• Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • ★ BIOGRAPHIE DE FERNAND PELLOUTIER - Socialisme libertaire

    Fernand Pelloutier naquit à Paris, le 1er octobre 1867.

    Il descendait d’une vieille famille lyonnaise chassée de France par la révocation de l’Édit de Nantes et dont un des membres, Simon Pelloutier (1694 – 1757) a laissé une Histoire des Celtes en 8 volumes, qui est, disent les biographes, « le seul titre, mais incontestable, qu’il ait à l’estime de la postérité ».

    Fernand Pelloutier fit ses études primaires à Paris, et ses études classiques d’abord au Petit Séminaire de Guérande (d’où il se fit expulser, au bout de trois ans, après deux tentatives déjouées d’évasion), puis au collège de Saint-Nazaire qu’il quitta après avoir échoué au baccalauréat.

    Eh 1885, encore potache, il collabore à la Démocratie de l’Ouest que dirige un ouvrier typographe, Eugène Couronné, puis fonde successivement : L’Épingle, Ruy Blas, La Plage, petites revues littéraires qui ont le sort de ces fleurs « que le matin voit naître et le soir voit mourir » (...)

    #FernandPelloutier #anarchisme #BoursesduTravail #syndicalisme #SocialismeLibertaire #histoire

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/04/biographie-de-fernand-pelloutier.html

  • Un saccage des services publics très efficace dans la Manche : l’accès aux urgences y est restreint dans plusieurs hôpitaux en raison du manque de personnel
    https://www.bfmtv.com/normandie/manche-l-acces-aux-urgences-restreint-dans-plusieurs-hopitaux-en-raison-du-ma

    Les hôpitaux de la Manche manquent de médecins. Pour cette raison, l’accueil des urgences sera fermé à l’#hôpital de Saint-Hilaire-du-Harcouët à partir de ce mercredi 19 avril 18h30, jusqu’au mardi 25 avril à 10h.

    « Du fait d’un manque de médecins remplaçants volontaires dans le contexte d’encadrement des tarifs de l’intérim médical depuis le 3 avril, le #centre_hospitalier de Saint-Hilaire doit adapter temporairement l’organisation de son service d’urgence », explique le groupe hospitalier Mont-Saint-Michel dans un communiqué.

    Le groupe précise que le #service_des_urgences n’accueillera pas de patients sur cette période, et recommande à ces derniers de composer le 15 en cas de besoin.

    #service_public #fermeture #saccage_social

  • #Fernand_Pelloutier #anarchisme #socialisme #syndicalisme #révolutionnaire #anticapitalisme

    Le 13 mars 1901 : la mort de Fernand Pelloutier, anarchiste, syndicaliste, révolutionnaire – 🔴 Info Libertaire

    « NOUS SOMMES (…) CE QUE LES POLITICIENS NE SONT PAS, DES RÉVOLTÉS DE TOUTES LES HEURES, DES HOMMES VRAIMENT SANS DIEU, SANS MAÎTRE ET SANS PATRIE, LES ENNEMIS IRRÉCONCILIABLES DE TOUT DESPOTISME, C’EST-À-DIRE DES LOIS ET DES DICTATURES, Y COMPRIS CELLE DU PROLÉTARIAT. »

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.infolibertaire.net/le-13-mars-1901-la-mort-de-fernand-pelloutier-anarchiste-syndicalist

  • Yachts, jets, voitures de luxe… l’union européenne à Bruxelles autorise les très riches à polluer Ouest-France Christelle GUIBERT
    https://www.ouest-france.fr/environnement/climat/yachts-jets-voitures-de-luxe-bruxelles-autorise-les-tres-riches-a-pollu

    Il faudra faire plus d’efforts contre le dérèglement climatique. Sauf les propriétaires de yachts, de jets privés et de voitures de luxe… qui échappent aux taxes européennes.

    En juin, c’était l’adoption de « l’amendement Ferrari » https://www.ouest-france.fr/economie/automobile/pourquoi-les-voitures-de-luxe-vont-echapper-a-l-interdiction-des-moteur qui avait indigné. Grâce à cette dérogation à l’interdiction de vendre de nouvelles voitures à moteur à combustion après 2035 dans l’Union européenne, les amateurs de Ferrari et Lamborghini italiennes ou de Koenigsegg suédoises continueront de polluer à plus de 300 km/h.

    Ce texte permet aux constructeurs automobiles qui produisent moins de 1 000 véhicules par an, voire 10 000 avec une dérogation bien argumentée, de bouder l’électrique une année de plus, au moins… On ne parle là que de voitures à plus de 200 000 €…

    En fouinant dans les marges des plans verts de la Commission européenne, on a exhumé d’autres pollutions de luxe. Dans le secteur maritime, tous les gros bateaux seront soumis dès 2024 au marché du carbone, avec des quotas d’émissions à respecter. Devinez qui y échappe ? Les yachts qui sont en dessous de la jauge concernée de 5 000 UMS (unité de mesure mondiale), comme la plupart des petits bateaux de pêche, qui eux travaillent.

    Les jets privés pourront voler au kérosène
    Dans les airs ? Alors que les compagnies aériennes vont bientôt pleurer l’époque bénie du kérosène pas cher, les jets privés ou les “vols de plaisance à des fins personnelles ou récréatives” continueront de remplir leur réservoir avec un carburant toujours détaxé… Les lobbys ont bien travaillé.

    “Une action substantielle et rapide des 10 % les plus riches est essentielle pour décarboner assez vite, et garder l’objectif d’un réchauffement [maximum] à 1,5 °C” , a pourtant rappelé cette semaine l’Agence internationale de l’énergie, qui ne passe pas pour un repaire de militants écolo-gauchistes !

    #luxe #yachts #co2 #ue #union_européenne et son #hypocrisie #injustice #pollution #Ferrari #Lamborghini #Koenigsegg #Rolls-Royce #inégalités

  • Lecture de : La guerre des métaux rares. La face cachée de la transition énergétique et numérique, de Guillaume Pitron

    Une perspective nationaliste navrante, mais une somme d’informations capitales.

    Extraits :

    « Le monde a de plus en plus besoin de terres rares, de « #métaux rares », pour son #développement_numérique, et donc pour ttes les #technologies_de_l’information_et_de_la_communication. Les #voitures_électriques et #voitures_hybrides en nécessitent deux fois plus que les voitures à essence, etc. »

    « Nos aïeux du XIXe siècle connaissaient l’importance du #charbon, & l’honnête homme du XXe siècle n’ignorait rien de la nécessité du pétrole. Au XXIe siècle, nous ne savons même pas qu’un monde + durable dépend en très grande partie de substances rocheuses nommées métaux rares. »

    « #Terres_rares, #graphite, #vanadium, #germanium, #platinoïdes, #tungstène, #antimoine, #béryllium, #fluorine, #rhénium, #prométhium… un sous-ensemble cohérent d’une trentaine de #matières_premières dont le point commun est d’être souvent associées ds la nature aux métaux les + abondants »

    « C’est là la clé du « #capitalisme_vert » : [remplacer] des #ressources qui rejettent des millions de milliards de tonnes de #gaz_carbonique par d’autres qui ne brûlent pas – et ne génèrent donc pas le moindre gramme de CO2. »

    « Avec des réserves d’or noir en déclin, les stratèges doivent anticiper la guerre sans #pétrole. […] ne plus dépendre des énergies fossiles d’ici à 2040. […] En recourant notamment aux #énergies_renouvelables & en levant des légions de robots alimentés à l’électricité. »

    « La Grande-Bretagne a dominé le XIXe s. grâce à son hégémonie sur la production mondiale de charbon ; une grande partie des événements du XXe s. peuvent se lire à travers le prisme de l’ascendant pris par les Etats-Unis et l’Arabie saoudite sur la production et la sécurisation des routes du pétrole ; .. au XXIe siècle, un État est en train d’asseoir sa domina routes du pétrole ; au XXIe siècle, un État est en train d’asseoir sa domination sur l’exportation et la consommation des métaux rares. Cet État, c’est la Chine. »

    La Chine « détient le #monopole d’une kyrielle de métaux rares indispensables aux énergies bas carbone & numérique, ces 2 piliers de la transition énergétique. Il est le fournisseur unique du + stratégique : terres rares — sans substitut connu & dont personne ne peut se passer. »

    « Notre quête d’un modèle de #croissance + écologique a plutôt conduit à l’exploitation intensifiée de l’écorce terrestre pr en extraire le principe actif, à savoir les métaux rares, avec des #impacts_environnementaux encore + importants que cx générés par l’#extraction_pétrolière »

    « Soutenir le changement de notre #modèle_énergétique exige déjà un doublement de la production de métaux rares tous les 15 ans environ, et nécessitera au cours des trente prochaines années d’extraire davantage de minerais que ce que l’humanité a prélevé depuis 70 000 ans. » (25)

    « En voulant nous émanciper des #énergies_fossiles, en basculant d’un ordre ancien vers un monde nouveau, nous sombrons en réalité dans une nouvelle dépendance, plus forte encore. #Robotique, #intelligence_artificielle, #hôpital_numérique, #cybersécurité, #biotechnologies_médicale, objets connectés, nanoélectronique, voitures sans chauffeur… Tous les pans les + stratégiques des économies du futur, toutes les technologies qui décupleront nos capacités de calcul et moderniseront notre façon de consommer de l’énergie, le moindre de nos gestes quotidien… et même nos grands choix collectifs vont se révéler totalement tributaires des métaux rares. Ces ressources vont devenir le socle élémentaire, tangible, palpable, du XXIe siècle. » (26)

    #Metaux_Rares Derrière l’#extraction et le « #raffinage », une immense #catastrophe_écologique : « D’un bout à l’autre de la chaîne de production de métaux rares, quasiment rien en #Chine n’a été fait selon les standards écologiques & sanitaires les plus élémentaires. En même temps qu’ils devenaient omniprésents ds les technologies vertes & numériques les + enthousiasmantes qui soient, les métaux rares ont imprégné de leurs scories hautement toxiques l’eau, la terre, l’atmosphère & jusqu’aux flammes des hauts-fourneaux – les 4 éléments nécessaires à la vie »

    « C’est ici que bat le cœur de la transition énergétique & numérique. Sidérés, ns restons une bonne h à observer immensités lunaires & paysages désagrégés. Mais il vaut mieux déguerpir avant que la maréchaussée alertée par les caméras ne débarque »

    « Nous avons effectué des tests, et notre village a été surnommé “le village du cancer”. Nous savons que nous respirons un air toxique et que nous n’en avons plus pour longtemps à vivre. »

    « La seule production d’un #panneau_solaire, compte tenu en particulier du silicium qu’il contient, génère, avance-t-il, plus de 70 kilos de CO2. Or, avec un nombre de panneaux photovoltaïques qui va augmenter de 23 % par an dans les années à venir, cela signifie que les installations solaires produiront chaque année dix gigawatts d’électricité supplémentaires. Cela représente 2,7 milliards de tonnes de carbone rejetées dans l’atmosphère, soit l’équivalent de la #pollution générée pendant un an par l’activité de près de 600 000 automobiles.

    « Ces mêmes énergies – [dites] « renouvelables » – se fondent sur l’exploitation de matières premières qui, elles, ne sont pas renouvelables. »

    « Ces énergies – [dites] « vertes » ou « décarbonées » – reposent en réalité sur des activités génératrices de #gaz_à_effet_de_serre . »

    « N’y a-t-il pas une ironie tragique à ce que la pollution qui n’est plus émise dans les agglomérations grâce aux voitures électriques soit simplement déplacée dans les zones minières où l’on extrait les ressources indispensables à la fabrication de ces dernières ?

    .. En ce sens, la transition énergétique et numérique est une transition pour les classes les plus aisées : elle dépollue les centres-villes, plus huppés, pour mieux lester de ses impacts réels les zones plus miséreuses et éloignées des regards. »

    « Certaines technologies vertes sur lesquelles se fonde notre idéal de sobriété énergétique nécessitent en réalité, pour leur fabrication, davantage de matières premières que des technologies plus anciennes. »

    .. « Un futur fondé sur les technologies vertes suppose la consommation de beaucoup de matières, et, faute d’une gestion adéquate, celui-ci pourrait ruiner […] les objectifs de développement durable. » (The World Bank Group, juin 2017.)

    « Le #recyclage dont dépend notre monde + vert n’est pas aussi écologique qu’on le dit. Son bilan environnemental risque même de s’alourdir à mesure que nos sociétés produiront des alliages + variés, composés d’un nombre + élevé de matières, ds des proportions tjrs + importantes »

    « Dans le monde des matières premières, ces observations relèvent le + souvent de l’évidence ; pr l’immense majorité d’entre nous, en revanche, elles sont tellement contre-intuitives qu’il va certainement nous falloir de longues années avant de bien les appréhender & faire admettre. Peut-être [dans 30 ans] nous dirons-nous aussi que les énergies nucléaires sont finalement moins néfastes que les technologies que nous avons voulu leur substituer et qu’il est difficile d’en faire l’économie dans nos mix énergétiques. »

    « Devenue productrice prépondérante de certains métaux rares, la Chine [a] désormais l’opportunité inédite d’en refuser l’exportation vers les États qui en [ont] le plus besoin. […] Pékin produit 44 % de l’#indium consommé dans le monde, 55 % du vanadium, près de 65 % du #spath_fluor et du #graphite naturel, 71 % du germanium et 77 % de l’antimoine. La Commission européenne tient sa propre liste et abonde dans le même sens : la Chine produit 61 % du silicium et 67 % du germanium. Les taux atteignent 84 % pour le tungstène et 95 % pour les terres rares. Sobre conclusion de Bruxelles : « La Chine est le pays le plus influent en ce qui concerne l’approvisionnement mondial en maintes matières premières critiques ». »

    « La République démocratique du Congo produit ainsi 64 % du #cobalt, l’Afrique du Sud fournit 83 % du platine, de l’iridium et du #ruthénium, et le Brésil exploite 90 % du #niobium. L’Europe est également dépendante des États-Unis, qui produisent plus de 90 % du #béryllium . »

    « Les 14 pays membres de l’OPEP, capables depuis des décennies d’influencer fortement les cours du baril, ne totalisent « que » 41 % de la prod. mondiale d’or noir… La Chine, elle, s’arroge jusqu’à 99 % de la prod. mondiale de terres rares, le + convoité des métaux rares ! »

    Aimants — « Alors qu’à la fin de la décennie 1990 le Japon, les États-Unis et l’Europe concentraient 90 % du marché des aimants, la Chine contrôle désormais les 3/4 de la production mondiale ! Bref, par le jeu du chantage « technologies contre ressources », le monopole chinois de la production des minerais s’est transposé à l’échelon de leur transformation. La Chine n’a pas trusté une, mais deux étapes de la chaîne industrielle. C’est ce que confirme la Chinoise Vivian Wu : « Je pense même que, dans un avenir proche, la Chine se sera dotée d’une industrie de terres rares totalement intégrée d’un bout à l’autre de la chaîne de valeur. » Vœu déjà en partie réalisé. Il a surtout pris racine dans la ville de #Baotou, en #Mongolie-Intérieure . »

    « Baotou produit chaque année 30 000 tonnes d’aimants de terres rares, soit le tiers de la production mondiale. »

    « Nos besoins en métaux rares se diversifient et s’accroissent de façon exponentielle. […] D’ici à 2040, nous devrons extraire trois fois plus de terres rares, cinq fois plus de tellure, douze fois plus de cobalt et seize fois plus de #lithium qu’aujourd’hui. […] la croissance de ce marché va exiger, d’ici à 2050, « 3 200 millions de tonnes d’acier, 310 millions de tonnes d’aluminium et 40 millions de tonnes de #cuivre 5 », car les éoliennes engloutissent davantage de matières premières que les technologies antérieures.

    .. « À capacité [de production électrique] équivalente, les infrastructures […] éoliennes nécessitent jusqu’à quinze fois davantage de #béton, quatre-vingt-dix fois plus d’aluminium et cinquante fois plus de fer, de cuivre et de verre » que les installations utilisant des #combustibles traditionnels, indique M. Vidal. Selon la Banque mondiale, qui a conduit sa propre étude en 2017, cela vaut également pour le solaire et pour l’hydrogène. […] La conclusion d’ensemble est aberrante : puisque la consommation mondiale de métaux croît à un rythme de 3 à 5 % par an, « pour satisfaire les besoins mondiaux d’ici à 2050, nous devrons extraire du sous-sol plus de métaux que l’humanité n’en a extrait depuis son origine ».

    .. Que le lecteur nous pardonne d’insister : nous allons consommer davantage de #minerais durant la prochaine génération qu’au cours des 70 000 dernières années, c’est-à-dire des cinq cents générations qui nous ont précédés. Nos 7,5 milliards de contemporains vont absorber plus de #ressources_minérales que les 108 milliards d’humains que la Terre a portés jusqu’à ce jour. » (211-214)

    Sans parler des « immenses quantités d’eau consommées par l’industrie minière, [des] rejets de gaz carbonique causés par le transport, [du] #stockage et [de] l’utilisation de l’énergie, [de] l’impact, encore mal connu, du recyclage des technologies vertes [de] toutes les autres formes de pollution des #écosystèmes générées par l’ensemble de ces activités [et] des multiples incidences sur la biodiversité. » (215)

    « D’un côté, les avocats de la transition énergétique nous ont promis que nous pourrions puiser à l’infini aux intarissables sources d’énergie que constituent les marées, les vents et les rayons solaires pour faire fonctionner nos technologies vertes. Mais, de l’autre, les chasseurs de métaux rares nous préviennent que nous allons bientôt manquer d’un nombre considérable de matières premières. Nous avions déjà des listes d’espèces animales et végétales menacées ; nous établirons bientôt des listes rouges de métaux en voie de disparition. » (216)

    « Au rythme actuel de production, les #réserves rentables d’une quinzaine de métaux de base et de métaux rares seront épuisées en moins de cinquante ans ; pour cinq métaux supplémentaires (y compris le fer, pourtant très abondant), ce sera avant la fin de ce siècle. Nous nous dirigeons aussi, à court ou moyen terme, vers une pénurie de vanadium, de #dysprosium, de #terbium, d’#europium & de #néodyme. Le #titane et l’indium sont également en tension, de même que le cobalt. « La prochaine pénurie va concerner ce métal, Personne n’a vu le problème venir. »

    « La #révolution_verte, plus lente qu’espéré, sera emmenée par la Chine, l’un des rares pays à s’être dotés d’une stratégie d’approvisionnement adéquate. Et Pékin ne va pas accroître exagérément sa production de métaux rares pour étancher la soif du reste du monde. Non seulement parce que sa politique commerciale lui permet d’asphyxier les États occidentaux, mais parce qu’il craint à son tour que ses ressources ne s’amenuisent trop rapidement. Le marché noir des terres rares, qui représente un tiers de la demande officielle, accélère l’appauvrissement des mines, et, à ce rythme, certaines réserves pourraient être épuisées dès 2027. »

    De la question « du #taux_de_retour_énergétique (#TRE), c’est-à-dire le ratio entre l’énergie nécessaire à la production des métaux et celle que leur utilisation va générer. […] C’est une fuite en avant dont nous pressentons l’absurdité. Notre modèle de production sera-t-il encore sensé le jour où un baril permettra tt juste de remplir un autre baril ? […] Les limites de notre système productiviste se dessinent aujourd’hui plus nettement : elles seront atteintes le jour où il nous faudra dépenser davantage d’énergie que nous ne pourrons en produire. »

    « Plusieurs vagues de #nationalisme minier ont déjà placé les États importateurs à la merci de pays fournisseurs prtant bien moins puissants qu’eux. En fait de mines, le client ne sera donc plus (toujours) roi. La géopolitique des métaux rares pourrait faire émerger de nouveaux acteurs prépondérants, souvent issus du monde en développement : le #Chili, le #Pérou et la #Bolivie, grâce à leurs fabuleuses réserves de lithium et de cuivre ; l’#Inde, riche de son titane, de son #acier et de son #fer ; la #Guinée et l’#Afrique_australe, dont les sous-sols regorgent de bauxite, de chrome, de manganèse et de platine ; le Brésil, où le bauxite et le fer abondent ; la Nouvelle-Calédonie, grâce à ses prodigieux gisements de #nickel. » (226-227)

    « En engageant l’humanité ds la quête de métaux rares, la transition énergétique & numérique va assurément aggraver dissensions & discordes. Loin de mettre un terme à la géopol. de l’énergie, elle va au contraire l’exacerber. Et la Chine entend façonner ce nouveau monde à sa main. »

    « Les #ONG écologistes font la preuve d’une certaine incohérence, puisqu’elles dénoncent les effets du nouveau monde plus durable qu’elles ont elles-mêmes appelé de leurs vœux. Elles n’admettent pas que la transition énergétique et numérique est aussi une transition des champs de pétrole vers les gisements de métaux rares, et que la lutte contre le réchauffement climatique appelle une réponse minière qu’il faut bien assumer. » (234-235)

    « La bataille des terres rares (et de la transition énergétique et numérique) est bel et bien en train de gagner le fond des mers. Une nouvelle ruée minière se profile. […] La #France est particulièrement bien positionnée dans cette nouvelle course. Paris a en effet mené avec succès, ces dernières années, une politique d’extension de son territoire maritime. […] L’ensemble du #domaine_maritime français [est] le deuxième plus grand au monde après celui des #États-Unis. […] Résumons : alors que, pendant des milliers d’années, 71 % de la surface du globe n’ont appartenu à personne, au cours des six dernières décennies 40 % de la surface des océans ont été rattachés à un pays, et 10 % supplémentaires font l’objet d’une demande d’extension du plateau continental. À terme, les États pourvus d’une côte exerceront leur juridiction sur 57 % des fonds marins. Attirés, en particulier par le pactole des métaux rares, nous avons mené, en un tps record, la + vaste entreprise d’#appropriation_de_territoires de l’histoire. »

    « Le projet, entonné en chœur par tous les avocats de la #transition_énergétique et numérique, de réduire l’impact de l’homme sur les écosystèmes a en réalité conduit à accroître notre mainmise sur la #biodiversité. » (248)

    « N’est-il pas absurde de conduire une mutation écologique qui pourrait tous nous empoisonner aux métaux lourds avant même que nous l’ayons menée à bien ? Peut-on sérieusement prôner l’harmonie confucéenne par le bien-être matériel si c’est pour engendrer de nouveaux maux sanitaires et un #chaos_écologique – soit son exact contraire ? » (252)

    Métaux rares, transition énergétique et capitalisme vert https://mensuel.lutte-ouvriere.org//2023/01/23/metaux-rares-transition-energetique-et-capitalisme-vert_4727 (Lutte de classe, 10 janvier 2023)

    #écologie #capitalisme #impérialisme

  • Detained below deck

    How asylum seekers are held in secret prisons on commercial ships to facilitate illegal pushbacks from Italy to Greece.

    As holidaymakers sip on cold beer and cocktails on the deck of a passenger ferry, a buzz of excitement in the air, a very different situation is playing out below deck. In the bowels of this vessel there are people, including children, chained and locked up in dark places against their will.

    This is Europe’s lesser known pushback practice, where secret prisons on private ships are used to illegally return asylum seekers back to where they came from.

    The systematic denial of the right to seek asylum at the EU’s land borders has been well-documented in recent years. Last year, Lighthouse Reports and partners revealed the existence of “black sites” – clandestine places of detention – where refugees and migrants are denied the right to seek asylum and illegally imprisoned prior to being forced back.

    What has received less attention is the unlawful denial of the opportunity to claim asylum at borders within the EU, and the brutal pushbacks that take place between member states – namely from Italy to Greece – at sea.

    We’ve found that asylum seekers, including children, are being detained in unofficial jails – in the form of metal boxes and dark rooms – for sometimes more than a day at a time in the bowels of passenger ships headed from Italy to Greece, as part of illegal pushbacks by the Italian authorities.

    In 2014, the European Court of Human Rights ruled that Italy had unlawfully returned asylum seekers to Greece in this way, denying them the opportunity to lodge a claim for protection. Eight years on, despite the Italian authorities having repeatedly claimed this practice has not stopped, we’ve found that it continues in full force.
    METHODS

    Lighthouse Reports, in collaboration with SRF, ARD Monitor, Al Jazeera, Il Domani and Solomon, has obtained photographs, video footage and testimony revealing that people who risk their lives stowing away on ferries bound for the Italian Adriatic ports of Venice, Ancona, Bari and Brindisi in the hope of claiming asylum are being denied the opportunity to do so.

    Instead, they are detained at the port before being locked up on the vessels they arrived on and sent back to Greece.

    In the first visual evidence of its kind, obtained during numerous reporting trips between Italy and Greece on commercial ships owned by Greek ferry giant Attica Group, we captured images of the sites that are used to detain asylum seekers on these vessels, sometimes handcuffed to metal shelves, as they are illegally deported.

    We found that on one ferry, named the Asterion II, people are locked in a former bathroom with broken showers and toilets, along with two mattresses. Names and dates of detainees are scribbled on the walls in different languages. We have visual evidence of this room, obtained with a small camera through a keyhole, which matches descriptions given by asylum seekers.

    On another commercial ship, named Superfast I, people are held in a metal box with a caged roof in the garage room on one of the lower decks. It gets extremely hot here during the summer months. We visited the room and captured footage and stills. It matches the descriptions from asylum seekers. There is only a piece of cardboard on the floor. People appear to have tried to write words in the dust on the metal wall.

    According to an Afghan asylum seeker who says he was held in this place: “It is a room the length of 2 metres and the width of 1.2 metres. It’s a small room […] You have only a small bottle of water and no food at all […] We had to stay in that small room inside the ship and accept the difficulties.”

    On a third ferry, the Superfast II, asylum seekers are kept in a room where luggage is collected. One Afghan man managed to take a selfie while he was handcuffed to metal pipes. We went to the same spot and took footage, which matches the surroundings in the selfie image.

    Among those detained are children. We have verified three cases where under-18s have been returned via ferry from Italy to Greece in this way. One 17-year-old Afghan named Baloosh told us: “They sent me back to Greece by boat, illegally. They didn’t ask me at all about my asylum claim or anything else.”

    As well as testimony and visual evidence, we got confirmation from a number of crew members that these places were being used to detain asylum seekers being returned to Greece. They referred to the sites as “prisons”. Legal experts and NGOs further corroborated the findings, saying they have heard large numbers of reports of these practices taking place in recent years.
    STORYLINES

    Under a bilateral “readmissions” agreement between the Italian and the Greek government – which has been in place since 1999 despite not having been ratified by the Italian parliament – Italy is able to return undocumented migrants who have arrived from Greece back to the country. However, this cannot be applied to those seeking asylum.

    But we found that asylum seekers from Afghanistan, Syria and Iraq have been subject to this treatment in the last 12 months. Data provided by the Greek authorities shows that hundreds have been affected in the last two years, with 157 people returned from Italy to Greece in 2021, and 74 in 2022 – although experts believe that not all cases are documented.

    Since the ECHR judgement in 2014, Italy has repeatedly claimed that this practice has stopped, and has pushed for official monitoring of its border processes at the port – which were put in place following the ECHR judgement – to be stopped on the basis that the violations are no longer occurring.

    Italian immigration lawyer Erminia Rizzi said these forced returns take place “frequently” and see asylum seekers, including minors, “prevented from accessing the territory, in violation of all the rules and with informal procedures”.

    Wenzel Michalski, director of Human Rights Watch Germany, raised the question of EU complicity, saying the findings showed how “Europe has allowed itself to tolerate such circumstances”.

    https://www.lighthousereports.nl/investigation/detained-below-deck

    #push-backs #emprisonnement #ferry #ferries #bateaux_de_croisière #Italie #Grèce #mer_Adriatique #Adriatique #mer_Méditerranée #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #détention #mer #bateau #réadmission #Superfast

    –-

    Ajouté à la métaliste sur les liens entre migrations et #tourisme :
    ajouté à la métaliste #migrations et #tourisme :
    https://seenthis.net/messages/770799
    et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/770799#message927668

    • While tourists on ferries are sipping from their sundowners, people - including children - are chained & locked up below decks in dark places

      Refugees from Afghanistan, Syria & Iraq risk their lives stowing away on ferries bound for the Italian ports in the hope of claiming asylum

      Instead, when caught by authorities, they are locked up on ferries & sent back to Greece without any procedure, in breach of interntnl law

      Last month, @LHreports & partners revealed the existence of “black sites” – clandestine places of detention – where refugees are denied the right to seek asylum & illegally imprisoned on EU land borders before being forced back
      https://seenthis.net/messages/984470

      Now, we have captured images of unofficial “prisons” that are used to detain asylum seekers on 3 passenger ships travelling Greece and Italy, sometimes handcuffed to metal shelves, as they are illegally deported

      @saracreta interviewed a refugee from Afghanistan who managed to take a selfie while being handcuffed to metal shelves on the @SuperfastF(ast) II

      The vessel runs between the Italian port of Bari & the Greek ports of Igoumenitsa & Patras - a journey that takes around 12 hours

      “I couldn’t lie down because of the handcuffs,” the man, named Abdulmanan, said

      “Once they brought me something to eat & drink. They took off my handcuffs. After that, they chained me again.”

      He said he was put there after being denied the right to apply for asylum in Italy

      On the Superfast I ferry, refugees are locked up in a metal box with just a piece of cardboard & sheet

      Some left messages on the walls, while others appear to have tried to escape by climbing the walls

      The secret detention sites on the Superfast ferries are located next to where lorries are parked - an area that is considered unsafe for passengers to be during the journey

      Yet asylum seekers are locked up there for the duration of the trip

      A small room with a broken toilet & ceiling on the 7th floor of the Asterion II has been made into a makeshift prison

      Refugees have scribbled their names & dates of detention on the wall while tourists enjoyed hot meals just metres away

      Italy has justified these “readmissions” under a bilateral agreement with Greece - an agreement that was never ratified by the Italian parliament

      The return of asylum seekers under this agreement was ruled unlawful by @ECHR_CEDH in 2014

      https://www.asylumlawdatabase.eu/en/content/ecthr-sharifi-and-others-v-italy-and-greece-application-no-1664309

      Italy has since repeatedly claimed that this practice has stopped, & has pushed for official monitoring of its border processes at the port - which were put in place following the ECHR judgement - to be stopped on the basis that the violations are no longer occurring

      But @LHreports @AJEnglish @ARD_Presse
      #Monitor @srfnews @DomaniGiornale @we_are_solomon can reveal that the practices are still ongoing

      More than a dozen people from Afghanistan, Syria & Iraq told us they have been subject to this treatment in the last 12 months

      Among them are children. We have verified 3 cases where under-18 have been returned via ferry from Italy to Greece in this way

      One 16-yo Afghan named Baloosh said: “They sent me back to Greece by boat, illegally. They didn’t ask me at all about my asylum claim or anything else."

      Personnel on board of the ferries, all owned by the Greek company Attica, confirmed to us that they are detaining asylum seekers & directed us to the locations where people are being detained

      A number of crew members referred to the detention places as “prisons”

      Hundreds of these illegal returns have taken place in the last 2 years

      The Greek authorities confirmed that 157 people were returned from Italy to Greece in 2021, and 74 in 2022 - although experts believe that not all cases are documented

      Italy can assess whether an asylum seeker can be returned to Greece under the Dublin Regulation, which enables returns of people who have already lodged a claim in another EU state

      But this process usually takes at least 1 month, during which they cannot remove the individual

      https://twitter.com/LHreports/status/1615743769604722689

    • Angekettet auf der Fähre

      Wie Italien illegal Flüchtlinge abschiebt
      Inhalt

      Fährschiffe transportieren tausende Touristen zwischen Italien und Griechenland. Unter Deck passiert gleichzeitig Unmenschliches: Flüchtlinge werden angekettet und in Schächten oder defekten Toiletten eingesperrt.

      SRF Investigativ: «Haben Sie ein Gefängnis auf dem Schiff?»

      Fährschiff-Mitarbeiter: «Ja»

      «Ist das hier, wo die Passagiere sind?»

      «Nein, es ist in der Garage vier, dort ist das Gefängnis.»

      Italien schiebt die Flüchtlinge illegal ab, das heisst ohne die nötigen Abklärungen. Pushback nennt sich das. Die italienischen Behörden verstossen dabei gegen Verfahrensregeln und es wird teilweise auch Gewalt angewandt.

      Das zeigt eine Recherche, die SRF in Kooperation mit Lighthouse Reports, Al Jazeera,ARD Monitor und Domani durchgeführt hat. Das Rechercheteam hat mit gut einem Dutzend Pushback-Opfern gesprochen, mit Schiffsmitarbeitenden, Grenzpolizistinnen und Experten. Erstmals gibt es auch Bilder und Videos von geheimen Gefängnissen auf Passagierfähren im Adriatischen Meer.

      Die Illustrationen in diesem Artikel sind anhand zahlreicher Schilderungen von Flüchtlingen nachgezeichnet.

      https://www.srf.ch/news/pushbacks-eingesperrt-auf-der-touristenfaehre-im-mittelmeer

  • #Environnement : Comment les #microplastiques s’infiltrent dans les #aliments que vous mangez - BBC News Afrique
    https://www.bbc.com/afrique/monde-64197280

    Les boues d’épuration sont le sous-produit qui subsiste après l’épuration des eaux usées municipales. Comme elles sont coûteuses à éliminer et riches en nutriments, les boues sont couramment utilisées comme engrais organiques aux États-Unis et en Europe. Dans cette dernière, cela est dû en partie aux directives de l’UE qui encouragent une économie circulaire des déchets. On estime que 8 à 10 millions de tonnes de boues d’épuration sont produites chaque année en Europe, dont environ 40 % épandues sur les terres agricoles.

    En raison de cette pratique, les terres agricoles européennes pourraient constituer le plus grand réservoir mondial de microplastiques, selon une étude réalisée par des chercheurs de l’université de Cardiff. Cela signifie qu’entre 31 000 et 42 000 tonnes de microplastiques, soit 86 000 à 710 000 milliards de particules microplastiques, contaminent chaque année les terres agricoles européennes.

    […]

    Un rapport de l’Agence britannique pour l’environnement, révélé par la suite par le groupe de campagne environnementale Greenpeace, a révélé que les déchets d’égouts destinés aux terres agricoles anglaises étaient contaminés par des polluants, notamment des dioxines et des hydrocarbures aromatiques polycycliques, à des « niveaux pouvant présenter un risque pour la santé humaine ».

    Une expérience menée en 2020 par Mary Beth Kirkham, agronome à l’université du Kansas, a révélé que le plastique sert de vecteur à l’absorption par les plantes de produits chimiques toxiques tels que le cadmium. « Dans les plantes où le cadmium était présent dans le sol avec le plastique, les feuilles de blé avaient beaucoup plus de cadmium que dans les plantes qui ont poussé sans plastique dans le sol », avait alors déclaré Kirkham.

    Les recherches montrent également que les microplastiques peuvent retarder la croissance des vers de terre et leur faire perdre du poids. Les raisons de cette perte de poids ne sont pas entièrement comprises, mais une théorie veut que les microplastiques puissent obstruer le tube digestif des vers de terre, limitant leur capacité à absorber les nutriments et limitant ainsi leur croissance. Selon les chercheurs, cela a également un impact négatif sur l’environnement au sens large, car les vers de terre jouent un rôle essentiel dans le maintien de la santé des sols. Leur activité de fouissement aère le sol, empêche l’érosion, améliore le drainage de l’eau et recycle les nutriments.

    Les particules de plastique peuvent également contaminer directement les cultures alimentaires. Une étude réalisée en 2020 a révélé la présence de microplastiques et de nanoplastiques dans les fruits et légumes vendus par les supermarchés et dans les produits vendus par les vendeurs locaux à Catane, en Sicile (Italie). Les pommes étaient les fruits les plus contaminés, et les carottes présentaient les niveaux les plus élevés de microplastiques parmi les légumes échantillonnés.

    • Ma voisine m’a gentiment offert une boite de rochers ferrero pour Noël, il faut que j’arrive à lui dire qu’une fois les 12 sucreries évaporées l’énorme boite en plastique transparente incassable qui les contenait va partir polluer rivières, champs, terre et air. Je n’arrive pas à comprendre que soient interdits les sacs plastiques quand dans le même temps les emballages plastiques continuent de pulluler. Et ça me chamboule d’avoir refusé toute ma vie de bosser pour la pétro chimie, le nucléaire, l’armée la pub ou les banques, d’avoir bouffé misère pour mes idées et de ne pas pouvoir refuser ce cadeau empoisonné au risque de vexer une vieille dame gentille.

      #ferrero_pollueur
      #nanoplastiques

    • j’entendais dans la radio France Inter l’autre fois le patron d’une fondation scientifique écoterroriste qui ausculte les mers du globe en bateaux dire que la pollution au plastique des océans et de l’air au dessus, ils comprenaient pas bien comment ça pouvait être aussi massif, jusqu’à récemment encore ; et puis ils ont remonté le flux. En fait, ça vient des terres émergées, dont agricoles, pourries par les humains depuis plus de 50 ans ; la pluie emporte le plastoc dans les rivières, qui vont dans les fleuves, qui vont dans la mer. Bingo !

      déjà en 2020 sur France Q. : https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/de-cause-a-effets-le-magazine-de-l-environnement/des-fleuves-a-l-ocean-itineraire-d-un-plastique-ravageur-7634967

      avec lien sur la fondation Tara (écoterroristes des mers) : https://oceans.taraexpeditions.org

      quelques chiffres sur le plastoc - ❤️ since 1950 : https://seenthis.net/messages/986864

    • L’usure des pneus contribuerait aussi pour une part très importante à cette pollution. Combien million (milliard ?) de tonne de caoutchouc se sont répandus en poussière dans les fossés bordant les routes ? Fossés qui aboutissent tous dans un cour d’eau.

  • Titane, pétrole, fer, gaz, manganèse… Le contrôle des ressources fossiles et des minerais enfouis dans le territoire ukrainien est au cœur du conflit.
    Origine de ces informations : Reporterre https://reporterre.net/Un-enjeu-cache-de-la-guerre-en-Ukraine-les-matieres-premieres

    Les médias qui font semblant de nous informer sur ce qui se passe en Ukraine en sont à parler d’affrontements religieux entre la catholicisme et la religion orthodoxe. Une guerre de religion en somme.

    Et pourtant,
    L’accaparement des matières premières enfouies sous le sol ukrainien est à la racine d’un conflit où les voix des puissances nationales et industrielles priment sur celles des Ukrainiens.

    Depuis 2014, le rapprochement des gouvernements ukrainiens avec les puissances occidentales a permis aux États-Unis et à l’Union européenne de planifier l’extraction des matières premières de ce pays richement doté.

    En 2010, d’importants gisements de #gaz_de_schiste ont été découverts en Ukraine. En 2013, les permis ont été attribués aux sociétés étasuniennes #Shell et #Chevron. Sur fond de corruption.

    Le gigantesque projet d’extraction de Yuzivska a déclenché l’opposition des habitants de la région, qui se sont mobilisés contre les pollutions des eaux qui résulteraient de la fracturation hydraulique.

    Au même moment, l’exploitation d’hydrocarbures à l’est de la Crimée visant à produire 3 millions de tonnes de #pétrole par an démarre.
    L’annexion de la Crimée », par la Russie a mis cette exploitation pétroliére en stand by.

    Les conquêtes de 2014 ont permis à la Russie « de contrôler la moitié du pétrole conventionnel de l’Ukraine, 72 % de son #gaz naturel, et l’essentiel de sa production et de ses réserves de charbon ». Ces dernières sont situées dans le Donbass.

    Le sous-sol du pays recèle des gisements considérables estimés par les services de géologie ukrainiens à une valeur de 7 500 milliards de dollars.

    L’Ukraine est classée au cinquième rang mondial pour ses réserves en #fer, en #graphite et en #manganèse — deux éléments critiques pour la production de batteries électriques.

    Elle est aussi sixième productrice mondiale de #titane, métal stratégique pour la production aéronautique, et recèle d’importants gisements de #lithium, de #cuivre, de #cobalt et de #terres_rares.

    Il y a aussi du #zirconium, utilisé aux trois quarts pour le nucléaire ; de #scandium, sous-produit de la métallurgie du titane utilisé dans les piles à combustible et les alliages ultralégers de l’aéronautique ; ou encore de #molybdène, employé dans les superalliages, les écrans et les puces électroniques.

    Pour la fabrication de semi-conducteurs, l’industrie étasunienne est par ailleurs dépendante à 90 % du #néon de qualité ultrapure produit à Odessa à partir du gaz issu des acieries.

    L’Ukraine s’était engagée à privatiser ses mines et son industrie métallurgique, à collaborer avec les services géologiques européen.

    À partir de 2016, le gouvernement ukrainien a commencé à vendre ses permis miniers par le biais d’enchères électroniques.

    Tous ces gisements de minerais sont aussi stratégiques pour les pays de l’Otan qu’ils le sont pour la Russie.

    L’agression russe de l’Ukraine a donc aussi pour toile de fond cet affrontement pour l’approvisionnement en matières critiques, dont la première victime est la population ukrainienne.

    En ce moment, tout le monde promet ou prête de l’argent à l’Ukraine.

    Quelle marge de manœuvre restera-t-il aux dirigeants du pays quand il faudra rembourser les dizaines de milliards d’euros de prêts contractés auprès de la BERD, de la Banque mondiale, des États-Unis et des pays européens qui convoitent ses ressources naturelles ?

    Une fois la guerre terminée, les Ukrainiens n’auront-ils pas la mauvaise surprise de découvrir que pendant qu’ils tentaient de survivre aux assauts et aux bombardements russes, leurs régions ont été vendues aux entreprises minières et gazières ?

    #ukraine #économie #guerre #otan #usa #énergie #ue #géopolitique #matières_premières #Russie #Donbass

  • #Brésil Tout va bien pour le patronat : Lula nomme #Fernando_Haddad #ministre_des_Finances. La prédation va donc pouvoir se poursuivre sans trop de modération.

    Poliment, le président de la Fédération brésilienne des banques (Febraban), Isaac Sydney, a estimé vendredi que le ministre s’était déjà engagé à concilier « l’agenda social et la responsabilité budgétaire ».
    « Il ne va provoquer aucun stress sur les marchés. Il a un profil libéral, ouvert au dialogue. Il déteste le radicalisme. Il ne présente aucun risque, y compris sur le front budgétaire », estime Octavio de Barros, vice-président de la Chambre de commerce France-Brésil.

    (Les Échos)

  • La Route des Samouni

    Dans la périphérie rurale de la ville de Gaza City, la famille Samouni s’apprête à célébrer un mariage. C’est la première fête depuis la dernière guerre. Amal, Fouad, leurs frères et leurs cousins ont perdu leurs parents, leurs maisons et leurs oliviers. Le quartier où ils habitent est en reconstruction. Ils replantent des arbres et labourent les champs, mais une tâche plus difficile encore incombe à ces jeunes survivants : reconstruire leur propre mémoire. Au fil de leurs souvenirs, Samouni Road dresse un portrait de cette famille avant, pendant et après l’événement qui a changé leur vie à jamais.

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/52502_0

    Zeitoun incident

    The Zeitoun incident refers to the Israeli military incursion, led by the Givati Brigade unit of the Israel Defense Forces (IDF),[1] into the Zeitoun district of Gaza as part of the three-week 2008-09 Gaza War. In the Arab world, the name Zeitoun District Massacre (Arabic: مجزرة حي الزيتون)[2] is used to refer to any of the incidents in Zeitoun. A total of 48 residents of Zeitoun were killed, most of them women, children, and the elderly;[3] 27 homes, a mosque and a number of farms were destroyed by Israeli forces.[1]

    The New York Times reported that during the three-week conflict “few neighborhoods suffered more than Zeitoun.”[4] A report released by United Nations Office for Humanitarian Affairs stated that the attack on the Samouni family, who were among the Zeitoun victims, was one of the “gravest incidents” in the conflict.[4] According to Haaretz, the IDF delayed rescue services from reaching some of the casualties for three days of the incident.[5]

    Zeitoun residents believed that because the area is a natural choke point where the Gaza strip narrows to just four miles wide, Israeli troops turned their neighborhoods into a military base from which to launch their operations. The IDF has refused to discuss individual charges in detail, but an army spokesman speaking on the condition of anonymity with The Los Angeles Times said, “As a matter of policy, we do not target civilians.” He added, “These situations are very complex and our soldiers do the best they can.”[6]

    Lt. Col. (ret.) Jonathan D. Halevi of the Jerusalem Center for Public Affairs, an Israeli think tank and advocacy organisation, said that printed flyers from Palestinian Islamic Jihad and its associated websites named five members of the Samouni extended family as being affiliated with the group in some role. Halevi also states that militants from that organisation were operating in the area around the time Israeli tanks began shelling the group of homes belonging to the Samouni extended family.[7][8][9]

    According to the New York Times, members of the Samouni family “did not deny that Hamas militants operated in the area. A family member said there was no active Hamas resistance in the immediate vicinity, although militants were firing rockets at Israel a little more than a mile away.”[4] Newsweek reported that the survivors of Zeitoun all insisted that they were simply farmers and that their area had never been used to fire rockets.

    https://en.wikipedia.org/wiki/Zeitoun_incident

    #film #documentaire #film_documentaire

    #Zeitoun #Gaza #guerre #destruction #arbres #Palestine #massacre #violence #Zeitoun_incident #travail #chômage #o4_janvier_2009 #fermeture_des_frontières #Israël

  • Que prévoit la #France pour les 230 migrants de l’#Ocean_Viking ?

    Les migrants arrivés vendredi à #Toulon font l’objet d’un suivi sanitaire, et de contrôles de sécurité, avant d’être entendus par l’#Ofpra dans le cadre d’une #procédure_d’asile à la frontière. Pendant tout ce temps, ils sont maintenus dans une « #zone_d'attente ». Des associations dénoncent ces conditions d’accueil.

    Si les 230 migrants sauvés par l’Ocean Viking ont bien débarqué en France, vendredi 11 novembre, dans le port de Toulon (http://www.infomigrants.net/fr/post/44677/locean-viking-et-ses-230-migrants-accostent-a-toulon-en-france), ils ne se trouvent « pas techniquement sur le sol français », comme l’a indiqué le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin.

    En effet, les autorités françaises ont choisi de les placer dans une « zone d’attente », définie jeudi soir dans la zone portuaire de Toulon et sur un #centre_de_vacances de la #presqu’île de #Giens à #Hyères, où les exilés sont hébergés pour l’occasion. Un « #centre_administratif » dont ils n’ont pas le droit de sortir.

    Le maintien des personnes dans ce lieu peut durer 26 jours au maximum d’après la loi française.

    « Un système d’#enfermement de #privation_de_liberté et non d’accueil »

    Un dispositif dénoncé par plusieurs associations, dont l’Anafé qui défend les étrangers aux frontières. Interrogée par InfoMigrants, sa directrice Laure Palun souligne que c’est « un système d’enfermement de privation de liberté et non d’accueil, qui pose question quant aux conséquences sur des personnes vulnérables ».

    Gérad Sadik, responsable national de l’asile à La Cimade, estime, quant à lui, que cette #zone_temporaire est « illégale » car ce dispositif est normalement réservé aux espaces situés sur une frontière, dans les aéroports par exemple.

    Une centaine de « #Zones_d'attente_pour_personnes_en_instance » (#ZAPI) existe actuellement en France. Plusieurs associations dont l’Anafé, la Cimade et la Croix-Rouge interviennent dans ces lieux où patientent les étrangers qui ne sont pas autorisés à entrer sur le territoire, pour leur porter une assistance juridique, sanitaire et sociale.

    Mais, concernant les migrants de l’Ocean Viking, la Cimade s’inquiète de ne pas avoir accès aux personnes retenues dans la zone d’attente. Gérard Sadik affirme que l’entrée leur a été refusée. Il alerte également sur le fait que les mineurs non accompagnés ne doivent pas être placés dans ces zones d’attente, or 42 jeunes dans ce cas se trouvaient à bord de l’Ocean Viking selon SOS Méditerranée.

    Dans cette zone d’attente, les migrants feront l’objet d’un suivi sanitaire, puis de contrôles de sécurité des services de renseignement, avant d’être entendus par l’Office français de protection des réfugiés (Ofpra), qui examine les demandes d’asile et décide ou non d’attribuer le statut de réfugié.

    Procédure d’asile à la frontière comme dans les #aéroports

    La France, qui veut décider « très rapidement » du sort des migrants de l’Ocean Viking, a choisi d’appliquer la procédure d’asile à la frontière.

    Habituellement une demande d’asile française est d’abord enregistrée en préfecture, déposée auprès de l’Ofpra sous forme de dossier puis s’ensuit une convocation à un entretien, et entre trois à six mois mois d’attente avant la réponse.

    Mais dans le cas des migrants de l’Ocean Viking, l’Etat a choisi d’appliquer une #procédure_exceptionnelle qui prévoit qu’un agent de la mission asile frontière de l’Ofpra mène un entretien avec ces personnes dans un délai de 48 heures ouvrées afin d’évaluer si la demande d’asile n’est pas « #manifestement_infondée ».

    Cela peut poser problème, car cette notion floue et présentée sous une forme alambiquée laisse un large champ aux autorités françaises pour refuser l’entrée d’une personne, soulèvent les associations d’aide aux migrants.

    « En théorie, l’examen du caractère manifestement infondé ou non d’une demande d’asile ne devrait consister à vérifier que de façon sommaire si les motifs invoqués par le demandeur correspondent à un besoin de protection », soulignait l’Anafé, interrogée par InfoMigrants début novembre sur cette même procédure très régulièrement appliquée sur l’île de La Réunion. « Il ne devrait s’agir que d’un examen superficiel, et non d’un examen au fond, de la demande d’asile, visant à écarter les personnes qui souhaiteraient venir en France pour un autre motif (tourisme, travail, étude, regroupement familial, etc.) en s’affranchissant de la procédure de délivrance des visas », précisait l’association.

    Difficile donc pour des migrants tout juste arrivés après plusieurs semaines d’errance en mer, et parfois la perte de leurs papiers d’identité lors des naufrages, de prouver le fondement de leur demande lors d’un entretien de quelques minutes. D’autres considérations rentrent aussi en ligne de compte lors de ce type d’entretiens, notamment la langue parlée, et la qualité de la traduction effectuée par l’interprète de l’Ofpra.

    Pour accélérer encore un peu plus la procédure, « l’Ofpra a prévu de mobiliser dès ce week-end seize agents pouvant réaliser jusqu’à 90 entretiens par jour », a insisté vendredi le directeur général des étrangers (DGEF) au ministère de l’Intérieur, Eric Jalon.

    Après avoir mené ces entretiens, l’Ofpra donne un avis au ministère de l’Intérieur qui autorise ou non les migrants interrogés à déposer leur demande d’asile. Dans la plupart des cas, les personnes soumises à ce type de procédure échouent avec un taux de refoulement de 60%, indique l’Anafé.

    « Doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement »

    « Pour les personnes dont la demande d’asile serait manifestement infondée, qui présenteraient un risque sécuritaire, nous mettrons en œuvre (...) les procédures d’#éloignement pour qu’elles regagnent leur pays d’origine », a prévenu Eric Jalon. Le ministère de l’Intérieur affirme également que des contacts ont déjà été pris avec les pays d’origine de ces rescapés.

    D’après les informations dont dispose InfoMigrants, les rescapés de l’Ocean Viking sont majoritairement originaires du Bangladesh, d’Érythrée et de Syrie, mais aussi d’Égypte, du Pakistan et du Mali notamment.

    « Nous avons des doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement », fait savoir Laure Palun, « car il faut que la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer.

    Deux-tiers des personnes ne resteront de toute façon pas en France, puisqu’elles seront relocalisées dans neuf pays, a précisé le ministère, citant l’#Allemagne qui doit en accueillir environ 80, le #Luxembourg, la #Bulgarie, la #Roumanie, la #Croatie, la #Lituanie, #Malte, le #Portugal et l’#Irlande.

    Si une personne se voit refuser l’entrée sur le territoire par le ministère de l’Intérieur, un recours juridique est possible. Il s’agit du recours contre le refus d’admission sur le territoire au titre de l’asile à déposer dans un délai de 48 heures à compter de la notification de la décision de refus prise par le ministère de l’Intérieur, explique la Cimade.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/44696/que-prevoit-la-france-pour-les-230-migrants-de-locean-viking
    #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Italie #ports #ports_fermés #frontières #relocalisation #renvois #expulsions

    ping @isskein @karine4 @_kg_

    –—

    ajouté à la métaliste autour de la création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

    • À peine débarqués, les rescapés de l’« Ocean Viking » sont privés de liberté

      C’est sous #escorte_militaire que le navire de #SOS_Méditerranée a pu s’amarrer à Toulon. Les migrants, dont des enfants, ont été transférés dans une « zone d’attente », soit un lieu de privation de liberté. Un député LFI, qui a pu y entrer, a vu « des humains au bord du gouffre ».

      Deux places, deux ambiances pour l’arrivée du bateau de SOS Méditerranée, vendredi, à Toulon. Sur le quai Cronstadt, en fin de matinée, une centaine de personnes se sont rassemblées pour affirmer un message de bienvenue aux 230 exilé·es secouru·es par l’Ocean Viking. Les slogans, cependant, n’ont pas pu être entendus des concerné·es, puisque le gouvernement a organisé leur réception au port militaire, loin des regards, y compris de ceux de la presse.

      Deux heures plus tard, quelques dizaines de soutiens d’Éric Zemmour ont tenu le pavé devant l’entrée de l’arsenal, tandis que leur chef déclamait un énième discours xénophobe devant un mur de caméras. Outre #Marion_Maréchal-Le Pen, il était accompagné d’anciens de #Génération_identitaire, dont l’Aixois #Jérémie_Piano, récemment condamné à huit mois de prison avec sursis pour des faits de violence au siège de SOS Méditerranée en 2018.

      Jeudi, Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur, avait annoncé l’autorisation donnée à l’Ocean Viking de débarquer à Toulon, après trois semaines d’errance en mer dans l’attente d’un port sûr que lui ont refusé Malte et l’Italie. Le navire et ses 230 passagers et passagères, dont 13 enfants accompagnés et 44 mineur·es sans famille, s’est amarré à 8 h 50 ce vendredi. Son entrée en rade de Toulon s’est faite sous escorte de plusieurs bateaux militaires et d’un hélicoptère. Puis les personnes ont été acheminées dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, transformé en « zone d’attente » provisoire. Autrement dit : aux yeux de l’administration, les rescapé·es de l’Ocean Viking ne sont pas entré·es sur le territoire français.

      Des bus sont chargés de les conduire « sous #escorte_policière jusqu’au site d’hébergement situé sur la commune d’Hyères », a précisé le préfet du Var, Evence Richard à l’occasion d’une conférence de presse. Les personnes y seront privées de leur liberté, le temps de l’évaluation de leur situation, et sous la #garde_policière de quelque 200 agents.

      Des centaines de policiers

      Le représentant de l’État annonce d’importants moyens mis en place par ses services pour répondre à un triptyque : « #dignité_humanitaire ; #sécurité ; #rigueur et #fermeté ». 600 personnes en tout, forces de l’ordre comprises, vont se consacrer à cet « accueil » prévu pour un maximum de 26 jours. La prise en charge médicale est assurée par les services des pompiers et du Samu.

      D’un point de vue administratif, le ministère veut d’abord « évaluer les #risques_sécuritaires », via des entretiens menés par la direction générale de la sécurité intérieure (DGSI), selon les mots d’Éric Jalon, directeur général des étrangers en France, présent au côté du préfet. La mise en avant de cet aspect est un gage donné par Gérald Darmanin à l’extrême droite.

      Ensuite, si les personnes demandent l’asile et rentrent dans les critères, elles pourront, pour un tiers seulement des adultes, rester en France ou bien être « relocalisées », selon le jargon administratif, dans au moins neuf autres pays européens : Allemagne, Luxembourg, Bulgarie, Roumanie, Croatie, Lituanie, Malte, Portugal et Irlande.

      Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), l’instance dépendant du ministère de l’intérieur chargée d’attribuer ou non le statut de réfugié, évalueront les situations « sous 48 heures », insistent les hauts fonctionnaires. Une procédure express réservée aux « zones d’attente », ces sites habituellement installés dans les aéroports, les ports ou à des postes-frontières, régulièrement dénoncés par des associations comme des lieux où les droits de certains étrangers et étrangères sont bafoués.

      Si les personnes ne demandent pas l’asile, si l’Ofpra rejette leur demande ou si elles sont considérées comme présentant un risque pour la sécurité, le ministère de l’intérieur s’efforcera de les renvoyer dans leur pays d’origine. « Des contacts ont d’ores et déjà été pris avec les pays vers lesquels les personnes ont vocation à retourner », affirme Éric Jalon.

      Les 44 mineur·es non accompagné·es déclaré·es par SOS Méditerranée, pour leur part, verront leur situation évaluée par les services de l’Aide sociale à l’enfance du Var. Si celle-ci ne met pas en cause leur minorité, ils pourront quitter la zone d’attente et être sous la protection du département, comme la loi l’impose.

      Des parlementaires interdits d’accès au quai

      Venue à Toulon pour observer, Laure Palun, de l’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers), organisation active pour défendre les droits des étrangers et étrangères en zones d’attente, critique la méthode. « Il n’y a pas assez d’agents de l’Ofpra formés aux demandes d’asile formulées à la frontière. Il risque d’y avoir plein d’erreurs, dit-elle. Et puis, pour des gens qui ont failli se noyer, qui sont restés autant de temps sur ce bateau, comment pourront-ils être opérationnels dès demain pour faire un récit de vie qui va être crédible aux yeux des autorités françaises ? »

      Sur le plan humain, « enfermer ces personnes, c’est rajouter une couche de #violence à ce qu’elles ont déjà vécu. La zone d’attente n’est pas un lieu qui permet d’aborder sereinement l’asile. Je ne suis pas certaine qu’il y aura une prise en charge psychologique », juge la responsable associative. Dans de nombreuses zones d’attente temporaire habituellement mises en place dans les départements d’outre-mer, l’association a observé que l’information sur la demande d’asile n’est pas toujours donnée aux individus. « C’est une obligation d’informer les étrangers de leurs droits », assure pour sa part Éric Jalon.

      Des rescapés harassés, pieds nus, sans pantalon

      L’opération du gouvernement interpelle aussi par le secret qu’elle s’évertue à organiser. En dehors des agents de l’État, personne n’a eu accès à l’arsenal vendredi, une zone militaire, donc confidentielle. Le député de Marseille Sébastien Delogu (La France insoumise – LFI) s’est vu refuser l’accès à l’Ocean Viking, alors que la loi autorise n’importe quel parlementaire à visiter une zone d’attente à l’improviste, et que celle créée dans le village vacances englobe « l’emprise de la base navale de Toulon », d’après l’arrêté publié vendredi par le préfet.

      Le gouvernement prétend faire primer, semble-t-il, le secret défense. « Moi je ne viens pas pour faire du théâtre comme l’extrême droite, je veux exercer mon droit de parlementaire, s’agace le député insoumis. J’ai aussi été élu pour ça. Sinon, qui a un droit de regard ? » Son collègue Hendrik Davi (LFI) a également été repoussé.

      Plus tard, Sébastien Delogu a pu, tout de même, se rendre au village vacances et « constater toute la souffrance et la détresse physique et mentale dans laquelle se trouvent les rescapés ». « Ces jeunes hommes et femmes sont épuisés, parfois pieds nus ou sans pantalon, harassés par ce périple durant lequel ils ont tout quitté et risqué leur vie. Je n’ai vu que des humains au bord du gouffre, a-t-il précisé, à la sortie, dans un communiqué. Nous ne céderons pas un centimètre d’espace politique aux fascistes qui instrumentalisent ces drames pour propager la haine et la xénophobie. »

      Entre soulagement et amertume, les responsables de SOS Méditerranée ont quant à eux fustigé vendredi des blocus de plus en plus longs imposés à leur navire, au détriment de la sécurité physique et psychologique des naufragé·es recueilli·es à bord. Comme elle le fait depuis sept ans, l’ONG a appelé à la (re)constitution d’une flotte européenne pour faire du sauvetage en Méditerranée centrale et à la mise en place d’un processus de solidarité entre États européens pour la répartition des personnes secourues, qui respecte le droit maritime (soit un débarquement dans le port sûr le plus proche).

      Les finances de l’association étant en baisse à cause de l’explosion des coûts due à l’inflation et à la diminution des dons reçus, elle a relancé un appel aux soutiens. « Dans l’état actuel de nos finances, on ne peut continuer encore que quelques mois, précise sa directrice Sophie Beau. Depuis le premier jour, SOS Méditerranée est essentiellement soutenu par la société civile. » Si quelques collectivités complètent le budget par des subventions, l’État français, lui, ne verse évidemment pas un centime.

      « C’est essentiel qu’on retourne en mer, déclare Xavier Lauth, directeur des opérations de SOS Méditerranée. Parce qu’il y a eu déjà au mois 1 300 morts depuis le début de l’année [en Méditerranée centrale, face à la Libye – ndlr]. » Le décompte de l’Organisation internationale pour les migrations (liée à l’ONU) a précisément dénombré 1 912 personnes disparues en Méditerranée depuis le début de l’année, que les embarcations aient visé l’Italie, la Grèce ou encore l’Espagne. Et depuis 2014, plus de 25 000.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/111122/peine-debarques-les-rescapes-de-l-ocean-viking-sont-prives-de-liberte

    • Le jour où la France n’a pas (vraiment) accueilli l’Océan Viking…

      Après trois semaines à errer, sans qu’on lui assigne de port où débarquer les 234 rescapés secourus en mer, l’Océan Viking, de Sos-Méditerranée, a enfin accosté à Toulon. Entre soulagement et indignation, les associations dénoncent l’instrumentalisation politique de cette crise et les défaillances des États membres de l’Union Européenne.

      « Le sauvetage que nous avons débuté le 22 octobre n’est toujours pas terminé », c’est en substance ce qu’explique Louise Guillaumat, directrice adjointe des opérations de SOS-Méditerranée, lors de la conférence de presse tenue, le vendredi 11 novembre à midi. À cette heure, plus de la moitié des rescapés tirés des eaux par l’ONG, trois semaines auparavant, sont toujours à bord de l’Océan Viking, qui a accosté le matin même, sur le quai de l’artillerie de la base navale varoise.

      Au soleil levant, sur le quai Cronstadt, au pied du « cul-vers-ville », une statue évoquant le génie de la navigation, les caméras de télévision se sont frayé une place parmi les pêcheurs matinaux. Il est 7 h 00, le bateau de Sos-méditerranée est à moins de six miles marins des côtes toulonnaises. Il accoste deux heures plus tard. Pourtant, les 231 exilés à son bord ne sont pas accueillis par la France.
      44 enfants isolés

      « Les passagers ont été placés en zone d’attente. Ils n’ont pas été autorisés à entrer sur le territoire national. » explique Éric Jalon, préfet, et directeur général des étrangers en France (DGEF). Le port militaire et le centre où vont être hébergés les exilés ont été, par décret, définis, la veille, comme « zone d’attente provisoire » gérée par la Police des airs et des frontières (PAF). « Des évaluations de leur état de santé sont faites dès leur descente du navire », promet le préfet.

      Après quoi, ils sont conduits en bus dans un centre de vacances, mis à disposition par la Caisse centrale d’activités sociales (CCAS) des agents des industries électriques et gazières en France, en solidarité avec les personnes réfugiées. Une fois là-bas, ces dernières, parmi lesquelles 44 mineurs isolés, doivent pouvoir formuler une demande d’asile en procédure accélérée.

      « Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) ont été détachés sur place pour y mener des entretiens », poursuit le DGEF. Ceux pour qui la demande d’asile sera jugée « irrecevable et manifestement infondée » feront l’objet de reconduites dans leur pays d’origine. Ce n’est qu’après cette procédure, pouvant durer jusqu’à 26 jours, que les autres pourront alors prétendre à demander l’asile en France ou dans un des neuf pays de l’union européenne s’étant déclaré prêt à en accueillir une partie.
      Une façon de détourner le règlement de Dublin

      « Ce n’est pas ce que prévoit le droit dans l’état », pointe Laure Palun, la directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), présente au rassemblement organisé sur le port, en milieu de matinée, par les associations, syndicats et partis solidaires des exilés. « Les demandeurs d’asile doivent normalement être accueillis sur le territoire d’un État avant leur relocalisation. » explique-t-elle.

      Le choix fait par la France est une façon de détourner le règlement de Dublin qui prévoit qu’une demande d’asile ne puisse être étudiée que par le pays de première entrée du candidat. Et ce n’est pas la seule entorse à la loi que revêt le dispositif « exceptionnel » mise en place par Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur. « Ce matin, on nous a refusé l’entrée dans la zone d’attente alors que nous sommes une des associations agréées pour y accéder en tant qu’observateur », dénonce ainsi la responsable associative. La loi prévoit, d’ailleurs, dans le même cadre un libre accès aux parlementaires. Le député LFI de la 7e circonscription de Marseille, Sébastien Delogu, s’est porté volontaire ce matin. Mais « le cabinet de Sébastien Lecornu, ministre des armées, nous interdit l’accès au port », confia-t-il, en début d’après-midi, au téléphone depuis le bureau du préfet maritime. Même les membres de Sos-Méditerranée n’ont pas pu venir à la rencontre de leur équipage bloqué en mer depuis 21 jours.
      L’indignité monte d’un cran

      « La France a su accueillir dignement les réfugiés venus d’Ukraine », rappelle Olivier Masini, secrétaire général de l’UD CGT du Var, alors que plusieurs centaines de militants entament une marche solidaire en direction du théâtre de la liberté où les représentants de SOS-Méditerranée tiennent leur conférence de presse. « Nous sommes ici pour affirmer les valeurs humanistes de notre syndicat et pour demander que les réfugiés débarqués aujourd’hui puissent bénéficier d’un traitement similaire. »

      C’est avec les traits tendus par la colère et la fatigue que les quatre dirigeants de l’Ong de sauvetage en mer accueillent leur auditoire. « Les États Européens négligent depuis sept ans la situation » , lance Sophie Beau, Co-fondatrice de SOS-Méditerranée. « Il est temps que soit mis en place un véritable mécanisme opérationnel et pérenne de répartition des exilés secourus en Méditerranée centrale. L’instrumentalisation politique de cette crise est indigne des démocraties européennes. »

      L’#indignité est d’ailleurs montée d’un cran en début d’après-midi, lorsque devant l’arsenal, les représentants du parti d’extrême-droite, Reconquête, sont venus s’exprimer devant une poignée de groupies haineux. Pas de quoi décourager, cependant, les sauveteurs de Sos-Méditerranée. «  Je préfère rester optimiste, reprend Sophie Beau. Les citoyens européens sont porteurs de solidarité. Nous repartirons rapidement en mer pour continuer notre mission de sauvetage. Et dans le contexte économique actuel, nous avons plus que jamais besoin du soutien de la société civile… Répondez à ce SOS. »

      https://www.humanite.fr/societe/ocean-viking/le-jour-ou-la-france-n-pas-vraiment-accueilli-l-ocean-viking-770755#xtor=RS

      #migrerrance

    • « Ocean-Viking », un désastre européen

      Editorial du « Monde » . Les trois semaines d’errance du navire humanitaire, qui a fini par accoster à Toulon sur fond de crise diplomatique entre la France et l’Italie, rappellent l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains.

      L’Union européenne (UE) n’avait pas besoin de cela. Déjà aux prises avec une guerre à ses portes, une crise énergétique, la montée de l’inflation et les tensions que ce contexte exacerbe entre ses membres, voilà que la terrible errance depuis trois semaines d’un navire humanitaire, l’Ocean-Viking, chargé de migrants secourus en Méditerranée, remet en lumière son incapacité à organiser la solidarité en son sein. Cela sur la principale question qui nourrit l’extrême droite dans chaque pays – l’immigration – et, partant, menace l’avenir de l’Union elle-même.

      Si la France a, finalement, sauvé l’honneur en acceptant que l’Ocean-Viking accoste à Toulon, vendredi 11 novembre, après le refus italien, l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains qui la fondent historiquement – en l’occurrence la sauvegarde de 234 vies, dont celles de 57 enfants – est extrêmement préoccupante.

      Que la France et l’Italie, que rapprochent mille liens historiques, géographiques et humains, en viennent à s’apostropher par ministres de l’intérieur interposés donne la mesure de la déstabilisation d’un équilibre déjà fragile, consécutif à l’arrivée à Rome de Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien issue de l’extrême droite.

      Sept ans après la crise migratoire de 2015, au cours de laquelle l’UE avait manqué de solidarité à l’égard de l’Italie, y nourrissant la xénophobie, les ingrédients du malaise sont toujours là. Même si les migrants de l’Ocean-Viking doivent être répartis dans l’UE, le fragile système de partage des demandeurs d’asile dans une douzaine d’Etats européens, obtenu par la France en juin, qui n’a jusqu’à présent connu qu’une application homéopathique, a déjà volé en éclats avec l’Italie.

      Volte-face

      Pour l’exécutif français, enclin à présenter l’Union européenne comme un facteur de protection, le scénario de l’Ocean-Viking est également désastreux. S’il a pris en définitive la bonne décision, il semble s’être fait forcer la main par le gouvernement italien. Alors qu’Emmanuel Macron avait refusé en 2018 l’accostage de l’Aquarius, un autre bateau humanitaire, pour ne pas « faire basculer le pays vers les extrêmes », sa volte-face intervient alors que le Rassemblement national, avec ses 89 députés, a renforcé son emprise sur la vie politique.

      Si le dénouement de Toulon devrait logiquement être salué à gauche, il risque de compromettre le ralliement déjà incertain de la droite au projet de loi sur l’immigration, construit sur un équilibre entre régularisation de travailleurs étrangers et fermeté sur les mesures d’éloignement.

      Le poids des images et des symboles – le navire chargé de malheureux, le débarquement sous escorte militaire – ne saurait cependant faire perdre la véritable mesure de l’événement : l’arrivée de quelques dizaines de demandeurs d’asile est bien loin de déstabiliser un pays comme la France. Une centaine de milliers de réfugiés ukrainiens y sont d’ailleurs accueillis à bras ouverts. Comme eux, les migrants venus d’autres continents ont droit à un examen sérieux de leur demande d’asile.

      Les difficultés d’intégration, les malaises et les craintes que suscite l’immigration dans l’opinion sont évidents et doivent être sérieusement écoutés et pris en compte. Mais, alors que l’extrême droite fait des migrants le bouc émissaire de tous les dysfonctionnements de la société et tient la mise au ban des étrangers pour la panacée, il faut rappeler que des hommes, des femmes et des enfants sont là, derrière les statistiques et les joutes politiques.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/11/12/ocean-viking-un-desastre-europeen_6149574_3232.html

    • Pour le plein respect des droits et de la dignité des passager.e.s de l’Ocean Viking, pour une véritable politique d’accueil européenne [Communiqué de presse inter-associatif]

      L’accueil de l’Ocean Viking à Toulon en France a été un soulagement face au drame terrible et indigne que vivaient ses passager.e.s depuis plusieurs semaines, balloté.e.s sur les flots en attente d’une décision sur leur possibilité de débarquement.

      Maintenant se pose la question des conditions de l’accueil des passager.e.s.

      Nous demandons la mise en place des dispositions suivantes :

      – Pas de privation de liberté en zone d’attente, qui ne ferait qu’accroitre les souffrances et traumatismes vécus en mer et sur le parcours d’exil ; de nos expériences sur le terrain, le respect des droits des personnes et de leur dignité n’est pas compatible avec l’enfermement de ces dernières, quel que soit le contexte de leur arrivée, et a fortiori après un périple tel que l’on vécut les rescapés de l’Océan Viking.
      En outre, il est inadmissible que le gouvernement ait fait le choix de « fabriquer » une zone d’attente temporaire dans une base militaire, rendant impossible l’accès des associations habilitées et des élu.e.s de la République, sous prétexte de secret défense, ne permettant pas à des personnes en situation de particulière vulnérabilité d’avoir accès à l’assistance minimale que la loi leur reconnaît.

      – Mobilisation d’un centre d’accueil ouvert, permettant de mettre en place l’accompagnement sanitaire, social, et également psychologique nécessaire.

      – Protection immédiate, mise à l’abri et hébergement des passager.e.s, dépôt de demandes d’asile pour toutes les personnes le souhaitant, et examen approfondi de toutes les situations des personnes afin de garantir le respect de l’exercice effectif de leurs droits.

      Plus globalement, pour éviter demain d’autres drames avec d’autres bateaux :

      – Nous rappelons le nécessaire respect du droit international de la mer, en particulier l’obligation de porter secours aux passagers d’un bateau en difficulté, le débarquement des personnes dans un lieu sûr dans les meilleurs délais ainsi que le principe de non-refoulement vers des pays où les personnes encourent un risque d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou dégradants.

      – La solidarité en Europe ne fonctionne pas. Le « mécanisme de solidarité » proposé dans le cadre du pacte européen « migrations et asile » est non seulement non respecté par les pays mais très en-deçà d’une véritable politique d’accueil respectueuse de la dignité des personnes et de leurs droits fondamentaux. L’Italie est à la pointe des égoïsmes nationaux mais globalement les pays européens dans leur ensemble ne sont pas à la hauteur.

      – C’est donc un changement de modèle politique qui est indispensable : passer de politiques européennes fondées sur la fermeture et le repli vis-à-vis des migrant.e.s considéré.e.s comme indésirables pour prôner un autre système :

      > permettre un accès inconditionnel au territoire européen pour les personnes bloquées à ses frontières extérieures afin d’examiner avec attention et impartialité leurs situations et assurer le respect effectif des droits de tou∙te∙s
      > permettre l’accueil des réfugié.e.s non pas sur la base de quotas imposés aux pays, mais sur la base des choix des personnes concernées (selon leurs attaches familiales, leurs compétences linguistiques ou leurs projets personnels), dans le cadre d’une politique de l’asile harmonisée, fondée sur la solidarité entre Etats et le respect inconditionnel des droits fondamentaux.

      http://www.anafe.org/spip.php?article655

    • Zone d’attente de Toulon : violations des droits des personnes sauvées par l’Ocean Viking [Communiqué de presse]

      Depuis 5 jours, l’Anafé se mobilise pour venir en soutien aux personnes enfermées en zone d’attente de Toulon après le débarquement de l’Ocean Viking, le vendredi 11 novembre. Ses constats sont alarmants. Les personnes sauvées par l’Ocean Viking sont victimes de violations de leurs droits fondamentaux dans ce lieu d’enfermement qui n’a rien d’un village de vacances : violations du droit d’asile, personnes portant des bracelets avec numéro, absence d’interprétariat, absence de suivi psychologique effectif, pas de téléphones disponibles et pas de visites de proches, pas d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Violation du droit d’asile
      Toutes les personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon ont demandé l’asile. L’Anafé dénonce le choix des autorités de priver de liberté ces personnes en demande de protection internationale alors que ces mêmes autorités n’ont pas nié l’état psychologique dégradé dans lequel elles se trouvent après un long parcours au cours duquel elles ont failli se noyer et après avoir été débarquées d’un bateau de sauvetage sur lequel elles avaient passé 21 jours. Or, la procédure d’asile à la frontière est une procédure d’asile « au rabais », réalisée dans l’urgence mais aussi dans un lieu d’enfermement, quelques heures seulement après le débarquement.
      Les autorités auraient pu, à l’instar de ce qui a été mis en œuvre l’année dernière à l’arrivée de personnes ressortissantes d’Afghanistan ou lors de l’arrivée de ressortissants d’Ukraine depuis le début d’année, prévoir des mesures d’hébergement et un accès à la procédure de demande d’asile sur le territoire, après un temps de repos et de prise en charge médicale sur le plan physique et psychologique.

      Les conditions d’entretien Ofpra
      Les entretiens Ofpra doivent veiller au respect de la confidentialité des échanges et de la dignité des personnes, tout en prenant en compte leur vulnérabilité. L’Ofpra aurait pu refuser de réaliser les entretiens de personnes à peine débarquées au regard de leur vulnérabilité. Cela n’a pas été le cas. Au contraire, elles ont dû expliquer leurs craintes de persécutions sitôt enfermées en zone d’attente. Surtout, des entretiens se sont déroulés dans des tentes, dont certaines laissant une visibilité depuis l’extérieur et sans respect de la confidentialité des échanges, les conversations étaient audibles depuis l’extérieur. Les autres ont été faits dans des locaux où avaient été réalisés des entretiens avec les services de police, ajoutant à la confusion des interlocuteurs et des rôles. Rien, hormis le petit badge porté par les officiers de protection, ne pouvait les distinguer des policiers en civil ou des associations présents dans le camp.

      L’absence d’interprétariat
      Les personnes ainsi enfermées n’ont pas eu accès à des interprètes. Seulement deux interprètes en arabe étaient présentes lors d’une visite organisée par des sénateurs et un député. Leur rôle : traduire les entretiens avec la police aux frontières. Hormis ces deux interprètes, l’ensemble des entretiens sont effectués via un interprétariat téléphonique assuré par un prestataire, y compris pour les entretiens Ofpra. L’Anafé a pu observer les difficultés de la police aux frontières pour contacter un interprète, faisant parfois appel à une personne maintenue en zone d’attente.
      Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants.

      Des numéros aux poignets
      Les personnes maintenues sont identifiées par des bracelets de couleur au poignet portant un numéro. Les autorités n’ont donc pas hésité à les numéroter sans aucun respect pour leur individualité et leur identité.

      L’absence de suivi psychologique effectif
      L’Anafé a pu constater dans la zone d’attente que si la CUMP83 (cellules d’urgence médico-psychologique) était présente, les conditions d’enfermement ne permettent pas aux infirmiers d’échanger avec les personnes maintenues, les services d’interprétariat téléphonique toujours assurés par le même prestataire étant saturés. De plus, la CUMP83 ne bénéficie pas d’un local adapté pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes mais d’une tente située dans le « village Croix-Rouge » au milieu de la zone d’attente. Cette disposition ne permet donc pas aux personnes maintenues de bénéficier d’un soutien psychologique confidentiel et adapté au traumatisme qu’elles ont subi lors de leur parcours migratoire et des trois semaines passées en mer.
      De plus, si un médecin, une sage-femme et une infirmière étaient présents le samedi 13 novembre 2022, nous avons pu constater le lendemain qu’aucun médecin n’était présent sur le site. Il nous a été indiqué qu’en cas de nécessité, il serait fait appel à SOS Médecin.

      Impossibilité d’avoir des contacts avec l’extérieur, contrairement à la législation régissant les zones d’attente
      Les numéros utiles ne sont pas affichés. Le wifi installé par la Croix-Rouge ne fonctionne pas correctement. Si huit téléphones portables sont disponibles toute la journée, les conversations sont limitées à 5 minutes et jusqu’à 18h environ. Il n’est pas possible d’être appelé sur ces numéros et ils ne servent que dans le cadre du rétablissement des liens familiaux. Hormis ces téléphones, aucune cabine téléphonique n’est prévue sur le site de la zone d’attente. Il n’est donc pas possible pour les personnes maintenues de s’entretenir de manière confidentielle, notamment avec un avocat, une association ou leurs proches. Il est impossible pour les personnes maintenues de se faire appeler de l’extérieur.
      Aucune visite de proche n’est possible en raison de l’absence de de mise en place d’un système de visite ou d’un local dédié.

      L’impossible accès aux avocats et aux associations
      L’Anafé a pu constater que les personnes maintenues n’avaient aucune connaissance de leur droit à contacter un avocat et qu’aucun numéro de téléphone ne leur avait été communiqué, là encore, contrairement à la législation applicable. Après la visite de la Bâtonnière de l’Ordre des avocats de Toulon et des élus, les avocats se sont vu attribuer deux chambres faisant office de bureau qui ne sont équipées ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’internet pour transmettre les recours.
      L’Anafé n’a pas de local pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes maintenues, notamment en faisant appel à un service d’interprétariat. D’après les informations fournies par la protection civile, il n’y avait pas de local disponible.
      Il est donc impossible pour les avocats et pour les associations de défense des droits d’exercer leur mission dans des conditions garantissant la confidentialité des échanges et un accompagnement digne des personnes.

      Toutes ces violations constituent des manquements graves aux droits des personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon. Ces atteintes inacceptables sont le résultat du choix fait par les autorités d’enfermer ces personnes au lieu de les accueillir. Comme à chaque fois que des gens sont enfermés en zone d’attente, leurs droits ne sont pas respectés. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis la création des zones d’attente. Il est temps de mettre fin à ce régime d’enfermement.

      http://www.anafe.org/spip.php?article656

    • Comment l’affaire de l’Ocean Viking révèle l’ambiguïté des « zones d’attente »

      Vendredi 11 novembre, les 234 migrantes et migrants secourus par le navire Ocean Viking ont pu rejoindre la base navale de Toulon, après trois semaines d’errance en mer. Ultime épisode du drame de la migration qui se joue en Méditerranée et dont le déroulement puis le dénouement peuvent donner lieu à plusieurs clés de lecture. Au niveau de la politique et de l’intégration européennes, le bras de fer entre Paris et Rome, rejouant le duel ayant opposé en 2018 Emmanuel Macron avec l’alors Président du Conseil des ministres italien et actuel Vice-Président Matteo Salvini, a souligné les obstacles à l’affirmation de la solidarité européenne sur la question. Au niveau de la politique interne, ensuite, l’on a vu combien la situation de l’Ocean Viking a accusé les clivages entre « humanistes » et partisans de la fermeté.

      Rappelons d’ailleurs que les propos ayant valu l’exclusion pour deux semaines du député du Rassemblement national Grégoire de Fournas ont précisément été tenus à l’occasion de l’allocution d’un député de la France insoumise dénonçant le sort réservé aux passagers du navire humanitaire.

      Le dernier épisode en date dans l’épopée de l’Ocean Viking est également et entre autres justiciable d’une analyse juridique.
      Les limites du droit international de la mer

      Pendant son errance, les difficultés à trouver un lieu de débarquement ont de nouveau souligné les limites d’un droit de la mer peinant à imposer à un État clairement défini d’ouvrir ses ports pour accueillir les rescapés. La décision de laisser les passagers de l’Ocean Viking débarquer à Toulon est également significative. Elle signe certes leur prise en charge temporaire par la France, mais n’emporte pas, du moins dans un premier temps, leur admission sur le territoire français (au sens juridique). Ce dont le ministre de l’Intérieur ne s’est d’ailleurs fait faute de souligner).

      Cette situation permet alors de mettre en exergue l’une des singularités de la conception juridique du territoire, notamment en ce qui concerne la situation des étrangers. Les zones d’attente en sont une claire illustration.
      Les « zones d’attente »

      Les aéroports ont été les premiers espaces où sont apparues ces zones considérées comme ne relevant pas juridiquement du territoire de l’État les accueillant. Le film Le Terminal, dans lequel Tom Hanks campait un iranien ayant vécu plusieurs années à Roissy – où il s’est d’ailleurs éteint ce samedi 12 novembre –, avait en 2004 porté à la connaissance du grand public cette situation.

      En France, les « zones internationales », initialement nimbées d’un flou quant à leur fondement juridique et au sein desquelles les autorités prétendaient par conséquent n’y être pas assujetties au respect des règles protectrices des droits humains, ont cédé la place aux « zones d’attente » à la faveur de la loi du 6 juillet 1992).

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      À une situation d’exclusion – du moins, alléguée par les autorités – du droit, s’est alors substitué un régime d’exception : les personnes y étant maintenues n’étaient toujours pas considérées comme ayant pénétré juridiquement le territoire français.

      N’étant plus – prétendument – placées « hors du droit » comme l’étaient les zones internationales, les zones d’attente n’en restaient pas moins « hors sol ». L’une des conséquences en est que les demandes d’asile qui y sont le cas échéant déposées relèvent alors de l’« asile à la frontière ». Elles sont par conséquent soumises à un régime, notamment procédural, beaucoup moins favorable aux demandeurs (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile CESEDA, Titre V, article L.350-1 à L.352-9).
      La « fiction juridique »

      La « fiction juridique » que constituent les zones d’attente s’étend désormais entre autres aux gares ferroviaires ouvertes au trafic international, aux ports ou à proximité du lieu de débarquement (CESEDA, article L.341-1). Ces « enclaves » au sein du territoire, autour d’une centaine actuellement, peuvent par ailleurs inclure, y compris « à proximité de la gare, du port ou de l’aéroport ou à proximité du lieu de débarquement, un ou plusieurs lieux d’hébergement assurant aux étrangers concernés des prestations de type hôtelier » (CESEDA, article L.341-6).

      Tel est le cas de la zone d’attente créée par le préfet du Var par le biais d’un arrêté, à la suite de l’accueil de l’Ocean Viking.

      « pour la période du 11 novembre au 6 décembre 2022 inclus, une zone d’attente temporaire d’attente sur l’emprise de la base navale de Toulon et sur celle du Village Vacances CCAS EDF 1654, avenue des Arbanais 83400 Hyères (Giens) ».

      Accueillis dans ce Village Vacances dont les « prestations de type hôtelier » ne semblent aucunement correspondre à la caricature opportunément dépeinte par certains, les rescapés demeurent, juridiquement, aux frontières de la France.
      Aux portes du territoire français

      Ils ne se situent pas pour autant, de ce fait, dans une zone de non-droit : placés sous le contrôle des autorités françaises, ils doivent se voir garantir par elles le respect de leurs droits humains. Aux portes du territoire français, les migrantes et migrants secourus par l’Ocean Viking n’en relèvent pas moins de la « juridiction » française comme le rappelle la Cour européenne des droits de l’Homme. La France est ainsi tenue d’observer ses obligations, notamment au regard des conditions de leur maintien contraint au sein de la zone.

      Une partie des rescapés recouvreront leur liberté en étant admis à entrer juridiquement sur le territoire de la France. Tel est le cas des mineurs non accompagnés, dont il est annoncé qu’ils seront pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance.

      Tel est également le cas de ceux qui auront été autorisés à déposer une demande d’asile sur le territoire français et se seront vus, à cette fin, délivrer un visa de régularisation de huit jours. Parmi eux, la plupart (175) devraient être acheminés vers des États européens qui se seraient engagés à les accueillir, vraisemblablement afin que soient examinées leurs demandes de protection internationale. Expression d’une solidarité européenne a minima dont il faudra cependant voir cependant les suites.

      À lire aussi : Podcast : « Quand la science se met au service de l’humanitaire », le Comité international de la Croix-Rouge

      Pour tous les autres enfin, ceux à qui un refus d’entrer sur le territoire français aura été notifié et qui ne seront pris en charge par aucun autre État, le ministre de l’Intérieur précise qu’ils seront contraints de quitter la zone d’attente vers une destination qui demeure cependant encore pour le moins incertaine. Ceux-là auront alors été accueillis (très) temporairement par la France mais seront considérés comme n’ayant jamais pénétré sur le territoire français.

      https://theconversation.com/comment-laffaire-de-locean-viking-revele-lambigu-te-des-zones-datte

    • « Migrants » de l’« Ocean Viking », « réfugiés » d’Ukraine : quelle différence ?

      Comme elle l’a fait après l’invasion russe, la France doit mener une véritable politique d’accueil pour les passagers de l’« Ocean Viking » : permettre l’accès inconditionnel au territoire sans présupposé lié à leur origine ni distinction entre « migrants » et « réfugiés ».

      Après trois semaines d’errance en Méditerranée, la France a accepté « à titre exceptionnel » de laisser débarquer le 11 novembre, à Toulon, les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking. Tout en précisant, par la voix du ministre de l’Intérieur, que ces « migrants ne pourront pas sortir du centre administratif de Toulon » où ils seront placés et qu’« ils ne sont donc pas légalement sur le territoire national » : à cette fin, une zone d’attente a été créée en urgence où les personnes, qui ont toutes déposé une demande d’asile, sont donc enfermées sous surveillance policière.

      Pour la suite, il est prévu que la France ne gardera sur son sol, s’ils remplissent les conditions de l’asile, qu’environ un tiers des passagers du bateau. Les autres seront autoritairement relocalisés dans neuf pays de l’Union européenne. Voilà donc « l’accueil » réservé à des femmes, des enfants et des hommes qui, après avoir fui la guerre, la misère, l’oppression, et pour beaucoup subi les sévices et la violence du parcours migratoire, ont enduré une longue attente en mer aux conséquences notoirement néfastes sur la santé mentale et physique. L’accueil réservé par la France à ceux qu’elle désigne comme « migrants ».
      Pas de répartition entre les Etats européens

      Rappelons-nous : il y a moins d’un an, au mois de février, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion russe se sont précipités aux frontières des pays européens, la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue. Pas question de compter : au ministère de l’Intérieur, on expliquait que « dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra », tandis que le ministre lui-même annonçait que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ». Pas question non plus de répartition entre les Etats européens : « Ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent », affirmait la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur. Et pour celles qui choisiraient de rester en France, un statut provisoire de protection immédiate était prévu, donnant droit au travail, à un logement et à un accompagnement social. On n’a pas manqué de se féliciter de l’élan formidable de solidarité et d’humanité dont la France avait fait preuve à l’égard des réfugiés, à l’instar de ses voisins européens.

      Une solidarité et une humanité qui semblent aujourd’hui oubliées. Parce qu’ils sont d’emblée qualifiés de « migrants », les passagers de l’Ocean Viking, sans qu’on ne connaisse rien de leurs situations individuelles, sont traités comme des suspects, qu’on enferme, qu’on trie et qu’on s’apprête, pour ceux qui ne seront pas expulsés, à « relocaliser » ailleurs, au gré d’accords entre gouvernements, sans considération de leurs aspirations et de leurs besoins.

      On entend déjà les arguments qui justifieraient cette différence de traitement : les « réfugiés » ukrainiens sont les victimes d’un conflit bien identifié, dans le contexte d’une partie de bras de fer qui oppose l’Europe occidentale aux tentations hégémoniques du voisin russe. Des « migrants » de l’Ocean Viking,on prétend ne pas savoir grand-chose ; mais on sait au moins qu’ils et elles viennent de pays que fuient, depuis des années, d’innombrables cohortes d’exilés victimes des désordres du monde – guerres, corruption, spoliations, famines, désertification et autres dérèglements environnementaux – dont les Européens feignent d’ignorer les conséquences sur les mouvements migratoires mondiaux, pour décréter que ce ne sont pas de « vrais » réfugiés.
      Une hospitalité à deux vitesses

      Mais cette hospitalité à deux vitesses est aussi la marque du racisme sous-jacent qui imprègne la politique migratoire de la France, comme celle de l’Union européenne. Exprimée sans retenue par un élu d’extrême droite sur les bancs de l’Assemblée à propos de l’Ocean Viking (« qu’il(s) retourne(nt) en Afrique ! »), elle s’est manifestée dès les premiers jours de l’exode ukrainien, quand un tri des exilés s’est opéré, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, à la frontière polonaise, au point que la haut-commissaire aux droits de l’homme de l’Onu s’était dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine ». Le traitement réservé depuis des années en France aux exilés privés d’abri et de nourriture, harcelés et pourchassés par la police, dans le Calaisis comme en région parisienne, à la frontière italienne ou dans le Pays basque est la traduction quotidienne de cette politique xénophobe et raciste.

      Au-delà d’une indispensable réorganisation du secours en mer afin que les passagers d’un navire en détresse puissent être débarqués sans délai dans un lieu sûr, comme le prescrit le droit international, l’épisode de l’Ocean Viking nous rappelle, une fois de plus, la nécessité d’une véritable politique d’accueil, dont l’exemple ukrainien montre qu’elle est possible. Elle doit être fondée sur l’accès inconditionnel au territoire de toutes celles et ceux qui demandent protection aux frontières de la France et de l’Europe, sans présupposé lié à leur origine ni distinction arbitraire entre « migrants » et « réfugiés », la mise à l’écart de tout dispositif coercitif au profit d’un examen attentif et de la prise en charge de leurs besoins, et le respect du choix par les personnes de leur terre d’asile, à l’exclusion de toute répartition imposée.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/migrants-de-locean-viking-refugies-dukraine-quelle-difference-20221115_WG

    • « Ocean Viking » : les fourberies de Darmanin

      Le ministre de l’intérieur a annoncé, mardi 15 novembre, que 44 des 234 rescapés de l’« Ocean Viking » seront expulsés dans leur pays d’origine, tandis que la majorité des autres seront relocalisés dans des pays de l’Union européenne. La #fable de la générosité française s’est rapidement fracassée sur l’obsession de Gérald Darmanin de ne pas donner de prises au RN, en acceptant de secourir, mais pas d’accueillir.

      « Expulsés », « relocalisés » : ces termes affreux pour désigner des personnes résument à eux seuls le vrai visage de l’« accueil » que la France réserve aux rescapés de l’Ocean Viking, bien loin d’une certaine idée que l’on pourrait se faire de l’hospitalité due à des hommes, des femmes et des enfants ayant risqué de se noyer en mer pour fuir leur pays. On avait bien compris depuis ses premières interventions que Gérald Darmanin avait agi contraint et forcé. Que les autorités françaises, par la voix blanche du ministre de l’intérieur, avaient fini, à contrecœur, par autoriser les passagers à débarquer à Toulon, dans le Var, vendredi 11 novembre, uniquement parce qu’elles estimaient ne pouvoir faire autrement : à la suite du refus de la nouvelle présidente post-fasciste du conseil italien, Giorgia Meloni, de voir le bateau affrété par SOS Méditerranée accoster sur les rives italiennes, les exilés étaient à bout de forces, et risquaient de mourir.

      Après avoir failli dans le sauvetage de 27 exilés dans la Manche en 2021 (les secours français ayant attendu leur entrée dans les eaux anglaises sans envoyer de moyen de sauvetage, selon les récentes révélations du Monde), la France cette fois-ci ne les laisserait pas périr en mer. Mais elle s’en tiendrait là, sans accueil digne de son nom, ni élan de solidarité. Et ce qui a été vécu par Paris comme un affront ne resterait pas sans conséquences. Tels étaient les messages passés après la décision à reculons d’accepter le débarquement.

      Le courroux français s’est logiquement abattu sur la dirigeante italienne, qui, contrevenant au droit international, a bloqué l’accès de ses côtes au navire humanitaire. Mais il y a fort à parier que la discorde diplomatique finisse par se dissiper. Et qu’en définitive les exilés eux-mêmes soient les principales victimes des mesures de rétorsion françaises.

      Mardi 15 novembre, lors des questions au gouvernement à l’Assemblée nationale, le ministre de l’intérieur a ainsi annoncé, telle une victoire, qu’au moins 44 des 234 rescapés seraient renvoyés dans leur pays d’origine. « Dès que leur état de santé » le permettra, bien sûr, et alors même que l’étude des dossiers est toujours en cours, selon son propre aveu devant les députés. « J’ai déjà pris […] contact dès [lundi] avec mes homologues étrangers pour que ces reconduites à la frontière puissent se faire dans les temps les plus courts possible », s’est-il réjoui, espérant que ces expulsions seront réalisées d’ici à la fermeture de la zone d’attente « dans une vingtaine de jours ». Sachant que le ministre avait d’emblée assuré que les deux tiers des rescapés acceptés sur le sol européen feraient l’objet d’une « relocalisation » vers onze autres pays de l’UE, le nombre de celles et ceux autorisés à demander l’asile en France sera réduit à la portion congrue.

      Gérald Darmanin, en vérité, avait commencé ses calculs d’apothicaire avant même le débarquement, en déclarant que la France suspendait immédiatement l’accueil pourtant prévu de longue date de 3 500 réfugiés se trouvant en Italie et qu’il renforcerait les contrôles à la frontière franco-italienne.

      Entre les « expulsés », les « relocalisés » et les « refusés », la générosité de la France s’est vite muée en démonstration de force à visée politique sur le dos de personnes qui, venues du Bangladesh, d’Érythrée, de Syrie, d’Égypte, du Pakistan, du Mali, du Soudan et de Guinée, ont enduré les dangers de l’exil dans l’espoir d’une vie meilleure. Personne, faut-il le rappeler, ne quitte ses proches, son pays, sa maison, son travail, ses habitudes, avec pour seul bagage quelques billets en poche, pour le plaisir de traverser la Méditerranée. Politiques, économiques, sociaux, climatiques, leurs motifs sont le plus souvent solides. Sauvés en mer par l’équipage de l’Ocean Viking, les 234 rescapés ont attendu trois semaines, dans des conditions indicibles, la possibilité de poser un pied sur la terre ferme. La Commission européenne avait rappelé la nécessité, la veille du feu vert français, de les laisser accoster, soulignant « l’obligation légale de sauver les vies humaines en mer, claire et sans équivoque, quelles que soient les circonstances ».
      « Secourir et reconduire »

      Guidé par sa volonté de répondre à l’extrême droite qui l’accuse de « complaisance », le ministre de l’intérieur a en réalité anticipé son attente, telle qu’exprimée par une élue RN du Var, Laure Lavalette, dans l’hémicycle mardi, l’appelant à « secourir et reconduire ».

      Le cadre répressif de cet accueil à la française a été posé au moment même où les rescapés sont arrivés en France. Leur débarquement s’est fait sous escorte militaire, à l’abri des regards des élus, des ONG et des journalistes, dans le port militaire de Toulon (lire ici et là). Ils ont aussitôt été placés dans une « zone d’attente » créée pour l’occasion, dans un ancien « village de vacances » de la presqu’île de Giens, c’est-à-dire dans un lieu d’enfermement. Ainsi l’« accueil » a commencé sous de sombres auspices.

      Placés sous la garde de deux cents policiers et gendarmes, les 234 rescapés ont été soumis, sans attendre d’être remis des épreuves physiques et psychologiques de la traversée, à un examen de leur situation administrative. Pratiquée dans l’urgence, la procédure, dans ce cadre « exceptionnel », est particulièrement expéditive : les agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), instance dépendant du ministère de l’intérieur, sont tenus de délivrer un avis « sous 48 heures » sur le « caractère manifestement fondé ou non de la demande d’asile », charge ensuite au ministère de l’intérieur de poursuivre – ou non – l’examen du dossier. Comment peut-on humainement demander à des personnes venant de passer trois semaines d’errance en mer, et qui ont pour la plupart subi des chocs de toute sorte, de retracer posément – et de manière convaincante, c’est-à-dire preuves à l’appui – les raisons qui leur permettraient d’obtenir une protection de la France ? L’urgence, l’arbitraire et le respect de la dignité des personnes font rarement bon ménage.

      Habilitée à intervenir en zone d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, qui a pu se rendre sur place, estime dans un communiqué publié mardi que les rescapés de l’Ocean Viking sont « victimes de violation de leurs droits fondamentaux » dans cette zone d’attente. Ses constats sont « alarmants ». Elle regrette tout d’abord le manque de temps de repos à l’arrivée et une prise en charge médicale passablement insuffisante. Elle évoque ensuite de nombreuses violations du droit d’asile dans le déroulement des entretiens administrés par l’Ofpra, liées notamment au manque d’interprétariat, à l’absence de confidentialité des échanges et à l’absence d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Mais discuter de la légalité des procédures n’est, à cette heure, pas la priorité du ministre de l’intérieur dont l’objectif est de montrer qu’il prend garde à ce que la France ne soit pas « submergée » par quelques dizaines d’exilés. Sa célérité à annoncer, le plus vite possible, et avant même la fin de la procédure, qu’une partie des rescapés seront expulsés, en est la preuve.

      Quand on se souvient de l’accueil réservé aux Afghans fuyant le régime des talibans ou aux Ukrainiens fuyant la guerre, on observe pourtant qu’il existe d’autres manières d’assurer que les droits des demandeurs d’asile soient respectés. Pour ne prendre que cet exemple, il y a un an, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens ont fui l’invasion russe, « la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue », souligne Claire Rodier, membre du Groupe d’information et de soutien des immigré·es (Gisti) et du réseau Migreurop, dans une tribune à Libération. Et de rappeler les déclarations du ministre de l’intérieur lui-même assurant alors que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ».

      Précédent également notable, la France, en 2018, avait refusé d’accueillir l’Aquarius, soumis au même sort que l’Ocean Viking. À l’époque, Emmanuel Macron n’avait pas voulu céder et le navire avait fait route vers Valence, en Espagne, suscitant la honte d’une partie des soutiens du président de la République. L’accueil alors réservé aux exilés par les autorités et la société civile espagnole avait été d’une tout autre teneur. Le pays s’était largement mobilisé, dans un grand élan de solidarité, pour que les rescapés trouvent le repos et le réconfort nécessaires après les épreuves de l’exil.

      Il faut se souvenir enfin de l’émoi national légitimement suscité, il n’y a pas si longtemps, par les propos racistes du député RN Grégoire de Fournas, en réponse à une intervention de l’élu LFI Carlos Martens Bilongo concernant… l’Ocean Viking. « Qu’il(s) retourne(nt) en Afrique », avait-il déclaré (lire notre article), sans que l’on sache trop s’il s’adressait à l’élu noir ou aux exilés en perdition. Alors qu’il est désormais établi qu’au moins quarante-quatre d’entre eux seront renvoyés dans leur pays d’origine, vraisemblablement, pour certains, sur le continent africain, il sera intéressant de constater à quel niveau notre pays, et plus seulement nos gouvernants, placera son curseur d’indignation.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/161122/ocean-viking-les-fourberies-de-darmanin

    • Ocean Viking : 123 « #refus_d'entrée » en France et une grande confusion

      Une semaine après leur débarquement à Toulon, une soixantaine de migrants de l’Ocean Viking a été autorisée à demander l’asile. En parallèle de la procédure d’asile aux frontière, des décisions judiciaires ont conduit à la libération d’une centaine de rescapés retenus dans la « zone d’attente », désormais libres d’entrer sur le sol français. Une vingtaine de mineurs, ont quant à eux, pris la fuite vers d’autres pays.

      Sur les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking débarqués à Toulon il y a une semaine, 123 migrants se sont vu opposer un refus à leur demande d’asile, soit plus de la moitié, a indiqué vendredi 18 novembre le ministère de l’Intérieur. Ils font donc « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, soit plus de la moitié, a ajouté le ministère de l’Intérieur.

      Hormis les 44 passagers reconnus mineurs et placés dès les premiers jours sous la protection de l’Aide sociale à l’enfance, les 189 adultes restant avaient été retenus dans une « zone d’attente » fermée, qui n’est pas considérée comme appartenant au territoire français. Un espace créé dans le cadre de la procédure d’asile à la frontière, pour l’occasion, dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, à proximité de Toulon.

      Ils sont tous passés cette semaine entre les mains de la police et des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), pour des contrôles de sécurité et de premiers entretiens effectués depuis cette « zone d’attente », afin d’évaluer si leur demande d’asile était fondée.

      Au terme de ces entretiens, l’Ofpra a émis « 66 avis favorables » a précisé Charles-Edouard Minet, sous-directeur du conseil juridique et du contentieux du ministère de l’Intérieur. Cette soixantaine de migrants a donc été autorisée à déposer des demandes d’asile, et autorisée à entrer sur le territoire français. Ils ont été conduits vers des centres d’hébergement du Var, dont des #Centres_d'accueil_et_d'évaluation_des_situations (#CAES).

      Parmi eux, certains seront « relocalisés » vers les onze pays européens (dont l’Allemagne, la Finlande ou le Portugal) qui s’étaient portés volontaires pour se répartir les efforts et les accueillir après leur débarquement en France.

      Des avis défavorables mais pas d’expulsions massives et immédiates

      Les « 123 avis défavorables », quant à eux, ne sont pas pour autant immédiatement expulsables. Le gouvernement français veut aller vite, le ministre de l’Intérieur Gerald Darmanina ayant affirmé dès le 15 novembre que ces personnes « seront reconduites [vers leur pays d’origine] dès que leur état de santé » le permettra. Mais les refoulements pourraient prendre un temps plus long, car ces procédures nécessitent que « la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer, avait expliqué l’Anafé, association de défense des étrangers aux frontières, à InfoMigrants il y a quelques jours.

      D’autre part, des décisions de justice sont venues chambouler le calendrier annoncé par l’Etat. La cour d’appel d’Aix-en-Provence a annoncé vendredi 18 novembre avoir validé la remise en liberté de la « quasi-totalité, voire la totalité » des 108 rescapés qui réclamaient de ne plus être enfermés dans la « zone d’attente ».

      En cause, des vices de procédure dans les dossiers montés dans l’urgence et de juges dépassés par la centaine de cas à traiter. Les juges des libertés et de la détention (JLD) qui doivent en France, se prononcer pour ou contre un maintien en « zone d’attente » après 4 jours d’enfermement, ont estimé dans une majorité de cas que les migrants devaient être libérés. Le parquet a fait appel de ces décisions, mais la cour d’appel a donné raison au JLD pour une non-prolongation du maintien dans la « zone d’attente » dans la plupart des cas.

      Certains des migrants libérés avaient reçu ces fameux avis défavorables de l’Ofpra, notifiés par le ministère de l’Intérieur. D’après l’Anafé, ils devraient néamoins pouvoir désormais « faire une demande d’asile une fois entrés sur le territoire ».

      Douze migrants en « zone d’attente »

      Après ces annonces de libération, le gouvernement a estimé dans l’après-midi, vendredi, que seuls douze migrants se trouvaient toujours dans ce centre fermé vendredi après-midi. A ce flou s’ajoutent « les personnes libérées mais revenues volontairement » sur le site « pour bénéficier » de l’hébergement, a reconnu, désabusé, le représentant du ministère.

      Ces complications judiciaires et administratives ont perturbé nombre des rescapés, parmi lesquels se trouvent des personnes fragiles, dont la santé nécessite des soins psychologiques après les 20 jours d’errance en mer sur l’Ocean Viking qui ont précédé cette arrivée chaotique en France. Et ce d’autant que les autorités et les associations présentes dans la « zone d’attente » ont été confrontés à une pénurie de traducteurs dès les premiers jours.

      A tel point que le préfet du Var, Evence Richard, a alerté le 16 novembre sur le manque d’interprètes, estimant qu’il s’agissait d’"un vrai handicap" pour s’occuper des migrants. « Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants », avait aussi fait savoir l’Anafé dans un communiqué publié mardi.

      Des scènes de grande confusion

      En effet, la presse locale du Var et d’autres journaux français ont rapporté des scènes de grande confusion lors des audiences devant le tribunal de Toulon et la cour d’appel d’Aix-en-Provence, avec des « interprètes anglais pour des Pakistanais, une femme de ménage du commissariat de Toulon réquisitionnée comme interprète de langue arabe, des entretiens confidentiels tenus dans les couloirs », comme en atteste dans les colonnes du Monde, la bâtonnière du barreau varois, Sophie Caïs, présente le 15 novembre au tribunal.

      Dans une autre audience, décrite par un journaliste du quotidien français ce même jour, une mère Malienne « fond en larmes lorsque la juge lui demande ce qu’elle a à ajouter aux débats. Sa petite fille de 6 ans, qui, depuis le début de la matinée ne la quitte pas d’un pouce, ouvre de grands yeux ».

      Des mineurs en fugue

      En parallèle, parmi les 44 rescapés mineurs logés hors de la « zone d’attente », dans un hôtel où ils étaient pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance, 26 ont quitté les lieux de leur propre chef, a-t-on appris le 17 novembre dans un communiqué du Conseil départemental du Var.

      Les mineurs qui ont fugué « ont eu un comportement exemplaire, ils sont partis en nous remerciant », a insisté Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var. D’après lui, ces jeunes, dont une majorité d’Erythréens, « ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du nord » tels que les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches.

      Les services sociaux ont « essayé de les en dissuader », mais « notre mission est de les protéger et pas de les retenir », a ajouté M. Paquette.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/44849/ocean-viking--123-refus-dentree-en-france-et-une-grande-confusion

    • Ocean Viking : le #Conseil_d’État rejette l’#appel demandant qu’il soit mis fin à la zone temporaire d’attente où certains passagers ont été maintenus

      Le juge des référés du Conseil d’État rejette aujourd’hui la demande de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) de mettre fin à la zone d’attente temporaire dans laquelle ont été placés certains passagers de l’Ocean Viking. L’association requérante, avec le soutien d’autres associations, contestait les conditions de création de la zone d’attente et estimait que les personnes qui y avaient été placées n’avaient pas accès à leurs droits. Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé. Il observe également que les demandes d’asile à la frontière ont pu être examinées, 66 personnes étant finalement autorisées à entrer sur le territoire pour déposer leur demande d’asile, et que les procédures judiciaires ont suivi leur cours, la prolongation du maintien de la détention n’ayant d’ailleurs pas été autorisée pour la très grande majorité des intéressés. Enfin, il constate qu’à la date de son intervention, les associations et les avocats peuvent accéder à la zone d’attente et y exercer leurs missions dans des conditions n’appelant pas, en l’état de l’instruction, que soient prises des mesures en urgence.

      Pour des raisons humanitaires, le navire « Ocean Viking » qui transportait 234 personnes provenant de différents pays, a été autorisé par les autorités françaises à accoster au port de la base militaire navale de Toulon. Le préfet a alors créé une zone d’attente temporaire incluant cette base militaire et un village vacances à Hyères, où ont été transférées, dès le 11 novembre dernier au soir, les 189 personnes placées en zone d’attente.

      L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) a saisi en urgence le juge des référés du tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’exécution de l’arrêté préfectoral créant la zone d’attente temporaire, estimant que les personnes placées en zone d’attente se trouvaient illégalement privées de liberté et n’avaient pas un accès effectif à leurs droits. Après le rejet de son recours mercredi 16 novembre, l’association a saisi le juge des référé-liberté du Conseil d’État, qui peut, en appel, ordonner toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d’une liberté fondamentale en cas d’atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale. Ce dernier confirme aujourd’hui la décision du tribunal administratif et rejette l’appel de l’association.

      Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé (nombre important de personnes, nécessité d’une prise en charge médicale urgente, considérations d’ordre public), ce qui a conduit à la création par le préfet d’une zone d’attente temporaire sur le fondement des dispositions issues d’une loi du 16 juin 20111, en cas d’arrivée d’un groupe de personnes en dehors d’une « zone de passage frontalier ». Il observe également que les droits de ces étrangers n’ont pas, de ce seul fait, été entravés de façon grave et manifestement illégale. L’Office français de protection des réfugiés et apatrides (OFPRA) a pu mener les entretiens légalement prévus, ce qui a conduit à ce que 66 personnes soient autorisées à entrer sur le territoire pour présenter une demande d’asile, et le juge des libertés et de la détention puis la cour d’appel d’Aix-en-Provence se sont prononcés sur la prolongation des mesures de détention, qui a d’ailleurs été refusée dans la grande majorité d’entre eux.

      S’agissant de l’exercice des droits au sein même de la zone, le juge des référés, qui se prononce en fonction de la situation de fait à la date à laquelle son ordonnance est rendue, note qu’à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, l’association requérante a pu accéder au village vacances sans entrave. Si la persistance de difficultés a pu être signalée à l’audience, elles ne sont pas d’une gravité telle qu’elles rendraient nécessaires une intervention du juge des référés. Le ministère de l’intérieur a par ailleurs transmis à l’association, une liste actualisée des 16 personnes encore maintenues, afin de lui faciliter l’exercice de sa mission d’assistance, comme il s’y était engagé lors de l’audience au Conseil d’État qui a eu lieu hier.

      Les avocats ont également accès au village vacances. Là encore, des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente. Mais des mesures ont été progressivement mises en œuvre pour tenter d’y répondre, notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et internet.

      A la date de l’ordonnance et en l’absence d’une atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale, il n’y avait donc pas lieu pour le juge des référés de prononcer des mesures en urgence.

      1 Loi n° 2011-672 du 16 juin 2011 relative à l’immigration, à l’intégration et à la nationalité.

      https://www.conseil-etat.fr/actualites/ocean-viking-le-conseil-d-etat-rejette-l-appel-demandant-qu-il-soit-mis
      #justice

    • Le Conseil d’État valide l’accueil au rabais des rescapés de l’Ocean Viking

      Des associations contestaient la création de la zone d’attente dans laquelle ont été enfermés les exilés après leur débarquement dans le port militaire de Toulon. Bien qu’elle ait reconnu « des insuffisances », la plus haute juridiction administrative a donné raison au ministère de l’intérieur, invoquant des « circonstances exceptionnelles ».

      LeLe Conseil d’État a donné son blanc-seing à la manière dont le ministère de l’intérieur a géré l’arrivée en France des rescapés de l’Ocean Viking. Débarqués le 11 novembre à Toulon après vingt jours d’errance en mer, à la suite du refus de l’Italie de les faire accoster sur ses côtes, les migrants avaient immédiatement été placés dans une zone d’attente temporaire à Hyères (Var), sur la presqu’île de Giens. Gerald Darmanin avait en effet décidé de secourir, sans accueillir. 

      Ce lieu d’enfermement, créé spécialement pour y maintenir les exilés avant qu’ils ne soient autorisés à demander l’asile, est-il légal ? L’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) posait cette fois la question au Conseil d’État, après avoir été déboutée une première fois par le tribunal administratif de Toulon. 

      La plus haute juridiction administrative du pays a rejeté samedi 19 novembre la demande de l’association qui souhaitait la fermeture de la zone d’attente au motif que les droits des exilés n’étaient pas respectés. Le Conseil d’État reconnaît que « des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente ». Mais il invoque « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé ». 

      L’audience s’est déroulée vendredi matin, sous les moulures et lustres recouverts d’or du Conseil d’État. Si 189 personnes étaient initialement maintenues dans la zone d’attente le 11 novembre, elles étaient de moins en moins nombreuses au fil de la journée, assurait d’entrée de jeu le représentant du ministère de l’intérieur, Charles-Édouard Minet. « Vous êtes en train de me dire qu’à la fin de la journée, il peut n’y avoir plus personne en zone d’attente », s’était étonnée la magistrate qui présidait l’audience. « Absolument, oui », confirmait Charles-Édouard Minet. Rires dans la salle.

      Symbole de la grande improvisation ministérielle, la situation évoluait d’heure en heure, à mesure que la justice mettait fin au maintien prolongé des exilés en zone d’attente. Au moment de l’audience, entre 12 et 16 personnes étaient encore enfermées. Deux heures plus tard, la cour d’appel d’Aix-en-Provence décidait de remettre en liberté la « quasi-totalité voire la totalité » des personnes retenues dans la zone d’attente d’Hyères. Moins de dix personnes y seraient encore retenues. 

      Devant le Conseil d’État, s’est tenue une passe d’armes entre les avocats défendant les droits des étrangers et le ministère de l’intérieur. Son représentant a assuré que l’accès aux droits des personnes retenues était garanti. Ce qu’a fermement contesté le camp adverse : « Il existe un vrai hiatus entre ce que dit l’administration et ce qu’ont constaté les associations : les avocats ne peuvent pas accéder comme il le devrait à la zone d’attente », a affirmé Cédric Uzan-Sarano, conseil du Groupe d’information et de soutien des immigrés (GISTI). 

      En creux, les représentants des associations dénoncent les choix très politiques de Gerald Darmanin. Plutôt que de soumettre les rescapés de l’Ocean Viking à la procédure classique de demande d’asile, la décision a été prise de les priver de leurs libertés dès leur débarquement sur le port militaire de Toulon. « Tous les dysfonctionnements constatés trouvent leur source dans l’idée de l’administration de créer cette zone d’urgence, exceptionnelle et dérogatoire », tance Patrice Spinosi, avocat de l’Anafé. 

      Les associations reprochent aux autorités le choix de « s’être placées toutes seules dans une situation d’urgence » en créant la zone d’attente temporaire. La procédure étant « exceptionnelle » et « mise en œuvre dans la précipitation », « il ne peut en découler que des atteintes aux droits des étrangers », ont attaqué leurs avocats.

      Dans sa décision, le Conseil d’État considère toutefois que la création de la zone d’attente est conforme à la loi. Il met en avant « le nombre important de personnes, la nécessité d’une prise en charge médicale urgente et des considérations d’ordre public ». L’autorité administrative note par ailleurs qu’au moment où elle statue, « à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, [l’Anafé] a pu accéder au village vacances sans entrave ».

      À écouter les arguments de l’Anafé, les dysfonctionnements sont pourtant nombreux et persistants. À peine remis d’un périple éprouvant, les exilés ont dû sitôt expliquer les persécutions qu’ils ont fuies aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra).

      « Puisque les entretiens avec l’Ofpra sont devenus l’alpha et l’oméga des procédures d’asile, il est indispensable que les personnes soient préparées par des avocats », juge Gérard Sadik, représentant de La Cimade, une association qui vient en aide aux réfugiés. 
      Plus de la moitié des rescapés interdits d’entrée sur le territoire

      L’Anafé estime que les conditions sur la zone d’attente d’Hyères ne permettent pas aux associations et aux avocats d’accomplir leur mission d’accompagnement. Si les autorités ont mis à disposition deux locaux, ceux-ci « ne sont équipés ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’Internet pour transmettre les recours », indique l’Anafé. Par ailleurs, ces pièces, très vite remplacées par des tentes, empêchent la confidentialité des échanges, pourtant imposée par la loi. 

      Laure Palun, directrice de l’Anafé, est la seule personne présente ce jour-là à l’audience à avoir visité la zone d’attente. « Quand on passait à côté des tentes, on pouvait entendre et voir tout ce qui se passait à l’intérieur, décrit-t-elle. Un moment, on a même vu un exilé quasiment couché sur une table pour comprendre ce que l’interprète lui disait au téléphone. »

      Le Conseil d’État a préféré relever les efforts réalisés par les autorités pour corriger les « insuffisances constatées dans les premiers jours » : « Des mesures ont été progressivement mises en œuvre [...], notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et Internet. »

      Conséquence de cette procédure d’asile au rabais et des obstacles rencontrés par les exilés dans l’exercice de leurs droits ? Charles-Édouard Minet a annoncé que plus de la moitié des rescapés du navire de SOS Méditerranée, soit cent vingt-trois personnes, ont fait « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, à la suite de leur entretien individuel avec l’Ofpra. Pour l’heure, le ministère de l’intérieur n’a pas précisé s’ils allaient être expulsés. 

      D’un ton solennel, Patrice Spinosi avait résumé l’enjeu de l’audience : « La décision que vous allez rendre sera la première sur les zones d’attente exceptionnelles. Il existe un risque évident que cette situation se reproduise, [...] l’ordonnance que vous rendrez définira une grille de lecture sur ce que peut faire ou pas l’administration. » L’administration n’aura donc pas à modifier ses procédures.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/191122/le-conseil-d-etat-valide-l-accueil-au-rabais-des-rescapes-de-l-ocean-vikin

    • Ocean Viking : « On vient d’assister à un #fiasco »

      Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) énumère les multiples entraves aux droits des personnes recueillies par l’Ocean Viking et déplore que le choix de l’enfermement l’ait emporté sur celui de l’accueil.

      La France avait annoncé vouloir faire vite. Se prononcer « très rapidement » sur le sort des passager·ères de l’Ocean Viking tout juste débarqué·es sur la base navale de Toulon (Var), après que le gouvernement italien d’extrême droite avait refusé (en toute illégalité) que le navire accoste sur son territoire. Ces personnes étaient maintenues dans une zone d’attente temporaire créée dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens.

      Un lieu de privation de liberté qui, juridiquement, n’est pas considéré comme étant sur le sol français. Dans les quarante-huit heures, avaient estimé les autorités, l’ensemble des rescapé·es auraient vu examiner la pertinence de leur demande d’asile par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra). Une procédure accélérée qui n’a pas vocation à attribuer une protection internationale, mais à examiner si la demande d’entrée sur le territoire au titre de l’asile est manifestement fondée ou pas.

      Rien, toutefois, ne s’est passé comme prévu puisque la quasi-totalité des rescapé·es, à l’heure où nous écrivons ces lignes, ont pu être libéré·es au terme de différentes décisions judiciaires (1). Pour Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étranger·ères (Anafé) – la principale association autorisée à intervenir en zone d’attente –, « on vient d’assister à un fiasco ». Tant pour l’administration que pour les demandeur·ses d’asile.

      En créant une zone d’attente temporaire, les autorités ont choisi d’accueillir les passager·ères de l’Ocean Viking sous le régime de la privation de liberté. Que dit la méthode ?

      Laure Palun : Que nous aurions pu faire le choix de l’accueil, plutôt que celui de l’enfermement ! La zone d’attente est un lieu privatif de liberté où la procédure d’asile « classique » ne s’applique pas. La procédure d’asile à la frontière permet de procéder à une sorte de tri en amont et de dire si, oui ou non, la personne peut entrer sur le territoire pour y demander la protection internationale. Mais l’expérience nous le montre : le tri, les opérations de filtrage et les procédures d’asile à la frontière, ça ne fonctionne pas si on veut être en conformité avec le respect des droits.

      La situation des personnes sauvées par l’Ocean Viking et enfermées dans la zone d’attente de Toulon nous a donné raison puisque la plupart d’entre elles ont été libérées et prises en charge pour entrer dans le dispositif national d’accueil (DNA). Soit parce qu’elles avaient été admises sur le territoire au titre de l’asile, soit parce qu’elles avaient fait l’objet d’une décision judiciaire allant dans le sens d’une libération.

      Lire aussi > Ocean Viking, un naufrage diplomatique

      On vient d’assister à un fiasco. Non seulement du côté des autorités – considérant l’échec de leur stratégie politique –, mais aussi pour les personnes maintenues, qui auraient pu se reposer et entrer dans le processus d’asile classique sur le territoire une semaine plus tôt si elles n’avaient pas été privées de liberté. Au lieu de ça, elles ont été fichées, fouillées et interrogées à de multiples reprises.

      Le point positif, c’est que les mineur·es non accompagné·es – qui ont bien été placé·es quelques heures en zone d’attente, contrairement à ce qu’a déclaré le ministère de l’Intérieur – ont été libéré·es le premier jour pour être pris·es en charge. Le Ceseda [code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile] prévoit en effet que les mineur·es non accompagné·es qui souhaitent demander l’asile ne peuvent être maintenu·es en zone d’attente « sauf exception ». Mais c’est généralement le cas.

      Le 16 novembre, devant l’Assemblée nationale, le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, avait pourtant annoncé l’expulsion de 44 personnes d’ici à la fin de la période de maintien en zone d’attente.

      Une telle déclaration pose de vraies questions sur le non-respect de la convention de Genève, de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales, et du droit national : il n’est pas possible de dire une chose pareille, alors même que les personnes sont en cours de procédure d’asile. Même si les demandes de ces personnes ont été rejetées, il existe des recours, et ça fait partie de la procédure !

      Le droit à un recours effectif est inscrit dans la Convention européenne des droits de l’homme et a même été consacré concernant la procédure d’asile à la frontière en 2007 (2). Mais Gérald Darmanin a aussi dit qu’il avait pris contact, la veille [le 15 novembre, NDLR], avec les autorités des pays d’origine.

      Non seulement les décisions de l’Ofpra n’avaient pas encore été notifiées aux demandeur·ses d’asile à ce moment-là – et quand bien même ça aurait été le cas, elles étaient encore susceptibles de recours –, mais il s’agit encore d’une atteinte grave et manifeste à la convention de Genève. Contacter les pays d’origine de personnes en cours de demande d’asile, a fortiori pour envisager leur expulsion, ajoute des risques de persécutions en cas de retour dans le pays.

      Dans un communiqué, vous avez dénoncé de « nombreuses violations des droits » au sein de la zone d’attente, notamment dans le cadre des procédures d’asile. Lesquelles ?

      À leur arrivée, les personnes ont été prises en charge d’un point de vue humanitaire. À ce sujet, l’Anafé n’a pas de commentaire à faire. En revanche, elles n’ont reçu quasiment aucune information sur la procédure, sur leurs droits, et elles ne comprenaient souvent pas ce qui se passait. En dehors de la procédure d’asile, il n’y avait pratiquement aucun interprétariat.

      Cela a représenté une immense difficulté sur le terrain, où les conditions n’étaient globalement pas réunies pour permettre l’exercice effectif des droits. Notamment le droit de contacter un·e avocat·e, une association de défense des droits, ou un·e médecin. Et ni les associations ni les avocat·es n’ont pu accéder à un local pour s’entretenir en toute confidentialité avec les demandeur·ses d’asile.

      Concernant les demandes d’asile, ça a été très compliqué. Déjà, à l’ordinaire, les procédures à la frontière se tiennent dans des délais très courts. Mais, ici, l’Ofpra a dû mener environ 80 entretiens par jour. Pour les officier·ères de protection, cela paraît très lourd. Et ça signifie aussi que les personnes ont dû passer à la chaîne, moins de 48 heures après leur débarquement, pour répondre à des questions portant sur les risques de persécution dans leurs pays.

      Les entretiens ont été organisés sans confidentialité, dans des bungalows ou des tentes au travers desquels on entendait ce qui se disait, avec des interprètes par téléphone – ce que nous dénonçons mais qui est classique en zone d’attente. Ces entretiens déterminants devraient être menés dans des conditions sereines et nécessitent de pouvoir se préparer. Cela n’a pas été le cas, et on le constate : 123 dossiers de demande d’entrée sur le territoire ont été rejetés.

      Le Conseil d’État a pourtant estimé que, malgré « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé », les droits des personnes placées en zone d’attente n’avaient pas été « entravés de façon grave et manifestement illégale ».

      Nous avons déposé une requête devant le tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’arrêt de création de la zone d’attente, mais cela n’a pas abouti. L’Anafé a fait appel et porté l’affaire devant le Conseil d’État. Ce dernier n’a pas fait droit à notre demande, constatant que des améliorations avaient été apportées par l’administration avant la clôture de l’instruction, tout en reconnaissant que des manquements avaient été commis.

      Le Conseil d’État a néanmoins rappelé que les droits des personnes devaient être respectés, et notamment l’accès à un avocat, à une association de défense des droits et à la communication avec l’extérieur. Par exemple, ce n’est qu’après l’audience que l’administration a consenti à transmettre à l’Anafé le nom des personnes encore enfermées (16 au moment de l’audience) pour qu’elle puisse exercer sa mission de défense des droits.

      Il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés après avoir vécu l’enfer.

      Ces entraves affectent notre liberté d’aider autrui à titre humanitaire découlant du principe de fraternité, consacré en 2018 par le Conseil constitutionnel, mais surtout les droits fondamentaux des personnes que l’Anafé accompagne.

      Il est à déplorer que les autorités ne respectent pas les droits des personnes qu’elle enferme et qu’il faille, à chaque fois, passer par la voie contentieuse pour que des petites améliorations, au cas par cas, soient apportées. Le respect des droits fondamentaux n’est pas une option, et l’Anafé continuera d’y veiller.

      Avec le projet de réforme européenne sur la migration et l’asile, qui prévoit notamment de systématiser la privation de liberté aux frontières européennes le temps de procéder aux opérations de « filtrage », faut-il s’attendre à ce que de telles situations se reproduisent et, en l’absence de condamnation du Conseil d’État, à des expulsions qui seraient, cette fois, effectives ?

      La situation vécue ces derniers jours démontre une nouvelle fois que la procédure d’asile à la frontière et la zone d’attente ne permettent pas de respecter les droits des personnes qui se présentent aux frontières européennes. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis de nombreuses années et c’est ce qu’elle a mis en avant dans le cadre de sa campagne « Fermons les zones d’attente ».

      La perspective d’étendre cette pratique au niveau européen dans le cadre du pacte sur la migration et l’asile est un fiasco politique annoncé. Surtout, cela aura pour conséquence des violations des droits fondamentaux des personnes exilées. Au-delà du camouflet pour le gouvernement français, il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés, et pour certains qui le sont encore, dans la zone d’attente de Toulon, après avoir vécu l’enfer – camps libyens, traversée de la Méditerranée…

      Le filtrage, le tri et l’enfermement ne peuvent pas être la réponse européenne à de telles situations de détresse, sauf à ajouter de la souffrance et de la violence pour ces personnes.

      En représailles de l’action de l’Italie, le gouvernement a annoncé le déploiement de 500 policiers et gendarmes supplémentaires à la frontière franco-italienne, où l’Anafé constate quotidiennement des atteintes aux droits. À quoi vous attendez-vous dans les prochains jours, sur le terrain ?

      Nous sommes évidemment très mobilisés. Actuellement, nous constatons toujours la même situation que celle que nous dénonçons depuis de nombreuses années. Conséquence de ces contrôles, les personnes prennent de plus en plus de risques et, pour certaines, mettent leur vie en péril… Preuve en est l’accident qui a eu lieu ce week-end à la frontière franco-italienne haute (3).

      Il me paraît surtout important de rappeler que ces effectifs sont mobilisés dans le cadre du rétablissement du contrôle aux frontières intérieures, mesure ininterrompue depuis sept ans par les autorités françaises. Or ces renouvellements [tous les six mois, NDLR] sont contraires au droit européen et au code frontières Schengen. Il est temps que ça s’arrête.

      (1) Soit parce qu’elles ont reçu une autorisation d’entrée sur le territoire au titre de l’asile, soit parce que les juges des libertés et de la détention (JLD) ont refusé la prolongation du maintien en zone d’attente, soit parce que les JLD se sont dessaisis par manque de temps pour traiter les dossiers dans le délai imparti, soit en cour d’appel.

      (2) À la suite d’une condamnation par la Cour européenne des droits de l’homme, la France a modifié sa législation (Gebremedhin contre France, req n° 25389/05, 26 avril 2007).

      (3) Un jeune Guinéen est tombé dans un ravin dans les environs de Montgenèvre (Hautes-Alpes), ce dimanche 20 novembre.

      https://www.politis.fr/articles/2022/11/ocean-viking-on-vient-dassister-a-un-fiasco-45077

    • « Ocean Viking », autopsie d’un « accueil » à la française

      La sagesse, comme la simple humanité, aurait dû conduire à offrir aux rescapés de l’Ocean Viking des conditions d’accueil propres à leur permettre de se reposer de leurs épreuves et d’envisager dans le calme leur avenir. Au contraire, outre qu’elle a prolongé les souffrances qu’ils avaient subies, la précipitation des autorités à mettre en place un dispositif exceptionnel de détention a été la source d’une multitude de dysfonctionnements, d’illégalités et de violations des droits : un résultat dont personne ne sort gagnant.
      Dix jours après le débarquement à Toulon des 234 rescapés de l’Ocean Viking – et malgré les annonces du ministre de l’Intérieur affirmant que tous ceux qui ne seraient pas admis à demander l’asile en France seraient expulsés et les deux tiers des autres « relocalisés » dans d’autres pays de l’Union européenne – 230 étaient présents et libres de circuler sur le territoire français, y compris ceux qui n’avaient pas été autorisés à y accéder. Ce bilan, qui constitue à l’évidence un camouflet pour le gouvernement, met en évidence une autre réalité : le sinistre système des « zones d’attente », consistant à enfermer toutes les personnes qui se présentent aux frontières en demandant protection à la France, est intrinsèquement porteur de violations des droits humains. Principale association pouvant accéder aux zones d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) le rappelle depuis 2016 : « Il est illusoire de penser pouvoir [y] enfermer des personnes dans le respect de leurs droits et de leur dignité. » Ce qui s’est passé dans la zone d’attente créée à Toulon en est la démonstration implacable.

      Une gestion calamiteuse

      Pour évaluer a posteriori la gestion calamiteuse du débarquement de ces naufragés, il faut rembobiner le film : poussé dans ses ultimes retranchements mais y voyant aussi l’occasion de se poser en donneur de leçon à l’Italie, le gouvernement annonce le 10 novembre sa décision d’autoriser « à titre tout à fait exceptionnel » l’Ocean Viking à rejoindre un port français pour y débarquer les hommes, femmes et enfants qui, ayant échappé à l’enfer libyen, puis à une mort certaine, ont passé trois semaines d’errance à son bord. « Il fallait que nous prenions une décision. Et on l’a fait en toute humanité », a conclu le ministre de l’Intérieur.

      Preuve que les considérations humanitaires avancées n’ont rien à voir avec une décision prise à contrecœur, le ministre l’assortit aussitôt de la suspension « à effet immédiat » de la relocalisation promise en France de 3 500 exilés actuellement sur le sol italien : sous couvert de solidarité européenne, c’est bien le marchandage du non-accueil qui constitue l’unique boussole de cette politique du mistigri.

      Preuve, encore, que la situation de ces naufragé·e·s pèse de peu de poids dans « l’accueil » qui leur est réservé, une zone d’attente temporaire est créée, incluant la base navale de Toulon, où leur débarquement, le 11 novembre, est caché, militarisé, « sécurisé ». Alors même qu’ils ont tous expressément demandé l’asile, ils sont ensuite enfermés dans un « village vacances », à l’exception de 44 mineurs isolés, sous la garde de 300 policiers et gendarmes, le ministre prenant soin de préciser que, pour autant « ils ne sont pas légalement sur le territoire national ».

      La suspicion tenant lieu de compassion pour ces rescapés, débutent dès le 12 novembre, dans des conditions indignes et avec un interprétariat déficient, des auditions à la chaîne leur imposant de répéter inlassablement, aux policiers, puis aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), les récits des épreuves jalonnant leur parcours d’exil, récits sur la base desquels doivent être triés ceux dont la demande d’asile pourra d’emblée apparaître « manifestement infondée », les empêchant de fouler le sol de cette République qui prétendait, quelques heures auparavant, faire la preuve de son humanité.

      Seuls 66 de ces demandeurs d’asile échappent à ce couperet, si bien que les juges des libertés et de la détention du tribunal de Toulon sont alors chargés d’examiner la question du maintien dans la zone d’attente, au-delà du délai initial de quatre jours, de plus de 130 d’entre eux. La juridiction se révélant rapidement embolisée par cet afflux de dossiers, les juges se trouvent dans l’impossibilité de statuer dans les vingt-quatre heures de leur saisine comme l’impose la loi et ils n’ont d’autre solution que d’ordonner la mise en liberté de la plupart.

      En deux jours 124 dossiers examinés au pas de charge

      Le calvaire pourrait s’arrêter là pour ces exilé·e·s perdu·e·s dans les arcanes de procédures incompréhensibles, mais le procureur de la République de Toulon fait immédiatement appel de toutes les ordonnances de mise en liberté, sans doute soucieux que les annonces du ministre ne soient pas contredites par des libérations en masse. C’est alors la cour d’appel d’Aix-en-Provence – qui est soumise au train d’enfer imposé par la gestion de l’accueil à la française : entre le 16 et le 17 novembre 124 dossiers sont examinés au pas de charge pendant que les personnes concernées sont parquées dans un hall de la cour d’appel jusque tard dans la nuit. Mais les faits étant têtus et la loi sans ambiguïté, les juges d’appel confirment que leurs collègues de Toulon n’avaient pas d’autres choix que de prononcer les mises en liberté contestées. A l’issue de ce marathon, il ne reste, le 21 novembre, que quatre personnes en zone d’attente.

      « Tout ça pour ça » : ayant choisi la posture du gardien implacable des frontières qu’un instant de faiblesse humanitaire ne détourne pas de son cap, le gouvernement doit maintenant assumer d’avoir attenté à la dignité de ceux qu’il prétendait sauver et aggravé encore le sort qu’ils avaient subi. Il faudra bien qu’il tire les leçons de ce fiasco : la gestion policière et judiciaire de l’accueil qu’implique le placement en zone d’attente se révélant radicalement incompatible avec le respect des obligations internationales de la France, il n’y a pas d’autre solution – sauf à rejeter à la mer les prochains contingents d’hommes, de femmes et d’enfants en quête de protection – que de renoncer à toute forme d’enfermement à la frontière.

      Signataires : Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde) Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et trans à l’immigration et au séjour (Ardhis) La Cimade, groupe d’information et de soutien des immigré·e·s (Gisti) La Ligue des Droits de l’homme (LDH) Syndicat des avocats de France (SAF) Syndicat de la magistrature (SM).

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/ocean-viking-autopsie-dun-accueil-a-la-francaise-20221127_B53JAB6K7BDGFKV

    • #Mineurs_non_accompagnés de l’« Ocean Viking » : « Un #hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin »

      Pour Violaine Husson, de la Cimade, la France, signataire de la convention des droits de l’enfant, contrevient à ses engagements en plaçant des mineurs dans des situations loin d’être adéquates.
      L’information a fuité par voie de presse jeudi : 26 des 44 mineurs arrivés en France à bord du bateau humanitaire Ocean Viking ont fugué de l’hôtel où ils étaient logés à Toulon. « Le département a vocation à mettre les mineurs en sécurité mais pas dans des geôles, on ne peut pas les maintenir de force dans un foyer. Ils peuvent fuguer et c’est ce que certains on fait. On ne peut pas les contraindre, il n’y a pas de mesures coercitives à leur égard », a assuré Jean-Louis Masson, le président du conseil départemental du Var. Parmi ces 26 mineurs se trouvaient une majorité d’Erythréens qui, selon Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var, « ne restent jamais » car « ils ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du Nord » comme les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches. Les associations et les ONG, elles, pointent du doigt les conditions d’accueil et de prise en charge de ces jeunes, souvent inadaptées. Violaine Husson, responsable nationale Genre et Protections à la Cimade, répond à nos questions.

      Quelles sont les conditions de vie des mineurs étrangers non accompagnés, comme ceux de l’Ocean Viking, pris en charge dans des hôtels en France ?

      Il faut d’abord préciser une chose : la loi Taquet de février 2022 interdit le placement des mineurs non accompagnés dans des établissements hôteliers. Cela dit, il y a une exception : dans leur phase de mise à l’abri, en attendant l’entretien d’évaluation de leur minorité, il y a une possibilité de les placer à l’hôtel jusqu’à deux mois. C’est le cas pour cette quarantaine d’enfants, ça l’est aussi pour des centaines d’autres chaque année.

      Un hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin. Ils sont placés dans des chambres à plusieurs – en fonction des établissements, ils peuvent se retrouver à une deux ou trois personnes dans une chambre, voire plus –, ils ne parlent pas la même langue, ils n’ont pas la même religion… Il n’y a rien qui les relie vraiment. Par ailleurs, il n’y a pas de suivi social, personne ne vient les voir dans la journée pour leur demander si ça va ou ce qu’ils font. Il n’y a pas de jeux prévus, ils sont indépendants. Ce sont aussi souvent des hôtels miteux, pas chers, avec des toilettes et des salles de bains communes. C’est un quotidien qui est loin de l’idée que l’on se fait des mesures de protection de l’enfance en France.

      Ça peut expliquer pourquoi certains décident de quitter ces établissements ?

      Oui, il y a des enfants qui partent parce que les conditions ne vont pas du tout, elles ne sont pas adéquates. Certains ont dû tomber des nues. Dans certains hôtels, il n’y a pas que des mineurs, parfois ils peuvent être placés avec d’autres publics, des majeurs notamment. Ça les rend particulièrement vulnérables : ils sont des enfants étrangers isolés qui viennent d’arriver d’une traversée éprouvante et des personnes peuvent leur mettre la main dessus.

      La question des mineurs non accompagnés est souvent débattue, certaines personnalités politiques estiment qu’ils coûtent énormément d’argent, qu’ils seraient des délinquants. Qu’en est-il réellement selon vous ?

      En effet, on a parlé des mineurs non accompagnés de manière très négative : il y a la délinquance mais aussi le fait qu’ils mentiraient et qu’ils frauderaient, qu’ils coûteraient beaucoup à l’Aide sociale à l’enfance… Certains politiques ont même affirmé que 80 000 mineurs non accompagnés arriveraient en France chaque année. La réalité est toute autre : il y en a eu un peu plus de 9 000 en 2021. On est quand même loin du fantasme véhiculé.

      La protection de l’enfance est problématique aujourd’hui, il y a un véritable manque de moyen et de compétences, y compris pour les enfants français. Mais c’est bien plus simple de dire que c’est la faute des étrangers, même si leur proportion dans la prise en charge est dérisoire. Il y a cette injonction des politiques politiciennes de dire : le problème de l’Aide sociale à l’enfance, c’est les étrangers. Selon eux, ils mentent, ils fraudent, ils fuguent, ils ne sont pas mineurs ou ne sont pas vraiment isolés. Alors que le système de protection ne fait pas la différence entre les enfants français et étrangers.

      La France, comme d’autres pays, a signé la convention internationale des droits de l’enfant. Les démarches doivent donc être faites en fonction de l’intérêt supérieur de l’enfant. On voit bien que quand on les place à l’hôtel ou qu’on les suspecte de mentir sur leur âge parce qu’ils sont étrangers, ce n’est pas le cas.

      https://www.liberation.fr/societe/mineurs-non-accompagnes-de-locean-viking-un-hotel-ca-ne-correspond-pas-au
      #MNA #enfants #enfance

  • #Corsica_Linea accueille des Ukrainiens et expulse des Algériens

    La même compagnie de bateaux qui a accueilli des réfugiés ukrainiens à Marseille sert désormais à expulser des sans-papiers de l’autre côté de la Méditerranée. C’est ce que révèlent les témoignages de plusieurs employés de la compagnie Corsica Linea.

    La compagnie de transport maritime Corsica Linea était fière, le 23 mars 2022, d’annoncer aux côtés de la préfecture des Bouches-du-Rhône l’ouverture du premier centre d’accueil de réfugiés ukrainiens. 1.700 places au total. L’un de ses #ferries, le « Méditerranée », est mis à disposition pour héberger jusqu’à 800 Ukrainiens. Dans les Echos, on apprend que l’initiative humanitaire vient du #Club_Top_20, qui regroupe les entreprises les plus influentes du territoire marseillais.

    Une fois vidés de leurs réfugiés, début juin, les bateaux de Corsica Linea ont repris la mer. À 20 mètres de la cabine du commandant de bord, cachés de la vue des passagers lambdas : d’autres étrangers. Des #sans-papiers que la France expulse vers l’Algérie. La compagnie corse préfère cette fois rester discrète.

    Un mécano découvre le pot aux roses

    Camille (1), la quarantaine, travaille comme ouvrier mécanicien sur l’un des bateaux de la compagnie Corsica Linea. Le mardi 20 septembre, il embarque à Marseille direction Alger, à bord du ferry Danielle Casanova. Un nom donné en hommage à une résistante communiste corse. Il a l’habitude de faire ce voyage. Mais cette fois-ci, il se passe quelque chose de différent :

    « La veille, l’officier me demande de remettre en état “les cellules des gardes et des prisonniers” parce qu’on est susceptibles de rapatrier des mecs le lendemain. Je ne comprends pas de quoi il s’agit. »

    Le mardi matin avant 8 heures, il fait son boulot et retape les sanitaires. Le marin se pose des questions :

    « Je remarque que tout est arrondi pour ne pas se blesser. »

    « Je demande à mes collègues, personne ne sait rien. Je me dis que la seule chose que je peux faire, c’est de faire durer le temps. Alors un truc que je peux faire en 30 minutes, j’y passe deux heures », décrit Camille.

    Puis vient un moment de flottement. Aux alentours de 9 heures et demi, le mécano entend « des mecs arriver, c’était bruyant. Là, je vois la #police_aux_frontières (#Paf) arriver avec des migrants, ça se bouscule… Ils sont trois, la trentaine, escortés, un flic devant, un flic derrière ». Camille ajoute :

    « Ils ont les poignets menottés, des casques de boxeur sur la tête [pour ne pas se blesser le crâne]. »

    Le jeune ouvrier décide d’entamer une discussion avec les hommes de la Paf. « Ils me disent que les #expulsions ont commencé en juin sur le bateau “Méditerranée” ». Le même qui a servi d’accueil aux Ukrainiens. « Les flics me parlent d’une reconduite prévue la semaine prochaine, et lancent un : “Et ça continuera” », rapporte Camille dans son uniforme bleu marine, d’un ton qui se veut calme.

    D’après son témoignage, les cabines en inox sont surnommées : « La #prison » et surveillées par des caméras vidéo 24 heures sur 24. Elles sont fermées à clef de l’extérieur, pas de hublot. La coursive devant la prison est verrouillée par deux portes à code. Selon un rapport interne du Contrôleur général des lieux de privation de liberté (CGLPL) sur les #éloignements en bateau vers l’Algérie, « aucune procédure d’exploitation des enregistrements n’existe et la surveillance vidéo n’est pas signalée ». Le marin confie :

    « J’ai été chialer un bon coup dans les chiottes. Moi, je n’ai pas signé pour virer des Arabes, ça non ».

    Il se met à travailler salement pour appeler un collègue nettoyeur et lui montrer ce qu’il a vu :

    « Je simule un problème de mécanique, je fais exprès de faire un taf de porc pour faire traîner les choses. »

    Son collègue Alix (1) monte de l’hôtellerie pour nettoyer ce qu’a fait Camille. Il a accepté de livrer son témoignage. « Quand je vois ces #cellules_d’isolement en métal, je suis un peu choqué. Trois hommes [les Algériens] me regardent, ils ont l’air apeurés. » Il continue :

    « C’est comme une prison. Je me suis souvenu des Ukrainiens, ils n’étaient pas au même endroit ni traités de la même façon. Je n’ai pas compris ce qui se passait, je n’avais jamais vu une cellule de ma vie, sauf à la télé ».

    Des menaces

    Le jeune marin chargé de l’entretien a été témoin d’un autre moment sur le bateau. « J’étais à la réception quand la Paf est arrivée, elle a demandé à parler au commissaire de bord », raconte Alix. « J’ai rempli pour eux la feuille des besoins spécifiques, et tout en bas, il y avait déjà deux noms inscrits pour des visas “courte durée” : c’était pour la police. On leur attribue des cabines et des tickets-repas ».

    Les agents de la Paf vont manger au self avec les marins, se promener sur le pont, et ce pendant toute la traversée en mer aller-retour, du mardi au jeudi. Le mardi soir, un matelot de garde aurait crié : « Il y a une merde en cellule avec les reconduits, j’appelle les forces de l’ordre ! ». Selon les marins, tout le monde pouvait entendre ces mots, passagers compris.

    Dans un enregistrement fourni par Camille, on entend distinctement un policier menacer un migrant de l’attacher s’il continue de crier et de gesticuler. Le jeune détenu pleure et tape sur les murs :

    « Je vais casser ma tête, comme ça le commandant, il m’emmène à l’hôpital et je pars pas ».

    Puis on entend le policier dire à ses collègues :

    « S’il nous fait trop chier, on lui fait une piqûre de calmant ».

    Il revient vers lui :

    « Prends sur toi, ça va être casse-couille pendant 20 heures, mais prends sur toi, allez. »

    On entend Camille poser une question à l’agent de la Paf, qui lui répond froidement :

    « Je ne sais pas, c’est la première fois que je viens. »

    Dans un autre enregistrement, on entend un migrant hurler : « Un être humain il est pas capable de rester là wallah ». Et un autre, d’une voix aiguë : « Monsieur, monsieur, je vous en prie, il faut ouvrir, monsieur je suis tranquille, je vous en prie… » Camille enchérit :

    « C’est intenable. Je me retiens de pleurer plusieurs fois, j’ai fait des exercices de respiration, je me sentais impuissant. »

    Il faut dire que le marin vient du militantisme « no-border », pour la libre circulation des personnes. « Je ne peux pas recevoir des migrants chez moi et en expulser ensuite, ce n’est pas possible. Et même s’ils ont été condamnés par la justice, ils n’avaient pas le choix de commettre des délits pour survivre, vu qu’ils n’ont pas le droit de travailler », pointe le mécanicien, reprenant illico sa casquette d’activiste.

    Quand ils arrivent à Alger, le débarquement dure de 9h à 14h. « C’est normal, c’est la #Hogra (dialecte algérien signifiant humiliation publique, injustice, excès de pouvoir) », sourit Alix. Il leur est interdit de sortir de l’enceinte portuaire. Puis les marins ne voient plus la Paf, jusqu’au mardi suivant. Même scénario le 27 septembre : d’autres expulsions vers Alger ont lieu. Camille simule un problème mécanique et en profite pour faire des vidéos des #cellules.

    https://www.youtube.com/watch?v=ZuG0MR5n1PA&feature=emb_logo

    Un bras de fer franco-algérien

    Comme l’avaient révélé StreetPress et Mediapart, Alger a pendant de longs mois refusé le retour de ses ressortissants. En guise de représailles, « l’État français [a] décidé de réduire de 50 % le nombre de #visas délivrés aux ressortissants algériens », précise l’ONG Euromed Rights, une association de défense des droits des étrangers basée au Danemark. Mais les tensions semblent s’apaiser et les expulsions auraient démarré au mois de juin avec une pause pendant l’été. « Près de 80 % des incarcérés en centre de rétention administrative (#Cra) sont des Algériens. C’est une très très forte majorité », affirme une source d’un Cra du Sud de la France. « Ils sont piochés d’un peu partout, mais principalement au Cra de Marseille. Le test PCR n’est même plus imposé ». Avant cela, les exilés pouvaient refuser et ainsi retarder l’échéance.

    Dans un retour de mail daté du mois de juin, la préfecture des Bouches-du-Rhône confirme utiliser plusieurs « vecteurs disponibles » – aériens, terrestres ou maritimes – pour les #reconduites_aux_frontières des étrangers en situation irrégulière sur le territoire français. Jointe à nouveau début octobre, elle ne souhaite rien commenter ou ajouter. Même si elle ne répond pas à nos questions sur ce contrat entre le ministère de l’Intérieur et Corsica Linea, elle ne dément pas. Selon la presse algérienne et Euromed Rights, la France a signé un contrat en juin avec la société privée Corsica Linea pour le retour des migrants par la mer.

    Une détention arbitraire ?

    D’après les témoignages de Camille et Alix, les reconduits ne sortent pas des cellules avant que le bateau ne soit à quai à Alger. Ils sont alors remis aux autorités algériennes, et souvent à nouveau emprisonnés pour « immigration illégale ».

    Patrick Henriot, magistrat honoraire, secrétaire général du groupe d’information et de soutien des immigrés (Gisti) souligne que les textes applicables à l’exécution forcée des #mesures_d’éloignement n’autorisent pas les services de police à priver les personnes de liberté pendant leur acheminement vers le pays de renvoi.

    Certes ils peuvent user d’une certaine contrainte mais elle doit être « strictement nécessaire » et en toutes circonstances rester « proportionnée ». La Paf est là pour sécuriser ces personnes. « Or le #confinement_forcé, pendant toute la durée du trajet, dans une cabine fermée qui n’est rien d’autre qu’une cellule, apparaît manifestement disproportionné » explique Patrick Henriot, qui continue :

    « Sans compter qu’il y a là une atteinte à la dignité des personnes au regard des conditions dans lesquelles se déroule cet emprisonnement qui ne dit pas son nom. »

    Le magistrat ajoute : « Sur un navire, c’est le capitaine qui est titulaire du pouvoir de police. Certes, il peut demander aux policiers de lui prêter main-forte dans l’exercice de ce pouvoir mais la contrainte doit s’exercer sous sa responsabilité, et il doit lui-même veiller à ce qu’elle reste proportionnée ». Selon nos informations, le capitaine n’accompagnait à aucun moment les policiers, leur laissant le plein pouvoir.

    Contactée plusieurs fois par mail et par téléphone, la compagnie Corsica Linea s’est refusée à tout commentaire.

    https://www.streetpress.com/sujet/1665408878-corsica-linea-accueille-ukraniens-expulse-algeriens-marseill
    #tri #catégorisation #réfugiés #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_algériens #expulsion #bateaux #Algérie #France #détention_arbitraire

    ping @isskein @karine4

  • Hungary, Austria and Serbia leaders outline plan to curb migration Access to the comments

    The leaders of Hungary, Austria and Serbia met Monday in Budapest to find solutions on how to stem what they claim is the increasing number of migrants arriving in Europe.

    The three leaders agreed to take joint action to control the new arrivals along the migration route that leads through Serbia.

    Austrian Chancellor Karl Nehammer told reporters after the meeting that the joint action plan would include increased police cooperation along the borders as well as supporting Serbia when it comes to deporting migrants back to their home countries.

    "We will directly support Serbia to carry out repatriations and not only support technical know-how, but also do everything possible that is necessary, and financially support them,” Nehammer said.

    The Austrian chancellor lauded Serbian President Aleksandar Vučić’s announcement that by the end of the year, Serbia would align its visa policies with the European Union so that the visa-free regime with some non-EU countries is no longer used for migration purposes.

    Serbia is a candidate country for full-fledged membership in the bloc.

    “We will thus prevent the situation when someone uses Serbia as a country of arrival but not because of their real needs but for illegal migration toward the west,” Vučić said.

    Hungarian Prime Minister Viktor Orban called for an overall political change in how to approach migration and suggested so-called hot spot centres outside the European Union where asylum-seeker requests should be processed. He added that "we are not satisfied at all with the situation that has developed.”

    That procedure would, however, undermine the national laws of some European countries. Among them is Germany, which has enshrined in its constitution every foreigner’s right to apply for political asylum and have his or her request individually checked while staying in the country.

    Among the migrants recently detained in Austria who have applied for asylum to avoid immediate deportation, Indian nationals accounted for the biggest group in September, according to government data.

    Indian nationals need a visa to enter the EU but can enter Serbia without one. From there, many are trying to reach Western European countries with the help of traffickers, according to government claims.

    Monday’s meeting in the Hungarian capital came after announcements by the Czech Republic and Austria last week that they would launch temporary border controls at their crossings with Slovakia to stop migrants from entering.

    In addition to the meeting in Budapest, the interior ministers of Austria, the Czech Republic, Hungary and Slovakia called on the EU on Monday to better protect the outer borders to curb the latest increase in migration.

    “We’re facing problems that affect all of Europe,” said Czech Interior Minister Vit Rakušan.

    While Serbia has not had any major incidents in handling prior waves of migration, Hungary has been accused of serious human rights violations in the past, including becoming the only EU country that has legalised pushbacks, some of which were said to have been violent.

    Orban is one of the most vocal anti-migration politicians in Europe, known for publically labelling non-European immigrants “Muslim invaders” in an interview with the German newspaper Bild in 2018 and stating migration was “poison” in 2016.

    https://www.euronews.com/2022/10/04/hungary-austria-and-serbia-leaders-outline-plan-to-curb-migration

    #Hongrie #Autriche #Serbie #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #fermeture_des_frontières #coopération_policière #police #renvois #expulsions #visa #visas #Slovaquie #République_Tchèque

  • Migrations. Face au retour des Syriens, la #Tchéquie renforce le contrôle de sa frontière avec la #Slovaquie

    En raison de l’arrivée d’un nombre croissant de migrants clandestins majoritairement d’origine syrienne sur son territoire, la Tchéquie a rétabli des contrôles le long de sa frontière avec la Slovaquie. Une décision très moyennement appréciée à Bratislava.

    « Une mesure inutile qui désintègre Schengen. Et qui, et c’est le plus important, ne réduira la migration clandestine, pas même d’un demi-pied. » SME n’y va pas par le dos de la cuillère pour commenter la décision du gouvernement tchèque. Le grand quotidien slovaque exprime une forme d’incompréhension : « Alors que plus de 1 million d’Ukrainiens sont passés par la Tchéquie [ces derniers mois] et que plus de 300 000 d’entre eux y sont restés (!), il est totalement déraisonnable d’imposer des contrôles pour quelque 11 000 Syriens. Et ce, avec un pays [la Slovaquie] avec lequel ils [les Tchèques] prétendent avoir des relations ’plus que remarquables’. »

    À lire aussi : Réfugiés. De Syrie ou d’Ukraine : la solidarité à deux vitesses des pays d’Europe centrale

    Dans la nuit de mercredi à jeudi, la Tchéquie a renforcé les contrôles policiers à vingt-sept points de passage essentiellement routiers et ferroviaires de la frontière avec son voisin, avec lequel elle célébrera, à la fin de cette année, le trentième anniversaire de la partition de l’ancien État commun tchécoslovaque. Une décision identique a été prise également par l’Autriche, comme le note la Radio tchèque, qui souligne que, « selon Vienne, il s’agit d’une réaction à la décision tchèque ».

    « Pays de transit »

    Comme on peut le voir dans une petite vidéo publiée sur le compte Twitter du ministère, le ministre de l’Intérieur tchèque a expliqué que « le but de cette mesure, qui ne fait plaisir à personne, n’est pas de compliquer la vie des citoyens tchèques et slovaques, mais de faire clairement comprendre aux groupes de passeurs qu’il y a là un obstacle ». Ce vendredi matin, l’agence de presse tchèque CTK annonçait que « la police de Moravie du Sud [la région qui sépare les deux pays] avait arrêté onze passeurs et découvert 247 migrants lors des vingt-quatre premières heures qui ont suivi l’introduction des contrôles ».

    Pour l’heure, ce renforcement le long des quelque 250 kilomètres de frontière n’est prévu que pour une durée de dix jours, alors que la Tchéquie, comme le souligne sur un ton toujours très critique SME, « n’est qu’un pays de transit vers l’Allemagne ».

    Dans un communiqué de presse publié en début de semaine, la police tchèque indiquait avoir interpellé près de 12 000 migrants clandestins, très majoritairement d’origine syrienne et en provenance de Turquie, depuis le début de l’année. « Soit une augmentation interannuelle de 1 200 % », selon le quotidien Lidové noviny, qui note aussi qu’il s’agit là « d’un chiffre plus élevé qu’au plus fort de la crise migratoire en 2015 ». À l’époque, les pays d’Europe centrale dans leur ensemble avaient été vivement critiqués pour leur manque de solidarité avec les autres États européens quant à la répartition des réfugiés.

    Frontières de l’UE

    « La Slovaquie respecte la décision de la Tchéquie. Cependant, Bratislava souhaite que cette mesure soit discutée au niveau de l’Union européenne (UE), car la décision de Prague affecte également d’autres pays européens », a de son côté réagi le ministère de l’Intérieur slovaque. Comme on peut le lire sur le site Postoj.sk, celui-ci estime que l’adoption de cette mesure est d’abord la conséquence « d’une protection insuffisante des frontières extérieures de l’UE ». Autrement dit, vu de Bratislava, cela concerne essentiellement la frontière entre la Hongrie voisine et la Serbie. Selon l’Agence européenne de garde-frontières Frontex, cette voie d’entrée illégale dans l’espace Schengen n’a jamais été aussi active depuis six ans.

    Moins diplomate, le Premier ministre slovaque, Eduard Heger, a critiqué la Tchéquie, estimant que « ce n’est pas une façon de faire », comme le relève Dennik N. Dans le même quotidien, le président de la police slovaque reconnaît toutefois « ne pas avoir la capacité et les moyens de faire face aux migrants », tandis qu’un commentateur du journal Pravda, qui considère la décision tchèque comme « la sonnerie du réveil », regrette, lui, que « le ministère de l’Intérieur [ait] trop longtemps dormi si profondément ».

    https://www.courrierinternational.com/article/migrations-face-au-retour-des-syriens-la-tchequie-renforce-le

    #contrôles_frontaliers #frontières #asile #migrations #réfugiés #route_des_Balkans #réfugiés_syriens #contrôles_policiers #fermeture_des_frontières #Balkans

  • Google Stadia to shut down in January 2023
    https://www.gamedeveloper.com/the-cloud/google-stadia-to-shut-down-in-january-2023

    Google Stadia is ending service in January 2023, though its cloud streaming technology will be used in other areas of the Google business.

    Stadia owners want Google to help controller survive shut down
    https://www.gamedeveloper.com/business/google-is-being-asked-to-expand-wireless-support-for-stadia-controlle

    A growing number of Stadia owners are asking Google to ensure the Stadia Controller can be used once the platform have been shut down.

    Red Dead Redemption 2 fan with nearly 6,000 hours on Stadia begs Rockstar for character transfer | GamesRadar+
    https://www.gamesradar.com/red-dead-redemption-2-fan-with-nearly-6000-hours-on-stadia-begs-rockstar

    A Red Dead Redemption player with almost 6,000 hours logged on Google Stadia is begging Rockstar to allow character transfers after the news of the service’s closure.

    A message about Stadia and our long term streaming strategy
    https://blog.google/products/stadia/message-on-stadia-streaming-strategy

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #business #google #fermeture #fin #stadia #google_stadia #cloud_gaming #gaas #sundar_pichai #contrôleur #ihm #jeu_vidéo_red_dead_redemption_2 #rockstar_games #transfert

  • FANTASMI URBANI - I cinema abbandonati di Roma

    «Fantasmi Urbani» (Silvano Curcio, Silvia Sbordoni - Macine, Christian Ciampoli - Macine, 2013, 25’), presentato per la prima volta al Festival Internazionale del Film di Roma nel novembre 2013, è un docufilm basato sulle video-inchieste sui cinema abbandonati di Roma realizzate dagli studenti del primo anno del Corso di laurea in «Gestione del Processo Edilizio» della Facoltà di Architettura della Sapienza (Corso di «EGI Facility Management» - Prof. Silvano Curcio).

    I numerosi cinema abbandonati di Roma sono veri e propri «fantasmi urbani» e rappresentano un esempio tra i più evidenti di un progressivo - ma negli ultimi anni sempre più esteso - fenomeno urbano di perdita/degrado dei presìdi socio-culturali per la collettività (peraltro spesso anche testimonianze di valore storico e architettonico), accompagnato sovente da operazioni speculative finanziarie e immobiliari.

    Il tema dei cinema abbandonati è oggi al centro di un articolato dibattito a livello urbano e numerosi sono gli articoli di denuncia del fenomeno e di sensibilizzazione al problema da parte dei mass media, così come gli appelli e le iniziative da parte di comitati e reti di cittadini e di associazioni civiche e culturali (petizioni, blog, dibattiti, mostre, occupazioni, ecc.).

    Ecco dunque che 120 «studenti-ghostbusters» sono stati coinvolti in un progetto condiviso di censimento per la conoscenza del fenomeno urbano dei cinema abbandonati e, organizzati in 13 gruppi di lavoro autogestiti, hanno diretto il proprio studio su 13 cinema «fantasma» di Roma, ubicati sia al centro che alla periferia della città.

    E sono così partiti alla caccia delle loro tracce di natura storica, edilizia, architettonica, urbanistica, ecc., invadendo il web, le biblioteche, gli archivi pubblici e privati e, soprattutto, i luoghi di Roma in cui questi cinema giacciono abbandonati: ed è proprio qui che gli studenti hanno raccolto in presa diretta i «ricordi» e le «testimonianze» dei cittadini, vera e propria memoria storica e documentativa dei cinema abbandonati di Roma.

    Il docufilm «Fantasmi Urbani», realizzato grazie alla collaborazione tra Sapienza Università di Roma e Macine (progetto artistico sui cinema chiusi di Roma), è una rielaborazione del lavoro di base degli studenti e ne rappresenta un «distillato» conclusivo: un contributo collettivo finale al censimento conoscitivo dei cinema abbandonati di Roma che viene messo a disposizione della cittadinanza e delle istituzioni e delle persone «interessate», ai fini della conoscenza e della sensibilizzazione su un problema di stretta attualità che tocca la vita sociale, culturale ed urbanistica della città.

    Un punto di arrivo, dunque, ma anche un punto di partenza per altre iniziative che possano stimolare un dibattito in cui associare alla conoscenza anche la progettualità: per contribuire, in definitiva, alla conoscenza delle risorse sociali e culturali rappresentate dai cinema abbandonati, ma anche alla formulazione di proposte concrete su come trasformare questi «fantasmi urbani» in beni comuni ri-utilizzabili a servizio della collettività.

    http://cineabbandonati.blogspot.com

    Pour voir le film:
    https://www.dailymotion.com/video/x269pyn


    #villes-fantôme #ghost-city #géographie_du_vide #villes #urban_matter #Rome #cinéma #abandon #cinémas_abandonnés #Italie #fantômes #fantômes_urbains #film #film_documentaire #fermeture

    #TRUST #master_TRUST

  • Le combat des #éleveurs du #Ndiaël pour récupérer « leurs terres »

    Dans le nord-ouest du Sénégal, une coalition de 37 villages proteste depuis dix ans contre l’attribution de 20 000 hectares à une entreprise agroalimentaire. Ce conflit foncier illustre un phénomène généralisé sur le continent africain : l’#accaparement_de_terres par des #multinationales.

    Tout a dû paraître parfait au ministre de l’élevage du Niger lorsqu’il a visité, le 1er juin 2022, les installations des Fermes de la Teranga, une entreprise implantée dans le nord-ouest du Sénégal, à une cinquantaine de kilomètres de Saint-Louis : immenses étendues de cultures verdoyantes, systèmes d’irrigation fonctionnels, grosses machines agricoles...

    Devant les caméras, Tidjani Idrissa Abdoulkadri s’est dit « très impressionné » par le travail de cette société, qui dit cultiver de la luzerne sur 300 hectares depuis 2021. Il a émis le souhait qu’un jour le fourrage qu’elle produit puisse nourrir le bétail nigérien.

    Mais le tableau qu’a vu le ministre est incomplet. Car à une quinzaine de kilomètres de là, au bout de pistes tracées dans la terre sableuse, Gorgui Sow fulmine. Installé sur une natte dans le salon de sa petite maison, ce septuagénaire pas du genre à se laisser faire raconte comment, depuis dix ans, il s’oppose à ce projet agro-industriel. Son combat, explique-t-il en pulaar, lui a valu de multiples intimidations et convocations à la gendarmerie. Mais pas question de renoncer : la survie de sa famille et du cheptel qui assure ses moyens d’existence en dépend.

    Tout est parti d’un décret signé en 2012 par le président Abdoulaye Wade, cinq jours avant le second tour d’une élection présidentielle à laquelle il était candidat, et confirmé après des tergiversations par son successeur, Macky Sall. Ce texte attribue pour cinquante ans renouvelables 20 000 hectares à Senhuile, une entreprise inconnue, créée par des investisseurs sénégalais et italiens au profil flou.

    La superficie en question couvre trois communes, Ronkh, Diama et Ngnith, mais la majeure partie se trouve à Ngnith, où elle englobe plusieurs dizaines de villages, dont celui de Gorgui Sow. Le décret prévoit aussi l’affectation de 6 500 hectares aux populations qui seraient déplacées par les plans de l’entreprise consistant à produire des graines de tournesol pour l’export.

    Toutes ces terres, proches du lac de Guiers, le plus grand lac du Sénégal, faisaient jusque-là partie de la réserve naturelle du Ndiaël, créée en 1965 et représentant 46 550 hectares. Les populations qui y vivaient pouvaient continuer à y faire pâturer leurs bêtes, soit des milliers de chèvres, ânes, chevaux, moutons, vaches. Elles pouvaient aussi y ramasser du bois mort, récolter des fruits sauvages, des plantes médicinales, de la gomme arabique, etc. Elles avaient en revanche l’interdiction d’y pratiquer l’agriculture.

    Gorgui Sow et ses voisins, tous éleveurs comme lui, ont donc été outrés d’apprendre en 2012 que non seulement leurs lieux de vie avaient été attribués à une entreprise, mais que cette dernière allait y développer à grande échelle une activité longtemps proscrite, le tout pour alimenter des marchés étrangers.

    À l’époque, ce type de transaction foncière était déjà devenu courant au Sénégal. Depuis, le mouvement s’est poursuivi et concerne toute l’Afrique, qui représente 60 % des terres arables de la planète : elle est le continent le plus ciblé par les accaparements fonciers à grande échelle et à des fins agricoles, selon la Land Matrix, une initiative internationale indépendante de suivi foncier.

    Comme les communautés locales ne disposent, en général, que d’un droit d’usage sur les terres qu’elles occupent et que le propriétaire, à savoir l’État, peut les récupérer à tout moment pour les attribuer à un projet déclaré « d’utilité publique », les effets sont similaires partout : elles perdent l’accès à leurs champs, sources d’eau, lieux de pâturage, etc. C’est ce qui est arrivé avec Senhuile.

    À ses débuts, l’entreprise, qui promettait de créer des milliers d’emplois, a défriché plusieurs milliers d’hectares (entre 5 000 et 7 000, selon l’ONG ActionAid), creusant des canaux d’irrigation depuis le lac de Guiers, installant des barbelés. Ce qui était une forêt est devenu une étendue sableuse dégarnie, un « vrai désert », disent les riverains. Mais Senhuile a dû s’arrêter : une partie de la population s’est soulevée, affrontant les gendarmes venus protéger ses installations. Elle n’a au bout du compte pratiquement rien cultivé.

    « Senhuile a détruit les ressources naturelles qui nous permettaient de vivre, explique aujourd’hui Gorgui Sow. Des enfants se sont noyés dans les canaux. Les barbelés qu’elle a installés ont tué nos vaches, la zone de pâturage a été considérablement réduite. » Lui et d’autres habitants ont constitué le Collectif de défense des terres du Ndiaël (Coden) pour demander la restitution de cet espace qu’ils considèrent comme le leur. Il rassemble 37 villages de la commune de Ngnith, ce qui représente environ 10 000 personnes. Tous sont des éleveurs semi-nomades.
    De Senhuile aux Fermes de la Teranga

    Au fil des ans, le Coden que préside Gorgui Sow a noué des alliances au Sénégal et à l’étranger et a bénéficié d’une large couverture médiatique. Il a rencontré diverses autorités à Dakar et dans la région, manifesté, envoyé des lettres de protestation, obtenu des promesses de partage plus équitable des terres. Mais rien ne s’est concrétisé.

    En 2018, il y a eu un changement : Frank Timis, un homme d’affaires roumain, a pris le contrôle de Senhuile, à travers une autre entreprise, African Agriculture Inc. (AAGR), enregistrée en 2018 aux îles Caïmans. C’est à cette occasion que Senhuile a été rebaptisée Fermes de la Teranga, un mot wolof signifiant « hospitalité ». Le nom de Frank Timis est bien connu au Sénégal : il a été notamment cité, avec celui d’un frère de Macky Sall, dans un scandale concernant un contrat pétrolier.

    À la stupeur des éleveurs de Ngnith, AAGR a déposé en mars 2022 une demande d’introduction en Bourse auprès de la Securities and Exchange Commission (SEC), à Washington, afin de lever des fonds. Disant avoir des intérêts au Sénégal et au Niger, elle annonce vouloir intégrer le marché international de vente de crédits carbone, de biocarburants et surtout de luzerne qu’elle a l’intention de proposer aux éleveurs locaux et de la région « ainsi qu’à l’Arabie saoudite, aux Émirats arabes unis et à l’Europe », selon le document remis à la SEC.

    « Qui chez nous aura les moyens d’acheter ce fourrage ? Celui que l’entreprise vend actuellement est hors de prix ! », s’agace Bayal Sow, adjoint au maire de Ngnith et membre du Coden. Il craint l’existence d’objectifs inavoués dans cette affaire, comme de la spéculation foncière. À ses côtés, dans son bureau de la mairie de Ngnith, écrasée par la chaleur de cette fin de saison sèche, un autre adjoint au maire, Maguèye Thiam, acquiesce, écœuré.

    Puisque la zone de pâturage a diminué, troupeaux et bergers sont contraints de partir loin, hors du Ndiaël, pour chercher du fourrage et des espaces où paître, précise-t-il. Dans ces conditions, l’idée que les territoires où les cheptels avaient l’habitude de se nourrir soient transformés en champs de luzerne pour produire du fourrage qui sera très certainement vendu à l’étranger paraît inconcevable.

    Être employé par les Fermes de la Teranga est également impensable : « Nous sommes une population d’éleveurs à 90 %, sans formation, sans diplôme. Nous ne pourrions être que de simples ouvriers. Cela n’a aucun intérêt », observe Hassane Abdourahmane Sow, membre du Coden. « Comment peut-on justifier l’attribution d’autant de terres à une entreprise alors que les populations locales en manquent pour pratiquer elles-mêmes l’agriculture et que l’État parle d’autosuffisance alimentaire ? », demande un autre ressortissant de la région.

    De son côté, AAGR assure que tout se passe bien sur le terrain. Sur le plan social, détaille-t-elle dans un courriel, le processus de concertation avec toutes les parties impliquées a été respecté. Elle dit avoir embauché sur place 73 personnes « qui n’avaient auparavant aucun emploi ni moyen de subsistance ».
    Dissensions

    Comme preuves de ses bonnes relations avec les populations locales, AAGR fournit des copies de lettres émanant de deux collectifs, l’un « des villages impactés de la commune de Ngnith », l’autre « des villages impactés de la commune de Ronkh », lesquels remercient notamment les Fermes de la Teranga de leur avoir donné du sucre lors du ramadan 2021. Ces deux collectifs « qui ont des sièges sociaux et des représentants légaux » sont les « seuls qui peuvent parler au nom des populations de la zone », insiste AAGR. « Toute autre personne qui parlera au nom de ces populations est motivée par autre chose que l’intérêt de la population impactée par le projet », avertit-elle.

    La société, qui a parmi ses administrateurs un ancien ambassadeur américain au Niger, communique aussi deux missives datées du 15 et 16 juillet 2022, signées pour la première par le député-maire de Ngnith et pour la seconde par le coordonnateur du Collectif de villages impactés de Ngnith. Dans des termes similaires, chacun dit regretter les « sorties médiatiques » de « soi-disant individus de la localité pour réclamer le retour de leurs terres ». « Nous sommes derrière vous pour la réussite du projet », écrivent-ils.

    Les Fermes de la Teranga se prévalent en outre d’avoir mis à disposition des communautés locales 500 hectares de terres. « Mais ces hectares profitent essentiellement à des populations de Ronkh qui ne sont pas affectées par le projet », fait remarquer un ressortissant de Ngnith qui demande : « Est-ce à l’entreprise “d’offrir” 500 hectares aux communautés sur leurs terres ? »

    Non seulement ce projet agro-industriel a « un impact sur nos conditions de vie mais il nous a divisés », s’attriste Hassane Abdourahmane Sow : « Des membres de notre collectif l’ont quitté parce qu’ils ont eu peur ou ont été corrompus. Certains villages, moins affectés par la présence de l’entreprise, ont pris parti pour elle, tout comme des chefs religieux, ce qui a là aussi généré des tensions entre leurs fidèles et eux. »

    « Il faut s’asseoir autour d’une table et discuter, suggère Maguèye Thiam. Nous ne sommes pas opposés à l’idée que cette société puisse bénéficier d’une superficie dans la région. Mais il faut que sa taille soit raisonnable, car les populations n’ont que la terre pour vivre », observe-t-il, donnant l’exemple d’une autre firme étrangère implantée sur 400 hectares et avec laquelle la cohabitation est satisfaisante.

    Interrogé par messagerie privée à propos de ce conflit foncier, le porte-parole du gouvernement sénégalais n’a pas réagi. Les membres du Coden répètent, eux, qu’ils continueront leur lutte « jusqu’au retour de (leurs) terres » et projettent de nouvelles actions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/260822/le-combat-des-eleveurs-du-ndiael-pour-recuperer-leurs-terres

    #élevage #terre #terres #résistance #Sénégal #industrie_agro-alimentaire #Fermes_de_la_Teranga #agriculture #décret #Senhuile #Ronkh #Diama #Ngnith #tournesol #graines_de_tournesol #exportation #réserve_naturelle #foncier #lac_de_Guiers #eau #irrigation #barbelés #déforestation #pâturage #Collectif_de_défense_des_terres_du_Ndiaël (#Coden) #Frank_Timis #African_Agriculture_Inc. (#AAGR) #luzerne #fourrage #spéculation #conflits

  • Les humains malades du plastique | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/098825-000-A/les-humains-malades-du-plastique
    https://api-cdn.arte.tv/img/v2/image/KHGWXvb6KBhWQjQdEoFQUi/1920x1080?type=TEXT&watermark=true

    Les humains malades du plastique

    L’envahissant plastique serait-il responsable de l’épidémie de cancers du sein, d’infertilité et de troubles neurologiques qui frappe la planète ? Un état des lieux alarmant des effets des perturbateurs endocriniens sur notre santé.

    Alors que le plastique est omniprésent dans notre vie, le nombre d’affections comme le cancer du sein (qui touche une femme sur huit aujourd’hui), l’infertilité ou les troubles déficitaires de l’attention avec ou sans hyperactivité (TDAH) explose. Faut-il y voir un lien de cause à effet ? Au début des années 1990, d’éminents scientifiques ont émis l’hypothèse que des substances chimiques présentes dans les matières plastiques dérégleraient notre système hormonal. Depuis, de nombreuses études tentent d’évaluer l’impact des perturbateurs endocriniens sur notre santé. Alors que ces derniers sont pointés du doigt dans la diminution de la qualité des spermatozoïdes, des chercheurs danois ont récemment pu observer des effets similaires sur la capacité reproductive féminine : lorsqu’elles sont en contact avec une association de produits chimiques répandus, les rates étudiées produisent moins d’ovules que leurs congénères non exposées. Toujours à l’université technique du Danemark, une autre équipe a constaté que les différences sexuelles tendent à se réduire, jusqu’à devenir indiscernables dans certains cas, chez les petits auxquels ces dernières donnent naissance. Mais les chercheurs se heurtent souvent à l’hostilité d’industriels qui contestent leurs conclusions.

    Résultat : il faut parfois jusqu’à vingt ans pour prouver la nocivité des substances chimiques, isolées ou combinées. Car, par un phénomène appelé « effet cocktail », les perturbateurs endocriniens peuvent devenir plus dangereux lorsqu’ils sont mélangés.

    Cri d’alarme

    « On est en train de mener une gigantesque expérience sur la population et on n’en connaît pas les conséquences », assène la biologiste française Barbara Demeneix, qui s’attache à prouver les effets négatifs des perturbateurs endocriniens sur le développement du cerveau. Mêlant éclairages de scientifiques et témoignages de victimes des maux qu’ils étudient (couples en mal d’enfant, femmes atteintes d’un cancer du sein ou d’un TDAH), ce documentaire dresse un état des lieux complet des connaissances actuelles et offre un aperçu des recherches en cours.

    Réalisation : Louise Kjeldsen
    Pays : Allemagne
    Année : 2021

    #plastique #hormones #cancer #recherche #perturbation_du_langage #perturbateurs_endocriniens #TDAH #autisme #développement_sexuel #puberté_précoce

    Et les diverses conclusions de ces recherches tendent à montrer que les cancers sont induits dès les premières semaines fœtales, notamment le cancer du sein.

  • La UE aumenta los fondos de gestión migratoria en Marruecos con 500 millones

    La asignación para el periodo 2021-2027 es de casi un 50% más que los 346 millones que había recibido en el anterior.

    La Unión Europea (UE) aumentará el paquete de ayuda a Marruecos para la gestión migratoria en unos 500 millones de euros para el periodo 2021-2027. Esto supone un 50% más que en el periodo anterior (2014-2020) cuando el paquete presupuestario era de 346 millones.

    Estos paquetes de «ayuda sustancial» para Rabat en el ámbito migratorio incluyen un programa de apoyo presupuestario que se encuentra en negociación, pero que podría suponer unos 150 millones de euros, según fuentes comunitarias. Además, se está considerando para el futuro otra fase del programa de apoyo presupuestario por un montante «aproximadamente similar».

    La Comisión Europea y Marruecos acordaron una nueva asociación operativa contra el tráfico de personas, cuando la comisaria de Interior, Ylva Johansson, visitó el país el pasado 8 de julio.

    En particular, prevé un apoyo en la gestión de fronteras, la cooperación policial reforzada (incluidas las investigaciones conjuntas), concienciación sobre los peligros de la migración irregular y una mayor cooperación con las agencias de la UE que trabajan en el ámbito de los asuntos de interior. La Comisión considera que Marruecos «es un socio estratégico y comprometido» con el que los Veintisiete han cooperado en temas migratorios desde hace años.

    Rabat también se beneficiará de nuevas acciones nacionales junto con otras regionales, en las áreas de lucha contra el tráfico y la trata de personas, protección, retorno y reintegración, así como en el ámbito de la migración legal, señalaron fuentes comunitarias. Precisaron, por otra parte, que está en discusión el apoyo futuro a Marruecos en ese contexto y que solo se podrá dar detalles una vez que los diferentes programas estén finalizados.

    La UE tiene la intención de seguir apoyando la gobernanza y la gestión de la migración en Marruecos, incluso con acciones específicas destinadas a garantizar que las fronteras sean gestionadas de acuerdo con las normas internacionales de derechos humanos, indicaron las fuentes. El apoyo financiero de la UE es parte de un diálogo integral UE-Marruecos sobre migración, en línea con los principios consagrados en el Pacto Europeo para la Migración y el Asilo.

    El enfoque principal de la cooperación es la promoción de los derechos y la protección de los migrantes y refugiados vulnerables, el apoyo institucional para la gestión de la migración, así como la creación de oportunidades económicas y el apoyo a los esquemas de movilidad legal como alternativas a la migración irregular, aseguraron las fuentes.

    https://www.publico.es/internacional/ue-aumenta-fondos-gestion-migratoria-marruecos-500-millones.html#md=modulo-p
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    • Lutte contre l’immigration clandestine : comment l’UE a fait du Maroc son « #partenaire_privilégié »

      Près de 500 millions d’euros : telle est la somme que va verser l’Union européenne au Maroc pour lutter contre l’immigration clandestine. Un pas de plus dans la collaboration entre l’Europe et le royaume, qui cherche depuis des années à « asseoir son leadership » en matière de migration.

      C’est une preuve de plus du rapprochement qui s’opère entre le Maroc et l’Union européenne (UE) au sujet des questions migratoires. Bruxelles va verser au royaume la somme de 500 millions d’euros « pour renforcer ses actions dans la lutte contre l’immigration clandestine », a affirmé, lundi 15 août, le journal espagnol El Pais.

      Cet argent servira à consolider les nouveaux mécanismes de coopération entre l’UE et le Maroc, à savoir l’appui à la gestion des frontières, le renforcement de la coopération policière (y compris les enquêtes conjointes), et la sensibilisation aux dangers de l’immigration irrégulière.

      Une partie de la somme sera aussi dédiée « au développement des politiques d’intégration et de protection des réfugiés au Maroc », ainsi qu’à « la lutte contre les mafias », relaie le site d’informations marocain Médias24.

      Les 500 millions d’euros d’aide annoncés dépassent largement les 343 millions d’euros reçus précédemment par le Maroc, fait savoir aussi El Pais.

      L’immigration irrégulière, « une source d’instabilité »

      Cette somme promise vient clore un cycle de rencontres et de rapprochements mutuels ayant eu lieu ces derniers mois entre l’UE et le Maroc. Le 8 juillet, la commissaire européenne chargée des affaires intérieures #Ylva_Johansson et le ministre espagnol de l’Intérieur, #Fernando_Grande-Marlaska, avaient rencontré à Rabat le ministre de l’Intérieur marocain, #Abdelouafi_Laftit. Ensemble, ils avaient lancé « un partenariat rénové en matière de migration et de lutte contre les réseaux de trafic de personnes », peut-on lire dans un communiqué de la Commission européenne. Celui-ci couvre les mêmes prérogatives que l’aide financière décidée ces derniers jours.

      En mars, le commissaire européen chargé du voisinage et de l’élargissement #Oliver_Varhelyi avait posé, depuis Rabat, les jalons de cette #collaboration renforcée. « Nous sommes très reconnaissants du travail dur et persistant réalisé par le Maroc et qui doit se poursuivre. Et nous sommes prêts à contribuer de notre part pour faciliter ce travail, parce que nous sommes convaincus que l’immigration irrégulière est une source d’instabilité et de vulnérabilité pour la région », avait-il assuré au ministre marocain des Affaires étrangères, Nasser Bourita.

      Le commissaire avait même affirmé vouloir « élargir cette coopération », avec « des moyens financiers plus élevés qu’avant ».

      Les migrants comme outil de pression

      Pour l’Europe, l’objectif est clair : « Faire face, ensemble, aux réseaux de trafic des personnes, notamment suite à l’émergence de nouveaux modes opératoires extrêmement violents adoptés par ces réseaux criminels », indique encore le communiqué de la Commission européenne, qui voit en Rabat « un partenaire stratégique et engagé [...] en matière de migration », « loyal et fiable ».

      L’enthousiasme de l’UE à l’égard du Maroc avait pourtant été douché en mai 2021, après le passage de plus de 10 000 migrants dans l’enclave espagnole de Ceuta, les 17 et 18 mai. En cause ? Les tensions diplomatiques entre Madrid et Rabat à propos de l’accueil, par l’Espagne fin avril, du chef des indépendantistes sahraouis du Front Polisario, Brahim Ghali, pour des soins médicaux. L’UE avait alors suspendu son aide financière au Maroc tout juste décaissée, et qui devait courir jusqu’à 2027. « Personne ne peut faire chanter l’Europe », avait alors déclaré Margaritis Schinas, vice-présidente de la Commission européenne.

      Un peu plus d’un an plus tard, les drames survenus sur les routes migratoires marocaines qui mènent à l’Europe ont, semblent-ils, changé la donne. La pression migratoire qui s’exerce aux frontières de Ceuta et Melilla et en mer, ont poussé l’UE à faire évoluer sa relation avec le Maroc, qui y trouve son intérêt.

      « Cela fait longtemps que l’Europe et le royaume essaient de trouver des points de convergence. Mais ce dernier a longtemps résisté aux propositions européennes, ne voulant pas être ’otage’ d’un accord multilatéral sur ces questions, et abîmer son image auprès des pays africains, dont il cherche à se rapprocher », explique à InfoMigrants Catherine Withol de Wenden, directrice de recherche au CNRS, spécialiste des migrations internationales. Mais aujourd’hui, le royaume s’attache au contraire « à tirer profit de sa position géographique, pour faire monter la pression côté européen, et asseoir son leadership à ce sujet », précise la spécialiste.

      La stratégie du récent « partenaire privilégié » de l’UE fonctionne aussi sur ses membres. Le 19 mars, Madrid a en effet soutenu pour la première fois publiquement la position de Rabat sur le dossier du Sahara occidental. Et ce, alors même que le pays avait toujours prôné jusqu’ici la neutralité entre Rabat et le Polisario. « En faisant volte-face sur la question du Sahara occidental, l’Espagne a montré son point faible. Elle ne veut plus se brouiller avec le Maroc, car les conséquences, on le sait, sont très fâcheuses », avait confirmé à InfoMigrants Brahim Oumansour, chercheur à l’IRIS (Institut des relations internationales et stratégiques), spécialiste du monde arabe.

      À l’intérieur des frontières du Maroc, dont la politique migratoire est tant vantée par l’UE, s’appliquent pourtant de nombreuses violences à l’égard des migrants, sans papiers ou demandeurs d’asile. La répression des exilés est bien souvent privilégiée par les autorités, en lieu et place d’un accueil digne. Mercredi 17 août, un groupe de 28  migrants doit être jugé à Nador, dans le nord-est du pays, pour avoir tenté de franchir les hautes clôtures qui séparent Melilla du territoire marocain, avec 1 500 autres personnes. Ces prévenus sont, pour la plupart, originaires du Tchad et du Soudan, pays parmi les plus pauvres du monde.


      https://www.infomigrants.net/fr/post/42670/lutte-contre-limmigration-clandestine--comment-lue-a-fait-du-maroc-son

      #partenariat