Ida Laura Reyer, è un’austriaca e di famiglia benestante, nata a Vienna il 4 ottobre 1797: è la quinta di sei fratelli, tutti maschi, figli di un agiato mercante di tessuti che muore prematuramente quando lei ha appena nove anni.
Sin da piccola non segue il modello dell’eterno femminino e veste come i fratelli, forgiata anche dalla rigida educazione del padre Alois, improntata a coraggio, determinazione, sobrietà… È un’accanita lettrice di libri di viaggi e di avventura e tutto ciò che le permette di evadere dal “quotidiano” l’attira irrefrenabilmente.
Gli amici di famiglia raccontano che amava correre fuori casa per veder passare, con lo sguardo sognante, le diligenze che lasciavano la città.
Si innamora del suo giovane precettore, che le trasmette la passione per la geografia, ma la madre si oppone al loro amore e, costretta dalle difficoltà economiche in cui versa la famiglia, a ventidue anni accetta di sposare l’avvocato Max Anton Pfeiffer, molto più anziano di lei: è un matrimonio triste e senza amore, vissuto in ristrettezze economiche per il fallimento del marito e con il cuore gonfio di malinconia. Non resta con le mani in mano e per tirare avanti dà lezioni di piano e fa la segretaria.
Scrive di quegli anni: «Solo il cielo sa cosa ho sofferto. Vi sono stati giorni in cui vi era solo pane secco per la cena dei miei figli».
Vede il mare per la prima volta nel 1836, quando si reca a Trieste con un figlio, e in quel momento scatta la scintilla.
Nel 1842, diventata vedova e con i figli già grandi, all’età di quarantasette anni guarda oltre lo steccato della mediocrità e dell’ovvio. Spinta dal desiderio incontrollato della conoscenza e dotata di grandissima immaginazione e coraggio verso la scoperta dell’ignoto, part per 9 mesi e, e da sola: discende il Danubio, si addentra in Turchia e in Libano, visita la Palestina, arriva in Egitto, sosta a Malta e risale l’Italia fino a Trieste.
A casa studia le lingue del Nord e poi riparte per altri sei mesi, alla volta di Scandinavia e Islanda.
Diviene navigatrice, esploratrice a bordo di mezzi di fortuna, gira il mondo portando a casa testimonianze di alternative esistenze dove non il denaro o il ceto sociale, ma lo stato di natura e la collocazione dell’umanità al suo interno erano motivo di studio, come forma di miglioramento della propria esperienza da trasmettere agli altri.
Sono viaggi spartani, fatti in economia, spesso avvalendosi di passaggi gratuiti: a volte indossa abiti maschili per potersi mescolare alle gente e osservare più liberamente il comportamento delle popolazioni incontrate nel suo peregrinare tra i continenti.
Percorrerà 140.000 miglia marine e 20.000 miglia inglesi via terra.
Il suo primo viaggio intorno al mondo dura due anni e sette mesi. Si imbarca da Amburgo per raggiungere il Brasile e poi il Cile. Da qui poi attraversa l’Oceano Pacifico approdando a Tahiti fino ad arrivare all’isola di Ceylon. Risale attraverso l’India fino al Mar Nero e alla Grecia sbarcando a Trieste e ritornando a Vienna.
Mentre si trova in Oriente scrive sul suo diario: «In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò».
Il secondo giro del mondo va in senso opposto, da Ovest verso Est, e dura quattro anni: da Londra giunge a Città del Capo per poi esplorare il Borneo e avere contatti ravvicinati con i “tagliatori di teste” del Dayak, attraversa l’Oceano Pacifico in senso inverso, arriva in California e inizia a percorrere tutti gli Stati americani.
È la prima donna bianca che nel 1852 si reca nella giungla di Sumatra 1852) abitata dai batak, ritenuti cannibali. In quell’occasione riesce a salvarsi dicendo ai cannibali: «La mia testa è troppo vecchia e dura per essere mangiata», e il saggio capo tribù inizia a ridere e la lascia libera.
Non si risparmia nulla in fatto di pericoli, in un mondo non ancora sotto la lente d’ingrandimento di un satellite.
E poi il Madagascar, Réunion e Mauritius, con la malaria che la tiene sotto assedio e la porterà a quell’ultimo viaggio da cui non c’è ritorno.
Dei suoi viaggi scrive appunti a matita, con una calligrafia piccola e minuta, raccontando i suoi sette viaggi in tredici volumi di diari che diventano bestseller e vengono tradotti in sette lingue.
Finalmente, viene ammessa a far parte delle Società geografiche di Berlino e Parigi, ma non di quella inglese, ostinatamente negata alle donne.
I musei di Vienna custodiscono, ancora oggi, piante, insetti e farfalle che lei raccoglie ovunque e porta in patria.
In una bellissima e significativa foto del 1856 Ida è seduta su un divano con un vestito dell’epoca, con il capo coperto da una cuffietta bianca di pizzo, il braccio destro su un grosso libro, accanto a lei un enorme mappamondo, i suoi occhi non guardano l’obiettivo ma altrove, lontano lontano.
Muore il 27 ottobre 1858. Il cimitero centrale di Vienna ne conserva le spoglie.
Nel 2018 l’Università della stessa Vienna le intitola una cattedra con borsa di studio, ma nelle vie della sua città natale manca ancora il suo nome. È Monaco di Baviera a dedicarle la sua prima strada.