• Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

    Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

    L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.

    Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.

    Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.

    La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.

    Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”

    Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.

    È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.

    Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.

    I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.

    Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.

    I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei

    Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.

    Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.

    https://altreconomia.it/cosi-litalia-ha-svuotato-il-diritto-alla-trasparenza-sulle-frontiere
    #Tunisie #Egypte #transparence #Agenzia_industrie_difesa (#Aid) #Support_to_integrated_border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #gardes-côtes_libyens #Frontex

  • Beyond borders, beyond boundaries. A Critical Analysis of EU Financial Support for Border Control in Tunisia and Libya

    In recent years, the European Union (EU) and its Member States have intensified their effort to prevent migrants and asylum seekers from reaching their borders. One strategy to reach this goal consists of funding programs for third countries’ coast guards and border police, as currently happens in Libya and Tunisia.

    These programs - funded by the #EUTF_for_Africa and the #NDICI-Global_Europe - allocate funding to train and equip authorities, including the delivery and maintenance of assets. NGOs, activists, and International Organizations have amassed substantial evidence implicating Libyan and Tunisian authorities in severe human rights violations.

    The Greens/EFA in the European Parliament commissioned a study carried out by Profundo, ARCI, EuroMed Rights and Action Aid, on how EU funding is linked to human rights violations in neighbouring countries, such as Tunisia and Libya.

    The study answers the following questions:

    - What is the state of EU funding for programs aimed at enhancing border control capacities in Libya and Tunisia?
    - What is the human rights impact of these initiatives?
    - What is the framework for human rights compliance?
    - How do the NDICI-Global Europe decision-making processes work?

    The report highlights that the shortcomings in human rights compliance within border control programs, coupled with the lack of proper transparency clearly contradicts EU and international law. Moreover, this results in the insufficient consideration of the risk of human rights violations when allocating funding for both ongoing and new programs.

    This is particularly concerning in the cases of Tunisia and Libya, where this report collects evidence that the ongoing strategies, regardless of achieving or not the questionable goals of reducing migration flows, have a very severe human rights impact on migrants, asylum seekers and refugees.

    Pour télécharger l’étude:
    https://www.greens-efa.eu/fr/article/study/beyond-borders-beyond-boundaries

    https://www.greens-efa.eu/fr/article/study/beyond-borders-beyond-boundaries

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  • Comment l’Europe sous-traite à l’#Afrique le contrôle des #migrations (1/4) : « #Frontex menace la #dignité_humaine et l’#identité_africaine »

    Pour freiner l’immigration, l’Union européenne étend ses pouvoirs aux pays d’origine des migrants à travers des partenariats avec des pays africains, parfois au mépris des droits humains. Exemple au Sénégal, où le journaliste Andrei Popoviciu a enquêté.

    Cette enquête en quatre épisodes, publiée initialement en anglais dans le magazine américain In These Times (https://inthesetimes.com/article/europe-militarize-africa-senegal-borders-anti-migration-surveillance), a été soutenue par une bourse du Leonard C. Goodman Center for Investigative Reporting.

    Par une brûlante journée de février, Cornelia Ernst et sa délégation arrivent au poste-frontière de Rosso. Autour, le marché d’artisanat bouillonne de vie, une épaisse fumée s’élève depuis les camions qui attendent pour passer en Mauritanie, des pirogues hautes en couleur dansent sur le fleuve Sénégal. Mais l’attention se focalise sur une fine mallette noire posée sur une table, face au chef du poste-frontière. Celui-ci l’ouvre fièrement, dévoilant des dizaines de câbles méticuleusement rangés à côté d’une tablette tactile. La délégation en a le souffle coupé.

    Le « Universal Forensics Extraction Device » (UFED) est un outil d’extraction de données capable de récupérer les historiques d’appels, photos, positions GPS et messages WhatsApp de n’importe quel téléphone portable. Fabriqué par la société israélienne Cellebrite, dont il a fait la réputation, l’UFED est commercialisé auprès des services de police du monde entier, notamment du FBI, pour lutter contre le terrorisme et le trafic de drogues. Néanmoins, ces dernières années, le Nigeria et le Bahreïn s’en sont servis pour voler les données de dissidents politiques, de militants des droits humains et de journalistes, suscitant un tollé.

    Toujours est-il qu’aujourd’hui, une de ces machines se trouve au poste-frontière entre Rosso-Sénégal et Rosso-Mauritanie, deux villes du même nom construites de part et d’autre du fleuve qui sépare les deux pays. Rosso est une étape clé sur la route migratoire qui mène jusqu’en Afrique du Nord. Ici, cependant, cette technologie ne sert pas à arrêter les trafiquants de drogue ou les terroristes, mais à suivre les Ouest-Africains qui veulent migrer vers l’Europe. Et cet UFED n’est qu’un outil parmi d’autres du troublant arsenal de technologies de pointe déployé pour contrôler les déplacements dans la région – un arsenal qui est arrivé là, Cornelia Ernst le sait, grâce aux technocrates de l’Union européenne (UE) avec qui elle travaille.

    Cette eurodéputée allemande se trouve ici, avec son homologue néerlandaise Tineke Strik et une équipe d’assistants, pour mener une mission d’enquête en Afrique de l’Ouest. Respectivement membres du Groupe de la gauche (GUE/NGL) et du Groupe des Verts (Verts/ALE) au Parlement européen, les deux femmes font partie d’une petite minorité de députés à s’inquiéter des conséquences de la politique migratoire européenne sur les valeurs fondamentales de l’UE – à savoir les droits humains –, tant à l’intérieur qu’à l’extérieur de l’Europe.

    Le poste-frontière de Rosso fait partie intégrante de la politique migratoire européenne. Il accueille en effet une nouvelle antenne de la Division nationale de lutte contre le trafic de migrants (DNLT), fruit d’un « partenariat opérationnel conjoint » entre le Sénégal et l’UE visant à former et équiper la police des frontières sénégalaise et à dissuader les migrants de gagner l’Europe avant même qu’ils ne s’en approchent. Grâce à l’argent des contribuables européens, le Sénégal a construit depuis 2018 au moins neuf postes-frontières et quatre antennes régionales de la DNLT. Ces sites sont équipés d’un luxe de technologies de surveillance intrusive : outre la petite mallette noire, ce sont des logiciels d’identification biométrique des empreintes digitales et de reconnaissance faciale, des drones, des serveurs numériques, des lunettes de vision nocturne et bien d’autres choses encore…

    Dans un communiqué, un porte-parole de la Commission européenne affirme pourtant que les antennes régionales de la DNLT ont été créées par le Sénégal et que l’UE se borne à financer les équipements et les formations.

    « Frontex militarise la Méditerranée »

    Cornelia Ernst redoute que ces outils ne portent atteinte aux droits fondamentaux des personnes en déplacement. Les responsables sénégalais, note-t-elle, semblent « très enthousiasmés par les équipements qu’ils reçoivent et par leur utilité pour suivre les personnes ». Cornelia Ernst et Tineke Strik s’inquiètent également de la nouvelle politique, controversée, que mène la Commission européenne depuis l’été 2022 : l’Europe a entamé des négociations avec le Sénégal et la Mauritanie pour qu’ils l’autorisent à envoyer du personnel de l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes, Frontex, patrouiller aux frontières terrestres et maritimes des deux pays. Objectif avoué : freiner l’immigration africaine.

    Avec un budget de 754 millions d’euros, Frontex est l’agence la mieux dotée financièrement de toute l’UE. Ces cinq dernières années, un certain nombre d’enquêtes – de l’UE, des Nations unies, de journalistes et d’organisations à but non lucratif – ont montré que Frontex a violé les droits et la sécurité des migrants qui traversent la Méditerranée, notamment en aidant les garde-côtes libyens, financés par l’UE, à renvoyer des centaines de milliers de migrants en Libye, un pays dans lequel certains sont détenus, torturés ou exploités comme esclaves sexuels. En 2022, le directeur de l’agence, Fabrice Leggeri, a même été contraint de démissionner à la suite d’une cascade de scandales. Il lui a notamment été reproché d’avoir dissimulé des « pushbacks » : des refoulements illégaux de migrants avant même qu’ils ne puissent déposer une demande d’asile.

    Cela fait longtemps que Frontex est présente de façon informelle au Sénégal, en Mauritanie et dans six autres pays d’Afrique de l’Ouest, contribuant au transfert de données migratoires de ces pays vers l’UE. Mais jamais auparavant l’agence n’avait déployé de gardes permanents à l’extérieur de l’UE. Or à présent, Bruxelles compte bien étendre les activités de Frontex au-delà de son territoire, sur le sol de pays africains souverains, anciennes colonies européennes qui plus est, et ce en l’absence de tout mécanisme de surveillance. Pour couronner le tout, initialement, l’UE avait même envisagé d’accorder l’immunité au personnel de Frontex posté en Afrique de l’Ouest.

    D’évidence, les programmes européens ne sont pas sans poser problème. La veille de leur arrivée à Rosso, Cornelia Ernst et Tineke Strik séjournent à Dakar, où plusieurs groupes de la société civile les mettent en garde. « Frontex menace la dignité humaine et l’identité africaine », martèle Fatou Faye, de la Fondation Rosa Luxemburg, une ONG allemande. « Frontex militarise la Méditerranée », renchérit Saliou Diouf, fondateur de l’association de défense des migrants Boza Fii. Si Frontex poste ses gardes aux frontières africaines, ajoute-t-il, « c’est la fin ».

    Ces programmes s’inscrivent dans une vaste stratégie d’« externalisation des frontières », selon le jargon européen en vigueur. L’idée ? Sous-traiter de plus en plus le contrôle des frontières européennes en créant des partenariats avec des gouvernements africains – autrement dit, étendre les pouvoirs de l’UE aux pays d’origine des migrants. Concrètement, cette stratégie aux multiples facettes consiste à distribuer des équipements de surveillance de pointe, à former les forces de police et à mettre en place des programmes de développement qui prétendent s’attaquer à la racine des migrations.

    Des cobayes pour l’Europe

    En 2016, l’UE a désigné le Sénégal, qui est à la fois un pays d’origine et de transit des migrants, comme l’un de ses cinq principaux pays partenaires pour gérer les migrations africaines. Mais au total, ce sont pas moins de 26 pays africains qui reçoivent de l’argent des contribuables européens pour endiguer les vagues de migration, dans le cadre de 400 projets distincts. Entre 2015 et 2021, l’UE a investi 5 milliards d’euros dans ces projets, 80 % des fonds étant puisés dans les budgets d’aide humanitaire et au développement. Selon des données de la Fondation Heinrich Böll, rien qu’au Sénégal, l’Europe a investi au moins 200 milliards de francs CFA (environ 305 millions d’euros) depuis 2005.

    Ces investissements présentent des risques considérables. Il s’avère que la Commission européenne omet parfois de procéder à des études d’évaluation d’impact sur les droits humains avant de distribuer ses fonds. Or, comme le souligne Tineke Strik, les pays qu’elle finance manquent souvent de garde-fous pour protéger la démocratie et garantir que les technologies et les stratégies de maintien de l’ordre ne seront pas utilisées à mauvais escient. En réalité, avec ces mesures, l’UE mène de dangereuses expériences technico-politiques : elle équipe des gouvernements autoritaires d’outils répressifs qui peuvent être utilisés contre les migrants, mais contre bien d’autres personnes aussi.

    « Si la police dispose de ces technologies pour tracer les migrants, rien ne garantit qu’elle ne s’en servira pas contre d’autres individus, comme des membres de la société civile et des acteurs politiques », explique Ousmane Diallo, chercheur au bureau d’Afrique de l’Ouest d’Amnesty International.

    En 2022, j’ai voulu mesurer l’impact au Sénégal des investissements réalisés par l’UE dans le cadre de sa politique migratoire. Je me suis rendu dans plusieurs villes frontalières, j’ai discuté avec des dizaines de personnes et j’ai consulté des centaines de documents publics ou qui avaient fuité. Cette enquête a mis au jour un complexe réseau d’initiatives qui ne s’attaquent guère aux problèmes qui poussent les gens à émigrer. En revanche, elles portent un rude coup aux droits fondamentaux, à la souveraineté nationale du Sénégal et d’autres pays d’Afrique, ainsi qu’aux économies locales de ces pays, qui sont devenus des cobayes pour l’Europe.

    Des politiques « copiées-collées »

    Depuis la « crise migratoire » de 2015, l’UE déploie une énergie frénétique pour lutter contre l’immigration. A l’époque, plus d’un million de demandeurs d’asile originaires du Moyen-Orient et d’Afrique – fuyant les conflits, la violence et la pauvreté – ont débarqué sur les côtes européennes. Cette « crise migratoire » a provoqué une droitisation de l’Europe. Les leaders populistes surfant sur la peur des populations et présentant l’immigration comme une menace sécuritaire et identitaire, les partis nationalistes et xénophobes en ont fait leurs choux gras.

    Reste que le pic d’immigration en provenance d’Afrique de l’Ouest s’est produit bien avant 2015 : en 2006, plus de 31 700 migrants sont arrivés par bateau aux îles Canaries, un territoire espagnol situé à une centaine de kilomètres du Maroc. Cette vague a pris au dépourvu le gouvernement espagnol, qui s’est lancé dans une opération conjointe avec Frontex, baptisée « Hera », pour patrouiller le long des côtes africaines et intercepter les bateaux en direction de l’Europe.

    Cette opération « Hera », que l’ONG britannique de défense des libertés Statewatch qualifie d’« opaque », marque le premier déploiement de Frontex à l’extérieur du territoire européen. C’est aussi le premier signe d’externalisation des frontières européennes en Afrique depuis la fin du colonialisme au XXe siècle. En 2018, Frontex a quitté le Sénégal, mais la Guardia Civil espagnole y est restée jusqu’à ce jour : pour lutter contre l’immigration illégale, elle patrouille le long des côtes et effectue même des contrôles de passeports dans les aéroports.

    En 2015, en pleine « crise », les fonctionnaires de Bruxelles ont musclé leur stratégie : ils ont décidé de dédier des fonds à la lutte contre l’immigration à la source. Ils ont alors créé le Fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique (EUTF). Officiellement, il s’agit de favoriser la stabilité et de remédier aux causes des migrations et des déplacements irréguliers des populations en Afrique.

    Malgré son nom prometteur, c’est la faute de l’EUTF si la mallette noire se trouve à présent au poste-frontière de Rosso – sans oublier les drones et les lunettes de vision nocturne. Outre ce matériel, le fonds d’urgence sert à envoyer des fonctionnaires et des consultants européens en Afrique, pour convaincre les gouvernements de mettre en place de nouvelles politiques migratoires – des politiques qui, comme me le confie un consultant anonyme de l’EUTF, sont souvent « copiées-collées d’un pays à l’autre », sans considération aucune des particularités nationales de chaque pays. « L’UE force le Sénégal à adopter des politiques qui n’ont rien à voir avec nous », explique la chercheuse sénégalaise Fatou Faye à Cornelia Ernst et Tineke Strik.

    Une mobilité régionale stigmatisée

    Les aides européennes constituent un puissant levier, note Leonie Jegen, chercheuse à l’université d’Amsterdam et spécialiste de l’influence de l’UE sur la politique migratoire sénégalaise. Ces aides, souligne-t-elle, ont poussé le Sénégal à réformer ses institutions et son cadre législatif en suivant des principes européens et en reproduisant des « catégories politiques eurocentrées » qui stigmatisent, voire criminalisent la mobilité régionale. Et ces réformes sont sous-tendues par l’idée que « le progrès et la modernité » sont des choses « apportées de l’extérieur » – idée qui n’est pas sans faire écho au passé colonial.

    Il y a des siècles, pour se partager l’Afrique et mieux piller ses ressources, les empires européens ont dessiné ces mêmes frontières que l’UE est aujourd’hui en train de fortifier. L’Allemagne a alors jeté son dévolu sur de grandes parties de l’Afrique de l’Ouest et de l’Afrique de l’Est ; les Pays-Bas ont mis la main sur l’Afrique du Sud ; les Britanniques ont décroché une grande bande de terre s’étendant du nord au sud de la partie orientale du continent ; la France a raflé des territoires allant du Maroc au Congo-Brazzaville, notamment l’actuel Sénégal, qui n’est indépendant que depuis soixante-trois ans.

    L’externalisation actuelle des frontières européennes n’est pas un cas totalement unique. Les trois derniers gouvernements américains ont abreuvé le Mexique de millions de dollars pour empêcher les réfugiés d’Amérique centrale et d’Amérique du Sud d’atteindre la frontière américaine, et l’administration Biden a annoncé l’ouverture en Amérique latine de centres régionaux où il sera possible de déposer une demande d’asile, étendant ainsi de facto le contrôle de ses frontières à des milliers de kilomètres au-delà de son territoire.

    Cela dit, au chapitre externalisation des frontières, la politique européenne en Afrique est de loin la plus ambitieuse et la mieux financée au monde.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/06/comment-l-europe-sous-traite-a-l-afrique-le-controle-des-migrations-1-4-fron

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    • Comment l’Europe sous-traite à l’Afrique le contrôle des migrations (2/4) : « Nous avons besoin d’aide, pas d’outils sécuritaires »

      Au Sénégal, la création et l’équipement de postes-frontières constituent des éléments clés du partenariat avec l’Union européenne. Une stratégie pas toujours efficace, tandis que les services destinés aux migrants manquent cruellement de financements.

      Par une étouffante journée de mars, j’arrive au poste de contrôle poussiéreux du village sénégalais de #Moussala, à la frontière avec le #Mali. Des dizaines de camions et de motos attendent, en ligne, de traverser ce point de transit majeur. Après avoir demandé pendant des mois, en vain, la permission au gouvernement d’accéder au poste-frontière, j’espère que le chef du poste m’expliquera dans quelle mesure les financements européens influencent leurs opérations. Refusant d’entrer dans les détails, il me confirme que son équipe a récemment reçu de l’Union européenne (UE) des formations et des équipements dont elle se sert régulièrement. Pour preuve, un petit diplôme et un trophée, tous deux estampillés du drapeau européen, trônent sur son bureau.

      La création et l’équipement de postes-frontières comme celui de Moussala constituent des éléments clés du partenariat entre l’UE et l’#Organisation_internationale_pour_les_migrations (#OIM). Outre les technologies de surveillance fournies aux antennes de la Division nationale de lutte contre le trafic de migrants (DNLT, fruit d’un partenariat entre le Sénégal et l’UE), chaque poste-frontière est équipé de systèmes d’analyse des données migratoires et de systèmes biométriques de reconnaissance faciale et des empreintes digitales.

      Officiellement, l’objectif est de créer ce que les fonctionnaires européens appellent un système africain d’#IBM, à savoir « #Integrated_Border_Management » (en français, « gestion intégrée des frontières »). Dans un communiqué de 2017, le coordinateur du projet de l’OIM au Sénégal déclarait : « La gestion intégrée des frontières est plus qu’un simple concept, c’est une culture. » Il avait semble-t-il en tête un changement idéologique de toute l’Afrique, qui ne manquerait pas selon lui d’embrasser la vision européenne des migrations.

      Technologies de surveillance

      Concrètement, ce système IBM consiste à fusionner les #bases_de_données sénégalaises (qui contiennent des données biométriques sensibles) avec les données d’agences de police internationales (comme #Interpol et #Europol). Le but : permettre aux gouvernements de savoir qui franchit quelle frontière et quand. Un tel système, avertissent les experts, peut vite faciliter les expulsions illégales et autres abus.

      Le risque est tout sauf hypothétique. En 2022, un ancien agent des services espagnols de renseignement déclarait au journal El Confidencial que les autorités de plusieurs pays d’Afrique « utilisent les technologies fournies par l’Espagne pour persécuter et réprimer des groupes d’opposition, des militants et des citoyens critiques envers le pouvoir ». Et d’ajouter que le gouvernement espagnol en avait parfaitement conscience.

      D’après un porte-parole de la Commission européenne, « tous les projets qui touchent à la sécurité et sont financés par l’UE comportent un volet de formation et de renforcement des capacités en matière de droits humains ». Selon cette même personne, l’UE effectue des études d’impact sur les droits humains avant et pendant la mise en œuvre de ces projets. Mais lorsque, il y a quelques mois, l’eurodéputée néerlandaise Tineke Strik a demandé à voir ces études d’impact, trois différents services de la Commission lui ont envoyé des réponses officielles disant qu’ils ne les avaient pas. En outre, selon un de ces services, « il n’existe pas d’obligation réglementaire d’en faire ».

      Au Sénégal, les libertés civiles sont de plus en plus menacées et ces technologies de surveillance risquent d’autant plus d’être utilisées à mauvais escient. Rappelons qu’en 2021, les forces de sécurité sénégalaises ont tué quatorze personnes qui manifestaient contre le gouvernement ; au cours des deux dernières années, plusieurs figures de l’opposition et journalistes sénégalais ont été emprisonnés pour avoir critiqué le gouvernement, abordé des questions politiques sensibles ou avoir « diffusé des fausses nouvelles ». En juin, après qu’Ousmane Sonko, principal opposant au président Macky Sall, a été condamné à deux ans d’emprisonnement pour « corruption de la jeunesse », de vives protestations ont fait 23 morts.

      « Si je n’étais pas policier, je partirais aussi »

      Alors que j’allais renoncer à discuter avec la police locale, à Tambacounda, autre grand point de transit non loin des frontières avec le Mali et la Guinée, un policier de l’immigration en civil a accepté de me parler sous couvert d’anonymat. C’est de la région de #Tambacounda, qui compte parmi les plus pauvres du Sénégal, que proviennent la plupart des candidats à l’immigration. Là-bas, tout le monde, y compris le policier, connaît au moins une personne qui a tenté de mettre les voiles pour l’Europe.

      « Si je n’étais pas policier, je partirais aussi », me confie-t-il par l’entremise d’un interprète, après s’être éloigné à la hâte du poste-frontière. Les investissements de l’UE « n’ont rien changé du tout », poursuit-il, notant qu’il voit régulièrement des personnes en provenance de Guinée passer par le Sénégal et entrer au Mali dans le but de gagner l’Europe.

      Depuis son indépendance en 1960, le Sénégal est salué comme un modèle de démocratie et de stabilité, tandis que nombre de ses voisins sont en proie aux dissensions politiques et aux coups d’Etat. Quoi qu’il en soit, plus d’un tiers de la population vit sous le seuil de pauvreté et l’absence de perspectives pousse la population à migrer, notamment vers la France et l’Espagne. Aujourd’hui, les envois de fonds de la diaspora représentent près de 10 % du PIB sénégalais. A noter par ailleurs que, le Sénégal étant le pays le plus à l’ouest de l’Afrique, de nombreux Ouest-Africains s’y retrouvent lorsqu’ils fuient les problèmes économiques et les violences des ramifications régionales d’Al-Qaida et de l’Etat islamique (EI), qui ont jusqu’à présent contraint près de 4 millions de personnes à partir de chez elles.

      « L’UE ne peut pas résoudre les problèmes en construisant des murs et en distribuant de l’argent, me dit le policier. Elle pourra financer tout ce qu’elle veut, ce n’est pas comme ça qu’elle mettra fin à l’immigration. » Les sommes qu’elle dépense pour renforcer la police et les frontières, dit-il, ne servent guère plus qu’à acheter des voitures climatisées aux policiers des villes frontalières.

      Pendant ce temps, les services destinés aux personnes expulsées – comme les centres de protection et d’accueil – manquent cruellement de financements. Au poste-frontière de Rosso, des centaines de personnes sont expulsées chaque semaine de Mauritanie. Mbaye Diop travaille avec une poignée de bénévoles du centre que la Croix-Rouge a installé du côté sénégalais pour accueillir ces personnes expulsées : des hommes, des femmes et des enfants qui présentent parfois des blessures aux poignets, causées par des menottes, et ailleurs sur le corps, laissées par les coups de la police mauritanienne. Mais Mbaye Diop n’a pas de ressources pour les aider. L’approche n’est pas du tout la bonne, souffle-t-il : « Nous avons besoin d’aide humanitaire, pas d’outils sécuritaires. »

      La méthode de la carotte

      Pour freiner l’immigration, l’UE teste également la méthode de la carotte : elle propose des subventions aux entreprises locales et des formations professionnelles à ceux qui restent ou rentrent chez eux. La route qui mène à Tambacounda est ponctuée de dizaines et de dizaines de panneaux publicitaires vantant les projets européens.

      Dans la réalité, les offres ne sont pas aussi belles que l’annonce l’UE. Binta Ly, 40 ans, en sait quelque chose. A Tambacounda, elle tient une petite boutique de jus de fruits locaux et d’articles de toilette. Elle a fait une année de droit à l’université, mais le coût de la vie à Dakar l’a contrainte à abandonner ses études et à partir chercher du travail au Maroc. Après avoir vécu sept ans à Casablanca et Marrakech, elle est rentrée au Sénégal, où elle a récemment inauguré son magasin.

      En 2022, Binta Ly a déposé une demande de subvention au Bureau d’accueil, d’orientation et de suivi (BAOS) qui avait ouvert la même année à Tambacounda, au sein de l’antenne locale de l’Agence régionale de développement (ARD). Financés par l’UE, les BAOS proposent des subventions aux petites entreprises sénégalaises dans le but de dissuader la population d’émigrer. Binta Ly ambitionnait d’ouvrir un service d’impression, de copie et de plastification dans sa boutique, idéalement située à côté d’une école primaire. Elle a obtenu une subvention de 500 000 francs CFA (762 euros) – soit un quart du budget qu’elle avait demandé –, mais peu importe, elle était très enthousiaste. Sauf qu’un an plus tard, elle n’avait toujours pas touché un seul franc.

      Dans l’ensemble du Sénégal, les BAOS ont obtenu une enveloppe totale de 1 milliard de francs CFA (1,5 million d’euros) de l’UE pour financer ces subventions. Mais l’antenne de Tambacounda n’a perçu que 60 millions de francs CFA (91 470 euros), explique Abdoul Aziz Tandia, directeur du bureau local de l’ARD. A peine de quoi financer 84 entreprises dans une région de plus d’un demi-million d’habitants. Selon un porte-parole de la Commission européenne, la distribution des subventions a effectivement commencé en avril. Le fait est que Binta Ly a reçu une imprimante et une plastifieuse, mais pas d’ordinateur pour aller avec. « Je suis contente d’avoir ces aides, dit-elle. Le problème, c’est qu’elles mettent très longtemps à venir et que ces retards chamboulent tout mon business plan. »

      Retour « volontaire »

      Abdoul Aziz Tandia admet que les BAOS ne répondent pas à la demande. C’est en partie la faute de la bureaucratie, poursuit-il : Dakar doit approuver l’ensemble des projets et les intermédiaires sont des ONG et des agences étrangères, ce qui signifie que les autorités locales et les bénéficiaires n’exercent aucun contrôle sur ces fonds, alors qu’ils sont les mieux placés pour savoir comment les utiliser. Par ailleurs, reconnaît-il, de nombreuses régions du pays n’ayant accès ni à l’eau propre, ni à l’électricité ni aux soins médicaux, ces microsubventions ne suffisent pas à empêcher les populations d’émigrer. « Sur le moyen et le long termes, ces investissements n’ont pas de sens », juge Abdoul Aziz Tandia.

      Autre exemple : aujourd’hui âgé de 30 ans, Omar Diaw a passé au moins cinq années de sa vie à tenter de rejoindre l’Europe. Traversant les impitoyables déserts du Mali et du Niger, il est parvenu jusqu’en Algérie. Là, à son arrivée, il s’est aussitôt fait expulser vers le Niger, où il n’existe aucun service d’accueil. Il est alors resté coincé des semaines entières dans le désert. Finalement, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) l’a renvoyé en avion au Sénégal, qualifiant son retour de « volontaire ».

      Lorsqu’il est rentré chez lui, à Tambacounda, l’OIM l’a inscrit à une formation de marketing numérique qui devait durer plusieurs semaines et s’accompagner d’une allocation de 30 000 francs CFA (46 euros). Mais il n’a jamais touché l’allocation et la formation qu’il a suivie est quasiment inutile dans sa situation : à Tambacounda, la demande en marketing numérique n’est pas au rendez-vous. Résultat : il a recommencé à mettre de l’argent de côté pour tenter de nouveau de gagner l’Europe.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/07/comment-l-europe-sous-traite-a-l-afrique-le-controle-des-migrations-2-4-nous
      #OIM #retour_volontaire

    • Comment l’Europe sous-traite à l’Afrique le contrôle des migrations (3/4) : « Il est presque impossible de comprendre à quoi sert l’argent »

      A coups de centaines de millions d’euros, l’UE finance des projets dans des pays africains pour réduire les migrations. Mais leur impact est difficile à mesurer et leurs effets pervers rarement pris en considération.

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      Au chapitre migrations, rares sont les projets de l’Union européenne (UE) qui semblent adaptés aux réalités africaines. Mais il n’est pas sans risques de le dire tout haut. C’est ce que Boubacar Sèye, chercheur dans le domaine, a appris à ses dépens.

      Né au Sénégal, il vit aujourd’hui en Espagne. Ce migrant a quitté la Côte d’Ivoire, où il travaillait comme professeur de mathématiques, quand les violences ont ravagé le pays au lendemain de l’élection présidentielle de 2000. Après de brefs séjours en France et en Italie, Boubacar Sèye s’est établi en Espagne, où il a fini par obtenir la citoyenneté et fondé une famille avec son épouse espagnole. Choqué par le bilan de la vague de migration aux Canaries en 2006, il a créé l’ONG Horizons sans frontières pour aider les migrants africains en Espagne. Aujourd’hui, il mène des recherches et défend les droits des personnes en déplacement, notamment celles en provenance d’Afrique et plus particulièrement du Sénégal.

      En 2019, Boubacar Sèye s’est procuré un document détaillant comment les fonds des politiques migratoires de l’UE sont dépensés au Sénégal. Il a été sidéré par le montant vertigineux des sommes investies pour juguler l’immigration, alors que des milliers de candidats à l’asile se noient chaque année sur certaines des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Lors d’entretiens publiés dans la presse et d’événements publics, il a ouvertement demandé aux autorités sénégalaises d’être plus transparentes sur ce qu’elles avaient fait des centaines de millions d’euros de l’Europe, qualifiant ces projets de véritable échec.

      Puis, au début de l’année 2021, il a été arrêté à l’aéroport de Dakar pour « diffusion de fausses informations ». Il a ensuite passé deux semaines en prison. Sa santé se dégradant rapidement sous l’effet du stress, il a fait une crise cardiaque. « Ce séjour en prison était inhumain, humiliant, et il m’a causé des problèmes de santé qui durent jusqu’à aujourd’hui, s’indigne le chercheur. J’ai juste posé une question : “Où est passé l’argent ?” »

      Ses intuitions n’étaient pas mauvaises. Les financements de la politique anti-immigration de l’UE sont notoirement opaques et difficiles à tracer. Les demandes déposées dans le cadre de la liberté d’information mettent des mois, voire des années à être traitées, alors que la délégation de l’UE au Sénégal, la Commission européenne et les autorités sénégalaises ignorent ou déclinent les demandes d’interviews.

      La Division nationale de lutte contre le trafic de migrants (DNLT, fruit d’un partenariat entre le Sénégal et l’UE), la police des frontières, le ministère de l’intérieur et le ministère des affaires étrangères – lesquels ont tous bénéficié des fonds migratoires européens – n’ont pas répondu aux demandes répétées d’entretien pour réaliser cette enquête.
      « Nos rapports doivent être positifs »

      Les rapports d’évaluation de l’UE ne donnent pas de vision complète de l’impact des programmes. A dessein ? Plusieurs consultants qui ont travaillé sur des rapports d’évaluation d’impact non publiés de projets du #Fonds_fiduciaire_d’urgence_de_l’UE_pour_l’Afrique (#EUTF), et qui s’expriment anonymement en raison de leur obligation de confidentialité, tirent la sonnette d’alarme : les effets pervers de plusieurs projets du fonds sont peu pris en considération.

      Au #Niger, par exemple, l’UE a contribué à élaborer une loi qui criminalise presque tous les déplacements, rendant de fait illégale la mobilité dans la région. Alors que le nombre de migrants irréguliers qui empruntent certaines routes migratoires a reculé, les politiques européennes rendent les routes plus dangereuses, augmentent les prix qu’exigent les trafiquants et criminalisent les chauffeurs de bus et les sociétés de transport locales. Conséquence : de nombreuses personnes ont perdu leur travail du jour au lendemain.

      La difficulté à évaluer l’impact de ces projets tient notamment à des problèmes de méthode et à un manque de ressources, mais aussi au simple fait que l’UE ne semble guère s’intéresser à la question. Un consultant d’une société de contrôle et d’évaluation financée par l’UE confie : « Quel est l’impact de ces projets ? Leurs effets pervers ? Nous n’avons pas les moyens de répondre à ces questions. Nous évaluons les projets uniquement à partir des informations fournies par des organisations chargées de leur mise en œuvre. Notre cabinet de conseil ne réalise pas d’évaluation véritablement indépendante. »

      Selon un document interne que j’ai pu me procurer, « rares sont les projets qui nous ont fourni les données nécessaires pour évaluer les progrès accomplis en direction des objectifs généraux de l’EUTF (promouvoir la stabilité et limiter les déplacements forcés et les migrations illégales) ». Selon un autre consultant, seuls les rapports positifs semblent les bienvenus : « Il est implicite que nos rapports doivent être positifs si nous voulons à l’avenir obtenir d’autres projets. »

      En 2018, la Cour des comptes européenne, institution indépendante, a émis des critiques sur l’EUTF : ses procédures de sélection de projets manquent de cohérence et de clarté. De même, une étude commanditée par le Parlement européen qualifie ses procédures d’« opaques ». « Le contrôle du Parlement est malheureusement très limité, ce qui constitue un problème majeur pour contraindre la Commission à rendre des comptes, regrette l’eurodéputée allemande Cornelia Ernst. Même pour une personne très au fait des politiques de l’UE, il est presque impossible de comprendre où va l’argent et à quoi il sert. »

      Le #fonds_d’urgence pour l’Afrique a notamment financé la création d’unités de police des frontières d’élite dans six pays d’Afrique de l’Ouest, et ce dans le but de lutter contre les groupes de djihadistes et les trafics en tous genres. Or ce projet, qui aurait permis de détourner au moins 12 millions d’euros, fait actuellement l’objet d’une enquête pour fraude.
      Aucune étude d’impact sur les droits humains

      En 2020, deux projets de modernisation des #registres_civils du Sénégal et de la Côte d’Ivoire ont suscité de vives inquiétudes des populations. Selon certaines sources, ces projets financés par l’EUTF auraient en effet eu pour objectif de créer des bases de #données_biométriques nationales. Les défenseurs des libertés redoutaient qu’on collecte et stocke les empreintes digitales et images faciales des citoyens des deux pays.

      Quand Ilia Siatitsa, de l’ONG britannique Privacy International, a demandé à la Commission européenne de lui fournir des documents sur ces projets, elle a découvert que celle-ci n’avait réalisé aucune étude d’impact sur les droits humains. En Europe, aucun pays ne possède de base de données comprenant autant d’informations biométriques.

      D’après un porte-parole de la Commission, jamais le fonds d’urgence n’a financé de registre biométrique, et ces deux projets consistent exclusivement à numériser des documents et prévenir les fraudes. Or la dimension biométrique des registres apparaît clairement dans les documents de l’EUTF qu’Ilia Siatitsa s’est procurés : il y est écrit noir sur blanc que le but est de créer « une base de données d’identification biométrique pour la population, connectée à un système d’état civil fiable ».

      Ilia Siatitsa en a déduit que le véritable objectif des deux projets était vraisemblablement de faciliter l’expulsion des migrants africains d’Europe. D’ailleurs, certains documents indiquent explicitement que la base de données ivoirienne doit servir à identifier et expulser les Ivoiriens qui résident illégalement sur le sol européen. L’un d’eux explique même que l’objectif du projet est de « faciliter l’identification des personnes qui sont véritablement de nationalité ivoirienne et l’organisation de leur retour ».

      Quand Cheikh Fall, militant sénégalais pour le droit à la vie privée, a appris l’existence de cette base de données, il s’est tourné vers la Commission de protection des données personnelles (CDP), qui, légalement, aurait dû donner son aval à un tel projet. Mais l’institution sénégalaise n’a été informée de l’existence du projet qu’après que le gouvernement l’a approuvé.

      En novembre 2021, Ilia Siatitsa a déposé une plainte auprès du médiateur de l’UE. En décembre 2022, après une enquête indépendante, le médiateur a rendu ses conclusions : la Commission n’a pas pris en considération l’impact sur la vie privée des populations africaines de ce projet et d’autres projets que finance l’UE dans le cadre de sa politique migratoire.

      Selon plusieurs sources avec lesquelles j’ai discuté, ainsi que la présentation interne du comité de direction du projet – que j’ai pu me procurer –, il apparaît que depuis, le projet a perdu sa composante biométrique. Cela dit, selon Ilia Siatitsa, cette affaire illustre bien le fait que l’UE effectue en Afrique des expériences sur des technologies interdites chez elle.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/08/comment-l-europe-sous-traite-a-l-afrique-le-controle-des-migrations-3-4-il-e

  • L’Italia cede alla Libia altre 14 navi veloci per intercettare le persone. Il ruolo di Invitalia

    La commessa è stata aggiudicata definitivamente per 6,65 milioni di euro. A curare la gara è stata l’agenzia del ministero dell’Economia che dovrebbe in realtà occuparsi di “attrazione degli investimenti e sviluppo d’impresa”. Intanto 40 Ong danno appuntamento a Roma il 26 ottobre per opporsi al rinnovo dell’accordo con Tripoli

    L’Italia fornirà altre 14 imbarcazioni alle milizie libiche per intercettare e respingere le persone in fuga nel Mediterraneo. La commessa è stata aggiudicata definitivamente nella primavera di quest’anno per 6,65 milioni di euro nell’ambito di una procedura curata da Invitalia, l’agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia che sulla carta dovrebbe occuparsi dell’”attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa” e che invece dall’agosto 2019 ha stipulato una convenzione con il ministero dell’Interno per garantire “supporto” tecnico anche sul fronte libico. La copertura finanziaria dei nuovi “battelli” è garantita, così come tante altre, dalla “prima fase” del progetto “Support to integrated Border and migration management in Libya” (Sibmmil) datato dicembre 2017, cofinanziato dall’Unione europea, implementato dal Viminale e inserito nel quadro del Fondo fiduciario per l’Africa (Eutf).

    Si tratta in questa occasione di 14 mezzi “pneumatici con carena rigida in vetroresina” da 12 metri -come si legge nel capitolato di gara-, in grado di andare a una velocità di crociera di almeno 30 nodi, con un’autonomia di 200 miglia nautiche, omologati al trasporto di 12 persone e destinati a “svolgere i compiti istituzionali delle autorità libiche” (è la seconda tranche di una procedura attivata oltre tre anni fa). Quali non si poteva specificarlo. Anche sull’identità dei beneficiari libici c’è scarsa chiarezza da parte di Invitalia, il cui amministratore delegato è Bernardo Mattarella. Negli atti non si fa riferimento infatti né all’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) né alla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che opera sotto il ministero dell’Interno libico, quanto a una generica “polizia libica”.

    Chi si è assicurato la commessa, con un ribasso del 5% sulla base d’asta, è stata la società B-Shiver Srl con sede a Roma. B-Shiver è la ragione sociale del marchio Novamarine, nato a Olbia nel 1983 e poi acquisito negli anni dal gruppo Sno. “È uno dei must a livello mondiale perché ha fatto una rivoluzione nel campo dei gommoni, con il binomio carena vetroresina e tubolare”, spiega in un video aziendale l’amministratore delegato Francesco Pirro.

    B-Shiver non si occupa soltanto della costruzione dei 14 mezzi veloci ma è incaricata anche di “erogare un corso di familiarizzazione sulla conduzione dei battelli a favore del personale libico”: 30 ore distribuite su cinque giorni.
    Nell’ultima versione del capitolato sembrerebbe sparita la possibilità di predisporre in ogni cabina di pilotaggio dei “gavoni metallici idonei alla custodia di armi”, come invece aveva ipotizzato il Centro nautico della polizia di Stato nelle prime fasi della procedura di gara.

    Le forniture italiane alla Libia per rafforzare il meccanismo di respingimenti delegati continuano, dunque, a oltre cinque anni dal memorandum tra Roma e Tripoli in fase di imminente rinnovo. Un accordo che ha prodotto “abusi, sfruttamento, detenzione arbitraria e torture”, come denunciano oltre 40 organizzazioni per i diritti umani italiane promotrici il 26 ottobre di una conferenza stampa e una manifestazione in Piazza dell’Esquilino a Roma per “chiedere all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e non rinnovare gli accordi con la Libia” (dall’Arci all’Asgi, da Msf a Emergency, dalla Fondazione Migrantes a Intersos, da Sea-Watch ad Amnesty International Italia).

    “Se entro il 2 novembre il governo italiano non deciderà per la sua revoca -ricordano le Ong-, il memorandum Italia–Libia verrà automaticamente rinnovato per altri tre anni. Si tratta di un accordo che da ormai cinque anni ha conseguenze drammatiche sulla vita di migliaia di donne, uomini e bambini migranti e rifugiati”. Dal 2016 all’ottobre 2022 sono infatti oltre 120mila le persone intercettate in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia (fonte Oim). “Un Paese che non può essere considerato sicuro”.

    I contorni dell’abisso libico li ha descritti più volte, tra gli altri, la Missione indipendente sulla Libia delle Nazioni Unite che a fine giugno 2022 ha presentato una (ennesima) relazione sul punto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. “Diversi migranti intervistati dalla Missione hanno raccontato di aver subito violenze sessuali per mano di trafficanti e contrabbandieri, spesso con lo scopo di estorcere denaro alle famiglie, nonché di funzionari statali nei centri di detenzione, datori di lavoro o altri migranti -si legge-. Il rischio di violenza sessuale in Libia è tale e così noto che alcune donne e ragazze migranti assumono contraccettivi prima di partire proprio per evitare gravidanze indesiderate dovute a tali violenze”. È una violenza istituzionale. “Il carattere continuo, sistematico e diffuso di queste pratiche da parte della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim) e di altri attori coinvolti riflette la partecipazione di funzionari di medio e alto livello al ciclo della violenza sui migranti”.

    La brutalità non scompone i promotori della strategia di respingimento per procura, condotta nella totale mancanza di trasparenza sull’utilizzo complessivo dei fondi. Ad esempio quelli del Fondo di rotazione ex legge 183/1987, nel quale è previsto anche un “subcapitolo” dedicato alle spese per iniziative progettuali “a favore dello Stato della Libia”.

    Quando quest’estate abbiamo chiesto all’Ispettorato generale per i rapporti finanziari con l’Unione europea (Igrue) del ministero dell’Economia l’elenco dei pagamenti liquidati, dei beneficiari, delle causali di pagamento e degli estremi e del contenuto della voce di spesa in Libia, quest’ultimo ha rinviato al Viminale, sostenendo che la trasparenza fosse in capo a quell’amministrazione, “titolare del programma”. Il ministero dell’Interno ha però negato l’accesso perché “l’estrapolazione delle voci richieste comporterebbe un carico di lavoro tale da aggravare l’ordinaria attività dell’amministrazione”. La tipica cortina fumogena replicata anche per la convenzione del 2019 tra Invitalia e il Viminale, di cui ci è stato trasmesso il testo con cancellazioni sopra gli importi finanziari e orfano degli allegati, cioè della sostanza.

    https://altreconomia.it/litalia-cede-alla-libia-altre-14-navi-veloci-per-intercettare-le-person

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  • I finanziamenti europei al Marocco per bloccare le persone, a tutti i costi

    In questi anni l’Unione europea ha garantito alle polizie marocchine mezzi, “formazione” e strumenti di identificazione. Forniture milionarie, poco trasparenti, di cui hanno beneficiato quelle stesse guardie di frontiera che il 24 giugno hanno causato la morte di oltre 20 persone. Anche qui Frontex ha un ruolo decisivo

    “Un partner di riferimento per l’Unione europea, un modello che altri potranno seguire per la sua capacità di collaborare con le nostra agenzie”. Così la Commissione europea descriveva nell’ottobre 2021 l’attività delle autorità marocchine nel campo della “gestione” del fenomeno migratorio. Un’immagine che stride con quella dei corpi stesi a terra, immersi in pozze di sangue, di chi la mattina presto del 24 giugno è stato brutalmente respinto mentre tentava di far ingresso nell’enclave spagnola di Melilla. Almeno 23 i morti, molti di più secondo le Ong indipendenti, in prevalenza persone originarie di Sudan e Sud-Sudan, centinaia i feriti e decine gli arresti tra le circa 2mila persone che hanno tentato di scalare la triplice barriera metallica che separa il territorio marocchino dalla città spagnola. Ma la violenza perpetrata ai danni dei rifugiati sia dalle forze di polizia marocchina sia dalla Guardia civile spagnola va contestualizzata in un quadro più ampio. I soldi dell’Ue hanno finanziato quella violenza.

    Del bilancio pluriennale 2014-2020 circa 370 milioni di euro sono stati assegnati al governo di Rabat per la gestione del fenomeno migratorio, di cui 238 derivanti direttamente dal Fondo fiduciario dell’Ue per l’Africa (Eutf): l’80% è stato destinato a programmi di sostegno, supporto e gestione dei confini con solo le “briciole” per la protezione delle persone in transito (circa l’11%) e per l’integrazione socio-economica di chi “sceglie” di restare in Marocco (7,5%). Cifre stanziate con il consueto ritornello della “lotta contro l’immigrazione illegale” che, come su tanti altri confini esterni dell’Ue giustifica il blocco del flusso delle persone in transito e l’impossibilità di vedersi riconosciuto il diritto d’asilo. Una strategia che, nel caso del Marocco, getta le prime basi nel 2001 quando la rotta del Mediterraneo centrale comincia a vedere i primi flussi. L’Italia è precursore con un finanziamento di 10 miliardi di lire, tra 1999 e il 2000, per finanziare secondo quanto ricostruito dal progetto Sciabaca&Oruka di Asgi l’acquisto di mezzi, strumenti ed equipaggiamento che favoriscono le forze di polizia marocchina nell’attività di contrasto all’immigrazione “clandestina”.

    Come ricostruito da Statewatch, gruppo di ricerca indipendente, a livello europeo invece dal 2001 al 2010 vengono stanziati circa 74,6 milioni di euro per sei progetti riguardanti la sicurezza delle frontiere. Tra questi sei progetti almeno due meritano attenzione. Il “Seahorse network” (costo totale di circa 2,5 milioni di euro, con un contributo Ue pari a più di 1,9 milioni) che ha fornito fondi per la creazione di una “rete regionale sicura per lo scambio di informazioni sull’immigrazione irregolare”. Statewatch, grazie ai documenti forniti dalla Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo internazionale della Commissione (Dg Devco) ha ricostruito che la rete ha sede a Gran Canaria ed è collegata a quella della Guardia civil spagnola e l’Agenzia Frontex. E poi un progetto da più di 67 milioni di euro fornito tra il 2007 e il 2010 direttamente al ministero dell’Interno marocchino: non si conoscono i contenuti del progetto, in quanto l’accesso ai documenti è stato negato per “tutela dell’interesse pubblico che è prevalente alla necessità di divulgazione” e soprattutto non esistono documenti di valutazione. “Il fatto che l’Ue non abbia intrapreso una valutazione è sorprendente dati i rigorosi standard di audit e valutazione che dovrebbero essere applicata ai finanziamenti”.

    All’aumento dei flussi corrisponde una crescita dei finanziamenti. Non a caso tra il 2013-2018, sempre da quanto ricostruito da Statewatch, i finanziamenti si sono concentrati sull’integrazione delle persone già presenti sul territorio complice un cambio di rotta delle autorità marocchine che hanno promosso due campagne di regolarizzazione per le persone prive di documenti (nel 2013 e nel 2016) e un tentativo di garantire sostegno a rifugiati e richiedenti asilo. I circa 61,5 milioni di euro stanziati dall’Ue hanno di fatto “compensato il mancato coinvolgimento delle autorità marocchine nella formulazione e nell’attuazione di una vera politica di integrazione”. Ma l’intervento umanitario europeo è solo una breve parentesi. Tra il 2017 e il 2018 gli attraversamenti “irregolari” nel Mediterraneo occidentale aumentano del 40% e le autorità marocchine dichiarano di aver fermato circa 76mila persone. Cifre da prendere con le pinze ma che giustificano, secondo i legislatori europei, la ripresa dei fondi destinati a Rabat. Questo nonostante, a livello assoluto, gli attraversamenti irregolari diminuirono del 25% rispetto al 2017 e raggiunsero il numero più basso dei cinque anni precedenti (150mila in totale). Ma poco conta, come visto anche su altre frontiere, non è una questione di numeri.

    Il 20 agosto 2018 attraverso il “Programma di gestione delle frontiere per la regione del Maghreb (BMP – Maghreb) vengono destinati 30 milioni di euro per “proteggere, monitorare e gestire le frontiere” del Marocco in un più ampio progetto multinazionale, dal budget totale di 55 milioni di euro, in cui figura tra i partner esecutivi anche il ministero dell’Interno italiano per alcune azioni in Tunisia. Si va dal potenziamento delle infrastrutture informatiche per “raccolta, archiviazione e identificazione della biometria digitale” e l’acquisizione di mezzi aerei e navali per il controllo pre-frontaliero. Il 13 dicembre 2018 vengono poi destinati 44 milioni di euro per il progetto “Soutien à la gestion intégrée des frontières et de la migration au Maroc” che mira a “rafforzare le capacità delle istituzioni marocchine a protezione, sorveglianza e controllo delle frontiere”: per un periodo di 36 mesi e gestito dalle autorità spagnole per “migliorare le capacità delle autorità marocchine di intercettare i valichi di frontiera irregolari e svolgere attività di ricerca e soccorso in mare”. A questo si aggiunge un programma per il contrasto al “contrabbando e al traffico di esseri umani” con un finanziamento pari a 70 milioni di euro. Nel dicembre 2019 nonostante gli attraversamenti registrati da Frontex sono la metà rispetto all’anno precedente (appena 23.969), l’Ue finanzia più di 101 milioni di euro nuovamente per “rafforzare le capacità delle istituzioni marocchine, in particolare per il ministero dell’Interno a contrastare il traffico di migranti e la tratta degli esseri umani incluso un sostegno per la gestione delle frontiere del Paese”.

    Nonostante queste ingenti cifre la trasparenza è negata. Per nessuno dei progetti di gestione delle frontiere le istituzioni europee hanno fornito accesso ai documenti tirando in ballo nuovamente la “tutela dell’interesse pubblico in materia di relazioni internazionali”. Nel novembre 2019 i ricercatori di Statewatch commentavano “profeticamente” questo sostegno: “È probabile che le conseguenze di questo approccio siano terribili dato che la cooperazione del Marocco in materia di sicurezza e sorveglianza delle frontiere comporta un costo molto elevato in termini di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza marocchine contro migranti, rifugiati e persone richiedenti asilo”.

    Eccoli i frutti della politica di esternalizzazione europea in Marocco. “Video e fotografie mostrano corpi sparsi per terra in pozze di sangue, forze di sicurezza marocchine che prendono a calci e picchiano le persone; la Guardia civil spagnola che lancia gas lacrimogeni contro uomini aggrapparti alle recinzioni” spiega Judith Sunderland, vicedirettrice per l’Europa e l’Asia di Human rights watch che spingono l’Ong a chiedere una ferma condanna da parte dei funzionari di Spagna, Marocco e Unione europea e “garantire indagini efficaci e imparziali per portare giustizia a coloro che hanno perso la vita”. Il numero delle persone morte non è ancora chiaro. Secondo Caminando Fronteras, organizzazione spagnola, sarebbero 37 e decine di feriti. Ma le autorità marocchine stanno già facendo pulizia dei crimini commessi: l’Association Marocaine des Droits Humains (Amdh), che si occupa di tutelare i diritti umani nel Paese, ha pubblicato su Twitter due fotografie di quelle che si stima fossero tra le 16 e le 21 tombe scavate nel cimitero di Sidi Salem, alla periferia di Nador, la città marocchina oltre confine da Melilla. Hrw ne ha potuto confermare la veridicità identificando almeno 10 tombe individuali scavate.

    Di fronte all’orrore e alla tragedia, la strada è già tracciata. Il documento di “messa a terra” delle attività in Marocco previste dal Patto per le migrazioni e l’asilo, presentato nel settembre 2020 di fronte alla Commissione europea, prevede il sostegno finanziario per il periodo 2021-2027 per implementare, nuovamente, il controllo dei confini e soprattutto “sostenere i rimpatri volontari dei cittadini stranieri dal Marocco ai loro Paesi d’origine” oltre che l’efficientamento delle procedure per il rimpatrio dei cittadini marocchini che non hanno titolo per stare sul territorio europeo. Infine nel documento si chiarisce l’importanza del “dialogo strategico” che le autorità marocchine hanno mantenuto con Frontex che apre la possibilità della firma di un accordo operativo con l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Non cambia la strategia, nonostante tra gennaio e maggio 2022 siano stati appena 3.965 attraversamenti irregolari registrati nel Mediterraneo occidentale. L’invasione non c’è: i morti distesi nelle pozze di sangue a Melilla svelano nuovamente il volto di un’Europa che respinge e delega il lavoro sporco alle polizie di Paesi autocratici.

    https://altreconomia.it/i-finanziamenti-europei-al-marocco-per-bloccare-le-persone-a-tutti-i-co

    #Maroc #asile #migrations #réfugiés #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #complexe_militaro-industriel #Frontex #Fonds_fiduciaire #Italie #Seahorse_network #Seahorse #programme_de_gestion_des_frontières_de_la_région_du_Maghreb #Border_Management_Programme_for_the_Maghreb_region (#BMP-Maghreb) #Tunisie #biométrie #technologie #identification #Soutien_à_la_gestion_intégrée_des_frontières_et_de_la_migration_au_Maroc

  • #Maroc. À #Nador, les morts sont africains, l’argent européen

    Le 24 juin 2022, au moins 23 migrants sont morts à la frontière entre le Maroc et l’Espagne, et il y a eu plus d’une centaine de blessés des deux côtés. L’ONU et l’Union africaine exigent une enquête indépendante. La coopération migratoire entre le Maroc et l’#Espagne est de nouveau pointée du doigt. Reportage à Nador.

    Il est 14 h à Nador, nous sommes le samedi 25 juin 2022, le lendemain des tragiques incidents sur la frontière entre le Maroc et #Melilla, enclave sous occupation espagnole. Un silence de mort règne dans cette ville rifaine. Chez les officiels locaux, l’omerta règne. Les portes sont closes. « Revenez lundi », nous dit-on sur place. Aucune information ne filtre sur le nombre exact des morts, des blessés et des personnes refoulées vers d’autres villes marocaines. Un homme s’active pour informer le monde sur ce qui se passe ; il s’appelle Omar Naji.

    L’odeur de la mort

    Ce militant de l’Association marocaine des droits de l’homme (AMDH) à Nador alerte l’opinion publique et les autorités sur ce drame écrit d’avance depuis une décennie. « Les acteurs de ce drame sont les politiques européennes d’#externalisation des frontières, le Maroc qui agit en tant qu’exécutant et des organisations internationales faiblement impliquées pour protéger les migrants et les réfugiés », accuse-t-il, sans détour. Faute d’une enquête judiciaire, Omar Naji tente dès les premières heures de la tragédie de récolter quelques pièces à conviction.

    Nous rencontrons Omar à la sortie de la morgue de Nador où se trouvent les corps des migrants morts sur la frontière. Ce militant sent l’odeur de la mort. « Les scènes que je viens de voir sont insoutenables. Des corps jonchent le sol depuis 24 heures. Les dépouilles baignent dans leur sang. Les installations de la morgue sont débordées », lâche-t-il, encore sous le coup de l’émotion.

    Deuxième étape dans cette quête d’indices pour reconstituer le puzzle de drame du 24 juin. À la permanence, les policiers ont passé une nuit blanche à réaliser les procès-verbaux des 68 migrants qui allaient être présentés le lundi 27 juin au parquet. La police a rassemblé les bâtons et les quelques objets tranchants utilisés par les migrants lors de la tentative de franchissement de la barrière. Pour la police judiciaire, ce sont les « pièces à conviction » qui ont permis au procureur de demander des poursuites judiciaires contre les migrants aujourd’hui en détention provisoire.

    Troisième étape dans cette contre-enquête de Omar Naji, la récolte de témoignages de personnes en migration. Nous nous rendons sur le mont Gourougou, où les migrants sont dans des campements de fortune. La voiture du militant démarre, nous sommes pris en filature par des membres de services de sécurité. Sur la route de la rocade méditerranéenne, nous passons devant les murs de Nador-Melilla. Ce dispositif est composé de 3 clôtures de 6 mètres de haut et 12 kilomètres de long. Les lames tranchantes, responsables de graves blessures parmi les migrants durant des années, ont été remplacées par des obstacles anti-grimpe et une haute technologie de surveillance, le tout financé par l’Union européenne (UE). « Le Maroc creuse une deuxième tranchée pour compliquer le passage des migrants. Le pays joue son rôle de gendarme, surtout depuis la reprise de la coopération sécuritaire et migratoire avec l’Espagne en mars 2022 », estime Naji. Une semaine avant les incidents, les ministères de l’intérieur des deux pays se sont engagés à « poursuivre leur #coopération_sécuritaire ». Le 6 mai dernier, le groupe migratoire mixte permanent maroco-espagnol avait fixé l’agenda sécuritaire de coopération entre les deux pays.

    Chasse aux migrants ou lutte contre « les réseaux » ?

    À #Barrio_Chino, point frontalier où s’est déroulée une partie des événements, des vêtements de migrants sont encore accrochés aux grillages. Canon à eau et forces d’intervention sont stationnés sur place pour faire face à de nouveaux assauts. Nous continuons notre chemin à la recherche de campements de migrants. Tout au long de l’année, les forces de l’ordre marocaines mènent des opérations pour chasser les migrants sous l’argument du « démantèlement de réseaux de trafic des êtres humains ». Pour Ali Zoubeidi, chercheur spécialiste en migrations, « il y a des réseaux de trafic présents dans d’autres endroits du Maroc, mais pas vers Melilla », observe-t-il, dans une déclaration à Infomigrants. La #Boza par Melilla est gratuite, c’est la route empruntée par les migrants sans moyens. Dans les faits, les #ratissages visent à disperser les migrants le plus loin possible de la frontière avec Melilla.

    Dans un communiqué, 102 organisations africaines et européennes dénoncent les violations systématiques des #droits_humains à Nador : « Depuis plus d’un an et demi, les personnes en migration sont privées d’accès aux médicaments, aux soins, voient leurs campements brûlés et leurs biens spoliés ».

    En 2021, l’AMDH Nador avait recensé 37 opérations de ratissage. Un chiffre en nette baisse en raison du Covid-19 et du confinement. En 2019, les opérations avaient atteint le chiffre record de 134 interventions. « Cette route a été réalisée spécialement pour permettre aux engins des forces de l’ordre d’accéder à la forêt », rappelle Naji, dont le téléphone ne cesse de recevoir des appels de journalistes d’un peu partout dans le monde. En pleine forêt, nous passons devant un campement des #Forces_auxiliaires, corps de sécurité géré directement par le ministère de l’intérieur. Ce camp, avec ses bâtisses en dur et plusieurs tentes, a été construit spécialement pour permettre des interventions rapides dans les #campements.

    Après une heure de route, Naji arrive à la conclusion suivante : « Les opérations menées par les forces de l’ordre ont poussé les migrants à fuir la forêt et toute la ville de Nador ». Nous quittons la forêt et nous croisons sur notre chemin les hauts responsables sécuritaires de la région, venus à bord de deux véhicules militaires, des #Humvee, pour inspecter les lieux. Les seuls migrants présents dans cette ville sont soit morts, soit à l’hôpital, soit emprisonnés. Les migrants ont été dispersés vers plusieurs villes du centre du Maroc (Béni Mellal et Kelaat Sraghna). Cette situation dramatique, au retentissement international, est la conséquence d’une #coopération_sécuritaire entre le Maroc et l’Espagne, avec un financement européen.

    L’UE, cynique bailleur de fonds

    Depuis 2007, l’UE a versé au Maroc 270 millions d’euros pour financer les différents volets sécuritaires de la politique migratoire marocaine. Ce financement se fait directement ou via des instances européennes et espagnoles (Fondation internationale et ibéro-américaine pour l’administration et les politiques publiques, International, Center for Migration Policy Development, etc.). Des montants que le Maroc considère « insuffisants au regard des efforts déployés par le pays pour la gestion des frontières ».

    Depuis 2013, cette coopération s’inscrit dans le cadre du #Partenariat_pour_la_mobilité. Le financement européen en matière d’immigration aussi passe par le #Fonds_fiduciaire_d’urgence de l’Union européenne pour l’Afrique ou des agences souvent espagnoles chargées d’acquérir des équipements sécuritaires pour le royaume chérifien (drones, radars, quads, bus, véhicules tout-terrain…). La Commission européenne (CE) présente ce financement avec des éléments de langage connus : « développer le système marocain de gestion des frontières, et de lutter de manière plus efficace contre le trafic d’êtres humains ». L’UE soutient aussi la #Stratégie_nationale_pour_l’immigration_et_l’asile adoptée par le Maroc en 2014. Cette politique est désormais en stand-by, avec un retour en force d’une vision sécuritaire.

    Dans ses négociations avec la CE, le Maroc compte un allié de taille, l’Espagne. Le royaume fait valoir de son côté « une reprise de la pression migratoire sur le Maroc », comme aime le rappeler #Khalid_Zerouali, directeur de l’immigration et de la surveillance des frontières au ministère de l’intérieur marocain, dans ses sorties médiatiques adressées à ses partenaires européens. Le Maroc se positionne comme partenaire fiable de l’UE et invite son partenaire européen à « la #responsabilité_partagée ». Les routes migratoires marocaines sont les premières portes d’entrée vers l’Europe depuis 2019. L’Intérieur brandit ses chiffres de 2021 : 63 121 migrants arrêtés, 256 réseaux criminels démantelés et 14 000 migrants secourus en mer, en majorité des Marocains.

    Chantages et pressions

    Dans ce contexte, un #chantage est exercé de part et d’autre. L’UE veut amener le Maroc à héberger des centres de débarquement de migrants (#hotspots) et signer avec le royaume un #accord_de_réadmission globale Maroc-UE. Sur ces deux sujets, Rabat continue d’afficher une fin de non-recevoir à ces demandes. Sur le plan bilatéral, la France fait un chantage aux #visas pour pousser le Maroc à rapatrier ses immigrants irréguliers. De son côté, le Maroc a fait de la gestion de l’immigration irrégulière une carte diplomatique, comme l’ont montré les évènements de Ceuta en mai 2021.

    La migration devient ainsi un moyen de pression pour obtenir des gains sur le dossier du Sahara. Un sujet sensible qui a été le cœur d’un gel diplomatique entre le Maroc et l’Espagne durant plus d’un an. La reprise des relations entre les deux pays en mars 2022 a réactivé la coopération sécuritaire entre les deux pays voisins. Pour les 102 organisations des deux continents, ce retour de la coopération est à la source du drame de Nador. « La mort de ces jeunes Africains sur les frontières alerte sur la nature mortifère de la coopération sécuritaire en matière d’immigration entre le Maroc et l’Espagne », peut-on lire dans ce document.

    Mehdi Alioua, sociologue et professeur à l’Université internationale de Rabat, accuse en premier l’UE et sa politique migratoire : « Ces frontières sont celles de la honte parce qu’elles sont totalement absurdes et hypocrites. Ces frontières sont incohérentes, elles sont là pour mettre en scène la “#frontiérisation”. […] La #responsabilité des Européens est directe. La responsabilité du Maroc de ce point de vue est indirecte », déclare-t-il dans une interview pour Medias24
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    Des migrants criminalisés et des corps à la morgue

    Nador, avec ses deux frontières maritime et terrestre avec l’Europe, est pris au piège de ces frontières. Les migrants payent le prix fort. L’an dernier 81 personnes sont mortes à Nador, noyées ou sur les grillages. Face au tollé mondial suscité par ces événements, le gouvernement marocain est sur la défensive. L’exécutif tente de présenter sa version des faits. Signe des temps, cette stratégie de damage control a été sous-traitée par des universitaires, des ONG ou des médias proches de l’État. Ils accusent tous… l’Algérie. Le chef du gouvernement espagnol accuse les “mafias” qui seraient responsables de ce drame tout en “saluant le Maroc pour son professionnalisme”.

    Loin de cette bataille des récits, les militants sur le terrain continuent à panser les blessures des migrants, rechercher les noms des disparus et leurs nationalités, tenter de mobiliser les avocats pour la défense des migrants poursuivis à Nador. Ce procès, qui a démarré le 27 juin, s’annonce comme le plus grand procès des personnes en migration au Maroc. Vingt-huit migrants sont poursuivis avec de lourdes charges pénales. Un deuxième groupe de 37 migrants, dont un mineur, est poursuivi pour des délits. Pendant ce temps, les corps des migrants morts sont toujours à la morgue, sans autopsie ni enquête judiciaire pour établir les circonstances de leurs décès.

    https://orientxxi.info/magazine/maroc-a-nador-les-morts-sont-africains-l-argent-europeen,5734
    #décès #morts #migrations #asile #réfugiés #mourir_en_Europe #frontières #mourir_aux_frontières

  • Note d’analyse : La mise en œuvre du #fonds_fiduciaire_d’urgence au #Mali, #Niger et #Sénégal

    Cette note d’analyse actualise le rapport conjoint « Chronique d’un chantage » (https://seenthis.net/messages/652123), publié en 2017 avec le #collectif_Loujna-Tounkaranké et le réseau euro-africain Migreurop, qui dénonçait l’utilisation politique du #FFU.

    Le #fonds_fiduciaire d’urgence en faveur de la stabilité et de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique (FFU) de l’Union européenne (UE) a été créé lors du Sommet UE-Afrique sur les migrations de la Valette (Malte) en 2015 en réaction à l’augmentation des arrivées de personnes migrantes sur les côtes européennes.

    Les informations ont été collectées et des entretiens menés avec des acteurs de mise en œuvre dans ces trois pays.

    La Cimade, l’Association malienne des expulsés (AME), Alternative espaces citoyens Niger (AEC) et le Réseau migration et développement du Sénégal (REMIDEV) travaillent depuis de nombreuses années sur la coopération UE-Afrique en matière migratoire et ont choisi les projets en fonction de la pertinence des thématiques et des données disponibles. Certains projets ont dû être écartés (projets régionaux, projets liés à la coopération policière et militaire) par manque d’accès à l’information.

    https://www.lacimade.org/publication/note-analyse-ffu

    Pour télécharger le rapport :
    https://www.lacimade.org/wp-content/uploads/2020/11/LaCim.CollNotes2-UFF-10F-.pdf

    Analyse détaillée sur le Mali :
    https://www.lacimade.org/note-analyse-ffu-mali

    Analyse détaillée sur le Niger :
    https://www.lacimade.org/note-analyse-ffu-niger

    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #rapport #La_Cimade #Cimade

    ping @isskein @_kg_ @rhoumour @karine4

    • La mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence au Niger

      Analyse détaillé de la mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence de l’UE au Niger à travers deux projets FFU particulièrement emblématiques en complément de la note d’analyse « La mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence au Mali, Niger et Sénégal : outil de développement ou de contrôle des migrations ? ».

      Contexte de la mise en œuvre du FFU au Niger

      Un pays d’accueil de toutes formes de mobilités

      Le Niger est régulièrement évoqué comme un pays de transit des personnes migrantes vers les pays du Nord de l’Afrique et vers l’Europe. C’est notamment sur cette base que la coopération avec l’Union européenne (UE) sur les questions migratoires s’est développée. Pourtant, le Niger est avant tout depuis plusieurs années un pays « où se superposent toutes les formes de mobilités, volontaires comme forcées[1] ». Près de 500 000 personnes y sont en effet sous la protection du Haut-commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR)[2] : des personnes réfugiées fuyant le conflit au Mali depuis 2012, des personnes fuyant le Nigéria ou la zone frontalière avec ce pays en raison des exactions de Boko Haram (réfugié·e·s nigérian·ne·s, personnes nigériennes de retour ou déplacées internes) ainsi que des personnes, en majorité soudanaises, en demande d’asile. Le pays accueille aussi des personnes de retour de Libye et des personnes expulsées d’Algérie (plus de 25 000 en 2019 dont 10 000 ressortissant·e·s nigérien·ne·s)[3].

      Coopération avec l’Union européenne sur les questions de migrations

      La coopération de l’UE avec le Niger sur les questions de migrations n’est pas nouvelle. Elle s’est particulièrement intensifiée à partir de 2015 suite à une augmentation des arrivées de personnes migrantes sur les côtes européennes depuis la Libye, cette année-là. L’UE rencontrant des difficultés à mener des projets destinés à contenir les personnes migrantes en Libye du fait du contexte chaotique depuis la chute de Kadhafi, elle s’est tournée vers le Niger. L’agenda européen en matière de migration adopté en mai 2015 prévoyait déjà plusieurs mesures concernant le Niger. Il a ensuite été un pays clé du Sommet UE-Afrique de La Valette (Malte) sur les migrations en novembre 2015 où les chefs d’État européens et africains ont développé un plan d’action conjoint sur les migrations, et un des principaux bénéficiaires du Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (FFU) adopté à cette occasion.

      La loi 2015-036 sur le trafic illicite des migrants

      C’est dans ce contexte que le Niger a adopté la loi 2015-036 sur le trafic illicite des migrants en mai 2015, quelques mois avant le Sommet UE-Afrique de la Valette, durant lequel le Niger a présenté un plan spécifique de « lutte contre les migrations irrégulières ». Cette loi criminalise l’aide à l’entrée ou la sortie illégale du Niger et l’aide au maintien sur le territoire de personnes en situation irrégulière.

      Elle a été appliquée durement plusieurs mois après son adoption (été 2016), notamment dans la région d’#Agadez, et sans information préalable et préparation des populations concernées et des instances étatiques régionales. Les transporteurs (chauffeurs de bus ou d’autres véhicules privés) se dirigeant vers le Nord en dehors des convois officiels ont été particulièrement visé. Les véhicules ont été saisis et les chauffeurs déférés en justice sur la base d’une suspicion d’entrée irrégulière à venir en Algérie ou en Libye[4]. Elle a également visé les hébergeurs, les intermédiaires mais aussi les vendeurs de cartes téléphone ou d’eau…

      À Agadez, les revenus liés à la migration étaient une ressource importante pour l’économie locale. L’application de la loi a été très mal perçue par la population. Le transport des personnes dans cette région est une activité majoritairement exercée par des membres des communautés touarègue et Toubou, disposant d’agences de voyage créées à l’époque où l’économie du tourisme était encore florissante, puis reconverties dans le transport des personnes migrantes depuis la fin de la rébellion touarègue au milieu des années 1990. Cette activité était parfaitement légale et s’exerçait majoritairement avec des permis estampillés dans les mairies et escortes militaires[5]. La loi 2015-036 a interdit cette activité du jour au lendemain et criminalisé les transporteurs. Ces conséquences ont été telles sur l’économie d’Agadez et une partie de sa population qu’elles ont fait craindre pour la stabilité de celle-ci. C’est la Haute autorité à la consolidation de la paix (HACP) créé en 1995 pour la mise en œuvre des accords de pays après la rébellion touarègue, qui a alerté sur ces enjeux.
      La mise en œuvre du FFU au Niger

      Le Niger est l’un des premiers pays bénéficiaires du FFU et a bénéficié des tous premiers projets signés en 2016. Il est aussi concerné par certains projets régionaux. 12 projets nationaux sont mis en œuvre au Niger (pour un montant total de 253 millions d’euros).

      A l’image de l’ensemble des projets du FFU, la majorité (6) est gérée par des coopérations européennes ou par des organisations internationales (OIM et HCR) (3). Seuls deux projets sont gérés par un acteur nigérien (la HACP), et un par un consortium d’ONG. Cette gestion pose question, notamment en ce qui concerne la pertinence des projets comme réponses aux besoins des États bénéficiaires et leur appropriation[6]. Au Niger, un responsable de la HACP souligne que les fonds du FFU « ne vont pas aux pays bénéficiaires », ce qui revient à « affaiblir l’État qui perd en crédibilité[7] ». Dans le même sens, le bilan migration 2018-2019 du gouvernement du Niger indique que certains projets « exécutés au compte du Niger par les partenaires ne correspondent pas toujours aux besoins réels des populations au niveau des collectivités », notamment car ils ne tiennent pas compte des « plans de développement communaux et régionaux », ce qui « fait courir (…) le risque d’un déphasage par rapport aux besoins réels des populations[8] ».

      En termes d’objectifs, bien que le FFU soit principalement financé par le Fonds européen de développement (FED), une grande partie des projets pour la région Sahel (48% des fonds, 1,6 milliards d’euros) sont affectés à des projets « directement liés à la migration[9] », contrairement aux principes de l’aide au développement[10]. Le Niger reçoit la plus grosse part (24% du budget) et fait figure de pays pilote en matière de lutte contre le trafic de personnes ou les migrations « irrégulières ».

      Ainsi, concernant les objectifs des 12 projets nationaux, trois projets concernent directement la « gestion » de la migration à travers le développement local (coopération allemande – GIZ), le renforcement de la chaîne pénale (AFD) et la création d’une équipe conjointe d’investigation (ECI) « pour la lutte contre les réseaux criminels liés à l’immigration irrégulière, la traite des êtres humains et le trafic des migrants » (coopération espagnole – FIIAPP) ; deux projets de l’Organisation internationale des migrations (OIM) concernent l’assistance aux personnes migrantes et leur retour « volontaire ».

      Par ailleurs, sur la quinzaine de projets régionaux concernant le Niger, sept projets portent sur l’appui au G5 Sahel[11] (cinq projets pour 177 millions d’euros) et aux forces de police ; deux projets financent l’assistance et le retour des personnes migrantes détenues en Libye ; et un seul porte sur la mobilité légale (initiative Erasmus+ d’échanges entre étudiant·e·s universitaires avec l’Europe).

      Le projet PAIERA (Plan d’actions à impact économique rapide à Agadez) – projet terminé

      Ce projet d’un montant de 8 millions d’euros est devenu un projet phare du FFU au Niger, mis en exergue dans la communication de l’UE pour ses « success stories ». Pourtant, celui-ci a été élaboré et mis en œuvre de manière très différente des autres projets.

      Preuve du manque de prise en compte des besoins des pays concernés et de leur contexte dans l’élaboration des projets (cf. note d’analyse), celui-ci n’était pas prévu initialement. Il est un des très rares projets émanant des autorités nationales et géré directement par un organisme d’un État bénéficiaire. Ce sont en effet les autorités nigériennes, notamment la HACP, qui ont sollicité l’UE. Révélant d’une part, la capacité des autorités nigériennes à négocier avec l’UE, mais surtout l’urgence de la situation, qui a contraint l’UE à valider un tel projet, non prévu.

      Face au mécontentement de la population et aux tensions à Agadez, il vise à compenser les conséquences économiques et politiques de l’application de la loi 2015-036 en offrant « des opportunités d’emploi et d’insertion socioprofessionnelle aux acteurs économiques qui bénéficient directement ou indirectement des retombées financières liées aux migrant·e·s ».

      Le projet est géré par la HACP et par Karkara, une des plus importantes ONG de développement nigérienne. Sa mise en œuvre a été compliquée. La sélection des bénéficiaires a été longue et contestée, certaines personnes dénonçant le faible nombre de personnes retenues, leur profil et des montants alloués insuffisants. Dès la première phase de sélection, des personnes ont été exclues, notamment celles estimées être des « trafiquants » (généralement les propriétaires de véhicules ou de maisons). Il a été jugé que d’une part, elles n’avaient pas besoin du soutien du projet car elles « gagnaient beaucoup d’argent », et d’autres part qu’il n’était pas éthique de les soutenir puisqu’elles seraient des « criminelles »[12]. Par ailleurs, les montants alloués par personne se sont très vite avérés insuffisants. Des pourparlers ont été menés pendant plusieurs mois entre la HACP, Karkara et l’UE afin d’augmenter les montants pour certaines catégories de personnes. Au final, il a été convenu que les projets des ménages vulnérables pourraient atteindre 500 000 à 600 000 CFA (1000€) et ceux des acteurs de la migration jusqu’à 1,5 millions de CFA (2 287€).

      Au total, sur les 23 mois du projet, 6 565 personnes ont été recensées, 1 447 écartées, 2 345 ont déposé un dossier (constituant un projet de reconversion professionnelle) parmi lesquelles seules 371 personnes ont reçu une aide, soit à peine 6%.

      Le projet a aussi financé des activités génératrices de revenus à haute intensité de main-d’œuvre (comme la réhabilitation de la veille ville, la création de petites infrastructures dans les communes, etc.). 1 713 personnes en ont bénéficié en percevant un petit salaire (1 000 à 2 500 CFA/jour soit 1,50 à 3,80€) durant la réalisation de ces activités (en moyenne 45 à 90 jours).

      Selon les acteurs, l’évaluation finale réalisée en décembre 2019 (et dont le rapport était en cours début 2020), serait très positive. 80% des bénéficiaires auraient trouvé une occupation loin de la migration et seraient devenus autonomes financièrement.

      Mais, si le projet a eu un impact sur la stabilisation de la région d’Agadez et a permis des créations d’emplois en dehors de la migration, les emplois créés restent peu qualifiés et précaires (vendeurs de crédits de téléphone, taxi-moto, etc.). Par ailleurs, leur nombre demeure faible (371) au regard des sommes investies (8 millions d’euros) et des objectifs initiaux (65 000 emplois étaient prévus dans la fiche projet). Au final, le projet apporte une aide individuelle de court terme qui ne crée pas de valeur ou de débouchés économiques globaux pour la région comme cela pourrait être pensé dans un projet de développement à la hauteur du budget dédié.

      Le projet Mécanisme de réponse et de ressource pour les migrants (MRRM) – OIM

      Le développement impressionnant de l’OIM au Niger et de ses activités de soutien aux retours « volontaires » est sans doute un des principaux résultats du FFU au Niger. Présente depuis 2006 au Niger, l’OIM est passée d’un bureau de 39 personnes en 2015 à plus de 500 personnes en 2020 selon la Cheffe de mission. Le projet « Mécanisme de réponse et de ressources pour les migrants (MRRM) » a été un des premiers validés pour la fenêtre Sahel et Lac Tchad en janvier 2016. Il correspond à la mise en œuvre d’une « approche globale » proposée par l’OIM dès juin 2015[13] et qui a donné lieu à l’Initiative conjointe UE-OIM pour la protection et la réintégration financée à hauteur de 638 000 000€ dans le cadre du FFU et mise en œuvre dans 27 pays d’Afrique dont le Niger. Bien que déjà développée sur le continent africain, notamment en Tunisie, cette approche est pour la première fois mise en œuvre dans sa forme la plus poussée. Le Niger est ainsi « pionnier dans cette approche » et est considéré comme « une bonne pratique » pour l’OIM[14]. Le financement de cette « approche globale » est justifié dans la fiche projet FFU quasiment uniquement sur le fait que le Niger soit un pays de transit.

      Au Niger, le MRRM est une réponse à « la crise migratoire » reposant sur 5 piliers[16] :

      Le « sauvetage humanitaire » : il se déroule essentiellement dans la zone frontalière avec l’Algérie, autour d’Assamaka. Il concerne les personnes expulsées par les autorités algériennes – en dehors de tout cadre légal – et abandonnées à la frontière en plein désert (à environ 12 kilomètres d’Assamaka). Les personnes secourues sont accueillies dans un centre de transit temporaire de l’OIM à Assamaka où elles reçoivent des premières aides (nourriture, soins médicaux d’urgence). Puis l’OIM assure le transfert jusqu’à son centre de transit à Agadez des personnes qui acceptent de retourner dans leur pays d’origine. Les autres sont livrées à elles-mêmes, certaines choisiraient de tenter de repartir en Algérie. Selon l’OIM, 80 à 90% des personnes iraient au moins jusqu’à Arlit (entre Assamaka et Agadez). On retrouve ici une des composantes majeures de l’OIM au Niger : la conditionnalité de l’aide à un retour « volontaire ». L’OIM mène aussi des opérations avec la protection civile nigérienne autour de Dirkou (route de la Libye) lorsqu’elle reçoit une alerte. En 2019, environ 1000 personnes ont été assistées[17].
      L’assistance directe : elle est fournie dans les centres de transit de l’OIM (Niamey, Agadez, Dirkou, Arlit). En 2019, 18 534 personnes ont été assistées dans le centre de transit d’Agadez, dont environ 17 000 sont retournées dans leur pays « volontairement », soit 92% des personnes assistées. Le nombre de personnes migrantes « en transit » assistées par l’OIM serait marginal, l’organisation assiste essentiellement de personnes de retour de Libye ou expulsées d’Algérie. Pourtant, l’identification, le référencement et les mesures de protection des personnes en demande d’asile, et des personnes vulnérables ou victimes de violations des droits humains n’est pas (ou peu) faite. Un seul protocole semble mis en place pour les victimes de traite. Il n’existe pas de procédure systématique d’identification des personnes souhaitant demander l’asile. L’OIM ne réfère au HCR que les personnes déclarant spontanément lors du premier entretien être déjà reconnues réfugié·e·s dans un autre pays ou vouloir demander l’asile. Ainsi, seuls 23 « cas » ont été transmis au HCR en 2018, et 60 à 80 en 2019 sur les 18 534 personnes assistées. En ce sens, l’utilisation du terme « protection » ne recouvre que les besoins primaires des personnes.
      L’aide au retour volontaire et à la réintégration (AVRR) : Le Niger est devenu en peu de temps le premier pays au monde d’où partent les retours volontaires de l’OIM[18]. Ces retours concernant essentiellement des personnes de retour ou refoulées de Libye (2016-2017) ou expulsées d’Algérie (depuis fin 2017) ou, plus rarement, des personnes en transit bloquées au Niger, le caractère volontaire de ces retours peut être questionné, d’autant qu’il est la condition sine qua none pour avoir accès au centre de l’OIM à Agadez et à ses services. Comme le soulignait en 2018 le Rapporteur spécial sur les droits de l’Homme des migrants « lorsqu’il n’existe aucune solution valable susceptible de remplacer l’aide au retour volontaire (par exemple, des mesures visant à faciliter l’obtention d’un permis de séjour temporaire ou permanent, assorties d’un appui administratif, logistique et financier approprié), le retour peut difficilement être qualifié de volontaire[19] ».
      La sensibilisation à la migration « sûre et informée » : L’OIM déploie des campagnes de communication sur « la migration sûre et informée » ou « les risques de la migration irrégulière », notamment à Agadez à travers une cinquantaine de « mobilisateurs communautaires ». L’OIM utilise également les réseaux sociaux et d’autres outils comme des panneaux d’affichage dans les lieux stratégiques et une caravane de sensibilisation a eu lieu en avril 2019 baptisée In da na sa’ni (« Si seulement jamais su » en langue haussa)[20]. Des cartes avec un numéro vert sont aussi distribuées, mais l’assistance proposée sera un retour « volontaire ».
      Le suivi des flux migratoires (displacement tracking mechanism – DTM) à certains « points de suivi des flux ».

      Ainsi, le FFU au Niger a contribué à financer et à mettre en œuvre des politiques migratoires sécuritaire tournées vers le contrôle des frontières, la coopération policière et « la lutte contre les migrations irrégulières ». Sous couvert d’humanitarisme, les personnes se retrouvent bloquées le long des routes, contraintes à emprunter des routes toujours plus dangereuses et risquées au lieu de prendre des transports officiels, et sont éloignées des frontières européennes à travers les retours « volontaires » assistés de l’OIM.

      Sources :

      [1] Florence Boyer et Harouna Mounkaila, « Européanisation des politiques migratoires au Sahel, Le Niger dans l’imbroglio sécuritaire », L’Etat réhabilité en Afrique. Réinventer les politiques publiques à l’ère néolibérale, 2018.

      [2] HCR, portail opérationnel crises des réfugiés, Niger, 30/04/2020

      [3] Entretien avec l’OIM Niamey du 07/02/2020

      [4] La Cimade – Migreurop – Loujna-Tounkaranké, Chronique d’un chantage, Coopération UE-Afrique, Décryptage des instruments financiers et politiques de l’Union européenne, 2017

      [5] International Crisis Group, Garder le trafic sous contrôle dans le Nord du Niger, 06/01/2020

      [6] La Cimade, Chronique d’un chantage, op. cit

      [7] Entretien avec la HACP au Niger du 04/02/2020

      [8] Secrétariat permanent du Cadre de concertation sur la migration, Bilan migration Niger 2018-2019, 2020

      [9] Altai Consulting, EUTF Monitoring and Learning system SLC yearly 2019 report, 2020

      [10] Site de l’OCDE, Aide publique au développement, novembre 2020.

      [11] Cadre de coordination en matière de sécurité et développement réunissant le Burkina Faso, la Mauritanie, le Mali, le Niger et le Tchad.

      [12] Entretien avec Karkara Agadez, 12/02/2020

      [13] OIM, Addressing Complex Migration Flows in the Mediterranean : IOM Response Plan, 06/2015

      [14] Entretien avec l’OIM Niamey du 07/02/2020

      [15] OIM, État de la migration dans le monde 2020

      [16] Entretien avec l’OIM Agadez du 10/02/2020

      [17] Entretien avec l’OIM Niamey du 07/02/2020

      [18] OIM, 2019 return and reintegration key highlights, 2020

      [19] Conseil des droits de l’Homme des Nations unies, Rapport du Rapporteur spécial sur les droits de l’homme des migrants sur sa visite au Niger, A/HRC/41/38/Add.1, 2019

      [20] OIM, « Une caravane de sensibilisation part pour un périple d’un mois à travers le Niger », 04/05/2019

      https://www.lacimade.org/note-analyse-ffu-niger

    • La mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence au #Mali

      Analyse détaillé de la mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence de l’UE au Mali à travers deux projets FFU particulièrement emblématiques en complément de la note d’analyse « La mise en œuvre du fonds fiduciaire d’urgence au Mali, Niger et Sénégal : outil de développement ou de contrôle des migrations ? ».

      Contexte de la mise en œuvre du FFU au Mali

      Le contexte sécuritaire au Mali est particulièrement dégradé. Depuis 2012, le pays est en proie à un conflit interne qui déstabilise l’État en perte de contrôle sur son territoire et complexifie notamment l’accès des organisations humanitaires à certaines régions. La situation sécuritaire reste particulièrement problématique dans le nord et le centre du pays, à travers la présence de milices et de groupes armés non-étatiques. Cette situation a favorisé la résurgence de conflits communautaires qui ont fait des centaines de mort·e·s en 2019. Ce conflit a entraîné d’importants déplacements de populations vers les pays voisins ou à l’intérieur du pays (164 500 réfugié·e·s et 844 400 déplacé·e·s en 2019[1]).

      Pays à forte émigration, en particulier vers la sous-région, le Mali est aussi ciblé par l’UE comme pays de retour. Tout d’abord des populations réfugiées, selon le Haut-commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), 76 000 personnes ont été rapatriées depuis le Niger, le Burkina Faso, la Mauritanie et l’Algérie[2]. Par ailleurs, le Mali a accueilli en 2019, selon l’Organisation internationale des migrations (OIM), 5 622 personnes de retour « volontaire » de Libye, mais aussi du Niger (personnes expulsées d’Algérie) et de Mauritanie (personnes expulsées d’Espagne).

      Le Mali a lancé en 2015 une politique nationale migratoire (PONAM) mais sa mise en œuvre tarde, faute de financement. Cette politique se focalise sur la protection des Malien·ne·s de l’extérieur, l’information sur les risques de la migration irrégulière, la réinsertion des Malien·ne·s de retour (volontaire ou non) et la valorisation de la diaspora. Néanmoins, elle ne prévoit aucune mesure visant à garantir l’accueil et la protection des droits des personnes en situation de migration au Mali. En 2019, le Mali a également inauguré une brigade de répression du trafic de migrants et de la traite des êtres humains.

      La coopération de l’Union européenne avec le Mali sur les questions migratoires

      L’Union européenne (UE) est très impliquée au Mali, au même titre que la France, dans le règlement du conflit au Nord. Elle appuie la mise en œuvre de l’accord d’Alger (2015) et y intervient à travers deux missions civiles (EUTM-European training mission, ciblant les forces armées et EUCAP Mali – mission civile de formation des forces de sécurité intérieure). L’UE et la France appuient aussi le G5 Sahel[3] qui, en 2017 s’est doté d’une force conjointe transfrontalière de lutte contre le terrorisme, le crime organisé transfrontalier et le trafic d’êtres humains. Le portefeuille de l’UE était de 948,5 millions d’euros en 2017[4]. La France y intervient également militairement à travers l’opération « Barkhane ».

      En matière migratoire, l’UE a soutenu la création du CIGEM (Centre d’information et de gestions des migrations) en 2008 à hauteur de 12 millions d’euros contre 8 prévus initialement à travers le 9ème Fonds européen de développement (FED)[5]. Elle a aussi appuyé la définition et la mise en œuvre de PONAM, toujours sur le financement du FED. Depuis 2015, l’UE a intensifié la coopération en matière migratoire avec certains pays d’Afrique, dont le Mali qui fait partie des cinq pays prioritaires pour la mise en œuvre d’un « nouveau cadre de partenariat en matière de migration »[6]. En ce sens, le Mali est un des pays bénéficiaires du Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique en faveur de la stabilité et de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique (FFU) adopté à l’occasion du Sommet UE-Afrique sur les migration de La Valette (Malte) en 2015[7].

      La mise en œuvre du FFU au Mali

      Au Mali, l’élaboration des projets s’est déroulée en deux temps. Tout d’abord, les projets ont été écrits directement depuis Bruxelles et répartis entre les États membres. Puis, une équipe de consultant·e·s s’est rendue à Bamako pour recenser les besoins du gouvernement. Les discussions se seraient faites par ministère et non au global avec le gouvernement, ce qui, selon certains acteurs, a donné lieu à une concurrence effrénée entre ministères. Selon le Haut conseil des Maliens de l’extérieur (HCME), « le Mali a présenté des projets au FFU. Il y a eu 8 réunions sur cette question. Des propositions chiffrées ont été faites pour le développement local, la réinsertion, etc. mais (…) au final, des négociations parallèles ont eu lieu avec certains départements (sécurité, territoire pour état-civil) et l’UE a choisi ces projets[8] ».

      Cette manière d’élaborer les projets est problématique en termes de prise en compte des besoins des pays bénéficiaires et de leur implication. La PONAM, par exemple, dont la mise en œuvre n’est pas encore entièrement financée, aurait pu constituer une stratégie ou une référence pour la sélection de projets portant sur la migration, ce qui n’a pas été le cas. Un seul projet soutient directement la mise en œuvre de cette politique nationale, mais il n’n’apparaît pas dans le portefeuille du Mali car il est porté par un autre pays, le Maroc (projet coopération sud-sud).

      Pour quelques projets, des unités de gestion de projet ont été mises en place, permettant aux coopérations de déléguer la gestion à une équipe internationale et locale, sous la responsabilité d’un ministère national. Ce n’est pas le cas de tous les projets et en particulier ceux de coopération militaire et policière, gérés par les États membres.

      Le Mali s’est vu attribuer 12 projets nationaux, pour un montant total de 214,5 millions d’euros[9] dont huit sont confiés à des coopérations des États membres de l’UE et un à l’OIM. Seuls trois sont mis en œuvre par des ONG ou le secteur privé et aucun par une organisation locale. Cette gestion pose question, notamment en ce qui concerne la pertinence des projets comme réponses aux besoins des États bénéficiaires et leur appropriation[10].

      Huit projets sont orientés vers le soutien à l’économie, la création d’emplois et la résilience des communautés (projet d’assistance humanitaire essentiellement)
      Deux soutiennent les forces de sécurité intérieures,
      Un projet sur la gestion de la gouvernance des migrations, le retour et la réintégration au Mali,
      Et un projet pour le renforcement de l’état civil au Mali.

      A ces projets, s’ajoutent des projets régionaux :

      Huit portent sur l’appui au G5 Sahel (cinq projets pour 177 millions d’euros), et aux forces de police.
      Huit autres portent sur le redressement économique, le soutien aux entreprises et l’assistance aux personnes déplacées ou réfugiées.
      un projet finance l’assistance au retour et à la réintégration des personnes migrantes
      et un seul projet porte sur la mobilité légale (Initiative Erasmus+ d’échanges entre étudiant·e·s universitaires avec l’Europe.

      Il apparaît clairement que les projets soutenus par le FFU au Mali ont été orientés vers le développement et la sécurité en raison du conflit au Nord Mali. Au final, très peu de projets sont directement liés aux migrations si ce n’est réintégrer les personnes de retour et favoriser les investissements de la diaspora.

      Projet de renforcement de la gestion et de la gouvernance des migrations et le retour et la réintégration durable au Mali – T05-EUTF-SAH-ML-07

      Ce projet de 15 000 000€ est mis en œuvre par la coopération espagnole (AECID) et l’OIM. Il a pour objectif de « contribuer au renforcement de la gestion et de la gouvernance des migrations et assurer la protection, le retour et la réintégration durable des migrants au Mali ». En clair, il vise à soutenir la « réintégration » des Malien·ne·s de retour dans leur pays (OIM) et à « sensibiliser sur les risques de l’émigration irrégulière » (AECID). C’est un des 18 projets de l’OIM financés par le FFU et mis en œuvre dans 27 pays d’Afrique pour soutenir les retours « volontaires » et la réintégration des personnes migrantes dans leur pays de retour.

      Dans la fiche projet, le Mali est ciblé comme pays de départ, l’UE ayant établi qu’en 2015 « les migrants originaires d’Afrique de l’Ouest occupent une part croissante des flux migratoires ». Il est aussi présenté comme un pays de retour (forcé ou volontaire) des personnes migrantes maliennes (estimées à 90 000 de 2002 à 2014). Le Mali est enfin présenté comme « stratégique » en termes de « sensibilisation aux risques de la migration irrégulière » au sein de la CEDEAO, représentant « 70% des mouvements migratoires de la région, liés pour la plupart à la recherche d’emploi ».

      Le projet devait initialement assurer l’assistance à 1 600 personnes en transit, soutenir 4 000 « retours volontaires » de l’OIM et la réintégration de 1 900 personnes, et sensibiliser 200 communautés et 70 000 migrants·e·s en transit. Ces objectifs ont été largement dépassés à l’heure actuelle à tel point qu’une rallonge d’un an a été accordée par l’UE à l’OIM. Selon l’OIM à Bamako, 180 personnes sont accueillies tous les trois jours à la Cité d’accueil des Maliens de l’extérieur (centre de transit à Bamako). Cela représente 8 000 à 8 500 personnes par an, soit 18 000 personnes depuis le début du projet en 2017 dont 50% arrivent de Libye et 50% du Niger.

      Concernant l’aide à la réintégration, le projet reçoit certaines critiques notamment du HCME qui souligne les inégalités qu’il créé parmi les personnes de retour. Ainsi, en cas de retour collectif, toutes les personnes sont accueillies durant 72h au centre de transit de Bamako géré par le HCME et la direction générale des Maliens de l’extérieur (DGME). L’OIM y intervient pour l’enregistrement. Les personnes de retour dans le cadre du programme de l’OIM reçoivent un pécule de 52 000 FCFA (79€) pour rejoindre leur région d’origine. Les autres reçoivent de la DGME un pécule de 10 000 FCFA (15€), somme parfois insuffisante pour prendre le transport en charge jusqu’à la ville d’origine.

      Le HCME souligne également que la « réintégration » n’est pas à la hauteur des attentes. Auparavant, une aide financière et matérielle était donnée aux personnes de retour en fonction d’un projet formulé. Or, elle a été arrêtée et l’aide à la réintégration consiste uniquement à une formation en gestion de sa microentreprise, pour à peine 6% des personnes de retour sous financement OIM. Par ailleurs, les personnes ne bénéficient d’aucun suivi ni soutien par la suite.

      Enfin, ce programme fait concurrence à un autre projet de la DGME financé sur le budget spécial d’investissement qui, pour éviter les doublons, s’adresse aux personnes qui n’entrent pas dans les critères du programme de l’OIM et leur propose une aide à la création d’activité économique. Or ces personnes ne sont pas forcément en capacité de présenter des projets (projets à hauteur de 3 à 5 millions de FCFA (soit 4 573€ à 7 622€). Ainsi, selon le HCME, seuls 130 projets individuels ou collectifs ont été financés depuis 2017.

      Concernant l’assistance aux personnes en transit au Mali, le projet prévoyait la construction de trois centres de transit au Mali (Bamako, Gao et Kayes). Or, un centre de transit, dédié à l’accueil des personnes de retour, existait déjà à Bamako (la Cité), construit par le HCME dans ses locaux et géré conjointement avec la DGME. Les centres de Gao et Kayes semblent par ailleurs être l’objet de controverse. Un existe déjà à Gao à travers les locaux et la prise en charge de la protection civile. Quant à Kayes, la construction d’un centre est jugée peu pertinente, les personnes de retour dans la région se rendant directement dans leur famille. Néanmoins, la délégation de l’UE au Mali maintient construire des centres de transit, tandis que l’OIM affirme construire des bureaux régionaux pour la DGME malienne[11].

      Le volet « sensibilisation » est indépendante de la partie « retour ». Confié à la coopération espagnole (AECID), il est géré par une unité de gestion du projet sous la tutelle du ministère des Maliens de l’extérieur. 27 agents de terrain (12 à Bamako, 7 Sikasso, 7 à Kayes) sont chargés de mettre en œuvre des activités de sensibilisation notamment dans les lycées. Selon AECID, le projet ciblait 70 000 jeunes (alors que la fiche projet mentionne 70 000 « migrants en transit »), objectif déjà atteint. Par ailleurs, l’unité de gestion du projet gère directement des formations auprès d’acteurs institutionnels (agents aux frontières, douanes, journalistes, spots radio grand public, etc.). Les organisations de la société civile maliennes sont également mises à contribution à travers un fonds d’appui. Le programme est également censé promouvoir les « opportunités de migration régulière » dans l’espace CEDEAO, mais celles-ci sont uniquement utilisées comme une alternative à la migration irrégulière – sous-entendu vers l’Europe.

      La pertinence de ce projet peut être questionnée. Il n’y pas d’indicateurs de résultats, mais uniquement d’activité, ainsi son évaluation porte uniquement sur la réalisation de telle ou telle activité sans analyser l’impact de celle-ci ou ce qu’elle a pu apporter comme changement. Alors que l’impact des campagnes de sensibilisation menées dans différents pays de départ et de transit depuis des années reste toujours à démontrer[12], ce projet une fois encore finance cette sensibilisation sans savoir si elles ont un réel impact sur la migration dite irrégulière.

      Projet d’appui à la filière de l’anacarde au Mali – PAFAM – T05-EUTF-SAH-ML-02

      Ce projet d’un montant de 13 000 000 €, vise à « contribuer à la lutte contre la pauvreté et au développement durable de la population du Mali par la mise en valeur de la chaine de valeur de l’anacarde (noix de cajou) ». Il est mis en œuvre par la coopération espagnole (AECID).

      Selon le coordinateur international de l’unité de gestion du projet, celui-ci a été demandé par le gouvernement malien afin de poursuivre un projet similaire déjà mené par AECID en 2010 avant le FFU bien que de ce dernier, n’a pas été pérennisé du fait de la fermeture de l’usine créée[13]. Les objectifs « d’augmentation des opportunités économiques et d’emploi et d’amélioration de la sécurité alimentaire » poursuivis par le projet, sont justifiés par le fait qu’ils permettront « d’atténuer les causes de l’émigration par le biais de l’amélioration de la production, la transformation et la commercialisation de l’anacarde ».

      En réalité le lien de ce projet avec la migration est assez faible, si ce n’est les zones de mise en œuvre, Kayes étant la plus importante région d’origine des ressortissant·e·s malien·ne·s en France et étant également une zone de production de la noix de cajou. Le projet se base ainsi sur le lien préconçu entre pauvreté et migration qui reste peu démontré à ce jour, voire remis en cause. En effet, comme le souligne le Programme des Nations unies pour le développement (PNUD), les études montrent que « les progrès réalisés en matière de développement (…) favorisent les migrations », ainsi, « la plupart des pays africains [auraient] tout juste atteint les niveaux de croissance et de développement auxquels l’émigration commence à s’intensifier[14] ». Le faible lien avec les migrations, conjugué au fait que le projet a été approuvé parmi les premiers en 2016, laisse supposer que ce projet était déjà validé sur d’autres instruments financiers de l’UE et intégré dans le FFU.

      Pour répondre aux objectifs du FFU, les « personnes de retour » ont été intégrées parmi les bénéficiaires. Néanmoins début 2020, l’équipe de gestion du projet était toujours en cours de réflexion pour mettre en œuvre cet aspect du projet. En effet, il ne s’agit pas du public habituel des acteurs de mise en œuvre, qui n’ont pas, par ailleurs, d’expérience spécifique sur l’identification et l’accompagnement des personnes migrantes, notamment de retour.

      Un des indicateurs du projet prévoit également la réduction de 100% du nombre de personnes émigrantes (émigration saisonnière ou de longue durée), tout comme l’augmentation de la population de retour grâce à la création d’opportunités d’emplois. Des indicateurs qui semblent bien difficiles à atteindre d’autant que l’équipe de coordination ne semble pas disposer de données de départ sur le nombre de personnes émigrant par manque d’opportunités économiques.

      La mise en œuvre du FFU au Mali illustre son utilisation comme un outil de financement de la coopération des États membres de l’UE et de leurs priorités politiques. Au Mali, la plupart des projets sont orientés vers la stabilisation du pays et le rétablissement de la sécurité pour « créer des pôles de développement » et soutenir l’État malien dans la reprise du contrôle du territoire et la lutte anti-terrorisme. Côté migrations, les seules actions financées sont principalement l’aide au retour « volontaire » et à la réintégration des personnes de retour à travers l’OIM, et ce, malgré l’existence de programmes gouvernementaux.

      Sources :

      [1] UNHCR, Global report 2019

      [2] Cluster protection Mali, Rapport sur les mouvements de population, 31 décembre 2019

      [3] Cadre de coordination en matière de sécurité et développement regroupant le Burkina Faso, la Mauritanie, le Mali, le Niger et le Tchad.

      [4] https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/delegation_ue_mali_10.2017.pdf

      [5] Voir également sur ce sujet : La Cimade, Prisonniers du désert, 2010

      [6] Commission européenne, Communication relative à la mise en place d’un nouveau cadre de partenariat avec les pays tiers dans le cadre de l’agenda européen en matière de migration, 7 juin 2016.

      [7] La Cimade – Loujna-Tounkaranké – Migreurop, Chronique d’un chantage, 2017

      [8] Entretien avec le HCME du 03/03/2020

      [9] Site internet du FFU : https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/region/sahel-lake-chad/mali

      [10] La Cimade, Chronique d’un chantage, op. cit

      [11] Entretiens avec la Délégation de l’UE au Mali du 04/03/2020 et avec l’OIM Bamako du 05/03/2020

      [12] OIM, Evaluating the impact of information campaigns in the field of migration, a systematic review of the evidence, and practical guidance, Central Mediterranean Route Thematic Report Series, Issue n°1

      [13] Foreingpolicy.com, “Europe slams its gates – a foreign policy special investigation”, “The paradox of prosperity”, 2017

      [14] PNUD, Au-delà des barrières : voix des migrants africains irréguliers en Europe, 2019

      https://www.lacimade.org/note-analyse-ffu-mali

  • Budget européen pour la migration : plus de contrôles aux frontières, moins de respect pour les droits humains

    Le 17 juillet 2020, le Conseil européen examinera le #cadre_financier_pluriannuel (#CFP) pour la période #2021-2027. À cette occasion, les dirigeants de l’UE discuteront des aspects tant internes qu’externes du budget alloué aux migrations et à l’#asile.

    En l’état actuel, la #Commission_européenne propose une #enveloppe_budgétaire totale de 40,62 milliards d’euros pour les programmes portant sur la migration et l’asile, répartis comme suit : 31,12 milliards d’euros pour la dimension interne et environ 10 milliards d’euros pour la dimension externe. Il s’agit d’une augmentation de 441% en valeur monétaire par rapport à la proposition faite en 2014 pour le budget 2014-2020 et d’une augmentation de 78% par rapport à la révision budgétaire de 2015 pour ce même budget.

    Une réalité déguisée

    Est-ce une bonne nouvelle qui permettra d’assurer dignement le bien-être de milliers de migrant.e.s et de réfugié.e.s actuellement abandonné.e.s à la rue ou bloqué.e.s dans des centres d’accueil surpeuplés de certains pays européens ? En réalité, cette augmentation est principalement destinée à renforcer l’#approche_sécuritaire : dans la proposition actuelle, environ 75% du budget de l’UE consacré à la migration et à l’asile serait alloué aux #retours, à la #gestion_des_frontières et à l’#externalisation des contrôles. Ceci s’effectue au détriment des programmes d’asile et d’#intégration dans les États membres ; programmes qui se voient attribuer 25% du budget global.

    Le budget 2014 ne comprenait pas de dimension extérieure. Cette variable n’a été introduite qu’en 2015 avec la création du #Fonds_fiduciaire_de_l’UE_pour_l’Afrique (4,7 milliards d’euros) et une enveloppe financière destinée à soutenir la mise en œuvre de la #déclaration_UE-Turquie de mars 2016 (6 milliards d’euros), qui a été tant décriée. Ces deux lignes budgétaires s’inscrivent dans la dangereuse logique de #conditionnalité entre migration et #développement : l’#aide_au_développement est liée à l’acceptation, par les pays tiers concernés, de #contrôles_migratoires ou d’autres tâches liées aux migrations. En outre, au moins 10% du budget prévu pour l’Instrument de voisinage, de développement et de coopération internationale (#NDICI) est réservé pour des projets de gestion des migrations dans les pays d’origine et de transit. Ces projets ont rarement un rapport avec les activités de développement.

    Au-delà des chiffres, des violations des #droits_humains

    L’augmentation inquiétante de la dimension sécuritaire du budget de l’UE correspond, sur le terrain, à une hausse des violations des #droits_fondamentaux. Par exemple, plus les fonds alloués aux « #gardes-côtes_libyens » sont importants, plus on observe de #refoulements sur la route de la Méditerranée centrale. Depuis 2014, le nombre de refoulements vers la #Libye s’élève à 62 474 personnes, soit plus de 60 000 personnes qui ont tenté d’échapper à des violences bien documentées en Libye et qui ont mis leur vie en danger mais ont été ramenées dans des centres de détention indignes, indirectement financés par l’UE.

    En #Turquie, autre partenaire à long terme de l’UE en matière d’externalisation des contrôles, les autorités n’hésitent pas à jouer avec la vie des migrant.e.s et des réfugié.e.s, en ouvrant et en fermant les frontières, pour négocier le versement de fonds, comme en témoigne l’exemple récent à la frontière gréco-turque.

    Un budget opaque

    « EuroMed Droits s’inquiète de l’#opacité des allocations de fonds dans le budget courant et demande à l’Union européenne de garantir des mécanismes de responsabilité et de transparence sur l’utilisation des fonds, en particulier lorsqu’il s’agit de pays où la corruption est endémique et qui violent régulièrement les droits des personnes migrantes et réfugiées, mais aussi les droits de leurs propres citoyen.ne.s », a déclaré Wadih Al-Asmar, président d’EuroMed Droits.

    « Alors que les dirigeants européens se réunissent à Bruxelles pour discuter du prochain cadre financier pluriannuel, EuroMed Droits demande qu’une approche plus humaine et basée sur les droits soit adoptée envers les migrant.e.s et les réfugié.e.s, afin que les appels à l’empathie et à l’action résolue de la Présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen ne restent pas lettre morte ».

    https://euromedrights.org/fr/publication/budget-europeen-pour-la-migration-plus-de-controles-aux-frontieres-mo


    https://twitter.com/EuroMedRights/status/1283759540740096001

    #budget #migrations #EU #UE #Union_européenne #frontières #Fonds_fiduciaire_pour_l’Afrique #Fonds_fiduciaire #sécurité #réfugiés #accord_UE-Turquie #chiffres #infographie #renvois #expulsions #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument

    Ajouté à la métaliste sur la #conditionnalité_de_l'aide_au_développement :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

    Et à la métaliste sur l’externalisation des contrôles frontaliers :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765319

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  • Migrants : les échecs d’un #programme_de_retour_volontaire financé par l’#UE

    Alors qu’il embarque sur un vol de la Libye vers le Nigeria à la fin 2018, James a déjà survécu à un naufrage en Méditerranée, traversé une demi-douzaine d’États africains, été la cible de coups de feu et passé deux ans à être maltraité et torturé dans les centres de détention libyens connus pour la brutalité qui y règne.

    En 2020, de retour dans sa ville de Benin City (Etat d’Edo au Nigéria), James se retrouve expulsé de sa maison après n’avoir pas pu payer son loyer. Il dort désormais à même le sol de son salon de coiffure.

    Sa famille et ses amis l’ont tous rejeté parce qu’il n’a pas réussi à rejoindre l’Europe.

    « Le fait que tu sois de retour n’est source de bonheur pour personne ici. Personne ne semble se soucier de toi [...]. Tu es revenu les #mains_vides », raconte-t-il à Euronews.

    James est l’un des quelque 81 000 migrants africains qui sont rentrés dans leur pays d’origine avec l’aide de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) des Nations unies et le #soutien_financier de l’Union européenne, dans le cadre d’une initiative conjointe de 357 millions d’euros (https://migrationjointinitiative.org). Outre une place sur un vol au départ de la Libye ou de plusieurs autres pays de transit, les migrants se voient promettre de l’argent, un #soutien et des #conseils pour leur permettre de se réintégrer dans leur pays d’origine une fois rentrés chez eux.

    Mais une enquête d’Euronews menée dans sept pays africains a révélé des lacunes importantes dans ce programme, considéré comme la réponse phare de l’UE pour empêcher les migrants d’essayer de se rendre en Europe.

    Des dizaines de migrants ayant participé au programme ont déclaré à Euronews qu’une fois rentrés chez eux, ils ne recevaient aucune aide. Et ceux qui ont reçu une aide financière, comme James, ont déclaré qu’elle était insuffisante.

    Nombreux sont ceux qui envisagent de tenter à nouveau de se rendre en Europe dès que l’occasion se présente.

    « Je ne me sens pas à ma place ici », confie James. « Si l’occasion se présente, je quitte le pays ».

    Sur les 81 000 migrants qui ont été rapatriés depuis 2017, près de 33 000 ont été renvoyés de Libye par avion. Parmi eux, beaucoup ont été victimes de détention, d’abus et de violences de la part de passeurs, de milices et de bandes criminelles. Les conditions sont si mauvaises dans le pays d’Afrique du Nord que le programme est appelé « retour humanitaire volontaire » (VHR), plutôt que programme de « retour volontaire assisté » (AVR) comme ailleurs en Afrique.

    Après trois ans passés en Libye, Mohi, 24 ans, a accepté l’offre d’un vol de retour en 2019. Mais, une fois de retour dans son pays, son programme de réintégration ne s’est jamais concrétisé. « Rien ne nous a été fourni ; ils continuent à nous dire ’demain’ », raconte-t-il à Euronews depuis le nord du Darfour, au Soudan.

    Mohi n’est pas seul. Les propres statistiques de l’OIM sur les rapatriés au Soudan révèlent que seuls 766 personnes sur plus de 2 600 ont reçu un soutien économique. L’OIM attribue cette situation à des taux d’inflation élevés et à une pénurie de biens et d’argent sur place.

    Mais M. Kwaku Arhin-Sam, spécialiste des projets de développement et directeur de l’Institut d’évaluation Friedensau, estime de manière plus générale que la moitié des programmes de réintégration de l’OIM échouent.

    « La plupart des gens sont perdus au bout de quelques jours », explique-t-il.
    Deux tiers des migrants ne terminent pas les programmes de réintégration

    L’OIM elle-même revoit cette estimation à la baisse : l’agence des Nations unies a déclaré à Euronews que jusqu’à présent, seul un tiers des migrants qui ont commencé à bénéficier d’une aide à la réintégration sont allés au bout du processus. Un porte-parole a déclaré que l’initiative conjointe OIM/EU étant un processus volontaire, « les migrants peuvent décider de se désister à tout moment, ou de ne pas s’engager du tout ».

    Un porte-parole de l’OIM ajoute que la réintégration des migrants une fois qu’ils sont rentrés chez eux va bien au-delà du mandat de l’organisation, et « nécessite un leadership fort de la part des autorités nationales », ainsi que « des contributions actives à tous les niveaux de la société ».

    Entre mai 2017 et février 2019, l’OIM a aidé plus de 12 000 personnes à rentrer au Nigeria. Parmi elles, 9 000 étaient « joignables » lorsqu’elles sont rentrées chez elles, 5 000 ont reçu une formation professionnelle et 4 300 ont bénéficié d’une « aide à la réintégration ». Si l’on inclut l’accès aux services de conseil ou de santé, selon l’OIM Nigéria, un total de 7 000 sur 12 000 rapatriés – soit 58 % – ont reçu une aide à la réintégration.

    Mais le nombre de personnes classées comme ayant terminé le programme d’aide à la réintégration n’était que de 1 289. De plus, les recherches de Jill Alpes, experte en migration et chercheuse associée au Centre de recherche sur les frontières de Nimègue, ont révélé que des enquêtes visant à vérifier l’efficacité de ces programmes n’ont été menées qu’auprès de 136 rapatriés.

    Parallèlement, une étude de Harvard sur les Nigérians de retour de Libye (https://cdn1.sph.harvard.edu/wp-content/uploads/sites/2464/2019/11/Harvard-FXB-Center-Returning-Home-FINAL.pdf) estime que 61,3 % des personnes interrogées ne travaillaient pas après leur retour, et que quelque 16,8 % supplémentaires ne travaillaient que pendant une courte période, pas assez longue pour générer une source de revenus stable. À leur retour, la grande majorité des rapatriés, 98,3 %, ne suivaient aucune forme d’enseignement régulier.

    La commissaire européenne aux affaires intérieures, Ylva Johansson, a admis à Euronews que « c’est un domaine dans lequel nous avons besoin d’améliorations ». Mme Johansson a déclaré qu’il était trop tôt pour dire quelles pourraient être ces améliorations, mais a maintenu que l’UE avait de bonnes relations avec l’OIM.

    Sandrine, Rachel et Berline, originaires du Cameroun, ont elles accepté de prendre un vol de l’OIM de Misrata, en Libye, à Yaoundé, la capitale camerounaise, en septembre 2018.

    En Libye, elles disent avoir subi des violences, des abus sexuels et avoir déjà risqué leur vie en tentant de traverser la Méditerranée. À cette occasion, elles ont été interceptées par les garde-côtes libyens et renvoyées en Libye.

    Une fois rentrées au Cameroun, Berline et Rachel disent n’avoir reçu ni argent ni soutien de l’OIM. Sandrine a reçu environ 900 000 fcfa (1 373,20 euros) pour payer l’éducation de ses enfants et lancer une petite entreprise – mais cela n’a pas duré longtemps.

    « Je vendais du poulet au bord de la route à Yaoundé, mais le projet ne s’est pas bien déroulé et je l’ai abandonné », confie-t-elle.

    Elle se souvient aussi d’avoir accouché dans un centre de détention de Tripoli avec des fusillades comme fond sonore.

    Toutes les trois ont affirmé qu’au moment de leur départ pour le Cameroun, elles n’avaient aucune idée de l’endroit où elles allaient dormir une fois arrivées et qu’elles n’avaient même pas d’argent pour appeler leur famille afin de les informer de leur retour.

    « Nous avons quitté le pays, et quand nous y sommes revenues, nous avons trouvé la même situation, parfois même pire. C’est pourquoi les gens décident de repartir », explique Berline.

    En novembre 2019, moins de la moitié des 3 514 migrants camerounais qui ont reçu une forme ou une autre de soutien de la part de l’OIM étaient considérés comme « véritablement intégrés » (https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/ENG_Press%20release%20COPIL_EUTF%20UE_IOM_Cameroon.pdf).

    Seydou, un rapatrié malien, a reçu de l’argent de l’OIM pour payer son loyer pendant trois mois et les factures médicales de sa femme malade. Il a également reçu une formation commerciale et un moto-taxi.

    Mais au Mali, il gagne environ 15 euros par jour, alors qu’en Algérie, où il travaillait illégalement, il avait été capable de renvoyer chez lui plus de 1 300 euros au total, ce qui a permis de financer la construction d’une maison pour son frère dans leur village.

    Il tente actuellement d’obtenir un visa qui lui permettrait de rejoindre un autre de ses frères en France.

    Seydou est cependant l’un des rares Maliens chanceux. Les recherches de Jill Alpes, publiées par Brot für die Welt et Medico (l’agence humanitaire des Églises protestantes en Allemagne), ont révélé que seuls 10 % des migrants retournés au Mali jusqu’en janvier 2019 avaient reçu un soutien quelconque de l’OIM.

    L’OIM, quant à elle, affirme que 14 879 Maliens ont entamé le processus de réintégration – mais ce chiffre ne révèle pas combien de personnes l’ont achevé.
    Les stigmates du retour

    Dans certains cas, l’argent que les migrants reçoivent est utilisé pour financer une nouvelle tentative pour rejoindre l’Europe.

    Dans un des cas, une douzaine de personnes qui avaient atteint l’Europe et avaient été renvoyées chez elles ont été découvertes parmi les survivants du naufrage d’un bateau en 2019 (https://www.infomigrants.net/en/post/21407/mauritanian-coast-guard-intercepts-boat-carrying-around-190-migrants-i se dirigeait vers les îles Canaries. « Ils étaient revenus et ils avaient décidé de reprendre la route », a déclaré Laura Lungarotti, chef de la mission de l’OIM en Mauritanie.

    Safa Msehli, porte-parole de l’OIM, a déclaré à Euronews que l’organisation ne pouvait pas empêcher des personnes de tenter de repartir vers l’Europe une fois revenues.

    « C’est aux gens de décider s’ils veulent ou non émigrer et dans aucun de ses différents programmes, l’OIM ne prévoit pas d’empêcher les gens de repartir », a-t-elle expliqué.

    Qu’est-ce que l’OIM ?

    A partir de 2016, l’OIM s’est redéfinie comme agence des Nations unies pour les migrations, et en parallèle son budget a augmenté rapidement (https://governingbodies.iom.int/system/files/en/council/110/C-110-10%20-%20Director%20General%27s%20report%20to%20the%20110). Il est passé de 242,2 millions de dollars US (213 millions d’euros) en 1998 à plus de 2 milliards de dollars US (1,7 milliard d’euros) à l’automne 2019, soit une multiplication par huit. Bien qu’elle ne fasse pas partie des Nations unies, l’OIM est désormais une « organisation apparentée », avec un statut similaire à celui d’un prestataire privé.

    L’UE et ses États membres sont collectivement les principaux contributeurs au budget de l’OIM (https://governingbodies.iom.int/system/files/en/council/110/Statements/EU%20coordinated%20statement%20-%20Point%2013%20-%20final%20IOM), leurs dons représentant près de la moitié de son financement opérationnel.

    De son côté, l’OIM tient à mettre en évidence sur son site web les cas où son programme de retour volontaire a été couronné de succès, notamment celui de Khadeejah Shaeban, une rapatriée soudanaise revenue de Libye qui a pu monter un atelier de couture.

    –-
    Comment fonctionne le processus d’aide à la réintégration ?
    Les migrants embarquent dans un avion de l’OIM sur la base du volontariat et retournent dans leur pays ;
    Ils ont droit à des conseils avant et après le voyage ;
    Chaque « rapatrié » peut bénéficier de l’aide de bureaux locaux, en partenariat avec des ONG locales ;
    L’assistance à l’accueil après l’arrivée peut comprendre l’accueil à l’aéroport, l’hébergement pour la nuit, une allocation en espèces pour les besoins immédiats, une première assistance médicale, une aide pour le voyage suivant, une assistance matérielle ;
    Une fois arrivés, les migrants sont enregistrés et vont dans un centre d’hébergement temporaire où ils restent jusqu’à ce qu’ils puissent participer à des séances de conseil avec le personnel de l’OIM. Des entretiens individuels doivent aider les migrants à identifier leurs besoins. Les migrants en situation vulnérable reçoivent des conseils supplémentaires, adaptés à leur situation spécifique ;
    Cette assistance est généralement non monétaire et consiste en des cours de création d’entreprise, des formations professionnelles (de quelques jours à six mois/un an), des salons de l’emploi, des groupes de discussion ou des séances de conseil ; l’aide à la création de micro-entreprises. Toutefois, pour certains cas vulnérables, une assistance en espèces est fournie pour faire face aux dépenses quotidiennes et aux besoins médicaux ;
    Chaque module comprend des activités de suivi et d’évaluation afin de déterminer l’efficacité des programmes de réintégration.

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    Des migrants d’#Afghanistan et du #Yémen ont été renvoyés dans ces pays dans le cadre de ce programme, ainsi que vers la Somalie, l’Érythrée et le Sud-Soudan, malgré le fait que les pays de l’UE découragent tout voyage dans ces régions.

    En vertu du droit international relatif aux Droits de l’homme, le principe de « #non-refoulement » garantit que nul ne doit être renvoyé dans un pays où il risque d’être torturé, d’être soumis à des traitements cruels, inhumains ou dégradants ou de subir d’autres préjudices irréparables. Ce principe s’applique à tous les migrants, à tout moment et quel que soit leur statut migratoire.

    L’OIM fait valoir que des procédures sont en place pour informer les migrants pendant toutes les phases précédant leur départ, y compris pour ceux qui sont vulnérables, en leur expliquant le soutien que l’organisation peut leur apporter une fois arrivés au pays.

    Mais même lorsque les migrants atterrissent dans des pays qui ne sont pas en proie à des conflits de longue durée, comme le Nigeria, certains risquent d’être confrontés à des dangers et des menaces bien réelles.

    Les principes directeurs du Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) sur la protection internationale considèrent que les femmes ou les mineurs victimes de trafic ont le droit de demander le statut de réfugié. Ces populations vulnérables risquent d’être persécutées à leur retour, y compris au Nigeria, voire même d’être à nouveau victime de traite.
    Forcer la main ?

    Le caractère volontaire contestable des opérations de retour s’étend également au Niger voisin, pays qui compte le plus grand nombre de migrants assistés par l’OIM et qui est présenté comme la nouvelle frontière méridionale de l’Europe.

    En 2015, le Niger s’est montré disposé à lutter contre la migration en échange d’un dédommagement de l’UE, mais des centaines de milliers de migrants continuent de suivre les routes à travers le désert en direction du nord pendant que le business du trafic d’êtres humains est florissant.

    Selon le Conseil européen sur les réfugiés et les exilés, une moyenne de 500 personnes sont expulsées d’Algérie vers le Niger chaque semaine, au mépris du droit international.

    La police algérienne détient, identifie et achemine les migrants vers ce qu’ils appellent le « #point zéro », situé à 15 km de la frontière avec le Niger. De là, les hommes, femmes et enfants sont contraints de marcher dans le désert pendant environ 25 km pour atteindre le campement le plus proche.

    « Ils arrivent à un campement frontalier géré par l’OIM (Assamaka) dans des conditions épouvantables, notamment des femmes enceintes souffrant d’hémorragies et en état de choc complet », a constaté Felipe González Morales, le rapporteur spécial des Nations unies, après sa visite en octobre 2018 (https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=23698%26LangID).

    Jill Alpes, au Centre de recherche sur les frontières de Nimègue, estime que ces expulsions sont la raison principale pour laquelle les migrants acceptent d’être renvoyés du Niger. Souvent repérés lors d’opérations de recherche et de sauvetage de l’OIM dans le désert, ces migrants n’ont guère d’autre choix que d’accepter l’aide de l’organisation et l’offre de rapatriement qui s’ensuit.

    Dans ses travaux de recherche, Mme Alpes écrit que « seuls les migrants qui acceptent de rentrer au pays peuvent devenir bénéficiaire du travail humanitaire de l’OIM. Bien que des exceptions existent, l’OIM offre en principe le transport d’Assamakka à Arlit uniquement aux personnes expulsées qui acceptent de retourner dans leur pays d’origine ».

    Les opérations de l’IOM au Niger

    M. Morales, le rapporteur spécial des Nations unies, semble être d’accord (https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=23698%26LangID). Il a constaté que « de nombreux migrants qui ont souscrit à l’aide au retour volontaire sont victimes de multiples violations des droits de l’Homme et ont besoin d’une protection fondée sur le droit international », et qu’ils ne devraient donc pas être renvoyés dans leur pays. « Cependant, très peu d’entre eux sont orientés vers une procédure de détermination du statut de réfugié ou d’asile, et les autres cas sont traités en vue de leur retour ».

    « Le fait que le Fonds fiduciaire de l’Union européenne apporte un soutien financier à l’OIM en grande partie pour sensibiliser les migrants et les renvoyer dans leur pays d’origine, même lorsque le caractère volontaire est souvent douteux, compromet son approche de la coopération au développement fondée sur les droits », indique le rapporteur spécial des Nations unies.
    Des contrôles insuffisants

    Loren Landau, professeur spécialiste des migrations et du développement au Département du développement international d’Oxford, affirme que le travail de l’OIM souffre en plus d’un manque de supervision indépendante.

    « Il y a très peu de recherches indépendantes et beaucoup de rapports. Mais ce sont tous des rapports écrits par l’OIM. Ils commandent eux-même leur propre évaluation , et ce, depuis des années », détaille le professeur.

    Dans le même temps, le Dr. Arhin-Sam, spécialiste lui de l’évaluation des programmes de développement, remet en question la responsabilité et la redevabilité de l’ensemble de la structure, arguant que les institutions et agences locales dépendent financièrement de l’OIM.

    « Cela a créé un haut niveau de dépendance pour les agences nationales qui doivent évaluer le travail des agences internationales comme l’OIM : elles ne peuvent pas être critiques envers l’OIM. Alors que font-elles ? Elles continuent à dire dans leurs rapports que l’OIM fonctionne bien. De cette façon, l’OIM peut ensuite se tourner vers l’UE et dire que tout va bien ».

    Selon M. Arhin-Sam, les ONG locales et les agences qui aident les rapatriés « sont dans une compétition très dangereuse entre elles » pour obtenir le plus de travail possible des agences des Nations unies et entrer dans leurs bonnes grâces.

    « Si l’OIM travaille avec une ONG locale, celle-ci ne peut plus travailler avec le HCR. Elle se considère alors chanceuse d’être financée par l’OIM et ne peuvent donc pas la critiquer », affirme-t-il.

    Par ailleurs, l’UE participe en tant qu’observateur aux organes de décision du HCR et de l’OIM, sans droit de vote, et tous les États membres de l’UE sont également membres de l’OIM.

    « Le principal bailleur de fonds de l’OIM est l’UE, et ils doivent se soumettre aux exigences de leur client. Cela rend le partenariat très suspect », souligne M. Arhin-Sam. « [Lorsque les fonctionnaires européens] viennent évaluer les projets, ils vérifient si tout ce qui est écrit dans le contrat a été fourni. Mais que cela corresponde à la volonté des gens et aux complexités de la réalité sur le terrain, c’est une autre histoire ».
    Une relation abusive

    « Les États africains ne sont pas nécessairement eux-mêmes favorables aux migrants », estime le professeur Landau. « L’UE a convaincu ces États avec des accords bilatéraux. S’ils s’opposent à l’UE, ils perdront l’aide internationale dont ils bénéficient aujourd’hui. Malgré le langage du partenariat, il est évident que la relation entre l’UE et les États africains ressemble à une relation abusive, dans laquelle un partenaire est dépendant de l’autre ».

    Les chercheurs soulignent que si les retours de Libye offrent une voie de sortie essentielle pour les migrants en situation d’extrême danger, la question de savoir pourquoi les gens sont allés en Libye en premier lieu n’est jamais abordée.

    Une étude réalisée par l’activiste humanitaire libyenne Amera Markous (https://www.cerahgeneve.ch/files/6115/7235/2489/Amera_Markous_-_MAS_Dissertation_2019.pdf) affirme que les migrants et les réfugiés sont dans l’impossibilité d’évaluer en connaissance de cause s’ils doivent retourner dans leur pays quand ils se trouvent dans une situation de détresse, comme par exemple dans un centre de détention libyen.

    « Comment faites-vous en sorte qu’ils partent parce qu’ils le veulent, ou simplement parce qu’ils sont désespérés et que l’OIM leur offre cette seule alternative ? » souligne la chercheuse.

    En plus des abus, le stress et le manque de soins médicaux peuvent influencer la décision des migrants de rentrer chez eux. Jean-Pierre Gauci, chercheur principal à l’Institut britannique de droit international et comparé, estime, lui, que ceux qui gèrent les centres de détention peuvent faire pression sur un migrant emprisonné pour qu’il s’inscrive au programme.

    « Il existe une situation de pouvoir, perçu ou réel, qui peut entraver le consentement effectif et véritablement libre », explique-t-il.

    En réponse, l’OIM affirme que le programme Retour Humanitaire Volontaire est bien volontaire, que les migrants peuvent changer d’avis avant d’embarquer et décider de rester sur place.

    « Il n’est pas rare que des migrants qui soient prêts à voyager, avec des billets d’avion et des documents de voyage, changent d’avis et restent en Libye », déclare un porte-parole de l’OIM.

    Mais M. Landau affirme que l’initiative UE-OIM n’a pas été conçue dans le but d’améliorer la vie des migrants.

    « L’objectif n’est pas de rendre les migrants heureux ou de les réintégrer réellement, mais de s’en débarrasser d’une manière qui soit acceptable pour les Européens », affirme le chercheur.

    « Si par ’fonctionner’, nous entendons se débarrasser de ces personnes, alors le projet fonctionne pour l’UE. C’est une bonne affaire. Il ne vise pas à résoudre les causes profondes des migrations, mais crée une excuse pour ce genre d’expulsions ».

    https://fr.euronews.com/2020/06/22/migrants-les-echecs-d-un-programme-de-retour-volontaire-finance-par-l-u
    #retour_volontaire #échec #campagne #dissuasion #migrations #asile #réfugiés #IOM #renvois #expulsions #efficacité #réintégration #EU #Union_européenne #Niger #Libye #retour_humanitaire_volontaire (#VHR) #retour_volontaire_assisté (#AVR) #statistiques #chiffres #aide_à_la_réintégration #Nigeria #réfugiés_nigérians #travail #Cameroun #migrerrance #stigmates #stigmatisation #Assamaka #choix #rapatriement #Fonds_fiduciaire_de_l'Union européenne #fonds_fiduciaire #coopération_au_développement #aide_au_développement #HCR #partenariat #pouvoir

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    Ajouté à la métaliste migrations & développement (et plus précisément en lien avec la #conditionnalité_de_l'aide) :
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  • #Plainte contre l’Europe complice des horreurs perpétrées en Libye

    L’UE a violé ses obligations financières en soutenant sa gestion migratoire par la Libye selon plusieurs ONG. Dans une plainte déposée ce 27 avril, celles-ci réclament un audit de la #cour_des_comptes_européenne.

    Détention arbitraire, torture, viol, esclavage, etc. Les sévices dont sont victimes migrants et réfugiés dans la Libye en guerre sont largement documentés. Et la complicité de l’Union européenne qui externalise sa gestion migratoire, fortement dénoncée.

    Les ONG de défense des droits humains ont choisi un nouvel angle d’attaque pour contester la politique européenne de soutien aux autorités libyennes pour qu’elles interceptent en mer et maintiennent coûte que coûte sur leur sol les demandeurs d’asile. Elles ont décidé de frapper au porte-monnaie.

    Trois ONG portent plainte

    Trois organisations spécialisées dans l’expertise juridique et politique des migrations, le #Global_legal_action_network (réseau mondial d’action juridique, #GLAN), l’association pour les études juridiques sur l’immigration (#ASGI) et l’association italienne des loisirs et de la culture (#ARCI) ont déposé une plainte auprès de la cour des comptes européenne ce lundi 27 avril.

    La plainte est étayée par une déclaration de douze ONG de défense des droits humains, tels Amnesty International et la FIDH. Elle porte sur « les infractions aux #règles_financières de l’UE ». Les trois organisations estiment illégal le #soutien_financier européen à la gestion migratoire libyenne et réclament que la cour des comptes lance un audit sur la coopération de l’UE avec la Libye.

    Une plainte « révolutionnaire »

    « Les #lois_budgétaires de l’UE donnent mandat à l’UE de veiller à la bonne utilisation des #fonds_européens_de_développement, notamment en contrôlant et en évaluant en permanence leur impact sur les droits de l’homme. Sans garanties en matière de droits de l’homme, le programme de l’UE en Libye est en violation flagrante des lois européennes et internationales et se rend complice des souffrances humaines causées par le retour des migrants en Libye », fait valoir Valentina Azarova, conseillère juridique pour le GLAN.

    En s’appuyant sur le soutien matériel apporté à la Libye, cette plainte est « révolutionnaire », estime Leslie Piquemal du CIHRS, l’Institut d’études des droits de l’homme du Caire, cosignataire de la déclaration.

    Le respect des droits de l’homme transféré à la Libye

    L’UE a alloué, en juillet 2017, 91,3 millions d’euros au programme « #Gestion_intégrée_des_frontières_et_des_migrations_en_Libye » (#GIF) qui doit durer jusqu’à la fin de 2021. Ce programme a pour objectif « d’améliorer la capacité de la Libye à contrôler ses frontières et à assurer le sauvetage en mer, d’une manière pleinement conforme aux obligations et aux normes internationales en matière de droits de l’homme. » Ces #fonds ont été engagés par le biais du #Fonds_fiduciaire_d’urgence_de_l’Union_européenne_pour_la stabilité_et_la_lutte_contre_les_causes_profondes_des-migrations_irrégulières_et_des personnes_déplacées_en_Afrique (#EUTFA), lui-même principalement financé par le #Fonds_européen_de_développement.

    Si le Fonds européen de développement est soumis à des règles de bonne gestion financière - les projets soutenus doivent notamment être assortis d’un système visant à évaluer, atténuer et contrôler leur impact sur les droits de l’homme - l’EUTFA, lui, en est affranchi. Cette compatibilité avec les droits de l’homme a été transférée aux bénéficiaires des fonds.

    « L’absence de programmes de surveillance des droits et le risque que les fonds de développement soient détournés au profit de programmes de sécurité, comme le montre le #Fonds_fiduciaire_pour_l’Afrique, sont des préoccupations flagrantes que les institutions et les États membres de l’UE devraient chercher à corriger », fait valoir la plainte.

    En 2018, la cour des comptes avait elle-même pointé les faiblesses de l’EUTFA - manque de précision et risque d’#inefficacité -, et soulignait la nécessité de les revoir.

    https://www.la-croix.com/Monde/Migrants-plainte-contre-lEurope-complice-horreurs-perpetrees-Libye-2020-04
    #justice #EU #UE #Europe #Libye #externalisation #asile #migrations #réfugiés #droits_humains

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    • Complaint to the European Court of Auditors Concerning the Mismanagement of EU Funds by the EUTrust Fund for Africa’s ‘Support to Integrated Border and Migration Management in Libya’ (IBM) Programme Submitted by Global Legal Action Network (GLAN), Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI), and Italian Recreational and Cultural Association (ARCI)

      https://c5e65ece-003b-4d73-aa76-854664da4e33.filesusr.com/ugd/14ee1a_ae6a20e6b5ea4b00b0aa0e77ece91241.pdf

    • EU: Time to review and remedy cooperation policies facilitating abuse of refugees and migrants in Libya

      One year after the resumption of the armed conflict in Tripoli, and at a time when the humanitarian situation in Libya continues to deteriorate due to further military escalation and the spreading of the Covid-19 virus, Amnesty International, the Italian Recreational and Cultural Association (ARCI), Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI), Avocats Sans Frontières (ASF), Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS), Euro-Mediterranean Human Rights Network (EuroMed Rights), the Global Legal Action Network (GLAN), Human Rights Watch (HRW), International Federation for Human Rights (FIDH), Lawyers for Justice in Libya (LFJL), Oxfam International, Migreurop, and Saferworld are calling on EU institutions to stop any actions trapping people in a country where they are in constant, grave danger.

      EU institutions should review and reform the bloc’s policies of cooperation with Libya on migration and border management and control. During the past three years, these have facilitated the containment of tens of thousands of women, men and children in a country where they have been exposed to appalling abuse.

      The call coincides with the submission by GLAN, ASGI and ARCI of a complaint before the European Court of Auditors (ECA). In their complaint, the three organisations are requesting the body to launch an audit into EU’s cooperation with Libya. Such an audit would seek to determine whether the EU has breached its financial regulations, as well as its human rights obligations, in its support for Libyan border management.

      https://euromedrights.org/publication/eu-time-to-review-and-remedy-cooperation-policies-facilitating-abuse-

    • Stop cooperation with and funding to the Libyan coastguard, MEPs ask

      The EU should stop channeling funds to Libya to manage migration and to train its coastguard, as the violation of human rights of migrants and asylum-seekers continues.

      In a debate in the Civil Liberties Committee with representatives of the Commission, Frontex, UNHCR, the Council of Europe and NGOs, a majority of MEPs insisted that Libya is not a “safe country” for disembarkation of people rescued at sea and demanded that the cooperation with the Libyan coastguard stops.

      Most of the speakers acknowledged the challenges faced by front line countries receiving most of the migrants and asylum-seekers fleeing Libya, namely Italy and Malta, and underlined that the European common asylum system needs to be reshuffled, with a focus on solidarity among member states and respect of international legislation. Others made clear that member states are entitled to protect their borders, especially in the middle of a health crisis such as the current one. Some instead criticised the closure of ports due to the COVID-19 pandemic and stressed that letting people drown cannot be a solution.

      Background

      According to UNHCR, the human rights situation inside Libya is extremely complicated, in the context of intensifying combat, the coronavirus crisis and the high number of economic migrants, refugees and internally displaced people needing material and humanitarian assistance. Around 1,500 people remain in detention centers in appalling conditions, arbitrary detentions continue to take place and resettlement schemes of the most vulnerable people to neighbouring countries have been suspended.

      Since the beginning of the year, 3,277 persons have arrived in Italy by sea and 1,135 in Malta. On 1 April, the EU naval Operation Irini succeeded Operation Sophia, with a focus on enforcing the arms embargo to Libya, in an attempt to contribute to the pacification of the country.

      You can watch the debate again: https://multimedia.europarl.europa.eu/es/libe-committee-meeting_20200427-1600-COMMITTEE-LIBE_vd

      https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20200427IPR77915/stop-cooperation-with-and-funding-to-the-libyan-coastguard-meps-ask

    • EU : Time to review and remedy cooperation policies facilitating abuse of refugees and migrants in Libya

      One year after the resumption of the armed conflict in Tripoli, and at a time when the humanitarian situation in Libya continues to deteriorate due to further military escalation and the spreading of the Covid-19 virus, Amnesty International, the Italian Recreational and Cultural Association (ARCI), Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI), Avocats Sans Frontières (ASF), Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS), Euro-Mediterranean Human Rights Network (EuroMed Rights), the Global Legal Action Network (GLAN), Human Rights Watch (HRW), International Federation for Human Rights (FIDH), Lawyers for Justice in Libya (LFJL), Oxfam International, Migreurop, and Saferworld are calling on EU institutions to stop any actions trapping people in a country where they are in constant, grave danger.
      EU institutions should review and reform the bloc’s policies of cooperation with Libya on migration and border management and control. During the past three years, these have facilitated the containment of tens of thousands of women, men and children in a country where they have been exposed to appalling abuse.
      The call coincides with the submission by GLAN, ASGI and ARCI of a complaint before the European Court of Auditors (ECA)*. In their complaint, the three organisations are requesting the body to launch an audit into EU’s cooperation with Libya. Such an audit would seek to determine whether the EU has breached its financial regulations, as well as its human rights obligations, in its support for Libyan border management.

      The EU cooperation with Libya on border control and its consequences

      EU Member States and Institutions have long responded to the arrival of refugees and migrants, crossing the central Mediterranean on unseaworthy and overcrowded boats, by cooperating with Libyan authorities to stop departures and ensure that people rescued or intercepted at sea would be disembarked in Libya. In recent years, this policy has been pursued through new and numerous means, including the provision of training, speedboats, equipment and various forms of assistance to Libyan authorities such as the Libyan Coast Guard and Port Security (LCGPS, under the Ministry of Defence) and the General Administration for Coastal Security (GACS, under the Ministry of Interior), both under Libya’s Government of National Accord (GNA).

      EU institutions have played a key role in the definition and execution of this strategy. While significant resources have been invested in projects aimed at alleviating the suffering of refugees and migrants stranded in Libya and remain central to EU public communications on the topic, EU actions have nonetheless facilitated and perpetuated this policy of containment. The contained people have become victims of human rights violations and abuse, including indefinite, arbitrary detention and cruel, inhuman and degrading treatment, which such cosmetic measures have not remedied.

      Indeed, the overall policy of cooperation with the Libyan authorities on border control and management has been designed and consistently implemented at the EU level. It started with the launch of the EU Border Assistance Mission in Libya (EUBAM) in 2013, with the goal to support the Libyan authorities in improving and developing the security of the country’s borders. [1] It continued with the modification of the mandate of naval operation EunavforMed Sophia, tasked since June 2016 [2] to train members of the Libyan Coast Guard. It expanded with the Joint Communication by the European Commission and the High Representative for Foreign Affairs, dated 25 January 2017, indicating action to step up the capacity of the Libyan Coast Guard as a key priority. [3]] The strategy was completed through the Malta Declaration [4], of 3 February 2017, which explicitly indicated “training, equipment and support to the Libyan national coast guard and other relevant agencies” as its first priority. Crucially, this declaration also affirmed the intention to strengthen the mainstreaming of migration within the EU’s official development assistance for Africa, including through the mobilization of resources under the EU Emergency trust fund for stability and addressing root causes of irregular migration and displaced persons in Africa (EUTFA).

      The EU has then concretely implemented this strategy through the funding of specific projects, in particular the project “Support to Integrated border and migration management in Libya” (IBM project), launched in July 2017 and funded by the EUTFA with a total of €91.3m. [5] The project has focused almost entirely on enhancing the operational capacity of Libyan authorities in maritime surveillance : assisting with the supply and maintenance of speedboats ; setting up basic facilities to coordinate operations and planning the establishment of fully-fledged operational rooms ; and supporting the definition of a Libyan Search and Rescue Region, declared by Libya in December 2017. This, notwithstanding the fact that the country cannot be considered a place of safety for the disembarkation of people rescued at sea, a fact that even the Libyan authorities admitted earlier this month. It should also be noted that, despite the assistance provided, Libya has been unable to attend to this rescue area and has benefited from extensive and decisive support from Italy to coordinate maritime operations, including many triggered following sightings by EU assets. [6]

      While this strategy has achieved its objective of drastically reducing the number of people reaching Europe via the central Mediterranean – as well as the absolute number of deaths at sea, given the plummeting departures – it has also led to dramatic human consequences. Following disembarkation in Libya, since 2016 tens of thousands of women, men and children have been transferred to detention centres nominally under the control of the Libyan Ministry of Interior, where people have been detained arbitrarily for an indeterminate period of time, and where inhumane conditions and overcrowding are accompanied by the prevalence of torture and other ill-treatment. Cases of beatings, sexual violence, exploitation, forced labour, unlawful killings, and deaths in custody due to inadequate medical treatment or lack of adequate food, have been widely documented. Even outside of detention centres, refugees and migrants are constantly exposed to the risk of kidnappings, robberies, trafficking and exploitation. [7]

      The already dire humanitarian situation has been compounded, in recent weeks, by newly escalating violence in Tripoli as well as by the spreading of Covid-19 disease. All parties to the conflict, including the GNA and the Libyan National Army (LNA), have committed serious violations of international humanitarian law. Indiscriminate attacks have resulted in deaths among civilians, including dozens of refugees and migrants killed in the bombing of the detention centre of Tajoura, near Tripoli, in July 2019. [8] The risk of an escalation of violence in Libya due to the fragile political situation should have been foreseen by EU decision-makers.

      Many risks were well-known by EU Member States’ and institutions’ officials when designing the cooperation with Libya. In particular, the systematic human rights violations in detention centres – the very centres where Libyan authorities detain people who, with EU support, they intercept at sea – have been documented widely for a number of years, including by UN agencies who have also attempted to respond to such risks through human rights due diligence steps and the adoption of restrictive measures on their programmes. [9]

      While fully conscious of the horrific violations and abuses experienced by refugees and migrants taken to Libya, EU institutions have undertaken to implement the above-mentioned strategy for the past four years.

      The EU has thus contributed to the disembarkation in Libya and transfer to detention centres of tens of thousands of women, men and children. What is more, taking into account the 2012 European Court of Human Rights decision in the case Hirsi Jamaa and Others v. Italy, ruling that maritime pushbacks towards Libya breach the European Convention on Human Rights – this strategy has been designed to circumvent responsibility under international and EU laws, in multiple ways. [10] First, the focus on the capacity-building of the LCGPS is meant to ensure that people are intercepted at sea and subsequently disembarked in Libya by non-European actors – since both international and EU law prohibit the transfer of anyone to a country where their rights and freedoms are at serious risk. Second, EU institutions have tried to minimise the EU’s direct involvement and deflect attention from their responsibility for the serious abuses they have contributed to by focusing on funding projects implemented primarily by Member States. Finally, by transferring European
      development and other aid resources into the EUTFA, a fund that can be used with reduced transparency and limited supervision, and then using those funds to realize projects such as IBM, they have reduced avenues for holding decision-makers to account for the harmful contributions made by such actions.

      The complaint before the European Court of Auditors

      On 27 April 2020, GLAN, ASGI, and ARCI submitted a complaint before the European Court of Auditors, the EU body responsible for auditing the use and management of the EU budget.

      The complaint was drafted based on an expert opinion by academic experts on EU budget and development laws, Prof Dr Phillip Dann and Dr Michael Riegner of Humboldt University and Ms Lena Zagst of Hamburg University, published alongside the complaint. Following close to a year’s efforts to obtain information from various EU institutions about the use of EU funds, the complaint argues that EU funds used to implement the EU’s migration policy have been mismanaged, in breach of EU laws governing the EU budget, and with consequences for the EU and its Member States under international law. The complaint claims that the European Commission has failed to uphold its obligations under EU law to ensure that it is not acquiescing or contributing to serious human rights violations. In particular, it argues that provision of financial means to implement projects resulting in return to and containment in Libya of people at risk of human rights abuse, with knowledge of these consequences and in the absence of any legally required measures to mitigate such risks, engages the responsibility of the EU institutions. The complaint is unique insofar as it specifically addresses the responsibilities of EU institutions relevant to the use of EU funds in such projects, linking their financial disbursements and human rights obligations. Crucially, it is filed in the context of several previous and ongoing litigation efforts before domestic and regional courts and international bodies, including the European Court of Human Rights and the UN Human Rights Committee.

      The complaint calls on the ECA to launch an audit into the IBM programme for the misuse of EU funds and for its harmful impacts on human rights. The complaint argues, based on EU financial legislation, the illegality of the IBM programme due to inconsistency with the permissible funding objectives for development and other underlying funds disbursed by the EUTFA. Specifically, the use of EU funds in the IBM programme contravenes the obligation to follow legal requirements for the use of such funds, to ensure that use ‘does no harm’, and is compliant with EU law regarding sound financial management principles of effectiveness, efficiency and transparency. The arguments are based on the appended legal opinion and supported by information specific to the IBM programme researched and analysed by the groups.

      The human rights impact of the funding is particularly severe due to the fact that the IBM programme, now in its second phase, which is set to last until late 2021, is being implemented without any conditionality or restriction on the use of funding or review of funded activities, and without a human rights review or monitoring of the human rights impact. EU and international law, the complaint argues, requires that the EU and its Member States make the implementation of the programme conditional on the closure of detention centres and the enactment of asylum laws by Libyan authorities, amongst other concrete and verifiable steps.
      The programme should also provide for robust and effective review mechanisms that could result in its suspension if conditions are not respected.

      There is no doubt that EU institutions have been long aware of the risks involved in cooperating with Libyan authorities on border control and management. A recent investigation by The Guardian revealed how in early 2019 the Director of Frontex, Fabrice Leggeri, wrote to Paraskevi Michou, the Director-General of the Directorate-General for Migration and Home Affairs in the European Commission, outlining issues arising from sharing information about the position of boats in distress with Libyan authorities, highlighting how “the Commission and in general institutions may face questions of a political nature as a consequence of the SAR related operational exchanges of information.” [11] Indeed, questions about the lawfulness of the cooperation have previously been asked, not only by members of civil society. As early as March 2017, a review by the UK Independent Commission for Aid Impact noted that the UK and EU work efforts to build the capacity of the LCGPS aimed at increasing the likelihood that refugees and other irregular migrants were intercepted by the LCGPS, and that those intercepted were placed in detention. The body, which reports its findings to the British Parliament, expressed concern that “the programme delivers migrants back to a system that leads to indiscriminate and indefinite detention and denies refugees their right to asylum”, and concluded that the risk of UK aid causing unintended harm to vulnerable migrants, or preventing refugees from reaching a place of safety, had been inadequately assessed. [12] Subsequently, both the UN High Commissioner for Human Rights and the Commissioner for Human Rights of the Council of Europe expressed deep concern about the consequences of European cooperation with Libya on border control. [13]

      In 2018, the ECA opened a first, general audit on the EUTFA, leading to the Special Report “European Union Emergency Trust Fund for Africa : Flexible but lacking focus”. [14] In its conclusions, the ECA found that the fund’s more general established objectives were too broad to efficiently steer action and measure impact ; that the Commission did not comprehensively analyse needs nor the means at its disposal to address them ; that the selection of projects had been fast but not fully consistent and clear ; and that, while projects have started to deliver outputs, their monitoring was deficient. Among other weaknesses, the report highlighted the lack of a specific risk assessment framework, or – in the case of projects for the North of Africa – of any documented criteria for selecting project proposals. The funding of the IBM programme reveals that these concerns have now materialised.

      The “action fiche” for the first phase of the IBM programme – i.e. the document summarizing its objectives and relevant plans and activities – acknowledges that “Under the existing Libyan legislation, once rescued, irregular migrants generally end up in detention centres which generate international concerns.” [15] The action fiche for the second phase of the programme expands on this : “The treatment of migrants in Libyan detention centres is of great concern : there is a lack of food, hygiene is abhorrent and there is a situation of total despair. Equally important is the absence of a clear and verifiable system of the rule of law, which meets the international and human rights standards. Migrants in detention centres have often no access to legal process and cannot address any misuse of power. This situation has led to criticism on the current programs financed by the EU in Libya and influenced the design of this action.” [16]

      Despite such references to human rights and international law, the programme has not provided for any measure adequate to address the role of such funding in contributing to the dire situation of refugees and migrants trapped in Libya. Other measures supposedly adopted to mitigate the human rights impact of the programme, such as trainings and political demarches, either depend on the good will of Libyan authorities, or are tokenistic. While EU officials express concern that the continuation of abuse against refugees and migrants in Libya may “further damage the narrative and reputation of the EU”, the risk of actively facilitating this abuse is not considered in the brief risk analysis provided in the action fiche for the second phase . Notably, most of the project’s impact monitoring is outsourced to the Italian Ministry of Interior, which is also in charge of implementing many of the planned actions and has repeatedly refused to disclose information or even discuss related concerns.

      As the IBM project is set to last until end 2021, it is high time to reassess this project, as well as the implications of the wider strategy adopted by the EU and its Member States to stop irregular crossings in the central Mediterranean. Human rights violations should be stopped and remedied, not encouraged and enabled. At a time when refugees and migrants stuck in Libya, as a result of EU decisions and projects, are exposed not only to serious abuse but also to the risks emerging from intensifying conflict and spreading disease, Europe should ensure the accountability of its own institutions and that any migration cooperation programmes are devised in line with its international obligations, not least in terms of their financial dimension.

      http://www.migreurop.org/article2987

  • Esternalizzazione e diritto d’asilo, un approfondimento dell’ASGI

    Con il documento che si pubblica l’ASGI, facendo uso delle analisi, delle azioni e delle discussioni prodotte nel corso degli ultimi anni, offre una lettura del fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo focalizzando la propria attenzione in particolare sulle politiche di esternalizzazione volte ad impedire o limitare l’accesso delle persone straniere attraverso la rotta del Mare Mediterraneo centrale, nonché nell’ottica della verifica del rispetto delle norme costituzionali, europee ed internazionali che tutelano i diritti fondamentali delle persone e della conseguente ricerca di strumenti giuridici di contrasto alle violazioni verificate.

    L’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto dei rifugiati viene definita come l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, culturali, prevalentemente extraterritoriali, poste in essere da soggetti statali e sovrastatali, con il supporto indispensabile di ulteriori attori pubblici e privati, volte ad impedire o ad ostacolare che i migranti (e, tra essi, i richiedenti asilo) possano entrare nel territorio di uno Stato al fine di usufruire delle garanzie, anche giurisdizionali, previste in tale Stato, o comunque volte a rendere legalmente e sostanzialmente inammissibili il loro ingresso o una loro domanda di protezione sociale e/o giuridica.

    Nell’ambito del documento è considerato prima il contesto storico della esternalizzazione, dunque quello geopolitico più recente, attinente la rotta del mar Mediterraneo centrale, infine il contesto giuridico nazionale ed internazionale che si ritiene leso da tali politiche. Vengono, dunque, indicate alcune tra le possibili strade affinché sia individuata la responsabilità dei soggetti che determinano la violazione dei diritti umani delle persone conseguenti alle politiche in materia.

    Il documento intende porsi quale strumento di dibattito nell’ambito dell’ evoluzione dell’analisi del diritto di asilo per fornire adeguati strumenti di comprensione e contrasto di un fenomeno che si ritiene particolarmente insidioso e tale da inficiare sostanzialmente la rilevanza di diritti, tra cui innanzitutto il diritto di asilo, pur formalmente riconosciuti alle persone da parte dell’Italia e degli Stati membri dell’Unione europea.

    https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/asilo-esternalizzazione-approfondimento
    #ASGI #rapport #externalisation #Méditerranée_centrale #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #Mer_Méditerranée #droits_fondamentaux #droit_d'asile #Libye #Italie #Trust_Fund #HCR #relocalisation #fonds_fiduciaire_d’urgence #Trust_Fund_for_Africa

    Pour télécharger le rapport:


    https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2020/01/2020_1_Documento-Asgi-esternalizzazione.pdf

    ping @isskein

  • Des trajectoires immobilisées : #protection et #criminalisation des migrations au #Niger

    Le 6 janvier dernier, un camp du Haut-Commissariat des Nations Unies pour les Réfugiés (HCR) situé à une quinzaine de kilomètres de la ville nigérienne d’Agadez est incendié. À partir d’une brève présentation des mobilités régionales, l’article revient sur les contraintes et les tentatives de blocage des trajectoires migratoires dans ce pays saharo-sahélien. Depuis 2015, les projets européens se multiplient afin de lutter contre « les causes profondes de la migration irrégulière ». La Belgique est un des contributeurs du Fonds fiduciaire d’urgence de l’Union européenne pour l’Afrique (FFUE) et l’agence #Enabel met en place des projets visant la #stabilisation des communautés au Niger

    http://www.liguedh.be/wp-content/uploads/2020/04/Chronique_LDH_190_voies-sures-et-legales.pdf
    #immobilité #asile #migrations #réfugiés #Agadez #migrations #asile #réfugiés #root_causes #causes_profondes #Fonds_fiduciaire #mécanisme_de_transit_d’urgence #Fonds_fiduciaire_d’urgence_pour_l’Afrique #transit_d'urgence #OIM #temporaire #réinstallation #accueil_temporaire #Libye #IOM #expulsions_sud-sud #UE #EU #Union_européenne #mise_à_l'abri #évacuation #Italie #pays_de_transit #transit #mixed_migrations #migrations_mixtes #Convention_des_Nations_Unies_contre_la_criminalité_transnationale_organisée #fermeture_des_frontières #criminalisation #militarisation_des_frontières #France #Belgique #Espagne #passeurs #catégorisation #catégories #frontières #HCR #appel_d'air #incendie #trafic_illicite_de_migrants #trafiquants

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    Sur l’incendie de janvier 2020, voir :
    https://seenthis.net/messages/816450

    ping @karine4 @isskein :
    Cette doctorante et membre de Migreurop, Alizée Dauchy, a réussi un super défi : résumé en 3 pages la situation dans laquelle se trouve le Niger...

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    Pour @sinehebdo, un nouveau mot : l’#exodant
    –-> #vocabulaire #terminologie #mots

    Les origine de ce terme :

    Sur l’origine et l’emploi du terme « exodant » au Niger, voir Bernus (1999), Bonkano et Boubakar (1996), Boyer (2005a). Les termes #passagers, #rakab (de la racine arabe rakib désignant « ceux qui prennent un moyen de trans-port »), et #yan_tafia (« ceux qui partent » en haoussa) sont également utilisés.

    https://www.reseau-terra.eu/IMG/pdf/mts.pdf

  • Comment l’Europe contrôle ses frontières en #Tunisie ?

    Entre les multiples programmes de coopération, les accords bilatéraux, les #équipements fournis aux #gardes-côtes, les pays européens et l’Union européenne investissent des millions d’euros en Tunisie pour la migration. Sous couvert de coopération mutuelle et de “#promotion_de_la mobilité”, la priorité des programmes migratoires européens est avant tout l’externalisation des frontières. En clair.

    À la fois pays de transit et pays de départ, nœud dans la région méditerranéenne, la Tunisie est un partenaire privilégié de l’Europe dans le cadre de ses #politiques_migratoires. L’Union européenne ou les États qui la composent -Allemagne, France, Italie, Belgique, etc.- interviennent de multiples manières en Tunisie pour servir leurs intérêts de protéger leurs frontières et lutter contre l’immigration irrégulière.

    Depuis des années, de multiples accords pour réadmettre les Tunisien·nes expulsé·es d’Europe ou encore financer du matériel aux #gardes-côtes_tunisiens sont ainsi signés, notamment avec l’#Italie ou encore avec la #Belgique. En plus de ces #partenariats_bilatéraux, l’#Union_européenne utilise ses fonds dédiés à la migration pour financer de nombreux programmes en Tunisie dans le cadre du “#partenariat_pour_la_mobilité”. Dans les faits, ces programmes servent avant tout à empêcher les gens de partir et les pousser à rester chez eux.

    L’ensemble de ces programmes mis en place avec les États européens et l’UE sont nombreux et difficiles à retracer. Dans d’autres pays, notamment au Nigeria, des journalistes ont essayé de compiler l’ensemble de ces flux financiers européens pour la migration. Dans leur article, Ils et elle soulignent la difficulté, voire l’impossibilité de véritablement comprendre tous les fonds, programmes et acteurs de ces financements.

    “C’est profondément préoccupant”, écrivent Maite Vermeulen, Ajibola Amzat et Giacomo Zandonini. “Bien que l’Europe maintienne un semblant de transparence, il est pratiquement impossible dans les faits de tenir l’UE et ses États membres responsables de leurs dépenses pour la migration, et encore moins d’évaluer leur efficacité.”

    En Tunisie, où les investissements restent moins importants que dans d’autres pays de la région comme en Libye, il a été possible d’obtenir un résumé, fourni par la Délégation de l’Union européenne, des programmes financés par l’UE et liés à la migration. Depuis 2016, cela se traduit par l’investissement de près de 58 millions d’euros à travers trois différents fonds : le #FFU (#Fonds_Fiduciaire_d’Urgence) de la Valette, l’#AMIF (Asylum, Migration and Integration Fund) et l’Instrument européen de voisinage (enveloppe régionale).

    Mais il est à noter que ces informations ne prennent pas en compte les autres investissements d’#aide_au_développement ou de soutien à la #lutte_antiterroriste dont les programmes peuvent également concerner la migration. Depuis 2011, au niveau bilatéral, l’Union européenne a ainsi investi 2,5 billions d’euros en Tunisie, toutes thématiques confondues.

    L’écrasante majorité de ces financements de l’UE - 54 200 000 euros - proviennent du #Fond_fiduciaire_d'urgence_pour_l'Afrique. Lancé en 2015, lors du #sommet_de_la_Valette, ce FFU a été créé “en faveur de la stabilité et de la lutte contre les #causes_profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique” à hauteur de 2 milliards d’euros pour toute la région.

    Ce financement a été pointé du doigt par des associations de droits humains comme Oxfam qui souligne “qu’une partie considérable de ses fonds est investie dans des mesures de #sécurité et de #gestion_des_frontières.”

    “Ces résultats montrent que l’approche des bailleurs de fonds européens vis-à-vis de la gestion des migrations est bien plus axée sur des objectifs de #confinement et de #contrôle. Cette approche est loin de l’engagement qu’ils ont pris (...) de ‘promouvoir des canaux réguliers de migration et de mobilité au départ des pays d’Europe et d’Afrique et entre ceux-ci’ (...) ou de ‘Faciliter la migration et la mobilité de façon ordonnée, sans danger, régulière et responsable’”, détaille plus loin le rapport.

    Surveiller les frontières

    Parmi la vingtaine de projets financés par l’UE, la sécurité des frontières occupe une place prépondérante. Le “#Programme_de_gestion_des_frontières_au_Maghreb” (#BMP_Maghreb) est, de loin, le plus coûteux. Pour fournir de l’équipement et des formations aux gardes-côtes tunisiens, l’UE investit 20 millions d’euros, près d’un tiers du budget en question.

    Le projet BMP Maghreb a un objectif clairement défini : protéger, surveiller et contrôler les #frontières_maritimes dans le but de réduire l’immigration irrégulière. Par exemple, trois chambres d’opération ainsi qu’un système pilote de #surveillance_maritime (#ISmariS) ont été fournis à la garde nationale tunisienne. En collaboration avec le ministère de l’Intérieur et ses différents corps - garde nationale, douane, etc. -, ce programme est géré par l’#ICMPD (#Centre_international_pour_le_développement_des_politiques_migratoires).

    “Le BMP Maghreb est mis en place au #Maroc et en Tunisie. C’est essentiellement de l’acquisition de matériel : matériel informatique, de transmission demandé par l’Etat tunisien”, détaille Donya Smida de l’ICMPD. “On a fait d’abord une première analyse des besoins, qui est complétée ensuite par les autorités tunisiennes”.

    Cette fourniture de matériel s’ajoute à des #formations dispensées par des #experts_techniques, encore une fois coordonnées par l’ICMPD. Cette organisation internationale se présente comme spécialisée dans le “renforcement de capacités” dans le domaine de la politique migratoire, “loin des débat émotionnels et politisés”.

    "Cette posture est symptomatique d’un glissement sémantique plus général. Traiter la migration comme un sujet politique serait dangereux, alors on préfère la “gérer” comme un sujet purement technique. In fine, la ’gestionnaliser’ revient surtout à dépolitiser la question migratoire", commente #Camille_Cassarini, chercheur sur les migrations subsahariennes en Tunisie. “L’ICMPD, ce sont des ‘techniciens’ de la gestion des frontières. Ils dispensent des formations aux États grâce à un réseau d’experts avec un maître-mot : #neutralité politique et idéologique et #soutien_technique."

    En plus de ce programme, la Tunisie bénéficie d’autres fonds et reçoit aussi du matériel pour veiller à la sécurité des frontières. Certains s’inscrivent dans d’autres projets financés par l’UE, comme dans le cadre de la #lutte_antiterroriste.

    Il faut aussi ajouter à cela les équipements fournis individuellement par les pays européens dans le cadre de leurs #accords_bilatéraux. En ce qui concerne la protection des frontières, on peut citer l’exemple de l’Italie qui a fourni une douzaine de bateaux à la Tunisie en 2011. En 2017, l’Italie a également soutenu la Tunisie à travers un projet de modernisation de bateaux de patrouille fournis à la garde nationale tunisienne pour environ 12 millions d’euros.

    L’#Allemagne est aussi un investisseur de plus en plus important, surtout en ce qui concerne les frontières terrestres. Entre 2015 et 2016, elle a contribué à la création d’un centre régional pour la garde nationale et la police des frontières. A la frontière tuniso-libyenne, elle fournit aussi des outils de surveillance électronique tels que des caméras thermiques, des paires de jumelles nocturnes, etc…

    L’opacité des #accords_bilatéraux

    De nombreux pays européens - Allemagne, Italie, #France, Belgique, #Autriche, etc. - coopèrent ainsi avec la Tunisie en concluant de nombreux accords sur la migration. Une grande partie de cette coopération concerne la #réadmission des expulsé·es tunisien·nes. Avec l’Italie, quatre accords ont ainsi été signés en ce sens entre 1998 et 2011. D’après le FTDES* (Forum tunisien des droits économiques et sociaux), c’est dans le cadre de ce dernier accord que la Tunisie accueillerait deux avions par semaine à l’aéroport d’Enfidha de Tunisien·nes expulsé·es depuis Palerme.

    “Ces accords jouent beaucoup sur le caractère réciproque mais dans les faits, il y a un rapport inégal et asymétrique. En termes de réadmission, il est évident que la majorité des #expulsions concernent les Tunisiens en Europe”, commente Jean-Pierre Cassarino, chercheur et spécialiste des systèmes de réadmission.

    En pratique, la Tunisie ne montre pas toujours une volonté politique d’appliquer les accords en question. Plusieurs pays européens se plaignent de la lenteur des procédures de réadmissions de l’Etat tunisien avec qui “les intérêts ne sont pas vraiment convergents”.

    Malgré cela, du côté tunisien, signer ces accords est un moyen de consolider des #alliances. “C’est un moyen d’apparaître comme un partenaire fiable et stable notamment dans la lutte contre l’extrémisme religieux, l’immigration irrégulière ou encore la protection extérieure des frontières européennes, devenus des thèmes prioritaires depuis environ la moitié des années 2000”, explique Jean-Pierre Cassarino.

    Toujours selon les chercheurs, depuis les années 90, ces accords bilatéraux seraient devenus de plus en plus informels pour éviter de longues ratifications au niveau bilatéral les rendant par conséquent, plus opaques.

    Le #soft_power : nouvel outil d’externalisation

    Tous ces exemples montrent à quel point la question de la protection des frontières et de la #lutte_contre_l’immigration_irrégulière sont au cœur des politiques européennes. Une étude de la direction générale des politiques externes du Parlement européen élaborée en 2016 souligne comment l’UE “a tendance à appuyer ses propres intérêts dans les accords, comme c’est le cas pour les sujets liés à l’immigration.” en Tunisie.

    Le rapport pointe du doigt la contradiction entre le discours de l’UE qui, depuis 2011, insiste sur sa volonté de soutenir la Tunisie dans sa #transition_démocratique, notamment dans le domaine migratoire, tandis qu’en pratique, elle reste focalisée sur le volet sécuritaire.

    “La coopération en matière de sécurité demeure fortement centrée sur le contrôle des flux de migration et la lutte contre le terrorisme” alors même que “la rhétorique de l’UE en matière de questions de sécurité (...) a évolué en un discours plus large sur l’importance de la consolidation de l’État de droit et de la garantie de la protection des droits et des libertés acquis grâce à la révolution.”, détaille le rapport.

    Mais même si ces projets ont moins de poids en termes financiers, l’UE met en place de nombreux programmes visant à “développer des initiatives socio-économiques au niveau local”, “ mobiliser la diaspora” ou encore “sensibiliser sur les risques liés à la migration irrégulière”. La priorité est de dissuader en amont les potentiel·les candidat·es à l’immigration irrégulière, au travers de l’appui institutionnel, des #campagnes de #sensibilisation...

    L’#appui_institutionnel, présenté comme une priorité par l’UE, constitue ainsi le deuxième domaine d’investissement avec près de 15% des fonds.

    Houda Ben Jeddou, responsable de la coopération internationale en matière de migration à la DGCIM du ministère des Affaires sociales, explique que le projet #ProgreSMigration, créé en 2016 avec un financement à hauteur de 12,8 millions d’euros, permet de mettre en place “ des ateliers de formations”, “des dispositifs d’aides au retour” ou encore “des enquêtes statistiques sur la migration en Tunisie”.

    Ce projet est en partenariat avec des acteurs étatiques tunisiens comme le ministère des Affaires Sociales, l’observatoire national des migrations (ONM) ou encore l’Institut national de statistiques (INS). L’un des volets prioritaires est de “soutenir la #Stratégie_nationale_migratoire_tunisienne”. Pour autant, ce type de projet ne constitue pas une priorité pour les autorités tunisiennes et cette stratégie n’a toujours pas vu le jour.

    Houda Ben Jeddou explique avoir déposé un projet à la présidence en 2018, attendant qu’elle soit validée. "Il n’y a pas de volonté politique de mettre ce dossier en priorité”, reconnaît-elle.

    Pour Camille Cassarini, ce blocage est assez révélateur de l’absence d’une politique cohérente en Tunisie. “Cela en dit long sur les stratégies de contournement que met en place l’État tunisien en refusant de faire avancer le sujet d’un point de vue politique. Malgré les investissements européens pour pousser la Tunisie à avoir une politique migratoire correspondant à ses standards, on voit que les agendas ne sont pas les mêmes à ce niveau”.

    Changer la vision des migrations

    Pour mettre en place tous ces programmes, en plus des partenariats étatiques avec la Tunisie, l’Europe travaille en étroite collaboration avec les organisations internationales telles que l’#OIM (Organisation internationale pour les migrations), l’ICMPD et le #UNHCR (Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés), les agences de développement européennes implantées sur le territoire - #GiZ, #Expertise_France, #AfD - ainsi que la société civile tunisienne.

    Dans ses travaux, Camille Cassarini montre que les acteurs sécuritaires sont progressivement assistés par des acteurs humanitaires qui s’occupent de mener une politique gestionnaire de la migration, cohérente avec les stratégies sécuritaires. “Le rôle de ces organisations internationales, type OIM, ICMPD, etc., c’est principalement d’effectuer un transfert de normes et pratiques qui correspondent à des dispositifs de #contrôle_migratoire que les Etats européens ne peuvent pas mettre directement en oeuvre”, explique-t-il.

    Contactée à plusieurs reprises par Inkyfada, la Délégation de l’Union européenne en Tunisie a répondu en fournissant le document détaillant leurs projets dans le cadre de leur partenariat de mobilité avec la Tunisie. Elle n’a pas souhaité donner suite aux demandes d’entretiens.

    En finançant ces organisations, les Etats européens ont d’autant plus de poids dans leur orientation politique, affirme encore le chercheur en donnant l’exemple de l’OIM, une des principales organisations actives en Tunisie dans ce domaine. “De par leurs réseaux, ces organisations sont devenues des acteurs incontournables. En Tunisie, elles occupent un espace organisationnel qui n’est pas occupé par l’Etat tunisien. Ça arrange plus ou moins tout le monde : les Etats européens ont des acteurs qui véhiculent leur vision des migrations et l’État tunisien a un acteur qui s’en occupe à sa place”.

    “Dans notre langage académique, on les appelle des #acteurs_épistémologiques”, ajoute Jean-Pierre Cassarino. A travers leur langage et l’étendue de leur réseau, ces organisations arrivent à imposer une certaine vision de la gestion des migrations en Tunisie. “Il n’y a qu’à voir le #lexique de la migration publié sur le site de l’Observatoire national [tunisien] des migrations : c’est une copie de celui de l’OIM”, continue-t-il.

    Contactée également par Inkyfada, l’OIM n’a pas donné suite à nos demandes d’entretien.

    Camille Cassarini donne aussi l’exemple des “#retours_volontaires”. L’OIM ou encore l’Office français de l’immigration (OFII) affirment que ces programmes permettent “la réinsertion sociale et économique des migrants de retour de façon à garantir la #dignité des personnes”. “Dans la réalité, la plupart des retours sont très mal ou pas suivis. On les renvoie au pays sans ressource et on renforce par là leur #précarité_économique et leur #vulnérabilité", affirme-t-il. “Et tous ces mots-clés euphémisent la réalité d’une coopération et de programmes avant tout basé sur le contrôle migratoire”.

    Bien que l’OIM existe depuis près de 20 ans en Tunisie, Camille Cassarini explique que ce système s’est surtout mis en place après la Révolution, notamment avec la société civile. “La singularité de la Tunisie, c’est sa transition démocratique : l’UE a dû adapter sa politique migratoire à ce changement politique et cela est passé notamment par la promotion de la société civile”.

    Dans leur ouvrage à paraître “Externaliser la gouvernance migratoire à travers la société tunisienne : le cas de la Tunisie” [Externalising Migration Governance through Civil Society : Tunisia as a Case Study], Sabine Didi et Caterina Giusa expliquent comment les programmes européens et les #organisations_internationales ont été implantées à travers la #société_civile.

    “Dans le cas des projets liés à la migration, le rôle déterminant de la société civile apparaît au niveau micro, en tant qu’intermédiaire entre les organisations chargées de la mise en œuvre et les différents publics catégorisés et identifiés comme des ‘#migrants_de_retour’, ‘membres de la diaspora’, ou ‘candidats potentiels à la migration irrégulière’", explique Caterina Giusa dans cet ouvrage, “L’intérêt d’inclure et et de travailler avec la société civile est de ‘faire avaler la pilule’ [aux populations locales]”.

    “Pour résumer, tous ces projets ont pour but de faire en sorte que les acteurs tunisiens aient une grille de lecture du phénomène migratoire qui correspondent aux intérêts de l’Union européenne. Et concrètement, ce qui se dessine derrière cette vision “gestionnaire”, c’est surtout une #injonction_à_l’immobilité”, termine Camille Cassarini.

    https://inkyfada.com/fr/2020/03/20/financements-ue-tunisie-migration
    #externalisation #asile #migrations #frontières #Tunisie #EU #UE #Europe #contrôles_frontaliers #politique_de_voisinage #dissuasion #IOM #HCR #immobilité

    Ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765330

    Et celle sur la conditionnalité de l’aide au développement :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

    ping @karine4 @isskein @_kg_

  • Une nouvelle aide européenne de 101,7 millions d’euros pour lutter contre l’immigration clandestine

    L’Union européenne (UE) a annoncé, ce mercredi 11 décembre, un soutien financier de 101,7 millions d’euros (1,087 milliard de dirhams) en faveur du Maroc pour l’aider à intensifier sa lutte contre la migration irrégulière et le trafic d’êtres humains.

    Ce soutien, qui s’inscrit dans le cadre du #Fonds_fiduciaire_d’urgence_pour_l’Afrique, vise à “appuyer les efforts du Maroc en matière de lutte contre l’immigration clandestine et le trafic d’être humains”, indique un communiqué de la Commission européenne. “Avec cette nouvelle aide, nous approfondissons notre partenariat avec le Maroc pour réduire davantage le nombre d’arrivées de migrants illégaux sur la route de la Méditerranée occidentale, et éviter que des personnes ne mettent leur vie en danger”, souligne le commissaire européen au voisinage et à l’élargissement, Olivér Várhelyi, cité dans le communiqué.

    Ce soutien financier en faveur du Maroc fait partie d’une enveloppe totale de 147,7 millions d’euros (1,579 milliard de dirhams) débloquée par l’UE au titre du Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique, afin de lutter contre l’immigration clandestine et la traite d’êtres humains, protéger les personnes vulnérables et renforcer le développement économique en Afrique du Nord.

    Outre un montant de 41 millions d’euros (438,4 millions de dirhams) destiné à améliorer la protection des migrants, des enfants et des communautés vulnérables en Libye, une aide de 5 millions d’euros (53,4 millions de dirhams) est mobilisée par l’UE pour favoriser les opportunités économiques en Afrique du Nord à travers notamment un coup de pouce à l’entrepreneuriat régional.

    D’après le ministère de l’Intérieur espagnol, 24 031 migrants ont gagné de manière illégale les côtes espagnoles à bord d’embarcations de fortune sur la période s’étalant du premier janvier au premier décembre 2019. Un chiffre en baisse de 54,7 % comparé à la même période en 2018, qui a vu l’arrivée de 53 004 migrants sur les côtes du voisin du Nord.

    https://telquel.ma/2019/12/11/une-nouvelle-aide-europeenne-de-1017-millions-deuros-pour-lutter-contre-limm
    #externalisation #asile #migrations #frontières #aide_financière #Maroc #UE #EU #union_européenne #contrôles_frontaliers #fonds_fiduciaire

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    https://seenthis.net/messages/731749#message765336

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  • Le Niger, #nouvelle frontière de l’Europe et #laboratoire de l’asile

    Les politiques migratoires européennes, toujours plus restrictives, se tournent vers le Sahel, et notamment vers le Niger – espace de transit entre le nord et le sud du Sahara. Devenu « frontière » de l’Europe, environné par des pays en conflit, le Niger accueille un nombre important de réfugiés sur son sol et renvoie ceux qui n’ont pas le droit à cette protection. Il ne le fait pas seul. La présence de l’Union européenne et des organisations internationales est visible dans le pays ; des opérations militaires y sont menées par des armées étrangères, notamment pour lutter contre la pression terroriste à ses frontières... au risque de brouiller les cartes entre enjeux sécuritaires et enjeux humanitaires.

    On confond souvent son nom avec celui de son voisin anglophone, le Nigéria, et peu de gens savent le placer sur une carte. Pourtant, le Niger est un des grands pays du Sahel, cette bande désertique qui court de l’Atlantique à la mer Rouge, et l’un des rares pays stables d’Afrique de l’Ouest qui offrent encore une possibilité de transit vers la Libye et la Méditerranée. Environné par des pays en conflit ou touchés par le terrorisme de Boko Haram et d’autres groupes, le Niger accueille les populations qui fuient le Mali et la région du lac Tchad et celles évacuées de Libye.

    « Dans ce contexte d’instabilité régionale et de contrôle accru des déplacements, la distinction entre l’approche sécuritaire et l’approche humanitaire s’est brouillée », explique la chercheuse Florence Boyer, fellow de l’Institut Convergences Migrations, actuellement accueillie au Niger à l’Université Abdou Moumouni de Niamey. Géographe et anthropologue (affiliée à l’Urmis au sein de l’IRD, l’Institut de recherche pour le Développement), elle connaît bien le Niger, où elle se rend régulièrement depuis vingt ans pour étudier les migrations internes et externes des Nigériens vers l’Algérie ou la Libye voisines, au nord, et les pays du Golfe de Guinée, au sud et à l’ouest. Sa recherche porte actuellement sur le rôle que le Niger a accepté d’endosser dans la gestion des migrations depuis 2014, à la demande de plusieurs membres de l’Union européenne (UE) pris dans la crise de l’accueil des migrants.
    De la libre circulation au contrôle des frontières

    « Jusqu’à 2015, le Niger est resté cet espace traversé par des milliers d’Africains de l’Ouest et de Nigériens remontant vers la Libye sans qu’il y ait aucune entrave à la circulation ou presque », raconte la chercheuse. La plupart venaient y travailler. Peu tentaient la traversée vers l’Europe, mais dès le début des années 2000, l’UE, Italie en tête, cherche à freiner ce mouvement en négociant avec Kadhafi, déplaçant ainsi la frontière de l’Europe de l’autre côté de la Méditerranée. La chute du dictateur libyen, dans le contexte des révolutions arabes de 2011, bouleverse la donne. Déchirée par une guerre civile, la Libye peine à retenir les migrants qui cherchent une issue vers l’Europe. Par sa position géographique et sa relative stabilité, le Niger s’impose progressivement comme un partenaire de la politique migratoire de l’UE.

    « Le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. »

    Marco Prencipe, ambassadeur d’Italie à Niamey

    Le rôle croissant du Niger dans la gestion des flux migratoires de l’Afrique vers l’Europe a modifié les parcours des migrants, notamment pour ceux qui passent par Agadez, dernière ville du nord avant la traversée du Sahara. Membre du Groupe d’études et de recherches Migrations internationales, Espaces, Sociétés (Germes) à Niamey, Florence Boyer observe ces mouvements et constate la présence grandissante dans la capitale nigérienne du Haut-Commissariat des Nations-Unies pour les réfugiés (HCR) et de l’Organisation internationale des migrations (OIM) chargée, entre autres missions, d’assister les retours de migrants dans leur pays.

    https://www.youtube.com/watch?v=dlIwqYKrw7c

    « L’île de Lampedusa se trouve aussi loin du Nord de l’Italie que de la frontière nigérienne, note Marco Prencipe, l’ambassadeur d’Italie à Niamey, le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. » Une affirmation reprise par plusieurs fonctionnaires de la délégation de l’UE au Niger rencontrés par Florence Boyer et Pascaline Chappart. La chercheuse, sur le terrain à Niamey, effectue une étude comparée sur des mécanismes d’externalisation de la frontière au Niger et au Mexique. « Depuis plusieurs années, la politique extérieure des migrations de l’UE vise à délocaliser les contrôles et à les placer de plus en plus au sud du territoire européen, explique la postdoctorante à l’IRD, le mécanisme est complexe : les enjeux pour l’Europe sont à la fois communautaires et nationaux, chaque État membre ayant sa propre politique ».

    En novembre 2015, lors du sommet euro-africain de La Valette sur la migration, les autorités européennes lancent le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique « en faveur de la stabilité et de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique ». Doté à ce jour de 4,2 milliards d’euros, le FFUA finance plusieurs types de projets, associant le développement à la sécurité, la gestion des migrations à la protection humanitaire.

    Le président nigérien considère que son pays, un des plus pauvres de la planète, occupe une position privilégiée pour contrôler les migrations dans la région. Le Niger est désormais le premier bénéficiaire du Fonds fiduciaire, devant des pays de départ comme la Somalie, le Nigéria et surtout l’Érythrée d’où vient le plus grand nombre de demandeurs d’asile en Europe.

    « Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre lutte contre le terrorisme et lutte contre l’immigration “irrégulière”. »

    Florence Boyer, géographe et anthropologue

    Pour l’anthropologue Julien Brachet, « le Niger est peu à peu devenu un pays cobaye des politiques anti-migrations de l’Union européenne, (...) les moyens financiers et matériels pour lutter contre l’immigration irrégulière étant décuplés ». Ainsi, la mission européenne EUCAP Sahel Niger a ouvert une antenne permanente à Agadez en 2016 dans le but d’« assister les autorités nigériennes locales et nationales, ainsi que les forces de sécurité, dans le développement de politiques, de techniques et de procédures permettant d’améliorer le contrôle et la lutte contre les migrations irrégulières ».

    « Tout cela ne serait pas possible sans l’aval du Niger, qui est aussi à la table des négociations, rappelle Florence Boyer. Il ne faut pas oublier qu’il doit faire face à la pression de Boko Haram et d’autres groupes terroristes à ses frontières. Il a donc intérêt à se doter d’instruments et de personnels mieux formés. Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre la lutte contre le terrorisme et la lutte contre l’immigration "irrégulière". »

    Peu avant le sommet de La Valette en 2015, le Niger promulgue la loi n°2015-36 sur « le trafic illicite de migrants ». Elle pénalise l’hébergement et le transport des migrants ayant l’intention de franchir illégalement la frontière. Ceux que l’on qualifiait jusque-là de « chauffeurs » ou de « transporteurs » au volant de « voitures taliban » (des 4x4 pick-up transportant entre 20 et 30 personnes) deviennent des « passeurs ». Une centaine d’arrestations et de saisies de véhicules mettent fin à ce qui était de longue date une source légale de revenus au nord du Niger. « Le but reste de bloquer la route qui mène vers la Libye, explique Pascaline Chappart. L’appui qu’apportent l’UE et certains pays européens en coopérant avec la police, les douanes et la justice nigérienne, particulièrement en les formant et les équipant, a pour but de rendre l’État présent sur l’ensemble de son territoire. »

    Des voix s’élèvent contre ces contrôles installés aux frontières du Niger sous la pression de l’Europe. Pour Hamidou Nabara de l’ONG nigérienne JMED (Jeunesse-Enfance-Migration-Développement), qui lutte contre la pauvreté pour retenir les jeunes désireux de quitter le pays, ces dispositifs violent le principe de la liberté de circulation adopté par les pays d’Afrique de l’Ouest dans le cadre de la Cedeao. « La situation des migrants s’est détériorée, dénonce-t-il, car si la migration s’est tarie, elle continue sous des voies différentes et plus dangereuses ». La traversée du Sahara est plus périlleuse que jamais, confirme Florence Boyer : « Le nombre de routes s’est multiplié loin des contrôles, mais aussi des points d’eau et des secours. À ce jour, nous ne disposons pas d’estimations solides sur le nombre de morts dans le désert, contrairement à ce qui se passe en Méditerranée ».

    Partenaire de la politique migratoire de l’Union européenne, le Niger a également développé une politique de l’asile. Il accepte de recevoir des populations en fuite, expulsées ou évacuées des pays voisins : les expulsés d’Algérie recueillis à la frontière, les rapatriés nigériens dont l’État prend en charge le retour de Libye, les réfugiés en lien avec les conflits de la zone, notamment au Mali et dans la région du lac Tchad, et enfin les personnes évacuées de Libye par le HCR. Le Niger octroie le statut de réfugié à ceux installés sur son sol qui y ont droit. Certains, particulièrement vulnérables selon le HCR, pourront être réinstallés en Europe ou en Amérique du Nord dans des pays volontaires.
    Une plateforme pour la « réinstallation »
    en Europe et en Amérique

    Cette procédure de réinstallation à partir du Niger n’a rien d’exceptionnel. Les Syriens réfugiés au Liban, par exemple, bénéficient aussi de l’action du HCR qui les sélectionne pour déposer une demande d’asile dans un pays dit « sûr ». La particularité du Niger est de servir de plateforme pour la réinstallation de personnes évacuées de Libye. « Le Niger est devenu une sorte de laboratoire de l’asile, raconte Florence Boyer, notamment par la mise en place de l’Emergency Transit Mechanism (ETM). »

    L’ETM, proposé par le HCR, est lancé en août 2017 à Paris par l’Allemagne, l’Espagne, la France et l’Italie — côté UE — et le Niger, le Tchad et la Libye — côté africain. Ils publient une déclaration conjointe sur les « missions de protection en vue de la réinstallation de réfugiés en Europe ». Ce dispositif se présente comme le pendant humanitaire de la politique de lutte contre « les réseaux d’immigration économique irrégulière » et les « retours volontaires » des migrants irréguliers dans leur pays effectués par l’OIM. Le processus s’accélère en novembre de la même année, suite à un reportage de CNN sur des cas d’esclavagisme de migrants en Libye. Fin 2017, 3 800 places sont promises par les pays occidentaux qui participent, à des degrés divers, à ce programme d’urgence. Le HCR annonce 6 606 places aujourd’hui, proposées par 14 pays européens et américains1.

    Trois catégories de personnes peuvent bénéficier de la réinstallation grâce à ce programme : évacués d’urgence depuis la Libye, demandeurs d’asile au sein d’un flux dit « mixte » mêlant migrants et réfugiés et personnes fuyant les conflits du Mali ou du Nigéria. Seule une minorité aura la possibilité d’être réinstallée depuis le Niger vers un pays occidental. Le profiling (selon le vocabulaire du HCR) de ceux qui pourront bénéficier de cette protection s’effectue dès les camps de détention libyens. Il consiste à repérer les plus vulnérables qui pourront prétendre au statut de réfugié et à la réinstallation.

    Une fois évacuées de Libye, ces personnes bénéficient d’une procédure accélérée pour l’obtention du statut de réfugié au Niger. Elles ne posent pas de problème au HCR, qui juge leur récit limpide. La Commission nationale d’éligibilité au statut des réfugiés (CNE), qui est l’administration de l’asile au Niger, accepte de valider la sélection de l’organisation onusienne. Les réfugiés sont pris en charge dans le camp du HCR à Hamdallaye, construit récemment à une vingtaine de kilomètres de la capitale nigérienne, le temps que le HCR prépare la demande de réinstallation dans un pays occidental, multipliant les entretiens avec les réfugiés concernés. Certains pays, comme le Canada ou la Suède, ne mandatent pas leurs services sur place, déléguant au HCR la sélection. D’autres, comme la France, envoient leurs agents pour un nouvel entretien (voir ce reportage sur la visite de l’Ofpra à Niamey fin 2018).

    Parmi les évacués de Libye, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays dit « sûr ».

    Depuis deux ans, près de 4 000 personnes ont été évacuées de Libye dans le but d’être réinstallées, selon le HCR (5 300 autres ont été prises en charge par l’OIM et « retournées » dans leur pays). Un millier ont été évacuées directement vers l’Europe et le Canada et près de 3 000 vers le Niger. C’est peu par rapport aux 50 800 réfugiés et demandeurs d’asile enregistrés auprès de l’organisation onusienne en Libye au 12 août 2019. Et très peu sur l’ensemble des 663 400 migrants qui s’y trouvent selon l’OIM. La guerre civile qui déchire le pays rend la situation encore plus urgente.

    Parmi les personnes évacuées de Libye vers le Niger, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays volontaire, selon le HCR. À ce jour, moins de la moitié ont été effectivement réinstallés, notamment en France (voir notre article sur l’accueil de réfugiés dans les communes rurales françaises).

    Malgré la publicité faite autour du programme de réinstallation, le HCR déplore la lenteur du processus pour répondre à cette situation d’urgence. « Le problème est que les pays de réinstallation n’offrent pas de places assez vite, regrette Fatou Ndiaye, en charge du programme ETM au Niger, alors que notre pays hôte a négocié un maximum de 1 500 évacués sur son sol au même moment. » Le programme coordonné du Niger ne fait pas exception : le HCR rappelait en février 2019 que, sur les 19,9 millions de réfugiés relevant de sa compétence à travers le monde, moins d’1 % sont réinstallés dans un pays sûr.

    Le dispositif ETM, que le HCR du Niger qualifie de « couloir de l’espoir », concerne seulement ceux qui se trouvent dans un camp accessible par l’organisation en Libye (l’un d’eux a été bombardé en juillet dernier) et uniquement sept nationalités considérées par les autorités libyennes (qui n’ont pas signé la convention de Genève) comme pouvant relever du droit d’asile (Éthiopiens Oromo, Érythréens, Iraquiens, Somaliens, Syriens, Palestiniens et Soudanais du Darfour).

    « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses. »

    Pascaline Chappart, socio-anthropologue

    En décembre 2018, des Soudanais manifestaient devant les bureaux d’ETM à Niamey pour dénoncer « un traitement discriminatoire (...) par rapport aux Éthiopiens et Somaliens » favorisés, selon eux, par le programme. La représentante du HCR au Niger a répondu à une radio locale que « la plupart de ces Soudanais [venaient] du Tchad où ils ont déjà été reconnus comme réfugiés et que, techniquement, c’est le Tchad qui les protège et fait la réinstallation ». C’est effectivement la règle en matière de droit humanitaire mais, remarque Florence Boyer, « comment demander à des réfugiés qui ont quitté les camps tchadiens, pour beaucoup en raison de l’insécurité, d’y retourner sans avoir aucune garantie ? ».

    La position de la France

    La question du respect des règles en matière de droit d’asile se pose pour les personnes qui bénéficient du programme d’urgence. En France, par exemple, pas de recours possible auprès de l’Ofpra en cas de refus du statut de réfugié. Pour Pascaline Chappart, qui achève deux ans d’enquêtes au Niger et au Mexique, il y a là une part d’hypocrisie : « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses par la mer ou le désert ». « Il est quasiment impossible dans le pays de départ de se présenter aux consulats des pays “sûrs” pour une demande d’asile », renchérit Florence Boyer. Elle donne l’exemple de Centre-Africains qui ont échappé aux combats dans leur pays, puis à la traite et aux violences au Nigéria, en Algérie puis en Libye, avant de redescendre au Niger : « Ils auraient dû avoir la possibilité de déposer une demande d’asile dès Bangui ! Le cadre législatif les y autorise. »

    En ce matin brûlant d’avril, dans le camp du HCR à Hamdallaye, Mebratu2, un jeune Érythréen de 26 ans, affiche un large sourire. À l’ombre de la tente qu’il partage et a décorée avec d’autres jeunes de son pays, il annonce qu’il s’envolera le 9 mai pour Paris. Comme tant d’autres, il a fui le service militaire à vie imposé par la dictature du président Issayas Afeworki. Mebratu était convaincu que l’Europe lui offrirait la liberté, mais il a dû croupir deux ans dans les prisons libyennes. S’il ne connaît pas sa destination finale en France, il sait d’où il vient : « Je ne pensais pas que je serais vivant aujourd’hui. En Libye, on pouvait mourir pour une plaisanterie. Merci la France. »

    Mebratu a pris un vol pour Paris en mai dernier, financé par l’Union européenne et opéré par l’#OIM. En France, la Délégation interministérielle à l’hébergement et à l’accès au logement (Dihal) confie la prise en charge de ces réinstallés à 24 opérateurs, associations nationales ou locales, pendant un an. Plusieurs départements et localités françaises ont accepté d’accueillir ces réfugiés particulièrement vulnérables après des années d’errance et de violences.

    Pour le deuxième article de notre numéro spécial de rentrée, nous nous rendons en Dordogne dans des communes rurales qui accueillent ces « réinstallés » arrivés via le Niger.

    http://icmigrations.fr/2019/08/30/defacto-10
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #UE #EU #sécuritaire #humanitaire #approche_sécuritaire #approche_humanitaire #libre_circulation #fermeture_des_frontières #printemps_arabe #Kadhafi #Libye #Agadez #parcours_migratoires #routes_migratoires #HCR #OIM #IOM #retour_au_pays #renvois #expulsions #Fonds_fiduciaire #Fonds_fiduciaire_d'urgence_pour_l'Afrique #FFUA #développement #sécurité #EUCAP_Sahel_Niger #La_Valette #passeurs #politique_d'asile #réinstallation #hub #Emergency_Transit_Mechanism (#ETM) #retours_volontaires #profiling #tri #sélection #vulnérabilité #évacuation #procédure_accélérée #Hamdallaye #camps_de_réfugiés #ofpra #couloir_de_l’espoir

    co-écrit par @pascaline

    ping @karine4 @_kg_ @isskein

    Ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765325

  • #Fonds_fiduciaire de l’UE pour l’Afrique : 115,5 millions d’euros pour renforcer la #sécurité, la protection des migrants et la création d’#emplois dans la région du #Sahel

    La Commission européenne a adopté cinq nouveaux programmes et trois compléments pour des programmes actuels, pour un montant de 115,5 millions d’euros au titre du fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique, afin de compléter les efforts actuellement déployés dans la région du Sahel et du lac Tchad.

    Neven Mimica, commissaire chargé de la coopération internationale et du développement, a tenu les propos suivants : « Nous avons assisté au cours de ces dernières semaines à une recrudescence de la violence et des attentats terroristes dans la région du Sahel et du lac Tchad. Les nouveaux programmes et les compléments à des programmes existants de l’UE, pour un montant de 115,5 millions d’euros, viendront renforcer davantage nos actions sur les fronts du développement et de la sécurité. Ils contribueront également à renforcer la présence de l’État dans des régions fragiles, à créer des emplois pour les jeunes et à protéger les migrants dans le besoin. Afin de poursuivre, dans un futur proche, le bon travail réalisé dans le cadre du fonds fiduciaire, il convient de reconstituer ses ressources qui s’épuisent rapidement. »

    Dans un contexte de précarité croissante de la sécurité au Sahel, l’UE s’engage à poursuivre sa coopération aux niveaux régional et national. Elle soutiendra les efforts déployés par les pays du #G5_Sahel (#Burkina_Faso, #Tchad, #Mali, #Mauritanie et #Niger) afin d’apporter une réponse commune aux grandes menaces transfrontières et aux principaux besoins régionaux en matière de #développement. Une enveloppe supplémentaire de 10 millions d’euros viendra renforcer les capacités de défense et de sécurité des pays du G5 Sahel, tandis qu’un montant de 2 millions d’euros sera alloué au soutien de la coordination de l’#Alliance_Sahel. Au Burkina Faso, une enveloppe supplémentaire de 30 millions d’euros sera allouée au programme d’urgence Sahel en place, afin de renforcer l’accès aux services sociaux de base et encourager le dialogue entre communautés.

    D’autres mesures renforceront les efforts de protection des migrants, de lutte contre la traite des êtres humains et d’amélioration de la gestion des migrations. Une enveloppe supplémentaire de 30 millions d’euros sera allouée à la protection des migrants et des réfugiés le long de la route de la Méditerranée centrale et à la recherche de solutions durables dans la région du Sahel et du lac Tchad. Elle permettra d’accroître encore le nombre de migrants bénéficiant de mesures de protection et de retour volontaire tout en veillant à leur réintégration durable et dans la dignité. Au Niger, l’équipe conjointe d’investigation a démantelé 33 réseaux criminels et 210 trafiquants ont été condamnés au cours de ces deux dernières années. Elle bénéficiera d’une enveloppe supplémentaire de 5,5 millions d’euros afin de capitaliser sur ce succès. Au #Ghana, un montant de 5 millions d’euros consacré au renforcement des capacités et aux équipements permettra de renforcer la gestion des frontières du pays.

    Deux mesures visent spécifiquement à créer des débouchés économiques et des possibilités de développement. Au Ghana, des nouvelles activités, pour un montant de 20 millions d’euros, permettront d’améliorer les perspectives d’emploi et d’encourager la transition vers des économies vertes et résilientes face au changement climatique. Au Mali, une enveloppe supplémentaire de 13 millions d’euros s’inscrira au soutien de la création d’emplois et de la fourniture de services publics par l’État dans des régions à la sécurité précaire autour de #Gao et de #Tombouctou.

    Historique du dossier

    Le fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique a été créé en 2015 en vue de remédier aux causes profondes de l’instabilité, des migrations irrégulières et des déplacements forcés. Actuellement, les ressources allouées à ce fonds fiduciaire s’élèvent à 4,2 milliards d’euros, qui proviennent des institutions de l’UE, des États membres de l’UE et d’autres contributeurs.

    L’aide annoncée aujourd’hui s’ajoute aux 188 programmes déjà adoptés pour les trois régions (nord de l’Afrique, Sahel et lac Tchad, et Corne de l’Afrique). L’ensemble de ces programmes représente un montant total de 3,6 milliards d’euros. Ces fonds étaient répartis comme suit : Sahel et lac Tchad 1,7 milliard d’euros (92 programmes) ; Corne de l’Afrique 1,3 milliard d’euros (70 programmes) ; nord de l’Afrique 582 millions d’euros (21 programmes). Ce montant inclut cinq programmes transrégionaux.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-19-1890_fr.htm
    #Sahel #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #asile #migrations #réfugiés

    • Fondos de cooperación al desarrollo para levantar un muro invisible a 2.000 kilómetros de Europa

      Abdelaziz se escabulle entre la gente justo al bajarse del autobús, con una alforja en mano y rostro de alivio y cansancio. Tiene 21 años y es de Guinea Conakry. Acaba de llegar al centro de tránsito de la Organización Internacional de Migraciones (OIM) en Agadez (Níger), desde Argelia. La policía argelina le detuvo mientras trabajaba en una cantera en Argel. Se lo requisó todo y lo metió en un autobús de vuelta. Lo mismo le sucedió a Ousmane, de Guinea Bissau. “Fui al hospital para que me quitaran una muela y allí me cogieron. Hablé hasta no poder más, pero me dijeron que no tenía derechos porque no tenía papeles. Me lo quitaron todo y me enviaron al desierto”.

      Les abandonaron en pleno Sáhara, después de maltratarles y humillarles. “La policía nos trató como animales, nos pegó con bastones”, afirma Mamadou. Todos tuvieron que andar 14 kilómetros para llegar a Níger, uno de los países más pobres del planeta, convertido en frontera de la UE. El “basurero donde se tira todo lo que la UE rechaza”, en palabras del periodista nigerino, Ibrahim Manzo Diallo.

      La arena y el calor sofocante marcan el día a día en este lugar, principal cruce migratorio de África. Los migrantes expulsados de Argelia, más de 35.000 desde 2014 y solo 11.000 en 2018, coinciden aquí, en las instalaciones de la OIM, con repatriados de Libia. La mayoría pasó por ambos países, no siempre con la voluntad de llegar a Europa –según la ONU, el 70% de las migraciones de África Subsahariana se dan en el interior del continente–. “Podría estar aquí dos semanas explicándote todo lo que he vivido en Libia y no acabaría. Vendían a personas como ovejas”, relata Ibrahim, de Senegal. “Estuve en Libia dos años y luego trabajé en Argel durante tres más. Un día, la policía llegó, me atrapó y me expulsó. Hemos sufrido mucho”, narra Ousmane.

      En las infraestructuras de la agencia vinculada a la ONU juegan al fútbol, reciben atención médica y psicológica y esperan su turno, a menudo lento, para su repatriación. “La capacidad del centro es de entre 400 y 500 plazas, pero a veces hemos tenido que gestionar hasta 1.800 personas por el retraso en la obtención de documentos”, describe el director de la instalación, Lincoln Gaingar. Con fondos europeos, la OIM recoge a los migrantes en el lado nigerino de la frontera con Argelia y organiza caravanas de vuelta a sus países de origen. A este programa lo llama “retorno voluntario”. Buena parte de la sociedad civil y expertos lo califica como regresos “claramente forzados”. “No se deciden de forma libre, sino condicionados por una expulsión previa”, explica el sociólogo burkinés Idrissa Zidnaba. “Argelia hace el trabajo sucio de Europa, que luego se cobra en sus negociaciones con la UE”, afirma Mahamadou Goita, activista maliense pro derechos humanos.

      El aumento de las deportaciones es una de las estrategias de la UE para construir su particular valla en medio del desierto. Otras pasan por el refuerzo del control de fronteras, las trabas a los defensores de los migrantes o la utilización de fondos de ayuda al desarrollo condicionados a frenar a quienes intentar alcanzar las costas europeas. Todo un dispositivo de contención desplegado en Níger, que ejerce de muro invisible de Europa.

      Un pequeño hangar de tela intenta protegerles del sol ardiente a media mañana. Algunos han salido, pero otros, la mayoría, pasa el día en el gheto –albergue clandestino, propiedad de traficantes– sin saber muy bien qué hacer ni cómo seguir. “Estamos bloqueados, pero no queremos volver atrás, nuestro objetivo es Europa”, explica Hassan, de Guinea Conakry. “La vida en África no merece la pena, queremos ir a Europa para ganar dinero y regresar”, afirma Mahamadou, de Gambia.

      En una habitación adyacente, el pequeño Melvin duerme plácidamente. Su madre ha salido a buscar trabajo con el fin de reunir la cantidad necesaria para pagar un pasaje hacia el norte. “Los precios dependen del traficante, pero están entre 800.000 y un millón de FCFA –unos 1.500 euros–”, según Daouda. La ruta está cada vez más difícil por los obstáculos que la UE y el Gobierno de Níger imponen a la travesía.

      El principal escollo llegó en 2015 en forma de ley, la 036, muy conocida en el país, que establece como delito el tráfico ilegal de personas para desmantelar redes en Agadez. Se confiscaron 200 vehículos, se detuvo a decenas de transportistas y se asestó un duro golpe a la economía regional, históricamente dedicada al contrabando –desde tejidos, oro y sal en la Edad Media hasta armas, drogas y personas, en la actualidad–.

      “Hemos practicado una represión enorme, lo admito. En Agadez, la población rechaza la ley y pide su modificación, pero somos inflexibles y no la cambiaremos. Agadez dice que su economía se fundamenta en el tráfico ilícito de migrantes, pero yo me pregunto. ¿A pesar de que la droga sustente a centenares de familias se tiene que autorizar? La respuesta es no”, afirma la directora de la agencia contra la trata de personas de Níger, Gogé Maimouna Gazibo.

      Las autoridades locales, por su parte, denuncian falta de previsión y de entendimiento, así como que se priorice la visión securitaria por delante del desarrollo en una de las regiones más necesitadas del planeta. “El bloqueo brusco del comercio sin atender las necesidades de nuestra población ha comportado el despliegue de vías alternativas que mantienen el tráfico de manera más informal, mucho más peligrosa y extremadamente cara”, asegura el vicealcalde de Agadez, Ahmed Koussa.

      Algunos han dejado de formar parte del negocio con el programa de reconversión de traficantes lanzado por la UE. “Me dieron tres motos y ahora trabajo como taxi-moto. Ahora no me pongo en riesgo, pero nos dan muy poco. Nosotros estamos habituados a ganar mucho dinero”, explica Laouli, extraficante, durante una reunión de la asociación que han creado para canalizar las ayudas europeas. Los retrasos y la insuficiencia son sus quejas recurrentes. “Nos prometieron un millón de FCFA para poner en marcha una actividad empresarial y abandonar el tráfico con el que ganábamos dos o tres millones de FCFA por semana –unos 3.000 euros–. Pero hasta ahora, no hemos recibido nada”, asegura Ahmed, exconductor de la ruta hacia Libia.

      El Estado reconoce que, de las más de 5.000 personas que debían recibir fondos, solo se ha apoyado a 370. “Aunque las medidas son escasas, nuestra voluntad es que el Estado esté presente, que estas personas vean que no les dejamos, porque el riesgo en el norte es que se incendie [que grupos rebeldes de la zona vuelvan a coger las armas]”, asegura el director de estabilización de la Alta Autoridad para la Consolidación a la Paz de Níger, Hamidou Boubacar.
      Los flujos a través de Níger se han reducido un 90%, según la OIM

      Tanto la UE como la OIM afirman que los flujos a través de Níger se han reducido notablemente, en un 90%, pasando de 330.000 personas en 2016 a 18.000 en 2017 y a menos de 10.000 en 2018. El tráfico continúa, pero de forma menos visible. Los vehículos siguen agolpándose al comienzo de la semana a las afueras de Agadez para iniciar su viaje, en “el convoy de los lunes”, pero hay menos coches y más militares en el puesto de control. Los viajeros se apean antes de la barrera, cruzan a pie y vuelven a subir al vehículo, corriendo. Unos palos en la parte trasera de la pick-up sobresalen. Son su apoyo para evitar caídas durante el trayecto, a gran velocidad para evitar ser vistos.

      Cada coche acoge a unas 25 personas hacinadas. El desierto aguarda y la muerte acecha. “Dicen que ahora ya no hay migrantes en Agadez, pero sí los hay, aunque más escondidos”, reconoce Bachir, que mantiene su actividad ligada a la migración. “Antes la gente iba en convoy por la vía principal y no podías estar un día sin ver a alguien. Ahora, en cambio, si tienes una avería por las rutas secundarias, por las dunas profundas, nadie te ve, no hay puntos de agua y puede resultar fatal”, asegura Djibril, que dejó el tráfico como consecuencia de la ley. “Desde su implementación todo se hace de forma encubierta y clandestina. Han llevado a la gente a la ilegalidad y eso aumenta la vulnerabilidad de los migrantes, que pasan por caminos más complicados”, confirma el responsable de Médicos Sin Fronteras en Níger, Francisco Otero.

      Las organizaciones humanitarias procuran identificar los nuevos itinerarios, aunque resulta difícil porque se bifurcan por la inmensidad del Sáhara, hacia Chad y sobre todo hacia Malí. El país vecino, sumido en una crisis securitaria y sin presencia del Estado en la mitad de su territorio, es un espacio de proliferación de grupos armados. El cerco en Agadez desvía las rutas hacia esta ’tierra de nadie’, a través de la ciudad de Gao.
      “Traslada el problema a otro país, sin resolverlo”

      “Si se cierra una vía, otras se abren”, admite el consejero técnico del Ministerio de Malienses en el Exterior, Boulaye Keita. La Casa del Migrante de Gao ha registrado un incremento notable del movimiento por la ciudad, de 7.000 personas en 2017 a 100.000 en 2018. Para Sadio Soukouna, investigadora del Institut de Recherche pour le Développement (IRD) en Bamako, esto demuestra que la mano dura contra la migración en Níger “traslada el problema a otro país, sin resolverlo”.

      En la misma línea, Hamani Oumarou, sociólogo del LASDEL, el centro de estudios sociales más importante de Níger, afirma: “Cuanto más cerramos las fronteras, más vulnerables hacemos a los migrantes, porque rodean los puestos de control y toman rutas menos seguras y mejor controladas por los traficantes. Este es el gran riesgo de los dispositivos de control”.

      Los migrantes se enfrentan a la presencia de grupos terroristas en la zona. “Interceptan sus vehículos y les dicen que pueden ganar algo de dinero si les siguen y algunos lo hacen. Otros, en cambio, son secuestrados en contra de su voluntad y su familia debe pagar el rescate. El año pasado liberamos a 14 personas”, revela el responsable de la Casa del Migrante de Gao, Eric Alain Kamdem. “Hay familias que una vez en la frontera se dividen para que al menos uno de los dos sobreviva”, asegura el activista Mahamadou Goita.

      Las autoridades vinculan en ocasiones el terrorismo con la migración para justificar el refuerzo de fronteras con controles biométricos. “Ayudamos a las autoridades a securizar sus fronteras e instalamos programas muy sofisticados para el registro de la gente que entra y sale. Estamos muy contentos de tener una cooperación tan estrecha en este ámbito”, afirma el jefe de la misión de la OIM en Níger, Martin Wyss. Reconoce la voluntad europea de empujar las fronteras hacia Níger y trabajar por “una migración regular, segura y ordenada”, en la línea del Pacto Mundial de migraciones.

      Níger es uno de los beneficiarios de la ayuda europea al desarrollo, no solo por su vulnerabilidad sino también por sus esfuerzos en el control fronterizo. Hasta 2020, prevé recibir más de 1.800 millones de euros procedentes del Fondo Fiduciario de Emergencia para África (EUTF), un mecanismo que emplea recursos destinados a la cooperación al desarrollo para frenar la llegada de migrantes a Europa.

      La mayoría de este fondo –que cuenta con 4.200 millones– proviene del principal instrumento de cooperación de la UE, el Fondo Europeo de Desarrollo. Sin embargo, casi la mitad de este dinero no se está dedicando a erradicar la pobreza: cerca del 40% de su presupuesto está siendo desviado directamente para control migratorio en terceros países, según han constatado las ONG europeas en 2018, tres años después de su creación.

      El fondo fiduciario fue ideado en la Cumbre de La Valeta de 2015 para “atacar las causas profundas de las migraciones”. Desde entonces, la UE apuesta por la formación militar de ejércitos africanos –a través de misiones como EUCAP Sahel– para desmantelar redes de tráfico y promueve proyectos de desarrollo local para intentar evitar desplazamientos.

      En Níger, el fondo dedica 253 millones de euros. Entre ellos, la UE destina 90 millones al proyecto de apoyo a la justicia y la seguridad en el país, que proporciona ayuda directa a las autoridades nigerinas. Parte de este dinero ha dependido de una serie de condiciones, como elaborar una estrategia nacional contra la migración irregular, adquirir equipos de seguridad para mejorar los controles fronterizos, rehabilitar o construir puestos fronterizos en zonas estratégicas, crear unidades especiales de policía de fronteras o levantar centros de migrantes, según ha documentado la red de ONG europeas Concord. El programa incluye establecer un equipo conjunto de investigación compuesto por agentes de policía franceses, españoles y nigerinos para apoyar a las autoridades del país, de acuerdo con su investigación.

      Los riesgos que acarrea esta política de reforzar los servicios de seguridad e imponer controles fronterizos más estrictos en Níger son varios, según las ONG, desde impulsar “prácticas corruptas” por parte de policías hasta la detención “sin pruebas suficientes” de presuntos traficantes de personas.

      La Unión Europea niega el concepto de “externalización de fronteras”, pero admite un despliegue de todos sus instrumentos en el país por su importancia en cuestión migratoria. Su embajadora, Denise-Elena Ionete, asegura que “Níger ha hecho mucho para disminuir el sufrimiento y la pérdida de vidas humanas en el desierto y el Mediterráneo y eso explica el poderoso aumento de nuestra cooperación los últimos años”.

      Organizaciones de la sociedad civil africana y europea denuncian que se condicionen fondos de desarrollo al freno migratorio y el desvío de estos hacia programas de seguridad. Para el periodista Ibrahim Manzo Diallo, se trata de “un chantaje en toda regla, una coacción a África y a los pobres”. Las entidades también consideran las donaciones escasas e ineficaces, puesto que “el desarrollo está vinculado a una intensificación de la movilidad” y no al revés, según el director del grupo de investigación sobre migraciones de la Universidad de Niamey, Harouna Mounkaila. No son las personas más pobres las que migran ni proceden de los países más vulnerables, como demuestra el propio Níger con índices ínfimos de migrantes en Europa.

      Otros colectivos sociales señalan que el refuerzo de fronteras obstaculiza la movilidad regional mayoritaria y vulnera el protocolo de libre circulación de la Comunidad de Estados de África Occidental (CEDEAO), similar al Espacio Schengen. Consideran que la contención va en contra de la apuesta de la Unión Africana (UA) por la libertad de movimiento continental y rompe consensos propios.

      Las autoridades nigerinas rechazan estas acusaciones y defienden que la ley contra el tráfico proporciona mayores garantías a las personas en tránsito y no quebranta, en ningún caso, el derecho a moverse. Solo exigen, explican, viajar con documentación identificativa y rechazan un incremento de las muertes en el desierto como consecuencia del aumento de los controles. “Si me quieren decir que debemos abrir nuestras fronteras porque los migrantes que atraviesan Níger cambian de ruta, se desvían y mueren, pues digo que no. Ningún responsable político podría decir eso y, además, no tengo pruebas de que ahora haya más muertos que antes”, asegura Gogé Maimouna.

      Tanto la UE como la OIM alaban la “mejora” de la gestión migratoria en Níger y comparan los posibles efectos negativos con la ilegalización de la droga. “Está claro que cuando conviertes algo legal en ilegal obligas a que lo responsables se escondan. Europa tenía que hacer algo en este tema, porque la falta de una gestión ordenada de la migración ha facilitado el auge de los extremismos y ha dividido a nuestro continente”, afirma Wyss, de la OIM. Las migraciones son cada vez menos visibles, mientras los mecanismos de control se expanden por la región de forma más perceptible.

      La frontera llega a #Mali y Burkina Faso

      El edificio es nuevo, se inauguró en 2018, con capacidad para 240 personas. Las decenas de habitaciones contienen literas, un gran comedor preside el lugar y una bandera de la República de Mali ondea en lo alto. Es uno de los centros donde opera la OIM en Bamako, pero su titularidad es del Estado. Esa es la diferencia con Níger. “La OIM tiene serias dificultades en asentarse en Mali. Hace años que lo intenta pero no tiene centros de tránsito propios, sino que colabora con asociaciones locales. El factor clave es la importancia de la diáspora maliense”, asegura Eric Kamden.

      Cinco millones de malienses viven en el extranjero, un 15% en Europa, sobre todo en Francia. Es una diáspora dinámica y movilizada que con sus remesas aporta más que toda la Ayuda Oficial al Desarrollo (AOD). “Mali tiene una tradición migratoria muy larga. Es un país de origen y de tránsito, a diferencia de Níger. Eso significa que para tomar cualquier decisión en Mali, se debe tener en cuenta a la diáspora, no solo desde un punto de vista cuantitativo sino porque los migrantes son escuchados y respetados en sus pueblos, familias y comunidades, porque las sustentan”, afirma el asesor del Ministerio de Malienses en el Exterior, Boulaye Keita. Este mayor margen de negociación de Mali ya tumbó los acuerdos de readmisión promovidos por la UE en 2014.

      No obstante, el país es uno de los principales receptores de fondos europeos con 214 millones de euros y la inversión se percibe en el crecimiento de la OIM y su dispositivo de contención. Las nuevas edificaciones que gestionan los “retornos voluntarios” lo demuestran. A ellas llegan migrantes malienses expulsados de Argelia o repatriados de Libia, Gabón, Angola o Francia. “Para mí Argelia es agua pasada, no volveré a allí. Ahora, por fin, estoy en casa y me voy a quedar aquí”, asegura Moctar, nacido en la región oeste de Kayes y visiblemente cansado tras el largo viaje en autobús desde Niamey. Algunos habían estado también en Agadez y repiten sus historias sobre malos tratos recibidos en Argelia, aunque sin cerrar la puerta a volver a partir.

      “Quizás vuelvo a irme a otro país, pero no a Argelia. Son muy racistas con nosotros y eso no está bien”, atestigua Kalidou. Para ellos, sin reconocimiento del estatuto de refugiado o solicitante de asilo, a pesar de la guerra abierta que azota el norte de su país, Bamako supone el fin del periplo organizado por la #OIM, forzado por las circunstancias. Este organismo internacional, critica el antropólogo y activista Mauro Armanino, “acaricia por un lado y por el otro golpea”. Por una parte protege, sensibiliza y apoya a los migrantes más necesitados, pero por el otro “ejerce de brazo armado de las políticas europeas” y “agencia de deportación”, sostiene el investigador de la Universidad de Bamako Bréma Dicko.

      El responsable de programas de la OIM en Mali, David Cumber, se defiende asegurando que no quieren frenar la migración, aunque admite la voluntad de la institución de “reducir la migración irregular”. Sus argumentos apuntan “la necesidad de que las personas viajen con documentos”, a la vez que reconoce su incapacidad para reclamar “más vías legales y seguras”, al tratarse de una agencia intraestatal financiada por potencias internacionales.

      En #BurkinaFaso, el discurso disuasorio y a favor del retorno ha calado en el régimen surgido de la revolución de 2014, inestable, ávido de recursos y víctima creciente del terrorismo. Este país es lugar de paso de las rutas hacia el norte, punto de avituallamiento previo a Níger. Abdoulaye, por ejemplo, de Costa de Marfil, salió a la aventura hacia España, pero se quedó en Ouagadougou, capital de Burkina Faso, para ganar un poco de dinero y seguir su camino.

      Hoy trabaja en la cafetería de una estación de autobuses de la capital donde ya lleva casi un año, pero no renuncia a pisar suelo español. “Intentaré hacerme el visado, pero me faltan recursos. Tengo amigos que viven allí y por eso quiero ir”. Los burkineses en Europa son minoritarios, solo hay pequeñas comunidades en Italia y escasas en España. La OIM, junto a ONG locales, intenta disuadir la movilidad explicando los peligros del camino. “Estamos subcontratados por la OIM, nos pagan para ir por los pueblos a exponer los riesgos del viaje. Eso no nos impide denunciar que el cierre de fronteras europeo provoca más curiosidad y más ganas de partir a las personas. Si las fronteras estuvieran abiertas, mucha gente iría y volvería sin problema”, expone Sebastien Ouédraogo, coordinador de la entidad Alert Migration.

      Para Moussa Ouédraogo, responsable de la ONG burkinesa Grades, su país se ha convertido en la “prefrontera, donde cerrar el paso a cuanta más gente mejor”. Los puestos de control policial se han propagado por todo el país bajo el pretexto de lucha contra el terrorismo, pero “sin duda es por la migración, porque la intensificación de la vigilancia intimida a la gente de partir”, afirma. Se han instalado controles biométricos en la frontera entre Burkina Faso y Níger, en Kantchari, además de puntos de vigilancia en todas las carreteras del territorio, lo que aumenta también la corrupción. “Muchas veces los migrantes tienen los papeles en regla, pero los policías les piden dinero igualmente”, explica el presidente de la ONG local Tocsin, Harouna Sawadogo.

      La colaboración entre la UE, la OIM y las autoridades parece funcionar. La vinculación entre migración y desarrollo va en sintonía y el Gobierno la asume, aunque reclama, de forma tímida, una flexibilización en la concesión de visados para reducir los flujos irregulares. “Los Estados son soberanos para aceptar o no la entrada de extranjeros, pero los burkineses queremos viajar para aprender y traer capital humano que ayude a desarrollarnos. Por eso, Europa debe dar más visados”, argumenta Gustave Bambara, director de política de población del Ministerio de Economía y Finanzas. El Gobierno de Níger apoya esta visión y reivindica una mayor recompensa a sus esfuerzos por aplicar sus recetas.

      “Níger está haciendo lo que puede para frenar los flujos, pero si Europa sigue cerrando sus fronteras, habrá más gente descontenta de la que ya hay y esto, a la larga, no será rentable para nuestro Estado”, advierte Gogé Maimouna Gazibo, responsable de la agencia contra el tráfico de personas.

      En un centro de acogida en Ouagadougou, Jimmy, de 19 años, originario de Liberia, repite una posición extendida entre quienes regresan. “Sigo queriendo ir a Europa, porque yo no quería volver a mi país. En cuanto regrese, volveré a probar la ruta de Marruecos, intentaré saltar las vallas: entrar o morir”.

      https://especiales.eldiario.es/llaves-de-europa/sahel.html?_ga=2.228431199.379866320.1572532596-1969249460.15619

  • Quand l’#Union_europeénne se met au #fact-checking... et que du coup, elle véhicule elle-même des #préjugés...
    Et les mythes sont pensés à la fois pour les personnes qui portent un discours anti-migrants ("L’UE ne protège pas ses frontières"), comme pour ceux qui portent des discours pro-migrants ("L’UE veut créer une #forteresse_Europe")...
    Le résultat ne peut être que mauvais, surtout vu les pratiques de l’UE...

    Je copie-colle ici les mythes et les réponses de l’UE à ce mythe...


    #crise_migratoire


    #frontières #protection_des_frontières


    #Libye #IOM #OIM #évacuation #détention #détention_arbitraire #centres #retours_volontaires #retour_volontaire #droits_humains


    #push-back #refoulement #Libye


    #aide_financière #Espagne #Grèce #Italie #Frontex #gardes-frontière #EASO


    #Forteresse_européenne


    #global_compact


    #frontières_intérieures #Schengen #Espace_Schengen


    #ONG #sauvetage #mer #Méditerranée


    #maladies #contamination


    #criminels #criminalité


    #économie #coût #bénéfice


    #externalisation #externalisation_des_frontières


    #Fonds_fiduciaire #dictature #dictatures #régimes_autoritaires

    https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20190306_managing-migration-factsheet-debunking-myths-about-migration_en.p
    #préjugés #mythes #migrations #asile #réfugiés
    #hypocrisie #on_n'est_pas_sorti_de_l'auberge
    ping @reka @isskein

  • L’agenda européen en matière de migration : l’UE doit poursuivre les progrès accomplis au cours des quatre dernières années

    Dans la perspective du Conseil européen de mars, la Commission dresse aujourd’hui le bilan des progrès accomplis au cours des quatre dernières années et décrit les mesures qui sont encore nécessaires pour relever les défis actuels et futurs en matière de migration.

    Face à la crise des réfugiés la plus grave qu’ait connu le monde depuis la Seconde Guerre mondiale, l’UE est parvenue à susciter un changement radical en matière de gestion des migrations et de protection des frontières. L’UE a offert une protection et un soutien à des millions de personnes, a sauvé des vies, a démantelé des réseaux de passeurs et a permis de réduire le nombre d’arrivées irrégulières en Europe à son niveau le plus bas enregistré en cinq ans. Néanmoins, des efforts supplémentaires sont nécessaires pour assurer la pérennité de la politique migratoire de l’UE, compte tenu d’un contexte géopolitique en constante évolution et de l’augmentation régulière de la pression migratoire à l’échelle mondiale (voir fiche d’information).

    Frans Timmermans, premier vice-président, a déclaré : « Au cours des quatre dernières années, l’UE a accompli des progrès considérables et obtenu des résultats tangibles dans l’action menée pour relever le défi de la migration. Dans des circonstances très difficiles, nous avons agi ensemble. L’Europe n’est plus en proie à la crise migratoire que nous avons traversée en 2015, mais des problèmes structurels subsistent. Les États membres ont le devoir de protéger les personnes qu’ils abritent et de veiller à leur bien-être. Continuer à coopérer solidairement dans le cadre d’une approche globale et d’un partage équitable des responsabilités est la seule voie à suivre si l’UE veut être à la hauteur du défi de la migration. »

    Federica Mogherini, haute représentante et vice-présidente, a affirmé : « Notre collaboration avec l’Union africaine et les Nations unies porte ses fruits. Nous portons assistance à des milliers de personnes en détresse, nous en aidons beaucoup à retourner chez elles en toute sécurité pour y démarrer une activité, nous sauvons des vies, nous luttons contre les trafiquants. Les flux ont diminué, mais ceux qui risquent leur vie sont encore trop nombreux et chaque vie perdue est une victime de trop. C’est pourquoi nous continuerons à coopérer avec nos partenaires internationaux et avec les pays concernés pour fournir une protection aux personnes qui en ont le plus besoin, remédier aux causes profondes de la migration, démanteler les réseaux de trafiquants, mettre en place des voies d’accès à une migration sûre, ordonnée et légale. La migration constitue un défi mondial que l’on peut relever, ainsi que nous avons choisi de le faire en tant qu’Union, avec des efforts communs et des partenariats solides. »

    Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré : « Les résultats de notre approche européenne commune en matière de migration parlent d’eux-mêmes : les arrivées irrégulières sont désormais moins nombreuses qu’avant la crise, le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes a porté la protection commune des frontières de l’UE à un niveau inédit et, en collaboration avec nos partenaires, nous travaillons à garantir des voies d’entrée légales tout en multipliant les retours. À l’avenir, il est essentiel de poursuivre notre approche commune, mais aussi de mener à bien la réforme en cours du régime d’asile de l’UE. En outre, il convient, à titre prioritaire, de mettre en place des accords temporaires en matière de débarquement. »

    Depuis trois ans, les chiffres des arrivées n’ont cessé de diminuer et les niveaux actuels ne représentent que 10 % du niveau record atteint en 2015. En 2018, environ 150 000 franchissements irréguliers des frontières extérieures de l’UE ont été détectés. Toutefois, le fait que le nombre d’arrivées irrégulières ait diminué ne constitue nullement une garantie pour l’avenir, eu égard à la poursuite probable de la pression migratoire. Il est donc indispensable d’adopter une approche globale de la gestion des migrations et de la protection des frontières.

    Des #mesures immédiates s’imposent

    Les problèmes les plus urgents nécessitant des efforts supplémentaires sont les suivants :

    Route de la #Méditerranée_occidentale : l’aide au #Maroc doit encore être intensifiée, compte tenu de l’augmentation importante des arrivées par la route de la Méditerranée occidentale. Elle doit comprendre la poursuite de la mise en œuvre du programme de 140 millions d’euros visant à soutenir la gestion des frontières ainsi que la reprise des négociations avec le Maroc sur la réadmission et l’assouplissement du régime de délivrance des visas.
    #accords_de_réadmission #visas

    Route de la #Méditerranée_centrale : améliorer les conditions d’accueil déplorables en #Libye : les efforts déployés par l’intermédiaire du groupe de travail trilatéral UA-UE-NU doivent se poursuivre pour contribuer à libérer les migrants se trouvant en #rétention, faciliter le #retour_volontaire (37 000 retours jusqu’à présent) et évacuer les personnes les plus vulnérables (près de 2 500 personnes évacuées).
    #vulnérabilité #évacuation

    Route de la #Méditerranée_orientale : gestion des migrations en #Grèce : alors que la déclaration UE-Turquie a continué à contribuer à la diminution considérable des arrivées sur les #îles grecques, des problèmes majeurs sont toujours en suspens en Grèce en ce qui concerne les retours, le traitement des demandes d’asile et la mise à disposition d’un hébergement adéquat. Afin d’améliorer la gestion des migrations, la Grèce devrait rapidement mettre en place une stratégie nationale efficace comprenant une organisation opérationnelle des tâches.
    #accord_ue-turquie

    Accords temporaires en matière de #débarquement : sur la base de l’expérience acquise au moyen de solutions ad hoc au cours de l’été 2018 et en janvier 2019, des accords temporaires peuvent constituer une approche européenne plus systématique et mieux coordonnée en matière de débarquement­. De tels accords mettraient en pratique la #solidarité et la #responsabilité au niveau de l’UE, en attendant l’achèvement de la réforme du #règlement_de_Dublin.
    #Dublin

    En matière de migration, il est indispensable d’adopter une approche globale, qui comprenne des actions menées avec des partenaires à l’extérieur de l’UE, aux frontières extérieures, et à l’intérieur de l’UE. Il ne suffit pas de se concentrer uniquement sur les problèmes les plus urgents. La situation exige une action constante et déterminée en ce qui concerne l’ensemble des éléments de l’approche globale, pour chacun des quatre piliers de l’agenda européen en matière de migration :

    1. Lutte contre les causes de la migration irrégulière : au cours des quatre dernières années, la migration s’est peu à peu fermement intégrée à tous les domaines des relations extérieures de l’UE :

    Grâce au #fonds_fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique, plus de 5,3 millions de personnes vulnérables bénéficient actuellement d’une aide de première nécessité et plus de 60 000 personnes ont reçu une aide à la réintégration après leur retour dans leur pays d’origine.
    #fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique

    La lutte contre les réseaux de passeurs et de trafiquants a encore été renforcée. En 2018, le centre européen chargé de lutter contre le trafic de migrants, établi au sein d’#Europol, a joué un rôle majeur dans plus d’une centaine de cas de trafic prioritaires et des équipes communes d’enquête participent activement à la lutte contre ce trafic dans des pays comme le #Niger.
    Afin d’intensifier les retours et la réadmission, l’UE continue d’œuvrer à la conclusion d’accords et d’arrangements en matière de réadmission avec les pays partenaires, 23 accords et arrangements ayant été conclus jusqu’à présent. Les États membres doivent maintenant tirer pleinement parti des accords existants.
    En outre, le Parlement européen et le Conseil devraient adopter rapidement la proposition de la Commission en matière de retour, qui vise à limiter les abus et la fuite des personnes faisant l’objet d’un retour au sein de l’Union.

    2. Gestion renforcée des frontières : créée en 2016, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes est aujourd’hui au cœur des efforts déployés par l’UE pour aider les États membres à protéger les frontières extérieures. En septembre 2018, la Commission a proposé de renforcer encore le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes et de doter l’Agence d’un corps permanent de 10 000 garde-frontières, afin que les États membres puissent à tout moment bénéficier pleinement du soutien opérationnel de l’UE. La Commission invite le Parlement européen et les États membres à adopter la réforme avant les élections au Parlement européen. Afin d’éviter les lacunes, les États membres doivent également veiller à un déploiement suffisant d’experts et d’équipements auprès de l’Agence.

    3. Protection et asile : l’UE continuera à apporter son soutien aux réfugiés et aux personnes déplacées dans des pays tiers, y compris au Moyen-Orient et en Afrique, ainsi qu’à offrir un refuge aux personnes ayant besoin d’une protection internationale. Plus de 50 000 personnes réinstallées l’ont été dans le cadre de programmes de l’UE depuis 2015. L’un des principaux enseignements de la crise migratoire est la nécessité de réviser les règles de l’UE en matière d’asile et de mettre en place un régime équitable et adapté à l’objectif poursuivi, qui permette de gérer toute augmentation future de la pression migratoire. La Commission a présenté toutes les propositions nécessaires et soutient fermement une approche progressive pour faire avancer chaque proposition. Les propositions qui sont sur le point d’aboutir devraient être adoptées avant les élections au Parlement européen. La Commission continuera de travailler avec le Parlement européen et le Conseil pour progresser vers l’étape finale.

    4. Migration légale et intégration : les voies de migration légale ont un effet dissuasif sur les départs irréguliers et sont un élément important pour qu’une migration ordonnée et fondée sur les besoins devienne la principale voie d’entrée dans l’UE. La Commission présentera sous peu une évaluation complète du cadre de l’UE en matière de migration légale. Parallèlement, les États membres devraient développer le recours à des projets pilotes en matière de migration légale sur une base volontaire. L’intégration réussie des personnes ayant un droit de séjour est essentielle au bon fonctionnement de la migration et plus de 140 millions d’euros ont été investis dans des mesures d’intégration au titre du budget de l’UE au cours de la période 2015-2017.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-19-1496_fr.htm
    –-> Quoi dire plus si ce n’est que... c’est #déprimant.
    #Business_as_usual #rien_ne_change
    #hypocrisie
    #langue_de_bois
    #à_vomir
    ....

    #UE #EU #politique_migratoire #asile #migrations #réfugiés #frontières

  • Au #Mali, #Niger et #Sénégal, le marché de l’identité en plein essor

    De plus en plus d’États africains font appel à des entreprises étrangères, notamment françaises, pour fabriquer des #cartes_d’identité biométriques, qui servent aussi de #cartes_électorales sécurisées. Un projet soutenu par l’Europe qui y voit une occasion de mieux contrôler les flux migratoires.

    De plus en plus d’États africains font appel à des entreprises étrangères, notamment françaises, pour fabriquer des cartes d’identité biométriques, qui servent aussi de cartes électorales sécurisées. Un projet soutenu par l’Europe qui y voit une occasion de mieux contrôler les flux migratoires.

    Niger, Sénégal, Mali, de nos envoyés spéciaux.- Sur le continent africain, les États font de plus en plus souvent appel aux services d’entreprises étrangères spécialisées dans le domaine de l’état civil et leur confient la fabrication de cartes d’identité biométriques, qui sont aussi souvent utilisées comme cartes électorales.
    C’est par exemple le cas, au Mali, du groupe français #Idemia [nouveau nom, depuis 2017, de #OT-Morpho, né de la fusion des sociétés #Oberthur_Technologies (OT) et Morpho], du franco-néerlandais #Gemalto au Niger, et de la société malaisienne #Iris au Sénégal.
    Ce processus est appuyé par la Commission européenne, par le biais de son #Fonds_fiduciaire_d’urgence_pour_l’Afrique. Un partenariat dans lequel chacun trouve son intérêt : les chefs d’État ouest-africains entrevoient la tenue d’élections indiscutables, tandis que la diplomatie européenne touche du doigt le Graal du contrôle de l’immigration irrégulière en permettant l’accès direct à une base de données centralisée des citoyens subsahariens. Celle-ci permettrait aux États membres de l’Union européenne (UE) d’identifier et de renvoyer plus facilement les migrants irréguliers dans leur pays d’origine.
    Un projet « gagnant-gagnant » donc, pour lequel la Commission européenne pourra recevoir un retour sur investissement des 25 millions d’euros dépensés au Mali, et des 28 millions d’euros au Sénégal. Le projet devrait permettre de disposer d’un système d’information de l’état civil informatisé relié à une #base_de_données biométriques à même de sécuriser l’identité de la population et d’être exploitable par d’autres administrations utilisatrices.
    « Il y a une demande d’appui des autorités maliennes auprès de l’UE, qui considère qu’il y a un besoin. C’est une sorte d’interactivité : un état civil qui fonctionne bien va permettre à la population de bénéficier des services auxquels elle a droit. L’aspect contrôle des populations n’est que secondaire », assure Omar Merabet, conseiller du PDG de Civipol, agence française qui travaille, au Mali et au Sénégal, sur deux importants programmes d’état civil qui servent de base de données pour la biométrie électorale.
    Il résume : « La relation entre identité et sécurité est là : si on a un fichier sécurisé, on a une possibilité de traçabiliser la population – un idéal de politique. »
    Des militants de la société civile ouest-africaine s’interrogent néanmoins sur l’utilisation réelle des données personnelles collectées et sur le risque d’utilisation abusive par l’État ou des tiers. Cette préoccupation est également partagée par Omar Merabet : « On sait l’usage qu’en fait un pays donné aujourd’hui, mais qu’en sera-t-il demain ? C’est un problème essentiel car on va consacrer énormément de financements à centraliser ces données, pour la question de l’immigration par exemple, avoir des fichiers ultra précis, partagés avec les services… Il va y avoir de plus en plus de communication et donc de possibilités d’utiliser frauduleusement ces données. »

    « Nous pensons que nous n’avons pas assez de détails sur la question et que nous ne sommes pas bien informés par nos gouvernements, estime le juriste Djabel Magassa, porte-parole de Kouloubametre, site internet « d’initiative citoyenne d’évaluation et suivi des actions des gouvernants ». Quelles sont les garanties de la part de l’Union européenne que ces données ne seront pas utilisées à d’autres fins – par exemple, d’identifier des migrants en vue de leur expulsion par Frontex ? »

    L’hypothèse est balayée par l’État malien. « Au Mali existe une loi qui protège les données personnelles, ainsi que l’Autorité de protection des données à caractère individuel qui surveille l’utilisation des telles informations. Il n’est donc pas possible de donner ces données à un pays européen ou à une structure pour surveiller les migrants », affirme Fousseyni Diarra, directeur du Centre pour le traitement des données de l’état civil et président de la commission technique du Comité de pilotage des élections présidentielles qui ont eu lieu l’été dernier.

    En dépit des risques et des limites, la solution biométrique s’étend dans l’Afrique subsaharienne. Un nouveau front s’est ouvert au Niger, voisin du Mali.

    Au Niger, la France et l’Allemagne à la manœuvre

    « On est entourés de pays plongés dans la tourmente, comme le Mali, le Nigeria, la Libye et le Burkina Faso, explique Issaka Souna. Le Niger ne peut pas se permettre un processus électoral tendu. » Avocat et haut fonctionnaire des Nations unies, Souna a été nommé en octobre 2017 à la tête de la Commission électorale indépendante du Niger (CENI). Au cœur de son travail, la mise en place d’un fichier électoral biométrique.

    Après des années de pourparlers, le fichier biométrique a été intégré dans le nouveau code électoral. Pour Issaka Souna, la difficulté principale est l’absence d’un système d’état civil fiable : « Moins de 30 % de nos concitoyens possèdent une pièce d’identité. On a un territoire immense et une partie de la population est nomade : fournir presque dix millions de cartes électorales biométriques en moins d’un an sera une épreuve colossale. »

    Le premier test, ce seront les élections locales, reportées quatre fois depuis 2016 et prévues pour début 2020. Présidentielle et législatives sont prévues pour 2021. Mahamadou Issoufou sera alors arrivé au terme de son deuxième mandat et ne sera plus éligible.

    Ici, tout en étant le principal bailleur de fonds du Niger, l’Union européenne n’a pas financé la #biométrisation des élections. « Sans un état civil performant, cela n’a pas de sens, confie un fonctionnaire de Bruxelles, sous le couvert de l’anonymat. C’est comme acheter une Porsche là où on n’a même pas un chemin pour se promener. »

    Selon le fonctionnaire, « l’inscription d’un #fichier_biométrique dans la loi permet aux gouvernements de faire du #chantage à l’UE. Ils disent : “Si vous voulez des élections démocratiques, il faut financer la biométrie.” » Soit une dépense, pour créer le fichier, qui tournerait autour des 60 millions d’euros.

    Le fonctionnaire ajoute qu’au sein de la délégation européenne au Niger, « on a dû résister aux pressions des diplomates français et allemands qui voulaient qu’on finance cette biométrie ».
    Les pressions des groupes français

    Un document interne, obtenu par Mediapart, détaille le parcours de sélection de l’opérateur privé au Niger. En concurrence, quatre sociétés : #Gemalto, dont l’actionnaire majoritaire est la Banque publique d’investissement français, #Idemia, propriété de l’État français à 14 %, la société privée allemande #Dermalog, et #Lithotech, compagnie du géant sud-africain #Bidvest, liée à un fonds public de Johannesburg.

    Seuls les deux premiers, français, ont survécu au long processus de sélection – 17 jours de travail d’un comité technique, en octobre 2018 –, dont les résultats, pas encore proclamés après des mois, ont déjà provoqué quelques bouleversements : Dermalog, exclue de la sélection finale en raison de son mauvais score (32,5 points sur 100), aurait fait appel. Contactée, la société a refusé de commenter.

    Gemalto (déjà fortement sollicité sur le marché biométrique africain, notamment en #Algérie, #Bénin, #Burkina_Faso, #Comores, #Gabon et #Guinée-Conakry) a fini par l’emporter, avec 92 points sur 100 face aux 77 de Idemia, d’après l’évaluation technique. Le marché s’élève à 20 milliards de francs CFA (30,5 millions d’euros) sur 16 mois, d’après le président de la CENI Issaka Souna.

    Avant l’officialisation du contrat, le groupe français était à l’affût de la moindre mise en cause de ses activités : il a ainsi exigé la publication d’un droit de réponse dans le bi-hebdomadaire nigérien L’Événement. En cause : des informations « de nature à nuire à la bonne réputation du groupe », selon Gemalto. L’entreprise y conteste notamment l’existence d’une plainte pour corruption passive ou active d’agent étranger au Gabon. Plainte qui a pourtant bien été enregistrée à Paris.

    Le Sénégal, pionnier des cartes biométriques dans la région

    Contrairement au Mali et au Niger, le marché de la biométrie au Sénégal n’est pas dominé par une société française mais par le groupe malaisien #Iris_Corporation_Berhad. Premier pays de la région à avoir, en 2007, engagé le processus de biométrisation prévu par l’accord de la #CEDEAO – visant officiellement à faciliter la circulation des personnes dans l’espace régional –, le Sénégal a élu son président, le 24 février dernier, en utilisant des documents électoraux produits par le géant asiatique pour un montant de 50 milliards de francs CFA (environ 76 millions d’euros).

    Si, à quelques jours des élections du 24 février, le gouvernement a annoncé un taux de distribution des cartes biométriques de 97 %, la société traîne encore quelques casseroles.

    Lors des élections législatives de juillet 2017, de graves dysfonctionnements dans le processus de distribution des cartes ont empêché environ 800 000 personnes de voter. En 2007, le contrat de production de passeports biométriques, attribué déjà à Iris, a été suspendu et jugé, dans un rapport public de la Cour des comptes sénégalaise de 2009, « contraire à l’intérêt général » et « irrégulier » parce que trop coûteux et lent (118 milliards de francs CFA pour 10 millions de documents en vingt ans).

    L’expert informaticien et cyberactiviste sénégalais Cheick Fall, cofondateur de la Ligue africaine des web activistes pour la démocratie Africtivistes, parle d’#indépendance_numérique violée. « Le Sénégal a péché en allant confier le traitement de ces données à une entreprise étrangère. » Selon lui, il y aurait dans le pays toutes les compétences techniques et humaines pour confectionner la carte biométrique directement au Sénégal, « à un dixième du coût ».

    Pour lui, pas mal de questions se cachent dans cette petite carte. « Comment cette entreprise va-t-elle traiter nos informations ? Qui gère, qui collabore et qui a des intérêts avec elle ? Quels sont les contrats qui lient l’État avec cette société sur la confection mais aussi sur le traitement et la conservation des donnés sensibles ? » Une interrogation plus profonde sous-tend sa réflexion : « Aujourd’hui, on parle beaucoup des barrières, mais dans une société de plus en plus dématérialisée et fondée sur la citoyenneté digitale, qu’est-ce qu’une frontière ? »

    https://www.mediapart.fr/journal/international/050319/au-mali-niger-et-senegal-le-marche-de-l-identite-en-plein-essor?onglet=ful
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #biométrie #privatisation
    #contrôles_frontaliers #identification #business #complexe_militaro-industriel #UE #EU #big-data #surveillance_de_masse #traçabilité

    signalé par @pascaline via la mailing-list de Migreurop
    ping @karine4

    Ajouté à la métaliste externalisation :
    https://seenthis.net/messages/731749

  • Italy strengthens Libya accord, another four patrol boats

    Italy announced it is sending another four patrol boats to Libya in addition to others that were previously delivered to the North African country, in an effort to strengthen collaboration in fighting illegal immigration.

    Italy is strengthening its collaboration with Libya through a series of measures aimed at fighting illegal immigration. It will send four more patrol boats to Libya in addition to the ones that were previously delivered. It will also create a Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC), a naval shipyard to provide maintenance for the vessels, and systems for communication and controls along the coast. Italy is reinforcing its agreement with Libya in order to improve Tripoli’s ability to fight illegal immigration, provide migrant rescues, and control the borders.

    A total of 45 mn made available for interventions

    The measures were agreed upon during a meeting in Tripoli between the heads of the Libyan Navy and Coast Guard and representatives from the Italian Interior Ministry, Finance Police, Coast Guard, and Navy. There are 45 million euros available for interventions, 10 million from the EU and 35 million from the four Visegrad Group countries (Poland, Hungary, Czech Republic and Slovakia). The plans also provide for a series of reforms involving Libyan authorities responsible for the borders, including those managing search and rescue (SAR) operations, and personnel training for every sector in the Libyan public administration.

    Protests in France over vessels for Libya

    Meanwhile, protests erupted in France over the government’s decision to follow the Italian example and provide six vessels to the Libyan Navy. Michael Neuman, director of studies at Doctors Without Borders/ Crash (Centre de Réflexion sur l’Action et les Savoirs Humanitaires), called the decision “a supplementary step in European cooperation with Libya to strengthen control of the borders, at the cost of despicable conditions of detention for migrants.” Neuman was cited on Monday in the French daily Le Monde in an article on the French government’s new and unexpected decision.

    https://www.infomigrants.net/en/post/15395/italy-strengthens-libya-accord-another-four-patrol-boats

    #Libye #externalisation #France #gardes-côtes_libyens #asile #migrations #frontières #contrôles_frontaliers #Italie

    • Appalti sulle frontiere: 30 mezzi di terra alla Libia dall’Italia per fermare i migranti

      Il ministero dell’Interno italiano si appresta a fornire alle autorità di Tripoli nuovi veicoli fuoristrada per il “contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. Un appalto da 2,1 milioni di euro finanziato tramite il “Fondo Fiduciario per l’Africa”, nell’ambito del quale l’Italia accresce il proprio ruolo. Il tutto mentre l’immagine ostentata di una “Libia sicura” è offuscata dagli stessi atti di gara del Viminale

      Il ministero dell’Interno italiano si appresta a fornire alle autorità della Libia trenta nuovi veicoli fuoristrada per le “esigenze istituzionali legate al contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. L’avviso esplorativo pubblicato dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata presso il Viminale, risale al 5 marzo 2019 (scadenza per la presentazione della manifestazione d’interesse all’8 aprile di quest’anno).

      La fornitura riguarda 30 mezzi “Toyota Land Cruiser” (15 del modello GRJ76 Petrol e 15 del GRJ79 DC Petrol), in “versione tropicalizzata”, relativamente ai quali le autorità libiche, il 24 dicembre 2018, avrebbero esplicitato alla Direzione di Roma precise “specifiche tecniche”. Il Viminale la definisce una “richiesta di assistenza tecnica” proveniente da Tripoli per le “esigenze istituzionali legate al contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. In forza di questa “strategia”, dunque, il governo italiano -in linea con i precedenti, come abbiamo raccontato a gennaio nell’inchiesta sugli “affari lungo le frontiere”– continua a equipaggiare le autorità del Paese Nord-africano per contrastare i flussi migratori. L’ammontare “massimo” degli ultimi due lotti (da 15 mezzi l’uno) è stimato in 2,1 milioni di euro.

      E così come è stato per la gara d’appalto da oltre 9,3 milioni di euro per la fornitura di 20 imbarcazioni destinate alla polizia libica, indetta dal Viminale a fine dicembre 2018, anche nel caso dei 30 mezzi Toyota le risorse arriveranno dal “Fondo Fiduciario per l’Africa” (EU Trust Fund), istituito dalla Commissione europea a fine 2015 con una dotazione di oltre 4 miliardi di euro. In particolare, dal progetto implementato dal Viminale e intitolato “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”, dal valore di oltre 46 milioni di euro e il cui “delegation agreement” risale a metà dicembre 2017 (governo Gentiloni, ministro competente Marco Minniti).

      Questo non è l’unico progetto finanziato tramite l’EU Trust Fund che vede il ministero dell’Interno italiano attivo nel continente africano. Alla citata “First Phase”, infatti, se ne sono affiancati nel tempo altri due. Uno è di stanza in Tunisia e Marocco (“Border Management Programme for the Maghreb region”), datato luglio 2018 e dal valore di 55 milioni di euro. L’altro progetto, di nuovo, ricade in Libia. Si tratta del “Support to Integrated border and migration management in Libya – Second Phase”, risalente al 13 dicembre 2018, per un ammontare di altri 45 milioni di euro. Le finalità dichiarate nell’”Action Document” della seconda fase in Libia sono -tra le altre- quelle di “intensificare gli sforzi fatti”, “sviluppare nuove aree d’intervento”, “rafforzare le capacità delle autorità competenti che sorvegliano i confini marittimi e terrestri”, “l’acquisto di altre navi”, “l’implementazione della rete di comunicazione del Maritime Rescue Coordination Centre” di Tripoli, “la progettazione specifica di programmi per la neocostituita polizia del deserto”.

      La strategia di contrasto paga, sostiene la Commissione europea. “Gli sforzi dell’Ue e dell’Italia nel sostenere la Guardia costiera libica per migliorare la sua capacità operativa hanno raggiunto risultati significativi e tangibili nel 2018”, afferma nel lancio della “seconda fase”. Di “significativo e tangibile” c’è il crollo degli sbarchi sulle coste italiane, in particolare dalla Libia. Dati del Viminale alla mano, infatti, nel periodo compreso tra l’1 gennaio e il 7 marzo 2017 giunsero 15.843 persone, scese a 5.457 lo scorso anno e arrivate a 335 quest’anno. La frontiera è praticamente sigillata. Un “successo” che nasconde la tragedia dei campi di detenzione e sequestro libici dove migliaia di persone sono costrette a rimanere.

      È in questa cornice che giunge il nuovo “avviso” del Viminale dei 30 veicoli, pubblicato come detto il 5 marzo. Quello stesso giorno il vice-presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha incontrato a Roma il vicepremier libico Ahmed Maiteeq. Un “cordiale colloquio”, come recita il comunicato ministeriale, che avrebbe visto sul tavolo “i rapporti tra i due Paesi, in particolare su sicurezza, lotta al terrorismo, immigrazione e stabilizzazione politica della Libia”.

      Ma l’immagine ostentata dal governo Conte di una “Libia sicura” è offuscata dagli stessi atti di gara del ministero dell’Interno. Tra i quesiti presentati al Viminale da parte dei potenziali concorrenti al bando dei 20 battelli da destinare alla polizia libica, infatti, si trovano richieste esplicite di “misure atte a garantire la sicurezza dei propri operatori”. “Laddove si rendesse strettamente necessario effettuare interventi di garanzia richiesti in loco (Libia)”, gli operatori di mercato hanno chiesto alla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere “che tali prestazioni potranno essere organizzate a patto che le imbarcazioni si trovino in città (Tripoli, ndr) per garantire la sicurezza degli operatori inviati per tali prestazioni”. Il ministero dell’Interno conferma il quadro di instabilità del Paese: “Le condizioni di sicurezza in Libia devono essere attentamente valutate in ragione della contingenza al momento dell’esecuzione del contratto”, è la replica al quesito. “Appare di tutto evidenza che la sicurezza degli operatori non dovrà essere compromessa in relazione ai rischi antropici presenti all’interno dello Stato beneficiario della commessa”. Per gli operatori, non per i migranti in fuga.

      https://altreconomia.it/appalti-libia-frontiere-terra
      #fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #Trust_Fund

    • Italian journalist: We’ve invented an authority that doesn’t exist in Libya, Al-Sarraj is a feint

      Founder and director of Italian magazine Limes, Lucio Caracciolo, said during a media statement on Thursday that Italy invented an authority that does not exist in Libya, in a reference to the Tripoli-based #Government_of_National_Accord (#GNA), which Caracciolo described its Prime Minister Fayez Al-Sarraj as a “feint”.

      http://www.addresslibya.com/en/archives/43168

    • Appalti del Viminale sulle frontiere: ecco chi è rimasto in gara per sei nuove navi alla Libia

      A fine 2018 il ministero dell’Interno ha indetto un bando di gara per la fornitura di 20 “battelli” da cedere alla polizia della Libia per contrastare il flusso dei migranti. In gara -per il lotto di sei navi- è rimasta oggi un’azienda di Cervia. I finanziamenti arrivano dall’Unione europea. Nel frattempo, il governo cerca un veicolo blindato per l’esperto immigrazione italiano a Tripoli. A proposito di “luogo sicuro”

      La gara d’appalto da oltre 9,3 milioni di euro indetta dal ministero dell’Interno italiano a fine 2018 per la fornitura di 20 nuove imbarcazioni da destinare alla polizia della Libia per contrastare il flusso dei migranti si sta definendo.
      Dopo l’ultima riunione della commissione giudicatrice del 27 settembre 2019, è rimasta infatti in gara una sola azienda -la “MED Spa” di Cervia (RA)- a seguito dell’esclusione della concorrente -la ditta individuale Marcelli- disposta a fine settembre dal Viminale per una “riscontrata difformità” rispetto alle “specifiche tecniche di gara” (un tubolare).
      La procedura di gara dei 20 “battelli pneumatici di tipo oceanico”, suddivisi in due lotti da 14 e 6 unità, è partita poco prima del Natale 2018, il 21 dicembre, tramite una “determina a contrarre” firmata della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata proprio presso il Viminale.

      Come descritto a gennaio, in questo caso i finanziamenti arrivano dal “Fondo Fiduciario per l’Africa” (EU Trust Fund), istituito dalla Commissione europea a fine 2015 con una dotazione di oltre 4 miliardi di euro. Le risorse per i 20 “battelli” che l’Italia sta per cedere alla Libia arriveranno in particolare dal progetto “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”, del valore di oltre 46 milioni di euro e il cui “delegation agreement” risale a metà dicembre 2017 (governo Gentiloni, ministro dell’Interno Marco Minniti). “Nel Progetto è prevista una specifica voce di budget per la fornitura di battelli pneumatici da destinare allo Stato della Libia”, in particolare alla “polizia libica”, scrive negli atti di gara il ministero.

      Se l’Unione europea è il principale finanziatore, chi deve implementarne la prima fase in loco, dal luglio 2017, è appunto il nostro ministero dell’Interno. È un “pezzo” di quella strategia di dichiarato “contrasto all’immigrazione clandestina” che l’Italia conduce da tempo lungo le rotte africane, al fine di respingere per delega le persone. Nel gennaio di quest’anno abbiamo dedicato l’inchiesta di copertina di Altreconomia proprio a questi affari lungo le frontiere e agli appalti pubblici del Viminale, ricostruendone filiera, fonti di finanziamento, soggetti coinvolti e valore.

      Stando agli ultimi atti di gara, dunque, la “MED Spa” è rimasta senza contendenti per quanto riguarda il “Lotto 2”, dal valore massimo stimato in 2,4 milioni di euro. Si tratta di sei imbarcazioni da 9 metri “complete di motori fuoribordo da 250 HP 4 tempi” (per il primo lotto non sarebbero pervenute offerte). “Per ogni battello acquisito -riporta la specifica tecnica del ministero- la ditta contraente provvederà ad un corso di 30 ore per l’indottrinamento alla condotta, uso delle apparecchiature di bordo e manutenzione del battello a favore di almeno quattro operatori”. Mezzi e formazione.

      La MED è stata fondata nel 2014 e al 30 giugno di quest’anno conta 92 addetti e un fatturato di circa 12,5 milioni di euro (2018). Come già anticipato in primavera, il 98,93% del capitale della società (pari a 1,48 milioni di euro) è sotto sequestro preventivo disposto nel febbraio 2018 dal Tribunale di Perugia. La motivazione è esplicitata nel bilancio della stessa società: si tratta delle quote del suo principale azionista, “Feendom International FZE”, domiciliato negli Emirati Arabi Uniti. “Il provvedimento (di sequestro, ndr) -si legge nel bilancio 2018 di MED- fa rifermento a pregresse attività di natura illecita svolta da diversi soggetti ai quali farebbe verosimilmente riferimento la proprietà della FEENDOM INTERNATIONAL FZE, svolte in settori differenti da quello nel quale opera la MED SpA. Si evidenzia che la MED SpA è stata interessata dal succitato provvedimento di sequestro esclusivamente quale soggetto terzo”.

      La vicenda societaria della MED è già stata esaminata dal ministero dell’Interno che, anche a seguito di separate comunicazioni dell’amministratore giudiziario, non avrebbe rilevato alcun “motivo ostativo” alla sua partecipazione. MED ha scommesso sulle “gare pubbliche”. “La società non ha subito pesanti contraccolpi sul proprio business -si legge infatti nella relazione sulla gestione del bilancio 2018 di MED-, se non la perdita di alcuni marchi […] che però è stata controbilanciata dal settore gare pubbliche. A tale proposito questa linea di business sta contribuendo in maniera sempre più importante alla crescita di MED, basti pensare che a seguito dell’acquisizione di alcune gare con l’Arma dei Carabinieri, abbiamo un portafoglio di opzioni, esercitabili nei prossimi due anni, di circa 4 milioni di euro”.

      Mentre la fornitura dei battelli va verso una definizione, se ne è aperta un’altra, tra fine settembre e inizio ottobre 2019, dal valore più ridotto (90mila euro) ma legata sempre al progetto “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”. Stiamo parlando del “servizio di noleggio di un’autovettura blindata per la durata di un anno, da utilizzare nella città di Tripoli” che il ministero dell’Interno vorrebbe affidare direttamente per le “esigenze dell’esperto immigrazione” italiano nella capitale della Libia. Dovrebbe trattarsi di una Toyota Land Cruiser o di un “modello equivalente”. Il termine per la presentazione delle istanze è scaduto il 14 ottobre. A proposito di “luogo sicuro”.

      https://altreconomia.it/appalti-libia-navi

    • Libia, festa della Marina: l’Italia consegna dieci nuove motovedette

      Sabato scorso a Tripoli, nella base di #Sitta. Promesse dall’ex ministro Salvini a luglio scorso, i libici ne prendono possesso proprio nel giorno della scadenza del Memorandum
      La Marina libica ha festeggiato il 57esimo anniversario della sua fondazione prendendo possesso delle dieci nuove piccole motovedette fornite dall’Italia. La cerimonia e’ avvenuta nella base di Abu Sitta a Tripoli sabato scorso, il 2 novembre, proprio il giorno in cui scadeva il contestato Memorandum Italia-Libia che il governo italiano ha scelto di rinnovare per j prossimi tre anni chiedendo delle modifiche a garanzia del rispetto dei diritti umani delle migliaia di migranti intercettati dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione in cui vengono tenuti in condizioni disumane e sottoposti ad ogni tipo di violenze.

      La consegna delle motovedette che va cosi’ ad arricchire la flotta della Guardia costiera fornita e addestrata dall’Italia era stata promessa e annunciata per la fine dell’estate dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini in uno degli ultimi comitati nazionale ordine e sicurezza da lui presieduto. Negli ultimi due anni sono stati quasi 40.000 i migranti intercettati e riportati indietro dai libici con interventi nella zona Sar sotto il controllo di Tripoli ma che, dalle indagini dei pm di Agrigento, risulta di fatto gestita dalla Marina italiana. Le foto delle dieci nuove motovedette consegnate durante la cerimonia sono state diffuse dalla Lybian navy e rilanciate dal sito di osservazione Migrant Rescue watch

      Ieri il ministro degli Esteri libico Mohamed Taher Siala ha ricevuto l’ambasciatore italiano Giuseppe Buccino Grimaldi, latore della nota verbale con cui l’Italia ha chiesto l’insediamento del Comitato italo-libico presieduto dai ministri di Interno ed Esteri di entrambi i Paesi, e ha confermato che la Libia esaminera’ gli emendamenti proposti dall’Italia e «decidera’ se approvarli o meno in linea con gli interessi supremi del governo e del popolo libico». Sulle modifiche al Memorandum il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese riferira’ alla Camera mercoledi pomeriggio.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2019/11/04/news/libia_festa_della_marina_l_italia_consegna_dieci_nuove_motovedette-240197
      #bateau #bateaux

  • Document d’action pour le #fonds_fiduciaire de l’#UE à utiliser pour les décisions du comité de gestion


    https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/t05-eutf-noa-ma-05_0.pdf
    #Maroc #Trust_Fund #frontières #externalisation #asile #migrations #réfugiés #gardes-côtes #contrôles_frontaliers #EU #trust_fund #EU_trust_fund

    –-> Commentaire reçu via la mailing-list Migreurop :

    Le document d’action du projet de 40 millions d’EUR approuvé par la Commission Européenne dans le cadre du Fond Fiduciaire pour le « Soutien à la gestion intégrée des frontières et de la migration au Maroc » fait référence explicitement à l’achat d’équipement pour renforcer des capacités du Maroc « à des fins de contrôle et de surveillance aux frontières, ainsi que des opérations de sauvetage en mer » (p.7) - donc oui, comme l’Italie avec la Libye. Le projet est mis en ouvre par la #FIIAPP - donc par l’#Espagne. A voir si c’est ça auquel le secrétaire d’Etat espagnol faisait référence.

  • Dai dati biometrici alle motovedette : ecco il #business della frontiera

    La gestione delle frontiere europee è sempre di più un affare per le aziende private. Dai Fondi per la difesa a quelli per la cooperazione e la ricerca: l’Ue implementa le risorse per fermare i flussi.

    Sono 33 i miliardi che l’Europa ha intenzione di destinare dal 2021 al 2027 alla gestione del fenomeno migratorio e, in particolare, al controllo dei confini. La cifra, inserita nel #Mff, il #Multiannual_Financial_Framework (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2018%3A321%3AFIN), (ed ora in discussione tra Commissione, Parlamento e Consiglio) rappresenta il budget complessivo Ue per la gestione delle frontiere esterne, dei flussi migratori e dei flussi di rifugiati. E viene notevolmente rafforzata rispetto al periodo precedente (2016-2020) quando i miliardi stanziati erano 12,4. Meno della metà.

    A questo capitolo di spesa contribuiscono strumenti finanziari diversi: dal fondo sulla sicurezza interna (che passa da 3,4 a 4,8 miliardi) a tutto il settore della cooperazione militare, che coincide sempre più con quello dell’esternalizzazione, come accade già per le due missioni italiane in Libia e in Niger. Anche una parte dei 23 miliardi del Fondo Europeo alla Difesa e di quello per la Pace saranno devoluti allo sviluppo di nuove tecnologie militari per fermare i flussi in mare e nel deserto. Stessa logica per il più conosciuto Fondo Fiduciario per l’Africa che, con fondi proveniente dal budget allo sviluppo, finanzia il progetto di blocco marittimo e terrestre nella rotta del Mediterraneo Centrale.

    Un grande business in cui rientrano anche i Fondi alla ricerca. La connessione tra gestione della migrazione, #lobby della sicurezza e il business delle imprese private è al centro di un’indagine di Arci nell’ambito del progetto #Externalisation_Policies_Watch, curato da Sara Prestianni. “Lo sforzo politico nella chiusura delle frontiere si traduce in un incremento del budget al capitolo della sicurezza, nella messa in produzione di sistemi biometrici di identificazione, nella moltiplicazione di forze di polizia europea ai nostri confini e nell’elaborazione di sistemi di sorveglianza - sottolinea Prestianni -. La dimensione europea della migrazione si allontana sempre più dal concetto di protezione in favore di un sistema volto esclusivamente alla sicurezza, che ha una logica repressiva. Chi ne fa le spese sono i migranti, obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe, a beneficio di imprese nazionali che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e propri o business”. Tra gli aspetti più interessanti c’è l’utilizzo del Fondo alla ricerca Orizon 20-20 per ideare strumenti di controllo. “Qui si entra nel campo della biometria: l’obiettivo è dotare i paesi africani di tutto un sistema di raccolta di dati biometrici per fermare i flussi ma anche per creare un’enorme banca dati che faciliti le politiche di espulsione - continua Prestianni -. Questo ha creato un mercato, ci sono diverse imprese che hanno iniziato ad occuparsi del tema. Tra le aziende europee leader in questi appalti c’è la francese #Civipol, che ha il monopolio in vari paesi di questo processo. Ma l’interconnessione tra politici e lobby della sicurezza è risultata ancor più evidente al #Sre, #Research_on_Security_event, un incontro che si è svolto a Bruxelles a dicembre, su proposta della presidenza austriaca: seduti negli stessi panel c’erano rappresentanti della commissione europea, dell’Agenzia #Frontex, dell’industria e della ricerca del biometrico e della sicurezza. Tutti annuivano sulla necessità di aprire un mercato europeo della frontiera, dove lotta alla sicurezza e controllo della migrazione si intrecciano pericolosamente”.

    In questo contesto, non è marginale il ruolo dell’Italia. “L’idea di combattere i traffici e tutelare i diritti nasce con #Tony_Blair, ma già allora l’obiettivo era impedire alle persone di arrivare in Europa - sottolinea Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci -. Ed è quello a cui stiamo assistendo oggi in maniera sempre più sistematica. Un esempio è la vicenda delle #motovedette libiche, finanziate dall’Italia e su cui guadagnano aziende italianissime”. Il tema è anche al centro dell’inchiesta di Altreconomia di Gennaio (https://altreconomia.it/frontiera-buon-affare-inchiesta), curata da Duccio Facchini. “L’idea era dare un nome, un volto, una ragione sociale, al modo in cui il ministero degli Interni traduce le strategie di contrasto e di lotta ai flussi di persone” spiega il giornalista. E così si scopre che della rimessa in efficienza di sei pattugliatori, dati dall’Italia alla Tunisia, per il controllo della frontiera, si occupa in maniera esclusiva un’azienda di Rovigo, i #Cantieri_Navali_Vittoria: “Un soggetto senza concorrenti sul mercato, che riesce a vincere l’appalto anche per la rimessa in sicurezza delle motovedette fornite dal nostro paese alla Libia”, sottolinea Facchini.

    Motovedette fornite dall’Italia attraverso l’utilizzo del Fondo Africa: la questione è al centro di un ricorso al Tar presentato da Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione). “Il Fondo Africa di 200 milioni di euro viene istituito nel 2018 e il suo obiettivo è implementare le strategie di cooperazione con i maggiori paesi interessati dal fenomeno migratorio: dal #Niger alla LIbia, dalla Tunisia alla Costa d’Avorio - spiega l’avvocata Giulia Crescini -. Tra le attività finanziate con questo fondo c’è la dotazioni di strumentazioni per il controllo delle frontiere. Come Asgi abbiamo chiesto l’accesso agli atti del ministero degli Esteri per analizzare i provvedimenti e vedere come sono stati spesi questi soldi. In particolare, abbiamo notato l’utilizzo di due milioni di euro per la rimessa in efficienza delle motovedette fornite dall’Italia alla Libia - aggiunge -. Abbiamo quindi strutturato un ricorso, giuridicamente complicato, cercando di interloquire col giudice amministrativo, che deve verificare la legittimità dell’azione della Pubblica amministrazione. Qualche settimana fa abbiamo ricevuto la sentenza di rigetto in primo grado, e ora presenteremo l’appello. Ma studiando la sentenza ci siamo accorti che il giudice amministrativo è andato a verificare esattamente se fossero stati spesi bene o meno quei soldi - aggiunge Crescini -. Ed è andato così in profondità che ha scritto di fatto che non c’erano prove sufficienti che il soggetto destinatario stia facendo tortura e atti degradanti nei confronti dei migranti. Su questo punto lavoreremo per il ricorso. Per noi è chiaro che l’Italia oggi sta dando strumentazioni necessarie alla Libia per non sporcarsi le mani direttamente, ma c’è una responsabilità italiana anche se materialmente non è L’Italia a riportare indietro i migranti. Su questo punto stiamo agendo anche attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo”.

    http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/620038/Dai-dati-biometrici-alle-motovedette-ecco-il-business-della-frontie

    #externalisation #frontières #UE #EU #Europe #Libye #Forteresse_européenne #asile #migrations #réfugiés #privatisation #argent #recherche #frontières_extérieures #coopération_militaire #sécurité_intérieure #fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #technologie #militarisation_des_frontières #fonds_fiduciaire #développement #Horizon_2020 #biométrie #données #données_biométriques #base_de_données #database #expulsions #renvois #marché #marché_européen_de_la_frontière #complexe_militaro-industriel #Tunisie #Côte_d'Ivoire #Italie
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    • Gli affari lungo le frontiere. Inchiesta sugli appalti pubblici per il contrasto all’immigrazione “clandestina”

      In Tunisia, Libia, Niger, Egitto e non solo. Così lo Stato italiano tramite il ministero dell’Interno finanzia imbarcazioni, veicoli, idranti per “ordine pubblico”, formazione delle polizie e sistemi automatizzati di identificazione. Ecco per chi la frontiera rappresenta un buon affare.

      Uno dei luoghi chiave del “contrasto all’immigrazione clandestina” che l’Italia conduce lungo le rotte africane non si trova a Tunisi, Niamey o Tripoli, ma è in un piccolo comune del Veneto, in provincia di Rovigo, affacciato sul Canal Bianco. È ad Adria, poco distante dal Po, che ha sede “Cantiere Navale Vittoria”, un’azienda nata nel 1927 per iniziativa della famiglia Duò -ancora oggi proprietaria- specializzata in cantieristica navale militare e paramilitare. Si tratta di uno dei partner strategici della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata presso il ministero dell’Interno, per una serie di commesse in Libia e Tunisia.

      La Direzione è il braccio del Viminale in tema di “gestione” dei flussi provenienti da quei Paesi ritenuti di “eccezionale rilevanza nella gestione della rotta del Mediterraneo centrale” (parole della Farnesina). Quella “rotta” conduce alle coste italiane: Libia e Tunisia, appunto, ma anche Niger e non solo. E quel “pezzo” del Viminale si occupa di tradurre in pratica le strategie governative. Come? Appaltando a imprese italiane attività diversissime tra loro per valore, fonti di finanziamento, tipologia e territori coinvolti. Un principio è comune: quello di dar forma al “contrasto”, sul nostro territorio o di frontiera. E per questi affidamenti ricorre più volte una formula: “Il fine che si intende perseguire è quello di collaborare con i Paesi terzi ai fini di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina”. Tra gli ultimi appalti aggiudicati a “Cantiere Navale Vittoria” (ottobre 2018) spicca la rimessa in efficienza di sei pattugliatori “P350” da 34 metri, di proprietà della Guardia nazionale della Tunisia. Tramite gli atti della procedura di affidamento si possono ricostruire filiera e calendario.

      Facciamo un salto indietro al giugno 2017, quando i ministeri degli Esteri e dell’Interno italiani sottoscrivono un’“intesa tecnica” per prevedere azioni di “supporto tecnico” del Viminale stesso alle “competenti autorità tunisine”. Obiettivo: “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, inclusi la “lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La spesa prevista -12 milioni di euro- dovrebbe essere coperta tramite il cosiddetto “Fondo Africa”, istituito sei mesi prima con legge di Stabilità e provvisto di una “dotazione finanziaria” di 200 milioni di euro. L’obiettivo dichiarato del Fondo è quello di “rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie”. Le autorità di Tunisi hanno fretta, tanto che un mese dopo l’intesa tra i dicasteri chiedono all’Italia di provvedere subito alla “rimessa in efficienza” dei sei pattugliatori. Chi li ha costruiti, anni prima, è proprio l’azienda di Adria, e da Tunisi giunge la proposta di avvalersi proprio del suo “know how”. La richiesta è accolta. Trascorre poco più di un anno e nell’ottobre 2018 l’appalto viene aggiudicato al Cantiere per 6,3 milioni di euro. L’“attività di contrasto all’immigrazione clandestina”, scrive la Direzione immigrazione e frontiere, è di “primaria importanza per la sicurezza nazionale, anche alla luce dei recenti sbarchi sulle coste italiane di migranti provenienti dalle acque territoriali tunisine”. I pattugliatori da “consegnare” risistemati alla Tunisia servono quindi a impedire o limitare gli arrivi via mare nel nostro Paese, che da gennaio a metà dicembre di 2018 sono stati 23.122 (di cui 12.976 dalla Libia), in netto calo rispetto ai 118.019 (105.986 dalla Libia) dello stesso periodo del 2017.


      A quel Paese di frontiera l’Italia non fornisce (o rimette in sesto) solamente navi. Nel luglio 2018, infatti, la Direzione del Viminale ha stipulato un contratto con la #Totani Company Srl (sede a Roma) per la fornitura di 50 veicoli #Mitsubishi 4×4 Pajero da “consegnare presso il porto di Tunisi”. Il percorso è simile a quello dei sei pattugliatori: “Considerata” l’intesa del giugno 2017 tra i ministeri italiani, “visto” il Fondo Africa, “considerata” la richiesta dei 50 mezzi da parte delle autorità nordafricane formulata nel corso di una riunione del “Comitato Italo-Tunisino”, “vista” la necessità di “definire nel più breve tempo possibile le procedure di acquisizione” per “garantire un dispiegamento efficace dei servizi di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina”, eccetera. E così l’offerta economica di 1,6 milioni di euro della Totani è ritenuta congrua.

      Capita però che alcune gare vadano deserte. È successo per la fornitura di due “autoveicoli allestiti ‘idrante per ordine pubblico’” e per la relativa attività di formazione per 12 operatori della polizia tunisina (352mila euro la base d’asta). “Al fine di poter supportare il governo tunisino nell’ambito delle attività di contrasto all’immigrazione clandestina” è il passe-partout utilizzato anche per gli idranti, anche se sfugge l’impiego concreto. Seppur deserta, gli atti di questa gara sono interessanti per i passaggi elencati. Il tutto è partito da un incontro a Roma del febbraio 2018 tra l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e l’omologo tunisino. “Sulla base” di questa riunione, la Direzione del Viminale “richiede” di provvedere alla commessa attraverso un “appunto” datato 27 aprile dello stesso anno che viene “decretato favorevolmente” dal “Sig. Capo della Polizia”, Franco Gabrielli. Alla gara (poi non aggiudicata) si presenta un solo concorrente, la “Brescia Antincendi International Srl”, che all’appuntamento con il ministero delega come “collaboratore” un ex militare in pensione, il tenente colonnello Virgilio D’Amata, cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Ma è un nulla di fatto.

      A Tunisi vengono quindi consegnati navi, pick-up, (mancati) idranti ma anche motori fuoribordo per quasi 600mila euro. È del settembre 2018, infatti, un nuovo “avviso esplorativo” sottoscritto dal direttore centrale dell’Immigrazione -Massimo Bontempi- per la fornitura di “10 coppie di motori Yamaha 4 tempi da 300 CV di potenza” e altri 25 da 150 CV. Il tutto al dichiarato fine di “garantire un dispiegamento efficace dei servizi di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina”.

      Come per la Tunisia, anche in Libia il ritmo è scandito da “intese tecniche” tra ministeri “per l’uso dei finanziamenti” previsti nel Fondo Africa. Parlamento non pervenuto

      Poi c’è la Libia, l’altro fronte strategico del “contrasto”. Come per la Tunisia, anche in questo contesto il ritmo è scandito da “intese tecniche” tra ministeri di Esteri e Interno -Parlamento non pervenuto- “per l’uso dei finanziamenti” previsti nel citato Fondo Africa. Una di queste, datata 4 agosto 2017, riguarda il “supporto tecnico del ministero dell’Interno italiano alle competenti autorità libiche per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. L’“eventuale spesa prevista” è di 2,5 milioni di euro. Nel novembre 2017 se n’è aggiunta un’altra, rivolta a “programmi di formazione” dei libici del valore di 615mila euro circa (sempre tratti dal Fondo Africa). Quindi si parte dalle intese e poi si passa ai contratti.

      Scorrendo quelli firmati dalla Direzione immigrazione e polizia delle frontiere del Viminale tra 2017 e 2018, e che riguardano specificamente commesse a beneficio di Tripoli, il “fornitore” è sempre lo stesso: Cantiere Navale Vittoria. È l’azienda di Adria -che non ha risposto alle nostre domande- a occuparsi della rimessa in efficienza di svariate imbarcazioni (tre da 14 metri, due da 35 e una da 22) custodite a Biserta (in Tunisia) e “da restituire allo Stato della Libia”. Ma anche della formazione di 21 “operatori della polizia libica” per la loro “conduzione” o del trasporto di un’altra nave di 18 metri da Tripoli a Biserta. La somma degli appalti sfiora complessivamente i 3 milioni di euro. In alcuni casi, il Viminale dichiara di non avere alternative al cantiere veneto. Lo ha riconosciuto la Direzione in un decreto di affidamento urgente per la formazione di 22 “operatori di polizia libica” e la riconsegna di tre motovedette a fine 2017. Poiché Cantiere Navale Vittoria avrebbe un “patrimonio informativo peculiare”, qualunque ricerca di “soluzioni alternative” sarebbe “irragionevole”. Ecco perché in diverse “riunioni bilaterali di esperti” per la cooperazione tra Italia e Libia “in materia migratoria”, oltre alla delegazione libica (i vertici dell’Amministrazione generale per la sicurezza costiera del ministero dell’Interno) e quella italiana (tra cui l’allora direttore del Servizio immigrazione del Viminale, Vittorio Pisani), c’erano anche i rappresentanti di Cantiere Navale Vittoria.
      Se i concorrenti sono pochi, la fretta è tanta. In più di un appalto verso la Libia, infatti, la Direzione ha argomentato le procedure di “estrema urgenza” segnalando come “ulteriori indugi”, ad esempio “nella riconsegna delle imbarcazioni”, non solo “verrebbero a gravare ingiustificatamente sugli oneri di custodia […] ma potrebbero determinare difficoltà anche di tipo diplomatico con l’interlocutore libico”. È successo nell’estate 2018 anche per l’ultimo “avviso esplorativo” da quasi 1 milione di euro collegato a quattro training (di quattro settimane) destinati a cinque equipaggi “a bordo di due unità navali da 35 metri, un’unità navale da 22 metri e un’unità navale da 28 metri di proprietà libica”, “al fine di aumentare l’efficienza di quel Paese per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Lo scopo è fornire una “preparazione adeguata su ogni aspetto delle unità navali”. Della materia “diritti umani” non c’è traccia.

      Questa specifica iniziativa italiana deriva dal Memorandum d’Intesa con la Libia sottoscritto a Roma dal governo Gentiloni (Marco Minniti ministro dell’Interno), il 2 febbraio 2017. Il nostro Paese si era impegnato a “fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. È da lì che i governi di Italia e Libia decidono di includere tra le attività di cooperazione anche l’erogazione dei corsi di addestramento sulle motovedette ancorate a Biserta.

      Ai primi di maggio del 2018, il Viminale decide di accelerare. C’è l’“urgenza di potenziare, attraverso la rimessa in efficienza delle imbarcazioni e l’erogazione di corsi di conduzione operativa, il capacity building della Guardia Costiera libica, al fine di aumentare l’efficienza di quel Paese per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Anche perché, aggiunge il ministero, “alla luce degli ultimi eventi di partenze di migranti dalle coste libiche”, “appare strettamente necessario ed urgente favorire il pieno ripristino dell’efficienza delle competenti Autorità dello Stato della Libia nell’erogazione dei servizi istituzionali”. E così a fine giugno 2018 viene pubblicato il bando: i destinatari sono “operatori della polizia libica” e non invece le guardie costiere. Il ministero ha dovuto però “rimodulare” in corsa l’imposto a base d’asta della gara (da 763mila a 993mila euro). Perché? Il capitolato degli oneri e il verbale di stima relativi al valore complessivo dell’intera procedura sarebbero risultati “non remunerativi” per l’unico operatore interessato: Cantiere Navale Vittoria Spa, che avrebbe comunicato “di non poter sottoscrivere un’offerta adeguata”.

      Le risorse per quest’ultimo appalto non arrivano dal Fondo Africa ma da uno dei sei progetti finanziati in Libia dall’Unione europea tramite il “Fondo Fiduciario per l’Africa” (EU Trust Fund), istituito a fine 2015 con una dotazione di oltre 4 miliardi di euro. Quello che ci riguarda in particolare s’intitola “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”, del valore di oltre 46 milioni di euro. Mentre l’Ue è il principale finanziatore, chi deve implementarlo in loco, dal luglio 2017, è proprio il nostro ministero dell’Interno. Che è attivo in due aree della Libia: a Nord-Ovest, a Tripoli, a beneficio delle guardie costiere libiche (tramite la costituzione di un centro di coordinamento per le operazioni di ricerca e soccorso in mare e per la dichiarazione di un’area di ricerca e soccorso in mare autonoma), e una a Sud-Ovest, nella regione del Fezzan, nel distretto di Ghat, per incrementare la capacità di sorveglianza, “in particolare nelle aree di frontiera terrestre con il Niger, maggiormente colpita dall’attraversamento illegale”. È previsto inoltre un “progetto pilota” per istituire una sede operativa per circa 300 persone, ripristinando ed equipaggiando le esistenti strutture nella città di Talwawet, non lontano da Ghat, con tre avamposti da 20 persone l’uno.

      A un passo da lì c’è il Niger, l’altra tessera del mosaico. Alla metà di dicembre 2018, non risultano appalti in capo alla Direzione frontiere del Viminale, ma ciò non significa che il nostro Paese non sia attivo per supportare (anche) la gestione dei suoi confini. A metà 2017, infatti, l’Italia ha destinato 50 milioni di euro all’EU Trust Fund per “far fronte alle cause profonde della migrazione in Africa/Finestra Sahel e Lago Ciad”, con un’attenzione particolare al Niger. Si punta alla “creazione di nuove unità specializzate necessarie al controllo delle frontiere, di nuovi posti di frontiera fissa, o all’ammodernamento di quelli esistenti, di un nuovo centro di accoglienza per i migranti a Dirkou, nonché per la riattivazione della locale pista di atterraggio”. In più, dal 2018 è scesa sul campo la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger” (MISIN) che fa capo al ministero della Difesa e ha tra i suoi obiettivi quello di “concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere”. Il primo corso “per istruttori di ordine pubblico a favore della gendarmeria nigerina” si è concluso a metà ottobre 2018. Pochi mesi prima, a luglio, era stata sottoscritta un’altra “intesa tecnica” tra Esteri e Difesa per rimettere in efficienza e cedere dieci ambulanze e tre autobotti. Finalità? “Il controllo del territorio volto alla prevenzione e al contrasto ai traffici di esseri umani e al traffico di migranti, e per l’assistenza ai migranti nell’ambito delle attività di ricerca e soccorso”: 880mila euro circa. Il Niger è centrale: stando all’ultima programmazione dei Paesi e dei settori in cui sono previsti finanziamenti tramite il “Fondo Africa” (agosto 2018, fonte ministero degli Esteri), il Paese è davanti alla Libia (6 milioni contro 5 di importo massimo preventivato).

      Inabissatosi in Niger, il ministero dell’Interno riemerge in Egitto. Anche lì vigono “accordi internazionali diretti al contrasto dell’immigrazione clandestina” sostenuti dall’Italia. La loro traduzione interessa da vicino la succursale italiana della Hewlett-Packard (HP). Risale infatti a fine 2006 un contratto stipulato tra la multinazionale e la Direzione del Viminale “per la realizzazione di un Sistema automatizzato di identificazione delle impronte (AFIS) per lo Stato dell’Egitto”, finalizzato alle “esigenze di identificazione personale correlate alla immigrazione illegale”: oltre 5,2 milioni di euro per il periodo 2007-2012, cui se ne sono aggiunti ulteriori 1,8 milioni per la manutenzione ininterrotta fino al 2017 e quasi 500mila per l’ultima tranche, 2018-2019. HP non ha avversari -come riporta il Viminale- in forza di un “accordo in esclusiva” tra la Hewlett Packard Enterprise e la multinazionale della sicurezza informatica Gemalto “in relazione ai prodotti AFIS per lo Stato dell’Egitto”. Affari che non si possono discutere: “L’interruzione del citato servizio -sostiene la Direzione- è suscettibile di creare gravi problemi nell’attività di identificazione dei migranti e nel contrasto all’immigrazione clandestina, in un momento in cui tale attività è di primaria importanza per la sicurezza nazionale”. Oltre alla partnership con HP, il ministero dell’Interno si spende direttamente in Egitto. Di fronte alle “esigenze scaturenti dalle gravissimi crisi internazionali in vaste aree dell’Africa e dell’Asia” che avrebbero provocato “massicci esodi di persone e crescenti pressioni migratorie verso l’Europa”, la Direzione centrale immigrazione (i virgolettati sono suoi) si è fatta promotrice di una “proposta progettuale” chiamata “International Training at Egyptian Police Academy” (ITEPA). Questa prevede l’istituzione di un “centro di formazione internazionale” sui temi migratori per 360 funzionari di polizia e ufficiali di frontiera di ben 22 Paesi africani presso l’Accademia della polizia egiziana de Il Cairo. Il “protocollo tecnico” è stato siglato nel settembre 2017 tra il direttore dell’Accademia di polizia egiziana ed il direttore centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere. Nel marzo 2018, il capo della Polizia Gabrielli è volato a Il Cairo per il lancio del progetto. “Il rispetto dei diritti umani -ha dichiarato in quella sede- è uno degli asset fondamentali”.

      “La legittimità, la finalità e la consistenza di una parte dei finanziamenti citati con le norme di diritto nazionale e internazionale sono stati studiati e in alcuni casi anche portati davanti alle autorità giudiziarie dai legali dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi, asgi.it)”, spiega l’avvocato Giulia Crescini, parte del collegio dell’associazione che si è occupato della vicenda. “Quando abbiamo chiesto lo stato di implementazione dell’accordo internazionale Italia-Libia del febbraio 2017, il ministero dell’Interno ha opposto generiche motivazioni di pericolo alla sicurezza interna e alle relazioni internazionali, pertanto il ricorso dopo essere stato rigettato dal Tar Lazio è ora pendente davanti al Consiglio di Stato”. La trasparenza insegue la frontiera.

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      “LEONARDO” (FINMECCANICA) E GLI INTERESSI SULLE FRONTIERE

      In Tunisia, Libia, Egitto e Niger, l’azienda Leonardo (Finmeccanica) avrebbe in corso “attività promozionali per tecnologie di sicurezza e controllo del territorio”. Alla richiesta di dettagli, la società ha risposto di voler “rivitalizzare i progetti in sospeso e proporne altri, fornendo ai Governi sistemi e tecnologie all’avanguardia per la sicurezza dei Paesi”. Leonardo è già autorizzata a esportare materiale d’armamento in quei contesti, ma non a Tripoli. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, ha approvato la Risoluzione 2420 che estende l’embargo sulle armi nel Paese per un altro anno. “Nel prossimo futuro -fa sapere l’azienda di cui il ministero dell’Economia è principale azionista- il governo di accordo nazionale potrà richiedere delle esenzioni all’embargo ONU sulle armi, per combattere il terrorismo”. Alla domanda se Leonardo sia coinvolta o operativa nell’ambito di iniziative collegate al fondo fiduciario per l’Africa dell’Unione europea e in particolare al programma da 46 milioni di euro coordinato dal Viminale, in tema di frontiere libiche, l’azienda ha fatto sapere che “in passato” avrebbe “collaborato con le autorità libiche per lo sviluppo e implementazione di sistemi per il monitoraggio dei confini meridionali, nonché sistemi di sicurezza costiera per il controllo, la ricerca e il salvataggio in mare”. Attualmente la società starebbe “esplorando opportunità in ambito europeo volte allo sviluppo di un progetto per il controllo dei flussi migratori dall’Africa all’Europa, consistente in un sistema di sicurezza e sorveglianza costiero con centri di comando e controllo”.

      Export in Libia. Il “caso” Prodit

      Nei primi sei mesi del 2018, attraverso l’Autorità nazionale UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), l’Italia ha autorizzato l’esportazione di “materiale d’armamento” verso la Libia per un valore di circa 4,8 milioni di euro. Nel 2017 questa cifra era zero. Si tratta, come impone la normativa in tema di embargo, di materiali “non letali”. L’ammontare è minimo se paragonato al totale delle licenze autorizzate a livello mondiale dall’Italia tra gennaio e giugno 2018 (3,2 miliardi di euro). Chi esporta è una singola azienda, l’unica iscritta al Registro Nazionale delle Imprese presso il Segretariato Generale del ministero della Difesa: Prodit Engineering Srl. In Libia non ha esportato armi ma un veicolo terrestre modificato come fuoristrada e materiali utilizzabili per sminamento.

      https://altreconomia.it/frontiera-buon-affare-inchiesta

      #Leonardo #Finmeccanica #Egypte #Tunisie #identification #P350 #Brescia_Antincendi_International #Virgilio_D’Amata #Massimo_Bontempi #Yamaha #Minniti #Marco_Minniti #EU_Trust_Fund #Trust_Fund #Missione_bilaterale_di_supporto_nella_Repubblica_del_Niger #MISIN #Hewlett-Packard #AFIS #International_Training_at_Egyptian_Police_Academy #ITEPA

    • "La frontiera è un buon affare": l’inchiesta sul contrasto del Viminale all’immigrazione «clandestina» a suon di appalti pubblici

      Dalla Tunisia alla Libia, dal Niger all’Egitto: così lo Stato italiano finanzia imbarcazioni, veicoli, formazione a suon di appalti pubblici. I documenti presentati a Roma dall’Arci.

      «Quando si parla di esternalizzazione della frontiera e di diritto di asilo bisogna innanzitutto individuare i Paesi maggiormente interessati da queste esternalizzazioni, capire quali sono i meccanismi che si vuole andare ad attaccare, creare un caso e prenderlo tempestivamente. Ma spesso per impugnare un atto ci vogliono 60 giorni, le tempistiche sono precise, e intraprendere azioni giudiziarie per tutelare i migranti diventa spesso molto difficile. Per questo ci appoggiamo all’Arci». A parlare è Giulia Crescini, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che insieme a Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di ARCI, Sara Prestianni, coordinatrice del progetto #externalisationpolicieswatch, e Duccio Facchini, giornalista di Altreconomia, ha fatto il punto sugli appalti della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata presso il ministero dell’Interno e più in generale dei fondi europei ed italiani stanzianti per implementare le politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere in Africa.

      L’inchiesta. Duccio Facchini, presentando i dati dell’inchiesta di Altreconomia «La frontiera è un buon affare», ha illustrato i meccanismi di una vera e propria strategia che ha uno dei suoi punti d’origine in un piccolo comune del Veneto, in provincia di Rovigo, affacciato sul Canal Bianco - dove ha sede una delle principale aziende specializzate in cantieristica navale militare e paramilitare - e arriva a toccare Tripoli, Niamey o Il Cairo. Il filo rosso che lega gli affidamenti milionari è uno solo: fermare il flusso di persone dirette in Italia e in Europa. Anche utilizzando fondi destinati alla cooperazione e senza alcun vaglio parlamentare.

      Il Fondo Africa, istituito con la legge di bilancio 2017, art. 1 comma 621 per l’anno 2018, è pari a 200 milioni di euro, cifra che serve per attivare forme di collaborazione e cooperazione con i Paesi maggiormente interessati dal fenomeno della migrazione, anche se l’espressione in sé significa tutto e niente. «Questo fondo - ha spiegato Facchini in conferenza nella sede Arci lo scorso 6 febbraio - viene dato al ministero degli Affari esteri internazionali che individua quali sono questi Paesi: nello specifico il ministero ha indicato una sfilza di Paesi africani, dal Niger alla Libia alla Tunisia, passando per l’Egitto la Costa d’Avorio, indicando anche una serie di attività che possono essere finanziate con questi soldi. Tra queste c’è la dotazione di strumentazioni utili per il controllo della frontiera». Gli autori dell’inchiesta hanno chiesto al ministero l’elenco dei provvedimenti che sono stati messi in campo e per attivare questa protezione alla frontiera. «Siamo alla fine del 2017 e notiamo che tra questi ce n’è uno che stanzia 2 milioni e mezzo per la messa in opera di quattro motovedette. Da lì cominciamo a domandarci se in base alla normativa italiana è legittimo dare una strumentazione così specifica a delle autorità così notoriamente coinvolte nella tortura e nella violenza dei migranti. Quindi abbiamo strutturato un ricorso giuridicamente molto complicato per cercare di interloquire con il giudice amministrativo». Notoriamente il giudice amministrativo non è mai coinvolto in questioni relative al diritto di asilo - per capire: è il giudice degli appalti - ed è insomma colui che va a verificare se la pubblica amministrazione ha adempiuto bene al suo compito.

      l punto di partenza. «Il giudice amministrativo e la pubblica amministrazione – ha spiegato Giulia Crescini dell’Asgi - stanno sempre in un rapporto molto delicato fra loro perché la pubblica amministrazione ha un ambito di discrezionalità all’interno del quale il giudice non può mai entrare, quindi la PA ha dei limiti che vengono messi dalla legge e all’interno di quei limiti il ministero può decidere come spendere quei soldi. Secondo noi quei limiti sono superati, perché la legge non autorizza a rafforzare delle autorità che poi commettono crimini contro i migranti, riportando queste persone sulla terra ferma in una condizione di tortura, soprattutto nei centri di detenzione». I legati hanno dunque avviato questo ricorso, ricevendo, qualche settimana fa, la sentenza di rigetto di primo grado. La sentenza è stata pubblicata il 7 gennaio e da quel giorno a oggi i quattro avvocati hanno studiato le parole del giudice, chiedendo alle altre organizzazioni che avevano presentato insieme a loro il ricorso se avessero intenzione o meno di fare appello. «Studiando la sentenza - continua Crescini - ci siamo accorti di come. pur essendo un rigetto, non avesse poi un contenuto così negativo: il giudice amministrativo in realtà è andato a verificare effettivamente se la pubblica amministrazione avesse speso bene o meno questo soldi, cioè se avesse esercitato in modo corretto o scorretto la discrezionalità di cui sopra. Un fatto che non è affatto scontato. Il giudice amministrativo è andato in profondità, segnalando il fatto che non ci sono sufficienti prove di tortura nei confronti dei migranti da parte delle autorità. Dal punto di vista giuridico questo rappresenta una vittoria. Perché il giudice ha ristretto un ambito molto specifico su cui potremo lavorare davanti al Consiglio di Stato».

      La frontiera è un buon affare. L’inchiesta «La frontiera è un buon affare» rivela che lo sforzo politico che vede impegnate Italia e istituzioni europee nella chiusura delle frontiere si traduce direttamente in un incremento del budget al capitolo della sicurezza, nella messa in produzione di sistemi biometrici di identificazione, nella moltiplicazione di forze di polizia europea ai nostri confini e nell’elaborazione di sistemi di sorveglianza.

      La dimensione europea della migrazione - si legge in un comunicato diffuso da Arci - si allontana sempre più dal concetto di protezione a favore di un sistema volto esclusivamente alla sicurezza e alla repressione del fenomeno migratorio. La logica dell’esternalizzazione, diventata pilastro della strategia tanto europea quanto italiana di gestione delle frontiere, assume in questo modo, sempre più, una dimensione tecnologica e militare, assecondando le pressioni della lobby dell’industria della sicurezza per l’implementazione di questo mercato. L’uso dei fondi è guidato da una tendenza alla flessibilità con un conseguente e evidente rischio di opacità, conveniente per il rafforzamento di una politica securitaria della migrazione.

      Nel MFF - Multiannual Financial Framework - che definisce il budget europeo per un periodo di 7 anni e ora in discussione tripartita tra Commissione, Parlamento e Consiglio - si evidenzia l’intento strategico al netto dei proclami e dei comizi della politica: la migrazione è affrontata principalmente dal punto di vista della gestione del fenomeno e del controllo delle frontiere con un incremento di fondi fino a 34 miliardi di euro per questo settore.

      A questo capitolo di spesa - si legge ancora nel comunicato - contribuiscono strumenti finanziari diversi, dal fondo sulla sicurezza interna - che passa dai 3,4 del 2014/20120 ai 4,8 miliardi del 2021/2027 e che può essere speso anche per la gestione esterna delle frontiere - a tutto il settore della cooperazione militare che coincide sempre più con quello dell’esternalizzazione, una tendenza che si palesa con evidenza nelle due missioni militari nostrane in Libia e Niger.

      Dei 23 miliardi del Fondo Europeo alla Difesa e quello per la Pace, una buona parte saranno devoluti allo sviluppo di nuova tecnologia militare, utilizzabili anche per la creazione di muri nel mare e nel deserto. Stessa logica anche per il più conosciuto Fondo Fiduciario per l’Africa che, con fondi provenienti dal budget allo sviluppo, finanzia il progetto di blocco marittimo e terrestre nella rotta del Mediterraneo centrale.

      Sulla pelle dei migranti. Chi ne fa le spese, spiegano gli autori dell’inchiesta, sono i migranti, obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe, a beneficio di imprese nazionali che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e proprio business. Questa connessione e interdipendenza tra politici e lobby della sicurezza, che sfiora a tutto gli effetti il conflitto di interessi, è risultata evidente nel corso del SRE «Research on security event» tenutosi a Bruxelles a fine dicembre su proposta della presidenza austriaca. Seduti negli stessi panel rappresentanti della commissione dell’Agenzia Frontex, dell’industria e della ricerca del biometrico e della sicurezza, manifestavano interesse per un obbiettivo comune: la creazione di un mercato europeo della sicurezza dove lotta al terrorismo e controllo della migrazione si intrecciano pericolosamente

      «Il Governo Italiano si iscrive perfettamente nella logica europea, dalle missioni militari con una chiara missione di controllo delle frontiere in Niger e Libia al rinnovo del Fondo Africa, rifinanziato con 80 milioni per il 2018/2019, che condiziona le politiche di sviluppo a quelle d’immigrazione», dichiara ancora Arci. «Molti i dubbi che solleva questa deriva politica direttamente tradotta nell’uso dei fondi europei e nazionali: dalle tragiche conseguenze sulla sistematica violazione delle convenzione internazionali a una riflessione più ampia sull’opacità dell’uso dei fondi e del ruolo sempre più centrale dell’industria della sicurezza per cui la politica repressiva di chiusura sistematica delle frontiere non è altro che l’ennesimo mercato su cui investire, dimenticandosi del costo in termine di vite umane di questa logica».

      https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2019/02/07/news/la_frontiera_e_un_buon_affare-218538251
      #complexe_militaro-industriel

    • Appalti sulle frontiere: 30 mezzi di terra alla Libia dall’Italia per fermare i migranti

      Il ministero dell’Interno italiano si appresta a fornire alle autorità di Tripoli nuovi veicoli fuoristrada per il “contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. Un appalto da 2,1 milioni di euro finanziato tramite il “Fondo Fiduciario per l’Africa”, nell’ambito del quale l’Italia accresce il proprio ruolo. Il tutto mentre l’immagine ostentata di una “Libia sicura” è offuscata dagli stessi atti di gara del Viminale

      Il ministero dell’Interno italiano si appresta a fornire alle autorità della Libia trenta nuovi veicoli fuoristrada per le “esigenze istituzionali legate al contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. L’avviso esplorativo pubblicato dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata presso il Viminale, risale al 5 marzo 2019 (scadenza per la presentazione della manifestazione d’interesse all’8 aprile di quest’anno).

      La fornitura riguarda 30 mezzi “Toyota Land Cruiser” (15 del modello GRJ76 Petrol e 15 del GRJ79 DC Petrol), in “versione tropicalizzata”, relativamente ai quali le autorità libiche, il 24 dicembre 2018, avrebbero esplicitato alla Direzione di Roma precise “specifiche tecniche”. Il Viminale la definisce una “richiesta di assistenza tecnica” proveniente da Tripoli per le “esigenze istituzionali legate al contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. In forza di questa “strategia”, dunque, il governo italiano -in linea con i precedenti, come abbiamo raccontato a gennaio nell’inchiesta sugli “affari lungo le frontiere”– continua a equipaggiare le autorità del Paese Nord-africano per contrastare i flussi migratori. L’ammontare “massimo” degli ultimi due lotti (da 15 mezzi l’uno) è stimato in 2,1 milioni di euro.

      E così come è stato per la gara d’appalto da oltre 9,3 milioni di euro per la fornitura di 20 imbarcazioni destinate alla polizia libica, indetta dal Viminale a fine dicembre 2018, anche nel caso dei 30 mezzi Toyota le risorse arriveranno dal “Fondo Fiduciario per l’Africa” (EU Trust Fund), istituito dalla Commissione europea a fine 2015 con una dotazione di oltre 4 miliardi di euro. In particolare, dal progetto implementato dal Viminale e intitolato “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”, dal valore di oltre 46 milioni di euro e il cui “delegation agreement” risale a metà dicembre 2017 (governo Gentiloni, ministro competente Marco Minniti).

      Questo non è l’unico progetto finanziato tramite l’EU Trust Fund che vede il ministero dell’Interno italiano attivo nel continente africano. Alla citata “First Phase”, infatti, se ne sono affiancati nel tempo altri due. Uno è di stanza in Tunisia e Marocco (“Border Management Programme for the Maghreb region”), datato luglio 2018 e dal valore di 55 milioni di euro. L’altro progetto, di nuovo, ricade in Libia. Si tratta del “Support to Integrated border and migration management in Libya – Second Phase”, risalente al 13 dicembre 2018, per un ammontare di altri 45 milioni di euro. Le finalità dichiarate nell’”Action Document” della seconda fase in Libia sono -tra le altre- quelle di “intensificare gli sforzi fatti”, “sviluppare nuove aree d’intervento”, “rafforzare le capacità delle autorità competenti che sorvegliano i confini marittimi e terrestri”, “l’acquisto di altre navi”, “l’implementazione della rete di comunicazione del Maritime Rescue Coordination Centre” di Tripoli, “la progettazione specifica di programmi per la neocostituita polizia del deserto”.

      La strategia di contrasto paga, sostiene la Commissione europea. “Gli sforzi dell’Ue e dell’Italia nel sostenere la Guardia costiera libica per migliorare la sua capacità operativa hanno raggiunto risultati significativi e tangibili nel 2018”, afferma nel lancio della “seconda fase”. Di “significativo e tangibile” c’è il crollo degli sbarchi sulle coste italiane, in particolare dalla Libia. Dati del Viminale alla mano, infatti, nel periodo compreso tra l’1 gennaio e il 7 marzo 2017 giunsero 15.843 persone, scese a 5.457 lo scorso anno e arrivate a 335 quest’anno. La frontiera è praticamente sigillata. Un “successo” che nasconde la tragedia dei campi di detenzione e sequestro libici dove migliaia di persone sono costrette a rimanere.

      È in questa cornice che giunge il nuovo “avviso” del Viminale dei 30 veicoli, pubblicato come detto il 5 marzo. Quello stesso giorno il vice-presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha incontrato a Roma il vicepremier libico Ahmed Maiteeq. Un “cordiale colloquio”, come recita il comunicato ministeriale, che avrebbe visto sul tavolo “i rapporti tra i due Paesi, in particolare su sicurezza, lotta al terrorismo, immigrazione e stabilizzazione politica della Libia”.

      Ma l’immagine ostentata dal governo Conte di una “Libia sicura” è offuscata dagli stessi atti di gara del ministero dell’Interno. Tra i quesiti presentati al Viminale da parte dei potenziali concorrenti al bando dei 20 battelli da destinare alla polizia libica, infatti, si trovano richieste esplicite di “misure atte a garantire la sicurezza dei propri operatori”. “Laddove si rendesse strettamente necessario effettuare interventi di garanzia richiesti in loco (Libia)”, gli operatori di mercato hanno chiesto alla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere “che tali prestazioni potranno essere organizzate a patto che le imbarcazioni si trovino in città (Tripoli, ndr) per garantire la sicurezza degli operatori inviati per tali prestazioni”. Il ministero dell’Interno conferma il quadro di instabilità del Paese: “Le condizioni di sicurezza in Libia devono essere attentamente valutate in ragione della contingenza al momento dell’esecuzione del contratto”, è la replica al quesito. “Appare di tutto evidenza che la sicurezza degli operatori non dovrà essere compromessa in relazione ai rischi antropici presenti all’interno dello Stato beneficiario della commessa”. Per gli operatori, non per i migranti in fuga.

      https://altreconomia.it/appalti-libia-frontiere-terra
      #Libye

  • #métaliste (qui va être un grand chantier, car il y a plein d’information sur seenthis, qu’il faudrait réorganiser) sur :
    #externalisation #contrôles_frontaliers #frontières #migrations #réfugiés

    Des liens vers des articles généraux sur l’externalisation des frontières de la part de l’ #UE (#EU) :
    https://seenthis.net/messages/569305
    https://seenthis.net/messages/390549
    https://seenthis.net/messages/320101

    Ici une tentative (très mal réussie, car évidement, la divergence entre pratiques et les discours à un moment donné, ça se voit !) de l’UE de faire une brochure pour déconstruire les mythes autour de la migration...
    La question de l’externalisation y est abordée dans différentes parties de la brochure :
    https://seenthis.net/messages/765967

    Petit chapitre/encadré sur l’externalisation des frontières dans l’ouvrage "(Dé)passer la frontière" :
    https://seenthis.net/messages/769367

    Les origines de l’externalisation des contrôles frontaliers (maritimes) : accord #USA-#Haïti de #1981 :
    https://seenthis.net/messages/768694

    L’externalisation des politiques européennes en matière de migration
    https://seenthis.net/messages/787450

    "#Sous-traitance" de la #politique_migratoire en Afrique : l’Europe a-t-elle les mains propres ?
    https://seenthis.net/messages/789048

    Partners in crime ? The impacts of Europe’s outsourced migration controls on peace, stability and rights :
    https://seenthis.net/messages/794636
    #paix #stabilité #droits #Libye #Niger #Turquie

    Proceedings of the conference “Externalisation of borders : detention practices and denial of the right to asylum”
    https://seenthis.net/messages/880193

    Brochure sur l’externalisation des frontières (passamontagna)
    https://seenthis.net/messages/952016