• Quando l’arte di strada rigenera. Dentro le “Trame” di #Grosseto

    Contro la desertificazione del centro storico della città maremmana, il collettivo #Clan ha immaginato nel 2020 il #festival_Trame, con l’obiettivo di ridare colore alle serrande chiuse. Chiamando a dipingerle artisti da tutta Italia.

    “Serrande chiuse per arte aperta” è il modo più immediato per descrivere Trame, il festival di arte urbana che dal 2020 sta contribuendo alla rigenerazione del centro storico di Grosseto, la “Kansas City” di Luciano Bianciardi, una città di circa 80mila abitanti persa in mezzo alla Maremma, in una delle zone meno antropizzate d’Italia. Quattro edizioni dell’evento hanno permesso di trasformare 50 serrande, grazie ad artisti arrivati da tutta Italia tramite residenze finalizzate alla rigenerazione territoriale.

    Trame è un’iniziativa del Collettivo libero anti noia (Clan) e nasce dall’osservazione di un contesto comune a molti altri centri urbani. “Il Collettivo è nato nel 2012 da un gruppo di amici per promuovere e diffondere la cultura in tutte le sue forme, dall’attività artistica alla promozione del territorio. Abbiamo una sede in centro dal 2018, grazie al progetto ‘Pop up lab’, promosso dal Comune di Grosseto e dalla Regione Toscana per contrastare la desertificazione dei centri storici. Quando ci siamo insediati in questa ‘viettina tremenda’ ci siamo resi conto che la maggior parte delle saracinesche erano abbassate, ormai le persone vivono altrove, i servizi sono rarefatti”, sottolinea Giada Breschi, tra i fondatori di Clan.

    “A Grosseto il centro è la nuova periferia, che le persone non frequentano anche perché -continua- non ha senso passeggiare di fronte alle serrande chiuse”. A meno che queste non diventino delle vere opere d’arte, come hanno immaginato i soci di Clan, due dei quali, Giada e Mara, lavorano per l’associazione culturale. “La prima edizione di Trame, nel 2020, l’anno della pandemia da Coivd-19, è stata senz’altro la più difficile, anche perché dovevamo ‘confrontarci’ con la diffidenza dei proprietari degli immobili -ricorda Breschi-. Edizione dopo edizione, però, tutti si sono resi conto che le opere sono realizzate da professionisti e in tanti hanno iniziato a proporci le loro serrande. Inizialmente abbiamo fatto degli appelli ma anche proposto un questionario online, per capire quali tipologie di azioni risultavano più gradite ai cittadini come esempi di riqualificazione. Abbiamo poi attaccato cartelli su tutti i garage del centro storico: ‘Vuoi trasformare la tua serranda in un’opera d’arte?’. Con tutti i proprietari stringiamo un accordo”.

    Gli artisti invece arrivano a Grosseto grazie a una call nazionale. Ogni edizione di Trame ha avuto un tema. Quella del 2023, ad esempio, è stata “Facciamo tempesta”, dove la tempesta e ciò che scuote e scardina lo status quo, tanto più importante in provincia, “dove ci si sente tagliati fuori dai centri dove le cose accadono e le uniche burrasche che sembrano colpirci sono quelle che il cambiamento, invece che alimentarlo, lo affogano”, spiega il documento elaborato da Clan.

    Sono 50 le serrande di Grosseto “trasformate” dalle quattro edizioni del festival

    Nel 2023 sono stati selezionati otto artisti, sulla base dei progetti inviati. Grazie al contributo della Fondazione CR Firenze, che sostiene il progetto, vengono ospitati a Grosseto per tre giorni e ricevono un rimborso per le spese di viaggio, vitto e alloggio oltre a quelle per dipingere. “Arrivano qui sapendo di trovare le serrande pronte, perché la pulizia e anche il ripristino del fondo lo facciamo noi”, spiega Breschi.

    In questi anni hanno lavorato nella città toscana alcuni nomi importanti della street art italiana, come Luogo Comune, Exit/Enter e Ginevra Giovannoni, in arte Rame 13. “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale”, sottolinea Breschi. Per completare l’azione di rigenerazione territoriale, i soci di Clan accompagnano le persone attraverso il museo a cielo aperto organizzando il “Trame street tour”.

    “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale” – Giada Breschi

    “Anche se tramite il nostro sito chiunque può scoprire in autonomia tutte le serrande -racconta Breschi- a noi piace di più raccontare le storie degli artisti ed è bello farlo attraverso i più giovani, a partire dai laboratori di mediazione artistica che teniamo nelle scuole. Tornando a casa con questa ‘scoperta’, i bambini poi portano i genitori a fare il giro delle serrande: le mappe le costruiamo insieme a loro. Lavoriamo dalle materne alle superiori, con laboratori ovviamente differenziati. Alle secondarie di secondo grado dopo il tour si chiede agli insegnanti di far vedere i documentari che pubblichiamo per ogni edizione, chiedendo loro poi di collegare l’arte contemporanea locale al super-contemporaneo delle serrande. A quelli delle medie chiediamo invece di realizzare una loro idea di street art”.

    In inverno i laboratori si tengono al Molino Hub, un centro di promozione culturale e artistica ricavato all’interno delle Mura medicee della città: un altro dei progetti del Collettivo libero anti noia che il 2 dicembre 2023 ha ospitato l’atto finale di Trame 2023, con la presentazione del docu-film realizzato durante la quarta edizione del festival di arte urbana e della nuova street art map, per camminare nel centro storico di Grosseto con altri occhi.

    https://altreconomia.it/quando-larte-di-strada-rigenera-dentro-le-trame-di-grosseto
    #Italie #street-art #art_de_rue #graffitis #festival #régénération_urbaine #villes #urban_matter #centre-ville #désertification #art

  • Au niveau européen, un pacte migratoire « dangereux » et « déconnecté de la réalité »

    Sara Prestianni, du réseau EuroMed Droits, et Tania Racho, chercheuse spécialiste du droit européen et de l’asile, alertent, dans un entretien à deux voix, sur les #risques de l’accord trouvé au niveau européen et qui sera voté au printemps prochain.

    Après trois années de discussions, un accord a été trouvé par les États membres sur le #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile la semaine dernière. En France, cet événement n’a trouvé que peu d’écho, émoussé par la loi immigration votée au même moment et dont les effets sur les étrangers pourraient être dramatiques.

    Pourtant, le pacte migratoire européen comporte lui aussi son lot de mesures dangereuses pour les migrant·es, entre renforcement des contrôles aux frontières, tri express des demandeurs d’asile, expulsions facilitées des « indésirables » et sous-traitance de la gestion des frontières à des pays tiers. Sara Prestianni, responsable du plaidoyer au sein du réseau EuroMed Droits, estime que des violations de #droits_humains seront inévitables et invite à la création de voies légales qui permettraient de protéger les demandeurs d’asile.

    La chercheuse Tania Racho, spécialiste du droit européen et de l’asile et membre du réseau Désinfox-Migrations, répond qu’à aucun moment les institutions européennes « ne prennent en compte les personnes exilées », préférant répondre à des « objectifs de gestion des migrations ». Dans un entretien croisé, elles alertent sur les risques d’une approche purement « sécuritaire », qui renforcera la vulnérabilité des concernés et les mettra « à l’écart ».

    Mediapart : Le pacte migratoire avait été annoncé par la Commission européenne en septembre 2020. Il aura fait l’objet de longues tergiversations et de blocages. Était-ce si difficile de se mettre d’accord à 27 ?

    Tania Racho : Dans l’état d’esprit de l’Union européenne (UE), il fallait impérativement démontrer qu’il y a une gestion des migrations aux #frontières_extérieures pour rassurer les États membres. Mais il a été difficile d’aboutir à un accord. Au départ, il y avait des mesures pour des voies sécurisées d’accès à l’Union avec plus de titres économiques : ils ont disparu au bénéfice d’une crispation autour des personnes en situation irrégulière.

    Sara Prestianni : La complexité pour aboutir à un accord n’est pas due à la réalité des migrations mais à l’#instrumentalisation du dossier par beaucoup d’États. On l’a bien vu durant ces trois années de négociations autour du pacte : bien que les chiffres ne le justifiaient pas, le sujet a été fortement instrumentalisé. Le résultat, qui à nos yeux est très négatif, est le reflet de ces stratégies : cette réforme ne donne pas de réponse au phénomène en soi, mais répond aux luttes intestines des différents États.

    La répartition des demandeurs d’asile sur le sol européen a beaucoup clivé lors des débats. Pourquoi ?

    Sara Prestianni : D’abord, parce qu’il y a la fameuse réforme du #règlement_Dublin [qui impose aux exilés de demander l’asile dans le pays par lequel ils sont entrés dans l’UE - ndlr]. Ursula von der Leyen [présidente de la Commission – ndlr] avait promis de « #dépasser_Dublin ». Il est aujourd’hui renforcé. Ensuite, il y a la question de la #solidarité. La #redistribution va finalement se faire à la carte, alors que le Parlement avait tenté de revenir là-dessus. On laisse le choix du paiement, du support des murs et des barbelés aux frontières internes, et du financement de la dimension externe. On est bien loin du concept même de solidarité.

    Tania Racho : L’idée de Dublin est à mettre à la poubelle. Pour les Ukrainiens, ce règlement n’a pas été appliqué et la répartition s’est faite naturellement. La logique de Dublin, c’est qu’une personne qui trouve refuge dans un État membre ne peut pas circuler dans l’UE (sans autorisation en tout cas). Et si elle n’obtient pas l’asile, elle n’est pas censée pouvoir le demander ailleurs. Mais dans les faits, quelqu’un qui voit sa demande d’asile rejetée dans un pays peut déposer une demande en France, et même obtenir une protection, parce que les considérations ne sont pas les mêmes selon les pays. On s’interroge donc sur l’utilité de faire subir des transferts, d’enfermer les gens et de les priver de leurs droits, de faire peser le coût de ces transferts sur les États… Financièrement, ce n’est pas intéressant pour les États, et ça n’a pas de sens pour les demandeurs d’asile.

    D’ailleurs, faut-il les répartir ou leur laisser le libre #choix dans leur installation ?

    Tania Racho : Cela n’a jamais été évoqué sous cet angle. Cela a du sens de pouvoir les laisser choisir, parce que quand il y a un pays de destination, des attaches, une communauté, l’#intégration se fait mieux. Du point de vue des États, c’est avant tout une question d’#efficacité. Mais là encore on ne la voit pas. La Cour européenne des droits de l’homme a constaté, de manière régulière, que l’Italie ou la Grèce étaient des États défaillants concernant les demandeurs d’asile, et c’est vers ces pays qu’on persiste à vouloir renvoyer les personnes dublinées.

    Sara Prestianni : Le règlement de Dublin ne fonctionne pas, il est très coûteux et produit une #errance continue. On a à nouveau un #échec total sur ce sujet, puisqu’on reproduit Dublin avec la responsabilité des pays de première entrée, qui dans certaines situations va se prolonger à vingt mois. Même les #liens_familiaux (un frère, une sœur), qui devaient permettre d’échapper à ce règlement, sont finalement tombés dans les négociations.

    En quoi consiste le pacte pour lequel un accord a été trouvé la semaine dernière ?

    Sara Prestianni : Il comporte plusieurs documents législatifs, c’est donc une #réforme importante. On peut évoquer l’approche renforcée des #hotspots aux #frontières, qui a pourtant déjà démontré toutes ses limites, l’#enfermement à ciel ouvert, l’ouverture de #centres_de_détention, la #procédure_d’asile_accélérée, le concept de #pays-tiers_sûr que nous rejetons (la Tunisie étant l’exemple cruel des conséquences que cela peut avoir), la solidarité à la carte ou encore la directive sur l’« instrumentalisation » des migrants et le concept de #force_majeure en cas d’« #arrivées_massives », qui permet de déroger au respect des droits. L’ensemble de cette logique, qui vise à l’utilisation massive de la #détention, à l’#expulsion et au #tri des êtres humains, va engendrer des violations de droits, l’#exclusion et la #mise_à_l’écart des personnes.

    Tania Racho : On met en place des #centres_de_tri des gens aux frontières. C’est d’une #violence sans nom, et cette violence est passée sous silence. La justification du tri se fait par ailleurs sur la nationalité, en fonction du taux de protection moyen de l’UE, ce qui est absurde car le taux moyen de protection varie d’un pays à l’autre sur ce critère. Cela porte aussi une idée fausse selon laquelle seule la nationalité prévaudrait pour obtenir l’asile, alors qu’il y a un paquet de motifs, comme l’orientation sexuelle, le mariage forcé ou les mutilations génitales féminines. Difficile de livrer son récit sur de tels aspects après un parcours migratoire long de plusieurs mois dans le cadre d’une #procédure_accélérée.

    Comment peut-on opérer un #tri_aux_frontières tout en garantissant le respect des droits des personnes, du droit international et de la Convention de Genève relative aux réfugiés ?

    Tania Racho : Aucune idée. La Commission européenne parle d’arrivées mixtes et veut pouvoir distinguer réfugiés et migrants économiques. Les premiers pourraient être accueillis dignement, les seconds devraient être expulsés. Le rush dans le traitement des demandes n’aidera pas à clarifier la situation des personnes.

    Sara Prestianni : Ils veulent accélérer les procédures, quitte à les appliquer en détention, avec l’argument de dire « Plus jamais Moria » [un camp de migrants en Grèce incendié – ndlr]. Mais, ce qui est reproduit ici, c’est du pur Moria. En septembre, quand Lampedusa a connu 12 000 arrivées en quelques jours, ce pacte a été vendu comme la solution. Or tel qu’il est proposé aujourd’hui, il ne présente aucune garantie quant au respect du droit européen et de la Convention de Genève.

    Quels sont les dangers de l’#externalisation, qui consiste à sous-traiter la gestion des frontières ?

    Sara Prestianni : Alors que se négociait le pacte, on a observé une accélération des accords signés avec la #Tunisie, l’#Égypte ou le #Maroc. Il y a donc un lien très fort avec l’externalisation, même si le concept n’apparaît pas toujours dans le pacte. Là où il est très présent, c’est dans la notion de pays tiers sûr, qui facilite l’expulsion vers des pays où les migrants pourraient avoir des liens.

    On a tout de même l’impression que ceux qui ont façonné ce pacte ne sont pas très proches du terrain. Prenons l’exemple des Ivoiriens qui, à la suite des discours de haine en Tunisie, ont fui pour l’Europe. Les États membres seront en mesure de les y renvoyer car ils auront a priori un lien avec ce pays, alors même qu’ils risquent d’y subir des violences. L’Italie négocie avec l’#Albanie, le Royaume-Uni tente coûte que coûte de maintenir son accord avec le #Rwanda… Le risque, c’est que l’externalisation soit un jour intégrée à la procédure l’asile.

    Tania Racho : J’ai appris récemment que le pacte avait été rédigé par des communicants, pas par des juristes. Cela explique combien il est déconnecté de la réalité. Sur l’externalisation, le #non-refoulement est prévu par le traité sur le fonctionnement de l’UE, noir sur blanc. La Commission peut poursuivre l’Italie, qui refoule des personnes en mer ou signe ce type d’accord, mais elle ne le fait pas.

    Quel a été le rôle de l’Italie dans les discussions ?

    Sara Prestianni : L’Italie a joué un rôle central, menaçant de faire blocage pour l’accord, et en faisant passer d’autres dossiers importants à ses yeux. Cette question permet de souligner combien le pacte n’est pas une solution aux enjeux migratoires, mais le fruit d’un #rapport_de_force entre les États membres. L’#Italie a su instrumentaliser le pacte, en faisant du #chantage.

    Le pacte n’est pas dans son intérêt, ni dans celui des pays de premier accueil, qui vont devoir multiplier les enfermements et continuer à composer avec le règlement Dublin. Mais d’une certaine manière, elle l’a accepté avec la condition que la Commission et le Conseil la suivent, ou en tout cas gardent le silence, sur l’accord formulé avec la Tunisie, et plus récemment avec l’Albanie, alors même que ce dernier viole le droit européen.

    Tania Racho : Tout cela va aussi avoir un #coût – les centres de tri, leur construction, leur fonctionnement –, y compris pour l’Italie. Il y a dans ce pays une forme de #double_discours, où on veut d’un côté dérouter des bateaux avec une centaine de personnes à bord, et de l’autre délivrer près de 450 000 visas pour des travailleurs d’ici à 2025. Il y a une forme illogique à mettre autant d’énergie et d’argent à combattre autant les migrations irrégulières tout en distribuant des visas parce qu’il y a besoin de #travailleurs_étrangers.

    Le texte avait été présenté, au départ, comme une réponse à la « crise migratoire » de 2015 et devait permettre aux États membres d’être prêts en cas de situation similaire à l’avenir. Pensez-vous qu’il tient cet objectif ?

    Tania Racho : Pas du tout. Et puisqu’on parle des Syriens, rappelons que le nombre de personnes accueillies est ridicule (un million depuis 2011 à l’échelle de l’UE), surtout lorsqu’on le compare aux Ukrainiens (10 millions accueillis à ce jour). Il est assez étonnant que la comparaison ne soit pas audible pour certains. Le pacte ne résoudra rien, si ce n’est dans le narratif de la Commission européenne, qui pense pouvoir faire face à des arrivées mixtes.

    On a les bons et mauvais exilés, on ne prend pas du tout en compte les personnes exilées, on s’arrête à des objectifs de #gestion alors que d’autres solutions existent, comme la délivrance de #visas_humanitaires. Elles sont totalement ignorées. On s’enfonce dans des situations dramatiques qui ne feront qu’augmenter le tarif des passeurs et le nombre de morts en mer.

    Sara Prestianni : Si une telle situation se présente de nouveau, le règlement « crise » sera appliqué et permettra aux États membres de tout passer en procédure accélérée. On sera donc dans un cas de figure bien pire, car les entraves à l’accès aux droits seront institutionnalisées. C’est en cela que le pacte est dangereux. Il légitime toute une série de violations, déjà commises par la Grèce ou l’Italie, et normalise des pratiques illégales. Il occulte les mesures harmonisées d’asile, d’accueil et d’intégration. Et au lieu de pousser les États à négocier avec les pays de la rive sud, non pas pour renvoyer des migrants ou financer des barbelés mais pour ouvrir des voies légales et sûres, il mise sur une logique sécuritaire et excluante.

    Cela résonne fortement avec la loi immigration votée en France, supposée concilier « #humanité » et « #fermeté » (le pacte européen, lui, prétend concilier « #responsabilité » et « #solidarité »), et qui mise finalement tout sur le répressif. Un accord a été trouvé sur les deux textes au même moment, peut-on lier les deux ?

    Tania Racho : Dans les deux cas, la seule satisfaction a été d’avoir un accord, dans la précipitation et dans une forme assez particulière, entre la commission mixte paritaire en France et le trilogue au niveau européen. Ce qui est intéressant, c’est que l’adoption du pacte va probablement nécessiter des adaptations françaises. On peut lier les deux sur le fond : l’idée est de devoir gérer les personnes, dans le cas français avec un accent particulier sur la #criminalisation_des_étrangers, qu’on retrouve aussi dans le pacte, où de nombreux outils visent à lutter contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Il y a donc une même direction, une même teinte criminalisant la migration et allant dans le sens d’une fermeture.

    Sara Prestianni : Les États membres ont présenté l’adoption du pacte comme une grande victoire, alors que dans le détail ce n’est pas tout à fait évident. Paradoxalement, il y a eu une forme d’unanimité pour dire que c’était la solution. La loi immigration en France a créé plus de clivages au sein de la classe politique. Le pacte pas tellement, parce qu’après tant d’années à la recherche d’un accord sur le sujet, le simple fait d’avoir trouvé un deal a été perçu comme une victoire, y compris par des groupes plus progressistes. Mais plus de cinquante ONG, toutes présentes sur le terrain depuis des années, sont unanimes pour en dénoncer le fond.

    Le vote du pacte aura lieu au printemps 2024, dans le contexte des élections européennes. Risque-t-il de déteindre sur les débats sur l’immigration ?

    Tania Racho : Il y aura sans doute des débats sur les migrations durant les élections. Tout risque d’être mélangé, entre la loi immigration en France, le pacte européen, et le fait de dire qu’il faut débattre des migrations parce que c’est un sujet important. En réalité, on n’en débat jamais correctement. Et à chaque élection européenne, on voit que le fonctionnement de l’UE n’est pas compris.

    Sara Prestianni : Le pacte sera voté avant les élections, mais il ne sera pas un sujet du débat. Il y aura en revanche une instrumentalisation des migrations et de l’asile, comme un outil de #propagande, loin de la réalité du terrain. Notre bataille, au sein de la société civile, est de continuer notre travail de veille et de dénoncer les violations des #droits_fondamentaux que cette réforme, comme d’autres par le passé, va engendrer.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/au-niveau-europeen-un-pacte-migratoire-dangereux-et-deconnecte-de-la-reali
    #pacte #Europe #pacte_migratoire #asile #migrations #réfugiés

  • La tribune de soutien à Gérard Depardieu « rappelle furieusement l’Ancien Régime »

    Historienne spécialiste du genre au cinéma, Geneviève Sellier décrypte la tribune de soutien à Gérard Depardieu. Elle analyse aussi les mécanismes qui ont conduit à sa publication.
    Par Marie Telling

    CINEMA – « Lorsqu’on s’en prend ainsi à Gérard Depardieu, c’est l’art que l’on attaque. » Dans une tribune publiée dans la soirée du 25 décembre, une cinquantaine d’artistes prennent la défense de Gérard Depardieu qu’ils estiment victime d’un « lynchage ». Parmi eux, Nathalie Baye, Carole Bouquet ou Pierre Richard. Le texte est publié cinq jours après qu’Emmanuel Macron a défendu l’acteur, qui, selon le président, « rend fier la France ». Gérard Depardieu est pourtant visé par plusieurs plaintes pour viol et a tenu, dans des images diffusées par l’émission Complément d’enquête, des propos obscènes envers plusieurs femmes et une petite fille.

    Pour Geneviève Sellier, professeure émérite en études cinématographiques à l’Université Bordeaux Montaigne, historienne spécialiste des questions de genre au cinéma et animatrice du site Le Genre et l’écran, cette défense de Gérard Depardieu s’inscrit dans une tradition bien française : celle de placer l’artiste au-dessus des lois.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/30/la-tribune-de-soutien-a-gerard-depardieu-rappe

    #féminisme #cinéma

  • #MeToo. Le combat continue
    Collectif
    Mediapart est le journal qui a le plus documenté et accompagné en France ce « mouvement social mondial » qu’est devenu #MeToo. Ce livre témoigne de ce bouleversement politique, social, intime et culturel qui ne s’arrête plus depuis l’émergence planétaire du fameux hashtag à l’automne 2017. On y trouve des enquêtes et des analyses au plus près des mobilisations et des changements politiques, précédés ou suivis d’entretiens inédits avec des spécialistes (sociologues, historien·nes, etc.) dont Michelle Perrot, Mérabha Benchikh, Christelle Taraud, Fanny Gallot, Alex Mahoudeau, Chowra Makaremi, Kaoutar Harchi. Ainsi, cet ensemble de contributions permet-il de saisir ce qui se joue dans cette grande vague féministe porteuse d’espoir.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/11/30/il-faut-aborder-le-metoo-politique-avec-lucidite-et-sans-complaisance/#comment-59867

    #féminisme

  • Jeter le Gégé avec l’eau du bain, Louise Chennevière
    https://lundi.am/Jeter-le-Gege-avec-l-eau-du-bain

    Il faut que je creuse loin pour avoir quelques images de lui à la télé, on n’était pas chez moi féru de cinéma français. En grandissant je n’ai jamais senti quelque attirance que ce soit envers lui, et étonnamment rattrapant ma culture cinématographique, j’ai comme toujours évité les films dans lesquels il jouait. Ce ne fût pas exactement conscient, plus comme s’il y avait instinctivement quelque chose qui me rebutait dans cette figure. J’avais dû subir, un soir d’hiver le visionnage avec quelques amis exaltés d’un best-of de l’émission A pleines dents dans laquelle on suit le type parcourir l’Europe pour, bouffer. Il est vrai que je ne suis pas non plus obsédée par la bouffe, et que je n’ai pu me résoudre à rire devant ces images de ce type d’une vulgarité sans égale dévorant bruyamment tout ce qui passait devant lui. Voilà ce que je savais moi de Depardieu, bien peu je l’admets, mais cela me suffisait. Ah, il y avait aussi cette publicité pour une marque de montre russe dans laquelle on le voit fièrement tenir un fusil avec lequel il se vante d’avoir été à l’heure pour buter un cerf, cerf dont la pauvre carcasse gît au premier plan de l’écran, Gégé nonchalamment accoudé dessus.

    Je dois bien avouer aussi que je n’ai pas été surprise lorsque les premiers témoignages d’agressions sexuelles ont commencé à émerger. Si je n’ai pas été surprise c’est parce que ces agressions sexuelles sont permises et justifiées par une certaine culture dont, pour le peu que j’en avais vu, Gérard Depardieu me semblait être l’un des hérauts et des plus fiers représentants. Je veux dire que je n’avais jamais eu besoin de creuser très loin pour sentir que le type était l’incarnation de tout ce que l’on nomme aujourd’hui la masculinité toxique – je n’aime pas particulièrement l’expression mais ça a le mérite d’être clair et concis. On pourrait dire aussi : la masculinité qui s’est construite avec la certitude que tout, absolument, lui était dû et permis. Il faut voir ce passage de l’émission où ce bon vieux Gégé énumère fièrement tous les animaux qu’il a bouffé, et un steak de lion, et du crocodile, une baleine bourguignonne – on le sait de toute façon, les animaux si exotiques soient-ils, et quelle que soit leur voie de disparition, c’est fait pour être bouffé par des Gégé, tout comme les femmes. Croquer la vie à pleines dents donc et qu’importe si, sur son passage on détruit celles de dizaines de femmes. On m’accusera sûrement d’être rabat-joie. Mais il n’y a rien, absolument rien dans ce qu’incarne Gérard Depardieu qui ne me semble confiner à la joie. Tout ce que j’en vois me dégoûte, m’attriste et me met en colère.

    • Louise Chennevière invitée du podcast Je tiens absolument à cette virgule (36 min.)

      https://podcast.ausha.co/je-tiens-absolument-a-cette-virgule/je-tiens-absolument-a-cette-virgule-avec-louise-chenneviere

      Dans ce quatrième épisode, vous entendrez Louise Chennevière, romancière et musicienne, qui a publié deux romans chez POL, Comme la chienne en 2019 et Mausolée en 2021.

      Émission résolument féministe, se réclamant autant d’Annie Ernaux que de Marguerite Duras, Louise Chennevière défend l’importance en littérature d’entendre la voix des femmes et d’en écrire le corps réel, émancipé de ses représentations sociales. Lors de notre entretien, elle revient aussi sur la question de l’équilibre entre travail du style et première intuition, la prévalence de l’écriture sur l’intrigue ou encore la difficulté de demander des conseils lors de l’élaboration d’un roman.

      Dans cette émission, vous entendrez aussi plusieurs extraits de ses deux romans, lus par Marina Torre.

    • Lettre ouverte à Gérard Depardieu : “Tu crées la terreur par le rire, tu te fais passer pour un bouffon, alors que tu es un roi tout puissant”

      https://seenthis.net/messages/1034125

      Ah Gégé ! Ce tournage de Turf … Toi, tu ne t’en souviens plus. C’est réglo, c’est ta ligne, mais moi, j’y étais. J’ai dû être payé une fortune pour l’époque, quelque chose comme 100 balles la journée : je faisais partie du ballet de figurant·es. C’est intéressant comme rôle, c’est quasiment intraçable, ça ne fait pas de bruit, ça se pose là où on lui dit et surtout, ça FERME BIEN SA GUEULE.

      [...]

      Je ne te raconte pas une fiction Gégé, j’étais là, dans l’ombre parmi les intraçables, les témoins muets de tes agissements qui nous ont atterrés. La fille se sauve, toi, tu fixes l’horizon d’un air pénétrant (sûrement pour réviser ta réplique) et c’est branle-bas de combat de l’équipe technique, des assistant·es qui tentent de mettre de la poudre aux yeux à tout le monde pour que ton geste paraisse aussi anodin que tes rots ou tes pets.

      [...]

      Je te le dis pour ta gouverne, c’est pas du womansplaining, mais un peu quand même : une nana encerclée par un groupe de mecs à l’œil allumé n’est pas sereine, elle rit bêtement et reste un peu paralysée sur place. Pas parce que ça lui plaît, mais parce que les petits animaux face aux prédateurs ont tendance à se pétrifier avant de fuir. Heureusement pour moi, les turfistes avaient d’autres juments à monter et je suis restée face à toi, indécise. Non pas parce que j’hésitais encore à savoir si j’aurais aimé te sucer la bite, mais parce qu’à l’école de théâtre, on m’avait dit que face au monstre sacré, il fallait BIEN FERMER SA GUEULE. Et puis l’éducation des filles aussi : en société, il faut sourire, être dans une forme d’écoute et d’empathie face à ton interlocuteur. C’est hyper chiant et ça te rend vachement moins libre de tes mouvements.

    • « Choix pragmatique » –
      En Suisse, Gérard Depardieu n’a plus droit de cité à la télévision publique

      https://www.liberation.fr/economie/medias/en-suisse-gerard-depardieu-na-plus-droit-de-cite-a-la-television-publique

      La décision de suspendre la diffusion sur la RTS des films dans lesquels l’acteur français tient un des rôles principaux est « un choix pragmatique, que nous réexaminerons en fonction des évolutions de la situation, sans calendrier fixé d’avance et dans le respect de la procédure en Justice », a indiqué Marco Ferrara.

      « En tant que média de service public, nous devons veiller à rester en marge des parties impliquées et ne pas porter de jugement : nous nous limitons à agir au service de l’intérêt du public, ce qui inclut aussi son appétence ou, au contraire, son rejet envers une œuvre », avance-t-il prudemment.

      « Au-delà de cette évaluation qualitative », a ajouté le porte-parole de la RTS, « nous avons récemment organisé un vote du public pour le film de Noël et, parmi les options figurait une œuvre avec Gérard Depardieu, que le public lui-même a décidé de ne pas retenir, alors que le contexte d’actualité concernant l’acteur était connu ».

    • Coupable, Jacques Weber
      https://blogs.mediapart.fr/jacques-weber/blog/010124/coupable

      Je mesure chaque jour mon aveuglement. J’ai par réflexe d’amitié signé à la hâte, sans me renseigner, oui j’ai signé en oubliant les victimes et le sort de milliers de femmes dans le monde qui souffrent d’un état de fait trop longtemps admis. L’écartèlement entre les devoirs de l’amitié et ceux de l’homme, du père et du citoyen aurait pu encore m’aveugler si je n’avais vu de mes propres yeux, vu et entendu ces derniers jours une femme exprimer une violence, une émotion, un déchirement, un désespoir que je ne mesurais pas. J’ai saisi ce que pouvait signifier la douleur qui ne se refermera jamais. Dans le livre collectif Moi aussi je lisais que les survivantes sont les seules à pouvoir comprendre les autres survivantes. Je le sais à présent.
      Ma signature était un autre viol.

    • Depardieu : notre responsabilité de société - Stephane Lavignotte

      https://blogs.mediapart.fr/stephanelavignotteorg/blog/281223/depardieu-notre-responsabilite-de-societe

      Etablir les faits, une responsabilité de la société

      Pour dire des faits, il n’y a pas que la justice. La société et certaines de ses institutions ont aussi cette responsabilité, les journalistes et les historiens, par exemple. Pour savoir que les attentats du 11 septembre ont bien eu lieu et qu’Al Qaida en était à l’origine, on n’attend pas une décision judiciaire, le travail de presse fait foi. Pour savoir que Dreyfus était innocent, il vaut mieux s’en remettre aux historiens et aux journalistes de son temps qu’à l’institution judiciaire. Le propre de la justice ne consiste d’ailleurs pas tant à dire les faits qu’à prononcer des sanctions mises en oeuvre grâce au monopole de la violence légitime de l’État, prison ou amende. La justice reconnaît volontiers que – par exemple sur les faits de pédophilie ou de viol – elle ne peut souvent pas prononcer les faits car ses critères sont restrictifs pour retenir des preuves et que par exemple elle s’applique une prescription des faits. Des institutions de la société civile disent mieux le factuel que la justice et c’est leur responsabilité d’aller chercher et de divulguer les faits.

      [...]

      Faire société ou pas ?

      Maintenant que ces fait sont connus par delà le petit milieu du cinéma, cette responsabilité de ne plus fermer les yeux et de ne plus laisser faire est collective : elle s’élargit à l’ensemble de la société. Collectivement, disons-nous « stop » ou « encore » ? Il y a des tribunes, ou des déclarations de président de la République, qui en défendant Depardieu participent du déni de la gravité des faits d’hier mais aussi se déchargent de toute responsabilité des comportements inacceptables de demain, de Depardieu ou d’autres. Qui, paradoxalement, font société – « bonne société » en l’occurrence – pour nous dire de ne pas faire société, qu’il y a uniquement des individus et l’État. Des individus dans des rapports inter-individuels (en ignorant les déséquilibres de pouvoir) et l’État quand il y a désaccord. Rien entre les deux.

    • violence légitime de l’état

      mais quand est-ce que les journalistes vont arrêter de mettre ces mots en contre vérité total de leur contexte à toutes les sauces ?

    • Notion fourretout

      monopole de la violence légitime de l’État

      La « violence légitime de l’État » de Max Weber
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/la-violence-legitime-de-l-etat-de-max-weber-8101512

      Et il insiste sur la dimension violence, c’est souvent ce qu’on retient de ce texte. Il y a d’autres versions dans des textes de Weber qui sont plus scientifiques, dirais-je, et où il utilise à la place du terme “violence, le terme “contrainte”. C’est-à-dire, les moyens de garantir le droit.

      Ambiguïté du terme "légitime"

      C’est une définition des pouvoirs de l’État pas une justification de la violence envers le peuple. Max Weber explique que l’État se substitue aux autres instances de pouvoir, contrairement aux multiples autorités de l’époque féodale : Église, roi, villes libres. En somme, c’est une définition de la souveraineté moderne.

    • Quand Max Weber parle de “violence légitime” il en fait une description sociologique, il décrit ce qui est et non pas ce qui doit être. Max Weber théorise comment se sont constitués les États en tant qu’entités politiques.

      "Cette définition intervient après qu’il (Weber) a écarté les définitions plus courantes, par les objectifs, les buts de l’État. Il se replie sur la définition par son moyen. Il a un moyen spécifique que n’ont pas les autre groupements politiques. Et ce moyen spécifique ce n’est pas la violence physique mais c’est le monopole de la violence physique. "

      La force précède et accompagne le droit. Refuser la « violence contre le peuple », c’est refuser l’État.

  • La violence contre les femmes est au centre de la campagne dans les régions d’Afrique australe et orientale

    Dans le cadre des activités liées à la « Journée internationale pour l’élimination de la violence à l’égard des femmes », huit organisations LVC d’Afrique australe et orientale ont promu des activités pour réfléchir sur le sujet, du point de vue des paysannes.

    Le 25 novembre est célébrée la « Journée internationale pour l’élimination de la violence à l’égard des femmes ». Partout dans le monde, les organisations membres de La Via Campesina ont dénoncé les formes de violence subies par les femmes partout dans le monde, dans le cadre des luttes contre le capitalisme, le patriarcat, le racisme, le colonialisme et l’avancée du fascisme. Sur le chemin de ce mouvement mondial, les régions d’Afrique australe et orientale ont également pu compter sur les actions menées par huit organisations affiliées à Via Campesina. Les impacts du coût de la vie élevé, de l’accumulation de travail à l’intérieur et à l’extérieur du foyer, de la discrimination et des différents types de violence qui affectent la vie quotidienne des paysannes de ces territoires ont été discutés. Les événements comprenaient des marches, des cercles de conversation, des ateliers, des foires et bien plus encore..

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/29/la-violence-contre-les-femmes-est-au-centre-de

    #afrique #feminisme #violence

  • #Inde : dans les champs du #Pendjab, la colère s’enracine

    Depuis leur soulèvement en 2021, les paysans du sous-continent sont revenus aux champs. Mais dans le grenier à #blé du pays, la révolte gronde toujours et la sortie de la #monoculture_intensive est devenue une priorité des #syndicats_agricoles.

    « Nous sommes rassemblés parce que la situation des agriculteurs est dans l’impasse. Dans le Pendjab, les paysans sont prisonniers de la monoculture du blé et du #riz, qui épuise les #nappes_phréatiques », explique Kanwar Daleep, président du grand syndicat agricole #Kisan_Marzoor. À ses côtés, ils sont une centaine à bloquer la ligne de train qui relie la grande ville d’Amritsar, dans le Pendjab, à New Delhi, la capitale du pays. Au milieu d’immenses champs de blé, beaucoup sont des paysans sikhs, reconnaissables à leur barbe et à leur turban.

    C’est d’ici qu’est parti le plus grand mouvement de contestation de l’Inde contemporaine. Pour s’opposer à la #libéralisation du secteur agricole, des paysans du Pendjab en colère puis des fermiers de toute l’Inde ont encerclé New Delhi pacifiquement mais implacablement en décembre 2020 et en 2021, bravant froids hivernaux, coronavirus et police. En novembre 2021, le premier ministre Narendra Modi a finalement suspendu sa #réforme, dont une des conséquences redoutées aurait été la liquidation des tarifs minimums d’achat garantis par l’État sur certaines récoltes.

    « Depuis cette #révolte historique, les agriculteurs ont compris que le peuple avait le pouvoir, juge #Sangeet_Toor, écrivaine et militante de la condition paysanne, basée à Chandigarh, la capitale du Pendjab. L’occupation est finie, mais les syndicats réclament un nouveau #modèle_agricole. Ils se sont emparés de sujets tels que la #liberté_d’expression et la #démocratie. »

    Pour Kanwar Daleep, le combat entamé en 2020 n’est pas terminé. « Nos demandes n’ont pas été satisfaites. Nous demandons à ce que les #prix_minimums soient pérennisés mais aussi étendus à d’autres cultures que le blé et le riz, pour nous aider à régénérer les sols. »

    C’est sur les terres du Pendjab, très plates et fertiles, arrosées par deux fleuves, que le gouvernement a lancé dans les années 1960 un vaste programme de #plantation de semences modifiées à grand renfort de #fertilisants et de #pesticides. Grâce à cette « #révolution_verte », la production de #céréales a rapidement explosé – l’Inde est aujourd’hui un pays exportateur. Mais ce modèle est à bout de souffle. Le père de la révolution verte en Inde, #Monkombu_Sambasivan_Swaminathan, mort en septembre, alertait lui-même sur les dérives de ce #productivisme_agricole forcené.

    « La saison du blé se finit, je vais planter du riz », raconte Purun Singh, qui cultive 15 hectares près de la frontière du Pakistan. « Pour chaque hectare, il me faut acheter 420 euros de fertilisants et pesticides. J’obtiens 3 000 kilos dont je tire environ 750 euros. Mais il y a beaucoup d’autres dépenses : l’entretien des machines, la location des terrains, l’école pour les enfants… On arrive à se nourrir mais notre compte est vide. » Des récoltes aléatoires vendues à des prix qui stagnent… face à un coût de la vie et des intrants de plus en plus élevé et à un climat imprévisible. Voilà l’équation dont beaucoup de paysans du Pendjab sont prisonniers.

    Cet équilibre financier précaire est rompu au moindre aléa, comme les terribles inondations dues au dérèglement des moussons cet été dans le sud du Pendjab. Pour financer les #graines hybrides et les #produits_chimiques de la saison suivante, les plus petits fermiers en viennent à emprunter, ce qui peut conduire au pire. « Il y a cinq ans, j’ai dû vendre un hectare pour rembourser mon prêt, raconte l’agriculteur Balour Singh. La situation et les récoltes ne se sont pas améliorées. On a dû hypothéquer nos terrains et je crains qu’ils ne soient bientôt saisis. Beaucoup de fermiers sont surendettés comme moi. » Conséquence avérée, le Pendjab détient aujourd’hui le record de #suicides de paysans du pays.

    Champs toxiques

    En roulant à travers les étendues vertes du grenier de l’Inde, on voit parfois d’épaisses fumées s’élever dans les airs. C’est le #brûlage_des_chaumes, pratiqué par les paysans lorsqu’ils passent de la culture du blé à celle du riz, comme en ce mois d’octobre. Cette technique, étroitement associée à la monoculture, est responsable d’une très importante #pollution_de_l’air, qui contamine jusqu’à la capitale, New Delhi. Depuis la route, on aperçoit aussi des fermiers arroser leurs champs de pesticides toxiques sans aucune protection. Là encore, une des conséquences de la révolution verte, qui place le Pendjab en tête des États indiens en nombre de #cancers.

    « Le paradigme que nous suivons depuis les années 1960 est placé sous le signe de la #sécurité_alimentaire de l’Inde. Où faire pousser ? Que faire pousser ? Quelles graines acheter ? Avec quels intrants les arroser ? Tout cela est décidé par le marché, qui en tire les bénéfices », juge Umendra Dutt. Depuis le village de Jaito, cet ancien journaliste a lancé en 2005 la #Kheti_Virasat_Mission, une des plus grandes ONG du Pendjab, qui a aujourd’hui formé des milliers de paysans à l’#agriculture_biologique. « Tout miser sur le blé a été une tragédie, poursuit-il. D’une agriculture centrée sur les semences, il faut passer à une agriculture centrée sur les sols et introduire de nouvelles espèces, comme le #millet. »

    « J’ai décidé de passer à l’agriculture biologique en 2015, parce qu’autour de moi de nombreux fermiers ont développé des maladies, notamment le cancer, à force de baigner dans les produits chimiques », témoigne Amar Singh, formé par la Kheti Virasat Mission. J’ai converti deux des quatre hectares de mon exploitation. Ici, auparavant, c’était du blé. Aujourd’hui j’y plante du curcuma, du sésame, du millet, de la canne à sucre, sans pesticides et avec beaucoup moins d’eau. Cela demande plus de travail car on ne peut pas utiliser les grosses machines. Je gagne un peu en vendant à des particuliers. Mais la #transition serait plus rapide avec l’aide du gouvernement. »

    La petite parcelle bio d’Amar Singh est installée au milieu d’hectares de blé nourris aux produits chimiques. On se demande si sa production sera vraiment « sans pesticides ». Si de plus en plus de paysans sont conscients de la nécessité de cultiver différemment, la plupart peinent à le faire. « On ne peut pas parler d’une tendance de fond, confirme Rajinder Singh, porte-parole du syndicat #Kirti_Kazan_Union, qui veut porter le combat sur le plan politique. Lorsqu’un agriculteur passe au bio, sa production baisse pour quelques années. Or ils sont déjà très endettés… Pour changer de modèle, il faut donc subventionner cette transition. »

    Kanwar Daleep, du Kisan Marzoor, l’affirme : les blocages continueront, jusqu’à obtenir des garanties pour l’avenir des fermiers. Selon lui, son syndicat discute activement avec ceux de l’État voisin du Haryana pour faire front commun dans la lutte. Mais à l’approche des élections générales en Inde en mai 2024, la reprise d’un mouvement de masse est plus une menace brandie qu’une réalité. Faute de vision des pouvoirs publics, les paysans du Pendjab choisissent pour l’instant l’expectative. « Les manifestations peuvent exploser à nouveau, si le gouvernement tente à nouveau d’imposer des réformes néfastes au monde paysan », juge Sangeet Toor.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/inde-dans-les-champs-du-pendjab-la-colere-s-enracine
    #agriculture #monoculture #résistance

  • « Wolfgang #Schäuble et Jacques #Delors : une logique, un couple, des enfants »

    Qui aura la garde ? :-D :-D :-D

    Faisons l’#amour, avant de nous dire #adieu... :-D :-D :-D

    « L’un défendait l’#austérité budgétaire et voulait l’appliquer à toute l’#Europe. L’autre représentait cette deuxième #gauche acquise au #libéralisme bruxellois et au #Marché unique. Le premier assumait fort bien son statut de père fouettard. Le second s’accommoda mal d’une impossible Europe sociale. Mais, ils finirent d’une certaine façon par faire bon ménage dans une UE faites de critères, de normes et de technocratie. (...) »

    #politique #comique #fédéralisme #social #humour #tragique #fraternité #changement #seenthis #vangauguin

    https://www.marianne.net/economie/wolfgang-schauble-et-jacques-delors-une-logique-un-couple-des-enfants#utm_

  • Kirghizistan : Des femmes et filles handicapées confrontées à la violence domestique

    Le gouvernement devrait renforcer les mesures contre la discrimination, faire appliquer les lois existantes et réviser certaines d’entre elles

    Au Kirghizistan, de nombreuses femmes et filles handicapées subissent divers abus – passages à tabac, négligence et humiliation– souvent aux mains de leurs proches

    Le gouvernement a fait de la lutte contre la violence domestique une priorité, mais les lois ne prennent pas en compte les besoins particuliers des femmes et des filles handicapées, les exposant ainsi au risque de violence de manière continue.

    Le Kirghizistan devrait aligner sa législation sur le droit international, faciliter l’éducation et l’indépendance financière des femmes et des filles handicapées, et améliorer la formation des fonctionnaires dans ce domaine.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/28/kirghizistan-des-femmes-et-filles-handicapees-

    #féminisme #kirghizistan

  • Féminisme populaire et intégration régionale : Publication virtuelle de la Marche Mondiale des Femmes des Amériques

    Lire la brochure réalisée par Capire et la Marche Mondiale des Femmes des Amériques

    Cette publication virtuelle rassemble des élaborations féministes sur la construction de l’internationalisme et sur la participation fondamentale des femmes combattantes aux processus d’intégration des peuples.

    Dans les interviews inédites, Alejandra Laprea et Norma Cacho parlent de l’organisation de la Marche Mondiale des Femmes dans les Amériques et des défis internationaux du mouvement ; les textes d’Alejandra Angriman, Elpidia Moreno et Karin Nansen sont des éditions de leurs discours lors du webinaire « Féminisme et intégration régionale », tenu en novembre 2023 ; ceux d’Ana Priscila Alves et Irene León apportent leurs contributions à la 3e conférence Dilemmes de l’humanité dans ses étapes régionale et internationale, en septembre et octobre 2023. Le texte de notre chère compagne Nalu Faria, initialement publié en 2021, a été choisi pour ouvrir notre publication, ravivant sa mémoire, son héritage et sa vision précise sur les stratégies de construction du féminisme populaire.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/27/feminisme-populaire-et-integration-regionale-p

    #féminisme #mmf

  • « Elle était déjà morte à l’intérieur » : les suicides forcés, la face cachée des #féminicides
    En 2022, 759 femmes se sont suicidées ou ont tenté de le faire en raison du harcèlement de leur conjoint ou ex-conjoint. Une infraction en forte hausse mais qui reste encore peu visible et difficile à prouver.
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/26/elle-etait-deja-morte-a-l-interieur-les-suicides-forces-la-face-cachee-des-f

    « Son mari était à l’hôpital, mais il ne nous a prévenus qu’une heure après son décès. Il ne nous avait pas non plus informés du fait qu’il n’avait plus de nouvelles d’elle depuis près de vingt-quatre heures », raconte Fadila Nasri, la sœur d’Odile, qui s’effondre. « Tout me semble encore surréaliste tant cette fin tragique est aux antipodes de la personne pleine de vie, pétillante, souriante et très indépendante, que tout le monde a connue, poursuit l’enseignante de 55 ans. Avec ma sœur, on a tout partagé, les fêtes, les sorties, les études. Et puis, elle l’a rencontré, son ex-mari. C’est lui qui va l’enfermer dans un huis clos machiavélique, toxique et qui va l’isoler de tout le monde. »

    Le rapport de police indique qu’Odile Nasri est morte d’« intoxication médicamenteuse » et d’« hypothermie ». Avec ses trois frères, Messaoud, Karim et Francis, Fadila décide de porter plainte en juin 2021. Trois mois plus tard, la toute première information judiciaire en France pour « #suicide_forcé » est ouverte. « La route est longue, mesure Fadila Nasri, mais j’irai jusqu’au bout, je vais me battre pour elle. »

    #paywall

  • Louis Althusser et Hélène Rytmann : le philosophe assassin et le féminicide occulté – Libération
    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/louis-althusser-et-helene-rytmann-le-philosophe-assassin-et-le-feminicide

    « Althusser trop fort. » Longtemps, ce canular macabre a circulé dans le milieu intellectuel français. Plaisanterie d’initiés, blague de khâgneux, il désigne le cou d’une femme, Hélène Rytmann, étranglée par le philosophe Louis Althusser le 16 novembre 1980 à 7h55 dans leur appartement de fonction de l’Ecole normale supérieure, à Paris. Fait divers total, l’affaire a estourbi la France de l’époque : un philosophe marxiste, prophète en son pays, meurtrier de son épouse, au sein d’une des plus grandes écoles françaises. Mais en dépit de l’avalanche d’articles et de livres parus depuis quarante-trois ans, il a fallu attendre cet automne pour qu’un ouvrage le qualifie de féminicide.

    • merci !

      Quelques jours plus tard, dans la nuit du 28 au 29 mars, la salle « Legotien » est saccagée. Au petit matin, on y retrouve des tags comme « A bas les féministes ».

      (tiens, gg:streetview permet de se promener dans les jardins de l’ENS, y compris la cour aux Ernests)

    • Ah tiens, encore un #grand_homme de la pétition ouverte parue dans Le Monde, le 23 mai 1977 LETTRE OUVERTE A LA COMMISSION DE REVISION DU CODE PENAL POUR LA REVISION DE CERTAINS TEXTES LEGISLATIFS REGISSANT LES RAPPORTS ENTRE ADULTES ET MINEURS.

      et signée par moult pédo-criminels activistes (dont Matzneff) dont certains furent condamnés des années après.

    • La banalité du mâle : Louis Althusser a tué sa conjointe, Hélène Rytmann-Legotien, qui voulait le quitter

      Troisième partie : Psychologisation et victimisation

      par Francis Dupuis-Déri
      6 février 2017

      https://lmsi.net/La-banalite-du-male-Louis,1833

      À travers son autobiographie, le meurtrier restitue le portrait d’une élite masculine marquée par le machisme et la misogynie. On y croise un Jacques Lacan tombé amoureux de la jeune fille d’un de ses patients, le doyen de la Faculté de philosophie de Moscou qui glisse à Althusser, alors qu’il va quitter l’URSS, « [s]alue bien pour moi les petites femmes de Paris ! » (Althusser, 1994 : 215), un Paul Éluard qui reçoit Althusser alors qu’une jeune femme nue dort étendue sur un divan (Althusser, 1994 : 226), un Althusser qui drague les femmes sur les plages de St-Tropez et caresse les seins d’une jeune femme accompagnant un ami invité à dîner. Dans le paragraphe où il explique son adhésion au Parti communiste en 1948, il évoque surtout le souvenir d’« une belle jeune femme, en déshabillé (ses seins…) » lorsqu’il faisait du porte-à-porte (Althusser, 1994 : 225). Enfin, le meurtrier explique aussi pourquoi il se constituait une « réserve de femmes » :

      [S]implement pour ne pas risquer de me trouver un jour seul sans aucune femme à ma main, si d’aventure une de mes femmes me quittait ou venait à mourir […], et si j’ai toujours eu à côté d’Hélène une réserve de femmes, c’était bien pour être assuré que si d’aventure Hélène m’abandonnait ou venait à mourir, je ne serai pas un instant seul dans la vie. Je ne sais trop que cette terrible compulsion fit horriblement souffrir “mes” femmes, Hélène la première. (Althusser, 1994 : 123-124, souligné dans le texte)

      Outre l’ambiguïté de ce témoignage quant à l’évocation de la mort d’Hélène, il s’agit du portrait d’un homme qui s’estime propriétaire des femmes, ne pouvant imaginer qu’elles se dérobent à cette prérogative masculine et prêt à les faire souffrir en les jouant les unes contre les autres, y compris sa conjointe (et cela même s’il était conscient de cette douleur qu’il lui imposait : Althusser, 1994 : 176-179), pour préserver son besoin impératif de posséder des femmes.

      –—

      Décidément, il reste à retracer la cascade de l’histoire de la violence sexuelle française, du tordu Lacan et de sa secte de germanopratins, avec leur pote Heidegger, comme ceux qui se cotoyaient chez René Char l’été.

      Un Diamant brut - Vézelay-Paris, 1938-1950
      Yvette Szczupak-Thomas
      Ed. Métailié, 2008

      https://undiamantbrut.blogspot.com/2008/05/photos-du-tournage-de-sur-les-hauteurs.html

      Heidegger, Kostas Axelos, Lacan, Jean Beaufret, Elfriede Heidegger, Sylvia Bataille

    • Cinq nouvelles remarques sur le cas Legotien | Lucie Rondeau
      https://blogs.mediapart.fr/lrdn/blog/261223/cinq-nouvelles-remarques-sur-le-cas-legotien

      Au début de mes recherches biographiques sur Legotien, j’avais beaucoup de mal à lire des publications concernant son meurtrier. Force est pourtant de constater que le premier tome de la biographie d’Althusser publiée par Yann Moulier-Boutang en 1992 chez Grasset est une source d’informations incomparable sur les années « floues » que Legotien a traversées pendant la Seconde Guerre mondiale. Il est d’ailleurs malheureux que le deuxième tome de la biographie, dans lequel Boutang annonce qu’il révèlera la raison véritable de l’exclusion du PCF subie par Hélène Rytmann, ait été reporté sine die. Cette publication à venir depuis plus de trente ans contribue peut-être même à accentuer le mystère Legotien. Parmi les anciens « disciples » d’Althusser, c’est Étienne Balibar qui a pris soin de rappeler, lors de l’enterrement de son ancien professeur le 25 octobre 1990 la mémoire de Legotien : « Encore un mot : pour beaucoup d’entre nous il ne serait pas possible de partir d’ici sans penser aussi à Hélène Althusser. Nous pensons à Hélène avec autant de chagrin et d’affection que naguère. ». Balibar a aussi contribué, par des dons personnels, à la constitution, au sein du fonds Althusser de l’IMEC, d’une archive des travaux scientifiques de Legotien.

      [...]

      Pendant les années 1970, elle confie plusieurs fois à son amie Marcou (désormais veuve de Jean [Ballard]) que ce sont avant tout les préconisations du corps médical qui la conduisent à rester auprès de son compagnon, qu’elle épouse en 1976. Pour celles et ceux qui étudient le féminicide de Legotien en lui-même, il serait sans doute intéressant de reconstituer ce discours médical, moins souvent étudié que celui du « Tout-Paris » médiatique et intellectuel. Un autre point qui pourrait retenir leur attention est celui de la fragilité financière de Legotien. Attestée à la sortie de la guerre, elle demeure jusqu’en 1980 un souci constant pour Rytmann et éclaire une partie de ses choix professionnels. Elle pourrait donc aussi avoir joué un rôle dans son féminicide. C’est seulement à titre d’hypothèses de travail pour d’autres que j’évoque cette double piste médicale et financière, dans la mesure où j’ai personnellement décidé de me consacrer à étudier la trajectoire intellectuelle et professionnelle de Legotien, plutôt que sur son féminicide désormais bien analysé.

  • Halte aux attaques contre l’IVG instrumentale !

    Le décret d’application qui permet enfin aux sages femmes de pratiquer des ivg instrumentales (= par aspiration) a été publié le 16 décembre 23. Nous l’attendions depuis le 2 mars 2022, date de promulgation de la loi dite « Gaillot ». On manque de médecins, tout le monde le sait. Des centres où se pratiquent les IVG ferment car des maternités de proximité où ils sont implantés ferment.

    La publication de ce décret était attendue avec impatience pour permettre de « fluidifier » l’accès à l’IVG et d’en réduire les inégalités d’accès sur les territoires. Les sages femmes sont formées, compétentes, elles pratiquent parfois des accouchements difficiles où la vie de la femme et de l’enfant sont menacées

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/26/halte-aux-attaques-contre-livg-instrumentale

    #féminisme #ivg

  • La longue histoire de la ménopause
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/22/la-longue-histoire-de-la-menopause_6207346_3232.html

    Je me réjouissais d’apprendre quelque chose sur la ménopause et que ce tabou soit levé, pour au moins prévenir les femmes. Bah, j’ai l’impression de repartir 100 ans en arrière avec cet article qui pleure la perte de séduction.

    Il me semblait pourtant que dans le deuxième sexe, Beauvoir (1949) fait l’apologie de la ménopause, dans le sens où le corps est enfin libéré de ses obligations essentialistes d’enfantement et d’attractivité. Elle en parle alors comme d’une nouvelle vie, d’être enfin à soi.

    #malegaze #paywall #aliénation

  • Comment la distinction entre la notion de sexe biologique et celle de genre est effacée par les discours des militant-es transactivistes

    L’acceptation par la société – au demeurant tardive et timide – de la réalité d’une discordance parfois, entre le sexe biologique de naissance et l’identité de genre ressentie ou vécue, s’accompagne depuis quelques années de l’émergence d’un nouveau dictionnaire qu’il convient d’interroger.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/02/03/comment-la-distinction-entre-la-notion-de-sexe

    #féminisme

  • Cours criminelles départementales : une justice de seconde classe

    Les cours criminelles départementales, censées éviter la correctionnalisation des viols, servent en fait d’outil pour déqualifier des crimes sexuels, parmi les plus sadiques, les plus misogynes, les plus racistes. C’est ce que révèle la procédure « French Bukkake » pour laquelle les plaignantes ont fait appel. Soutien à elles avant la décision de la Cour d’appel le 14 décembre.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/24/cours-criminelles-departementales-une-justice-

    #féminisme #justice

  • Soirées prestigieuses, promoteurs et champagne à volonté : « Dans le carré VIP, les filles sont du #bétail »
    https://www.lemonde.fr/m-perso/article/2023/12/23/soirees-prestigieuses-promoteurs-et-champagne-a-volonte-dans-le-carre-vip-le

    Mais que pensent ces jeunes filles de cette organisation où, pour la plupart, elles se savent utilisées comme produit d’appel ? Pour Olivia, toutes connaissent les règles du jeu et les acceptent. « C’est donnant-donnant, on sort gratuitement, mais on n’est forcées à rien. » Cette fille de diplomate insiste sur le fait qu’en étant à la table d’un promoteur elle se sent bien plus protégée que dans les espaces communs. « Quand on est en bas [dans la fosse], on est dix fois plus vulnérables. » De là-haut, les hommes ne peuvent qu’admirer les filles, tandis qu’elles profitent d’un sentiment d’exclusivité et de prestige.

    Nombre d’entre elles évoquent une impression de subversion lorsqu’elles relatent cette expérience au cours de laquelle elles sont ouvertement chosifiées. « On accepte d’être des bouts de viande pour profiter de notre soirée gratuitement, en son âme et conscience », assume Elise. D’une certaine manière, elles ont la sensation de tirer profit des faiblesses masculines pour s’amuser à moindre coût. Parfois, plus par jeu que par nécessité. Car ces jeunes filles sont loin d’être toutes issues des classes populaires. Selon Myrtille Picaud, sociologue chargée de recherches au CNRS, même « celles qui disposent d’un capital économique sont là aussi soumises aux attentes des hommes, au regard masculin, à la hiérarchisation des femmes entre elles, ce qui se traduit par le fait qu’on leur paie un verre ». A sa manière, le carré VIP fait perdurer une vision très archaïque des rapports femme-homme, où lui serait la source de prodigalité et le pourvoyeur de statut ; et elle l’objet.

    Pendant une soirée au Gotha, autre boîte cannoise, Elise se souvient d’un événement marquant. « Au carré VIP, les mecs pointaient des rayons laser sur les filles, dans la fosse, qu’ils trouvaient attirantes, pour qu’elles viennent les rejoindre en haut. Une fois, j’en ai vu un intimer à une fille de faire un tour sur elle-même, pour vérifier la marchandise. Puis le videur vient la chercher pour la faire monter. Etant donné qu’il a payé la table, c’est lui qui décide. Dans le carré VIP, les filles sont du bétail. » Comme si toutes les avancées sociales se dissolvaient une fois la lumière tamisée, « dans les espaces nocturnes, les femmes sont souvent renvoyées à leur rôle d’appât et de potentialité sexuelle », résume Myrtille Picaud.

    Version low cost, presque caricaturale

    Même si c’est là qu’il connaît sa forme la plus exacerbée, le carré VIP ne constitue pas un fantasme réservé aux seuls quartiers huppés de la capitale. Dans une version low cost, presque caricaturale, on le retrouve aussi bien dans les boîtes de campagne que dans les zones de fête à l’étranger, où on cultive un sentiment d’exclusivité à la petite semaine. Sur l’île de Malte, Donze, 21 ans, officie depuis quelques mois comme promotrice de soirées. La journée, elle vend des tickets à des groupes dans la rue, pour qu’ils aillent dans telle ou telle boîte le soir même, souvent dans des clubs grand public. « Nos soirées sont peu regardantes sur le dress code, n’importe qui entre en claquettes-chaussettes ! », lance-t-elle, rieuse.

    Quand elle vend une place, les hommes lui demandent toujours s’il y aura des représentantes du sexe opposé. Pour les faire venir, elle leur montre alors des vidéos promotionnelles sur son portable, où l’on voit des femmes twerkant en maillot de bain. « Les filles représentent notre produit d’appel. Mais nous aussi, en tant que promotrices, nous servons d’appât », confie cette jeune Auvergnate. En effet, son expérience atteste du mécanisme bien rodé du monde de la nuit, où le corps féminin fait office de monnaie d’échange. Même en étant promotrice, donc censément en position de force, Donze est tout aussi vulnérable : « J’ai déjà subi des attouchements, je me suis fait pincer les fesses, embrasser… Mais, pour l’instant, il ne m’est rien arrivé de plus grave. »

    https://archive.is/uISo6

    #femmes #corps_féminin #marchandise #patriarcat #boites_de_nuit #hommes #VSS

  • Ceci n’est pas un message d’amour

    En avant toute(s) agit auprès des jeunes, femmes et personnes LGBTQIA+
    Nous luttons contre les violences sexistes et sexuelles à travers des actions de prévention et accompagnons les personnes victimes et témoins sur le premier tchat dédié.

    Le tchat d’écoute gratuit, anonyme, sécurisé et bienveillant
    Le tchat d’En avant toute(s) permet d’être mis·e en relation avec des professionnelles qui écoutent, conseillent et redirigent vers les structures adaptées.
    Il est ouvert du lundi au jeudi de 10h à 00h et du vendredi au samedi de 10h à 21h.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/23/ceci-nest-pas-un-message-damour

    #féminisme

  • Quei bambini chiusi in trappola a Gaza. Il racconto di #Ruba_Salih
    (une interview de Ruba Salih, prof à l’Université de Bologne, 5 jours après le #7_octobre_2023)

    «Mai come in queste ore a Gaza il senso di appartenere a una comune “umanita” si sta mostrando più vuoto di senso. La responsabilità di questo è del governo israeliano», dice Ruba Salih antropologa dell’università di Bologna che abbiamo intervistato mentre cresce la preoccupazione per la spirale di violenza che colpisce la popolazione civile palestinese e israeliana.

    Quali sono state le sue prime reazioni, sentimenti, pensieri di fronte all’attacco di Hamas e poi all’annuncio dell’assedio di Gaza messo in atto dal governo israeliano?

    Il 7 ottobre la prima reazione è stata di incredulità alla vista della recinzione metallica di Gaza sfondata, e alla vista dei palestinesi che volavano con i parapendii presagendo una sorta di fine dell’assedio. Ho avuto la sensazione di assistere a qualcosa che non aveva precedenti nella storia recente. Come era possibile che l’esercito più potente del mondo potesse essere sfidato e colto così alla sprovvista? In seguito, ho cominciato a chiamare amici e parenti, in Cisgiordania, Gaza, Stati Uniti, Giordania. Fino ad allora si aveva solo la notizia della cattura di un numero imprecisato di soldati israeliani. Ho pensato che fosse una tattica per fare uno scambio di prigionieri. Ci sono più di 5000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e 1200 in detenzione amministrativa, senza processo o accusa. Poi sono cominciate da domenica ad arrivare le notizie di uccisioni e morti di civili israeliani, a cui è seguito l’annuncio di ‘guerra totale’ del governo di Netanyahu. Da allora il sentimento è cambiato. Ora grande tristezza per la quantità di vittime, dell’una e dell’altra parte, e preoccupazione e angoscia senza precedenti per le sorti della popolazione civile di Gaza, che in queste ore sta vivendo le ore piu’ drammatiche che si possano ricordare.

    E quando ha visto quello che succedeva, con tantissime vittime israeliane, violenze terribili, immagini di distruzione, minacce di radere al suolo Gaza?

    Colleghi e amici israeliani hanno cominciato a postare immagini di amici e amiche uccisi – anche attivisti contro l’occupazione- e ho cominciato dolorosamente a mandare condoglianze. Contemporaneamente giungevano terribili parole del ministro della Difesa israeliano Gallant che definiva i palestinesi “animali umani”, dichiarando di voler annientare la striscia di Gaza e ridurla a “deserto”. Ho cominciato a chiamare amici di Gaza per sapere delle loro famiglie nella speranza che fossero ancora tutti vivi. Piano piano ho cominciato a cercare di mettere insieme i pezzi e dare una cornice di senso a quello che stava succedendo.

    Cosa può dirci di Gaza che già prima dell’attacco di Hamas era una prigione a cielo aperto?

    Si, Gaza è una prigione. A Gaza la maggior parte della popolazione è molto giovane, e in pochi hanno visto il mondo oltre il muro di recinzione. Due terzi della popolazione è composto da famiglie di rifugiati del 1948. Il loro vissuto è per lo più quello di una lunga storia di violenza coloniale e di un durissimo assedio negli ultimi 15 anni. Possiamo cercare di immaginare cosa significa vivere questo trauma che si protrae da generazioni. Gli abitanti di Gaza nati prima del 1948 vivevano in 247 villaggi nel sud della Palestina, il 50% del paese. Sono stati costretti a riparare in campi profughi a seguito della distruzione o occupazione dei loro villaggi. Ora vivono in un’area che rappresenta l’1.3% della Palestina storica con una densità di 7000 persone per chilometro quadrato e le loro terre originarie si trovano a pochi metri di là dal muro di assedio, abitate da israeliani.

    E oggi?

    Chi vive a Gaza si descrive come in una morte lenta, in una privazione del presente e della capacità di immaginare il futuro. Il 90% dell’acqua non è potabile, il 60% della popolazione è senza lavoro, l’80% riceve aiuti umanitari per sopravvivere e il 40% vive al di sotto della soglia di povertà: tutto questo a causa dell’ occupazione e dell’assedio degli ultimi 15 anni. Non c’è quasi famiglia che non abbia avuto vittime, i bombardamenti hanno raso al suolo interi quartieri della striscia almeno quattro volte nel giro di una decina di anni. Non credo ci sia una situazione analoga in nessun altro posto del mondo. Una situazione che sarebbe risolta se Israele rispettasse il diritto internazionale, né più né meno.

    Prima di questa escalation di violenza c’era voglia di reagire, di vivere, di creare, di fare musica...

    Certo, anche in condizioni di privazione della liberta’ c’e’ una straordinaria capacità di sopravvivenza, creatività, amore per la propria gente. Tra l’altro ricordo di avere letto nei diari di Marek Edelman sul Ghetto di Varsavia che durante l’assedio del Ghetto ci si innamorava intensamente come antidoto alla disperazione. A questo proposito, consilgio a tutti di leggere The Ghetto Fights di Edelman. Aiuta molto a capire cosa è Gaza in questo momento, senza trascurare gli ovvi distinguo storici.

    Puoi spiegarci meglio?

    Come sapete il ghetto era chiuso al mondo esterno, il cibo entrava in quantità ridottissime e la morte per fame era la fine di molti. Oggi lo scenario di Gaza, mentre parliamo, è che non c’è elettricità, il cibo sta per finire, centinaia di malati e neonati attaccati alle macchine mediche hanno forse qualche ora di sopravvivenza. Il governo israeliano sta bombardando interi palazzi, le vittime sono per più della metà bambini. In queste ultime ore la popolazione si trova a dovere decidere se morire sotto le bombe in casa o sotto le bombe in strada, dato che il governo israeliano ha intimato a un milione e centomila abitanti di andarsene. Andare dove? E come nel ghetto la popolazione di Gaza è definita criminale e terrorista.

    Anche Franz Fanon, lei suggerisce, aiuta a capire cosa è Gaza.

    Certamente, come ho scritto recentemente, Fanon ci viene in aiuto con la forza della sua analisi della ferita della violenza coloniale come menomazione psichica oltre che fisica, e come privazione della dimensione di interezza del soggetto umano libero, che si manifesta come un trauma, anche intergenerazionale. La violenza prolungata penetra nelle menti e nei corpi, crea una sospensione delle cornici di senso e delle sensibilità che sono prerogativa di chi vive in contesti di pace e benessere. Immaginiamoci ora un luogo, come Gaza, dove come un rapporto di Save the Children ha riportato, come conseguenza di 15 anni di assedio e blocco, 4 bambini su 5 riportano un vissuto di depressione, paura e lutto. Il rapporto ci dice che vi è stato un aumento vertiginoso di bambini che pensano al suicidio (il 50%) o che praticano forme di autolesionismo. Tuttavia, tutto questo e’ ieri. Domani non so come ci sveglieremo, noi che abbiamo il privilegio di poterci risvegliare, da questo incubo. Cosa resterà della popolazione civile di Gaza, donne, uomini bambini.

    Come legge il sostegno incondizionato al governo israeliano di cui sono pieni i giornali occidentali e dell’invio di armi ( in primis dagli Usa), in un’ottica di vittoria sconfitta che abbiamo già visto all’opera per la guerra Russia-Ucraina?

    A Gaza si sta consumando un crimine contro l’umanità di dimensioni e proporzioni enormi mentre i media continuano a gettare benzina sul fuoco pubblicando notizie in prima pagina di decapitazioni e stupri, peraltro non confermate neanche dallo stesso esercito israeliano. Tuttavia, non utilizzerei definizioni statiche e omogeneizzanti come quelle di ‘Occidente’ che in realtà appiattiscono i movimenti e le società civili sulle politiche dei governi, che in questo periodo sono per lo più a destra, nazionalisti xenofobi e populisti. Non è sempre stato così.

    Va distinto il livello istituzionale, dei governi e dei partiti o dei media mainstream, da quello delle società civili e dei movimenti sociali?

    Ci sono una miriade di manifestazioni di solidarietà ovunque nel mondo, che a fianco del lutto per le vittime civili sia israeliane che palestinesi, non smettono di invocare la fine della occupazione, come unica via per ristabilire qualcosa che si possa chiamare diritto (e diritti umani) in Palestina e Israele. Gli stessi media mainstream sono in diversi contesti molto più indipendenti che non in Italia. Per esempio, Bcc non ha accettato di piegarsi alle pressioni del governo rivendicando la sua indipendenza rifiutandosi di usare la parola ‘terrorismo’, considerata di parte, preferendo riferirsi a quei palestinesi che hanno sferrato gli attacchi come ‘combattenti’. Se sono stati commessi crimini contro l’umanità parti lo stabiliranno poi le inchieste dei tribunali penali internazionali. In Italia, la complicità dei media è invece particolarmente grave e allarmante. Alcune delle (rare) voci critiche verso la politica del governo israeliano che per esempio esistono perfino sulla stampa liberal israeliana, come Haaretz, sarebbero in Italia accusate di anti-semitismo o incitamento al terrorismo! Ci tengo a sottolineare tuttavia che il fatto che ci sia un certo grado di libertà di pensiero e di stampa in Israele non significa che Israele sia una ‘democrazia’ o perlomeno non lo è certo nei confronti della popolazione palestinese. Che Israele pratichi un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi è ormai riconosciuto da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, nonché sottolineato a più riprese dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese.

    Dunque non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la retorica israeliana?

    Ma non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la narrativa israeliana. Sono anni che i palestinesi sono disumanizzati, resi invisibili e travisati. Il paradosso è che mentre Israele sta violando il diritto e le convenzioni internazionali e agisce in totale impunità da decenni, tutte le forme di resistenza: non violente, civili, dimostrative, simboliche, legali dei palestinesi fino a questo momento sono state inascoltate, anzi la situazione sul terreno è sempre più invivibile. Persino organizzazioni che mappano la violazione dei diritti umani sono demonizzate e catalogate come ‘terroristiche’. Anche le indagini e le commissioni per valutare le violazioni delle regole di ingaggio dell’esercito sono condotte internamente col risultato che divengono solo esercizi procedurali vuoti di sostanza (come per l’assassinio della reporter Shereen AbuHakleh, rimasto impunito come quello degli altri 55 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano). Ci dobbiamo seriamente domandare: che cosa rimane del senso vero delle parole e del diritto internazionale?

    Il discorso pubblico è intriso di militarismo, di richiami alla guerra, all’arruolamento…

    Personalmente non metterei sullo stesso piano la resistenza di un popolo colonizzato con il militarismo come progetto nazionalistico di espansione e profitto. Possiamo avere diversi orientamenti e non condividere le stesse strategie o tattiche ma la lotta anticoloniale non è la stessa cosa del militarismo legato a fini di affermazione di supremazia e dominio di altri popoli. Quella dei palestinesi è una lotta che si inscrive nella scia delle lotte di liberazione coloniali, non di espansione militare. La lotta palestinese si collega oggi alle lotte di giustizia razziale e di riconoscimento dei nativi americani e degli afro-americani contro società che oggi si definiscono liberali ma che sono nate da genocidi, schiavitù e oppressione razziale. Le faccio un esempio significativo: la prima bambina Lakota nata a Standing Rock durante le lunghe proteste contro la costruzione degli olelodotti in North Dakota, che stanno espropriando e distruggendo i terre dei nativi e inquinando le acque del Missouri, era avvolta nella Kuffyah palestinese. Peraltro, il nazionalismo non è più il solo quadro di riferimento. In Palestina si lotta per la propria casa, per la propria terra, per la liberazione dalla sopraffazione dell’occupazione, dalla prigionia, per l’autodeterminazione che per molti è immaginata o orientata verso la forma di uno stato laico binazionale, almeno fino agli eventi recenti. Domani non so come emergeremo da tutto questo.

    Emerge di nuovo questa cultura patriarcale della guerra, a cui come femministe ci siamo sempre opposte…

    Con i distinguo che ho appena fatto e che ribadisco – ossia che non si può mettere sullo stesso piano occupanti e occupati, colonialismo e anticolonialismo -mi sento comunque di dire che una mobilitazione trasversale che aneli alla fine della occupazione deve essere possibile. Nel passato, il movimento femminista internazionalista tentava di costruire ponti tra donne palestinesi e israeliane mobilitando il lutto di madri, sorelle e figlie delle vittime della violenza. Si pensava che questo fosse un legame primario che univa nella sofferenza, attraversando le differenze. Ci si appellava alla capacità delle donne di politicizzare la vulnerabilità, convinte che nella morte e nel lutto si fosse tutte uguali. La realtà è che la disumanizzazione dei palestinesi, rafforzata dalla continua e sempre più violenta repressione israeliana, rende impossibile il superamento delle divisioni in nome di una comune umanità. Mentre i morti israeliani vengono pubblicamente compianti e sono degni di lutto per il mondo intero, i palestinesi – definiti ‘terroristi’ (anche quando hanno praticato forme non-violente di resistenza), scudi-umani, animali (e non da oggi), sono già morti -privati della qualità di umani- prima ancora di morire, e inscritti in una diversa classe di vulnerabilità, di non essenza, di disumanità.

    Antropologa dell’università di Bologna Ruba Salih si interessa di antropologia politica con particolare attenzione a migrazioni e diaspore postcoloniali, rifugiati, violenza e trauma coloniale, genere corpo e memoria. Più recentemente si è occupata di decolonizzazione del sapere e Antropocene e di politiche di intersezionalità nei movimenti di protesta anti e de-coloniali. Ha ricoperto vari ruoli istituzionali tra cui membro eletto del Board of Trustees del Arab Council for the Social Sciences, dal 2015 al 2019. È stata visiting professor presso varie istituzioni tra cui Brown University, University of Cambridge e Università di Venezia, Ca’ Foscari.

    https://left.it/2023/10/12/quei-bambini-chiusi-in-trappola-a-gaza-il-racconto-di-ruba-salih

    #Gaza #Israël #Hamas #violence #prison #Palestine #violence_coloniale #siège #trauma #traumatisme #camps_de_réfugiés #réfugiés #réfugiés_palestiniens #pauvreté #bombardements #violence #dépression #peur #santé_mentale #suicide #crime_contre_l'humanité #apartheid #déshumanisation #résistance #droit_international #lutte #nationalisme #féminisme #à_lire #7_octobre_2023

    • Gaza between colonial trauma and genocide

      In the hours following the attack of Palestinian fighters in the south of Israel Western observers, bewildered, speculated about why Hamas and the young Palestinians of Gaza, born and bred under siege and bombs, have launched an attack of this magnitude, and right now. Others expressed their surprise at the surprise.

      The Israeli government responded by declaring “total war”, promising the pulverization of Gaza and demanding the inhabitants to leave the strip, knowing that there is no escape. Mobilising even the Holocaust and comparing the fighters to the Nazis, the Israeli government engaged in an operation that they claim is aimed at the destruction of Hamas.

      In fact, as I am writing, Gaza is being razed to the ground with an unbearable number of Palestinian deaths which gets larger by the hour, with people fleeing under Israeli bombs, water, electricity and fuel being cut, hospitals – receiving one patient a minute – on the brink of catastrophe, and humanitarian convoys prevented from entering the strip.

      An ethnic cleansing of Palestinians in Gaza is taking place with many legal observers claiming this level of violence amounts to a genocide.

      But what has happened – shocking and terrible in terms of the number of victims – including children and the elderly – creates not only a new political scenario, but above all it also imposes a new frame of meaning.

      Especially since the Oslo accords onwards, the emotional and interpretative filter applying to the “conflict” has been the asymmetrical valuing of one life over the other which in turn rested on an expectation of acquiescence and acceptance of the Palestinians’ subalternity as a colonised people. This framing has been shattered.

      The day of the attack, millions of Palestinians inside and outside the occupied territories found themselves in a trance-like state – with an undeniable initial euphoria from seeing the prison wall of Gaza being dismantled for the first time. They were wondering whether what they had before their eyes was delirium or reality. How was it possible that the Palestinians from Gaza, confined in a few suffocating square kilometres, repeatedly reduced to rubble, managed to evade the most powerful and technologically sophisticated army in the world, using only rudimentary equipment – bicycles with wings and hang-gliders? They could scarcely believe they were witnessing a reversal of the experience of violence, accustomed as they are to Palestinian casualties piling up relentlessly under Israeli bombardments, machine gun fire and control apparatus.

      Indeed, that Israel “declared war” after the attack illustrates this: to declare war assumes that before there was “peace”. To be sure, the inhabitants of Sderot and southern Israel would like to continue to live in peace. For the inhabitants of Gaza, on the other hand, peace is an abstract concept, something they have never experienced. For the inhabitants of the strip, as well as under international law, Gaza is an occupied territory whose population – two million and three hundred thousand people, of which two thirds are refugees from 1948 – lives (or to use their own words: “die slowly”) inside a prison. Control over the entry and exit of people, food, medicine, materials, electricity and telecommunications, sea, land and air borders, is in Israeli hands. International law, correctly invoked to defend the Ukrainian people and to sanction the Russian occupier, is a wastepaper for Israel, which enjoys an impunity granted to no other state that operates in such violation of UN resolutions, even disregarding agreements they themselves signed, never mind international norms and conventions.

      This scaffolding has crucially rested on the certainty that Palestinians cannot and should not react to their condition, not only and not so much because of their obvious military inferiority, but in the warped belief that Palestinian subjectivity must and can accept remaining colonised and occupied, to all intents and purposes, indefinitely. The asymmetry of strength on the ground led to an unspoken – but devastatingly consequential – presumption that Palestinians would accept to be confined to a space of inferiority in the hierarchy of human life.

      In this sense, what is happening these days cannot be understood and analysed with the tools of those who live in “peace”, but must be understood (insofar as this is even possible for those who do not live in Gaza or the occupied Palestinian territories) from a space defined by the effects of colonial violence and trauma. It is to Franz Fanon that we owe much of what we know about colonial violence – especially that it acts as both a physical and psychic injury. A psychiatrist from Martinique who joined the liberation struggle for independence in Algeria under French colonial rule, he wrote at length about how the immensity and duration of the destruction inflicted upon colonised subjects results in a wide and deep process of de-humanisation which, at such a profound level, also compromises the ability of the colonised to feel whole and to fully be themselves, humans among humans. In this state of physical and psychic injury, resistance is the colonised subject’s only possibility of repair. This has been the case historically in all contexts of liberation from colonial rule, a lineage to which the Palestinian struggle belongs.

      It is in this light that the long-lasting Palestinian resistance of the last 75 years should be seen, and this is also the key to understanding the unprecedented events of the last few days. These are the result, as many observers – including Israeli ones – have noted, of the failure of the many forms of peaceful resistance that the Palestinians have managed to pursue, despite the occupation, and which they continue to put into play: the hunger strikes of prisoners under “administrative detention”; the civil resistance of villagers such as Bil’in or Sheikh Jarrah who are squeezed between the separation wall, the expropriation of land and homes, and suffocated by the increasingly aggressive and unstoppable expansion of settlements; the efforts to protect the natural environment and indigenous Palestinian culture, including the centuries-old olive trees so often burnt and vandalised by settlers; the Palestinian civil society organisations that map and report human rights violations – which make them, for Israel, terrorist organisations; the struggle for cultural and political memory; the endurance of refugees in refugee camps awaiting implementation of their human rights supported by UN resolutions, as well as reparation and recognition of their long term suffering; and, further back in time, the stones hurled in resistance during the first Intifada, when young people with slingshots threw those same stones with which Israeli soldiers broke their bones and lives, back to them.

      Recall that, in Gaza, those who are not yet twenty years old, who make up about half the population, have already survived at least four bombing campaigns, in 2008-9, in 2012, in 2014, and again in 2022. These alone caused more than 4000 deaths.

      And it is again in Gaza that the Israeli tactic has been perfected of firing on protesters during peaceful protests, such as those in 2018, to maim the bodies – a cynical necropolitical calculation of random distribution between maimed and dead. It is not surprising, then, that in post-colonial literature – from Kateb Yacine to Yamina Mechakra, just to give two examples – the traumas of colonial violence are narrated as presence and absence, in protagonists’ dreams and nightmares, of amputated bodies. This is a metaphor for a simultaneously psychic and physical maiming of the colonised identity, that continues over time, from generation to generation.

      Despite their predicament as colonised for decades and their protracted collective trauma, Palestinians inside and outside of Palestine have however shown an incredible capacity for love, grief and solidarity over time and space, of which we have infinite examples in day-to-day practices of care and connectedness, in the literature, in the arts and culture, and through their international presence in other oppressed peoples’ struggles, such as Black Lives Matter and Native American Dakota protestors camps, or again in places such as the Moria camp in Greece.

      The brutality of a 16 years long siege in Gaza, and the decades of occupation, imprisonment, humiliation, everyday violence, death, grief – which as we write happen at an unprecedented genocidal intensity, but are in no way a new occurrence – have not however robbed people of Gaza, as individuals, of their ability to share in the grief and fear of others.

      “Striving to stay human” is what Palestinians have been doing and continue to do even as they are forced to make inhumane choices such as deciding who to rescue from under the rubbles based on who has more possibility to survive, as recounted by journalist Ahmed Dremly from Gaza during his brief and precious dispatches from the strip under the heavy shelling. This colonial violence will continue to produce traumatic effects in the generations of survivors. Yet, it has to be made clear that as the occupied people, Palestinians cannot be expected to bear the pain of the occupier. Equal standing and rights in life are the necessary preconditions for collective shared grief of death.

      Mahmoud Darwish wrote, in one of his essays on the “madness” of being Palestinian, written after the massacre of Sabra and Shatila in 1982, that the Palestinian “…is encumbered by the relentless march of death and is busy defending what remains of his flesh and his dream…his back is against the wall, but his eyes remain fixed on his country. He can no longer scream. He can no longer understand the reason behind Arab silence and Western apathy. He can do only one thing, to become even more Palestinian… because he has no other choice”.

      The only antidote to the spiral of violence is an end to the occupation and siege, and for Israel to fully comply with international law and to the UN resolutions, as a first and non-negotiable step. From there we can begin to imagine a future of peace and humanity for both Palestinians and Israelis.

      https://untoldmag.org/gaza-between-colonial-trauma-and-genocide
      #colonialisme #traumatisme_colonial #génocide

    • Can the Palestinian speak ?

      It is sadly nothing new to argue that oppressed and colonised people have been and are subject to epistemic violence – othering, silencing, and selective visibility – in which they are muted or made to appear or speak only within certain perceptual views or registers – terrorists, protestors, murderers, humanitarian subjects – but absented from their most human qualities. Fabricated disappearance and dehumanisation of Palestinians have supported and continue to sustain their physical elimination and their erasure as a people.

      But the weeks after October 7th have set a new bar in terms of the inverted and perverse ways that Palestinians and Israel can be represented, discussed, and interpreted. I am referring here to a new epistemology of time that is tight to a moral standpoint that the world is asked to uphold. In that, the acts of contextualising and providing historical depth are framed as morally reprehensible or straight out antisemitic. The idea that the 7th of October marks the beginning of unprecedented violence universalises the experience of one side, the Israeli, while obliterating the past decades of Palestinians’ predicament. More than ever, Palestinians are visible, legible, and audible only through the frames of Israeli subjectivity and sensibility. They exist either to protect Israel or to destroy Israel. Outside these two assigned agencies, they are not, and cannot speak. They are an excess of agency like Spivak’s subaltern,[1] or a ‘superfluous’ people as Mahmoud Darwish[2] put it in the aftermath of the Sabra and Chatila massacre. What is more is the persistent denying by Israel and its Western allies, despite the abundant historical evidence, that Palestinian indigenous presence in Palestine has always been at best absented from their gaze – ‘a problem’ to manage and contain – at worse the object of systemic and persistent ethnic cleansing and erasure aiming at fulfilling the narcissistic image of “a land without a people for a people without a land.” Yet, the erasure of Palestinians, also today in Gaza, is effected and claimed while simultaneously being denied.

      A quick check of the word “Palestine” on google scholar returns one million and three hundred thousand studies, nearly half of them written from the mid 1990s onwards. Even granting that much of this scholarship would be situated in and reproducing orientalist and colonial knowledges, one can hardly claim scarcity of scholarly production on the dynamics of subalternity and oppression in Palestine. Anthropology, literary theory, and history have detected and detailed the epistemological and ontological facets of colonial and post-colonial erasure. One might thus ask: how does the persistent denial of erasure in the case of Palestinians work? We might resort to psychoanalysis or to a particular form of narcissistic behaviour known as DAVRO – Deny, Attack, and Reverse Victim and Offender[3] – to understand the current pervading and cunning epistemic violence that Israel and its allies enact. Denying the radical obstructing and effacing of Palestinian life (while effecting it through settler-colonialism, settler and state violence, siege, apartheid, and genocidal violence in Gaza) is the first stage in Israel’s and western allies’ discursive manipulation. Attacking historicisation and contextualisation as invalid, antisemitic, propaganda, hate speech, immoral, outrageous, and even contrary to liberal values is the second stage. Lastly is the Reversing Victim and Offender by presenting the war on Gaza as one where Israel is a historical victim reacting to the offender, in response to demands that Israel, as the colonial and occupying power, takes responsibility for the current cycle of violence.

      This partly explains why the violent attack that Hamas conducted in the south of Israel last October, in which 1200 people were killed, is consistently presented as the start date of an ‘unprecedented’ violence, with more than 5000 Palestinians killed in carpet bombings of Gaza until 2022 doubly erased, physically and epistemically. With this, October 7th becomes the departure point of an Israeli epistemology of time assumed as universal, but it also marks an escalation in efforts to criminalise contextualisation and banish historicisation.

      Since October 7th, a plurality of voices – ranging from Israeli political figures and intellectuals, to mainstream and left-leaning journalists – has condemned efforts to inscribe Gaza into a long term history of colonialism as scurrilous justification for the killing of Israeli civilians. Attempts to analyse or understand facts through a historical and political frame, by most notably drawing attention to Gazans’ lived experience over the past 16 years (as a consequence of its long term siege and occupation) or merely to argue that there is a context in which events are taking place, such as General UN director Guterres did when he stated that October 7th “did not happen in a vacuum,” are represented as inciting terrorism or morally repugnant hate speech. In the few media reports accounting for the dire and deprived conditions of Palestinians’ existence in Gaza, the reasons causing the former are hardly mentioned. For instance, we hear in reports that Palestinians in Gaza are mostly refugees, that they are unemployed, and that 80% of them are relying on aid, with trucks of humanitarian aid deemed insufficient in the last few weeks in comparison to the numbers let in before the 7th of October. Astoundingly, the 56 years old Israeli occupation and 17 years old siege of Gaza, as root causes of the destruction of the economy, unemployment, and reliance on aid are not mentioned so that the public is left to imagine that these calamities are the result of Palestinians’ own doing.

      In other domains, we see a similar endeavour in preventing Palestine from being inscribed in its colonial context. Take for instance the many critical theorists who have tried to foreclose Franz Fanon’s analysis of colonial violence to Palestinians. Naming the context of colonial violence and Palestinians’ intergenerational and ongoing traumas is interpreted as morally corrupt, tantamount to not caring for Israeli trauma and a justification for the loss of Israeli lives. The variation of the argument that does refer to historical context either pushes Fanon’s arguments to the margins or argues that the existence of a Palestinian authority invalidates Fanon’s applicability to Palestine, denying therefore the effects of the violence that Palestinians as colonised subjects have endured and continue to endure because of Israeli occupation, apartheid, and siege.

      But perhaps one of the most disconcerting forms of gaslighting is the demand that Palestinians should – and could – suspend their condition of subordination, their psychic and physical injury, to centre the perpetrators’ feelings and grief as their own. In fact, the issue of grief has come to global attention almost exclusively as an ethical and moral question in reaction to the loss of Israeli lives. Palestinians who accept to go on TV are constantly asked whether they condemn the October 7th attack, before they can even dare talk about their own long history of loss and dispossession, and literally while their families are being annihilated by devastating shelling and bombing and still lying under the rubbles. One such case is that of PLO ambassador to the UK Hussam Zomlot, who lost members of his own family in the current attack, but was asked by Kirsty Wark to “condemn Hamas” on screen. To put it another way: would it even be conceivable to imagine a journalist asking Israeli hostages in captivity if they condemn the Israeli bombardments and the war on Gaza as a precondition to speak and be heard?

      “Condemning” becomes the condition of Palestinian intelligibility and audibility as humans, a proof that they share the universal idea that all human life is sacred, at the very moment when the sacrality of human life is violently precluded to them and when they are experiencing with brutal clarity that their existence as a people matters to no one who has the power to stop the carnage. This imperative mistakes in bad faith the principle that lives should have equal worth with a reality that for Palestinians is plainly experienced as the opposite of this postulate. Israel, on the other hand, is given “the extenuating circumstances” for looking after Israelis’ own trauma by conducting one of the most indiscriminate and ferocious attacks on civilians in decades, superior in its intensity and death rate to the devastation we saw in Afghanistan, Iraq, and Syria, according to the New York Times. Nearly 20.000 killed – mostly children, women, and elderly – razed, shelled, bulldozed while in their homes or shelters, in an onslaught that does not spare doctors, patients, journalists, academics, and even Israeli hostages, and that aims at making Gaza an unlivable habitat for the survivors.

      Let us go back to the frequently invoked question of “morality.” In commentaries and op-eds over the last few weeks we are told that any mention of context for the attacks of October 7th is imperiling the very ability to be compassionate or be moral. Ranging from the Israeli government that argues that a killing machine in Gaza is justified on moral grounds – and that contextualisation and historicisation are a distraction or deviation from this moral imperative – to those who suggest Israel should moderate its violence against Palestinians – such as New York times columnist Nicholas Kristof who wrote that “Hamas dehumanized Israelis, and we must not dehumanize innocent people in Gaza” – all assign a pre-political or a-political higher moral ground to Israel. Moreover, October 7th is said to – and is felt as – having awakened the long historical suffering of the Jews and the trauma of the Holocaust. But what is the invocation of the Holocaust – and the historical experience of European antisemitism – if not a clear effort at historical and moral contextualisation? In fact, the only history and context deemed evocable and valid is the Israeli one, against the history and context of Palestinians’ lives. In this operation, Israeli subjectivity and sensibility is located above history and is assigned a monopoly of morality with October 7th becoming an a-historical and a meta-historical fact at one and the same time. In this canvas Palestinians are afforded permission to exist subject to inhabiting one of the two agencies assigned to them: guardian of Israeli life or colonised subject. This is what Israeli president Herzog means when he declares that there are no innocents in Gaza: “It’s an entire nation out there that is responsible. This rhetoric about civilians not aware, not involved, it’s absolutely not true. They could’ve risen up, they could have fought against that evil regime”. The nearly twenty thousand Palestinian deaths are thus not Israel’s responsibility. Palestinians are liable for their own disappearance for not “fighting Hamas” to protect Israelis. The Israeli victims, including hundreds of soldiers, are, on the other hand, all inherently civilians, and afforded innocent qualities. This is the context in which Heritage Minister Amichai Eliyahu, of Itamar Ben Gvir’s far-right party in power, can suggest nuking Gaza or wiping out all residents: “They can go to Ireland or deserts, the monsters in Gaza should find a solution by themselves”. Let us not here be mistaken by conceding this might just be a fantasy, a desire of elimination: the Guardian and the +972/Local call magazines have provided chilling evidence that Palestinian civilians in Gaza are not “collateral” damage but what is at work is a mass assassination factory, thanks to a sophisticated AI system generating hundreds of unverified targets aiming at eliminating as many civilians as possible.

      Whether Palestinians are worthy of merely living or dying depends thus on their active acceptance or refusal to remain colonised. Any attempts to exit this predicament – whether through violent attacks like on October 7th or by staging peaceful civil tactics such as disobedience, boycott and divesting from Israel, recurrence to international law, peaceful marches, hunger strikes, popular or cultural resistance – are all the same, and in a gaslighting mode disallowed as evidence of Palestinians’ inherent violent nature which proves they need taming or elimination.

      One might be compelled to believe that dehumanisation and the logic of elimination of Palestinians are a reaction to the pain, sorrow, and shock generated by the traumatic and emotional aftermath of October 7th. But history does not agree with this, as the assigning of Palestinians to a non-human or even non-life sphere is deeply rooted in Israeli public discourse. The standpoint of a people seeking freedom from occupation and siege has consistently been reversed and catalogued as one of “terror and threat” to Israeli state and society when it is a threat to their colonial expansive or confinement plans, whether the latter are conceived as divinely mandated or backed by a secular settler-colonial imaginary. In so far as “terrorists” are birthed by snakes and wild beasts as Israeli lawmaker Ayelet Shaker states, they must be exterminated. Her words bear citation as they anticipate Gaza’s current devastation with lucid clarity: “Behind every terrorist stand dozens of men and women, without whom he could not engage in terrorism. They are all enemy combatants, and their blood shall be on all their heads”. Urging the killing of all Palestinians women, men, and children and the destruction of their homes, she continued: “They should go, as should the physical homes in which they raised the snakes. Otherwise, more little snakes will be raised there. They have to die and their houses should be demolished so that they cannot bear any more terrorists.” This is not an isolated voice. Back in 2016 Prime Minister Netanyahu argued that fences and walls should be built all around Israel to defend it from “wild beasts” and against this background retired Israeli general and former head of Intelligence Giora Eiland, in an opinion article in Yedioth Aharonoth on November 19, argues that all Palestinians in Gaza die of fast spreading disease and all infrastructure be destroyed, while still positing Israel’s higher moral ground: “We say that Sinwar (Hamas leader in Gaza, ndr) is so evil that he does not care if all the residents of Gaza die. Such a presentation is not accurate, since who are the “poor” women of Gaza? They are all the mothers, sisters, or wives of Hamas murderers,” adding, “And no, this is not about cruelty for cruelty’s sake, since we don’t support the suffering of the other side as an end but as a means.”

      But let us not be mistaken, such ascription of Palestinians to a place outside of history, and of humanity, goes way back and has been intrinsic to the establishment of Israel. From the outset of the settler colonial project in 1948, Palestinians as the indigenous people of the land have been dehumanised to enable the project of erasing them, in a manner akin to other settler colonial projects which aimed at turning the settlers into the new indigenous. The elimination of Palestinians has rested on more than just physical displacement, destruction, and a deep and wide ecological alteration of the landscape of Palestine to suit the newly fashioned Israeli identity. Key Israeli figures drew a direct equivalence between Palestinian life on the one hand and non-life on the other. For instance, Joseph Weitz, a Polish Jew who settled in Palestine in 1908 and sat in the first and second Transfer Committees (1937–1948) which were created to deal with “the Arab problem” (as the indigenous Palestinians were defined) speaks in his diaries of Palestinians as a primitive unity of human and non-human life.[4] Palestinians and their habitat were, in his words, “bustling with man and beast,” until their destruction and razing to the ground in 1948 made them “fossilized life,” to use Weitz’ own words. Once fossilised, the landscape could thus be visualised as an empty and barren landscape (the infamous desert), enlivened and redeemed by the arrival of the Jewish settlers.

      Locating events within the context and long durée of the incommensurable injustices inflicted upon the Palestinians since 1948 – which have acquired a new unimaginable magnitude with the current war on Gaza – is not just ethically imperative but also politically pressing. The tricks of DARVO (Denying Attacking and Reversing Victim and Offender) have been unveiled. We are now desperately in need of re-orienting the world’s moral compass by exposing the intertwined processes of humanisation and dehumanisation of Jewish Israelis and Palestinians. There is no other way to begin exiting not only the very conditions that usher violence, mass killings, and genocide, but also towards effecting the as yet entirely fictional principle that human lives have equal value.

      [1] Spivak, G. “Can the Subaltern Speak?” (1988). In Lawrence Grossberg and Cary Nelson, eds., Marxism and the Interpretation of Culture, pp. 271–313. Urbana: University of Illinois Press; Basingstoke: Macmillan.

      [2] Mahmoud Darwish, “The Madness of Being a Palestinian,” Journal Of Palestine Studies 15, no. 1 (1985): 138–41.

      [3] Heartfelt thanks to Professor Rema Hamami for alerting me to the notion of DAVRO and for her extended and invaluable comments on this essay.

      [4] Cited in Benvenisti M (2000) Sacred Landscape: The Buried History of the Holy Land since 1948. Berkeley: University of California Press. pp.155-156.

      https://allegralaboratory.net/can-the-palestinian-speak
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  • Pour « Un » #Depardieu, combien de petites #putes ? :-D :-D :-D

    Affaire Depardieu : « Les financeurs du cinéma brillent par leur silence »

    Pseudo "Affaire Depardieu : « Les financeurs du cinéma brillent par leur silence » (...)"

    ... :-D :-D :-D

    https://www.marianne.net/culture/cinema/affaire-depardieu-les-financeurs-du-cinema-brillent-par-leur-silence#utm_s

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