• 21 mars 2023 · Dans le miroir du passé - 6 articles publiés par Cabrioles, Carnet de recherche pour l’Autodéfense Sanitaire face au Covid19
    https://cabrioles.substack.com/p/21-mars-2023-dans-le-miroir-du-passe

    Bonjour,

    “Pendant que les #médecins se débattaient vainement, les #femmes prirent en charge les #soins quotidiens des malades atteints de la grippe. Peut-être est-ce une autre raison qui explique pourquoi la #pandémie de #grippe de 1918 n’a pas laissé beaucoup de traces dans les mémoires : ce sont les femmes qui faisaient la majeure partie du travail, travail qui se révélait terriblement difficile et dangereux.”

    Avons-nous oublié de commémorer la grippe espagnole parce que les femmes en étaient les héroïnes se demandait Rebecca Onion en 2019 ? Quelle empreinte sensible et culturelle laisse une pandémie ? Pourquoi les historien·nes matérialistes ont-iels eu tendance à minimiser leur importance dans les évènements historiques et le cours de la lutte des classes ? Qui composent la communauté entrepreunariale du négationnisme du SIDA et comment fonctionne-t-elle ? Le “laisser-faire” comme manière de gouverner une pandémie connait-il des précédents ?

    Quelques questions approchées dans ces articles que vous pourrez lire entre deux manifestations, trois blocages de périphériques, dans les moments calmes des occupations, ou ailleurs si vous soutenez le soulèvement en cours de plus loin parce que ces lieux vous sont inaccessibles.

    Un coup d’oeil dans le rétro pour penser le présent.

    Très bonne lecture et
    prenons soin de nos luttes,

    #histoire #lutte_de_classe

  • Les épreuves de la #frontière

    Programme :

    #Stefan_Le_Courant : Amours irrégulières

    #Camille_Lefebvre : Mondes arides, frontières mouvantes

    #Judith_Scheele : La frontière comme #violence et #ressource

    #Camille_Schmoll : Féminiser la frontière

    #Mathilde_Pette : S’engager aux frontières

    #Benjamin_Boudou : Une théorie démocratique des frontières

    https://www.college-de-france.fr/agenda/seminaire/les-epreuves-de-la-frontiere
    #frontières #collège_de_France #conférence #femmes #genre #ressources_pédagogiques #cours

    ping @_kg_ @reka

  • Le calvaire des #femmes palestiniennes dans les #prisons israéliennes

    Au cours des 74 dernières années, Israël a arrêté plus de 10 000 femmes palestiniennes, les soumettant à des traitements cruels et brutaux… Elles sont anciennes détenues ou membres d’association de défense des droits des prisonniers. Elles dénoncent les #conditions_de_détention, les #agressions, le #harcèlement, les #attouchements, le retrait du voile, mais aussi la #torture, les #raids ou la #négligence_médicale. Car au-delà de l’enfermement, la peine est aussi politique et religieuse.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20230324-le-calvaire-des-femmes-palestiniennes-dans-les-prisons-isra%C3%A9lienne
    #emprisonnement #femmes_palestiniennes #Israël #audio #podcast #patriarcat

  • La prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva

    Una ricerca ha esaminato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte. Dal Perù al Guatemala, dall’India al Sudafrica. Non solo duri impatti ma anche nuove pratiche di resistenza

    Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

    Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

    L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne ai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

    I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

    In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

    L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

    Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

    Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

    La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Maxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

    Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

    La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.

    https://altreconomia.it/la-prima-analisi-globale-dellattivismo-delle-donne-contro-lindustria-es

    #femmes #résistance #extractivisme #justice_environnementale

  • Le vaccin de rappel contre le Covid-19 peut provoquer de l’urticaire chronique Geneviève Dentan - RTS

    Une étude menée au niveau suisse par le CHUV le confirme : l’urticaire chronique est l’un des effets secondaires engendrés chez certaines personnes par la troisième dose de vaccin contre le Covid-19. Cette pathologie crée de fortes démangeaisons et des gonflements.

    Depuis un an, les consultations pour des problèmes d’urticaires sont fréquentes au service d’immunologie et d’allergie du Centre hospitalier universitaire vaudois (CHUV).


    Une patiente a vu l’apparition des premiers signes de la pathologie quelques jours après avoir reçu une dose de rappel du vaccin contre le Covid-19. Elle soigne ses crises d’urticaire, qui reviennent désormais régulièrement, avec de la cortisone et des antihistaminiques.

    « Quand j’ai des crises, je fais des photos », explique-t-elle en montrant des images de ses jambes perclues de plaques rouges. « La sensation est celle d’une brûlure », décrit-elle.

    L’urticaire est chronique lorsqu’elle persiste plus de six semaines. « Je n’ai vraiment jamais eu d’allergie par le passé. Au début, c’était une irritation partout, une envie de gratter qui devenait de plus en plus forte », témoigne un patient, lui aussi traité pour de l’urticaire chronique apparue après le « booster ».

    Les femmes davantage touchées
    Ces cas sont loin d’être isolés. Une étude réalisée à l’échelle de la Suisse par le CHUV confirme les liens entre la dose de rappel et l’apparition d’urticaire. Si en Suisse 100’000 personnes ont reçu la troisième dose du vaccin contre le Covid-19, l’étude révèle que 25 d’entre elles vont développer de l’urticaire chronique.

    Ces effets secondaires touchent plutôt les personnes âgées de 40 ans, ainsi qu’une majorité de femmes, à un taux de 60%.

    « L’hypothèse actuelle est que certaines personnes sont prédisposées à faire de l’urticaire chronique, et au moment où on stimule la réponse immunitaire à travers une troisième dose de vaccin, ce dernier le déclenche », explique Yannick Muller, responsable du pôle d’allergologie au CHUV.

    Démangeaisons et gonflements
    De son côté, Swissmedic affirme prendre en compte ces résultats : "Si nous constatons, à partir des effets indésirables annoncés, qu’il existe de nouveaux signaux qui ne sont pas connus dans les études cliniques des entreprises productrices, nous intégrons ces signaux dans les informations destinées aux patients et aux professionnels. Nous avons procédé de la sorte pour les signaux « urticaire » et « myocardite »", indique l’autorité d’autorisation et de surveillance des produits thérapeutiques.

    L’urticaire chronique n’est pas dangereuse pour la santé, mais la maladie a un impact direct sur la qualité de vie, avec des démangeaisons sévères et des gonflements de certaines partie du corps.

    Source : https://www.rts.ch/info/sciences-tech/medecine/13881562-le-vaccin-de-rappel-contre-le-covid19-peut-provoquer-de-lurticaire-chro

    #covid #sante #coronavirus #santé #pandémie #vaccination #covid #urticaire #Femmes #myocardite #vaccins #effets_secondaires

  • Inside Siglo XXI
    https://www.orbooks.com/catalog/inside-siglo-xxi

    LOCKED UP IN MEXICO’S LARGEST IMMIGRATION DETENTION CENTER

    BELÉN FERNÁNDEZ

    Journalists are prohibited from entering Siglo XXI; Fernández only gained access because she herself was detained as a result of faulty travel documents. Once inside the facility, Fernández was able to speak with detained women from Honduras, Cuba, Haiti, Bangladesh, and beyond. Their stories, detailing the hardships that prompted them to leave their homes, and the dangers they have experienced on an often-tortuous journey north, form the core of this unique book. The companionship and support they offer to Fernández, whose antipathy to returning to the United States, the country they are desperate to enter, is a source of bemusement and perplexity, displays a generosity that is deeply moving.

    In the end, the Siglo XXI center emerges as a strikingly precise metaphor for a 21st century in which poor people, effectively imprisoned by punitive US immigration policies, nevertheless display astonishing resilience and camaraderie.

    Excerpt
    ENTERING SIGLO XXI

    The layout of the place [the detention center, Siglo XXI] is as follows: the door opens into a large room full of concrete tables, which are used for eating, sleeping, and slumping over in despair. Hanging from the ceiling is a television set, from which it is sometimes possible to glean the hour of the day—otherwise, you have to ask the guards. During the daytime, mattresses and blankets line the walls; at night, they proliferate across the floor, rendering the room impassable. Also lining the walls are posters with instructions in several languages as to how to—allegedly—go about requesting asylum and other rights, although the lack of cooperativeness on the part of the jailkeepers to every query from inmates means that the signage ultimately serves more of a decorative function. “Más tarde” (later) is the preferred response by Inami (National Migration Institue) officials to existential and mundane questions alike: “When can I meet with someone to discuss my case?”; “When will I know if I’m being deported?”; “When can I have a book to read?” In the event that an Inami official does not feel like pronouncing the words “más tarde,” a shrug also suffices, as does silence.

    To your right as you enter is the counter where the lists for food and toiletries are placed and the wall to which a pen is attached. This is also where meals are served, through a gap in the slatted screen dividing the counter from a small office that can only be entered from the hallway outside the metal jail door. The screen appears specially designed to induce vertigo—at least in my own experience of spending extended periods of time staring at it while waiting for Inami or other officials to wander into the office such that they might be imploringly appealed to via the gap and have more opportunities to say “más tarde.”

    To your left as you enter, meanwhile, is a corridor lined with more mattresses, blankets, and women atop them in assorted physical manifestations of limbo. Off of the corridor are various rooms with more of the same plus toilets with no doors, and at the end is a room with curtainless showers and a laundry area. The door to the prison yard, finally, is located just opposite the entrance, and is locked at night. In the morning, a line forms in front of the door in anticipation of it being unlocked—by which time the line has become a teeming throng of flesh against flesh that bursts forth into the yard in a momentary approximation of liberation, accompanied by cheers. After the race to collect the mangoes that have fallen from the mango tree, you can sit in the flea-infested grass or on the sports court with single deflated ball and revel in the feeling of being monitored by police from beyond the towering fence. The grass also serves as a laundry-drying venue, and the tree an apparent source of empowerment and/or consolation to the detainees who can be seen embracing its trunk.

    It was in the prison yard that I had my first human interaction in Siglo XXI. Migra 4 had interrupted my fruitless search for a spot to place my mattress by threateningly notifying me that I had best line up for dinner while there was dinner to be had. I folded my mattress with belongings inside, as everyone else had done, and placed it on top of another one for the time being. I admit that I cannot actually recall any of the food I consumed in the detention center aside from the Walmart bread (the Manchego cheese ended up in the trash due to lack of refrigeration), but my notes state that the meals consisted of tortillas, rice and beans, and chicken with vegetables. According to many detainees, vomiting was a regular side effect of eating in Siglo XXI; according to the Cubans, the chicken should have been fried and not boiled. And it was a contingent of Cubans who made up my welcoming committee of sorts, approaching me under the concrete overhang outside where my tray of food and I had sought refuge from the incipient rain as women scrambled to collect their laundry from the grass.

    Gathering around, the Cubans announced that they did not want me to feel alone, and asked me to identify my national origins. Once the riotous laughter at my response had subsided, I volunteered that I had relatives on my father’s side in Cuba, as though this somehow made me less ridiculous. The relatives lived in the town of Jiguaní in the province of Granma, I babbled, and I had visited them in 2006. One of the Cuban detainees nodded in confirmation of Jiguaní’s existence; another one wanted to know, based on my perennial sunburn, if the migra had been picking up people on the beach, and yet another opined that, as it was Sunday, the migra had been bored and just wanted to fuck with people. The Cubans were thoroughly offended on my behalf that the Mexicans had dared to apprehend an American, to whom borders were not meant to apply—even as some of them told me how they had traversed no fewer than 14 countries to reach Mexico from Cuba, as well as the notorious corpse-ridden Darién Gap between Panama and Colombia.

    The Cubans and I were, you might say, in exactly opposite boats. While they were trying desperately to reach my hated homeland—a land that was nonetheless to thank for the passport that had until now enabled me to gallivant about the world with minimal difficulty—my own chief preoccupations at the moment included that my detention and/or deportation would disrupt my upcoming trip to none other than Havana. For months, I had been determined to be injected with one of Cuba’s homegrown coronavirus vaccines. However, flights to the island from Mexico had been temporarily suspended due to the pandemic, requiring Cuba-bound travelers to make rounds of assorted European, South American, and other airports. In my case, I was scheduled to fly in August to Istanbul, my first transatlantic trip since 2019, where I would then catch a plane to Havana—a circuitous route, no doubt, but nothing compared to trekking through 14 countries and encountering corpses in the Darién. Call it first world travel problems.
    In the Media

    About the Author

    Belén Fernández, is a contributing editor at Jacobin, and has written for The New York Times, Al Jazeera, and Middle East Eye. She is the author of Checkpoint Zipolite: Quarantine in a Small Place, Exile: Rejecting America and Finding the World and The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work.

    Belén Fernández at Jacobin.co.
    https://jacobin.com/search?query=Belen+Fernandez

    #USA #impérialisme #migration #femmes

  • #Iran #IranProtests #iranianwomen #mollahcratie #anticléricalisme #Liberté #DroitsHumains #droitsdesfemmes #émancipation #FemmeVieLiberté ✊✊

    ✨ Une Charte revendicative de la révolution iranienne – 🔴 Info Libertaire

    ★ via l’ Organisation Communiste Libertaire (OCL)
    ▶️ https://oclibertaire.lautre.net

    ✊ ♀ Femme, Vie, Liberté - Charte des revendications minimales des organisations indépendantes syndicales et civiles d’Iran

    🛑 Peuple d’Iran, juste et épris de liberté !

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.infolibertaire.net/une-charte-revendicative-de-la-revolution-iranienne

  • Increase in Maternal Deaths Is Marked by Racial and Regional Inequalities - 15/03/2023 - Science and Health - Folha
    https://www1.folha.uol.com.br/internacional/en/scienceandhealth/2023/03/increase-in-maternal-deaths-is-marked-by-racial-and-regional-ineq

    Even with a public policy focused on maternal and child health for more than a decade, Brazil has failed to reduce racial and regional inequalities associated with maternal deaths, which were aggravated by the Covid-19 pandemic. Preliminary data show that in 2019 and 2021, the MMR (maternal mortality ratio) increased in all groups, including among white women, who, historically, are less affected compared to black, brown, and indigenous women.

    Analysis by Vital Strategies, based on information systems from the Ministry of Health, reveals that, between 2018 and 2021, the MMR among white women increased from 49.9 to 118.6 deaths per 100,000 live births. The hypothesis is that the increase is related to the collapse faced by hospitals, denial of preventive measures, and initial resistance to vaccinating pregnant women. In the same period, among black women, the MMR went from 104 to 190.8 deaths per 100,000, the highest among all groups. Among brown women, it went from 55.5 to 96.5, and among indigenous women, from 99 to 149.

    #Brésil #inégalités #femmes #maternité #santé #racisme

  • [Les Promesses de l’Aube] #elles_tournent, quinzième édition
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/elles-tournent-quinzieme-edition

    Ce mercredi j’aurai le grand plaisir de parler de la 15ème édition du #festival Elles Tournent. Pour cela, j’aurai le plaisir d’accueillir Jacqueline Brau, administratrice de l’asbl Elles Tournent et membre active de l’équipe programmation, Alizée Loumaye, pour parler du projet Graines de Cinéastes, qui comprend à l’intérieur du Festival deux séances de courts-métrages et différents événements professionnels qui soutiennent les #femmes qui débutent dans le milieu audiovisuel belge, et Numa Jardin, la réalisatrice de « Fluid ».

    Programmation musicale :

    My Queen is Nanny of the Maroons - Sons of Kemet Psychedelic Women - Honny & The Bees Band A bas l’état policier - Dominique Grange / Accordzéâm A bas l’Etat Policier - Strike Sisters Le Seigneur des Mouches - Juliette Big in Japan - Ane Brun Les (...)

    #cinéma #jeunes #film #visibilités #cinéma,jeunes,femmes,festival,film,elles_tournent,visibilités
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/elles-tournent-quinzieme-edition_15501__1.mp3

  • Fin des accouchements dans les petites maternités : « Quel signal envoie-t-on aux femmes ? » raille la sénatrice Else Joseph | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/societe/fin-des-accouchements-dans-les-petites-maternites-quel-signal-envoie-t-o

    Nouveau coup de projecteur sur les difficultés de l’hôpital public. Remis à l’Académie de médecine par le professeur Yves Ville, chef de la maternité de Necker à Paris, un rapport recommande la fin des accouchements dans les petites maternités, au profit d’un renforcement des plus grosses structures. La justification : les moyens humains insuffisants dans ces petites maternités mettent en péril la sécurité des soins, de la mère et de l’enfant.

    Le rapport préconise notamment de baisser le rideau des petites maternités qui mettent au monde moins de 1 000 bébés chaque année, partout en France. Sont notamment sur la sellette les maternités d’Autun, Guingamp, Sedan et Porto Vecchio. « On y pratique moins d’accouchements, on perd en expérience, ce qui est dangereux. Pour continuer à tourner, ils font appel à des intérimaires » justifie le professeur Yves Ville dans son rapport qui fait largement débat, révélé par Le Parisien.

  • ☮️ ♀ #femmes #féminisme #antiguerre #antimilitarisme #Paix #guerre #nationalisme #PremièreGuerremondiale #militarisme #barbarie
    #internationalisme #Bertha_von_Suttner #Rosa_Luxemburg #Clara_Zetkin #Hélène_Brion #Aleta_Jacobs #Jane_Addams...

    🛑 LES FEMMES CONTRE LA PREMIÈRE GUERRE MONDIALE - Socialisme libertaire

    " Les Femmes en Noir de Madrid se souviennent des Cassandres de la Grande Guerre :
    Bertha von Suttner a travaillé pour éviter une autre guerre, n’importe quelle guerre. Son roman Déposez vos armes est un appel à la paix et décrit les horreurs de la confrontation armée. Elle a fondé La Société autrichienne pour la Paix en 1891 et a travaillé infatigablement pour le mouvement pacifiste international. Elle a dénoncé le réarmement en temps de paix, qui pouvait ruiner les nations et a mis en garde contre la préparation de divers pays pour un grand conflit. Elle a confronté la virulente opposition de nationalistes, du clergé et des antisémites. La Première Guerre mondiale a commencé un mois après sa mort. Elle a été la première femme à recevoir le Prix Nobel de la paix. Rosa Luxemburg a été arrêtée en février 1914 pour avoir incité les soldats à se rebeller et avait déclaré : « S’ils attendent que nous assassinions les Français ou n’importe quel autre frère étranger, il faut leur dire : « Non, en aucune circonstance. » Une semaine ou deux après l’éclatement de la guerre, elle a déclaré son désappointement que le Mouvement des travailleurs européens n’ait pas évité la catastrophe. Elle s’est opposée aux directives du Mouvement socialiste international et pensait qu’une fois la guerre terminée, les « traîtres » devaient être poursuivis en justice. Elle a été exécutée en janvier 1919 par des paramilitaires, récemment démobilisés du front de la guerre (...)

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2014/09/les-femmes-contre-la-premiere-guerre-mondiale.html

  • La violenza economica che silenziosamente colpisce ancora le donne

    Il tabù della gestione finanziaria esiste ancora nelle relazioni sentimentali, e sono le donne a subire le conseguenze della “dipendenza”. Ma non è il riconoscimento giuridico che manca bensì quello sociale. Ancora oggi alcuni comportamenti di sopraffazione da parte degli uomini nella sfera finanziaria sono considerati normali.

    Lucia non sa quanti soldi ci siano sul conto che condivide con il marito. Non è lei che lo amministra, non ne sarebbe in grado. Mara, invece, un conto non ce l’ha proprio. È il suo uomo che le passa dei contanti per le piccole spese settimanali, le sole che le competono. Del resto, lei non lavora e non conosce l’ammontare dello stipendio di lui. Antonia ha un impiego ma non può disporre come vuole dei suoi guadagni: ogni volta che compra qualcosa, deve mostrare al suo compagno lo scontrino. Quando ha bisogno di acquistare dei medicinali, ha paura che lui non glielo permetta.

    Tutte queste situazioni hanno un denominatore comune: la violenza economica. Questo termine, ancora poco conosciuto, si riferisce ad atti di controllo e di monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso o distribuzione di denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche. Può avvenire anche attraverso l’esposizione a un debito oppure il divieto ad avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale, da amministrare secondo la propria volontà.

    “Si fatica ancora a riconoscere e ad affrontare la violenza economica -afferma Manuela Ulivi, avvocata e consigliera nazionale di D.i.Re -Donne in rete contro la violenza, realtà che unisce diverse organizzazioni di donne in tutta la Penisola-. I soldi sono un tabù. Non se ne parla mai, soprattutto nelle relazioni sentimentali. Invece bisognerebbe farlo, avere una propria autonomia finanziaria è fondamentale».

    A mancare è principalmente l’informazione, non il riconoscimento giuridico. “Di questo tipo di maltrattamenti non si parla solo nella Convenzione di Istanbul, ma anche in direttive europee precedenti -continua l’avvocata-. La violenza economica è entrata nell’ordinamento italiano già alla fine degli anni 90”. Ancora oggi, tuttavia, alcuni comportamenti di sopraffazione da parte degli uomini, nella sfera finanziaria, sono considerati normali. “Di solito arriviamo a capire che c’è anche questo tipo di violenza dopo molti incontri -dice Francesca Vecera, responsabile del centro antiviolenza di Foggia, Impegno donna-. Molte persone danno per scontato che la donna sia economicamente dipendente dall’uomo”.

    Di questo ci si può accorgere anche osservando i dati sull’occupazione femminile: secondo quanto riportato dall’Istat, nel 2021 in Italia lavorava solo il 49,4% delle donne, mentre gli uomini che avevano un impiego erano il 17,7% in più. “Ci sono ancora mariti che dicono alle mogli che non avranno più bisogno di lavorare, perché ci saranno loro a pensare alla famiglia. Questo però riduce l’indipendenza e la possibilità di gestire autonomamente la propria vita -continua Vecera-. E non si deve pensare che queste dinamiche accadano solo nei ceti sociali più bassi: sono situazioni trasversali, che si attuano a ogni livello culturale ed economico”.

    Anche quando lavora, la donna, sia da libera professionista sia da dipendente, ha un guadagno nettamente inferiore rispetto a un collega maschio, anche per lavori molto qualificati (secondo dati Istat, le prime hanno una retribuzione oraria media di 15,2 euro, mentre i secondi di 16,2, con un divario più alto tra i dirigenti e i laureati). “Bisogna superare la visione secondo la quale le lavoratrici possono avere uno stipendio minore -chiosa l’avvocata- perché c’è l’uomo che compensa”. Anche questo, infatti, è sintomo di una società in cui la sottomissione e il controllo finanziario all’interno della coppia sono quasi normalizzati.

    La violenza economica può avere anche delle declinazioni più criminose, delle vere e proprie truffe: può capitare infatti che la donna diventi una prestanome per delle società che, effettivamente, non amministra e che si ritrovi, poi, anche ingenti debiti. Oppure succede che la moglie si addossi un mutuo o un prestito di un bene che viene intestato al marito. “Spesso le vittime si vergognano a parlare di quanto gli è successo, perché, come accade anche negli altri tipi di violenza, si colpevolizzano -commenta Ulivi-, pensano di aver fatto la figura delle stupide. Quando invece è proprio la fiducia all’interno della relazione amorosa che ti fa abbassare le difese e fare qualcosa che, magari, con una tua amica non faresti mai”.

    I maltrattamenti, spesso, non terminano con la fine della relazione. “Abbiamo visto addirittura mariti che minacciano di farsi licenziare per non pagare gli alimenti -dice Vecera-, dicendo che se non hanno nulla non possono dare nulla. Anche in situazioni in cui ci sono figli”. Alcuni uomini, quando vedono avvicinarsi la separazione, svuotano addirittura i conti correnti. “Nell’ordinamento giuridico italiano al momento del matrimonio c’è la possibilità di scegliere la comunione o la separazione dei beni -spiega Ulivi-. Oggi la maggior parte delle coppie, circa il 70%, sceglie la seconda opzione. Lo si fa per una questione di praticità, ma c’è poca informazione dietro. Per esempio, non si sa che, se si opta per la comunione, quando si riceve una somma per un’eredità, un risarcimento del danno o una donazione non diventa di proprietà di entrambi; solo il patrimonio che si costruisce durante la durata dell’unione è di tutti e due i coniugi”.

    La separazione dei beni può essere fonte di disparità: se la donna è costretta a lasciare il lavoro, non guadagna. E, al momento della fine del matrimonio, si ritrova senza nulla in mano. “Il mantenimento per le mogli è riconosciuto con una difficoltà enorme -continua l’avvocata-. Perché tendenzialmente i tribunali stabiliscono che non possa essere una rendita vitalizia: la persona con capacità di lavoro deve rendersi autonoma. Se però per 20 anni ti sei dedicata alla famiglia, a 40 o 50 anni rendersi autonoma può essere molto complesso”. A volte per le vittime di violenza serve una vera e propria rieducazione finanziaria, che permetta loro di acquistare un’indipendenza. Molti centri come Impegno donna di Foggia, offrono quindi dei corsi per confrontarsi sulle basi della gestione del denaro, dall’utilizzo di bancomat e dei conti correnti alle scelte di spesa quotidiane. Alcune persone hanno partecipato anche a un percorso di autoimprenditoria proprio per affacciarsi al mondo del lavoro.

    La violenza economica è un fenomeno estremamente pervasivo, con tante forme diverse e, a volte, inimmaginabili. “Ho visto donne regalare la casa per liberarsi del soggetto che le maltrattava”, racconta Ulivi. Per questo motivo, c’è bisogno di aumentare l’informazione e la conoscenza su questi temi – anche tra i giovani e i giovanissimi – in modo da riconoscere i campanelli d’allarme e prendere le necessarie precauzioni. L’informazione, però, soprattutto quando si tratta del campo economico, bisogna darla anche ai professionisti del mondo della finanza.

    Così stanno facendo le organizzazioni che fanno parte di D.i.Re: un progetto, per esempio, riguarda la formazione degli operatori delle banche, perché consiglino le soluzioni migliori per evitare che il conto, o il bancomat, sia gestito in maniera unilaterale dall’uomo. A Genova, invece, nel 2018 i centri antiviolenza hanno stretto un accordo, per la prima volta in Italia, con il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Genova e di Chiavari, che prevede, tra le altre cose, consulenze gratuite per le vittime di violenza, svolto da notaie, in modo che la persona possa identificarsi e trovare un sostegno, ma anche, a volte e dove necessario, un inserimento lavorativo all’interno degli studi. “C’è bisogno di fare una vera battaglia culturale e ideale -conclude Ulivi-. La conoscenza e l’informazione sono le armi più potenti che abbiamo: se una donna sa quali sono i comportamenti a cui fare attenzione, si può allertare prima e ha più probabilità di uscire da una situazione di violenza”.

    https://altreconomia.it/la-violenza-economica-che-silenziosamente-colpisce-ancora-le-donne

    #violence #violence_économique #économie #dépendance #femmes #gestion_financière #argent #travail #dettes #genre

  • L’8 marzo “clandestino” delle donne afghane che resistono ai Talebani

    Nonostante le difficoltà e le minacce, le attiviste celebrano la giornata per ricordare che il cambiamento è sempre possibile. Anche in un Paese dove oggi violenze domestiche e persino l’uccisione di una figlia non vengono puniti.

    Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo.

    La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

    Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”.

    Nel buio delle strade succede di tutto e al mattino si trovano i cadaveri. Il 9 febbraio, i Talebani hanno dichiarato di averne raccolti 148 nel corso del mese precedente. Si muore di freddo, di fame, di droga, per mano talebana, per l’aggressione da parte di un criminale, per omicidio, per attacchi suicidi.

    La stessa cupa prigione è saldamente installata nella mente degli uomini. Sahar, insegnante, racconta cos’è successo nel suo quartiere a una famiglia che conosce di vista. Un padre, Faiz, ama sua figlia quindicenne (così dice): bella, istruita, allegra, ne è fiero. La sorveglia costantemente: lei è preziosa, il suo migliore affare. La vende in sposa, con suo grande profitto, a un suo collega, un uomo rispettabile, più anziano di lui.

    Lei, Zahra, invece, ha altri progetti. È innamorata e si vede di nascosto con il suo fidanzato Amid, progettano la fuga. Ora che il padre l’ha promessa, non esce più. Il ragazzo di notte riesce a entrare nella sua stanza, vuole vederla. Sono vicini, si tengono le mani. Faiz, padre che ama sua figlia, controlla. La vita di Zahra gli appartiene, l’affare è già combinato. Tutta la casa controlla, anche i muri, gli scricchiolii, i pavimenti: tutte spie di Faiz. Allarmato, entra nella stanza, Amid scappa dalla finestra. Faiz prende il suo fucile e gli spara, ma ormai il ragazzo è sparito nel buio.

    Così, si gira, con la furia negli occhi, mentre la figlia gli urla che vuole sposare Amid, solo lui. Non ci pensa molto, riempie il corpo della sua bambina di pallottole. Zahra viene uccisa. Il padre solleva il cadavere, così leggero e lo getta nel cortile. I vicini si affacciano, le donne urlano. Faiz è ancora lì, con il fucile in mano e spinge via con i piedi il corpo della figlia. I vicini, spaventati, denunciano l’omicidio alle autorità. Eccoli, i “giudici”, con il turbante di traverso, armati fino ai denti. Gli occhi accesi da chissà quale delirio. Vedono il corpo della ragazza, nessuno ha osato spostarlo. Entrano in casa dove la madre non smette di singhiozzare. Parlano con Faiz. Ascoltano, annuiscono. I vicini spiano dalle finestre. Escono nel cortile per assistere alla “giustizia talebana”’. Ecco, ora sarà frustato, arrestato, ucciso, si dicono. Se lo porteranno via. Se lo merita. Ma i Talebani si complimentano con lui, gli danno pacche sulle spalle, lo lodano senza ritegno: “Hai fatto il tuo dovere. Ora il tuo onore è salvo e la sharia rispettata. Tua figlia era una puttana”. Giustizia è fatta.

    Oggi, in Afghanistan, i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti governati dalla sharia. Giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. I codici cambiano e sono i Talebani a dettarli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Oggi, nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono. Impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate. E la voce delle donne, inascoltata, perde forza e si prosciuga. Sulle leggi che proteggevano le donne i Talebani non si esprimono nemmeno: per loro non sono mai esistite. Basta la sharia. Copre ogni caso sottoposto alla giustizia. La violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica, non è oggetto di alcuna sanzione, è colpa delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. L’impunità nutre gli abusi, si annida nelle case, diventa a poco a poco la regola, un tarlo, una malattia. Il triste potere di annichilire devasta il cervello e l’anima degli uomini. Imprigiona la loro mente più del corpo delle donne.

    “Per i Talebani le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”
    – Mirwais, avvocato penalista

    Chi ha difeso le donne è sotto tiro: avvocate, giudici, procuratrici, vivono nascoste sotto continua minaccia di morte. Sono conosciute e rischiano molto. Non basta impedire loro di lavorare, per i Talebani vanno eliminate. Soprattutto per quei padri e quei mariti che, a causa loro, erano stati imprigionati. Questi uomini sono stati tutti liberati dai Talebani, già nella loro corsa verso Kabul nell’agosto 2021. Ex prigionieri e combattenti hanno saccheggiato le case di donne giudici. E vogliono la loro vendetta. “Pochissime si rivolgono alle corti talebane per i loro problemi -dice Mirwais, avvocato penalista-. Per i nuovi governanti le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”. La stampa non c’è più ma qualche notizia sulla “giustizia talebana” filtra sui social network. Ci sono state donne lapidate in diverse province, in quella di Badakhshan in particolare. A Ghowr una donna si è suicidata per sfuggire a questa crudele esecuzione. Nella provincia di Takhar, 40 giovani sono stati frustati in mezzo alla strada e messi in prigione per non aver osservato le prescrizioni su hijab e barbe. Scendere in strada è come andare in guerra.

    L’8 marzo in Afghanistan non c’è nulla da festeggiare. Non c’era nemmeno nei vent’anni passati quando, tranne poche eccezioni, la giustizia per le donne restava una chimera. Ma le militanti afghane che si battono per i diritti delle loro sorelle ci tengono molto a celebrare questa festa. Per loro è sempre stato un giorno importante e lo è ancora. “Serve a ricordarci le vittorie delle donne -dice Gulnaz, militante di Rawa-. Se loro ce l’hanno fatta, ce la faremo anche noi. Ci vorrà molto tempo ma le cose cambieranno. Oggi sappiamo che continueremo a combattere, con le armi della consapevolezza, dell’istruzione, della cura, della resistenza e con la forza della vita stessa. È questa che dobbiamo celebrare oggi”. Rawa e le altre associazioni di donne continuano a lottare. Trovano ogni escamotage per realizzare quello che serve: scuole, rifugi, ambulatori. Tutto segreto, per una vita che non si fa schiacciare. Continuano a inventare e a dare speranza alle donne. Rawa ci sarà l’8 marzo: le militanti arriveranno per l’occasione addirittura da altre province. Nonostante tutto, nei modi più fantasiosi, riusciranno ad affermare la certezza che qualcosa si può sempre fare per arginare l’orrore e nutrire la forza delle donne. Un giorno di coraggio che, ancora, i Talebani e gli altri tagliagole non sono riusciti a devastare.

    https://altreconomia.it/l8-marzo-clandestino-delle-donne-afghane-che-resistono-ai-talebani
    #Afghanistan #femmes #résistance #Revolutionary_association_of_the_women_of_Afghanistan (#Rawa) #Kaboul #peur #justice

  • I nomi delle strade sono lo specchio del sessismo della società

    La cultura che è all’origine di violenze e discriminazioni nei confronti delle donne non viene insegnata a scuola, ma si perpetua giorno dopo giorno attraverso quello che ci circonda: dai prodotti commerciali a quelli culturali, dalla pubblicità ai giocattoli. Pensando allo spazio pubblico, per esempio, ci si accorge che restituisce a chi lo attraversa quasi solo nomi di uomini: eroi di guerra, compositori, scienziati e poeti sono ovunque, a costante memoria del loro valore.

    Da qualche anno a questa parte lo studio dell’urbanistica si è intrecciato con quello della toponomastica di genere e, mentre si pensa a come disegnare città più inclusive, si riflette anche sulla cancellazione storica subita da partigiane, musiciste o scienziate. Con 24 strade a lei dedicate, la donna più celebrata sulle vie d’Europa è Marie Curie, che però non sempre si aggiudica un’intestazione tutta sua: quasi sempre sulle targhe la precede il nome del marito, Pierre. Anche se lui ha un Nobel in meno di lei.

    Un promemoria sottile

    La piattaforma Mapping diversity, sviluppata da Sheldon Studio e voluta da Obc Transeuropa con altri partner dell’European data journalism network, esamina le mappe di trenta città di 17 paesi europei rivelando che, su 145.933 strade e piazze, il 91 per cento di quelle intitolate a persone sono dedicate a uomini. Basta fare due passi in una qualsiasi metropoli per notarlo. “È un promemoria, sottile ma potente, su chi la nostra società apprezza o ha apprezzato e chi no”, si legge sul sito. A fianco il risultato della ricerca: 4.779 vie intitolate a donne contro 47.842 nomi maschili.

    Lo scopo dello studio è raccontare la mancanza di diversità in relazione alle narrazioni. Se è vero che la storia la scrive chi vince, fino a oggi hanno vinto uomini che hanno disegnato le città raccontando il passato attraverso il loro punto di vista. Una prospettiva da cui non vengono osservati, e tanto meno celebrati, i traguardi scientifici, militari, politici o culturali di donne, identità non binarie e persone non bianche, ma che mette bene a fuoco le martiri o le dee, come Diana e Afrodite.

    Sono infatti 365 le vie e le piazze dedicate alla Madonna, spalmate su 25 delle 30 città europee esaminate. La seconda nella classifica generale delle donne e sant’Anna, con 35 strade, accompagnata dalla voce “casalinga” e dal motivo di tanta attenzione: è la madre della capolista. La prima laica (terza tra tutte le donne) è appunto Curie; la seconda, con solo dieci strade, è la scrittrice polacca Stefania Sempołowska (dodicesima nella classifica generale). A separare le due c’è una folta schiera di sante, da Teresa d’Avila a Chiara d’Assisi.

    Per fare un confronto con gli uomini, i più popolari sono san Pietro, san Paolo e Ludwig van Beethoven (a cui sono dedicate 26, 23 e 18 strade o piazze). Numeri bassi se comparati con quelli di Maria e Anna, dovuti al fatto che la platea di uomini a cui sono state intestate strade o piazze è larghissima, dal momento che tra i meritevoli c’è anche l’immaginario Frankenstein o, peggio, il gerarca fascista Aldo Tarabella. Nessuno escluso quindi, mentre lo spazio delle donne, anche quando sante, resta angusto e le percentuali insignificanti.

    Tra le capitali, la città più inclusiva in Europa è Stoccolma con solo il 19,5 per cento delle strade intitolate a donne. È seguita da Madrid (18,7), Copenaghen (13,4 per cento) e Berlino (12,2 per cento). In fondo alla classifica ci sono Praga (4,3 per cento) e Atene (4,5 per cento).

    L’Italia dal canto suo ha il 6,6 per cento di vie dedicate a donne: su 24.527 strade sono 1.626, ma se non si contano quelle dedicate alla Madonna, ne rimangono 959: persone come Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, Lina Merlin o la ciclista Alfonsina Strada danno il nome a una via ciascuna e Margherita Hack non c’è. A spopolare all’estero è Maria Montessori: quattro strade di cui una a Barcellona e una a Vienna. La seconda laica più celebrata oltre i confini è Anna Magnani, l’attrice di Roma città aperta ha una via a Bruxelles. L’italiano più inflazionato all’estero è, forse ovviamente, Cristoforo Colombo: undici città d’Europa lo hanno reso immortale con gloriosi lungomare e grandi piazze. Lo seguono Galileo Galilei e Dante.

    Non mancano, tra street, rue, strasse e carrer le scrittrici Elsa Morante, l’attrice Gaby Sylvia, la cantante Giuseppina Medori, la pilota Lella Lombardi e la pittrice Maddalena Corvini. Non pervenuta, all’estero, la premio Nobel Grazia Deledda che è già ricordata di rado in patria come anche le politiche Nilde Iotti, Carla Capponi e Miriam Mafai. E sono ancora meno le scienziate, le ingegnere, le sportive o le giornaliste. Troviamo però Emanuela Loi, scorta del giudice Paolo Borsellino, e le stelle di un tempo: Wanda Osiris, Silvana Mangano, Bice Valori, Dalida ed Emma Gramatica. Ma hanno circa una strada l’una. E periferica per giunta.

    Fornire modelli

    “Le donne non hanno avuto visibilità negli spazi pubblici e tale esclusione è evidente nella toponomastica”, commenta Maria Pia Ercolini, fondatrice di Toponomastica femminile, un’associazione che vuole restituire visibilità alle donne che hanno contribuito a migliorare la società. “Fornire modelli visibili accresce l’autostima delle ragazze”, spiega, “e la violenza di genere dipende dal fatto che le donne vengono percepite come oggetti e proprietà, per questo è fondamentale restituire il loro operato a tutti: le bambine scoprono ambizioni e desideri attraverso la storia e i bambini recepiscono il valore delle donne”.

    Insieme all’Associazione nazionale comuni italiani (Anci), Ercolini ha avviato la campagna “tre donne, tre strade” che ogni 8 marzo promuove l’intitolazione di spazi cittadini a tre donne di rilevanza locale, nazionale e internazionale. Per il 2023, la richiesta è di dar spazio alle vittime del terrorismo di stato o alle donne che hanno combattuto per la democrazia e per i diritti in Iran e Afghanistan.

    Di certo aumentare la percentuale di strade e piazze dedicate a figure femminili di rilievo non basterà a sradicare una cultura patriarcale che spesso dimentica le donne. Tuttavia le ricerche come questa e le continue attività di organizzazioni e istituzioni che si dedicano alla toponomastica e provano a immaginare un diverso modello di città, sono un passo in avanti verso uno spazio pubblico più inclusivo. Un lavoro importante soprattutto per le prossime generazioni di donne che, leggendosi e ritrovandosi, saranno forse più pronte a prendere coscienza del loro valore e del ruolo che possono avere nella società.

    https://www.internazionale.it/notizie/eugenia-nicolisi/2023/03/09/nomi-strade-sessismo

    #sexisme #toponymie #toponymie_féministe #femmes #noms_de_rue #inégalité #culture

  • Meet 6 women advancing the global women’s rights movement
    https://harvardpublichealth.org/equity/meet-six-women-fighting-to-stop-the-global-backslide-on-womens-

    L’article vient avec une alerte :

    Content warning: This article contains references to sexual and gender-based violence that may be distressing.

    Effectivement, l’histoire de ces femmes est particulièrement difficile à encaisser. Bravo pour leur courage.

    Women have gained hard-won rights over the past century—to education, reproductive health care, and economic and political independence—all of which have been accompanied by vastly improved health outcomes for entire societies.

    But women’s rights have remained a target of authoritarian movements in countries around the world, from Afghanistan to the United States. Research suggests that authoritarians seek to disempower women because the social movements they lead, and the revolutions they participate in, are more likely to be successful. Most importantly, good health and women’s empowerment go hand-in-hand.

    This International Women’s Day, we are shining a spotlight on six women resisting authoritarianism in their countries and protecting women’s rights and health across the globe.

    #Femmes #Droits_humains

  • Moins responsables que les hommes du changement climatique, les femmes en sont les premières victimes – vert.eco
    https://vert.eco/articles/moins-responsables-que-les-hommes-du-changement-climatique-les-femmes-en-sont-

    · Les #femmes sont plus #vulnérables au bouleversement du #climat. Selon le dernier rapport du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC), la vulnérabilité des sociétés dépend de leur niveau de développement (Vert). Or, au sein des populations les plus pauvres, « les femmes ont généralement un accès moindre à la terre, à l’éducation, à l’information et aux ressources financières », relève la Banque de France. Elles dépendent davantage des ressources naturelles pour vivre et ont une capacité de résilience moindre en cas de choc. Selon les Nations Unies, elles représentent 80% des personnes déplacées dans le monde (pdf) en raison du réchauffement climatique.

  • #Zeynab_Jalalian #Iran #répression #iranianwomen #mollahcratie #anticléricalisme #Liberté #DroitsHumains #droitsdesfemmes #Féminisme #émancipation #FemmeVieLiberté #Solidarité ✊✊

    🛑 Droits des femmes en Iran : une militante injustement emprisonnée à vie - Amnesty International France

    La prison à perpétuité. C’est la peine que la militante des droits des femmes Zeynab Jalalian purge depuis 2008, en Iran. À l’occasion de la journée internationale des droits des femmes, mobilisons-nous pour sa libération ! (...)

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.amnesty.fr/actions-mobilisation/zeinab

    roits des femmes, mobilisons-nous pour sa libération ! (...)❞

  • France : la misère affective n’épargne pas les femmes détenues
    https://rfi.my/9DrJ

    La France héberge la plus grande #prison de #femmes de toute l’Europe. Le centre pénitentiaire de #Rennes, en #Bretagne, compte 213 détenues pour longue peine, et 31 en attente de jugement. Les femmes détenues ne représentent que 3,3% de la population carcérale et leur voix se fait rarement entendre. RFI est allée à leur rencontre pour parler de l’enfermement. Est-ce qu’une femme abandonne son corps quand elle est en prison ? Peut-elle avoir une intimité, une sexualité, quand les cellules font 7m2 et que les corps sont surveillés ?

    Audio 3 mn

  • Bretagne et diversité | BED
    https://bed.bzh/fr
    Arpenter le monde.
    800 films emblématiques de la diversité culturelle et des minorités.

    Bed a refait sont site... Sa collection de #films s’enrichit, je vais commencer par :
    De la cuisine au parlement

    La route de la cuisine au parlement a été longue et semée d’embûches pour les Suissesses. Quatre générations ont dû se battre pour que l’électorat masculin accorde aux femmes le droit de participation aux décisions politiques. Ce documentaire retrace ce chemin avec sensibilité et humour.

    https://bed.bzh/fr/films/de-la-cuisine-au-parlement

  • Le #genre en ville
    https://metropolitiques.eu/Le-genre-en-ville.html

    L’émission Le Genre en ville aborde les questions de genre en croisant les savoirs issus des mondes académique, professionnel, associatif et militant. Elle propose une lecture critique des rapports sociaux, à l’épreuve du genre, afin de construire de nouvelles épistémologies et de questionner les #inégalités en ville. ▼ Voir le sommaire de l’émission ▼ Le Genre en ville est une émission en écoute à la demande (podcast) imaginée comme un espace de réflexion et de production de savoirs sur la question du #Podcasts

    / #Grand_angle, genre, intersectionnalité, inégalités, transdisciplinarité, #femmes, #féminisme, #territoire, (...)

    #intersectionnalité #transdisciplinarité #épistémologie

  • Espagne : il relègue sa femme aux tâches ménagères et doit lui verser 200 000 euros de compensation
    https://www.huffingtonpost.fr/justice/article/espagne-il-relegue-sa-femme-aux-taches-menageres-et-doit-lui-verser-2

    Une victoire plus que symbolique pour cette mère de famille. Un tribunal espagnol a condamné un homme à payer plus de 200 000 euros à son ex-femme, correspondant à plus de 20 ans de #salaire pour s’être occupée du #travail_domestique durant leur mariage, selon une décision consultée mardi 7 mars par l’AFP, à la veille d’une date importante dans la lutte pour les droits des #femmes.

    Cette femme, mère de deux enfants et mariée sous le régime de la séparation des biens, s’est occupée, à partir de son mariage « de la maison, de la famille, avec tout ce que cela implique », reconnaît la décision judiciaire du tribunal de Vélez-Málaga, datée du 15 février. En conséquence, la justice espagnole a considéré que cette femme recevrait une « compensation de 204 624,86 euros » [850e/mois].

    (...) Dans une interview mardi à la radio Cadena Ser, cette femme a affirmé que son mari « ne voulait pas qu’elle travaille à l’extérieur », même si elle l’aidait en revanche dans les salles de sport, dont il était propriétaire, en s’occupant « des relations publiques, en étant monitrice » mais sans être payée.

  • « Michaël Zemmour est pédagogue, limpide et parfaitement rationnel dans son analyse de la situation. C’est d’une clarté incontestable.

    Cette réforme est injuste, car elle résulte de choix budgétaires dogmatiques et d’une mauvaise gestion financière des ressources de l’Etat. »

    https://video.twimg.com/ext_tw_video/1632696619211583488/pu/vid/540x540/MsE_VGKFka0HOCXy.mp4?tag=12

    https://twitter.com/albinwagener/status/1632748757535137794?cxt=HHwWhIC9xYSW2KgtAAAA

    • En quoi c’est débile ? :)
      L’enjeu non pas à court terme mais l’enjeu en tant que modèle de société sur le long terme, c’est à la base de pas dépendre de participation de l’État (ce qui est en partie le cas aujourd’hui). Donc oui là-maintenant-tout-de-suite ya l’État qui baisse ses entrées, donc faut possiblement se battre contre ça pour récupérer des sous. Mais sur le long terme, à la base c’est sans passer par des caisses de l’État.

    • fétichisme juridique et comptable. le SMIC, l’école, la législation du travail, du crédit, c’est l’État. les cotisations c’était et ça reste un bout de sa main gauche. on peut lui donner tous les prêtes noms qu’on voudra pour moins le voir. mais croire s’affranchir ne serait-ce qu’en partie de l’État ainsi c’est une auto-intoxication pathétique. de l’air !

      le communisme de Friot :

    • Le concept même de protection sociale (sécu, retraite & assurance chômage) repose sur le principe de la constitution d’une ressource (un « pot commun » non financiarisé) ; cette ressource étant elle-même créée par des cotisations sur le travail. Car, comme dirait l’autre, seul le travail génère de la valeur.

      Le but étant que cette ressource soit ensuite redistribuée aux bénéficiaires ; autrement dit, les salarié.es. Ça c’est le principe de la répartition, effectivement, basée sur le salariat et le travail ; lesquelles représentent, certes,un caractère discriminant pour les non-salarié.es ainsi qu’une profonde forme d’aliénation au capitalisme. Je ne suis pas fan de la nostalgie CNR qu’on nous sert à toutes les sauces (Friot, PCF, CGT, etc.).

      Néanmoins, il n’y a, à ma connaissance, pas réellement d’autre modèle de financement de « la sécu », dans ce monde capitaliste, si ce n’est la capitalisation (fonds de pension, etc.) où c’est chacun pour sa pomme et tant pis pour toi si ton salaire est trop faible pour mettre de la thune de côté ou s’il s’avère que le « pot commun » est complètement vérolé par des placements foireux.

      Tant qu’on n’a pas mis par terre le système global - capital, travail et tout le paquet - je préfère quand même garantir la protection sociale par répartition.

      L’accoutumance, c’est aussi celle qui lie l’État au patronat dans la généralisation des exonérations de cotisations sociales. Ces exonérations sont en partie compensées par l’impôt et la TVA, autrement dit, par tout le monde, y compris les non-salarié.es.

      La sécu est, certes, complètement étatisée et contrôlée par l’État mais il n’en reste pas moins qu’un tel magot échappe aux placements financiers et cela représente une aberration absolument insupportable pour ce monde capitaliste. On essaie de lui faire la peau, soit par la retraite à points, soit, comme actuellement, en la décrédibilisant.

      Déjà, beaucoup de jeunes peuvent se demander, à juste titre, à quoi cela sert de prélever une part de mon salaire si, à la finale, il n’en reste rien ?

    • ok. alors soyons beveridgiens avec les entreprises (assistées) et bismarckiens avec les prolos (assurés). ça marche très bien, et pas seulement sur les dégrèvements de cotisations : dépense collective en éducation, santé, infrastructures, recherche, financement des implantations, de l’outil de travail, au nom de l’emploi, de la croissance.
      ça marche très bien, sauf pour les prolos dont on continue à assoir une part essentielle de la reproduction sur (le travail gratuit et) un temps d’emploi qui ne prend en compte ni les gains de productivité, ni la discontinuité de l’emploi, ni la réduction réelle du temps de travail-emploi sur le cycle de vie.

      la théorie de la valeur travail est en crise ? révérons la cotisation assise sur le volume horaire d’emploi, mais ne nous étonnons pas de constater que c’est depuis cette même vision (le travail seul créateur de valeurs) que partout les états et les entreprises exigent que l’on travaille davantage. et ce jusqu’à un retour à la survaleur absolue (dans certains états US, on légalise et/ou facilite le travail des enfants, ça remet de l’égalité avec les migrants sans pap et mineurs qui font les livreurs).

    • Bé non, au départ les cotisations sociales, c’est pas « la main gauche de l’État », à la base c’est des caisses indépendantes, contrôlées par les instances représentatives des salariés (mais ça peut être un mélange de salariés et d’autres de la société civile si on veut agrandir à pas que les travailleureuses), et seulement dans un deuxième temps avec obligation d’une minorité de patronat (et même si obligé, seulement en minorité). Autrement dit, la conception de départ (très vite combattue bien évidemment, autant par les patrons que par l’État capitaliste) c’était une semi « auto organisation » des caisses de sécu.

      Qu’actuellement ce soit de nouveau l’État et les patrons qui gèrent à peu près tout, c’est une chose. Mais on peut parfaitement faire autrement, et sans utopisme impossible : ça a déjà été fait, ça fonctionne quand c’est en place, et c’est plus égalitaire et démocratique qu’actuellement (quand bien même ça resterait une grosse institution à une échelle énorme ça ok, et ce n’est pas forcément ma came MAIS ça reste bien mieux que le backlash qu’il y a eu ensuite). (Je n’ai pas dit « c’est démocratique », mais bien « plus démocratique que ».)

      https://www.contretemps.eu/comprendre-la-sociale-pour-la-continuer

      Financé par des cotisations sociales obligatoires, et géré majoritairement par les représentants des salarié-es, « le régime général de la Sécurité sociale n’est pas une nationalisation de la protection sociale d’avant-guerre, c’est une socialisation » (p. 130). Pour la première fois se met en place une protection sociale placée sous le contrôle des assurés sociaux eux-mêmes par le biais de leurs représentant-es élu-es.

    • @colporteur Je te donne la théorie, telle qu’elle est construite. Ce n’est pas la mienne.

      Je suis d’accord pour remettre en cause l’aliénation des « catégories » emplois et travail, bien qu’il me soit pénible de ne m’en tenir qu’à combattre principes (anarchistes) et catégories (critique de la valeur).

      Il n’en reste pas moins que je n’ai aucune autre théorie à mettre en place immédiatement dans un rapport de force social réel - que je sache, nous ne sommes pas en période révolutionnaire où le capitalisme serait sur le point de périr - permettant d’éviter que les retraités (un concept tout aussi critiquable, en soi, comme celui de salarié) continuent simplement d’avoir de quoi vivre.

    • Wesh le confusionnisme, ça veut rien dire « loi de la valeur » comme si c’était la même chose « à la figure par les exploiteurs », et dans la bouche de Marx (et des marxiens) où c’est une description de comment fonctionne concrètement le capitalisme et la mesure de la valeur dans ce système social complet. Justement pour le critiquer et vouloir vivre autrement.

      L’ensemble du budget des États est construit sur la valeur capitaliste dont on ponctionne une partie (en impôts ou cotisations), mais donc bien basée entièrement sur la valeur capitaliste, pas autre chose.

      On peut pas comparer des propositions qui sont « là à relativement court terme, comment on pourrait faire pour vivre déjà un peu mieux et un peu plus démocratique, mais sur le même principe qu’actuellement », et « révolution totale de mode de vie et on vit complètement autrement ». Pour moi faut toujours réfléchir aux deux, mais bon, c’est vraiment pas les mêmes échéances quoi.

    • merci pour l’épithète mais je te fiche mon billet que si Marx qui n’était pas marxiste était là, il serait autre (il a contredit ses penchants économicistes, réels, et il attachait une certaine importance à l’histoire et à l’analyse concrète comme on le sait), plus proche probablement des thèse de Jason Moore sur la mise au travail du vivant (travail vivant inclu, et pas toujours salarié) et pas fossilisé au point de reproposer une théorie marquée au coin du positivisme et déterminée par le processus d’industrialisation qui caractérisait son époque. il aurait cherché et trouvé encore ! et verrait fort bien comme Le capital a tout compte fait davantage servi de bréviaire aux exploiteurs qui jamais n’auraient pigé ce qu’ils font sans aller le découvrir chez l’ennemi.
      140 d’histoire du capitalisme dont 50 sous le signe d’une révolution permanente du capitalisme laisseraient la théorie inchangée ? dans ce cas, je sais pas, si on se soucie peu des luttes qui en ont décidé, il faut relire la théorie de la survaleur, le passage de la plus value absolue à la plus value relative (qui n’élimine pas la première) sous les coups de la lutte de classe (la lutte contre le travail des enfants, pour la journée de 8heures) et constater que contre les crises -et la révolution !- les États au XXe siècle constitués comme gestionnaires d’une plus value sociale (ici, c’est déjà « la société » qui est l’usine où est produite cette valeur qu’on ne sait plus mesurer depuis le travail-emploi)

      c’est pas une question de société future (j’ai pas grand chose à dire là dessus) ou idéale ! il n’y a que la logique capitaliste qui puisse soutenir que la mesure du temps d’emploi individuel doit déterminer la reproduction du travail vivant. c’est réduire celui-ci à cette marchandise particulière qu’est la force de travail. c’est un boulot de militant de l’économie avec lequel aucun pacte n’est possible, spécialement depuis que de la Première guerre mondiale en Europe à la crise écologique, la production pour la production apparait pour ce qu’elle est, non seulement une course au profit délétère mais bien l’enrégimentement de tout ce qui est vers la destruction.

    • pas compris grand chose au dernier message, et surtout je n’arrive jamais à comprendre ce confusionnisme de mélanger la description de comment fonctionne le capitalisme (donc bah oui merci captain obvious c’est « la logique capitalisme » forcément…) avec comment la personne voit le monde. La majeure partie du travail de Marx ça a été de décrire, mettre à jour, le fonctionnement réel du capitalisme (de son temps évidemment, toujours à mettre à jour), ce qui n’a rien à voir avec sa vision du monde, puisque ce qu’il préconisait explicitement c’était l’abolition totale de la valeur, donc bien totalement l’inverse de la logique capitaliste.
      (Par ailleurs chez lui il me semblait que la valeur ne se mesure par précisément, seulement proportionnellement et globalement à l’état de la productivité à un instant T pour une marchandise donnée ; seuls les prix se mesurent, ces derniers ayant un rapport avec la valeur, mais pas que)

  • « C’est fou et très injuste » : comment les #impôts permettent aux hommes de gagner de l’argent sur le dos des #femmes
    https://madame.lefigaro.fr/business/actu-business/c-est-fou-et-tres-injuste-comment-les-impots-permettent-aux-hommes-d

    Instaurer un taux individualisé par défaut pour l’impôt sur le revenu. Le taux personnalisé, commun aux deux membres du couple, est pour l’instant appliqué par défaut. Or, il diminue de 13 points le taux d’imposition du conjoint au salaire le plus élevé, et augmente de 6 points celui du conjoint aux revenus les plus bas, dont une majorité de femmes. Supprimer l’impôt prélevé sur les prestations compensatoires après un divorce. Ces prestations, qui visent à atténuer la baisse de niveau de vie après la séparation - qui diminue de 22% pour les femmes contre 2% pour les hommes - constituent un revenu imposable si elles sont versées au-delà de douze mois après le divorce. Faciliter la décharge de solidarité pour éviter aux femmes de régler les dettes fiscales de leur ex-conjoint. « 80 % des demandeurs de décharge sont des femmes, explique Marie-Pierre Rixain. Elles héritent de ses dettes, liées à des fraudes fiscales sur les bénéfices professionnels et découvertes à l’occasion d’un contrôle fiscal mené après le divorce. C’est une véritable injustice. » Augmenter le plafond global de déductions fiscales pour encourager l’investissement féminin. En l’état actuel, on peut prétendre à des réductions d’impôt au titre de sa garde d’enfants, d’un employé à domicile ou d’un investissement dans une entreprise. Mais le plafond global de ces avantages fiscaux, fixé à 10 000 €, empêche nombre de mères actives, solos ou non, de financer des sociétés. Marie-Pierre Rixain propose donc de le rehausser à 18 000€ pour encourager les femmes à investir. Reconnaître systématiquement les associations féministes comme étant d’intérêt général. Ça n’est pas le cas actuellement, et cela prive certaines associations de financements, publics ou privés. D’où le projet de la députée de modifier le code général des impôts. Rétablir l’égalité de nature dans l’héritage. Elle a peu à peu disparu au profit de la seule égalité de valeur. Or, en raison de stéréotypes solides au sein des familles comme dans les études notariales, les fils héritent davantage des biens structurants - entreprises, biens immobiliers, terres... - et les filles, de compensations financières, souvent sous-évaluées. « Entre 1998 et 2015, l’écart de patrimoine entre les hommes et les femmes est passé de 9 % à 16 % », souligne Marie-Pierre Rixain.

  • Inscrire l’IVG dans la Constitution en ces termes ? Non merci !
    par Odile Fillod

    https://blogs.mediapart.fr/odile-fillod/blog/240223/inscrire-l-ivg-dans-la-constitution-en-ces-termes-non-merci?userid=b


    Inspirée par un recul du droit à l’IVG survenu aux États Unis, la proposition de loi constitutionnelle avait pour objectif de rendre plus difficile une atteinte à ce droit. Très dégradée au fil des discussions parlementaires, la révision de la Constitution actuellement prévue serait loin d’être un progrès vers l’objectif initialement visé. Inutile, elle signerait plutôt une avancée conservatrice.

    L’arrêt Roe v. Wade de la Cour suprême des Etats-Unis protégeait depuis 1973 le droit à l’avortement en affirmant que le droit à la vie privée garanti par la Constitution s’étendait à la décision d’une femme de poursuivre ou non sa grossesse – tout en précisant que la réglementation de l’avortement devait être mise en balance avec la protection de la « potentialité de vie humaine », ainsi que celle de la santé de la femme concernée.

    Sur cette base, une loi votée en avril 2019 par l’Etat de Georgie (HB 481) avait été suspendue car jugée inconstitutionnelle. Cette loi, qui sauf exceptions [1] interdisait l’avortement à partir du moment où une activité cardiaque de « l’enfant à naître » (« unborn child ») pouvait être détectée – soit potentiellement dès la sixième semaine de grossesse –, donnait en outre au fœtus le même statut juridique que n’importe quel habitant de l’Etat sous cette condition d’activité cardiaque, faisant de l’avortement passé ce délai un « homicide ». De même, c’est sur le fondement de l’arrêt Roe v. Wade qu’avait été empêchée l’entrée en vigueur d’une loi restreignant l’avortement aux seuls cas où le fœtus ou la vie de la gestatrice étaient en danger, votée par l’Alabama également en avril 2019 (HB 314).

    En juin 2022, la Cour suprême a infirmé l’arrêt Roe v. Wade au motif qu’il était infondé : pour cette Cour désormais majoritairement conservatrice, non seulement la Constitution des Etats-Unis ne fait aucune référence à l’avortement mais aucun de ses articles ne le protège implicitement. A la suite de la suppression de cette protection existant au niveau fédéral, une dizaine d’Etats ont immédiatement restreint le droit à l’avortement, bientôt suivis par d’autres. En particulier, des lois interdisant l’avortement sans exception (y compris en cas de viol, par exemple) ont pu entrer en vigueur au Texas et dans le Tennessee, de même que les deux lois qui avaient été suspendues en Georgie et en Alabama.

    En réaction à cette actualité états-unienne, l’idée d’inscrire le droit à l’avortement dans notre Constitution a été réactivée – des propositions avaient déjà été faites en ce sens en 2018 et 2019 mais rejetées par la majorité présidentielle, qui prétendait alors que c’était inutile [2]. L’objectif est de rendre plus difficile pour le législateur la suppression de ce droit ou sa restriction drastique. En effet, une loi régressive pourrait bien être votée par le Parlement, mais le Conseil constitutionnel pourrait alors être saisi et empêcher son entrée en vigueur en s’appuyant sur la mention protectrice ajoutée dans la Constitution. Pour supprimer cet obstacle, il faudrait réviser à nouveau la Constitution, ce qui nécessiterait soit l’approbation de cette révision par référendum, soit l’accord d’une part plus importante des membres du Parlement [3].

    Si l’idée est bonne sur le papier – bien que sur les questions dites de société telles que celle-ci, le Conseil constitutionnel se soit plus d’une fois défaussé de son rôle en laissant au législateur une marge d’interprétation excessivement large [4] –, encore faut-il que la mention ajoutée dans la Constitution réponde effectivement à l’objectif visé.

    Est-ce le cas de ce qui est proposé, à savoir l’introduction prévue à l’article 34 de la Constitution, i.e. au sein du Titre V consacré aux « rapports entre le Parlement et le Gouvernement », d’un alinéa disposant que « La loi détermine les conditions dans lesquelles s’exerce la liberté de la femme de mettre fin à sa grossesse » ?

    Une mention qui n’ajoute rien à la protection constitutionnelle de la liberté d’avorter
    Soulignons tout d’abord que cette disposition, en ne précisant aucune des conditions dans lesquelles s’exerce la liberté d’avorter, n’empêcherait pas le législateur de revenir sur diverses conditions d’accès ou d’effectivité : réduction du délai dans lequel l’avortement est autorisé, rétablissement d’un entretien préalable et de l’obligation de remettre un dossier guide à visée dissuasive (supprimés en 2001), retour du délai de réflexion imposé (supprimé en 2016), diminution des moyens mis en œuvre par l’Etat pour permettre l’accès effectif à l’avortement, par exemple via la suppression de la possibilité pour les sages-femmes de pratiquer des IVG médicamenteuses (créée 2016) ou instrumentales (votée en mars 2022, mais en attente de textes d’application eux-mêmes soumis à la réalisation d’une expérimentation préalable), remise en question du remboursement systématique, etc.

    En fait, tel que cet alinéa est rédigé et positionné dans la Constitution, on ne voit pas ce qu’il ajouterait à la protection constitutionnelle dont la liberté d’avorter bénéficie déjà. Car pour mémoire, la liberté d’interrompre sa grossesse a été reconnue le 27 juin 2001 par le Conseil constitutionnel en tant que composante de la « liberté de la femme qui découle de l’article 2 de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen [5] ». De plus, le Conseil constitutionnel a renforcé le 16 mars 2017 cette interprétation en jugeant que l’objet d’une disposition législative étendant le délit d’entrave à l’IVG était de « garantir la liberté de la femme qui découle de l’article 2 de la Déclaration de 1789 ».

    On peut toujours arguer que mentionner dans la Constitution « la liberté de la femme de mettre fin à sa grossesse » consacre cette liberté, comme l’a fait Philippe Bas, le sénateur LR à l’origine de la formulation actuelle. Reste que concrètement, si une loi restreignant les conditions d’exercice de cette liberté venait à être votée, on ne voit pas comment au motif que « La loi détermine les conditions dans lesquelles s’exerce la liberté de la femme de mettre fin à sa grossesse », le Conseil constitutionnel pourrait juger qu’une loi qui détermine les conditions dans lesquelles s’exerce cette liberté n’est pas conforme à la Constitution… Il est possible (et on l’espère probable) qu’il ne juge pas conforme à la Constitution une loi restreignant fortement l’IVG, mais le cas échéant, il le ferait au motif qu’elle priverait de garanties légales cette « liberté de la femme qui découle de l’article 2 de la Déclaration de 1789 », et non en invoquant ce nouvel alinéa de l’article 34, assurément vain en l’occurrence [6].

    En remplaçant « La loi garantit l’effectivité et l’égal accès au droit à l’interruption volontaire de grossesse » (formulation votée par l’Assemblée nationale déjà marquée par une dégradation issue de la recherche d’un compromis [7]) par « La loi détermine les conditions dans lesquelles s’exerce la liberté de la femme de mettre fin à sa grossesse », le Sénat a considérablement diminué et dénaturé la proposition de loi : il n’est plus affirmé que la loi garantit quoi que ce soit, les notions d’effectivité et d’égal accès ont disparu, le « droit » est devenu une « liberté », cette liberté est maintenant spécifiquement celle de « la femme », l’accent est mis sur l’existence de conditions à l’exercice de cette liberté…

    Sous plusieurs aspects, l’ajout dans la Constitution de cette mention purement symbolique puisqu’inutile sur le plan juridique (comme le reconnaissent d’ailleurs les promoteur∙ices de la proposition de loi actuelle) serait nuisible, et ce précisément sur le plan symbolique.

    Un ajout nuisible notamment sur le plan symbolique
    On peut déjà relever que dans la proposition de loi constitutionnelle reformulée par le Sénat, la mention du droit à l’IVG a été remplacée par celle de la liberté de mettre fin à sa grossesse. L’enjeu de cette modification n’est pas juridique car cela ne change rien au pouvoir de censure par le Conseil constitutionnel d’une loi restreignant exagérément ce droit ou cette liberté [8]. L’enjeu était en fait symbolique : il s’agissait pour les parlementaires conservateurs (majoritaires au Sénat) d’éviter qu’un droit fondamental à l’avortement soit symboliquement consacré, au même titre que le sont par exemple le « droit de propriété » (dans la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789, art. 2 et 17) et le « droit de vivre dans un environnement équilibré et respectueux de la santé » (proclamé par la Charte de l’environnement de 2004, et reconnu par le Conseil d’Etat le 20 septembre 2022 comme « présent[ant] le caractère d’une liberté fondamentale »). Ainsi, loin de consacrer un droit fondamental à l’avortement, l’inscription dans la Constitution de la mention proposée peut se lire au contraire en creux comme conservant la trace d’un refus de le faire.

    Par ailleurs, la motivation de ce refus est éminemment problématique. Pour reprendre les mots prononcés par Philippe Bas le 1er février 2023, lors de la défense en séance publique de cette formulation dont il est l’auteur, « il n’y a pas de droit absolu ; il y a une liberté déjà reconnue et que nous pouvons écrire dans la Constitution, mais à la condition que soient conciliés les droits de la femme enceinte de mettre fin à sa grossesse et la protection de l’enfant à naître après l’achèvement d’un certain délai ». Ce qui doit retenir l’attention ici n’est pas seulement l’affirmation que le droit d’avorter ne saurait être absolu (précision inutile car aucun droit ne l’est, pas plus qu’aucune liberté) mais la mention de la « protection de l’enfant à naître après l’achèvement d’un certain délai ».

    En effet, il est ici affirmé que l’embryon ou fœtus est un « enfant à naître » à partir d’une certaine durée de gestation et qu’il doit à ce titre être protégé. Voilà qui nous tire bien plus en direction de la loi de l’Etat de Georgie évoquée plus haut que vers une affirmation du droit fondamental d’interrompre sa grossesse (qui secondairement, implique de ne jamais transformer en enfant la potentialité d’enfant que constitue l’embryon ou fœtus qu’on porte). Voilà qui nous éloigne également de la recommandation faite par l’Organisation mondiale de la santé de ne pas fixer de durée de gestation au-delà de laquelle l’avortement serait interdit – et de dépénaliser complètement celui-ci [9].

    Par ailleurs, comme l’avait soutenu un ensemble d’associations, collectifs et personnalités notamment féministes dans une tribune publiée en novembre 2022, préciser dans la Constitution le sexe des personnes concernées pose deux problèmes. D’une part, affirmer la relativité de cette liberté en la conditionnant à une caractéristique des personnes revient à contredire son caractère fondamental. D’autre part, la référence à la liberté de « la femme » pourrait priver du bénéfice de cette disposition les personnes susceptibles de recourir à un avortement sans être des femmes à l’état civil, qu’il s’agisse d’hommes intersexes, d’hommes trans ou de personnes étrangères bénéficiant d’une mention de sexe « neutre » ou « autre ».

    Cependant, ici encore l’enjeu est surtout symbolique car on doute qu’une personne n’étant pas de sexe féminin à l’état civil se voie concrètement refuser le droit d’avorter dans les mêmes conditions qu’une autre du « bon sexe » : c’est hélas plutôt l’idée qu’une telle personne puisse mener à terme une grossesse qui dérange certain∙es… En restreignant aux femmes cet ajout proposé à la Constitution – et a fortiori en parlant de « la femme » –, la droite conservatrice renforce symboliquement l’idée que seule une personne de sexe féminin à l’état civil peut être dotée de la capacité de gestation (bien que la réalité la démente), et ce n’est évidemment pas fortuit. Cette reformulation s’inscrit dans le cadre d’un combat politique réactionnaire auquel cet ajout apporterait une petite victoire.

    Et puis, ne voit-on pas qu’en mettant l’accent sur l’idée que la loi détermine les conditions dans lesquelles s’exerce la liberté d’avorter, on inscrit symboliquement dans la Constitution avant tout le principe d’un encadrement de cette liberté ? Finalement, en forçant le trait, c’est un peu comme si au lieu d’inscrire dans la Constitution l’idée que la France assure l’égalité des citoyens devant la loi sans distinction d’origine ou de « race », on avait tenu à marquer symboliquement l’attachement de la France à l’égalité des droits en inscrivant quelque chose du style : « La loi détermine les conditions dans lesquelles le Français d’origine étrangère [ou de race non blanche] accède aux mêmes droits que le Français de souche [ou le Blanc] ».

    Pourquoi faire de telles concessions à la droite conservatrice alors même que cet ajout dans la Constitution de 1958 ne protègera ni n’affermira en rien le droit à l’avortement ? Quelle est la contrepartie ? Pouvoir se vanter d’avoir fait de la France l’un des premiers Etats à avoir inscrit l’avortement dans sa constitution, peu importe de quelle manière ? Pouvoir se féliciter d’avoir fait avancer une revendication féministe en dépassant les oppositions partisanes, quitte à ce qu’il n’y ait là qu’un trompe-l’œil ? Pire qu’inutile, cette inscription dans la Constitution enregistrerait une défaite face au camp conservateur. L’idée était bonne mais les conditions n’ont pas été réunies pour la concrétiser correctement [10], dont acte. Plutôt que de faire vite et mal, attendons qu’elles le soient.

    Odile Fillod

    #IVG #femmes #backlash #féminisme