrebbe quindi aperto il mercato ai privati. Cofinanziata dall’Agenzia francese per lo sviluppo (AFD), la centrale fotovoltaica da 10 MW appartiene alla società SEREE, una joint venture tra la compagnia petrolifera italiana Eni e la compagnia petrolifera tunisina ETAP.

    «Chiediamo allo Stato di fare un passo indietro su questa legge, che è stata ratificata sotto la pressione delle multinazionali. Non siamo contrari alle energie rinnovabili, ma chiediamo che rimangano a disposizione dei tunisini e che l’elettricità resti un bene pubblico», spiega in forma anonima per timore di ritorsioni uno dei sindacalisti che hanno partecipato al blocco, incontrato da IrpiMedia. Tre anni dopo la fine dei lavori e un lungo braccio di ferro tra governo e sindacato, la centrale solare di Tataouine è infine stata collegata alla rete elettrica all’inizio di novembre 2022.

    «Sbloccare urgentemente il problema della connessione delle centrali elettriche rinnovabili» è del resto una delle prime raccomandazioni citate in un rapporto interno, consultato da IrpiMedia, che la Banca Mondiale ha inviato al Ministero dell’economia tunisino alla fine del 2021. Anche l’FMI, con il quale la Tunisia ha concluso ad ottobre un accordo tecnico, incoraggia esplicitamente gli investimenti privati nelle energie rinnovabili attraverso il programma di riforme economiche presentato alle autorità, chiedendo tra l’altro la fine delle sovvenzioni statali all’energia. «Con la crisi del gas russo in Europa, la pressione nei nostri confronti è definitivamente aumentata», conclude il sindacalista.

    Nonostante un impianto legale che si è adattato ai progetti privati, i lavori di costruzione di buona parte delle centrali solari approvate in Tunisia, tutti progetti vinti da società straniere, sono rimasti bloccati. Il motivo: «La lentezza delle procedure amministrative. Nel frattempo, durante l’ultimo anno il costo delle materie prime è aumentato notevolmente sul mercato internazionale», spiega Omar Bey, responsabile delle relazioni istituzionali della società francese Qair Energy. «Il budget con il quale sono stati approvati i progetti qualche anno fa, oggi manderebbe le compagnie in perdita».

    Solo le multinazionali del fossile quindi sembano potersi permettere gli attuali prezzi dei pannelli solari da importare. «Non è un caso che l’unica centrale costruita in tempi rapidi e pronta ad entrare in funzione appartiene alla multinazionale del petrolio Eni», confida una fonte interna alla compagnia petrolifera tunisina ETAP. Le stesse multinazionali erano presenti al Salone internazionale della transizione energetica, organizzato nell’ottobre 2022 dalla Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), di cui TuNur è membro, riunite sotto la bandiera di Solar Power Europe, un’organizzazione con sede a Bruxelles. Sono più di 250 le aziende che ne fanno parte, tra queste TotalEnergies, Engie ed EDF, le italiane ENI, PlEnitude ed Enel, ma anche Amazon, Google, Huawei e diverse società di consulenza internazionali. Società con obiettivi diversi, spesso concorrenti, si riuniscono così di fronte all’esigenza comune di influenzare le autorità locali per rimodellare la legge a proprio piacimento.

    L’associazione di lobbying, infatti, si è presentata con l’obiettivo esplicito qui di «individuare nuove opportunità di business» e «ridurre gli ostacoli legislativi, amministrativi e finanziari allo sviluppo del settore». Per il consulente di TuNur Ali Kanzari, «la legge del 2015 non è sufficientemente favorevole alle esportazioni e va migliorata».

    Se gli studi tecnici e d’impatto per collegare le due rive si moltiplicano, sono sempre di più le voci che si levano a Sud del Mediterraneo per reclamare una transizione energetica urgente e rapida sì, ma innanzitutto equa, cioè non a discapito degli imperativi ambientali e sociali delle comunità locali a Sud del Mediterraneo «finendo per riprodurre meccanismi estrattivi e di dipendenza simili a quelli dell’industria fossile», conclude il ricercatore Benjamin Schütze. Molti sindacati e associazioni locali in Tunisia, in Marocco e nel resto della regione propongono un modello decentralizzato di produzione di energia verde, garanzia di un processo di democratizzazione energetica. Proprio il Partenariato per una Transizione energetica equa (Just Energy Transition Partnership) è al centro del dibattito di una COP27 a Sud del Mediterraneo.

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  • La France a autorisé des livraisons d’armements à la Russie en 2021
    https://disclose.ngo/fr/article/la-france-a-autorise-des-livraisons-armements-a-la-russie-en-2021

    L’Etat français a validé la livraison d’équipements militaires à la Russie pour près de 7 millions d’euros. C’est ce que révèle un rapport du ministère des armées dont le gouvernement retarde la publication depuis juin dernier. Disclose le publie en intégralité. Lire l’article

  • Le combat des #éleveurs du #Ndiaël pour récupérer « leurs terres »

    Dans le nord-ouest du Sénégal, une coalition de 37 villages proteste depuis dix ans contre l’attribution de 20 000 hectares à une entreprise agroalimentaire. Ce conflit foncier illustre un phénomène généralisé sur le continent africain : l’#accaparement_de_terres par des #multinationales.

    Tout a dû paraître parfait au ministre de l’élevage du Niger lorsqu’il a visité, le 1er juin 2022, les installations des Fermes de la Teranga, une entreprise implantée dans le nord-ouest du Sénégal, à une cinquantaine de kilomètres de Saint-Louis : immenses étendues de cultures verdoyantes, systèmes d’irrigation fonctionnels, grosses machines agricoles...

    Devant les caméras, Tidjani Idrissa Abdoulkadri s’est dit « très impressionné » par le travail de cette société, qui dit cultiver de la luzerne sur 300 hectares depuis 2021. Il a émis le souhait qu’un jour le fourrage qu’elle produit puisse nourrir le bétail nigérien.

    Mais le tableau qu’a vu le ministre est incomplet. Car à une quinzaine de kilomètres de là, au bout de pistes tracées dans la terre sableuse, Gorgui Sow fulmine. Installé sur une natte dans le salon de sa petite maison, ce septuagénaire pas du genre à se laisser faire raconte comment, depuis dix ans, il s’oppose à ce projet agro-industriel. Son combat, explique-t-il en pulaar, lui a valu de multiples intimidations et convocations à la gendarmerie. Mais pas question de renoncer : la survie de sa famille et du cheptel qui assure ses moyens d’existence en dépend.

    Tout est parti d’un décret signé en 2012 par le président Abdoulaye Wade, cinq jours avant le second tour d’une élection présidentielle à laquelle il était candidat, et confirmé après des tergiversations par son successeur, Macky Sall. Ce texte attribue pour cinquante ans renouvelables 20 000 hectares à Senhuile, une entreprise inconnue, créée par des investisseurs sénégalais et italiens au profil flou.

    La superficie en question couvre trois communes, Ronkh, Diama et Ngnith, mais la majeure partie se trouve à Ngnith, où elle englobe plusieurs dizaines de villages, dont celui de Gorgui Sow. Le décret prévoit aussi l’affectation de 6 500 hectares aux populations qui seraient déplacées par les plans de l’entreprise consistant à produire des graines de tournesol pour l’export.

    Toutes ces terres, proches du lac de Guiers, le plus grand lac du Sénégal, faisaient jusque-là partie de la réserve naturelle du Ndiaël, créée en 1965 et représentant 46 550 hectares. Les populations qui y vivaient pouvaient continuer à y faire pâturer leurs bêtes, soit des milliers de chèvres, ânes, chevaux, moutons, vaches. Elles pouvaient aussi y ramasser du bois mort, récolter des fruits sauvages, des plantes médicinales, de la gomme arabique, etc. Elles avaient en revanche l’interdiction d’y pratiquer l’agriculture.

    Gorgui Sow et ses voisins, tous éleveurs comme lui, ont donc été outrés d’apprendre en 2012 que non seulement leurs lieux de vie avaient été attribués à une entreprise, mais que cette dernière allait y développer à grande échelle une activité longtemps proscrite, le tout pour alimenter des marchés étrangers.

    À l’époque, ce type de transaction foncière était déjà devenu courant au Sénégal. Depuis, le mouvement s’est poursuivi et concerne toute l’Afrique, qui représente 60 % des terres arables de la planète : elle est le continent le plus ciblé par les accaparements fonciers à grande échelle et à des fins agricoles, selon la Land Matrix, une initiative internationale indépendante de suivi foncier.

    Comme les communautés locales ne disposent, en général, que d’un droit d’usage sur les terres qu’elles occupent et que le propriétaire, à savoir l’État, peut les récupérer à tout moment pour les attribuer à un projet déclaré « d’utilité publique », les effets sont similaires partout : elles perdent l’accès à leurs champs, sources d’eau, lieux de pâturage, etc. C’est ce qui est arrivé avec Senhuile.

    À ses débuts, l’entreprise, qui promettait de créer des milliers d’emplois, a défriché plusieurs milliers d’hectares (entre 5 000 et 7 000, selon l’ONG ActionAid), creusant des canaux d’irrigation depuis le lac de Guiers, installant des barbelés. Ce qui était une forêt est devenu une étendue sableuse dégarnie, un « vrai désert », disent les riverains. Mais Senhuile a dû s’arrêter : une partie de la population s’est soulevée, affrontant les gendarmes venus protéger ses installations. Elle n’a au bout du compte pratiquement rien cultivé.

    « Senhuile a détruit les ressources naturelles qui nous permettaient de vivre, explique aujourd’hui Gorgui Sow. Des enfants se sont noyés dans les canaux. Les barbelés qu’elle a installés ont tué nos vaches, la zone de pâturage a été considérablement réduite. » Lui et d’autres habitants ont constitué le Collectif de défense des terres du Ndiaël (Coden) pour demander la restitution de cet espace qu’ils considèrent comme le leur. Il rassemble 37 villages de la commune de Ngnith, ce qui représente environ 10 000 personnes. Tous sont des éleveurs semi-nomades.
    De Senhuile aux Fermes de la Teranga

    Au fil des ans, le Coden que préside Gorgui Sow a noué des alliances au Sénégal et à l’étranger et a bénéficié d’une large couverture médiatique. Il a rencontré diverses autorités à Dakar et dans la région, manifesté, envoyé des lettres de protestation, obtenu des promesses de partage plus équitable des terres. Mais rien ne s’est concrétisé.

    En 2018, il y a eu un changement : Frank Timis, un homme d’affaires roumain, a pris le contrôle de Senhuile, à travers une autre entreprise, African Agriculture Inc. (AAGR), enregistrée en 2018 aux îles Caïmans. C’est à cette occasion que Senhuile a été rebaptisée Fermes de la Teranga, un mot wolof signifiant « hospitalité ». Le nom de Frank Timis est bien connu au Sénégal : il a été notamment cité, avec celui d’un frère de Macky Sall, dans un scandale concernant un contrat pétrolier.

    À la stupeur des éleveurs de Ngnith, AAGR a déposé en mars 2022 une demande d’introduction en Bourse auprès de la Securities and Exchange Commission (SEC), à Washington, afin de lever des fonds. Disant avoir des intérêts au Sénégal et au Niger, elle annonce vouloir intégrer le marché international de vente de crédits carbone, de biocarburants et surtout de luzerne qu’elle a l’intention de proposer aux éleveurs locaux et de la région « ainsi qu’à l’Arabie saoudite, aux Émirats arabes unis et à l’Europe », selon le document remis à la SEC.

    « Qui chez nous aura les moyens d’acheter ce fourrage ? Celui que l’entreprise vend actuellement est hors de prix ! », s’agace Bayal Sow, adjoint au maire de Ngnith et membre du Coden. Il craint l’existence d’objectifs inavoués dans cette affaire, comme de la spéculation foncière. À ses côtés, dans son bureau de la mairie de Ngnith, écrasée par la chaleur de cette fin de saison sèche, un autre adjoint au maire, Maguèye Thiam, acquiesce, écœuré.

    Puisque la zone de pâturage a diminué, troupeaux et bergers sont contraints de partir loin, hors du Ndiaël, pour chercher du fourrage et des espaces où paître, précise-t-il. Dans ces conditions, l’idée que les territoires où les cheptels avaient l’habitude de se nourrir soient transformés en champs de luzerne pour produire du fourrage qui sera très certainement vendu à l’étranger paraît inconcevable.

    Être employé par les Fermes de la Teranga est également impensable : « Nous sommes une population d’éleveurs à 90 %, sans formation, sans diplôme. Nous ne pourrions être que de simples ouvriers. Cela n’a aucun intérêt », observe Hassane Abdourahmane Sow, membre du Coden. « Comment peut-on justifier l’attribution d’autant de terres à une entreprise alors que les populations locales en manquent pour pratiquer elles-mêmes l’agriculture et que l’État parle d’autosuffisance alimentaire ? », demande un autre ressortissant de la région.

    De son côté, AAGR assure que tout se passe bien sur le terrain. Sur le plan social, détaille-t-elle dans un courriel, le processus de concertation avec toutes les parties impliquées a été respecté. Elle dit avoir embauché sur place 73 personnes « qui n’avaient auparavant aucun emploi ni moyen de subsistance ».
    Dissensions

    Comme preuves de ses bonnes relations avec les populations locales, AAGR fournit des copies de lettres émanant de deux collectifs, l’un « des villages impactés de la commune de Ngnith », l’autre « des villages impactés de la commune de Ronkh », lesquels remercient notamment les Fermes de la Teranga de leur avoir donné du sucre lors du ramadan 2021. Ces deux collectifs « qui ont des sièges sociaux et des représentants légaux » sont les « seuls qui peuvent parler au nom des populations de la zone », insiste AAGR. « Toute autre personne qui parlera au nom de ces populations est motivée par autre chose que l’intérêt de la population impactée par le projet », avertit-elle.

    La société, qui a parmi ses administrateurs un ancien ambassadeur américain au Niger, communique aussi deux missives datées du 15 et 16 juillet 2022, signées pour la première par le député-maire de Ngnith et pour la seconde par le coordonnateur du Collectif de villages impactés de Ngnith. Dans des termes similaires, chacun dit regretter les « sorties médiatiques » de « soi-disant individus de la localité pour réclamer le retour de leurs terres ». « Nous sommes derrière vous pour la réussite du projet », écrivent-ils.

    Les Fermes de la Teranga se prévalent en outre d’avoir mis à disposition des communautés locales 500 hectares de terres. « Mais ces hectares profitent essentiellement à des populations de Ronkh qui ne sont pas affectées par le projet », fait remarquer un ressortissant de Ngnith qui demande : « Est-ce à l’entreprise “d’offrir” 500 hectares aux communautés sur leurs terres ? »

    Non seulement ce projet agro-industriel a « un impact sur nos conditions de vie mais il nous a divisés », s’attriste Hassane Abdourahmane Sow : « Des membres de notre collectif l’ont quitté parce qu’ils ont eu peur ou ont été corrompus. Certains villages, moins affectés par la présence de l’entreprise, ont pris parti pour elle, tout comme des chefs religieux, ce qui a là aussi généré des tensions entre leurs fidèles et eux. »

    « Il faut s’asseoir autour d’une table et discuter, suggère Maguèye Thiam. Nous ne sommes pas opposés à l’idée que cette société puisse bénéficier d’une superficie dans la région. Mais il faut que sa taille soit raisonnable, car les populations n’ont que la terre pour vivre », observe-t-il, donnant l’exemple d’une autre firme étrangère implantée sur 400 hectares et avec laquelle la cohabitation est satisfaisante.

    Interrogé par messagerie privée à propos de ce conflit foncier, le porte-parole du gouvernement sénégalais n’a pas réagi. Les membres du Coden répètent, eux, qu’ils continueront leur lutte « jusqu’au retour de (leurs) terres » et projettent de nouvelles actions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/260822/le-combat-des-eleveurs-du-ndiael-pour-recuperer-leurs-terres

    #élevage #terre #terres #résistance #Sénégal #industrie_agro-alimentaire #Fermes_de_la_Teranga #agriculture #décret #Senhuile #Ronkh #Diama #Ngnith #tournesol #graines_de_tournesol #exportation #réserve_naturelle #foncier #lac_de_Guiers #eau #irrigation #barbelés #déforestation #pâturage #Collectif_de_défense_des_terres_du_Ndiaël (#Coden) #Frank_Timis #African_Agriculture_Inc. (#AAGR) #luzerne #fourrage #spéculation #conflits

  • « Le marché des #pesticides dangereux est hautement rentable pour les firmes chimiques européennes »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/07/21/agriculture-le-marche-des-pesticides-dangereux-est-hautement-rentable-pour-l

    Bien que se présentant comme une entité soucieuse de la préservation de l’#environnement, l’#Union_Européenne continue de fabriquer pour le reste du monde ces produits qu’elle interdit sur son territoire, dénonce dans une tribune au « Monde » un collectif de représentants d’ONG et de scientifiques.

    #faux-semblants #ue

    #paywall

    • La suite :

      Tribune. Les inquiétudes des citoyens sur l’agrochimie grandissent à mesure que les impacts sur la santé et l’environnement sont mieux connus. En Europe, ces craintes, légitimes, ont permis la mise en place de garde-fous, même s’ils restent bien insuffisants. L’Union européenne (UE) a notamment interdit l’usage des pesticides les plus dangereux sur son sol, depuis le début des années 2000.

      Mais sur son sol uniquement, en tournant le dos au reste du monde et en fermant les yeux devant la production de ces produits sur son territoire. Ces pesticides sont d’une telle toxicité qu’ils sont très « efficaces » pour détruire les organismes vivants, nuisibles aux récoltes. Mais s’ils ont été retirés du marché européen, c’est bien parce que les dangers et les risques posés par ces substances étaient trop élevés.

      L’atrazine, par exemple, a été interdite en Europe en 2004, pour être un perturbateur endocrinien et être très persistante dans l’eau. Dix-huit ans après, l’atrazine est toujours détectée dans notre eau potable et cet herbicide est encore massivement produit en Europe et vendu dans le monde entier.

      Un désastre écologique et social

      Selon une enquête menée par l’ONG suisse Public Eye, en 2018, les géants de l’agrochimie ont vendu dans le monde plus de 80 000 tonnes de pesticides interdits en Europe. Et 90 % de ces produits viennent d’usines installées sur le Vieux Continent : Royaume-Uni, Italie, Pays-Bas, Allemagne, France, Belgique ou encore Espagne.

      Ethiquement, la posture de l’UE est intenable. D’autant que, sur la scène internationale, l’Europe se présente comme une entité soucieuse de la préservation de l’environnement. Pourtant, elle ne fait rien pour contraindre son industrie à cesser de produire une chimie obsolète et des plus toxiques. Comme ne cesse de le rappeler les ONG, ce marché des pesticides dangereux est hautement rentable pour les firmes chimiques, qui continuent de vendre des produits mis sur le marché il y a plusieurs décennies : le paraquat comme l’Atrazine ont été créés dans les années 1960.

      Au Brésil, un des géants de l’agriculture, ces produits provoquent un désastre écologique et social qui devrait nous inquiéter. Car ils sont toujours épandus par avion et avec un minimum de protection. Le gouvernement de Jair Bolsonaro a encore ouvert les vannes et a mis sur le marché brésilien 1 682 nouveaux pesticides.

      « Nouveaux » dans ce cas, ne voulant pas dire modernes et moins toxiques, car, à ce jour, le Brésil utilise « au moins 756 pesticides, issus de 120 principes actifs/molécules, tous interdits dans l’UE dans les années 2000 et toujours produits par les firmes européennes », rappelle la chimiste Sonia Hess, attachée à l’université de Santa Catarina. Dans les régions agricoles du Brésil, les scientifiques se battent parfois au péril de leur vie pour montrer les effets sur la santé et l’environnement.

      Un danger au Brésil, mais aussi en Europe

      Des scientifiques [sont] menacés tout comme les militants et même les procureurs qui cherchent à éviter une pollution massive et irréparable. L’agrobusiness et les firmes chimiques, en particulier, ignorent simplement les questions des journalistes. Et la violence n’est jamais bien loin dès qu’on enquête sur le terrain.

      C’est la géographe de l’université de Sao Paulo Larissa Bombardi qui a montré que ce commerce empoisonnait en premier le Brésil et, dans la foulée, les consommateurs européens qui mangent massivement des produits brésiliens fabriqués avec ces pesticides interdits.

      Larissa Bombardi a reconstitué ce qu’elle nomme comme un « cercle de l’empoisonnement », signifiant ainsi que les pesticides dangereux continuent d’arriver dans nos assiettes. Menacée pour ses travaux, elle a dû quitter le Brésil. « Est-ce que les Brésiliens sont des citoyens de seconde zone ? Sommes-nous une région sacrifiée pour ce modèle agricole qui doit délocaliser ses activités les plus dangereuses ? », se demandait le député brésilien Renato Roseno.

      La perspective d’une signature d’un accord de libre commerce entre l’Union européenne et le Mercosur inquiète particulièrement les Brésiliens soucieux de leur environnement. Ils craignent que cet accord soit une porte encore plus ouverte aux ravages des pesticides dangereux en Amérique du Sud mais aussi leur déferlement sur le Vieux Continent

      Les signataires de cette tribune sont : Arnaud Apoteker, délégué général de Justice Pesticides, France ; Larissa Bombardi, géographe à l’université de Sao Paulo (USP), Brésil ; Mathilde Dupré, codirectrice, Institut Veblen, France ; Laurent Gaberell, expert pour Public Eye, Suisse ; Karine Jacquemart, directrice, Foodwatch France ; Juergen Knirsch, expert dans les relations commerciales pour Greenpeace Allemagne ; Marcia Montanari Correa, chercheuse à l’Institut de santé collective de l’université fédérale du Mato Grosso, Brésil ; Ada Pontes, médecin et professeur à l’université fédérale de Cariri, Brésil ; Stenka Quillet, journaliste, réalisatrice du documentaire Pesticides : l’hypocrisie européenne ; Salomé Roynel, porte-parole de Pesticide Action Network (PAN) Europe ; François Veillerette, porte-parole de Générations futures, France ; Anne Vigna, journaliste, autrice du documentaire Pesticides : l’hypocrisie européenne.

    • Déjà en 2017, concernant les exportations françaises d’atrazine :
      https://seenthis.net/messages/602320
      https://seenthis.net/messages/602149

      L’ONG helvétique Public Eye vient de lancer une campagne contre ces exportations, particulièrement celles à destination des Etats signataires de la convention de Bamako, qui applique en Afrique la convention de Bâle sur le transport des déchets dangereux. Ces pays en développement considèrent qu’ils ne devraient pas recevoir un produit si celui-ci est interdit dans son pays d’origine en raison de sa toxicité.

      Depuis 2004, la France a autorisé 142 exportations d’atrazine au total, dont 33 vers des pays africains signataires de cette convention : le Soudan, le Mali, le Burkina Faso, l’Ethiopie, le Bénin et la Côte d’Ivoire. « Ces exportations constituent à nos yeux une violation de la convention de Bâle, estime Laurent Gaberell, spécialiste du dossier au sein de Public Eye. La France aurait dû interdire ces exportations. »

      Sur le site de l’ECHA, le ministère de l’environnement est mentionné comme responsable de ces autorisations. Celui-ci n’a pas répondu aux questions du Monde. « Nous pointons du doigt la responsabilité des Etats qui permettent l’exportation de pesticides interdits, estime Laurent Gaberell. Mais les entreprises ont aussi un devoir de diligence. » La convention de Bâle ne prévoit pas de sanctions à l’égard des pays membres qui ne respectent pas leurs engagements, mais les soutient afin qu’ils modifient leurs pratiques.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Convention_de_B%C3%A2le
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Convention_de_Bamako

      En 2021, dépliant de Public Eye sur le commerce toxique des pesticides en général : https://www.publiceye.ch/fr/publications/detail/le-commerce-toxique-des-pesticides

      Le géant Syngenta, dont le siège est à Bâle, est le leader de ce marché juteux : il détient à lui seul 25 % des parts du marché [mondial des pesticides]

      #business_as_usual #empoisonneurs #impunité #cynisme #syngenta

  • La rose kenyane face aux nouveaux défis de la mondialisation

    Le secteur des roses coupées est une composante majeure de l’insertion du Kenya dans la mondialisation des échanges. Cette production intensive sous serre, née de l’investissement de capitaux étrangers, tente de s’adapter aux évolutions récentes de l’économie globale et de tirer parti des nouvelles opportunités qu’offre ce marché. Les recompositions productives à l’œuvre concernent en premier lieu la diversification variétale et la montée en gamme de la production du cluster kenyan. Elles révèlent également de nouvelles interactions entre les producteurs et les obtenteurs. Par ailleurs, ce modèle productif fondé sur l’#exportation doit aujourd’hui faire face à de nouveaux défis en lien avec l’affirmation, au sein des principaux pays importateurs, d’un #capitalisme_d’attention centré sur les problématiques éthiques et environnementales. Ce contexte incite les producteurs kenyans à réduire leur dépendance historique vis-à-vis de l’#Europe et en particulier des #Pays-Bas en misant sur de nouvelles modalités de mise en marché et en diversifiant leurs débouchés commerciaux.

    https://journals.openedition.org/belgeo/54897

    #rose #fleur #Kenya #mondialisation #globalisation #ressources_pédagogiques #éthique #commerce

    • Une lecture géographique du voyage de la rose kenyane : de l’éclatement de la chaîne d’approvisionnement aux innovations logistiques

      La #rosiculture et sa #commercialisation à l’échelle internationale stimulent l’#innovation_logistique et révèlent des #interdépendances anciennes entre #floriculture, #transport et #logistique. L’objectif de cet article est de montrer, à travers la chaîne d’approvisionnement de la rose coupée commercialisée en Europe, que les exigences de la filière induisent des bouleversements et des innovations dans la chaîne logistique associée. Celles-ci ont un caractère profondément spatial qui justifie une analyse géographique de l’évolution de la chaîne d’approvisionnement : les imbrications entre floriculture et logistique produisent des effets de proximité puis de distance, de changement d’échelle, mais également des effets de concentration spatiale, de géophagie, de fluidité, ou encore d’imperméabilité. Ces recompositions spatiales se lisent à la fois à l’échelle de la chaîne d’approvisionnement dans son intégralité, des serres aux marchés de consommation, qu’à celle des lieux, des nœuds qui la composent : le pack house à la ferme, l’#aéroport Jomo Kenyatta de Nairobi ou encore le complexe logistique articulé entre l’aéroport d’#Amsterdam-Schiphol et les enchères de #Royal_Flora_Holland à Aalsmeer.

      https://journals.openedition.org/belgeo/54992

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • 5 questions à Roland Riachi. Comprendre la #dépendance_alimentaire du #monde_arabe

    Économiste et géographe, Roland Riachi s’est spécialisé dans l’économie politique, et plus particulièrement dans le domaine de l’écologie politique. Dans cet entretien, il décrypte pour nous la crise alimentaire qui touche le monde arabe en la posant comme une crise éminemment politique. Il nous invite à regarder au-delà de l’aspect agricole pour cerner les choix politiques et économiques qui sont à son origine.

    https://www.carep-paris.org/5-questions-a/5-questions-a-roland-riachi
    #agriculture #alimentation #colonialisme #céréales #autosuffisance_alimentaire #nationalisation #néolibéralisme #Egypte #Soudan #Liban #Syrie #exportation #Maghreb #crise #post-colonialisme #souveraineté_nationale #panarabisme #militarisme #paysannerie #subventions #cash_crop #devises #capitalisme #blé #valeur_ajoutée #avocats #mangues #mondialisation #globalisation #néolibéralisme_autoritaire #révolution_verte #ouverture_du_marché #programmes_d'ajustement_structurels #intensification #machinisation #exode_rural #monopole #intrants #industrie_agro-alimentaire #biotechnologie #phosphates #extractivisme #agriculture_intensive #paysans #propriété_foncière #foncier #terres #morcellement_foncier #pauvreté #marginalisation #monoculture #goût #goûts #blé_tendre #pain #couscous #aide_humanitaire #blé_dur #durum #libre-échange #nourriture #diète_néolibérale #diète_méditerranéenne #bléification #importation #santé_publique #diabète #obésité #surpoids #accaparement_des_terres #eau #MENA #FMI #banque_mondiale #projets_hydrauliques #crise_alimentaire #foreign_direct_investment #emploi #Russie #Ukraine #sécurité_alimentaire #souveraineté_alimentaire

    #ressources_pédagogiques

    ping @odilon

  • Encore un porte-conteneurs de 12 000 EVP échoué
    Un plan pour sortir l’« Ever Forward », enkysté au large de Baltimore Le Marin.Ouest.France
    https://lemarin.ouest-france.fr/secteurs-activites/shipping/42950-un-plan-pour-sortir-l-ever-forward-enkyste-au-large-de-ba

    #Evergreen, un an après l’accident à Suez de l’#Ever Given est confronté au difficile renflouement de l’#Ever Forward, un porte-conteneurs de taille moindre qui s’est échoué le 13 mars après son escale à Baltimore.


    Alors qu’il faisait route vers Norfolk, le porte-conteneurs de 12 000 EVP (contre 20 400 EVP pour l’Ever Given, avec lequel il a été hâtivement assimilé), sous pavillon de Hong Kong, s’est retrouvé coincé sur un haut fond de la célèbre baie de Chesapeake dans la soirée du 13 mars. Les premières opérations de sauvetage ont échoué.
    https://www.youtube.com/watch?v=HJmK9IUS9fA

    Les inspections sous-marines n’ont pas permis de constater de dégâts substantiels sur la coque, ni de pollution. Un plan plus complexe a été élaboré avec Donjon Smit, coentreprise entre Donjon marine et la filiale américaine du néerlandais Smit (qui avait déjà mené l’an passé le renflouement de l’Ever Given). Choisi par Evergreen et ses assureurs, le duo pourrait prendre une semaine avant d’aboutir, menant ses opérations sous la supervision des gardes-côtes américains. Ces derniers ont mis en place un périmètre de sécurité de 500 mètres autour du navire, qui ne fait pas obstacle à la navigation.

    L’objectif est de déballaster le navire et de draguer le sol vaseux de la baie autour du porte-conteneurs afin de laisser de l’espace entre l’hélice et le safran et le fond marin. Il conviendra ensuite d’attendre une pleine mer pour sortir le porte-conteneurs de 334 mètres de long en faisant de nouveau appel à tous les remorqueurs portuaires disponibles dans la zone.

    Les explications sur l’accident ne sont pas claires. Une tempête de fin d’hiver passée le 12 mars a pu modifier les niveaux des marées. Mais selon Sal Mercogliano, un historien maritime de l’université Campbell en Caroline du Nord, qui publie des vidéos sur l’accident, le navire allait trop vite et est sorti du chenal. Il s’est échoué par 7,50 mètres d’eau alors qu’il affichait un tirant d’eau de 13 mètres.

    L’Ever Forward est affecté à une des lignes Asie - côte-est des Etats-Unis via Panama de l’Ocean alliance (Evergreen, #CMA #CGM et #Cosco-OOCL ).

     #transport_maritime #pollution #transport #porte-conteneurs #transports #conteneurs #mondialisation #mer #container #environnement

    • Une start-up israélienne lève plus de 12 millions $ pour du poisson imprimé en 3D Ricky Ben-David
      https://fr.timesofisrael.com/une-start-up-israelienne-leve-plus-de-12-millions-pour-du-poisson-

      La société alimentaire israélienne Plantish, qui propose des filets de saumon à base de plantes imitant, selon elle, l’apparence, le goût et la texture du poisson, a levé plus de 12 millions de dollars, la plus importante du secteur des alternatives aux produits de la mer.


      Selon une information donnée par Plantish ce mercredi, les quelque 12,5 millions de dollars proviendraient du fonds d’investissement israélien State Of Mind Ventures, avec la participation de Pitango Health Tech, VC Unovis – de New York et spécialisé dans les protéines alternatives –, TechAviv Founder Partners, un fonds dédié aux créateurs israéliens qui a soutenu des entreprises telles que la société de logistique de drones Flytrex, la société de création Nas Academy et la société d’investissement israélienne OurCrowd.

      La start-up avait déjà levé 2 millions de dollars en financement de pré-amorçage en juin 2021 auprès de TechAviv Founder Partners et d’investisseurs providentiels, dont le célèbre chef hispano-américain José Andrés ou le célèbre créateur de contenu israélo-palestinien Nuseir Yassin, de Nas Daily.

      Basée à Rehovot, la start-up déclare avoir mis au point un filet de saumon entièrement végétalien, sans arêtes, de même valeur nutritive que le véritable poisson, riche en protéines, acides gras oméga 3 et oméga 6 et vitamines B, mais sans mercure, antibiotiques, hormones, microplastiques et toxines souvent présents dans les spécimens océaniques ou aquacoles.

      Le produit Plantish peut être cuit ou grillé de la même manière que le saumon traditionnel, précise l’entreprise.

      Plantish a dévoilé son prototype de saumon à base de plantes en janvier, annonçant développer une technologie de fabrication additive (le nom industriel de l’impression 3D) en instance de brevet. L’objectif est de fabriquer des alternatives au poisson à base de plantes, à faible coût et à grande échelle.


      La société a déclaré avoir opté pour une production entière plutôt que hachée, en dépit de la complexité de l’opération, afin de mieux répondre à la demande des clients.

      « Environ 80 % du poisson est consommé entier, sous forme de poisson entier ou de filets », explique Plantish.

      Plantish a été fondée à la mi-2021 par Ofek Ron, ex directeur général de l’organisation israélienne Vegan Friendly, qui en est le PDG. Hila Elimelech est docteure en chimie et experte en technologie de fabrication additive, responsable de la R&D, le docteur Ron Sicsic est directeur scientifique, Ariel Szklanny est docteur en bioingénierie et directeur de la technologie tandis qu’Eyal Briller est l’ex directeur « produits » de la société américaine de viande à base de plantes Impossible Foods.

      Les fonds serviront à renforcer l’équipe et poursuivre la R&D pour le développement de nouveaux produits, avec en projet de proposer ce saumon à base de plantes dans les restaurants, comme première étape, a expliqué Plantish.

      La start-up a déclaré que son « saumon » à base de plantes serait lancé dans quelques lieux éphémères d’ici la fin de 2022, le lancement officiel étant programmé pour 2024.

      « Nous avons déjà vu ce phénomène sur le marché de la viande, maintenant c’est au tour du poisson », a déclaré Ron dans un communiqué de l’entreprise.

      « En particulier le saumon, qui représente 50 millions de dollars sur le marché des produits de la mer valorisé à un demi-milliard de dollars. Jusqu’à présent, le problème venait de la difficulté à reproduire la texture et la saveur du poisson. »

      Ron a ajouté que la société offrait « une délicieuse alternative au saumon, à la fois plus sûre pour vous et meilleure pour la planète. Pas d’antibiotiques, pas d’hormones, pas de mercure, pas de captures accidentelles et pas de compromis ».

      L’objectif de l’entreprise, a-t-il précisé, est de devenir « la marque numéro 1 de produits de la mer au monde, le tout sans faire de mal à un seul poisson ».

      « Parvenir à produire des produits de la mer entiers est la prochaine grande étape dans notre quête d’excellence et de développement durable », a déclaré Merav Rotem Naaman, associée générale chez State Of Mind Ventures.

      « Lorsque nous avons rencontré l’excellente équipe de Plantish, nous savions qu’elle avait la passion, la vision et la capacité de mener à bien la tâche apparemment impossible de produire une véritable alternative au poisson. »

      Plantish est l’une des quelque 90 entreprises dans le monde qui évoluent dans le domaine de l’industrie des produits de la mer à base de plantes. Une dizaine d’autres développent des produits de la mer cultivés ou des poissons fabriqués à partir de cellules animales, selon un rapport du Good Food Institute de juin 2021.

      La société d’études de marché IMARC Group a indiqué que les entreprises spécialisées dans les alternatives au poisson et autres produits de la mer avaient connu une croissance de l’ordre de 30 % entre 2017 et 2020. Cette tendance devrait se poursuivre dans les années à venir, avec la montée des préoccupations concernant l’épuisement des ressources ou la surpêche et la maturation des entreprises du secteur, passant du stade du développement à celui de la commercialisation.

      Plantish fait partie de la quarantaine de startups israéliennes du secteur des protéines alternatives à avoir connu une croissance d’environ 450 % en 2021, selon le dernier rapport du Good Food Institute (GFI) publié cette semaine.

      Le secteur des protéines alternatives est un sous-segment de l’industrie de la technologie alimentaire, qui comprend également la nutrition, l’emballage, la sécurité alimentaire, les systèmes de transformation et les nouveaux ingrédients. Il comprend des substituts à base de plantes pour la viande, les produits laitiers et les œufs, les produits laitiers, viandes et produits de la mer cultivés, les protéines issues des insectes et les produits et procédés de fermentation.

      #lignées_cellulaires #matière_première #protéines #protéines_alternatives #startups #technologie_alimentaire #recherche_&_développement #impression_3d #imprimante_3d #imprimantes_3d #fabrication additive #soleil_vert

    • Une saison de sole « catastrophique » à Boulogne-sur-Mer Darianna MYSZKA
      https://lemarin.ouest-france.fr/secteurs-activites/peche/42944-une-saison-de-sole-catastrophique-boulogne-sur-mer

      Après une bonne saison 2021, la raréfaction de la sole se fait à nouveau ressentir en Manche-est.

      En février, les pêcheurs côtiers de Boulogne ont débarqué à la criée 5 055 kg de sole commune contre 38 753 kg en 2021. Cette baisse de 86 % inquiète les professionnels pour qui la situation est « catastrophique ». Sur toute l’année 2021, les fileyeurs boulonnais avaient capturé 156 tonnes de soles, soit une augmentation de 128 % par rapport à l’année précédente. Ces résultats faisaient pressentir aux pêcheurs un début de la régénération de la ressource, liée notamment à l’interdiction totale de la pêche électrique entrée en vigueur au 1er juillet 2021.


      Mais l’année 2022 démarre mal. Mathieu Pinto, patron boulonnais de l’Ophélie, pêche en ce moment entre 100 et 150 kg de sole par marée et son collègue calaisien Josse Martin, patron du fileyeur Mirlou, seulement 20 kg. « On devrait en avoir entre 500 et 600 », regrette Mathieu Pinto. Étrangement, en janvier (hors saison), les pêcheurs boulonnais travaillaient mieux que d’habitude, avec plus de 8 tonnes débarquées à la criée au lieu de 4 l’année précédente. « Beaucoup de raisons peuvent expliquer cette diminution », indique Raphaël Girardin, chercheur à l’Ifremer, précisant qu’il est trop tôt pour rendre des conclusions, l’institut travaillant avec un an de recul.

      Par ailleurs, afin de trouver le poisson, les fileyeurs s’éloignent davantage des côtes françaises, parfois jusqu’à 4 heures de route de Boulogne. L’augmentation du prix du gasoil rend leur activité encore plus difficile. Pour partir en mer, Mathieu Pinto dépense tous les quatre jours 1 500 euros. Les prix de la sole, eux, restent toujours les mêmes, environ 14 euros/kilo.

      #peche_electrique #ifremer #gasoil #pêche #sole #poisson #mer

    • La Suisse va importer davantage de beurre d’ici la fin de l’année Alors qu’elle peut le produire
      https://www.rts.ch/info/suisse/12959263-la-suisse-va-importer-davantage-de-beurre-dici-la-fin-de-lannee.html

      La Suisse ne manque pas de lait mais elle manque de beurre, et elle va en importer 2000 tonnes supplémentaires d’ici la fin de l’année. L’Office fédéral de l’agriculture augmente les contingents d’importation pour 2022.
      Il a pris cette décision à la demande de l’Interprofession du lait, a-t-il annoncé lundi. La demande en beurre est forte : les Suisses consomment en moyenne 40’000 tonnes de beurre par an. Une demande en hausse depuis 2020, en raison de la pandémie. Les mesures sanitaires poussent en effet les Suisses à cuisiner davantage à la maison. Elles limitent aussi le tourisme d’achat.


      Production insuffisante
      Le problème, c’est que la production nationale ne suffira pas, cette année encore, à satisfaire la demande. La Confédération augmente donc pour la deuxième fois en quelques mois le contingent d’importations du beurre en provenance de l’Union européenne.

      Pourtant la Suisse aurait les capacités laitières pour satisfaire la demande. Mais il est aujourd’hui plus avantageux financièrement de fabriquer du fromage. Or, quatre fromages sur dix produits dans le pays sont exportés, dont de nombreux pâtes mi-dure à faible valeur ajoutée. « Et leur quantité est en augmentation », déplore mardi la secrétaire syndicale d’Uniterre Berthe Darras dans La Matinale de la RTS.

      Système dénoncé
      Ce système est ainsi dénoncé par certains producteurs et syndicats agricoles. Pour eux, à défaut de pouvoir produire plus de lait, la Suisse doit revaloriser la filière du beurre, en rendant son prix plus attrayant. Et privilégier, quel que soit le produit laitier, le marché indigène, insiste Berthe Darras.

      Sujet radio : Valentin Emery

      Adaptation web : Jean-Philippe Rutz

      #Suisse #Lait #Beurre #exportation #mondialisation #transports

  • L’Europe exporte des milliers de tonnes de pesticides « tueurs d’abeilles » pourtant interdits sur son sol
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2021/11/18/l-europe-exporte-des-milliers-de-tonnes-de-pesticides-tueurs-d-abeilles-pour

    L’UE a donné son feu vert aux demandes d’#exportation d’au moins 4 000 tonnes de #néonicotinoïdes #interdits, notamment au Brésil. La France est le deuxième pays exportateur.

    Exportations de pesticides interdits : un business florissant, particulièrement pour Syngenta
    https://www.lenouvelliste.ch/articles/monde/exportations-de-pesticides-interdits-un-business-florissant-interdire-

    Les firmes agrochimiques de l’Union européenne (UE) exportent loin à la ronde des #pesticides dont l’#UE a pourtant voté l’interdiction d’utilisation dans ses cultures en avril 2018. Le suisse Syngenta, mais aussi les allemands #Bayer ou #BASF, sont concernés. Il y a aussi l’australien NuFarm et l’indien UPL. C’est ce que mettent en lumière pour la première fois les ONG Public Eye et Unearthed dans une enquête dont notre journal a la primeur en...

    • Environ 300 « notifications d’exportations » ont été approuvées entre le 1er septembre et le 31 décembre 2020 à destination de 65 pays différents, dont une très large majorité à faible ou moyen revenus comme le Brésil, l’Indonésie ou l’Ukraine. Neuf pays européens sont concernés par ce « commerce toxique », comme le désignent les ONG. Avec 310 tonnes de substances actives, la Belgique est de loin le plus gros exportateur, devant la France (157 tonnes), l’Allemagne (97 tonnes) et l’Espagne (78 tonnes).

  • Exportations mondiales de graine de soja dans les années 1980
    https://visionscarto.net/exportations-mondiales-soja

    Titre : Exportations mondiales de graine de soja Mots-clés : #archives #géographie #matières_premières #sémiologie #1988 Contexte : Exercice - Recherche cartographique réalisée à l’école supérieure de cartographie géographique de l’Institut de géographie, université de Paris I Sources : - Auteur : Philippe Rekacewicz Date : 1988 #Musée_et_archives

  • Les pays en développement pris dans l’étau de la #dette

    http://www.cadtm.org/Les-pays-en-developpement-pris-dans-l-etau-de-la-dette-19453

    Mise à jour ds infos sur la dette des pays en voie de développement, avec les dossiers et les infos toujours nec plus ultra du CADTM

    La pandémie du coronavirus et les autres aspects de la crise multidimensionnelle du capitalisme mondialisé justifient en soi la suspension du remboursement de la dette. En effet il faut donner la priorité à la protection des populations face aux drames sanitaires, économiques et écologiques.

    En plus de l’urgence, il est important de prendre la mesure des tendances plus longues qui rendent nécessaire la mise en œuvre de solutions radicales en ce qui concerne la dette des pays en développement. C’est pour cela que nous poursuivons l’analyse des facteurs qui renforcent dans la période présente le caractère insoutenable du remboursement de la dette réclamée aux pays du Sud global. Nous abordons successivement l’évolution à la baisse du prix des matières premières, la réduction des réserves de change, le maintien de la dépendance par rapport aux revenus que procure l’exportation des matières premières, les échéances du calendrier de remboursement des dettes des PED qui implique d’importants remboursements de 2021 à 2025 principalement à l’égard des créanciers privés, la chute des envois des migrant-e-s vers leur pays d’origine, le reflux vers le Nord des placements boursiers, le maintien de la fuite des capitaux [1]. Les reports de paiement accordés en 2020-2021 en raison de la pandémie par les États créanciers membres du Club de Paris et du G20 ne représentent qu’une petite partie des remboursements que doivent effectuer les Pays en développement.

  • #Vente_d’armes : en secret, l’#exécutif déclare la guerre au #Parlement

    Une note classée « confidentiel défense » dévoile la stratégie du gouvernement pour torpiller les propositions d’un rapport parlementaire sur un contrôle plus démocratique des #exportations d’armement.

    Silence radio. Depuis la publication, le 18 novembre dernier, du #rapport_parlementaire sur les ventes d’armes françaises, l’exécutif n’a pas réagi. Du moins pas officiellement. Car, en réalité, le gouvernement a préparé la riposte dans le secret des cabinets ministériels. Objectif : torpiller le rapport des députés #Jacques_Maire (La République en marche, LRM) et #Michèle_Tabarot (Les Républicains, LR) et les pistes qu’ils suggèrent pour impliquer le Parlement dans le processus de #contrôle des exportations d’armement.

    Disclose a été destinataire d’une note de quatre pages rédigée par le #Secrétariat_général_de_la_défense_et_de_la_sécurité_nationale (#SGDSN), un service directement rattaché à Matignon. Classée « confidentiel défense » – le premier niveau du « secret-défense » –, elle a été transmise au cabinet d’Emmanuel #Macron mais aussi à #Matignon, au #ministère_des_armées, et à celui des affaires étrangères et de l’économie, le 17 novembre dernier. Soit la veille de la publication du #rapport_Maire-Tabarot.

    étouffer les velléités

    Sobrement intitulé « Analyse des 35 propositions du rapport de la mission d’information sur les exportations d’armement Maire-Tabarot », ce document stratégique révèle l’opposition ferme et définitive du gouvernement à une proposition inédite : la création d’une #commission_parlementaire chargée « du contrôle des exportations d’armement ». D’après Jacques Maire et Michèle Tabarot, « cet organe n’interviendrait pas dans le processus d’autorisation des exportations mais contrôlerait, a posteriori, les grands #choix de la politique d’exportation de la France ». Impensable pour le gouvernement, qui entend peser de tout son poids pour étouffer dans l’œuf ces velléités de #transparence.

    Newsletter

    Selon les analystes de la SGDSN, cette proposition doit constituer le « point d’attention majeur » du pouvoir exécutif ; autrement dit, celui qu’il faut absolument enterrer. Le document explique pourquoi : « Sous couvert d’un objectif d’une plus grande transparence et d’un meilleur dialogue entre les pouvoirs exécutif et #législatif, l’objectif semble bien de contraindre la politique du gouvernement en matière d’exportation en renforçant le #contrôle_parlementaire. » A lire les gardiens du temple militaro-industriel français, plus de transparence reviendrait à entraver la #liberté_de_commerce de l’Etat. Et la SGDSN de prévenir : ces mesures pourraient « entraîner des effets d’éviction de l’#industrie françaises dans certains pays ».

    protéger les « clients »

    Si la commission parlementaire devait malgré tout voir le jour, le note préconise qu’elle ne puisse « en aucun cas » obtenir un suivi précis des transferts d’armes. Les élus devront se contenter du rapport qui leur est remis par le gouvernement chaque année, lequel ne précise ni les bénéficiaires du matériel ni son utilisation finale.

    « Cette implication de parlementaires, alertent encore les auteurs, pourrait mener à une fragilisation du principe du #secret_de_la_défense_nationale (…) ainsi que du #secret_des_affaires et du secret lié aux relations diplomatiques avec nos partenaires stratégiques. » Le risque pour l’Etat ? Que « les clients » soient « soumis à une politisation accrue des décisions » qui nuirait aux affaires et provoquerait la « fragilisation de notre #crédibilité et de notre capacité à établir des #partenariats_stratégiques sur le long terme, et donc de notre capacité à exporter ». En ligne de mire, des pays comme l’#Arabie_saoudite ou l’#Egypte, le principal client de l’industrie tricolore en 2019 (https://disclose.ngo/fr/news/la-france-bat-des-records-en-matiere-de-vente-darmes).

    Selon les analystes de le SGDSN, la création d’un contrôle parlementaire sur les exportations aurait également « des conséquences pour le gouvernement, dont les différents ministres seraient exposés ». Comme ce fut le cas en 2019, lorsque la ministre des armées, #Florence_Parly, dû s’expliquer sur ses #mensonges répétés après les révélations de Disclose sur les armes vendues à l’Arabie saoudite et utilisées dans la guerre au #Yémen (https://made-in-france.disclose.ngo/fr).

    « effet de bord »

    Un autre élément semble susciter l’inquiétude au plus haut sommet de l’Etat : la volonté de convergence entre les représentants des différents parlements de l’Union européenne. Pour Jacques Maire et Michèle Tabarot, ce « #dialogue_interparlementaire » permettrait une meilleure coopération entre Etats membres. Trop risqué, selon le gouvernement, qui y voit « le risque d’un effet de bord qui exposerait notre politique à des enjeux internes propres à certains de nos voisins européens ».

    Sur ce point, l’analyse aurait pu s’arrêter là. Mais le Quai d’Orsay a voulu préciser le fond de sa pensée, comme le révèlent les modifications apportées au document d’origine. Le cabinet de Jean-Yves Le Drian précise, en rouge dans le texte, qu’une telle convergence entre élus européens serait « particulièrement préoccupante », en particulier concernant le Parlement allemand. « Nous n’avons aucun moyen de maîtriser les vicissitudes [de la politique intérieure allemande] »,et la « forte mobilisation, très idéologique, du Parlement [allemand] sur les exportations d’armement », souligne le ministère des affaires étrangères dans ce mail que Disclose s’est procuré.

    Ce commentaire illustre les tensions sur ce sujet avec le voisin allemand, qui a mis en place en octobre 2018 un #embargo, toujours en cours, sur ses ventes d’armes à l’Arabie saoudite à la suite de l’assassinat du journaliste #Jamal_Khashoggi à Istanbul. Une décision jugée à l’époque incompréhensible pour Emmanuel Macron. Les ventes d’armes « n’ont rien à voir avec M. #Khashoggi, il ne faut pas tout confondre », avait alors déclaré le chef de l’Etat, précisant que cette mesure était, selon lui, « pure #démagogie ». Une fois le problème allemand évacué, le Quai d’Orsay désigne enfin le véritable ennemi : les #institutions_européennes, considérées comme « hostiles à nos intérêts dans le domaine du contrôle des exportations sensibles ».

    ouverture en trompe-l’œil

    L’exécutif aurait-il peur du #contrôle_démocratique ? Il s’en défend et feint même de vouloir protéger les députés contre un piège tendu à eux-mêmes. « Les parlementaires impliqués dans le contrôle des exportations (…) ne pourraient pas répondre aux demandes de transparence » et se retrouveraient « de facto solidaires des décisions prises », explique le document. En d’autres termes, s’il leur prenait de vouloir contester la politique de ventes d’armes de la France, les élus seraient de toute façon soumis au « #secret-défense ». Inutile, donc, qu’ils perdent leur temps.

    Pour finir, les services du premier ministre formulent une liste de recommandations quant à la réaction à adopter face à cet épineux rapport. Première d’entre elles, « adopter une position ouverte » sur les propositions de « renforcement de l’information du Parlement ». Un trompe-l’œil, car l’essentiel est ailleurs. « Il convient, poursuit le texte, de confirmer avec les principaux responsables de l’[#Assemblée_nationale] » qu’ils s’opposeront à la plus importante proposition du texte, soit la création d’une #délégation_parlementaire.

    En guise de dernière suggestion, les auteurs de la note invitent l’exécutif à définir « une #ligne_de_communication » face à la médiatisation du rapport et les réactions des ONG. Une ligne de communication désormais beaucoup plus claire, en effet.

    La note « confidentiel défense » dont Disclose a été destinataire est protégée par l’article 413-9 du code pénal sur le secret de la défense nationale. Nous avons néanmoins décidé d’en publier le contenu car ces informations relèvent de l’intérêt général et doivent par conséquent être portées à la connaissance du public. Par souci pour la sécurité de nos sources, nous ne publions pas le document dans son intégralité.

    https://disclose.ngo/fr/article/vente-darmes-en-secret-lexecutif-declare-la-guerre-au-parlement
    #armes #commerce_d'armes #armement #France #UE #EU #démocratie

    ping @reka @simplicissimus

  • #Vente_d’armes : en secret, l’#exécutif déclare la guerre au #Parlement

    Une note classée « confidentiel défense » dévoile la stratégie du gouvernement pour torpiller les propositions d’un rapport parlementaire sur un contrôle plus démocratique des #exportations d’armement.

    Silence radio. Depuis la publication, le 18 novembre dernier, du #rapport_parlementaire sur les ventes d’armes françaises, l’exécutif n’a pas réagi. Du moins pas officiellement. Car, en réalité, le gouvernement a préparé la riposte dans le secret des cabinets ministériels. Objectif : torpiller le rapport des députés #Jacques_Maire (La République en marche, LRM) et #Michèle_Tabarot (Les Républicains, LR) et les pistes qu’ils suggèrent pour impliquer le Parlement dans le processus de #contrôle des exportations d’armement.

    Disclose a été destinataire d’une note de quatre pages rédigée par le #Secrétariat_général_de_la_défense_et_de_la_sécurité_nationale (#SGDSN), un service directement rattaché à Matignon. Classée « confidentiel défense » – le premier niveau du « secret-défense » –, elle a été transmise au cabinet d’Emmanuel #Macron mais aussi à #Matignon, au #ministère_des_armées, et à celui des affaires étrangères et de l’économie, le 17 novembre dernier. Soit la veille de la publication du #rapport_Maire-Tabarot.

    étouffer les velléités

    Sobrement intitulé « Analyse des 35 propositions du rapport de la mission d’information sur les exportations d’armement Maire-Tabarot », ce document stratégique révèle l’opposition ferme et définitive du gouvernement à une proposition inédite : la création d’une #commission_parlementaire chargée « du contrôle des exportations d’armement ». D’après Jacques Maire et Michèle Tabarot, « cet organe n’interviendrait pas dans le processus d’autorisation des exportations mais contrôlerait, a posteriori, les grands #choix de la politique d’exportation de la France ». Impensable pour le gouvernement, qui entend peser de tout son poids pour étouffer dans l’œuf ces velléités de #transparence.

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    Selon les analystes de la SGDSN, cette proposition doit constituer le « point d’attention majeur » du pouvoir exécutif ; autrement dit, celui qu’il faut absolument enterrer. Le document explique pourquoi : « Sous couvert d’un objectif d’une plus grande transparence et d’un meilleur dialogue entre les pouvoirs exécutif et #législatif, l’objectif semble bien de contraindre la politique du gouvernement en matière d’exportation en renforçant le #contrôle_parlementaire. » A lire les gardiens du temple militaro-industriel français, plus de transparence reviendrait à entraver la #liberté_de_commerce de l’Etat. Et la SGDSN de prévenir : ces mesures pourraient « entraîner des effets d’éviction de l’#industrie françaises dans certains pays ».

    protéger les « clients »

    Si la commission parlementaire devait malgré tout voir le jour, le note préconise qu’elle ne puisse « en aucun cas » obtenir un suivi précis des transferts d’armes. Les élus devront se contenter du rapport qui leur est remis par le gouvernement chaque année, lequel ne précise ni les bénéficiaires du matériel ni son utilisation finale.

    « Cette implication de parlementaires, alertent encore les auteurs, pourrait mener à une fragilisation du principe du #secret_de_la_défense_nationale (…) ainsi que du #secret_des_affaires et du secret lié aux relations diplomatiques avec nos partenaires stratégiques. » Le risque pour l’Etat ? Que « les clients » soient « soumis à une politisation accrue des décisions » qui nuirait aux affaires et provoquerait la « fragilisation de notre #crédibilité et de notre capacité à établir des #partenariats_stratégiques sur le long terme, et donc de notre capacité à exporter ». En ligne de mire, des pays comme l’#Arabie_saoudite ou l’#Egypte, le principal client de l’industrie tricolore en 2019 (https://disclose.ngo/fr/news/la-france-bat-des-records-en-matiere-de-vente-darmes).

    Selon les analystes de le SGDSN, la création d’un contrôle parlementaire sur les exportations aurait également « des conséquences pour le gouvernement, dont les différents ministres seraient exposés ». Comme ce fut le cas en 2019, lorsque la ministre des armées, #Florence_Parly, dû s’expliquer sur ses #mensonges répétés après les révélations de Disclose sur les armes vendues à l’Arabie saoudite et utilisées dans la guerre au #Yémen (https://made-in-france.disclose.ngo/fr).

    « effet de bord »

    Un autre élément semble susciter l’inquiétude au plus haut sommet de l’Etat : la volonté de convergence entre les représentants des différents parlements de l’Union européenne. Pour Jacques Maire et Michèle Tabarot, ce « #dialogue_interparlementaire » permettrait une meilleure coopération entre Etats membres. Trop risqué, selon le gouvernement, qui y voit « le risque d’un effet de bord qui exposerait notre politique à des enjeux internes propres à certains de nos voisins européens ».

    Sur ce point, l’analyse aurait pu s’arrêter là. Mais le Quai d’Orsay a voulu préciser le fond de sa pensée, comme le révèlent les modifications apportées au document d’origine. Le cabinet de Jean-Yves Le Drian précise, en rouge dans le texte, qu’une telle convergence entre élus européens serait « particulièrement préoccupante », en particulier concernant le Parlement allemand. « Nous n’avons aucun moyen de maîtriser les vicissitudes [de la politique intérieure allemande] »,et la « forte mobilisation, très idéologique, du Parlement [allemand] sur les exportations d’armement », souligne le ministère des affaires étrangères dans ce mail que Disclose s’est procuré.

    Ce commentaire illustre les tensions sur ce sujet avec le voisin allemand, qui a mis en place en octobre 2018 un #embargo, toujours en cours, sur ses ventes d’armes à l’Arabie saoudite à la suite de l’assassinat du journaliste #Jamal_Khashoggi à Istanbul. Une décision jugée à l’époque incompréhensible pour Emmanuel Macron. Les ventes d’armes « n’ont rien à voir avec M. #Khashoggi, il ne faut pas tout confondre », avait alors déclaré le chef de l’Etat, précisant que cette mesure était, selon lui, « pure #démagogie ». Une fois le problème allemand évacué, le Quai d’Orsay désigne enfin le véritable ennemi : les #institutions_européennes, considérées comme « hostiles à nos intérêts dans le domaine du contrôle des exportations sensibles ».

    ouverture en trompe-l’œil

    L’exécutif aurait-il peur du #contrôle_démocratique ? Il s’en défend et feint même de vouloir protéger les députés contre un piège tendu à eux-mêmes. « Les parlementaires impliqués dans le contrôle des exportations (…) ne pourraient pas répondre aux demandes de transparence » et se retrouveraient « de facto solidaires des décisions prises », explique le document. En d’autres termes, s’il leur prenait de vouloir contester la politique de ventes d’armes de la France, les élus seraient de toute façon soumis au « #secret-défense ». Inutile, donc, qu’ils perdent leur temps.

    Pour finir, les services du premier ministre formulent une liste de recommandations quant à la réaction à adopter face à cet épineux rapport. Première d’entre elles, « adopter une position ouverte » sur les propositions de « renforcement de l’information du Parlement ». Un trompe-l’œil, car l’essentiel est ailleurs. « Il convient, poursuit le texte, de confirmer avec les principaux responsables de l’[#Assemblée_nationale] » qu’ils s’opposeront à la plus importante proposition du texte, soit la création d’une #délégation_parlementaire.

    En guise de dernière suggestion, les auteurs de la note invitent l’exécutif à définir « une #ligne_de_communication » face à la médiatisation du rapport et les réactions des ONG. Une ligne de communication désormais beaucoup plus claire, en effet.

    La note « confidentiel défense » dont Disclose a été destinataire est protégée par l’article 413-9 du code pénal sur le secret de la défense nationale. Nous avons néanmoins décidé d’en publier le contenu car ces informations relèvent de l’intérêt général et doivent par conséquent être portées à la connaissance du public. Par souci pour la sécurité de nos sources, nous ne publions pas le document dans son intégralité.

    https://disclose.ngo/fr/article/vente-darmes-en-secret-lexecutif-declare-la-guerre-au-parlement
    #armes #commerce_d'armes #armement #France #UE #EU #démocratie

    ping @reka @simplicissimus

  • A recipe for hypocrisy : democracies export surveillance tech without human rights
    https://aboutintel.eu/surveillance-export-human-rights

    As is, global trade in surveillance technology is a race to the bottom, in which liberal democratic governments continue to criticise the behaviour of others while using it to justify their own. In a twisted consequence of profits over human rights, democracies also continue to be the primary exporters of surveillance capabilities to repressive regimes. Controlling the spread of surveillance technology is a moral, legal, and strategic imperative though, and Europe must do better ; not only (...)

    #Huawei #algorithme #spyware #anti-terrorisme #exportation #FAI #vidéo-surveillance #écoutes #surveillance (...)

    ##PrivacyInternational

  • How the coronavirus disrupts food supply chains
    https://multimedia.scmp.com/infographics/news/world/article/3080824/covid19-disrupts-food-supply/index.html

    The coronavirus is putting each link of the food supply chain under immense stress. From agricultural production and transportation to supermarket sales, governments around the world face tough political decisions to stem rising food costs and the real possibility of economic and humanitarian crises.

    #datavis #cartographie_narrative #alimentation #mondialisation

  • Turkey sees opportunity in virus crisis to bolster influence- Eurasian Investor
    Turkey is pushing its credentials as a major humanitarian power in the middle of the coronavirus pandemic by sending medical equipment to Italy and Spain, detection kits for Palestinians, and even medicines to Armenia.
    #Covid19#Turquie#Economie#Exportation#migration#aide#international

    https://www.eurasianinvestor.com/section-news/2020/4/14/turkey-sees-opportunity-in-virus-crisis-to-bolster-influence

  • Made in China, Exported to the World : The Surveillance State
    https://www.nytimes.com/2019/04/24/technology/ecuador-surveillance-cameras-police-government.html

    In Ecuador, cameras capture footage to be examined by police and domestic intelligence. The surveillance system’s origin : China. QUITO, Ecuador — The squat gray building in Ecuador’s capital commands a sweeping view of the city’s sparkling sprawl, from the high-rises at the base of the Andean valley to the pastel neighborhoods that spill up its mountainsides. The police who work inside are looking elsewhere. They spend their days poring over computer screens, watching footage that comes in (...)

    #Huawei #algorithme #CCTV #activisme #biométrie #exportation #géolocalisation #journalisme #facial #reconnaissance #écoutes #vidéo-surveillance (...)

    ##surveillance

  • In a Secret Bunker in the Andes, a Wall That Was Really a Window
    https://www.nytimes.com/2019/04/26/reader-center/ecuador-china-surveillance-spying.html

    Before a video interview with an Ecuadorean intelligence chief, I thought I was adjusting a dimmer switch. What I inadvertently revealed broke our story open. We were in a secret unmarked bunker built into the side of the Ecuadorean Andes. It belonged to Senain — Ecuador’s secretive intelligence agency. Feared among activists, journalists and political opponents, Senain was widely accused of spying, overreach and ideological and political intimidation and repression. We were in Ecuador (...)

    #algorithme #CCTV #activisme #biométrie #exportation #géolocalisation #journalisme #facial #reconnaissance #vidéo-surveillance #écoutes (...)

    ##surveillance

  • Comment la Chine exporte son « État-surveillance »
    https://korii.slate.fr/tech/chine-exporte-systeme-surveillance-high-tech-equateur

    Le pays vend à qui souhaite contrôler étroitement sa population son « Surveillance State », la dystopie totalitaire et 2.0 qu’elle expérimente et installe chez elle. Racontée par le journaliste du New York Times Jonah M. Kessel, l’histoire vaut presque autant que les questions, aussi vastes que notre monde et son avenir, qu’elle soulève. Avec deux de ses collègues, Paul Mozur et Melissa Chan, Kessel enquêtait sur le système de surveillance mis en place en Équateur par le peu libéral Rafael Correa, (...)

    #Huawei #algorithme #CCTV #activisme #biométrie #exportation #géolocalisation #journalisme #facial #reconnaissance #vidéo-surveillance #écoutes (...)

    ##surveillance