• Camminare il passato per riscrivere il futuro. I tour decoloniali di Berlino

    L’azienda “deSta-”, nata a inizio 2022, accompagna le persone alla scoperta del quartiere africano costruito per celebrare le conquiste coloniali tedesche. Un’occasione per affrontare alla radice i problemi del razzismo in Germania.

    Appena arrivato a Berlino sono venuto qui. Speravo che il ‘quartiere africano’ contenesse qualche traccia del mio Paese d’origine. Negozi o ristoranti”. Ma per Desmond Boateng, originario del Ghana, l’uscita dalla fermata della metro di Berlino Afrikanische Straße è stato uno shock: gli unici segni che ha trovato nel quartiere erano ben lontani da quello che immaginava. Come lui, anche i turisti che sperano di trovare l’ennesimo luogo speciale dello spirito multiculturale della capitale tedesca restano delusi. “Nessun ‘cuore’ di un melting pot della cultura nera ma una terribile glorificazione della potenza coloniale tedesca. Un modo per rivendicare questo ruolo anche nella mappa della città”, spiega ad Altreconomia Justice Mvemba, che dopo lo “scotto” iniziale ha deciso che non poteva incrociare le braccia e non fare nulla.

    Due anni e mezzo fa ha fondato “deSta-Dekoloniale Stadtführung” (deSta-), un’azienda che offre tour guidati nel quartiere africano, nel distretto Sud-occidentale di Schöneberg sul femminismo nero e all’Humboldt Forum, uno tra i più famosi musei d’arte della capitale tedesca. “Camminare il passato per cambiare il futuro”. È questo il leit motiv di “deSta-”. E percorrendo le strade del quartiere sito a Wedding, nel Nord di Berlino, se ne percepisce fin da subito la necessità. Costruito alla fine del XIX secolo per celebrare la presenza tedesca nel continente africano, è stato poi nuovamente rivitalizzato nel 1930 dal nazionalsocialismo per rinsaldare lo spirito colonialista dei berlinesi. Le strade prendono i nomi di alcuni Paesi del continente: camminando ci si imbatte Ghanastraße, Ugandastraße e Guineastraße. C’è poi un piccolo conglomerato di case che si affacciano sullo stesso giardino chiamato Klein Afrika (Piccola Africa).

    L’architettura di queste costruzioni, che replica le case degli europei nei Paesi colonizzati, fu proposta per convincere, sempre durante l’epoca nazista, i cittadini tedeschi a trasferirsi nuovamente nel continente africano. Anche sul parco del quartiere, uno dei più grandi di tutta Berlino, grava un’eredità storica pesantissima: alla fine dell’Ottocento per volontà del commerciante di animali Carl Hagenbeck è stato sede dello zoo umano, luogo in cui le popolazioni dei territori africani colonizzati (all’epoca Namibia e gli attuali Burundi, Ruanda e Tanzania) si esibivano in danze e “raccontavano” la loro cultura. Una forma di tratta degli esseri umani e sfruttamento mascherati da occasione di contaminazione tra diverse culture.

    Di fronte a tutto questo, Justice Mvemba, i cui genitori sono nati in Congo, ha sentito il dovere di fare qualcosa. “Per affrontare le radici del razzismo, che qui in Germania ha colpito anche me, sono convinta sia necessario capirne le origini e le funzioni -spiega-. Serve guardare la storia, conoscendo a fondo il motivo per cui è stato istituito il colonialismo e la sua struttura di potere e di controllo su interi Paesi sfruttati economicamente da quelli europei”. Le colonie, spesso, spariscono dai libri di scuola: Mvemba ricorda di aver approfondito durante le scuole superiori il periodo del nazismo ma ben poco, invece, su quanto è successo in Africa. “Nessuno ne vuole parlare. Così ho pensato di avviare una start up per dare la possibilità alle persone di conoscere. Per poter capire”.

    Il progetto iniziale, lanciato durante la pandemia da Covid-19, era lo sviluppo di un’applicazione per accedere alle visite guidate tramite il proprio smartphone ma poi l’idea è virata verso qualcosa di più strutturato che mettesse al centro anche un aspetto di relazione tra la guida e chi partecipa. Così, a inizio 2021 è stata fondata “deSta-” che organizza tour guidati -sia in inglese sia in tedesco- oltre che workshop e laboratori, sempre sul tema della decolonizzazione, per scuole e associazioni. Oggi, l’azienda conta dodici dipendenti. E i partecipanti alle visite hanno già superato i cinquemila con 421 tour all’attivo. “Mi capita anche di avere fino a otto visite guidate alla settimana -racconta Mvemba-. Purtroppo non poche volte ho problemi con i residenti del quartiere che non sempre sono d’accordo con queste iniziative”.

    La spaccatura, paradossale, riguarda soprattutto il processo di reintitolazione di quelle vie del quartiere dedicate a ufficiali tedeschi impegnati nei Paesi africani che si sono macchiati di gravi crimini nel loro operato. La strada dedicata a Carl Peters, conosciuto in Tanzania per la sua brutalità nei confronti delle popolazioni locali, oggi porta ufficialmente due nomi diversi: una parte intitolata ad Anna Mungunda, leader della resistenza in Nambia (dove tra il 1905 e il 1908 ci fu il genocidio degli Herero e dei Nama), l’altra chiamata Maji-maji-Allee in onore del movimento che, proprio in Tanzania, lottò per respingere l’offensiva dei tedeschi che provocò la morte di quasi 300mila persone.

    Ancora: la piazza dedicata a Gustav Nachtigal, fautore dell’annessione degli attuali Togo e Camerun attraverso contratti fraudolenti, oggi si chiama Bell-Platz in memoria del re camerunense ucciso durante la conquista dei tedeschi. “Questo è importante non solo per non onorare la memoria di criminali. Aiuta infatti anche a dare un altro racconto delle persone native del continente africano -riprende Mvemba-. Conosciamo forse i bianchi che sono venuti a salvare qualcuno o fare qualche attività ma ben poco sappiamo degli eroi africani, dei leader di comunità che hanno lottato per l’indipendenza. Dare un nome a quelle battaglie, ricordarli, può aiutare a modificare la prospettiva, in generale, sulle persone nere”.

    Non tutti, però, concordano con Mvemba. La modifica nella toponomastica delle strade non è stata ben accolta da tutti. “Nel quartiere Africano i partiti di destra raccolgono voti. Sembra una barzelletta -aggiunge Mvemba-. Sostengono che sia sbagliato rinominarli e quando giriamo per il quartiere, a volte, ci contestano. E pensare che, dal mio punto di vista, questo processo è fin troppo lento: ci sono voluti quarant’anni per modificarli. Troppi”. Per alcuni che si lamentano, tanti altri, invece, trovano nei tour organizzati da “deSta-” una conoscenza mancata per troppo tempo. “Spesso tra una tappa e l’altra, le persone hanno il tempo di elaborare, fare domande molto libere: in modo che ci sia un confronto senza giudizio. Questo credo che sia molto apprezzato dai partecipanti. La normalizzazione di questi temi è fondamentale”.

    https://altreconomia.it/camminare-il-passato-per-riscrivere-il-futuro-i-tour-decoloniali-di-ber
    #balade_décoloniale #Berlin #Allemagne #Allemagne_coloniale #marche #colonialisme_allemand #colonialisme #décolonial #desta #racisme #deSta-Dekoloniale_Stadtführung #Humboldt_Forum #Wedding #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #Klein_Afrika #zoo_humain #Carl_Hagenbeck #Justice_Mvemba #histoire_coloniale #Carl_Peters #Anna_Mungunda #Maji-maji-Allee #Tanzanie #Namibie #Gustav_Nachtigal #Togo #Cameroun #Bell-Platz

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  • Caribbean Feminisms: A Reading List

    Black Women Radicals’ “Caribbean Feminisms Series” is a four-part online event series paying homage to historical and contemporary Caribbean feminisms and feminists. The series is curated and hosted by educators, organizers, and scholars, Nana Brantuo and Dr. Andrea N. Baldwin.

    Caribbean feminists and feminisms are central and essential to national, regional, and global movements - actively “deconstructing the categories of ‘race’, ‘ethnicity’ and ‘nation’ and exposing their gendered character” (Reddock, 2007) and mobilizing for societal transformation. This series is a homage to the pioneering work of feminists such as Guyanese grassroots activist Andaiye; Grendian feminist scholar Eudine Barriteau; Jamaican diplomat Lucille M. Mair; Curaçaoan cultural anthropologist Rose Mary Allen; and Tobagonian Calypsonian Calypso Rose as well as space for engaging with contemporary Caribbean feminist scholars, activists, and artists across generations, borders, and languages.

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    Past Online Webinars in the Caribbean Feminisms Series

    Digital Caribbean Feminisms
    https://www.youtube.com/watch?v=j4Wv3zKpXPk&feature=emb_err_woyt

    The first installment of our “Caribbean Feminisms Series” was on “Digital Caribbean Feminisms.” Panelists for this event included: Kenita Placide, Zainab Floyd, Dr. Angelique V. Nixon, and Dr. Tonya Haynes. For Caribbean feminists, the incorporation and usage of the internet for space and placemaking has been “multigenerational, multiethnic, transnational, and Pan-Caribbean” (Haynes, 2016). For Caribbean feminst activists, archivists, artists, and scholars, digital space has played a key role in archiving & curation, knowledge production and sharing, and organizing and mobilizing and has facilitated increased amplification of the voices, experiences, and perspectives of Caribbean women, girls, femmes, gender non-conforming and non-binary folx within and across the region. Joined by feminists across the region and Diaspora, this event will deepen and expand our understanding of digital Caribbean feminisms and will touch on its evolution and impact, the critical role of digitally in grassroots Caribbean feminist activism and knowledge production, the digital divide in the Caribbean, and the future of Caribbean feminisms in digital spaces particularly in the time of COVID 19.

    Caribbean Women & Knowledge Production
    https://www.youtube.com/watch?v=TA8cDcKOtJI&feature=emb_logo

    Our second installment of our “Caribbean Feminisms Series” was on “Caribbean Women & Knowledge Production”, which was held on Thursday, December 3rd at 4:30 PM EST on Zoom. Panelists for this included: Dr. Fatimah Jackson-Best, Lysanne Charles, and Kesewa John. Our Caribbean Feminism Series is curated by Nana Brantuo and Dr. Andrea N. Baldwin. About this event: For centuries, Caribbean women have been creators, retainers, and guardians of knowledge across modes, mediums, borders, and terrains. Women such as Queen Nanny of the Maroons, Mariana Grajales Cuello, Mary Prince, Sarah “Sally” Bassett, Madeleine Sylvain-Bouchereau, Louise Bennett, Andaiye, Jeanne Henriquez, Paulette Nardal, Jeanne Nardal, and Suzanne Césaire exist within a rich genealogy and history of knowledge production and cultural transformation within the region and throughout the world. Join us in conversation with women from across the region and throughout the Caribbean Diaspora on the necessity of historicizing and amplifying Caribbean women’s knowledge production and intellectualism, past and present.

    In Honor of #Andaiye: Caribbean Feminist Organizing and Advocacy
    https://www.youtube.com/watch?v=hHTa4ZjLMhU&feature=emb_logo

    “While we need organizing that is anti-capitalist and anti-imperialist, our organizing must also be anti-racist, anti-sexist, anti-homophobic, anti-transphobic and against all forms of exploitation, subordination and discrimination...Similarly, while we need organizing against the forms of exploitation, subordination and discrimination that the left has traditionally ignored or downplayed, our organizing must also be anti-capitalist and anti-imperialist.” –– Andaiye, 2009, Gender, Race, and Class: A Perspective on the Contemporary Caribbean Struggle, 2009 Patrick Emmanuel Memorial Lecture (UWI Cave Hill). In honor of Guyanese feminist organizer, educator, and activist Andaiye, Black Women Radicals hosted “In Honor of Andaiye: Caribbean Feminist Advocacy and Organizing” on Thursday, February 25, 2021. The third installment of our Caribbean Feminisms Series, we brought together Caribbean feminist organizers, researchers, and advocates to discuss the current state and future of regional and Diasporic gender-based organizing and advocacy against intersecting and overlapping oppressions. Our panelists for this event included Renae Green, Dr. Amarilys Estrella, and Dr. Mamyrah Dougé-Prosper.

    Et une longue liste de #vidéos et lectures sur le site web...

    https://www.blackwomenradicals.com/blog-feed/caribbean-feminisms-a-reading-list
    #féminisme #féminisme_noir #féminisme_caribéen #lecture #lectures #bibliographie #black_feminism #ressources_bibliographiques

  • #Intersectionnalité : une #introduction (par #Eric_Fassin)

    Aujourd’hui, dans l’espace médiatico-politique, on attaque beaucoup l’intersectionnalité. Une fiche de poste a même été dépubliée sur le site du Ministère pour purger toute référence intersectionnelle. Dans le Manuel Indocile de Sciences Sociales (Copernic / La Découverte, 2019), avec Mara Viveros, nous avons publié une introduction à ce champ d’études. Pour ne pas laisser raconter n’importe quoi.

    « Les féministes intersectionnelles, en rupture avec l’universalisme, revendiquent de ne pas se limiter à la lutte contre le sexisme. »

    Marianne, « L’offensive des obsédés de la race, du sexe, du genre, de l’identité », 12 au 18 avril 2019

    Une médiatisation ambiguë

    En France, l’intersectionnalité vient d’entrer dans les magazines. Dans Le Point, L’Obs ou Marianne, on rencontre non seulement l’idée, mais aussi le mot, et même des références savantes. Les lesbiennes noires auraient-elles pris le pouvoir, jusque dans les rédactions ? En réalité si les médias en parlent, c’est surtout pour dénoncer la montée en puissance, dans l’université et plus largement dans la société, d’un féminisme dit « intersectionnel », accusé d’importer le « communautarisme à l’américaine ». On assiste en effet au recyclage des articles du début des années 1990 contre le « politiquement correct » : « On ne peut plus rien dire ! » C’est le monde à l’envers, paraît-il : l’homme blanc hétérosexuel subirait désormais la « tyrannie des minorités ».

    Faut-il le préciser ? Ce fantasme victimaire est démenti par l’expérience quotidienne. Pour se « rassurer », il n’y a qu’à regarder qui détient le pouvoir dans les médias et l’université, mais aussi dans l’économie ou la politique : les dominants d’hier ne sont pas les dominés d’aujourd’hui, et l’ordre ancien a encore de beaux jours devant lui. On fera plutôt l’hypothèse que cette réaction parfois virulente est le symptôme d’une inquiétude après la prise de conscience féministe de #MeToo, et les révélations sur le harcèlement sexiste, homophobe et raciste de la « Ligue du Lol » dans le petit monde des médias, et alors que les minorités raciales commencent (enfin) à se faire entendre dans l’espace public.

    Il en va des attaques actuelles contre l’intersectionnalité comme des campagnes contre la (supposée) « théorie du genre » au début des années 2010. La médiatisation assure une forme de publicité à un lexique qui, dès lors, n’est plus confiné à l’univers de la recherche. La polémique a ainsi fait entrevoir les analyses intersectionnelles à un public plus large, qu’articles et émissions se bousculent désormais pour informer… ou le plus souvent mettre en garde. Il n’empêche : même les tribunes indignées qui livrent des noms ou les dossiers scandalisés qui dressent des listes contribuent, à rebours de leurs intentions, à établir des bibliographies et à populariser des programmes universitaires. En retour, le milieu des sciences sociales lui-même, en France après beaucoup d’autres pays, a fini par s’intéresser à l’intersectionnalité – et pas seulement pour s’en inquiéter : ce concept voyageur est une invitation à reconnaître, avec la pluralité des logiques de domination, la complexité du monde social.

    Circulations internationales

    On parle d’intersectionnalité un peu partout dans le monde – non seulement en Amérique du Nord et en Europe, mais aussi en Amérique latine, en Afrique du Sud ou en Inde. Il est vrai que le mot vient des États-Unis : c’est #Kimberlé_Crenshaw qui l’utilise d’abord dans deux articles publiés dans des revues de droit au tournant des années 1990. Toutefois, la chose, c’est-à-dire la prise en compte des dominations multiples, n’a pas attendu le mot. Et il est vrai aussi que cette juriste afro-américaine s’inscrit dans la lignée d’un « #féminisme_noir » états-unien, qui dans les années 1980 met l’accent sur les aveuglements croisés du mouvement des droits civiques (au #genre) et du mouvement des femmes (à la #race).

    Cependant, ces questions sont parallèlement soulevées, à la frontière entre l’anglais et l’espagnol, par des féministes « #chicanas » (comme #Cherríe_Moraga et #Gloria_Anzaldúa), dans une subculture que nourrit l’immigration mexicaine aux États-Unis ou même, dès les années 1960, au Brésil, au sein du Parti communiste ; des féministes brésiliennes (telles #Thereza_Santos, #Lélia_Gonzalez et #Sueli_Carneiro) développent aussi leurs analyses sur la triade « race-classe-genre ». Bref, la démarche intersectionnelle n’a pas attendu le mot intersectionnalité ; elle n’a pas une origine exclusivement états-unienne ; et nulle n’en a le monopole : ce n’est pas une « marque déposée ». Il faut donc toujours comprendre l’intersectionnalité en fonction des lieux et des moments où elle résonne.

    En #France, c’est au milieu des années 2000 qu’on commence à parler d’intersectionnalité ; et c’est d’abord au sein des #études_de_genre. Pourquoi ? Un premier contexte, c’est la visibilité nouvelle de la « #question_raciale » au sein même de la « #question_sociale », avec les émeutes ou révoltes urbaines de 2005 : l’analyse en termes de classe n’était manifestement plus suffisante ; on commence alors à le comprendre, pour les sciences sociales, se vouloir aveugle à la couleur dans une société qu’elle obsède revient à s’aveugler au #racisme. Un second contexte a joué un rôle plus immédiat encore : 2004, c’est la loi sur les signes religieux à l’école. La question du « #voile_islamique » divise les féministes : la frontière entre « eux » et « nous » passe désormais, en priorité, par « elles ». Autrement dit, la différence de culture (en l’occurrence religieuse) devient une question de genre. L’intersectionnalité permet de parler de ces logiques multiples. Importer le concept revient à le traduire dans un contexte différent : en France, ce n’est plus, comme aux États-Unis, l’invisibilité des #femmes_noires à l’intersection entre féminisme et droits civiques ; c’est plutôt l’hypervisibilité des #femmes_voilées, au croisement entre #antisexisme et #antiracisme.

    Circulations interdisciplinaires

    La traduction d’une langue à une autre, et d’un contexte états-unien au français, fait apparaître une deuxième différence. Kimberlé Crenshaw est juriste ; sa réflexion porte sur les outils du #droit qu’elle utilise pour lutter contre la #discrimination. Or aux États-Unis, le droit identifie des catégories « suspectes » : le sexe et la race. Dans les pratiques sociales, leur utilisation, implicite ou explicite, est soumise à un examen « strict » pour lutter contre la discrimination. Cependant, on passe inévitablement de la catégorie conceptuelle au groupe social. En effet, l’intersectionnalité s’emploie à montrer que, non seulement une femme peut être discriminée en tant que femme, et un Noir en tant que Noir, mais aussi une femme noire en tant que telle. C’est donc seulement pour autant qu’elle est supposée relever d’un groupe sexuel ou racial que le droit peut reconnaître une personne victime d’un traitement discriminatoire en raison de son sexe ou de sa race. Toutefois, dans son principe, cette démarche juridique n’a rien d’identitaire : comme toujours pour les discriminations, le point de départ, c’est le traitement subi. Il serait donc absurde de reprendre ici les clichés français sur le « communautarisme américain » : l’intersectionnalité vise au contraire à lutter contre l’#assignation discriminatoire à un groupe (femmes, Noirs, ou autre).

    En France, la logique est toute différente, dès lors que l’intersectionnalité est d’abord arrivée, via les études de genre, dans le champ des sciences sociales. La conséquence de cette translation disciplinaire, c’est qu’on n’a généralement pas affaire à des groupes. La sociologie s’intéresse davantage à des propriétés, qui peuvent fonctionner comme des variables. Bien sûr, on n’oublie pas la logique antidiscriminatoire pour autant : toutes choses égales par ailleurs (en l’occurrence dans une même classe sociale), on n’a pas le même salaire selon qu’on est blanc ou pas, ou la même retraite si l’on est homme ou femme. Il n’est donc pas ou plus possible de renvoyer toutes les explications à une détermination en dernière instance : toutes les #inégalités ne sont pas solubles dans la classe. C’est évident pour les femmes, qui appartiennent à toutes les classes ; mais on l’oublie parfois pour les personnes dites « non blanches », tant elles sont surreprésentées dans les classes populaires – mais n’est-ce pas justement, pour une part, l’effet de leur origine supposée ? Bien entendu, cela ne veut pas dire, à l’inverse, que la classe serait soluble dans une autre forme de #domination. En réalité, cela signifie simplement que les logiques peuvent se combiner.

    L’intérêt scientifique (et politique) pour l’intersectionnalité est donc le signe d’une exigence de #complexité : il ne suffit pas d’analyser la classe pour en avoir fini avec les logiques de domination. C’est bien pourquoi les féministes n’ont pas attendu le concept d’intersectionnalité, ni sa traduction française, pour critiquer les explications monocausales. En France, par exemple, face au #marxisme, le #féminisme_matérialiste rejette de longue date cette logique, plus politique que scientifique, de l’« ennemi principal » (de classe), qui amène à occulter les autres formes de domination. En 1978, #Danièle_Kergoat interrogeait ainsi la neutralisation qui, effaçant l’inégalité entre les sexes, pose implicitement un signe d’égalité entre « ouvrières » et « ouvriers » : « La #sociologie_du_travail parle toujours des “#ouvriers” ou de la “#classe_ouvrière” sans faire aucune référence au #sexe des acteurs sociaux. Tout se passe comme si la place dans la production était un élément unificateur tel que faire partie de la classe ouvrière renvoyait à une série de comportements et d’attitudes relativement univoques (et cela, il faut le noter, est tout aussi vrai pour les sociologues se réclamant du #marxisme que pour les autres. »

    Or, ce n’est évidemment pas le cas. Contre cette simplification, qui a pour effet d’invisibiliser les ouvrières, la sociologue féministe ne se contente pas d’ajouter une propriété sociale, le sexe, à la classe ; elle montre plus profondément ce qu’elle appelle leur #consubstantialité. On n’est pas d’un côté « ouvrier » et de l’autre « femme » ; être une #ouvrière, ce n’est pas la même chose qu’ouvrier – et c’est aussi différent d’être une bourgeoise. On pourrait dire de même : être une femme blanche ou noire, un garçon arabe ou pas, mais encore un gay de banlieue ou de centre-ville, ce n’est vraiment pas pareil !

    Classe et race

    Dans un essai sur le poids de l’#assignation_raciale dans l’expérience sociale, le philosophe #Cornel_West a raconté combien les taxis à New York refusaient de s’arrêter pour lui : il est noir. Son costume trois-pièces n’y fait rien (ni la couleur du chauffeur, d’ailleurs) : la classe n’efface pas la race – ou pour le dire plus précisément, le #privilège_de_classe ne suffit pas à abolir le stigmate de race. Au Brésil, comme l’a montré #Lélia_Gonzalez, pour une femme noire de classe moyenne, il ne suffit pas d’être « bien habillée » et « bien élevée » : les concierges continuent de leur imposer l’entrée de service, conformément aux consignes de patrons blancs, qui n’ont d’yeux que pour elles lors du carnaval… En France, un documentaire intitulé #Trop_noire_pour_être_française part d’une même prise de conscience : la réalisatrice #Isabelle_Boni-Claverie appartient à la grande bourgeoisie ; pourtant, exposée aux discriminations, elle aussi a fini par être rattrapée par sa couleur.

    C’est tout l’intérêt d’étudier les classes moyennes (ou supérieures) de couleur. Premièrement, on voit mieux la logique propre de #racialisation, sans la rabattre aussitôt sur la classe. C’est justement parce que l’expérience de la bourgeoisie ne renvoie pas aux clichés habituels qui dissolvent les minorités dans les classes populaires. Deuxièmement, on est ainsi amené à repenser la classe : trop souvent, on réduit en effet ce concept à la réalité empirique des classes populaires – alors qu’il s’agit d’une logique théorique de #classement qui opère à tous les niveaux de la société. Troisièmement, ce sont souvent ces couches éduquées qui jouent un rôle important dans la constitution d’identités politiques minoritaires : les porte-parole ne proviennent que rarement des classes populaires, ou du moins sont plus favorisés culturellement.

    L’articulation entre classe et race se joue par exemple autour du concept de #blanchité. Le terme est récent en français : c’est la traduction de l’anglais #whiteness, soit un champ d’études constitué non pas tant autour d’un groupe social empirique (les Blancs) que d’un questionnement théorique sur une #identification (la blanchité). Il ne s’agit donc pas de réifier les catégories majoritaires (non plus, évidemment, que minoritaires) ; au contraire, les études sur la blanchité montrent bien, pour reprendre un titre célèbre, « comment les Irlandais sont devenus blancs » : c’est le rappel que la « race » ne doit rien à la #biologie, mais tout aux #rapports_de_pouvoir qu’elle cristallise dans des contextes historiques. À nouveau se pose toutefois la question : la blanchité est-elle réservée aux Blancs pauvres, condamnés à s’identifier en tant que tels faute d’autres ressources ? On parle ainsi de « #salaire_de_la_blanchité » : le #privilège de ceux qui n’en ont pas… Ou bien ne convient-il pas de l’appréhender, non seulement comme une compensation, mais aussi et surtout comme un langage de pouvoir – y compris, bien sûr, chez les dominants ?

    En particulier, si le regard « orientaliste » exotise l’autre et l’érotise en même temps, la #sexualisation n’est pas réservée aux populations noires ou arabes (en France), ou afro-américaines et hispaniques (comme aux États-Unis), bref racisées. En miroir, la #blanchité_sexuelle est une manière, pour les classes moyennes ou supérieures blanches, de s’affirmer « normales », donc de fixer la #norme, en particulier dans les projets d’#identité_nationale. Certes, depuis le monde colonial au moins, les minorités raciales sont toujours (indifféremment ou alternativement) hypo- – ou hyper- –sexualisées : pas assez ou bien trop, mais jamais comme il faut. Mais qu’en est-il des majoritaires ? Ils se contentent d’incarner la norme – soit d’ériger leurs pratiques et leurs représentations en normes ou pratiques légitimes. C’est bien pourquoi la blanchité peut être mobilisée dans des discours politiques, par exemple des chefs d’État (de la Colombie d’Álvaro Uribe aux États-Unis de Donald Trump), le plus souvent pour rappeler à l’ordre les minorités indociles. La « question sociale » n’a donc pas cédé la place à la « question raciale » ; mais la première ne peut plus servir à masquer la seconde. Au contraire, une « question » aide à repenser l’autre.

    Les #contrôles_au_faciès

    Regardons maintenant les contrôles policiers « au faciès », c’est-à-dire fondés sur l’#apparence. Une enquête quantitative du défenseur des droits, institution républicaine qui est chargée de défendre les citoyens face aux abus de l’État, a récemment démontré qu’il touche inégalement, non seulement selon les quartiers (les classes populaires), mais aussi en fonction de l’âge (les jeunes) et de l’apparence (les Arabes et les Noirs), et enfin du sexe (les garçons plus que les filles). Le résultat, c’est bien ce qu’on peut appeler « intersectionnalité ». Cependant, on voit ici que le croisement des logiques discriminatoires ne se résume pas à un cumul des handicaps : le sexe masculin fonctionne ici comme un #stigmate plutôt qu’un privilège. L’intersectionnalité est bien synonyme de complexité.

    « Les jeunes de dix-huit-vingt-cinq ans déclarent ainsi sept fois plus de contrôles que l’ensemble de la population, et les hommes perçus comme noirs ou arabes apparaissent cinq fois plus concernés par des contrôles fréquents (c’est-à-dire plus de cinq fois dans les cinq dernières années). Si l’on combine ces deux critères, 80 % des personnes correspondant au profil de “jeune homme perçu comme noir ou arabe” déclarent avoir été contrôlées dans les cinq dernières années (contre 16 % pour le reste des enquêté.e.s). Par rapport à l’ensemble de la population, et toutes choses égales par ailleurs, ces profils ont ainsi une probabilité vingt fois plus élevée que les autres d’être contrôlés. »

    Répétons-le : il n’y a rien d’identitaire dans cette démarche. D’ailleurs, la formulation du défenseur des droits dissipe toute ambiguïté : « perçus comme noirs ou arabes ». Autrement dit, c’est l’origine réelle ou supposée qui est en jeu. On peut être victime d’antisémitisme sans être juif – en raison d’un trait physique, d’un patronyme, ou même d’opinions politiques. Pour peu qu’on porte un prénom lié à l’islam, ou même qu’on ait l’air « d’origine maghrébine », musulman ou pas, on risque de subir l’#islamophobie. L’#homophobie frappe surtout les homosexuels, et plus largement les minorités sexuelles ; toutefois, un garçon réputé efféminé pourra y être confronté, quelle que soit sa sexualité.

    Et c’est d’ailleurs selon la même logique qu’en France l’État a pu justifier les contrôles au faciès. Condamné en 2015 pour « faute lourde », il a fait appel ; sans remettre en cause les faits établis, l’État explique que la législation sur les étrangers suppose de contrôler « les personnes d’#apparence_étrangère », voire « la seule population dont il apparaît qu’elle peut être étrangère ». Traiter des individus en raison de leur apparence, supposée renvoyer à une origine, à une nationalité, voire à l’irrégularité du séjour, c’est alimenter la confusion en racialisant la nationalité. On le comprend ainsi : être, c’est être perçu ; l’#identité n’existe pas indépendamment du regard des autres.

    L’exemple des contrôles au faciès est important, non seulement pour celles et ceux qui les subissent, bien sûr, mais aussi pour la société tout entière : ils contribuent à la constitution d’identités fondées sur l’expérience commune de la discrimination. Les personnes racisées sont celles dont la #subjectivité se constitue dans ces incidents à répétition, qui finissent par tracer des frontières entre les #expériences minoritaires et majoritaires. Mais l’enjeu est aussi théorique : on voit ici que l’identité n’est pas première ; elle est la conséquence de #pratiques_sociales de #racialisation – y compris de pratiques d’État. Le racisme ne se réduit pas à l’#intention : le racisme en effet est défini par ses résultats – et d’abord sur les personnes concernées, assignées à la différence par la discrimination.

    Le mot race

    Les logiques de domination sont plurielles : il y a non seulement la classe, mais aussi le sexe et la race, ainsi que l’#âge ou le #handicap. Dans leur enchevêtrement, il est à chaque fois question, non pas seulement d’#inégalités, mais aussi de la #naturalisation de ces hiérarchies marquées dans les corps. Reste que c’est surtout l’articulation du sexe ou de la classe avec la race qui est au cœur des débats actuels sur l’intersectionnalité. Et l’on retrouve ici une singularité nationale : d’après l’ONU, les deux tiers des pays incluent dans leur recensement des questions sur la race, l’#ethnicité ou l’#origine_nationale. En France, il n’en est pas question – ce qui complique l’établissement de #statistiques « ethno-raciales » utilisées dans d’autre pays pour analyser les discriminations.

    Mais il y a plus : c’est seulement en France que, pour lutter contre le racisme, on se mobilise régulièrement en vue de supprimer le mot race de la Constitution ; il n’y apparaît pourtant, depuis son préambule de 1946 rédigé en réaction au nazisme, que pour énoncer un principe antiraciste : « sans distinction de race ». C’est aujourd’hui une bataille qui divise selon qu’on se réclame d’un antiracisme dit « universaliste » ou « politique » : alors que le premier rejette le mot race, jugé indissociable du racisme, le second s’en empare comme d’une arme contre la #racialisation de la société. Ce qui se joue là, c’est la définition du racisme, selon qu’on met l’accent sur sa version idéologique (qui suppose l’intention, et passe par le mot), ou au contraire structurelle (que l’on mesure à ses effets, et qui impose de nommer la chose).

    La bataille n’est pas cantonnée au champ politique ; elle s’étend au champ scientifique. Le racisme savant parlait naguère des races (au pluriel), soit une manière de mettre la science au service d’un #ordre_racial, comme dans le monde colonial. Dans la recherche antiraciste, il est aujourd’hui question de la race (au singulier) : non pas l’inventaire des populations, sur un critère biologique ou même culturel, mais l’analyse critique d’un mécanisme social qui assigne des individus à des groupes, et ces groupes à des positions hiérarchisées en raison de leur origine, de leur apparence, de leur religion, etc. Il n’est donc pas question de revenir aux élucubrations racistes sur les Aryens ou les Sémites ; en revanche, parler de la race, c’est se donner un vocabulaire pour voir ce qu’on ne veut pas voir : la #discrimination_raciste est aussi une #assignation_raciale. S’aveugler à la race ne revient-il pas à s’aveugler au racisme ?

    Il ne faut donc pas s’y tromper : pour les sciences sociales actuelles, la race n’est pas un fait empirique ; c’est un concept qui permet de nommer le traitement inégal réservé à des individus et des groupes ainsi constitués comme différents. La réalité de la race n’est donc ni biologique ni culturelle ; elle est sociale, en ce qu’elle est définie par les effets de ces traitements, soit la racialisation de la société tout entière traversée par la logique raciale. On revient ici aux analyses classiques d’une féministe matérialiste, #Colette_Guillaumin : « C’est très exactement la réalité de la “race”. Cela n’existe pas. Cela pourtant produit des morts. [...] Non, la race n’existe pas. Si, la race existe. Non, certes, elle n’est pas ce qu’on dit qu’elle est, mais elle est néanmoins la plus tangible, réelle, brutale, des réalités. »

    Morale de l’histoire

    A-t-on raison de s’inquiéter d’un recul de l’#universalisme en France ? Les logiques identitaires sont-elles en train de gagner du terrain ? Sans nul doute : c’est bien ce qu’entraîne la racialisation de notre société. Encore ne faut-il pas confondre les causes et les effets, ni d’ailleurs le poison et l’antidote. En premier lieu, c’est l’#extrême_droite qui revendique explicitement le label identitaire : des États-Unis de Donald Trump au Brésil de Jair Bolsonaro, on assiste à la revanche de la #masculinité_blanche contre les #minorités_raciales et sexuelles. Ne nous y trompons pas : celles-ci sont donc les victimes, et non pas les coupables, de ce retour de bâton (ou backlash) qui vise à les remettre à leur place (dominée).

    Deuxièmement, la #ségrégation_raciale que l’on peut aisément constater dans l’espace en prenant les transports en commun entre Paris et ses banlieues n’est pas le résultat d’un #communautarisme minoritaire. Pour le comprendre, il convient au contraire de prendre en compte un double phénomène : d’une part, la logique sociale que décrit l’expression #White_flight (les Blancs qui désertent les quartiers où sont reléguées les minorités raciales, anticipant sur la ségrégation que leurs choix individuels accélèrent…) ; d’autre part, les #politiques_publiques de la ville dont le terme #apartheid résume le résultat. Le #multiculturalisme_d’Etat, en Colombie, dessinerait une tout autre logique : les politiques publiques visent explicitement des identités culturelles au nom de la « #diversité », dont les mouvements sociaux peuvent s’emparer.

    Troisièmement, se battre pour l’#égalité, et donc contre les discriminations, ce n’est pas renoncer à l’universalisme ; bien au contraire, c’est rejeter le #communautarisme_majoritaire. L’intersectionnalité n’est donc pas responsable au premier chef d’une #fragmentation_identitaire – pas davantage qu’une sociologie qui analyse les inégalités socio-économiques n’est la cause première de la lutte des classes. Pour les #sciences_sociales, c’est simplement se donner les outils nécessaires pour comprendre un monde traversé d’#inégalités multiples.

    Quatrièmement, ce sont les #discours_publics qui opposent d’ordinaire la classe à la race (ou les ouvriers, présumés blancs, aux minorités raciales, comme si celles-ci n’appartenaient pas le plus souvent aux classes populaires), ou encore, comme l’avait bien montré #Christine_Delphy, l’#antisexisme à l’antiracisme (comme si les femmes de couleur n’étaient pas concernées par les deux). L’expérience de l’intersectionnalité, c’est au contraire, pour chaque personne, quels que soient son sexe, sa classe et sa couleur de peau, l’imbrication de propriétés qui finissent par définir, en effet, des #identités_complexes (plutôt que fragmentées) ; et c’est cela que les sciences sociales s’emploient aujourd’hui à appréhender.

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    Ce texte écrit avec #Mara_Viveros_Vigoya, et publié en 2019 dans le Manuel indocile de sciences sociales (Fondation Copernic / La Découverte), peut être téléchargé ici : https://static.mediapart.fr/files/2021/03/07/manuel-indocile-intersectionnalite.pdf

    À lire :

    Kimberlé Crenshaw, « Cartographies des marges : intersectionnalité, politique de l’identité et violences contre les femmes de couleur » Cahiers du Genre, n° 39, février 2005, p. 51-82

    Défenseur des droits, Enquête sur l’accès aux droits, Relations police – population : le cas des contrôles d’identité, vol. 1, janvier 2017

    Christine Delphy, « Antisexisme ou antiracisme ? Un faux dilemme », Nouvelles Questions Féministes, vol. 25, janvier 2006, p. 59-83

    Elsa Dorlin, La Matrice de la race. Généalogie sexuelle et coloniale de la nation française, La Découverte, Paris, 2006

    Elsa Dorlin, Sexe, race, classe. Pour une épistémologie de la domination, Presses universitaires de France, Paris, 2009

    Didier Fassin et Éric Fassin (dir.), De la question sociale à la question raciale ? Représenter la société française, La Découverte, Paris, 2009 [première édition : 2006]

    Éric Fassin (dir.), « Les langages de l’intersectionnalité », Raisons politiques, n° 58, mai 2015

    Éric Fassin, « Le mot race – 1. Cela existe. 2. Le mot et la chose », AOC, 10 au 11 avril 2019

    Nacira Guénif-Souilamas et Éric Macé, Les féministes et le garçon arabe, L’Aube, Paris, 2004

    Colette Guillaumin, « “Je sais bien mais quand même” ou les avatars de la notion de race », Le Genre humain, 1981, n° 1, p. 55-64

    Danièle Kergoat, « Ouvriers = ouvrières ? », Se battre, disent-elles…, La Dispute, Paris, 2012, p. 9-62

    Abdellali Hajjat et Silyane Larcher (dir.), « Intersectionnalité », Mouvements, 12 février 2019

    Mara Viveros Vigoya, Les Couleurs de la masculinité. Expériences intersectionnelles et pratiques de pouvoir en Amérique latine, La Découverte, Paris, 2018

    https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/050321/intersectionnalite-une-introduction#at_medium=custom7&at_campaign=10

    #définition #invisibilisation #antiracisme_universaliste #antiracisme_politique #racisme_structurel

    voir aussi ce fil de discussion sur l’intersectionnalité, avec pas mal de #ressources_pédagogiques :
    https://seenthis.net/messages/796554

  • Djamila Ribeiro : le féminisme noir | Radio Livres
    https://www.canalsud.net/spip.php?page=article&id_article=3795

    Rencontre avec Djamila Ribeiro autour de son livre « Le féminisme noir. Chroniques du Brésil », paru aux éditions Anacaona. Référence du mouvement féministe noir brésilien, D. Ribeiro évoque des situations du quotidien pour aborder des concepts comme l’autonomisation des femmes et l’intersectionnalité. En plus de ces articles, le livre comporte un court essai autobiographique où l’autrice, à travers son enfance, pose la question de la mise sous silence de la culture noire. Durée : 1h14. Source : Canal Sud

    https://www.canalsud.net/IMG/mp3/radiolivres_feminismenoir_190519_terranovatoulouse_radiodif.mp3

  • Blues et féminisme noir », c’est ainsi qu’a été traduit l’ouvrage « Blues Legacies » d’Angela Davis, activiste et résistante anti-capitaliste issue du mouvement Black Power des années 70 aux Etats-Unis. Paru en 1998 déjà, il est désormais disponible en français avec sa bande-son aux Editions Libertalia. Cette traduction, on la doit à Julien Bordier, à qui Ellen Ichters a tendu son micro toute la semaine dans Pony Express.

    http://www.rts.ch/couleur3/9239682-blues-et-feminisme-noir-d-angela-davis.html

    #féminisme_noir #blues #angela_davis